Internazionale
La tragedia dei profughi provenienti dal Medio Oriente e dall’Africa è una grave crisi umanitaria e geopolitica che minaccia anche il futuro dell’Unione europea. Perché il progetto europeo non era solo la costruzione di un mercato, anche se alcuni paesi lo riducono a questo, ma la proiezione in Europa e nel mondo dei valori umani che sono alla base di un mondo fondato sulla pace e sulla solidarietà tra le specie. La xenofobia, il razzismo e l’egoismo che emergono dalle reazioni di molti governi e molti cittadini minano, in pratica, il sogno europeo.
L’Europa che ora molti difendono è una società anziana e spaventata, circondata da un mondo di un miliardo di africani percepiti come i nuovi barbari. E contro i quali vengono alzate barriere fisiche, legali e militari per sigillare i nostri confini e, in particolare, le coste del Mediterraneo. Sforzo vano, a medio termine. Naturalmente il flusso di immigrati potrebbe essere ridotto sostanzialmente con una politica di sviluppo condiviso, a cui l’Europa, nel proprio interesse, deve contribuire. Ma una questione a sé sono i rifugiati, in fuga da guerre dal Medio Oriente e dall’Africa, causate dalla stupidità e dall’ambizione di Stati Uniti e Russia, ma anche dell’Europa (ricordatevi Tony Blair, José María Aznar, Nicolas Sarkozy e gli altri autoproclamati difensori della civiltà).
Milioni di persone sono state costrette alla fuga e sono ancora senza casa, perché non dobbiamo dimenticare le guerre infinite in cui sono immerse ampie aree dell’Africa. E quando queste persone sono in mare, devi salvarle prima di discutere. E poi devi accoglierle e infine integrarle quando si tratta di rifugiati. Un processo lungo e complesso che viene negato da paesi come l’Italia e dai regimi xenofobi dell’Europa centrale e orientale.
Il gesto del premier spagnolo Pedro Sánchez di accogliere la nave Aquarius alla deriva (segno di un politico che non rinuncia ai princìpi umani, un po’ come Angela Merkel) ha dato origine a una nuova dinamica in cui si finalmente si parla e si negozia tra i governi. Perché solo dalla cooperazione paneuropea può emergere una politica globale e differenziata su immigrazione e asilo. Politica che dovrebbe includere lo sviluppo condiviso nord-sud in relazione all’immigrazione, e lotta legale contro le mafie criminali che trafficano con gli esseri umani. Tuttavia, nonostante un primo tentativo di compromesso guidato da Sánchez, Macron e Merkel, tutto è stato lasciato nella nebbia perché gli xenofobi e i neonazisti oggi hanno l’iniziativa, oltre alla presidenza austriaca dell’Unione europea.
E mentre nelle sale del potere si discute, migliaia di esseri umani vedono le loro vite distrutte senza un orizzonte di salvezza. Se non vi importa di questo, avete smesso di essere umani, e forse un giorno arriverà il vostro turno di vedere la porta chiudersi davanti ai vostri cari. Su questo pianeta, così com’è, o ci salviamo insieme o andiamo tutti all’inferno.
Ma s’intravede qualche raggio di speranza. Se invece di guardare ai governi, paralizzati dalle loro lamentele, guardiamo le persone. Alle migliaia di cittadini che con generosità vanno in aiuto ai propri simili. E sono disposti a fornire alloggio, lavoro, istruzione a coloro che ne hanno urgente bisogno. Questa è la strategia alla base di una delle iniziative più esemplari ed efficaci che si stanno realizzando in Europa: i corridoi umanitari proposti e organizzati dalla Comunità di Sant’Egidio con il sostegno diretto di Francesco. Un progetto che cerca di affrontare il problema chiave: l’integrazione nelle società in cui vivono i rifugiati. Evitare campi temporanei o ghetti assistiti, fonte di discriminazione e xenofobia.
Il papa ha insistito sulla necessità di organizzare l’accoglienza da parte della società – che siano le famiglie, le parrocchie e le associazioni – per risolvere immediatamente il problema di dove vivere, lavorare, imparare la lingua e mandar a scuola i bambini. Per fare questo, individuano i rifugiati nei campi in cui sono arrivati e organizzano il loro trasferimento legale verso i paesi europei. Come ha fatto lo stesso papa portando sull’aereo vaticano 22 profughi dall’isola di Lesbo.
Questi sono i corridoi umanitari: quelli che vanno dalla geografia della disperazione ai paesi con i quali la Comunità di Sant’Egidio ha stretto accordi. Al momento Italia, San Marino, Belgio, Francia. E recentemente Andorra, che ha promesso di accogliere i rifugiati dalla Somalia e dall’Eritrea. Tutti i costi sono coperti da donazioni. L’unica cosa che serve ai governi è un visto per le famiglie individuate e accolte da Sant’Egidio.
La Spagna non ha sottoscritto questi accordi. E se il ministro degli esteri Josep Borrell pensa, come ha giustamente affermato, che la questione dei rifugiati è la più grave crisi potenziale in Europa, farebbe bene a facilitare quei visti in collaborazione con il ministero dell’interno. Perché solo se la società civile, o le persone, vengono mobilitate, si può creare un tessuto sociale in cui i rifugiati non sono un problema, ma un contributo al paese ospite che ha bisogno di nuovo sangue per compensare il suo invecchiamento. In altre parole, i corridoi umanitari non solo salvano le persone senza alcun costo per il governo, ma consentono ai cittadini di essere parte della soluzione.
Finora sono solo poche migliaia le persone che hanno viaggiato attraverso questi corridoi. Ma anche così sono più dei rifugiati accolti da quattordici paesi europei insieme. E se altre organizzazioni, compresi i comuni, adottassero iniziative simili, l’energia positiva che esiste in mezzo a noi potrebbe essere canalizzata per contrastare gli istinti distruttivi della mancanza di solidarietà che ci minaccia.
Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano spagnolo La Vanguardia del 23 luglio 2018 e tradotto dall'internazionale.
Tratto dalla pagina qui raggiungibile.
Marco Travaglio ha dedicato ben tre editoriali del Fatto, quasi consecutivi, alla difesa della politica del governo in tema di migranti (porti chiusi); il terzo, scritto insieme a Stefano Feltri. Le molte inesattezze e illazioni che costellano questi testi sono già state segnalate e confutate da numerosi articoli. Cito per tutti: Che c’è di vero nell’articolo di Marco Travaglio sulle ong di Annalisa Camilli su Internazionale.
Qui cercherò invece di mostrare come si sviluppa il pensiero di Travaglio – e di quanti lo condividono – per portarlo a sostenere politiche micidiali in campo migratorio come quelle in atto da tempo.
Scelta o racket?
Il principio informatore di tutto il suo discorso – che è quello di tutti i governi europei – è questo: la lotta in corso non è contro i migranti ma contro “i trafficanti di esseri umani. Quelli che prelevano i disperati nei villaggi dell’Africa nera (sic! Nera perché? Per il colore della pelle o per le tenebre che ne avvolgono le culture e le società?) e subsahariana, spesso convincendoli a partire con false promesse, li maltrattano durante il viaggio nel deserto, li depredano dei pochi averi o addirittura li costringono a indebitare le proprie famiglie e gli scafisti che rilevano le carovane in Libia per organizzare le traversate…dopo aver spogliato i migranti degli ultimi spiccioli”. “Parliamo – aggiunge Travaglio – di organizzazioni malavitose gigantesche, potentissime, ricchissime e attrezzatissime, che fanno, disfanno e ricattano i governi locali, dispongono di milizie armate…Sono loro i responsabili del traffico, degli imbarchi e dei naufragi”.
Qui Travaglio evita di dire tre cose. Primo: che se si esclude la tratta delle donne destinate alla prostituzione, spesso schiavizzate già alla partenza, quel termine, “prelevano”, tratta i migranti come burattini e ne sopprime completamente la libera scelta. Ma si tratta di persone dotate di una propria capacità di decidere, anche se spesso mal informate dei rischi a cui vanno incontro mettendosi in viaggi; ma non sempre, perché in qualche modo hanno ormai quasi tutte accesso a internet. Se scelgono di affrontare quei rischi – certamente sperando che a loro vada meglio – è perché considerano peggiore, per loro e per le loro famiglie e le loro comunità (che spesso ne finanziano il viaggio, aspettandosene un ritorno sul lungo periodo) la prospettiva di restare. Certo non vengono “prelevati” coloro che scappano da una guerra o da un conflitto armato; ed è comprovato che molti giovani relegati in un villaggio sperduto o in un ghetto urbano, ma comunque inseriti nel villaggio globale di internet, vivono con frenesia il desiderio di allontanarsene.
Chi fa esistere i trafficanti?
Secondo: che con un decimo di quello che spendono in un viaggio spesso mortale quei migranti potrebbero arrivare in Europa in aereo, se la cosa fosse loro permessa; e anche fare ritorno, se non trovano quello che cercavano – o dopo pochi o molti anni, se lo hanno trovato – sempreché quelle comunità, in cui la maggioranza dei migranti odierni (non parlo dei profughi di guerra in senso stretto) lasciano donne e famiglie a prendersi cura di quel che resta, non siano nel frattempo scomparse. In queste condizioni i trafficanti di uomini, i loro profitti, il loro potere, scomparirebbero d’incanto, come insegna la storia di ogni altra forma di proibizionismo. Il timore di Travaglio e di chi la pensa come lui è ovviamente che l’intera Africa, e magari tutto il Bangladesh o l’Afghanistan, si riversino da un giorno all’altro in Europa. Su questo punto tornerò, ma è noto che la maggior parte dei profughi, sia di guerra che ambientali, si fermano in paesi o territori vicini a quelli da cui sono fuggiti, e che a puntare sull’Europa è solo una ristretta minoranza. E se poi venissero istituite delle quote annuali, molti di quelli decisi a partire, prima di affrontare un viaggio così pericoloso, sarebbero probabilmente disposti ad aspettare un secondo o un terzo turno. D’altronde fino al 2008, prima della stretta economica chiamata austerità, arrivava in Europa almeno un milione e mezzo di “migranti economici” all’anno, ed erano i benvenuti, anche se poi venivano per lo più relegati ai margini della società; e anche ora governi di paesi che rifiutano migranti – “neri”, per usare la lingua di Travaglio – da Africa ed Asia, come Cechia e Ungheria, stanno programmando l’arrivo di diverse centinaia di migliaia di nuovi lavoratori stranieri dall’Est europeo, purché “bianchi” e “cristiani”. E’ una situazione in cui tutta l’Europa si troverà di qui a qualche anno (e in parte si trova già adesso) per motivi demografici.
Chi governa in quei paesi?
Terzo: che quei trafficanti pieni di soldi sottratti a comunità tra le più povere del mondo sono tanto potenti, come spiega Travaglio, da “fare, disfare e ricattare i governi locali”. Ma questi sono proprio i governi a cui l’Europa vorrebbe affidare il compito di combatterli e di fermarli. Il risultato di queste politiche lo vediamo già oggi con chiarezza in Libia: quelli che con la divisa della guardia costiera e le navi fornite dall’Italia riportano a terra i profughi dei gommoni che riescono a catturare sono gli stessi che, sotto forma di milizie armate, li reimbarcano dopo qualche mese, dopo averli imprigionati, affamati, massacrati e torturati per estorcere alle loro famiglie nuovo denaro. Perché sono loro a tenere sotto ricatto il governo libico, che non ha alcuna autonomia nei loro confronti. E sono loro, le organizzazioni criminali a cui noi permettiamo di arricchirsi in questo modo, che già oggi possono tenere sotto ricatto anche i governi dell’Italia o degli altri paesi europei rivieraschi, meta obbligata degli sbarchi che loro stessi organizzano. Come già sta facendo il governo turco, a cui l’Unione europea “perdona” tutto, senza nemmeno protestare, per paura che apra le dighe e riversi, prima sulla Grecia, poi sui Balcani, e poi in tutta Europa, i tre milioni di profughi che tiene in ostaggio con il beneplacito dell’Unione Europea.
Travaglio ha poi un’idea singolare della sovranità territoriale. Dopo averci informato che il naufragio del 2 luglio scorso, che ha registrato 114 dispersi, “è avvenuto a 6 km dalla costa, cioè dentro le acque territoriali della Libia, dove le navi delle Ong non sono mai potute entrare”, aggiunge che “se lo hanno fatto hanno violato il diritto internazionale”. Il che è falso: di fronte a un naufragio, su cui evidentemente la guardia costiera libica non ha saputo o non ha voluto intervenire, anche l’ingresso in acque territoriali straniere non solo è legittimo, ma anche doveroso. Ovviamente, se la gestione è stata assunta da un ente nazionale di coordinamento, questo dovrà chiederne l’autorizzazione. Per Travaglio invece quelle acque sono inviolabili, al punto da considerare inevitabile – “purtroppo esistono anche le tragedie inevitabili” – un naufragio sotto costa a cui nessuno dovrebbe prestare soccorso per non violare la territorialità delle acque. Farlo sarebbe un sopruso, tanto che Travaglio ne ricava un commento come questo: “O vogliamo ritornare alle colonie e ai protettorati di ‘Tripoli bel suol d’amore?’”. Qui c’è la completa inversione delle parti che rivela il modus operandi – per usare un’altra espressione a lui cara – di tutto il ragionamento. Quelli che vanno a salvare, anche a rischio della loro vita (le navi di alcune Ong sono state prese a mitragliate dalla guardia costiera libica), persone altrimenti destinate a morte certa sarebbero i nuovi colonialisti. Mentre governi, come quello italiano, che hanno trasformato in propri ascari le bande di trafficanti che controllano il finto governo di Al Serraj e le “sue” guardie costiere non avrebbero niente a che fare con una pratica vecchia e sperimentata propria dell’epoca coloniale.
Ma la questione del controllo delle acque è molto più generale: Travaglio evita accuratamente di chiedersi che interesse può avere un governo come quello di Al Serraj, che non controlla che una minima porzione del suo territorio, se mai lo controlla veramente, a rivendicare il diritto esclusivo di intervenire in una zona sar(ricerca e salvataggio) di sua competenza, che si estende ben al di là della porzione di coste su cui pretende di governare; e senza avere i mezzi per farlo, tanto da appoggiarsi interamente sugli strumenti e le indicazioni messi a disposizione dalla Guardia costiera italiana. Riportando poi in Libia quei naufraghi “salvati”, o meglio, catturati, ad aggiungersi ai 700mila o al milione migranti che già vi sono intrappolati, sottoposti a ogni sorta di maltrattamenti. Si tratta – e Travaglio lo sa, ma non lo dice – di una forma mascherata di respingimento, pratica vietata dalla convenzione di Ginevra, che il governo libico si presta a realizzare per conto dell’Italia in cambio di finanziamenti di cui non è dato di conoscere né l’entità né la destinazione. Se non è colonialismo questo…
Ma Travaglio confonde facilmente le acque territoriali della Libia con quelle della sua presunta zona sar: “fermo restando – scrive – che tutte le navi (Ong incluse) che trovano profughi su barconi li possono e anzi li devono salvare e tutte le navi militari (in missione per l’UE o per l’Italia) che contrastano i trafficanti salvano pure i migranti nelle acque di rispettiva competenza (dunque non in quelle libiche)”. Dunque, la zona sar della Libia viene tout court assimilata alle acque libiche, dove le navi non libiche non devono intervenire, perché “non di loro competenza”.
E veniamo ora alla questione centrale: pull o push? Le Ong, sostiene Travaglio, contraddicendo persino i principali esponenti, attuali e passati, della Guardia costiera italiana, sono un potente fattore di attrazione che induce i trafficanti a usare gommoni invece di barconi, contando che qualcuno – le Ong – vengano a raccoglierne il “carico umano” al limite delle acque territoriali libiche che i gommoni non sono in grado di oltrepassare di molto. Ma senza Ong il fattore di attrazione, se c’è, non viene certo meno, tanto è vero che non appena sparite le loro navi, abbiamo visto ricomparire i barconi, che certo costano di più (sono anch’essi mezzi a perdere destinati alla distruzione), ma trasportano in un viaggio solo da quattro a sette-ottocento profughi, tanto che affondando ne portano a morire da tre a cinque volte di più di un singolo gommone. D’altra parte si è visto che i gommoni non sono affatto scomparsi. Arrivano fino a 80 miglia dalla costa, invece delle 12 di prima, e magari anche oltre prima di entrare in panne. E nessuno saprà mai quanti ne sono già affondati, e con quante persone a bordo, perchè è stato imposto di non segnalarne la presenza.
Per avvalorare la tesi pull, fattore di attrazione delle Ong, Travaglio si inventa una partenza sincronizzata tra navi delle Ong e imbarcazioni degli scafisti: “Navi di Ong salpavano all’improvviso dai porti europei (soprattutto italiani) e facevano rotta verso un punto X in simultanea, o addirittura in anticipo sulla partenza di un barcone carico di migranti dalla costa libica che, guarda caso, puntava diritto verso X”. Certamente le navi delle Ong sono più veloci dei gommoni degli scafisti, ma l’idea che partendo dall’Italia le une e dalla Libia gli altri, entrambi raggiungano simultaneamente i limiti delle acque territoriali libiche, il famoso punto X, è pura fantasia; che Travaglio sostiene confermata da intercettazioni, rilievi satellitari e filmati “che tutti possono vedere”, perché sono in mano alla Procura di Catania, che peraltro non ha ancora concluso le sue indagini. E così arriva a sostenere che Annalisa Camilli, la sua critica, “si arrampica sugli specchi”, perché cita una ricerca del gruppo di geografia forense della Goldsmiths Institute che dimostra esattamente il contrario; mentre quella che non è altro che la personale interpretazione che Travaglio dà del materiale acquisito dalla Procura di Catania – che avrebbe “acclarato”, anche se non “accertato” (sic!) le responsabilità delle Ong – sarebbero fatti, “più forti di qualunque gruppo di oceanografia”. Per questo quelli effettuati dalle Ong non sono salvataggi, bensì “consegne”. E per documentarlo Travaglio non trova di meglio che chiamare a testimoniare l’odiato quotidiano Repubblica, ben sapendo che è stato anch’esso un indefesso difensore delle politiche del ministro Minniti: quello che non ha fatto che aprire la strada a quelle di Salvini, che Travaglio esecra, cioè del governo Conte, che Travaglio sostiene invece con tutte le sue forze.
In realtà l’unica vera sincronizzazione di cui si ha notizia è quella che il 24 giugno scorso, ha preceduto, la visita di Salvini in Libia: circa mille migranti partiti tutti insieme dallo stesso punto della costa e alla stessa ora su una decina di gommoni – fatto mai prima verificatosi – in perfetto sincronismo con la partenza delle vedette libiche che li hanno prontamente intercettati. Una dimostrazione pubblica di efficienza, programmata a beneficio del nostro ministro degli interni, che è costata almeno 100 morti annegati, e che dimostra, questa sì, l’intesa perfetta tra trafficanti e Guardia costiera libica: un evento su cui nessuno, dopo la denuncia del comandante di Open Arms Oscar Camps, ha più voluto indagare.
Ma la questione fondamentale su cui i sostenitori del fattore pull soprassiedono è la presenza del fattore push. Perché mai i migranti, quando vedono una vedetta della guardia costiera libica, si buttano in mare e preferiscono annegare piuttosto che venir “salvati”? Che cosa li spinge a fuggire e a non voler ritornare in Libia, costi quel che costi? Perché sanno benissimo che una volta “salvati” ritorneranno in mano a chi li ha massacrati, violate, torturati, venduti come schiavi, rapinato loro e le loro famiglie per mesi e a volte per anni: cioè in quei porti che Salvini vorrebbe venissero dichiarati “sicuri”. Nessuno di loro vuole tornare in quell’inferno; e il fatto stesso di venire dalla Libia fa di ognuno di loro un profugo meritevole di protezione internazionale, qualsiasi sia il suo paese di origine. Così, di fronte alla drastica riduzione del numero degli sbarchi nessuno, e meno che mai Travaglio, si è chiesto o si chiede che cosa ne sia di coloro che non arrivano più, che non partono più, o che vengono intercettati, catturati e riportati dalla guardia costiera libica là da dove stavano fuggendo. Ma è chiaro che in queste condizione quello che gioca è indubitabilmente il fattore push…
Travaglio sostiene inoltre che andando a raccogliere il loro “carico umano” a ridosso delle acque territoriali libiche (il che peraltro non sempre è vero) le Ong proteggono di fatto gli scafisti da un possibile arresto, impedendo di fatto alle Procure italiane, come ha denunciato il procuratore di Catania Zuccaro, di portare avanti le loro indagini che, come è noto, languono. Ma è noto che gli scafisti non salgono né sui gommoni né sui barconi, alla cui guida mettono sempre qualche migrante a cui fanno lo sconto e che magari non ha mai visto il mare prima, tanto che la maggior parte delle persone arrestate come scafisti sono in realtà dei disperati che non hanno nemmeno i soldi per pagarsi il viaggio. Se le indagini devono partire da loro invece che da chi sta al vertice della cupola dove trafficanti e uomini del governo libico si incontrano – e va riconosciuto che l’impresa è tutt’altro che facile – difficilmente si arriverà mai a mettere le mani su qualche organizzazione di trafficanti.
Meglio allora prendersela con le Ong. Mettendole fuori gioco, molte più vite che si potevano salvare andranno perdute, ma si ridurranno anche gli sbarchi. Meno sbarchi; anzi, meno partenze, meno morti, dice Salvini, e con lui Travaglio. In termini relativi, rispetto cioè a quelli che partono, è vero il contrario: i morti sono molti di più; in numero assoluto, rispetto a quando le partenze erano dell’85 per cento di più, è certamente vero. Ma, ancora una volta, che ne è di quelli che non sono partiti o che vengono riacciuffati dalla guardia costiera libica? Si stima che i morti durante il viaggio di terra, che comprende per lo più una lunga permanenza in Libia, siano almeno il doppio di quelli periti in mare, che sono ormai – quelli accertati – più di 35mila. E quanti di quei 70mila sono morti in Libia, là dove li vuole ricacciare la politica italiana ed europea dei respingimenti mascherati?
Per questa strada Travaglio approda disinvoltamente a rivalutare la politica di Berlusconi che aveva stretto con Tripoli un patto che equivaleva a un vero e proprio respingimento, e per il quale l’Italia ha già subito una condanna dalla CEDU, relativamente a un singolo episodio. Quel patto, secondo Travaglio, “era vergognoso col tiranno Gheddafi, ma potrebbe essere proficuo col governo al-Serraj”; cioè, quello che era vergognoso con Berlusconi potrebbe essere proficuo con Conte…; anche se quello che veniva fatto ai migranti sotto Gheddafi impallidisce di fronte a quello che viene permesso, ma anche promosso e finanziato, sotto il governo Al Serraj.
Non resta che affrontare l’argomento principe di tutti i nemici dei migranti, che Travaglio riassume così: “L’Italia non può accogliere 700mila o un milione di nuovi migranti, e nemmeno un quinto di essi, pena conseguenze sociali e politiche che potrebbero addirittura farci rimpiangere Salvini”. L’Italia forse no, ma l’Europa sicuramente sì, se invece di accanirsi sulla protezione dei confini esterni ci si impegnasse finalmente a legare il futuro e l’esistenza stessa dell’Unione Europea all’abbattimento delle barriere interne, quelle tra Stato e Stato, con un permesso di soggiorno europeo. Ma va anche ricordato che tra la fine del secolo scorso e il 2008 l’Italia ha accolto, e di fatto regolarizzato con una sfilza di sanatorie, molte delle quali decise dal partito di Salvini, allora al governo, quasi cinque milioni di migranti, in alcuni periodi al ritmo di 300mila all’anno. Poi è cambiata, in Italia e in Europa, la politica economica, avvitandosi sempre di più in misure di austerità le cui conseguenze si vedono, ben prima che sulla stretta sui migranti, sul peggioramento delle condizioni di vita di tutti coloro che non vivono sullo sfruttamento di altri.
Così chi oggi riesce a raggiungere l’Italia per arrivare in Europa trova ad accoglierlo un sistema che lo stesso Travaglio non esita a deplorare: è “il destino di quei disperati tra le gabbie dei Cie, le grinfie dei ladroni della solidarietà (finta) che intascano 35 euro a migrante in cambio da pasti da fame, le spire della criminalità più o meno organizzata e le zanne dei nuovi schiavisti tipo Rosarno” (dove ci sono peraltro anche aziende che rispettano i diritti di chi lavora per, e con, loro). Sembra che quel trattamento sia un destino ineludibile, mentre è una politica cinica, stupida e spietata, che non basta comunque a scoraggiare gli arrivi, ma che concorre a spaventare la gente, a far odiare o disprezzare i migranti, a impedire il loro inserimento sociale, a cacciare per strada coloro a cui non viene concesso alcuna forma di protezione – internazionale, sussidiaria o umanitaria – a trasformare la nostra agricoltura in tanti Lager, a fornire manodopera alla criminalità organizzata e carne umana allo sfruttamento della prostituzione. Ma, soprattutto, a impedire a chi è già arrivato di fare ritorno o di fare visita alle comunità e ai territori che ha lasciato, perché una volta usciti dall’Italia non vi si rientra più. Così si trasforma in una condanna a vita alla marginalità e alla “clandestinità” quello che potrebbe essere un legame tra paesi, comunità e culture diverse; e si riduce alla disperazione una umanità che potrebbe invece essere enormemente valorizzata, perché coloro che affrontano un viaggio rischioso come quello a cui devono sottoporsi i migranti di oggi sono la parte migliore, più intraprendente e spesso anche più istruita di quello che un paese dell’Africa o del Medioriente può offrire e che un paese dell’Europa può sperare di accogliere. Se fosse più umano…
Effimera
La figura, indistinta e pericolosa, del migrante è probabilmente una delle rappresentazioni più forti che si è costruita negli ultimi decenni nella comunicazione politica delle aree più ricche del pianeta. Totalmente priva di riferimenti concreti con la quotidianità delle società europee è presente, priva del diritto di accesso allo spazio della politica, in tutte le forme di comunicazione e in tutti i riferimenti astratti della programmazione istituzionale. I migranti però esistono al di fuori della costruzione dell’immagine del nemico, esistono al margine dello spazio sociale e ci pongono di fronte al fallimento della grande costruzione della democrazia occidentale. Sono, infatti, il limite su cui si infrange il modello di democrazia universale che è stato presentato, a partire dalla metà dello scorso secolo, come l’orizzonte compiuto della nostra storia. Ci dicono, ad esempio, che quel racconto non teneva in considerazione minimamente la maggioranza del pianeta né le condizioni di costante e ineluttabile povertà a cui è costretta da più di cinque secoli la maggioranza della popolazione mondiale.
Il volume curato da Tindaro Bellinvia e Tania Poguish si pone in modo evidente nel solco di quella critica che sta portando una parte sempre più ampia degli studiosi a rimettersi in discussione di fronte all’oggetto del proprio lavoro. Questa critica, da un lato, parte dall’esperienza diretta, dal legame necessario che le scienze sociali devono mantenere con la materialità sociale del vivente, e, dall’altro lato, è il frutto di un processo di riflessione, che tutti gli autori stanno compiendo, sul senso stesso del loro ruolo e sulla possibilità che il pensiero non addomesticato possa agire concretamente nei luoghi più problematici della quotidianità. Affrontando le diverse questioni che vengono poste dal lavoro di superamento dell’eredità coloniale, i vari autori mettono in discussione gli elementi che hanno determinato la costruzione di un discorso scientifico pienamente coinvolto nell’esercizio del contenimento e nell’uso economico delle migrazioni.
l discorso violento sulle migrazioni costruito da un’ampia parte del pensiero politico recente rientra, a tutti gli effetti, nella narrazione coloniale, nonostante si possa ritrovare in luoghi che non sono necessariamente il centro dell’economia globale. È un discorso che presuppone uno spazio di vita civile contrapposto ad una massa informe e barbarica e, quindi, un valore asimmetrico delle esistenze, una differenza tra migrante e cittadino che sintetizza alcune questioni di fondo della società attuale. Sulle migrazioni si è evidenziata in questi anni la capacità finale del neoliberalismo di distruggere anche i residui del discorso universalista del tardo capitalismo europeo. Le vite dei migranti sono evidentemente sacrificabili. Esse sono esistenze di scarto a cui è riconosciuto al massimo l’obiettivo di inserirsi in un contesto che ha bisogno di un esercito di manodopera di riserva: un contesto che oggi non possiede più che una pallida speranza di accesso ai margini del mercato.
La marginalità è l’unica dimensione stabile da cui non si può uscire. Le grandi migrazioni attuali si svolgono tutte all’interno di uno spazio asimmetrico che definisce l’intera esistenza della maggior parte degli abitanti del pianeta, esiliati oltre i confini della ricchezza, in qualunque collocazione geografica si situino. Da questa posizione, dal segno tracciato per definire tale differenza costitutiva, non è riuscita a scostarsi un’ampia parte degli studi sui processi in atto, né, in alcuni casi, le teorie politiche che sostengono l’integrazione.
Nella sua adesione alle esigenze del mercato, con il linguaggio settoriale e con la ricerca di soluzioni per la crescita economica, lo studio delle migrazioni si è rivelato spesso una pratica violenta, che rimanda al dibattito sulla circolazione e la distribuzione globale delle merci. I migranti sono stati considerati, spesso a tutti gli effetti, variabili produttive e inseriti in un discorso generale sulla sicurezza delle società di arrivo (Palidda, 2016). I tre grandi poli delle migrazioni attuali (quelle dirette verso gli USA, a tappe attraverso tutto il continente da Sud a Nord; quelle dirette verso l’Europa, a tappe attraverso due continenti; quelle interne all’asse India-Cina), sono chiaramente alimentati dalla ristrutturazione dell’economia. Le migrazioni in quel caso rispondono allo schema, seppure divenuto più complesso negli anni più recenti, proposto dalla lettura del sistema-mondo: si organizzano da varie periferie in direzione di centri produttivi, nell’ipotesi di incontrare maggiori opportunità di occupazione.
Di fronte ai mutamenti globali dell’economia e alla velocità con cui si realizza la delocalizzazione delle aree produttive, si pone il problema della validità delle definizioni tradizionali dei processi migratori. È evidente che non può esistere in alcun modo una teoria generale delle migrazioni nel contesto globale postcoloniale senza un’analisi precisa dei mutamenti generali nei rapporti di produzione del sistema economico globale. Soprattutto se si assume il punto di vista generale delle teorie sociali in cui le istituzioni che si attribuivano il compito di regolare il diritto di movimento degli esseri umani avevano una precisa relazione con il funzionamento economico della società. Il dibattito sulla relazione tra stato e mercato non può essere considerato marginale, così come non si può sottovalutare l’insieme dei fenomeni che hanno determinato le grandi migrazioni degli ultimi tre secoli, dirette verso i centri urbani e le nuove aree di produzione di valore. Allo stesso modo è impossibile elaborare una nuova teoria analitica sulle migrazioni senza superare l’ottica eurocentrica con cui sono state studiate finora.
L’insieme di questi processi diventa chiaro solo al di fuori del vecchio sistema di controllo e difesa dei confini statali, perché l’azione di controllo condotta finora dalle varie istituzioni presuppone la difesa delle aree di libero scambio e non dell’integrità statale. Non solo, essa presuppone la prevalenza della programmazione economica sull’integrità territoriale. Il risultato dell’insieme di queste caratteristiche disegna un complesso quadro di spostamenti umani che rende evidente la fine del progetto di suddivisione del pianeta prodotto dalla modernità. In quel progetto gli stati avevano un ruolo fondamentale, tracciavano i confini ed esercitavano il controllo diretto sulle potenzialità di movimento degli esseri umani. Rimane da valutare quanto questo slittamento verso forme di controllo puro, prive di un controllo politico di qualunque tipo possa produrre solo uno spazio per l’esercizio di dominio o sia anche la base per la costruzione di nuove forme istituzionali.
Di fronte ai mutamenti globali dell’economia e alla velocità con cui si realizza la delocalizzazione delle aree produttive, si pone il problema della validità delle definizioni tradizionali dei processi migratori. È evidente che non può esistere in alcun modo una teoria generale delle migrazioni nel contesto globale postcoloniale senza un’analisi precisa dei mutamenti generali nei rapporti di produzione del sistema economico globale. Soprattutto se si assume il punto di vista generale delle teorie sociali in cui le istituzioni che si attribuivano il compito di regolare il diritto di movimento degli esseri umani avevano una precisa relazione con il funzionamento economico della società. Il dibattito sulla relazione tra stato e mercato non può essere considerato marginale, così come non si può sottovalutare l’insieme dei fenomeni che hanno determinato le grandi migrazioni degli ultimi tre secoli, dirette verso i centri urbani e le nuove aree di produzione di valore. Allo stesso modo è impossibile elaborare una nuova teoria analitica sulle migrazioni senza superare l’ottica eurocentrica con cui sono state studiate finora.
L’insieme di questi processi diventa chiaro solo al di fuori del vecchio sistema di controllo e difesa dei confini statali, perché l’azione di controllo condotta finora dalle varie istituzioni presuppone la difesa delle aree di libero scambio e non dell’integrità statale. Non solo, essa presuppone la prevalenza della programmazione economica sull’integrità territoriale. Il risultato dell’insieme di queste caratteristiche disegna un complesso quadro di spostamenti umani che rende evidente la fine del progetto di suddivisione del pianeta prodotto dalla modernità. In quel progetto gli stati avevano un ruolo fondamentale, tracciavano i confini ed esercitavano il controllo diretto sulle potenzialità di movimento degli esseri umani. Rimane da valutare quanto questo slittamento verso forme di controllo puro, prive di un controllo politico di qualunque tipo possa produrre solo uno spazio per l’esercizio di dominio o sia anche la base per la costruzione di nuove forme istituzionali.
b. Le migrazioni odierne rideterminano in forme nuove in seguito alla nascita di movimenti controegemonici (de Sousa Santos 2010; Gramsci 2001-2007). È il caso dell’America Latina, in cui le nuove esperienze politiche si oppongono alle forme dirette di controllo politico-sociale realizzate dai vecchi governi e dalle grandi corporation euroamericane, ma avviano anche processi di movimento della popolazione su scala continentale. La manodopera non è più delocalizzata in base a grandi programmi nazionali di distribuzione della popolazione o alla nascita pianificata di aree di investimento, ma inizia, in diversi casi, a ridefinire i confini stessi e le appartenenze (Martinez, 2012; Novick, 2008).
c. Le migrazioni correnti si definiscono come processi centro-periferia, attivati dalla ricerca di manodopera a basso costo all’interno delle aree ricche, ma sono anche il prodotto diretto della nascita di aree speciali di lavoro collocate in zone di confine, come è avvenuto nel caso delle Zonas Económicas Especiales, delle Free Trade Zone e delle Export Processing Zone in diversi casi in Asia Sud Orientale o in America Settentrionale (Mezzadra e Neilson, 2013; Sassen, 2005; Ong, 2005). Le migrazioni recenti giustificano inoltre un enorme apparato di controllo, una guerra a bassa intensità condotta contro i migranti lungo i confini delle aree ricche del pianeta, come avviene in Europa, Stati Uniti, Australia. Si costruisce dunque uno schema di distribuzione globale che può essere considerato un elemento centrale della divisione globale del lavoro all’interno del sistema-mondo (Castillo Fernández, Baca Tavira e Todaro Cavallero, 2016).
d. Le migrazioni attuali sono condizionate anche dalla delocalizzazione delle produzioni in aree povere e a bassissimo costo del lavoro. Si definiscono in questo caso in modo misto, non seguono più i processi tradizionalmente indicati come migrazioni interne o internazionali né sono necessariamente dirette verso grandi aree urbane. Esse contribuiscono anzi, in molti casi, a creare nuovi processi di urbanizzazione (Sassen, 2005).
e. Le migrazioni in corso si muovono al di fuori degli schemi classici di definizione dell’identità, nazionale, religiosa, linguistica, etnica (Appadurai, 1996; Anderson, 1983). Esse vanno oltre le categorie consolidate delle appartenenze e definiscono nuove aggregazioni sociali.
I mutamenti degli ultimi decenni hanno contribuito a rimettere in discussione gli strumenti utilizzati finora, sono stati spesso oggetto di grandi proposte di revisione degli aspetti più profondi delle scienze sociali (de Sousa Santos, 2010; Grosfoguel, Oso e Christou, 2015; Grosfoguel, 2017), ma continuano a scontrarsi con l’eredità culturale coloniale. In molti casi lo studio di questi processi si è strutturato, cioè, seguendo un preciso apparato ideologico che ne ha riproposto il modello di dominio, soprattutto nella costruzione di differenze tra gruppi umani e nell’abuso della categoria di identità etnica (Gil Araujo, 2011b; Avallone, 2015a). In parte si è trattato di quello che Balibar e Wallerstein hanno definito razzismo senza razza, una categoria che loro stessi consideravano non particolarmente nuova nello scenario politico occidentale (Balibar e Wallerstein, 1991; Grosfoguel, Oso e Christou, 2015), individuando una costruzione culturale che ha proseguito il lavoro di differenziazione tra i popoli del pianeta.
L’intero percorso delle migrazioni che sono iniziate insieme ai processi di decolonizzazione ha riproposto la questione in termini differenti, ma, al tempo stesso, ha in vari modi proseguito il progetto coloniale dell’Occidente. Le diverse pratiche coloniali hanno determinato un’eredità che ha condizionato la gestione delle migrazioni, che hanno assunto non solo l’immagine della differenza etnica, neorazziale, ma anche quella dell’assimilazione come processo evolutivo, dell’idea cioè che sussistesse una superiorità delle società di arrivo, un’emancipazione che non è solo economica. Nel complesso degli studi europei, le analisi relative alle migrazioni negli altri continenti sono state spesso affrontate solo come aspetto del percorso verso l’Europa, definita come la civiltà da raggiungere, faro globale di riferimento insieme agli Stati Uniti. Inoltre, tale analisi ha finito con il rappresentare di fatto una questione inespressa di fondo: quella della difesa dell’identità europea (Amselle, 2008). In questo quadro la categoria di integrazione si è rivelata molto ambigua, è stata utilizzata dal punto di vista assimilazionista e da quello multiculturale (Gil Araujo, 2011b; Palidda, 2010), ma soprattutto ha contribuito a costruire uno schema preciso in cui i migranti assumevano il ruolo di elemento estraneo da trasformare all’interno del corpo dello stato.
La continuità ideologica però non corrisponde ad una sostanziale permanenza delle strutture di potere. Proprio l’esercizio del controllo sulle migrazioni ha reso evidenti gli elementi della nuova struttura geopolitica globale che indeboliscono l’assunto principale, la permanenza cioè delle funzioni dello stato moderno, l’unica struttura che possedeva il diritto di decisione, il potere di difendere i confini. La difesa dei confini tracciava anche il solco dell’appartenenza statale-nazionale e si estendeva ai diritti di sopravvivenza generali dei migranti, segnandone l’esistenza, attraverso la separazione naturalizzata tra nazionali e non nazionali (Sayad, 2013). La macchina in cui sono inseriti i migranti segue un principio che non può più essere quello del superamento dei confini statali (Balibar, 2005), anche se è evidente una forte permanenza del pensiero di stato nelle azioni delle istituzioni e nelle gerarchie adottate dagli studi. Le grandi linee fortificate del pianeta, quelle in cui si sta svolgendo un conflitto costante per il contenimento delle migrazioni, sono in genere i punti di accesso ad aree allargate di scambio commerciale e circolazione di beni e persone, non singoli stati. Non è possibile inoltre neanche ricondurre le grandi migrazioni cinesi e indiane degli ultimi due decenni al modello delle migrazioni coloniali o a quello della circolazione interna agli stati.
Sulla crisi della visione tradizionale pesa anche la caratterizzazione contro-egemonica di alcuni movimenti di popolazione, soprattutto in America Latina e in Africa, i casi che creano più problemi all’inquadramento politico delle migrazioni recenti. In tutti e due i casi le dinamiche di rimescolamento della popolazione hanno ridefinito nell’ultimo secolo, più volte e molto velocemente, i quadri geopolitici e gli interessi economici. I mutamenti nelle migrazioni latinoamericane recenti hanno messo in evidenza, ad esempio, come diverse delle nuove esperienze politiche abbiano prodotto un mutamento generale delle condizioni di vita nei luoghi di arrivo, e non siano state solo il risultato di crisi economiche locali (Martinez, 2012; Yépez del Castillo e Herrera, 2014). Mentre quelli africani sono stati sostenuti soprattutto da enormi crisi umanitarie e conflitti armati. Le nuove forme della politica e le nuove rivendicazioni hanno rappresentato anche una forma di reinterpretazione delle gerarchie sociali sia nella percezione dei processi sia nella costruzione di nuovi spazi.
La categoria gramsciana di egemonia può essere utilizzata in questo caso per ridefinire l’analisi delle migrazioni, perché in quel contesto consente di spostare l’attenzione sui soggetti migranti, che si collocano sempre nella categoria di subalterni, sono privi di diritti. L’esistenza di processi controegemonici (de Sousa Santos, 2010; 2003), secondo cui gruppi prima subalterni possono avviare nuovi processi culturali che diventano egemonici, colpisce direttamente le gerarchie utilizzate nell’analisi delle migrazioni. Ciò perché i migranti sono in genere la parte più debole della popolazione nello stato nazione moderno. In diversi casi, la crisi delle identità nazionali comporta una perdita di senso dei limiti statali al movimento umano e la presenza di nuove comunità può favorire tale processo. Bisogna inoltre sottolineare come, in molte aree del pianeta, la subalternità non differenzi più i migranti in modo netto rispetto ai residenti storici. Questa è una novità sostanziale nella costruzione storica della marginalità ed è un elemento su cui si perde un connotato fondamentale dei migranti.
Lo spazio contro-egemonico è precisamente quello della costituzione di nuove aree di espressione della politica, in cui le identità previste dalle strutture pre-esistenti perdono valore. Le migrazioni assumono una caratterizzazione contro-egemonica quando rappresentano la prima tappa di creazione di spazi che non possono più essere riconducibili alle strutture tradizionali. In diversi casi si tratta di processi contro-egemonici perché sono il prodotto dell’attività di gruppi che iniziano a rivendicare identità territoriali di tipo nuovo, non statale, ma comunitario.
Una parte del dibattito scientifico ha risposto a tale problema con la categoria di nazionalismo diasporico (Appadurai, 1996; Anderson, 1983), cioè quella costruzione identitaria che si realizza solo dopo una migrazione in un contesto culturale diverso da quello di origine. Non solo si pone una questione di notevole spessore, quella della nascita delle identità diasporiche che popolano il pianeta, ma anche un problema molto preciso relativo alla possibilità dell’esistenza di identità senza territorio. Il presupposto del nazionalismo diasporico è l’assenza di un territorio, la delocalizzazione dell’identità culturale e la ricerca di forme di integrazione in nuovi gruppi insediati in aree culturali distanti. La presenza di movimenti contro-egemonici è caratterizzata invece da una proposta politica, dalla volontà di costituire comunità all’interno di un conflitto sociale.
Il potere e la colonia
In una loro forma peculiare, gli studi decoloniali, come quelli postcoloniali, sono espressione di un pensiero della crisi, nascono dalla crisi di quello che Anibal Quijano (1991) ha chiamato modello di potere della modernità e dalla fine della grande espansione economica e finanziaria che ha sostenuto tutto il sistema nella seconda metà del XX secolo. La crisi del capitalismo ha spinto verso la formazione di uno spazio globale che, però, è diventato anche il luogo di espressione delle nuove forme di critica radicale. La percezione della conclusione del lungo percorso della modernità capitalista ha portato all’interno del dibattito politico la questione del superamento delle forme di potere, comprese quelle delle stesse esperienze di liberazione nazionale dei paesi colonizzati. La critica si è indirizzata verso la rilettura della storia della nascita degli stati e verso l’affermazione dell’idea del nazionalismo, contestata già da Sayad (2003) come prospettiva di rimodulazione in termini coloniali delle società africane. Lo stato come piena espressione della modernità è infatti una struttura colonialista, la perfetta espressione di quel modello di potere che viene contestato come proprio della storia del pianeta trasformato in una grande Europa. Per superare l’esperienza coloniale è però necessario anche rielaborare l’esistenza delle culture non europee, in un percorso molto difficile di revisione degli elementi culturali coloniali. Nelle specifiche modalità con cui gli studi decoloniali hanno iniziato a postulare la necessità di ridefinire secondo una prospettiva differente tutte le problematiche della società globale, si può identificare anche un percorso che inizia a connettere tra loro aspetti ritenuti spesso distanti dell’analisi sociale, del dibattito ecologico e della prassi politica (Avallone, 2017).
Il percorso non è stato lineare e non è certamente concluso. L’area degli studi decoloniali, ammesso che si possa già definire come un campo autonomo di analisi, deve indubbiamente la propria nascita ad uno scambio globale mediato dal pensiero di opposizione europeo, all’elaborazione latinoamericana del dibattito politico sulla négritude, alla riformulazione delle grandi questioni dell’indipendenza del pensiero africano nello scenario della costruzione delle nuove democrazie dell’America meridionale della fine degli anni Novanta. Il percorso è chiaro: mentre nel dibattito asiatico e poi euro-americano si delineava un’idea della costruzione della società postcoloniale e si definivano i postcolonial studies (Mellino, 2005), come prospettiva di superamento dell’esperienza politica e sociale del progetto coloniale dell’Occidente (Said, 1979), nel dibattito latinoamericano si poneva l’esigenza di rivedere in profondità alcuni assunti della modernità e soprattutto la lunga eredità del colonialismo. Tutto ciò partendo dal presupposto che il colonialismo è ancora vivo, soprattutto nelle sue forme più estreme di sfruttamento e appropriazione (Moore, 2015). Costruire un pensiero decolonizzato significa superare l’insieme delle relazioni di potere che ancora definisce quella totalità eterogenea che è la società globale, superare quell’eredità che ha continuato a delineare il potere e la società in cui vivono gli eredi storici dei popoli colonizzati, insieme agli eredi storici dei colonizzatori.
La decolonialità, il neologismo introdotto da Anibal Quijano e anticipato con parole diverse da altre studiose ed altri studiosi da W.E.B. Du Bois a Silvia Rivera Cusicanqui, rimanda ad una prospettiva più profonda che coinvolge il problema dell’epistemologia (de Sousa Santos, 2010) e della visione dominante anche nella società globale. Ciò che va decolonizzato è il potere, in tutte le sue forme ed espressioni. La colonia permane nei presupposti (neo) coloniali delle strutture di potere a livello globale, ma anche nelle prospettive, nella classificazione del mondo e nella stessa idea di una società futura liberata. Si tratta di un pensiero autonomo latinoamericano, che può ribaltare diversi approcci alla lettura della modernità e alle prospettive di cambiamento. Al tempo stesso, è un approccio che sta determinando, attraverso la partecipazione di intellettuali di varie culture, la costruzione di una nuova prospettiva politica a partire dalla ricerca di un’autodefinizione di cultura.
Ngugi Wa Thiong’o sostiene che l’imperialismo ha creato un’arma molto potente, che chiama bomba culturale, per controllare i popoli colonizzati, spogliati del diritto di parola nelle loro lingue madri e derubati della loro storia. «La bomba culturale induce i popoli a vedere il loro passato come una discarica di insuccessi, dalla quale prendere le distanze. Li induce a desiderare di identificarsi con quanto c’è di più lontano da loro: per esempio con la lingua di altri popoli e non con quella loro propria. Li induce a rispecchiarsi in tutto ciò che è decadente e reazionario, in quelle forze che inibiscono la loro stessa sorgente di vita» (Ngugi Wa, 2015, p.11). Questo atteggiamento viene definito dallo scrittore gikuyu come un desiderio di morte, una partecipazione dei popoli colonizzati alla distruzione della loro identità. Lo stesso desiderio che, secondo Achille Mbembe, si riflette nella volontà di esercitare il potere di vita o di morte, nella necropolitica dell’Occidente (2003). Una distinzione tra chi deve morire e chi può vivere, sempre a patto di ibridarsi con la cultura dei colonizzatori e rinunciare alla propria lingua e alla propria storia.
Nella sua più pura espressione di potere, la colonizzazione è stato uno dei processi costitutivi della modernità e ha definito questioni che sono ancora irrisolte nella costruzione dell’immagine del mondo attuale, così come nella lettura delle disuguaglianze e nella stessa essenza delle migrazioni. Una di queste, evidente nella costruzione del dibattito pubblico sulle migrazioni, è la razzializzazione dei migranti. Quijano sostiene che la razza è un’invenzione dell’espansione coloniale europea in America. La modernità produce la razzializzazione dei popoli non europei e, attraverso la costruzione della razza, si definisce una nuova gerarchia che permane per tutta la modernità. Le migrazioni attuali seguono la struttura della razzializzazione della società, non si tratta solo della modalità con cui sono presentate nel dibattito pubblico, ma della sostanziale subordinazione razzializzata dei migranti. Secondo Quijano, le relazioni di potere si strutturano in conformità alla classificazione razziale delle popolazioni, perché la razza è un elemento di gerarchizzazione universale che stabilisce superiorità e inferiorità e giustifica l’azione del potere (Navarrete, 2014) e questo processo corrisponde alle differenze storiche coloniali, ma anche alla distribuzione attuale della ricchezza.
I modi in cui sono pensate, governate e vissute le migrazioni sono definiti dalle rappresentazioni coloniali dell’altro, dunque dalla colonialità che classifica le popolazioni e ne influenza le possibilità di mobilità spaziale, di accesso ai mercati del lavoro, di inserimento e collocazione sociale. La realtà coloniale è attiva nel presente postcoloniale, con effetti anche sui modi di pensare le migrazioni e le persone migranti. La costruzione coloniale del mondo, al cui centro vi è stata la razza, con i suoi specifici processi di controllo, disciplinamento, assoggettamento e resistenza, fondata sulla divisione tra zone dell’essere e zone del non essere (Fanon, 2015), influenza la definizione del mondo, dove i soggetti legittimi sono solo quelli della prima zona, quelli appartenenti alla zona dell’essere, e sono gli unici a porre le domande ritenute appropriate. È chiara la relazione che c’è tra gerarchie sociali e intellettuali: le prime organizzano le seconde, caratterizzando anche le scienze sociali, le quali «partecipano ad una tradizione intellettuale che attribuisce molta importanza alla distinzione tra oggetti nobili e oggetti ignobili, tra modalità nobili (ciò che si chiama “teoria”, speculazione) e modalità ignobili di affrontare questi soggetti» (Sayad, 1990, 8). Lo studio delle migrazioni si colloca in questa gerarchia in modo coerente con il suo oggetto ignobile, un oggetto dominato sul piano intellettuale e politico-sociale, e tende, per tanto, a riprodurre questa gerarchia, svolgendo il «lavoro del colonizzatore o il lavoro della società di immigrazione» (Sayad 1990: 20-21).
In termini decoloniali, il riconoscimento di questa condizione vuol dire che non ci sono punti di vista neutrali, ma sono sempre all’opera una geo-politica ed una corpo-politica che definiscono uno specifico punto di osservazione, non individuabile, dunque, come una visione oggettiva, perché visioni oggettive non sono possibili (Fanon, 2009; Lander, 2000; Mignolo, 2009). La critica alle gerarchie, all’oggettività scientifica ed alla neutralità dei saperi apre ad una messa in discussione delle categorie prodotte nell’ambito della storia delle stesse discipline sociali, riconoscendo il peso avuto dallo stato e dai rapporti coloniali globali in questa storia, specialmente nel caso dello studio delle migrazioni, il cui oggetto di osservazione, quello dell’immigrato e dell’immigrazione, è stato costruito attraverso un discorso imposto (AA.VV., 2013). Dunque, andare oltre queste categorie, parole di stato e concetti prodotti lungo i rapporti coloniali, è una condizione determinante per liberare gli studi delle migrazioni dagli assunti già dati e dalla domande già definite dai rapporti di forza vigenti tra aree geopolitiche, popoli e razze.
Praticare decolonialità
Il testo curato da Bellinvia e Poguish segue una sequenza precisa che rispecchia il dibattito recente sulle migrazioni, ma prova a rispondere alle questioni che si presentano a chi lavora sul campo. Prima emergono le domande sulla sostanza dei processi e sul modo in cui si possono definire, seguite da analisi sulle modalità storiche con cui si è realizzato sul territorio europeo il mutamento di identità e funzioni delle migrazioni: successivamente vengono poste delle riflessioni sul ruolo di chi pratica attività di ricerca e sulle modalità con cui si può uscire dalla gabbia del pensiero coloniale, riflettendo, come fanno tutti i testi, sulla difficoltà concreta di lavorare all’interno della permanenza di una struttura come lo stato nazione, ponendosi, infine, il problema delle possibili alternative.
I saggi contenuti nel volume affrontano, infatti, il problema della decolonizzazione nei suoi vari aspetti, partendo dalla decostruzione del pensiero europeo, riconsiderata da Lidia Lo Schiavo, che individua un legame tra il decentramento dell’Europa, operato dal pensiero decostruzionista, e il dibattito critico recente. Le migrazioni pongono di fronte all’esigenza di rielaborare anche l’epistemologia, le modalità con cui si definisce lo stesso oggetto di studio. Marco Letizia rende visibile il forte legame tra la questione del potere, come è stata posta da Michel Foucault, e la ridiscussione in cui è impegnato il dibattito attuale, suggerendo anche una riflessione sulla collocazione all’interno dei dispositivi di potere di chi realizza ricerche sul campo.
Tania Poguish affronta direttamente la questione fondamentale della crisi del confine e pone il problema della permanenza del confine nell’Europa fortezza. Una delle questioni più citate nel volume è, in effetti, la presenza del confine come metodo, nell’accezione che Mezzadra e Neilson ne hanno dato, e non è un caso che il punto di partenza del lavoro sia stata la riflessione di Abdelmalek Sayad.
Il lavoro di Eleonora Corace si inserisce in quel dibattito che ha dimostrato come le categorie del politico abbiano definito perfettamente la società attuale. Tra le categorie che vanno ridefinite inserisce quelle proprie della sfera dell’inclusione, che sottende tutti gli elementi della supremazia coloniale ed è carico di aspetti di profonda ambiguità. Seguendo la stessa linea, Sergio Villari ripropone la questione dei rapporti sociali, di dominio e sfruttamento, e, seguendo Sayad e Djouder, sottolinea come i processi di integrazione sottendano una forte dimensione repressiva.
Tindaro Bellinvia ricostruisce i percorsi materiali che portano all’etnicizzazione delle migrazioni e alla criminalizzazione della figura dei migranti, individuando un processo essenziale per il funzionamento dei dispositivi di controllo e per la costruzione dello spazio permanente di marginalità.
Le esperienze condotte sul campo dagli autori ci dimostrano come tutto il sistema italiano dell’accoglienza sia interno al processo della costruzione del margine invalicabile, dell’esclusione permanente cui è destinata la popolazione migrante. Angela Bagnato pone il problema della permanenza del controllo sui corpi e di come ciò si evidenzi anche in uno sfruttamento asimmetrico che colpisce le donne migranti, riproponendo le forme del potere patriarcale. Giovanni Cordova dimostra come la ricerca etnografica possa smontare con facilità l’immagine rassicurante costruita nel dibattito pubblico del sistema italiano dell’accoglienza.
Il saggio di Carmelo Russo contribuisce a ribaltare gli stereotipi sulla costruzione dell’immagine del migrante, ridefinendo l’esperienza e i processi di revisione della memoria delle migrazioni siciliane dirette verso la Tunisia.
Nel loro insieme, i saggi affrontano una molteplicità di vincoli attivi sulle migrazioni attuali, convergendo nella critica alle definizioni normalizzanti ed alle categorie coloniali e di stato che contribuiscono a governarle. Essi pongono, dunque, il tema della possibilità di liberazione politica, culturale ed epistemologica delle migrazioni e delle persone migranti: condizione determinante per costruire relazioni sociali più giuste su scala mondiale.
Liberare le migrazioni
I migranti sono ormai tra i principali attori di conflitti sociali in varie aree del pianeta (Mezzadra e Neilson 2013; Avallone 20l5b). Il loro protagonismo sociale e politico va oltre la storica problematica di integrazione nei paesi di arrivo e riguarda la crescente difficoltà nella costruzione di spazi di vita e l’impossibilità di rientrare nel sistema economico globale per una parte sempre più ampia degli abitanti del pianeta: si riferisce, cioè, allo status di esclusione permanente che si prospetta a vari strati dell’umanità. Di fronte a questa esplosione di esperienze conflittuali, Mezzadra e Neilson descrivono la moltiplicazione dei confini come uno dei processi fondamentali per la sopravvivenza del sistema economico globale. Un processo che si realizza in uno spazio eterogeneo, caratterizzato da alti livelli di controllo sulla libertà di movimento degli individui. La moltiplicazione dei confini corrisponde, nel quadro proposto dai due autori, alla moltiplicazione e parcellizzazione del lavoro e definisce, ormai, un fenomeno capillare in cui aumentano i confini fisici anche interni alle vecchie strutture geopolitiche. La divisione globale del lavoro determina la nascita di nuove forme di parcellizzazione sociale.
Le categorie tradizionali di sovranità e potere costituente, legate all’esistenza di confini stabili, sono state rimesse in discussione, ma non sostituite dall’individuazione di nuove categorie interpretative soprattutto di fronte ad una situazione in cui è il potere economico che istituisce i confini, mentre quello politico li gestisce in subordine. Tale processo può definire anche il percorso in cui la dimensione di marginalità propria dei migranti si estende ad un numero sempre più ampio di abitanti del pianeta e non dipende solo dallo spostamento fisico. Secondo la definizione classica del dibattito critico, lo spazio politico neoliberale si definisce come schema in cui si muovono liberamente capitali e merci, ma non gli esseri umani, così anche la costruzione di nuove forme di identità globale passa dalla moltiplicazione dei confini. In questo quadro l’esigenza di procedere a diverse forme di decolonizzazione dell’analisi postcoloniale è sempre più pressante. Non si tratta solo di analizzare o contrastare la costruzione del migrante come nemico, ma anche di confrontarsi con la nascita di nuove forme di conflittualità che non rivendicano integrazione, nell’accezione tradizionale del termine. Si può partire dall’assunto che la definizione territoriale della categoria di migrazione corrisponde ormai evidentemente ad un solo aspetto del processo. Il problema si può inquadrare come la questione dell’ampliamento del numero di persone collocate oltre il margine, la linea che divide l’accesso alla ricchezza dall’esclusione permanente. Quella linea non corrisponde più alla struttura territoriale costruita dal progetto coloniale dell’Occidente, è un prodotto diretto di quella storia, ma non corrisponde più alla differenziazione territoriale tra paesi dominatori e colonie.
La crisi della sovranità moderna si evidenzia chiaramente nel mantenimento delle formule di controllo prive di territorio e consenso. I migranti portano alla luce la permanenza di elementi forti, di un’eredità coloniale nella struttura stessa delle domande poste dalle scienze sociali. Come suggerisce la lettura di Sayad, non possiamo pensare di ricostituire il passato alla ricerca di forme sociali pre-esistenti la modernità e il capitalismo, non può esistere cioè una scienza sociale non coloniale nei suoi assunti. Può esisterne una decolonizzata, che assolva anche al ruolo storico di sapere di opposizione.
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Left,
Oggi la linea all’interno del Movimento sembra diversa. La deputata Pd Lia Quartapelle ha presentato un’interrogazione in commissione esteri nella quale chiede «se il Governo […] non ritenga opportuno, assumere iniziative per rivedere […] i termini delle forniture di materiali di armamento ai Paesi» impegnati nella guerra in Yemen. La replica di Di Stefano, oggi sottosegretario agli Esteri, non è stata incisiva e diretta quanto le sue osservazioni del 2016. Dopo un lungo ex-cursus sul ruolo del Cipe-Comitato interministeriale per la programmazione economica e su quello del ministero degli Esteri, il sottosegretario ha assicurato che «il Governo presterà particolare attenzione affinché tutte le richieste autorizzative di esportazione di materiale d’armamento continuino ad essere valutate con estrema attenzione e particolare rigore». In pratica il governo M5s-Lega continuerà a valutare le richieste esattamente come è accaduto fino a prima del suo insediamento (quando era guidato dal partito della Quartapelle). Il rischio che il commercio di bombe verso l’Arabia non venga fermato è concreto. Insomma, ancora una volta l’Italia pare non voglia prendere decisioni forti. «Le valutazioni avvengono in un quadro di concertazione fra Paesi Alleati ed UE, tenendo anche conto dei rapporti bilaterali e della cooperazione internazionale nella lotta al terrorismo», si legge ancora nella risposta di Di Stefano. Una risposta che, appunto, ricalca esattamente la linea del Governo Gentiloni, a suo tempo tanto osteggiata dal Movimento 5 stelle.
Sul punto è molto chiaro Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio permanente sulle armi leggere e politiche di sicurezza e difesa (Opal) di Brescia: «La posizione espressa dal sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano ripropone sostanzialmente quelle manifestate dai precedenti governi Renzi e Gentiloni», dice. «Si tratta di posizioni che nella precedente legislatura il M5S aveva duramente criticato dai banchi di Montecitorio chiedendo che venisse bloccata “l’esportazione di armi e articoli correlati prodotti in Italia o che transitino per l’Italia, destinati all’Arabia Saudita e a tutti i Paesi coinvolti nel conflitto armato in Yemen”, ed invitando il governo ad “assumere questa posizione anche in assenza di una formale dichiarazione di embargo sulle armi da parte delle organizzazioni internazionali». Insomma, un gioco delle parti, come lo definisce Maurizio Simoncelli, dell’Archivio per il Disarmo: «La risposta è talmente generica che lascia stupiti, considerando le battaglie che a suo tempo il Movimento ha sposato. Come del resto lascia stupiti che l’interrogazione sia stata presentata dalla Quartapelle che fino a poco tempo fa era in maggioranza».
Di «minuetto politico» parla anche il coordinatore della Rete italiana per il Disarmo, Francesco Vignarca, perché «se Di Stefano è passato da una posizione decisa sulla vendita di armi all’Arabia a una più morbida, è anche vero che quando noi nella scorsa legislatura chiedevamo lo stop al commercio armato, la Quartapelle e il Pd non ci hanno dato retta, hanno neutralizzato le nostre mozioni, spostandole sulla posizione che oggi Di Stefano ha riconfermato e cioè: “ragioniamo con l’Europa”. Il tanto agognato “cambiamento”, insomma, su questo fronte pare non esserci. O, meglio, c’è solo nello scambio di ruoli tra Pd e 5 stelle, come riflette ancora Beretta. «Nel novembre del 2016 – ricorda l’analista dell’Opal – i parlamentari del M5S membri delle commissioni Esteri e Difesa di Camera e Senato hanno depositato un esposto in Procura a Roma per chiedere alla magistratura di indagare sulle esportazioni di bombe dell’Italia all’Arabia Saudita, ipotizzando reati ministeriali da parte dei ministri Pinotti e Gentiloni. La recente risposta del sottosegretario è perciò quanto mai rilevante perché manifesta una radicale differenza rispetto alle posizioni sostenute dal M5S quando era all’opposizione: differenza di cui non posso non prendere atto, ma che il M5S dovrebbe spiegare ai suoi elettori e a tutti coloro che sono in attesa di vedere le novità del Governo del Cambiamento».
Non è detto, però, che una soluzione non possa arrivare, come spiega Vignarca. «Noi vorremmo lo stop immediato, ma la posizione di Di Stefano ricalca quella espressa in una mozione approvata dal Pd nell’ottobre 2017, ovvero impegnarsi a livello internazionale per risolvere la questione. Bene, ora fatelo». Il Pd a suo tempo non è mai andato al di là delle parole. Adesso, però, il governo giallo-verde potrebbe avere un’importante sponda a livello europeo considerando, sottolinea ancora Vignarca, che «nel contratto della Große Koalition, si parla chiaramente di stop alla vendita di armi all’Arabia Saudita». Insomma, tutto dipenderà dalla volontà politica di chi governa. Ieri come oggi. Intanto continuano a piovere bombe sui cittadini yemeniti. E la guerra va avanti.
«... voglio parlare per gli immigrati, per coloro che vivono tale condizione e per coloro che li ricevono. Voglio mostrare la dignità degli immigrati, della loro volontà di integrarsi in un altro paese, del loro coraggio, del loro spirito imprenditoriale, e non ultimo, per dimostrare come con le loro differenze ci arricchiscono. Voglio dimostrare che una vera famiglia umana può essere costruita solo su solidarietà e condivisione...» Sebastião Salgado a proposito del suo reportage sulle migrazioni.
Fonte: Immagine di Sebastião Salgado tratta dal suo libro Migrations (Aperture, 2000), che raccoglie sei anni di documentazione fotografica sulle più grandi migrazioni della terra, degli esodi di migliaia di persone a causa di guerre, povertà, carestie. Il testo è tratto da un intervista di Nancy Madlin a Sebastião Salgado nel novembre del 1999.
Effimera
Immigrazione e criminalità
È luogo comune e fa parte dei discorsi da bar il nesso inscindibile tra immigrazione e criminalità. Un nesso che viene per di più fomentato da dichiarazioni politiche. Tra le tante da cui siamo assediati in questo periodo, ci limitiamo a ricordarne alcune dei tre leader del centro-destra.
“L’aumento dell’insicurezza è dovuto al fatto che si è aggiunta la criminalità di 476mila immigrati che per mangiare devono delinquere. La prima cosa che svaligiano in una casa è il frigorifero e ciò è causato dal modo con cui il nostro Paese non ha saputo rispondere all’immigrazione” (Silvio Berlusconi a Domenica Live, 13 gennaio 2018).
“In un anno i reati compiuti da cittadini stranieri sono stati 250 mila: il 55% dei furti, il 51% dello sfruttamento della prostituzione, il 45% delle estorsioni, il 40% degli stupri, 1.500 stupri in un anno e l’Europa che fa?” (Matteo Salvini al Parlamento Europeo, 6 febbraio 2018).
“Penso sia legittimo dire che l’immigrazione incontrollata va regolata e c’è un problema tra l’immigrazione incontrollata e il problema sicurezza. Ma le istituzioni non possono fare le omertose sui reati degli immigrati” (Giorgia Meloni, Tagadà, 5 febbraio 2018)
La realtà dei dati è diversa. Secondo gli ultimi “numeri” forniti dalle forze di polizia all’autorità giudiziaria (quindi dal Viminale, il cui ministro è Matteo Salvini) e raccolti dall’Istat, nel periodo 2012-2016 (quello dell’emergenza sbarchi) gli omicidi sono calati da 528 a 400 (-24,2%), i tentati omicidi da 1327 a 1079 (-22,4%), le percosse da 15.659 a 13.819 (- 11,7%), le violenze sessuali da 4689 a 4046 (- 13,7%), lo sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione da 1306 a 948 (- 27,4%), i furti da 1.520.623 a 1.346.630 (- 11,4%), le rapine da 42.631 a 32.918 (- 22,7%), le contraffazioni di marchi e prodotti industriali da 8.920 a 7.755 (- 13,1%). I reati che sono invece aumentati riguardano invece la pedopornografia, l’uso di stupefacenti e i delitti informatici.
Non c’è, dunque, alcuna correlazione fra l’aumento degli stranieri e quello della criminalità. Dato che viene confermato anche da un’analisi di Michelangelo Alimenti che mostra come a fronte di un aumento del 71,18% di stranieri in 10 anni e addirittura di un +681,69% di richiedenti asilo, il numero di reati “attribuibili” a cittadini stranieri sia cresciuto solo del 2%.
Uno dei dati più citati da chi sostiene che gli stranieri compiono più reati degli italiani riguarda la composizione della popolazione carceraria. Negli ultimi anni più o meno un terzo delle persone detenute nelle prigioni italiane è stabilmente di origine straniera, soprattutto extracomunitaria (nel 2016, il 33,8% contro una quota di migranti sulla popolazione di circa il 10%). Uno studio del 2016 di Francesco Palazzo, docente di Diritto penale all’università di Firenze, afferma però di considerare tale dato come fuorviante per analizzare il rapporto fra immigrazione e criminalità. Il motivo è semplice: i detenuti italiani possono accedere molto più facilmente a forme di pena alternativa degli stranieri. Nella prima metà del 2016 sono stati approvati in tutto 19.128 affidamenti in prova ai servizi sociali, di cui solamente 2.722 a detenuti stranieri (circa il 14 per cento). Nello stesso periodo di tempo, la detenzione domiciliare – cioè la possibilità di scontare l’ultima parte della pena a casa propria – è stata concessa a 14.136 detenuti italiani e solamente a 3.306 stranieri. Correggendo questa distorsione, la propensione a “delinquere” degli stranieri è in linea con quella degli italiani, nonostante che in galera ci vadano – come è noto – le persone più povere e svantaggiate (e quindi sarebbe lecito aspettarsi comunque una quota maggiore degli stranieri).
Da notare, infine, che sul tema del rapporto tra immigrazione e criminalità, nel 2012 è stato pubblicato dal Journal of European Economic Association uno studio di tre ricercatori della Banca d’Italia, Milo Bianchi, Paolo Buonanno e Paolo Pinotti, che arriva alla seguente conclusione:
“According to the estimates, immigration increases only the incidence of robberies, while leaving unaffected all other types of crime. Since robberies represent a very minor fraction of all criminal offenses, the effect (of immigration, ndr.) on the overall crime rate is not significantly different from zero”[1].
Immigrazione, previdenza, bilancio pubblico e Pil
Nelle ultime settimane, si è scatenata una polemica tra l’onnipresente Matteo Savini e il presidente dell’Inps, Tito Boeri. Al riguardo, ci limitiamo a fornire alcuni dati:
Per quanto riguarda il bilancio Inps, l’immigrazione è una vera manna. Su 16 milioni di pensionati, gli stranieri sono circa 130mila (80mila pensioni contributive e 50mila pensioni assistenziali), meno dell’1% del totale, per un importo di spesa pari a circa 800 milioni di euro (2015). Di converso, i circa 2,4 milioni di migranti occupati regolarmente versano nella casse previdenziali contributi per un valore al 2015 di circa 11,5 miliardi di euro. Il surplus per le casse dell’Inps è quindi di circa 10, 7 miliardi di euro, un flusso di cassa rilevante anche per il pagamento delle pensioni di oggi. Inoltre, occorre considerare che l’87,6% dei lavoratori stranieri vedrà la propria pensione interamente calcolata con il metodo contributivo. E occorre aggiungere che non tutti vi accederanno: spesso, infatti – come sottolinea il rapporto “La dimensione internazionale delle migrazioni” della Fondazione Leone Moressa – questo non avviene: si stima infatti che negli ultimi anni gli immigrati abbiano lasciato nelle casse dell’Istituto circa 3 miliardi di euro di contributi versati, per prestazioni cui avrebbero avuto diritto se fossero rimasti in Italia.
Da un punto di vista economico, il buon senso ci dovrebbe consigliare che favorire flussi migratori in grado di regolarizzarsi nel più breve tempo possibile (ad esempio, tramite sanatorie, come già avvenuto, con successo, in passato) produce effetti più che positivi sia per l’economia italiana che per i conti pubblici. Esattamente l’opposto di quanto la mala informazione vuole farci credere.
Emigrazioni e immigrazioni
Negli ultimi 12 mesi sono sbarcati in Italia 52.000 stranieri. Ma, in contemporanea sono partiti per la sola Germania, 65.000 italiani (il 25% in più degli sbarchi). Se tutti i media sono concentrati sull’immigrazione, quasi nessuno si sta rendendo conto dell’aumento dell’emigrazione, in un paese che nel periodo tra 1876 e il 1976, ha registrato circa 26 milioni di espatri, originando quello che è stato definito “the largest exodus of people ever recorded from a single nation”[2].
Nel 2016 si sono registrate quasi 160 mila cancellazioni anagrafiche per l’estero. In generale le emigrazioni sono per lo più di cittadini italiani (nel 2016 se ne contano 114 mila, 73%).
Le mete di destinazione sono prevalentemente i Paesi dell’Europa occidentale: Regno Unito (22,0 per cento), Germania (16,5 per cento), Svizzera (10,0 per cento) e Francia (9,5 per cento), i quali accolgono più della metà delle cancellazioni per l’estero. Le province per le quali si registrano i tassi di emigrazione più alti si trovano nel Nord (Bolzano, Vicenza, Mantova, Imperia e Trieste) e in Sicilia (Agrigento, Catania, Caltanissetta ed Enna).
Molti italiani con alto livello di istruzione lasciano il Paese, pochi vi fanno ritorno. Selezionando i migranti italiani con più di 24 anni, nel corso del 2016 si ottiene un saldo migratorio con l’estero di circa 54 mila unità, di cui circa 15 mila hanno almeno la laurea. La fascia d’età in cui si registra la perdita più marcata è quella dei giovani dai 25 ai 39 anni (circa 38 mila unità in meno) e, tra questi, quasi il 30% è in possesso di un titolo universitario o post-universitario. La giovane età di questi emigrati testimonia la difficoltà dell’Italia nel trattenere competenze e professionalità.
Si tratta in ogni caso di dati sottostimati, ovvero della punta di un iceberg. Una ricercacongiunta condotta nel 2016 da Idos e dall’Istituto di Studi Politici “S. Pio V” sulla base di dati Ocse spiega che rispetto ai dati dello Statistisches Bundesamt tedesco e del registro previdenziale britannico (National Insurance Number), le cancellazioni anagrafiche rilevate in Italia rappresentano appena un terzo degli italiani effettivamente iscritti. Pertanto, i dati dell’Istat sui trasferimenti all’estero dovrebbero essere aumentati almeno di 2,5 volte e di conseguenza nel 2016 si passerebbe da 114.000 cancellazioni a 285.000 trasferimenti all’estero, un livello pari ai flussi dell’immediato dopoguerra e a quelli di fine Ottocento.
Ogni emigrazione rende vano l’investimento sociale effettuato sulla persona: 90.000 euro un diplomato, 158.000 o 170.000 un laureato (rispettivamente laurea triennale o magistrale) e 228.000 un dottore di ricerca. Nel corso del 2016, il costo dell’emigrazione è stato quindi stimabile in 3,510 miliardi di euro per i 39.000 diplomati, 5,440 miliardi per i 34.000 laureati. Una perdita di circa 10 miliardi di euro che non può essere compensato dal saldo positivo dell’immigrazione, che abbiamo visto essere pari a 1,4 miliardi.
Proprio guardando a questi dati, si stima che in Italia la popolazione residente attesa sia pari, secondo lo scenario mediano, a 59 milioni nel 2045 e a 54,1 milioni nel 2065 (dati dell’ultimo report dell’Istat, diffuso il 3 maggio 2018). La flessione rispetto al 2017 (60,6 milioni) sarebbe pari a 1,6 milioni di residenti nel 2045 e a 6,5 milioni nel 2065. Si tratta di uno scenario preoccupante che altera ulteriormente il rapporto intergenerazionale, la cui distorsione potrebbe essere compensata oltre che dalla regolarizzazione dei migranti (che hanno un’età media di 10 anni inferiore a quella degli italiani) anche da politiche che favoriscano la permanenza in loco delle generazioni più giovani.
A guisa di conclusione…
Sul tema dell’immigrazioni si gioca il futuro democratico ed economico di questo pese. La disinformazione regna sovrana, alimentata ad arte da una strategia comunicativa potente quanto rozza nella sua semplicità di attizzare comportamenti utilitaristici e opportunistici.
Al riguardo è interessante uno studio condotto da Alberto Alesina, Armando Miano e Stefanie Stantcheva (università di Haward) che ha indagato lo stato dell’informazione e delle opinioni di europei e americani sugli immigrati dei loro paesi, tramite un campione di circa 23.000 nativi in sei nazioni, Francia, Germania, Italia Regno Unito, Stati Uniti, Svezia. In primo luogo, la presenza degli immigrata è sovrastimata sino a essere considerata tre volte quella reale. In Italia, la disinformazione fa ritenere che gli immigrati siano circa il 30% della popolazione quando nella realtà sono meno del 10% (la quota più bassa tra i 6 paesi considerati nello studio). Un dato in linea anche con un’analoga ricerca condotta da Ipsos nel 2017. Inoltre gli italiani pensano che il 50% degli immigrati sia musulmano, quando sono in realtà il 30%. E sono ben il 60% quelli di fede cristiana, mentre gli italiani pensano che siano meno del 30%. Ma c’è di più. Gli italiani ritengono che il 40% degli immigrati sia disoccupato, così da essere concorrenti agli italiani sul mercato del lavoro (“ci portano via il posto di lavoro”) oltre che pesare sulla spesa sociale. Il dato esatto è che poco più del 10% degli immigrati è disoccupato, un valore in linea, se non inferiore, con quello dei nativi.
Ma il dato più interessante di questo studio è il seguente: il campione è stato diviso in due parti. Alla prima parte sono state rivolte delle domande inerenti prima l’immigrazione e successivamente lo stato sociale e la redistribuzione del reddito. Per la seconda metà del campione, l’ordine delle domande è stato invertito.
I primi, con il tema degli immigrati in mente, si sono dimostrati più avversi allo stato sociale rispetto a coloro che prima hanno risposto alle domanda sullo stato sociale e solo dopo ai temi relativi all’immigrazione. Sembra cioè che i nativi siano più generosi con i nativi ma non con i “diversi, ovvero gli immigrati.
Tale comportamento dipende dalla carenza di informazioni corrette sul fenomeno migratorio, il cui peso viene enfatizzato volutamente proprio per favorire e alimentare reazioni di tipo xenofobo. Ne è controprova il fatto che quella parte del campione che è stata correttamente informata sul numero degli immigrati e sulla loro origine, ha manifestato un deciso calo nelle posizioni anti immigrati. Ovvero, gran parte dei sentimenti anti immigrati deriva da percezioni errate.
Possiamo provare a trarre allora due insegnamenti. Primo: abbiamo bisogno di una forte e costante informazione (a qualcuno piace chiamarla contro-informazione ma tocca partire dalla assenza di informazione). Il paradosso (non casuale) è che in tempi di trionfo della comunicazione come leva e processo di valorizzazione, l’esigenza di (buona) informazionesembra meno sentita o fa più fatica a diffondersi. Più facilmente si diffondono le fake news.
Secondo: il sentimento anti-immigrati è figlio di questa non-conoscenza che facilita la sedimentazione di una cultura razzista, dentro uno strutturato disegno di dominio. La maggior parte delle persone rischiano di diventare facile preda di questo processo. A maggior ragione – come sempre – la diffusione di una corretta informazione è socialmente e politicamente vitale.
Note
[1] Trad. it.: “Secondo le stime, l’immigrazione aumenta solo l’incidenza delle rapine, lasciando inalterati tutti gli altri tipi di crimine. Dal momento che le rapine rappresentano una minima parte di tutti i reati penali, l’effetto (dell’immigrazione, ndr.) sul tasso complessivo di criminalità non è significativamente diverso da zero”.
[2] Thomas Sowell, Ethnic America, Basic book, New York, Usa, 2009, cap. 5. Trad. it.: “il più grande esodo che si sia mai verificato in un unico paese”.
Il 10 luglio sulla prima pagina del Fatto quotidiano il direttore Marco Travaglio ha firmato un editoriale dal titolo “Sotto la maglietta” su una delle questioni più delicate e più strumentalizzate dalla politica italiana degli ultimi anni: l’immigrazione lungo la rotta del Mediterraneo centrale. Travaglio torna a parlare del ruolo delle ong preoccupato che “decine di amici” del suo giornale abbiano deciso d’indossare una maglietta rossa per aderire all’iniziativa lanciata con lo slogan “Fermare l’emorragia di umanità” dal fondatore di Libera don Luigi Ciotti, dopo la chiusura dei porti alle navi delle ong e la morte di centinaia di persone davanti alla Libia.
Travaglio sostiene che ci sia un legame “ormai acclarato” e “rivendicato” tra le ong e i trafficanti libici, ma questa affermazione ha suscitato molto sconcerto in giornalisti ed esperti della materia. “Per interesse personale e professionale avrei bisogno di sapere nel dettaglio ‘acclarato’ da chi e ‘rivendicato’ da chi”, ha chiesto su Twitter il giornalista e conduttore televisivo Diego Bianchi, interpretando i dubbi di molti. La domanda è legittima visto che le numerose indagini che sono state aperte dalle procure siciliane su presunti contatti tra scafisti (e non trafficanti) e navi umanitarie non hanno portato a nessun rinvio a giudizio. Anzi la procura di Palermo ha recentemente archiviato un’indagine su presunte connivenze tra due ong (Sea Watch e Open Arms) e gli scafisti. La notizia è stata riportata anche dal Fatto.
Travaglio ha risposto a Bianchi in un altro editoriale citando come prova “acclarata” alcune intercettazioni che sono state acquisite dalla procura di Trapani nell’ambito di un’indagine contro l’ong tedesca Jugend Rettet. L’indagine, in corso da un anno, non ha ancora portato all’apertura di alcun processo e dunque a nessun dibattimento e a nessuna condanna. Ma per il direttore del Fatto l’indagine ha già dimostrato che le ong hanno avuto contatti con i trafficanti per delle “consegne pattuite” di migranti, come sostenuto dall’accusa.
La tesi della procura di Trapani è stata messa in discussione, inoltre, dal gruppo di oceanografia forense Forensic Architecture della Goldsmiths sulla base dei video e degli audio raccolti dall’equipaggio, delle informazioni registrate nel diario di bordo della Iuventa di Jugend Rettet, delle comunicazioni con la centrale operativa della guardia costiera italiana e delle immagini scattate dai giornalisti a bordo della nave tedesca e di altre imbarcazioni impegnate nei soccorsi. Il giornalista Andrea Palladino ripercorre tutti i punti oscuri dell’indagine della procura di Trapani, mossa dalla denuncia di due agenti della sicurezza privata imbarcati sulla nave Vos Hestia di Save the children. Avevamo parlato delle accuse contro la Jugend Rettet qui e dei video di Forensic Architecture qui.
Un’altra affermazione fatta da Travaglio è che le navi delle ong siano un incentivo per le partenze di migranti. “Le ong agiscono anche con le migliori intenzioni come pull factor (fattore di attrazione) che rende i viaggi meno costosi e rischiosi”. Ma questa accusa (già rivolta anche alla missione militare del governo italiano Mare nostrum nel 2013) è stata smentita da più di uno studio. Matteo Villa, ricercatore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), aveva spiegato che un’attenta e approfondita analisi dei dati aveva fatto emergere la fallacia di questa suggestiva affermazione: “I dati mostrano che tra il 2015 e oggi le attività delle ong non hanno fatto da pull factor e non sono correlate con l’aumento dei flussi. Che le ong operassero in mare o meno, i flussi non ne erano influenzati”.
Un’analisi simile era stata pubblicata nel giugno del 2017 da Lorenzo Pezzani e Charles Heller della Forensic oceanography del Goldsmiths college dell’università di Londra. L’analisi di Heller e Pezzani ha dimostrato che un aumento degli arrivi era già stato registrato nel biennio 2014-2015, quando ancora non c’erano navi delle organizzazioni umanitarie davanti alle coste libiche. Questo elemento è stato in parte riconosciuto dalla stessa Frontex, che nel documento Annual risk analysis 2017 aveva scritto: “Il Mediterraneo centrale è diventato la rotta principale dei migranti africani verso l’Europa e per lungo tempo sarà così”.
Secondo Pezzani e Heller, il numero degli arrivi era aumentato prima che le ong lanciassero le loro missioni di soccorso e questo dimostra l’assenza di un nesso di causalità tra i due eventi. Nel 2017, inoltre, sono aumentate del 46 per cento le traversate verso l’Europa dal Marocco, in un tratto di mare che non è pattugliato da navi umanitarie. Le principali cause dell’aumento delle traversate verso l’Europa sarebbero l’aggravarsi del conflitto in Libia e in generale la presenza di forti fattori di spinta (push factor) come conflitti, dittature, cambiamenti climatici, pressione demografica. Infine, quando la missione militare di ricerca e soccorso Mare nostrum è stata interrotta, alla fine del 2014, non si sono fermati gli arrivi, anzi nei primi mesi del 2015 sono aumentati, anche se non c’erano imbarcazioni di soccorso in quel tratto di mare.
Il 10 luglio sulla prima pagina del Fatto quotidiano il direttore Marco Travaglio ha firmato un editoriale dal titolo “Sotto la maglietta” su una delle questioni più delicate e più strumentalizzate dalla politica italiana degli ultimi anni: l’immigrazione lungo la rotta del Mediterraneo centrale. Travaglio torna a parlare del ruolo delle ong preoccupato che “decine di amici” del suo giornale abbiano deciso d’indossare una maglietta rossa per aderire all’iniziativa lanciata con lo slogan “Fermare l’emorragia di umanità” dal fondatore di Libera don Luigi Ciotti, dopo la chiusura dei porti alle navi delle ong e la morte di centinaia di persone davanti alla Libia.
Travaglio sostiene che ci sia un legame “ormai acclarato” e “rivendicato” tra le ong e i trafficanti libici, ma questa affermazione ha suscitato molto sconcerto in giornalisti ed esperti della materia. “Per interesse personale e professionale avrei bisogno di sapere nel dettaglio ‘acclarato’ da chi e ‘rivendicato’ da chi”, ha chiesto su Twitter il giornalista e conduttore televisivo Diego Bianchi, interpretando i dubbi di molti. La domanda è legittima visto che le numerose indagini che sono state aperte dalle procure siciliane su presunti contatti tra scafisti (e non trafficanti) e navi umanitarie non hanno portato a nessun rinvio a giudizio. Anzi la procura di Palermo ha recentemente archiviato un’indagine su presunte connivenze tra due ong (Sea Watch e Open Arms) e gli scafisti. La notizia è stata riportata anche dal Fatto.
Travaglio ha risposto a Bianchi in un altro editoriale citando come prova “acclarata” alcune intercettazioni che sono state acquisite dalla procura di Trapani nell’ambito di un’indagine contro l’ong tedesca Jugend Rettet. L’indagine, in corso da un anno, non ha ancora portato all’apertura di alcun processo e dunque a nessun dibattimento e a nessuna condanna. Ma per il direttore del Fatto l’indagine ha già dimostrato che le ong hanno avuto contatti con i trafficanti per delle “consegne pattuite” di migranti, come sostenuto dall’accusa.
La tesi della procura di Trapani è stata messa in discussione, inoltre, dal gruppo di oceanografia forense Forensic Architecture della Goldsmiths sulla base dei video e degli audio raccolti dall’equipaggio, delle informazioni registrate nel diario di bordo della Iuventa di Jugend Rettet, delle comunicazioni con la centrale operativa della guardia costiera italiana e delle immagini scattate dai giornalisti a bordo della nave tedesca e di altre imbarcazioni impegnate nei soccorsi. Il giornalista Andrea Palladino ripercorre tutti i punti oscuri dell’indagine della procura di Trapani, mossa dalla denuncia di due agenti della sicurezza privata imbarcati sulla nave Vos Hestia di Save the children. Avevamo parlato delle accuse contro la Jugend Rettet qui e dei video di Forensic Architecture qui.
Un’analisi simile era stata pubblicata nel giugno del 2017 da Lorenzo Pezzani e Charles Heller della Forensic oceanography del Goldsmiths college dell’università di Londra. L’analisi di Heller e Pezzani ha dimostrato che un aumento degli arrivi era già stato registrato nel biennio 2014-2015, quando ancora non c’erano navi delle organizzazioni umanitarie davanti alle coste libiche. Questo elemento è stato in parte riconosciuto dalla stessa Frontex, che nel documento Annual risk analysis 2017 aveva scritto: “Il Mediterraneo centrale è diventato la rotta principale dei migranti africani verso l’Europa e per lungo tempo sarà così”.
Secondo Pezzani e Heller, il numero degli arrivi era aumentato prima che le ong lanciassero le loro missioni di soccorso e questo dimostra l’assenza di un nesso di causalità tra i due eventi. Nel 2017, inoltre, sono aumentate del 46 per cento le traversate verso l’Europa dal Marocco, in un tratto di mare che non è pattugliato da navi umanitarie. Le principali cause dell’aumento delle traversate verso l’Europa sarebbero l’aggravarsi del conflitto in Libia e in generale la presenza di forti fattori di spinta (push factor) come conflitti, dittature, cambiamenti climatici, pressione demografica. Infine, quando la missione militare di ricerca e soccorso Mare nostrum è stata interrotta, alla fine del 2014, non si sono fermati gli arrivi, anzi nei primi mesi del 2015 sono aumentati, anche se non c’erano imbarcazioni di soccorso in quel tratto di mare.
I morti e gli sbarchi
Secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), il dato in meno di un mese è più che raddoppiato. Matteo Villa ha elaborato i dati dell’Unhcr e dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim) sulle morti registrate in relazione alle partenze dalla Libia e ha stabilito che dal 1 giugno la rotta del Mediterraneo è diventata la più pericolosa al mondo: “Muore una persona ogni dieci”.
Un dato allarmante che riporta il tasso di mortalità e il numero assoluto dei morti ai livelli di quelli registrati prima della riduzione delle partenze nel luglio del 2017. “Dopo la repentina diminuzione delle partenze dal 16 luglio 2017, il numero assoluto dei morti e dei dispersi si è ridotto, ma ora siamo tornati incredibilmente ai livelli di prima”, afferma Villa.
Secondo il ricercatore, questo fattore è legato a tre elementi: “Le ong sono coinvolte sempre di meno nei salvataggi, i mercantili non intervengono perché temono di essere bloccati per giorni in attesa di avere indicazioni sul porto di sbarco (come è successo al cargo danese Maersk) e la guardia costiera libica non ha né i mezzi né la competenza per occuparsi dei salvataggi”.
La distruzione dei barconi
Inoltre non è vero come dice Travaglio in un secondo editoriale pubblicato l’11 luglio “che i barconi devono essere distrutti per legge”. Nessuna legge impone alle ong di distruggere i gommoni vuoti. Nonostante questo molti soccorritori dopo aver trasferito al sicuro i migranti avevano l’abitudine di affondarli o distruggerli per evitare che i trafficanti li recuperassero. Il codice di condotta imposto dal governo alle ong nel luglio del 2017 chiedeva alle organizzazioni di recuperare ove possibile le imbarcazioni e i motori e di consegnarle o segnalarle alle navi militari nella zona. Ma il codice di condotta ha un valore pattizio, non è una legge dello stato.
La Libia e il traffico di esseri umani
“In Libia l’Oim stima la presenza di 700mila migranti, presenza non significa pronti-a-partire, dato che semplicemente non esiste. Come il direttore Travaglio può facilmente verificare sulle statistiche di Unhcr le persone presenti nei centri di detenzione ufficiali – cioè gestiti dall’ufficio anti immigrazione clandestina del ministero dell’interno libico – sono circa 30mila”, ha scritto Mannocchi su Facebook.
Nel suo editoriale infine Travaglio dice che comunque la priorità dovrebbe essere quella della lotta ai trafficanti di esseri umani, che definisce “i veri responsabili”. A questo proposito il giornalista Lorenzo Bagnoli, che è esperto di questi temi e ha scritto molti pezzi proprio per il Fatto, ha contestato il direttore definendo “pietoso che in tutta questa retorica della lotta ai trafficanti non si ricordi mai che l’unico ‘boss’ che si pensa in carcere, Yedahego Medhanie Mered, in realtà sia ancora libero”.
Bagnoli ha argomentato dicendo che “non sappiamo ancora niente dei trafficanti. Non sappiamo nemmeno se esiste una ‘cupola’ davvero oppure no. Siamo maledettamente indietro su questa tipologia d’indagini. Il potere dei trafficanti non è come quello delle mafie italiane. Non è così ancestrale, è cambiato con il mutare delle migrazioni. Non c’è l’ideologia dell’anti-stato contro lo stato. Forse bisogna dirselo quando si paragonano le mafie italiane con quelle libiche”. Di questo ha scritto approfonditamente il giornalista Lorenzo Tondo sul Guardian e il giornalista Ben Taub sul New Yorker.
il manifesto, 11 luglio 2018. Se una causa è giusta, se comporta la vita o la morte di milioni di persone, , non basta manifestare solidarietà alle vittime, occorre mettere in gioco se stessi.
Se si vuole manifes7are davvero la solidarietà da chi cerca rifugio, se si pensa che non basta firmare o promuovere appelli, bisogna dimostrare che si è capaci di pagare un prezzo per una causa sacrosanta come è quella di lasciare aperti i porti e tendere le proprie mano per accogliere chi è costretto a fuggire. È ciò che ha deciso un gruppo di religiosi e religiose protestando davanti al Parlamento con un presidio permanente e tre giorno consecutivi di digiuno a rotazione. Ne informa Luca Kocci qui di sguitoAnche eddyburg sta valutando le modalità della sua partecipazione all’iniziativa(e.s.)
Il manifesto, 11 luglio 2018
“Digiuno di giustizia” in marcia a Roma
«Disobbedienza civile, basta tacere»
di Luca Kocci
Non possiamo accettare in silenzio queste politiche contro i migranti che sono un insulto alla civiltà e all’umanità. Ecco perché siamo qui». Così il missionario comboniano Alex Zanotelli spiega il senso del «Digiuno di giustizia in solidarietà con i migranti», promosso insieme all’ex vescovo di Caserta Raffaele Nogaro, a don Alessandro Santoro della Comunità delle Piagge di Firenze, a suor Rita Giaretta delle orsoline di Casa Ruth di Caserta (che lavorano con le donne vittime di tratta e di sfruttamento sessuale) e al sacramentino Giorgio Ghezzi di Castel Volturno.
Alle sue spalle c’è il cupolone e piazza San Pietro, attraversata dai turisti incuriositi da quello che sta succedendo. Una cinquantina di persone fra cui diversi religiose e religiosi – non tantissime, ma non erano attesi i grandi numeri – in cerchio oltre le transenne che delimitano il colonnato del Bernini (ordine della polizia) attorno ad una lampada accesa inviata dai francescani di Assisi, assenti ma aderenti all’iniziativa.
Arrivano gli scout di Caserta che aprono lo striscione («Digiuno di giustizia»). «Digiuniamo perché il digiuno è uno degli strumenti della resistenza nonviolenta», aggiunge Zanotelli, «contestiamo gli slogan “America first” o “Prima gli italiani”, c’è spazio per tutti». «È un tentativo di risvegliare le coscienze dei cristiani, e non solo», spiega Santoro, «c’è un silenzio che spaventa, invece ci vorrebbe un tuono che lo spezzi e denunci queste politiche».
Il piccolo corteo si muove lungo via della Conciliazione, “scortato” da qualche agente in borghese: non si sa mai ci sia qualche pericoloso sovversivo infiltrato! Ci sono diverse suore (comboniane, orsoline, di santa Giovanna Antida Thouret), alcuni religiosi, aderenti alla Comunità di base di San Paolo (che in questi giorni ricorda Giovanni Franzoni ad un anno dalla morte) e alla Rete Radié Resch, c’è Vauro. «Nel Mediterraneo e nel Sahara si sta consumando un olocausto, fra l’indifferenza, la complicità e a volte anche il consenso di molti – ci dice Vauro – un crimine contro l’umanità che bisogna denunciare e combattere, cattolici e uomini e donne di sinistra insieme, mettendo da parte differenze e distinzioni».
Si supera il Tevere, si cammina – sul marciapiede – lungo corso Vittorio Emanuele, fino a piazza Navona. Di fronte a Palazzo Madama gli scout provano ad aprire lo striscione, subito fermati dai solerti rappresentanti delle forze dell’ordine: «Non si può, è vietato!». Si arriva a piazza Montecitorio dove si forma il piccolo presidio, questo autorizzato. Don Santoro legge l’appello: «Sono oltre 34mila le vittime accertate perite nel Mediterraneo per le politiche restrittive della Fortezza Europa», «è il naufragio dei migranti, dei poveri, dei disperati, ma è anche il naufragio dell’Europa che rifiuta chi bussa alla sua porta» e dell’Italia che «decide di non accogliere, di chiudere i porti», «è il sangue degli impoveriti, degli ultimi che interpella tutti noi, in particolare noi cristiani che saremo giudicati su: ero straniero e non mi avete accolto».
Suor Gabiella Bottani, comboniana, coordinatrice della rete mondiale delle religiose contro la tratta: «La chiusura delle frontiere è motivata con l’obiettivo di combattere la tratta. Invece la alimenta, perché lasciando donne e uomini nell’irregolarità si favoriscono le organizzazioni criminali che li sfruttano». Il presidente di Pax Christi, monsignor Giovanni Ricchiuti, telefona e comunica l’adesione di Pax Christi. Uno dei promotori, monsignor Nogaro (assente per ragioni di salute) spiega al manifesto: «Abbandonare i migranti in mare è un abuso di umanità che questo governo sta compiendo, bisogna organizzare una disobbedienza civile, non si può più tacere».
In serata il presidio si scioglie. Oggi si riprende con il digiuno a staffetta, a cui hanno aderito in molti. «I rappresentanti del governo – dice Santoro – hanno giurato sulla Costituzione della Repubblica ma il giorno dopo, con i respingimenti, hanno violato quel giuramento. Sarebbe bello se il ministro Salvini venisse qui in piazza a confrontarsi con noi». Salvini, però, non si è fatto vedere.
Alla fine è stato autorizzato lo sbarco degli ultimi migranti recuperati in mare. Permesso dato solo perchè l'equipaggio della Von Thalassa che li aveva salvati sembra sia stato messo in pericolo di vita. Rimane intatta la posizione del governo: porti chiusi! (a.b.)
Di fronte all'ondata migratoria presente non bisogna dimenticare che gli italiani sono stati essi stessi degli emigranti e che le migrazioni sono eventi che hanno sempre arricchito le regioni verso le quali si sono dirette.
Riprendiamo due testi originariamente pubblicati tra il dicembre 2015 e il gennaio 2016, senza modifiche, salvo nuovi sottotitoli.
ll primato dell’emigrazione italiana
Quando alla fine del 1974 apparve il fascicolo monografico (nn. 11-12) del mensile «Il Ponte» dal titolo Emigrazione cento anni 26 milioni, sembrò prudente manifestare incredulità davanti alle cifre pubblicate. L’incipit nell’introduzione del direttore Enzo Enriques Agnoletti anticipava seccamente le verità che i numerosi saggi del volume avrebbero dimostrato e che i politici al governo e i ceti dominanti avrebbero preferito tener nascosta o fingere fosse normale vicenda riguardante l’economia mondiale e tutti i popoli: «dall’unità d’Italia non meno di ventisei milioni d’Italiani hanno abbandonato definitivamente il nostro paese. È un fenomeno che per vastità, costanza e caratteristiche non trova riscontro nella storia moderna di nessun altro popolo». Non meno impressionanti i dati presentati nel saggio di Paolo Cinanni, presidente della Filef (Federazione italiana lavoratori emigrati e famiglie).
Migrazioni interne e sfruttamento operaio
Come non commuoversi dinanzi a tante tragedie e non ragionare sulle loro cause? D’altra parte, come dimenticare che una nuova popolazione è riuscita a insediarsi qui, a lavorare, a produrre reddito, a contribuire al bilancio attivo nazionale e a ripianare il preoccupante deficit demografico italiano? Quattro milioni e mezzo di persone. Non abbiamo fatto nulla per sostenerne la vitalità, in primo luogo nella ricerca di abitazioni dignitose. Così accettiamo, esempio noto e crudele, il «modo di abitare» senza casa e persino senza baracca dei raccoglitori di frutta nelle regioni meridionali…Poi sopportiamo i Salvini, i Borghezio, i Maroni… e consistenti gruppi di concittadini organizzati in formazioni fascistoidi, xenofobe e razziste che, oltre a manifestare sentimenti di puro odio, falsificano la realtà sociale per ricavarne consenso; sanno infatti che fuori dei loro movimenti una parte dell’opinione pubblica, incolta e perciò propensa a tener per veri luoghi comuni fritti e rifritti sugli stranieri, si presenta come un campo fertile per seminarvi i loro criminosi principi e le loro eversive proposte politiche.
Eppure, al tempo delle grandi migrazioni interne, mai cessate dal dopoguerra ma di portata eccezionale negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, provenienza prevalente – a parte i vicinati regionali – dal meridione e, all’inizio, anche dal Veneto, destinazione il Triangolo industriale, certi comportamenti di istituzioni e di italiani verso italiani potremmo considerarli batteri di una malattia sorta lì, in seguito rimasta latente e riesplosa ai nostri giorni. La realtà e il mito di Piemonte, Lombardia e Liguria, di Torino, Milano e Genova furono richiamo talmente potente da permettere illimitata libertà di sfruttamento in ogni senso del bisogno di lavoro e di abitazione che masse di povera gente sradicata dalle loro terre esprimevano con umiltà e sottomissione. A questo riguardo assumiamo la città di Torino degli undici anni dal 1951 al 1961 (studiata nei corsi di urbanistica insieme con altri contesti nei primi anni Settanta) come maggiormente rappresentativa, simbolo di un’epoca che, per alcuni aspetti e per tutt’altre cause, sembra riprodursi oggi in diverse aree del paese, come fosse una contorsione della nostra storia sociale.
Il caso torinese
Torino simbolo dal momento in cui ne fu raffigurazione la Fiat, industria-richiamo come nessun’altra per tanti connazionali, anche se non era l’azienda a dare lavoro a tutti: «l’importante era essere vicino al benessere, nella città delle prospettive mirabolanti, lontani dalla fame e dalla miseria» (C. Canteri, Immigrati a Torino, Ed. Avanti, 1964). Il lavoro si trovava per lo più nelle fabbriche che vivevano grazie a essa o nei cantieri edili o in una falsa «cooperativa» di facchinaggio, oppure attraverso diffusi racket delle braccia. Intanto gli immigrati che non fossero piemontesi provenienti dalle campagne o dalle valli (aiutati dai parenti torinesi) dovevano scontrarsi con una legge fascista del ’39 avversa all’urbanesimo che sarà abolita solo nel 1960: per avere un lavoro occorreva possedere una residenza, per ottenere la residenza bisognava avere un lavoro; allora si registravano come lavoratori in proprio, ossia come «soci» di quelle pseudo-cooperative che li avviavano ai posti di una qualsiasi occupazione teoricamente stabile taglieggiandoli pesantemente sul salario. E oggi in Italia, se raggiungere la residenza avendo un recapito non è troppo difficile, purché non la si richieda in comuni amministrati da sindaci leghisti, razzisti, neofascisti e similari, è di fatto impossibile conquistare la cittadinanza.
Non diversa era la condizione degli operai utilizzati all’interno degli stabilimenti di Fiat ma non da questa dipendenti. Erano le organizzazioni cui il lavoratore «si affiliava», dette «enti di offerta di lavoro», ad appaltare ogni genere di opere che la fabbrica, ormai avviata a una produzione di massa, aveva convenienza a non esercitare in proprio. L’azienda pagava all’ente per ogni operaio cifre inferiori anche del 50% agli oneri complessivi sopportati per il dipendente regolare. Che cosa fanno oggi le poche fabbriche sopravvissute alla deindustrializzazione del paese se non accettare al loro interno operai estranei all’azienda e ricadenti nel «lavoro somministrato»? Così la Fiat mentre da un lato propagandava una prospettiva di benessere per tutti da un altro accompagnava minimi spunti riformisti con politiche duramente discriminatorie. A queste apparteneva anche la piaga della raccomandazione al padrone attraverso i parroci, che potevano avviare a un posto fisso gli iscritti ai loro elenchi partecipanti in qualche modo alla vita della parrocchia. Uno sguardo all’intera città all’inizio degli anni Sessanta rivelava che la condizione professionale degli immigrati era comunque ai livelli più bassi: circa due terzi manovali comuni, 30% ambulanti e artigiani, pochissimi operai specializzati. Eppure molti di loro dopo anni e anni di esperienza non erano più impreparata forza lavoro idonea solo alle prestazioni più mortificanti e magari pericolose.
Lavoro e casa, uguale discriminazione
Discriminati e sfruttati sul lavoro, discriminati sfruttati e ricattati per la casa. Vent’anni di cronache quotidiane mostrarono che Torino non ebbe eguali nella speculazione sulle spalle degli immigrati, nuova popolazione giovane di cui la città aveva pur bisogno per produrre e riprodursi. La classe dirigente torinese le offrì una gamma di possibilità abitative vergognosa: stalle dismesse ai confini del comune con la campagna, soffitte degradate prive di ogni dotazione igienica nel vecchio centro o nei trascurati quartieri operai tradizionali, «case alloggio» invece sudici dormitori in cui si affittava il posto branda, talvolta a rotazione secondo il susseguirsi dei turni lavorativi di otto ore; infine le bidonville da cui le famiglie furono sgombrate con la forza al momento delle celebrazioni del primo centenario dell’unità, per essere cacciate nelle «casermette» prima adibite a ricovero dei sinistrati. Nel caso dell’alloggio decente e di un salario sicuro l’affitto ne sottraeva un quarto se proveniente dall’impiego in Fiat ma fino a metà se guadagnato in aziende piccole o comunque sottoposte alla grande madre.
Il 1969 simbolo delle nuove rivendicazioni
Torino nel 1951 contava 700.000 residenti. Bastarono dieci-undici anni per diventare una grande città di oltre un milione di abitanti. Arrivò una nuova popolazione di mezzo milione di persone, mentre l’esodo fu di sole 160.000. Uno sconvolgimento epocale, un sovvertimento del precedente stato demografico. Nonostante le mille difficoltà di accoglimento, lavoro, insediamento, insomma di vita urbana lontanissima dal genere di vita dei luoghi di provenienza, fu merito degli immigrati, nuovi torinesi estranei alle tradizioni degli autoctoni, se una città chiusa in se stessa, sorda e sospettosa per consuetudine di una vecchia borghesia, col ceto operaio tradizionale talvolta anch’esso reticente verso le novità, si rifondò, evolvette – lentamente – verso l’accettazione dei compiti che la stessa nuova composizione sociale richiedeva. Ne fu un primo attestato il successo delle celebrazioni per il centenario dell’unità. Tuttavia la Fiat, sempre più estesa, pretendeva ancora la reductio ad unum, cioè a se stessa, della rappresentazione di Torino, che, infatti, tardò a superare il dannoso statuto di città dipendente da una sola imponente monocoltura industriale.
Gli operai immigrati raggiunsero rapidamente la coscienza di classe nel vivo dei rapporti di lavoro e delle relazioni con gli altri lavoratori. Quando nel 1969 il grande sciopero generale non per aumenti salariali, non per diverse condizioni di lavoro, ma, prima volta nella storia sindacale e delle lotte, per il diritto alla casa («casa uguale a servizio sociale» lo slogan sbandierato), imponenti manifestazioni conquistarono le strade e le piazze delle città italiane. I lavoratori di Torino, immigrati e torinesi uniti in una comune rivendicazione vitale, mentre partecipavano alla giornata di lotta nazionale potevano vantare di averla preceduta con un’altra giornata di sciopero e di lotta nella loro città, quando avevano manifestato in massa contro il potere del padronato, al comando il principe della Fiat, vassalli e valvassini obbedienti. Fu vera lotta perché si comandò ai poliziotti, per lo più poveri meridionali grati alle autorità per aver ottenuto un’occupazione, di attaccare duramente i cortei operai: infatti, la ricordiamo ancora oggi con la denominazione impiegata dai quotidiani di allora, «la battaglia di Corso Traiano a Torino».
La differenza della Germania
Angela Dorothea Merkel è intelligente (cioè capisce) molto più degli altri leader europei. Alcuni di loro non lo sono per connaturata inibizione poiché sono fascisti e nazisti quasi dichiarati (Kaczynski e Andrzej Duda, Orban…); altri sembrano come indica la seconda scelta di un qualsiasi dizionario dei sinonimi e dei contrari, idioti – stupidi; altri ancora, chiamiamoli intermedi, si muovono solo secondo gli umori classisti prevalenti; altri infine, piccoli per piccolezza di patria, devono vivere nell’ombra di uno grosso, adeguandosi. Per Angela Merkel, incurante di contestazioni e persino di proprie contraddizioni, la Germania ha di nuovo bisogno di immigrati in massa, come nel passato.
Vogliamo dire, indipendentemente dalla questione tedesca, che la vecchia e durevole logica capitalistica e mercantesca volta a restringere o a espandere la forza lavoro secondo gli investimenti e i disinvestimenti nel gioco fra sviluppo e crisi, può essere battuta da una realizzata condizione sociale e politica incentrata su due atti: riduzione per tutti del tempo di lavoro, magari prendendo spunto dalla provocazione di Paul Lafargue (i francesi hanno provato…) e radicale modificazione del rapporto fra consumo di beni d’uso e di beni di scambio in favore dei primi, compresi quelli immateriali. In altre parole: parallelamente alla diminuzione del tempo penoso (lo è per la stragrande maggioranza), aumento del tempo vissuto con felicità attraverso la cultura, per la crescita di sé razionale e sentimentale.
Il lavoro italiano, la città di Wolfsburg e il Käfer
La Germania è il più popoloso paese dell’Unione, ottantuno milioni di abitanti. Gli stranieri sono più del 10 % (di questi il 20 % vi è nato) ma se si aggiungono gli immigrati pervenuti man mano alla cittadinanza tedesca la percentuale quasi raddoppia, 19%. La tumultuosa ricostruzione sostenuta dall’enorme ammontare degli aiuti americani anche in funzione dell’alleanza antisovietica e la gigantesca espansione industriale degli anni Cinquanta e seguenti richiesero un incessante flusso di mano d’opera da altri stati europei. I meridionali italiani espatriarono in massa, insieme ai turchi (che oggi rappresentano la più numerosa comunità straniera, oltre un milione e mezzo), ai polacchi, ai greci e altri…
Come simbolo del lavoro italiano all’estero scegliamo Wolfsburg (Bassa Sassonia), «Città del Lupo». Furono specialmente nostri muratori e artigiani a costruire, insieme alle prime case, la fabbrica della «Macchina del popolo» voluta da Hitler nel 1938. Volkswagen, programma industriale, politico e para-sociale bloccato dalla guerra e rilanciato dopo la sconfitta, intensificato dal 1955 e negli anni Sessanta grazie al lavoro degli immigrati meridionali. Non fu a caso l’arrivo a Wolfsburg di tantissimi compaesani, fu dovuto a una preferenza, a un atto di fiducia degli industriali e dell’Istituto Federale per il Collocamento della Manodopera e per l’Assicurazione contro la Disoccupazione.
Il racconto dello scrittore Maurizio Maggiani
Wolfsburg cambiò notevolmente lungo i decenni fino ai giorni nostri. Da luogo-fabbrica dedicato solo alla produzione divenne una città di oltre 120.000 abitanti dotata di tutte le risorse che ne designerebbero l’abitabilità e la gradevolezza. Lo scrittore Maurizio Maggiani, autore di quel romanzo fuori del rigo convenzionale che è Il coraggio del pettirosso[ii] racconta in un articolo sul Secolo XIX di una delle sue visite[iii]. Ha amici compatrioti, del resto un quarto degli abitanti ha origini italiane o è tuttora nostro concittadino. L’italianità si trova non solo nei ristoranti nelle gelaterie nei caffè ma anche nelle scuole, nelle biblioteche. Per Maggiani «Wolfsburg è una bella città… ricca di verde, funzionale… i suoi quartieri operai sono formati da villette a schiera, separati da parchi e collegati con ampi viali».
Il maggior vanto civico è la presenza del Phaeno, il più grande museo scientifico interattivo della Germania dotato di 250 postazioni. Progettato da chi? Diamine, dall’immancabile Zaha Hadid (vogliamo subito paragonarlo col meraviglioso Exploratorium di San Francisco, fondato da Frank Oppenheimer nel 1969, un grande spazio entro un’ariosa semplice struttura di ferro, come fosse testimonianza della rivoluzione industriale). Non manca un museo d’arte moderna. Infine la Kulturhaus di Alvar Aalto, che ricordiamo non fra le opere eccelse, funzionava già nel 1962. Maggiani discorre con gli amici, tutti hanno in certo modo nostalgia dell’Italia; «ma, fatte le ferie se ne tornano a starsene nel cuore della Bassa Sassonia a casa loro, che è Wolfsburg, dove il clima non sarà un granché, ma dove dopo le quattro del pomeriggio nessuno lavora più, si va a passeggiare sui viali, a nuotare nei laghi, al cinema, a teatro, a bere birra sul lungofiume…». E la settimana di ferie autunnali, l’asilo nido sotto casa, le tessere per i musei e le gallerie, il medico che li chiama per accertarsi della loro salute? Allora una specie di paradiso? Forse il nostro simpatico romanziere è propenso a romanzare, ma non a contar balle. In ogni caso un tale paesaggio urbano e umano non può riguardare l’intera Germania; e quali conseguenze proprio lì, nella sede madre dell’azienda, provocherà l’attuale vicenda delle emissioni inquinanti truccate in certi modelli?
Lavorare in miniera morte annunciata
Stiamo osservando una fotografia del 1964: in un’aula scolastica immigrati italiani ascoltano qualcuno che li sta istruendo sul lavoro da minatori per essere avviati alle miniere carbonifere di Duisburg, Renania Settentrionale-Vestfalia. Tutta la Ruhr rappresentava, a quell’epoca, una delle massime concentrazioni territoriali minerarie (è noto che sopraggiunto il tempo della chiusura, l’intera regione, con le sue città grandi e piccole, sarà trasformata in un insieme multicentrico ricco di occasioni culturali, paesaggistiche, turistiche). I cavatori italiani meridionali, a nostra memoria, furono più fortunati dei loro colleghi emigrati in Belgio, dove a metà degli anni Cinquanta lavoravano 142.000 minatori, fra i quali 63.000 stranieri comprendenti 44.000 italiani. A Marcinelle, miniera di carbone Bois du Cazier nella periferia meridionale di Charleroi, l’8 agosto 1956 a causa di un irrefrenabile incendio morirono 262 minatori, i sopravvissuti furono solo 13. 136 le vittime italiane, le metà abruzzesi. Sfogliando le notizie in memoriacondivisa.it leggiamo che il ricordo della tragedia è ancora vivo; anche quest’anno nel sito minerario del Bois du Cazier, dal 2012 entrato nel patrimonio mondiale dell’Unesco, si terranno le cerimonie di commemorazione dell’evento.
Ai lavoratori italiani per morire in miniera non occorreva emigrare all’estero. Poco più di due anni prima dello sterminio di minatori a Marcinelle era stata la Maremma, terra di miniere dove l’attività della società Montecatini era iniziata alla fine dell’Ottocento, a essere teatro di una tragedia. Provincia di Grosseto, comune di Roccastrada, frazione di Ribolla (in effetti, un villaggio Montecatini), miniera di lignite sezione Camorra: nella prima mattina del 4 maggio 1954 una spaventosa esplosione di grisù causò la morte di 43 operai. I minatori erano in totale poco più di 1.400, in forte diminuzione dal 1948 coerentemente alla politica della Montedison, smobilitare anno dopo anno: condotta che comportava la riduzione delle provvidenze per la sicurezza del lavoro.
Quando i letterati appartengono alla vicenda sociale
Il libro d’epoca di Luciano Bianciardi e Carlo Cassola I Minatori della Maremma[iv] dedica un capitolo a La sciagura di Ribolla. Fu per noi una lettura importante. Due ricercatori che saliranno la china della letteratura d’autore e della fama fino al vertice ci ragguagliavano sulla storia e la condizione sociale poco conosciute della loro regione, in maniera così accurata e dimostrativa come solo una vocazione allo studio storico e una diretta partecipazione agli eventi potevano permettere. Chi conosceva quale fosse l’abitare per i lavoratori scapoli arrivati lì provenendo da territori lontani? Ecco i «camerotti» costruiti per cacciarvi i prigionieri di guerra. «Costruzioni a un piano, lunghe e strette, divise all’interno in tante stanzette quadrate…gli scapoli… vivono là dentro, a gruppi di tre o quattro per stanza: brande di ferro, armadietti, pure di ferro, un tavolo, sgabelli… In cima all’armadietto una cassettina di legno… La sensazione è quella, la caserma»[v].
L’io narrante di La vita agra, il capolavoro di Luciano Bianciardi, sente la missione di vendicare le vittime della tragedia: «…venivo ogni giorno a guardare il torracchione di vetro e di cemento [sarebbe la sede della Montecatini a Milano], chiedendomi a quale finestra, in quale stanza, in quale cassetto, potevano aver messo la pratica degli assegni assistenziali, dove la cartella personale… di tutti i quarantatré morti del quattro maggio. Chiedendomi dove, in che cantone, in che angolo, inserire un tubo flessibile ma resistente per farci poi affluire il metano, tanto metano da saturare tutto il torracchione; metano miscelato con aria in proporzione fra il sei e il sedici per cento. Tanto ce ne vuole perché diventi grisù, un miscuglio gassoso esplosivo se lo inneschi a contatto con qualsiasi sorgente di calore superiore ai seicento gradi centigradi. La missione mia… era questa: far saltare tutti e quattro i palazzi».[vi]
Note
[i] Katiuscia Curone, Italiani nella Germania degli anni Sessanta: immagine e integrazione dei Gastarbeiter, Wolfsburg 1962-1973, in “Altreitalie”, rivista internazionale di studi sulle popolazioni di origini italiane nel mondo, n. 33, luglio-dicembre 2006.
[ii] Edito da Feltrinelli nel 1995, ha vinto nello stesso anno i premi Viareggio, Repaci, Campiello. Nel 2010 la quattordicesima edizione.
[iii] Maurizio Maggiani, Povera Italia, vista da Wolksburg, in Il Secolo XIX (unito a La Stampa), 31 agosto 2010.
[iv] Luciano Bianciardi – Carlo Cassola, I minatori della Maremma, Editori Laterza, Bari 1956 – Libri del tempo.
[v] Ivi, p. 50-51. «Le famiglie, che dovettero costituirsi parte civile, accettarono le offerte in denaro della Montecatini e il processo si concluse con l’assoluzione di tutti gli imputati e il disastro fu archiviato come ‘mera fatalità’. A seguito del disastro la direzione della Montecatini decise la chiusura della miniera, la cui smobilitazione richiese ben cinque anni», dal sito memoriacondivisa.it.
[vi] La vita agra, 1967, in Luciano Bianciardi - L’antimeridiano - Tutte le opere, a cura di Luciana Bianciardi, Massimo Cipolla e Alberto Piccinini. Volume primo. Saggi e romanzi, racconti, diari giovanili, Isbn Edizioni e ExCogita Editore, Milano 2005, p. 595.
Comune.info.net.
«Non possiamo restare a guardare, chiudere i porti significa soltanto una cosa: lasciare morire ogni giorno persone nel Mediterraneo. “Proponiamo un piccolo segno visibile, pubblico: un digiuno a staffetta con un presidio davanti al parlamento italiano per dire che non possiamo accettare questa politica delle porte chiuse…”: un appello di Alex Zanotelli, Alessandro Santoro, suor Rita Giaretta e altri, rivolto non solo ai credenti, mostra un pezzo di società che si ostina a ribellarsi»
Appello e presidio contro i porti chiusi
«Avete mai pianto, quando avete visto affondare un barcone di migranti?» così papa Francesco ci interpellava durante la Messa da lui celebrata a Lampedusa per le33.000 vittime accertate (secondo il giornale inglese The Guardian che ne ha pubblicato i nomi) perite nel Mediterraneo per le politiche restrittive della “Fortezza Europa”.
È il naufragio dei migranti, dei poveri, dei disperati, ma è anche il naufragio dell’Europa, e dei suoi ideali di essere la «patria dei diritti umani». La Carta dell’Unione Europa afferma: «La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata».
È un crimine contro l’umanità, un’umanità impoverita e disperata, perpetrato dall’opulenta Europa che rifiuta chi bussa alla sua porta.
Un rifiuto che è diventato ancora più brutale con lo scorso vertice della UE dove i capi di governo hanno deciso una politica di non accoglienza. Anche l’Italia, decide ora di non accogliere, di chiudere i porti alle navi delle Ong e affida invece tale compito alla Guardia Costiera libica, che se salverà i migranti, li riporterà nell’inferno che è la Libia. Perfino la Commissione Europea ha detto: «Non riportate i profughi in Libia, lì ci sono condizioni inumane».
Per questo stiamo di nuovo assistendo a continui naufragi. L’Onu parla di oltre mille morti in questi mesi.
Papa Francesco ha fatto sue le parole dell’arcivescovo Hyeronymous di Grecia pronunciate nel campo profughi di Lesbos: «Chi vede gli occhi dei bambini che incontriamo nei campi profughi, è in grado di riconoscere immediatamente la ‘bancarotta dell’umanità».
È il sangue degli impoveriti, degli ultimi che interpella tutti noi, in particolare noi cristiani che saremo giudicati su: «Ero straniero… e non mi avete accolto”. Noi chiediamo a tutti i credenti, di reagire, di gridare il proprio dissenso davanti a queste politiche disumane.
Noi proponiamo un piccolo segno visibile, pubblico: un digiuno a staffetta con un presidio davanti al Parlamento italiano per dire che non possiamo accettare questa politica delle porte chiuse che provoca la morte nel deserto e nel Mediterraneo di migliaia di migranti.
«Il digiuno che voglio – dice il profeta Isaia in nome di Dio – non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo senza trascurare i tuoi parenti?».
Alex Zanotelli a nome dei Missionari Comboniani.
Raffaele Nogaro, vescovo Emerito di Caserta
Alessandro Santoro a nome della Comunità delle Piagge di Firenze.
Rita Giaretta, suora della Casa Ruth di Caserta
Giorgio Ghezzi, Religioso Sacramentino.
«La Comunità del Sacro Convento aderisce e partecipa nella preghiera» è quanto riferisce padre Enzo Fortunato, direttore della Sala Stampa del Sacro Convento di Assisi.
Martedì 10 luglio 2018 alle ore 12 ci ritroviamo a Roma, in piazza San Pietro, per una giornata di digiuno. Da lì proseguiremo a Montecitorio per testimoniare con il digiuno contro le politiche migratorie di questo governo. E continueremo a digiunare per altri dieci giorni con un presidio davanti a Montecitorio dalle ore 8 alle 14.
Per adesioni al digiuno e partecipazione scrivere a questa email: digiunodigiustizia@hotmail.com
Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile
Re:common
Pubblicato anche in italiano (con la collaborazione e il rilancio di Re:Common e Rete Italiana per il Disarmo) il Report elaborato da Corruption Watch sui possibili casi di corruzioni che coinvolgono il gigante italiano degli armamenti.
Una serie di scandali e possibili episodi di corruzione in almeno tre Paesi, che riguardavano contratti del valore di centinaia di milioni di euro e da cui sono scaturiti controversi versamenti per decine di milioni di euro ad agenti e intermediari collegati a figure militari e politiche. Uno spaccato di notizie e documenti sulla “zona grigia” che caratterizza in molti casi i principali appalti militari internazionali, tanto che il comparto produttivo militare-industriale risulta in testa a tutte le classifiche mondiali sulla corruzione. Tutti legati ad uno dei maggiori produttori armieri del mondo, il principale in Italia: Leonardo S.p.A (fino al gennaio 2016 denominata Finmeccanica). E’ questo il contenuto di “Anglo Italian job”, il Rapporto elaborato da Corruption Watch e da oggi disponibile anche in italiano grazie alla collaborazione con Re:Common e Rete Italiana per il Disarmo.
“Scorrendo gli elementi e documenti grazie ai quali siamo riusciti a ricostruire diversi casi problematici in cui è stata coinvolta Leonardo – commentano gli autori del Rapporto – risulta particolarmente inquietante il fatto che gli episodi di corruzione abbiano coinvolto i massimi dirigenti dell’azienda”. Società a partecipazione statale (con il Governo che detiene per legge una quota di controllo e nomina i vertici) frutto della fusione ed agglomerazione dei principali segmenti produttivi italiani del settore, Leonardo negli ultimi dieci anni è stata coinvolta in numerosi scandali per corruzione in tutto il mondo. Il Rapporto “Anglo Italian job” esamina i più eclatanti ed emblematici di questi scandali, rivelando in particolare le dinamiche interne di tre casi di possibile corruzione in cui l’azienda, le sue controllate o i suoi funzionari sono stati implicati in azioni illecite con il coinvolgimento dei più alti vertici.
Si parte dalla vendita di elicotteri Wildcat alle forze armate della Corea del Sud. AgustaWestland (controllata di Leonardo ora inserita integralmente nella divisione Elicotteri) avrebbe versato somme di denaro a favore di persone collegate all’establishment militare sudcoreano per garantire l’accordo. Fra i beneficiari di tali pagamenti figurerebbe un lobbista sotto la diretta supervisione di Geoff Hoon, già Segretario alla Difesa durante il mandato di Tony Blair e, dal 2011 al 2016, International Business Manager di AgustaWestland con sede nel Regno Unito. Il secondo caso riguarda invece la discussa vendita di Elicotteri VVIP all’India, nel cui contratto sarebbe compreso anche il pagamento di oltre 60 milioni di euro ad agenti e intermediari. AgustaWestland avrebbe inoltre effettuato dei versamenti ad uno di questi agenti per ottenere altri appalti in India. Le autorità indiane hanno dichiarato che, riguardo a tali lavori aggiuntivi, non è stata svolta alcuna operazione legittima, cosa che l’agente nega. Infine, la vendita di varie attrezzature (tra cui quelle per sorveglianza) al Governo di Panama. Proprio la diffusione sulla stampa di accuse di tangenti all’ex presidente di Panama, gestite attraverso un imprenditore italiano strettamente legato all’entourage di Silvio Berlusconi, avrebbero poi fatto svanire il contratto. Panama ha revocato l’affare sulla base di un accordo negoziale con Leonardo che ha comportato l’annullamento dei procedimenti giudiziari nel Paese.
Lo scenario che deriva da questi casi fa sorgere il dubbio che la società possa essere considerata sistemicamente corrotta con forti sospetti che possa essere nuovamente coinvolta in casi di corruzione anche in futuro. A riguardo, la risposta sembra essere positiva: stando alle ultime informazioni tratte da un’analisi sulla società recentemente pubblicata dal Comitato Etico norvegese si direbbe che Leonardo S.p.A. possa dare ancora motivi di dubitare sul rischio di corruzione.
Dopo l’analisi e la ricostruzione dei casi specifici il Rapporto si conclude con diverse raccomandazioni di intervento atte a ridurre gli impatti negativi e problematici di possibili percorsi corruttivi. In particolare viene suggerito:
Alle forze dell’ordine italiane di intraprendere senza ulteriori ritardi un’inchiesta sugli accordi di consulenza e rappresentanza passati e presenti di Leonardo S.p.A. in tutto il mondo per stabilire se la società sia stata coinvolta in episodi di corruzione in passato o potrebbe essere a rischio di ripetere tale condotta nel presente.
Al governo italiano, in quanto principale azionista di Leonardo S.p.A., di intraprendere una revisione urgente delle pratiche commerciali di Leonardo S.p.A., sia passate che presenti, e intervenire per garantire che la società metta in atto riforme immediate e sostanziali volte a limitare la propria esposizione al rischio di corruzione.
A Leonardo S.p.A. di impegnarsi a rivedere e riformare i propri meccanismi di compliance, adottando le misure necessarie per limitare il rischio di corruzione, compreso lo sviluppo di un piano concreto atto a ridurre il numero di agenti utilizzati dall’azienda in tutto il mondo. In tal senso sarebbe opportuno pubblicare un elenco completo degli agenti e degli intermediari attualmente e precedentemente utilizzati dalla società per ottenere commesse di vendita di apparecchiature e sistemi di difesa all’estero in nome della piena trasparenza e responsabilità.
Corruption Watch UK si è rivolta a Leonardo chiedendo all’azienda di commentare il contenuto e le conclusioni di questo rapporto fra aprile e maggio del 2018. La società ha risposto evidenziando la forza del suo programma di conformità anticorruzione e ha sottolineato che non è stata condannata in nessuna giurisdizione in relazione ai procedimenti trattati; inoltre, ha esposto la sua versione dei fatti per ciascun caso.
La risposta completa dell’azienda è disponibile su www.cw-uk.org/angloitalianjob.
Nigrizia
Il libro di Francisco Bethencourt "Razzismi. Dalle crociate al XX secolo Crociate" narra agli inconsapevoli della società contemporanea la vicenda grazie alla quale noi e i nostri simili dalla pelle bianca siamo diventati padroni del mondo, e aiuta a ricordare (quelli di noi che lo avessero dimenticato) che i campi di sterminio e le altre efferatezza del nazifascismo non siano stati una momentanea eclissi nella gran luce della civiltà eurocentrica, ma uno dei suoi molti momenti barbarici. Lavoriamo perchè non ritornino, ricordando con Bertold Brecht che, finché il capitalismo vivrà, il ventre che generò quei crimini è sempre fertile. (e.s.)
Ciavula, Sacrosanto appello ai responsabili dell'incredibile deficit d'informazioni veritiere sui fatti che contano per il destino dell'umanità, e per il continente che ha pagato e paga il prezzo più alto per il benessere dei paesi ricchi. Con commento (e.s)
«Ma i disperati della storia nessuno li fermerà» queste parole sono il cuore dell’appello di Alex Zanotelli. Sono parole pronunciate da chi sa che la paura è il sentimento che domina su tutti gli animi degli uomini di oggi. Se non si fa ricorso alla paura nessuno ascolterà parole diverse del tranquilizzante senso comune provocato da un’azione di rimodellamento dei cervelli e dei cuori compiuto con un lavoro di decenni da “persuasori occulti”. Zanotelli ci ricorda che la sofferenza che patisce gran parte dell’umanità è destinata a crescere intensamente se non ne cessano le cause, si esprimerà nelle forme nelle quali si esprime una sofferenza inaccettabile dell’uomo e quindi travolgerà quanti non hanno avuto orecchie per ascoltare né occhi per vedere né mani per operare per ristabilire l’equilibrio tra e i diritti e doveri.
L’appello, di Zanotelli ricorda puntualmente tutti i delitti compiuti dalle nazioni dei Nord del mondo nelle varie regioni dell’Africa (e non solo): il continente più saccheggiato, sfruttato incendiato dal mondo cosiddetto "sviluppato". Da quel mondo che non si rende conto che il suo benessere è stato pagato, e continua a essere pagato, da quel colonialismo che ha saccheggiato, incendiato, ridotto alla miseria e alla fame popoli che oggi tentano di fuggirne, e vengono rigettati nei loro inferni da quelli stessi che li hanno creato.
Condividete e fate in modo che gli italiani sappiano
cosa sta veramente vivendo gran parte della popolazione africana.
Non vi chiedo atti eroici, ma solo di tentare di far passare ogni giorno qualche notizia per aiutare il popolo italiano a capire i drammi che tanti popoli africani stanno vivendo.
Scusatemi se mi rivolgo a voi in questa torrida estate, ma è la crescente sofferenza dei più poveri ed emarginati che mi spinge a farlo. Per questo, come missionario e giornalista, uso la penna per far sentire il loro grido, un grido che trova sempre meno spazio nei mass-media italiani, come in quelli di tutto il modo del resto. Trovo infatti la maggior parte dei nostri media, sia cartacei che televisivi, così provinciali, così superficiali, così ben integrati nel mercato globale. So che i mass-media , purtroppo, sono nelle mani dei potenti gruppi economico-finanziari, per cui ognuno di voi ha ben poche possibilità di scrivere quello che veramente sta accadendo in Africa.
Mi appello a voi giornalisti/e perché abbiate il coraggio di rompere l’omertà del silenzio mediatico che grava soprattutto sull’Africa.
È inaccettabile il silenzio sulla Somalia in guerra civile da oltre trent’anni con milioni di rifugiati interni ed esterni.
È inaccettabile il silenzio sull’Eritrea, retta da uno dei regimi più oppressivi al mondo, con centinaia di migliaia di giovani in fuga verso l’Europa.
Non conoscendo tutto questo è chiaro che il popolo italiano non può capire perché così tanta gente stia fuggendo dalle loro terre rischiando la propria vita per arrivare da noi. Questo crea la paranoia dell’“invasione”, furbescamente alimentata anche da partiti xenofobi. Questo forza i governi europei a tentare di bloccare i migranti provenienti dal continente nero con l’Africa Compact, contratti fatti con i governi africani per bloccare i migranti.
Questa non è una questione emergenziale, ma strutturale al sistema economico-finanziario. L’ONU si aspetta già entro il 2050 circa cinquanta milioni di profughi climatici solo dall’Africa. Ed ora i nostri politici gridano: «Aiutiamoli a casa loro», dopo che per secoli li abbiamo saccheggiati e continuiamo a farlo con una politica economica che va a beneficio delle nostre banche e delle nostre imprese, dall’ENI a Finmeccanica. E così ci troviamo con un Mare Nostrum che è diventato Cimiterium Nostrum dove sono naufragati decine di migliaia di profughi e con loro sta naufragando anche l’Europa come patria dei diritti.
Davanti a tutto questo non possiamo rimane in silenzio (i nostri nipoti non diranno forse quello che noi oggi diciamo dei nazisti?).
Non possiamo rimanere in silenzio davanti a un’altra Shoah che si sta svolgendo sotto i nostri occhi.
Diamoci tutti/e da fare perché si rompa questo maledetto silenzio sull’Africa.
*Alex Zanotelli è missionario italiano della comunità dei Comboniani, profondo conoscitore dell'Africa e direttore della rivista Mosaico di Pace
Huffington postpriva di prospettive che non siano quelle delle più feroci tirannidi, che caratterizzano ormai una UE alla quale sempre più vergognarsi di appartenere (e.s.)
Alla fine Giuseppe Conte ha trovato d’accordo tutti. A spese dell’Italia. E, ovviamente, dei profughi. Il documento finale del vertice di Bruxelles è praticamente vuoto, ma mette in chiaro che le differenze in seno all’Unione europea non sono poi così profonde, anche se tra non molto la porteranno allo sfascio.
Destre e sinistre sono infatti unite dall’assunto che il nemico dell’Europa, quello da cui dobbiamo difenderci e contro cui occorre erigere barriere sempre più alte, sono i profughi: gli esseri più miseri e disgraziati della Terra. Ma le unisce anche il fatto che Salvini, sul sentiero già tracciato da Minniti - benché con toni decisamente meno educati - sta lavorando, e continuerà a lavorare, “per il bene” di tutti gli Stati membri. Grazie anche a lui, infatti, il regolamento di Dublino è stato blindato: avrebbe potuto, forse, essere cambiato a maggioranza; adesso ci vuole l’unanimità. Resterà com’è. Poi sono stati previsti dei “centri di controllo” (veri e propri campi di concentramento) che però nessuno vuole; se mai si faranno, sarà solo, come dice Macron, nei paesi di arrivo: Grecia, Italia e Spagna.
Certo, arriverà, forse, anche qualche soldo in più (500 milioni, sottratti ai fondi di cooperazione allo sviluppo) da spendere in opere di difesa: che vuol dire pagare le bande che controllano sia il traffico di esseri umani che il loro “salvataggio” (per riportarli da dove cercavano di scappare), come ben si evince dalle circostanze rilevate da Oscar Camps, dell’Ong Proactiva Open Arms, che ha segnalato la partenza di dieci gommoni carichi di circa mille profughi, tutti dallo stesso punto e alla stessa ora, contemporaneamente alla partenza delle vedette libiche che dovevano dimostrare la loro capacità di salvarli mentre tutte le navi delle Ong erano state bloccate con le motivazioni più varie; il tutto alla vigilia della visita di Salvini in Libia: una dimostrazione di efficienza costata almeno cento morti, ma forse molti di più. In cambio di quei 500 milioni Conte ha accettato di contribuire ai 6 miliardi da devolvere alla Turchia perchè continui a trattenere sul suo territorio i profughi siriani e irakeni che vorrebbero raggiungere l’Europa, lasciando a Erdogan la libertà di fare quello che vuole tanto ai “suoi” profughi che ai “suoi” sudditi, sia kurdi che turchi “dissidenti”, cioè democratici.
Così l’Unione europea gli ha messo in mano la possibilità di tenerla sotto un ricatto permanente. E ora si cerca di istituire lo steso meccanismo con la Libia, che però non è uno Stato; sia perché il governo di Al Serraj non controlla che una parte del paese, sia perché in realtà è lui a essere controllato dalle bande che gestiscono i flussi dei migranti: sia in uscita, nella veste di smuggler, che nel riportarli a terra, indossando le divise della guardia costiera. Così si consegnano anche a loro le chiavi degli equilibri europei: ma con una valvola di sicurezza. Se le bande libiche non staranno ai patti, o vorranno qualcosa di più, ci sarà una seconda linea di difesa della Fortezza Europa: e sarà l’Italia. Dove dovranno sbarcare i profughi sfuggiti alla - o imbarcati dalla - rete libica o all’annegamento, una volta raccolti da una nave commerciale o della istituenda Guardia costiera europea; perché, e su questo l’accordo è stato pieno, le navi delle Ong non dovranno più sbarcare, né rifornirsi, né navigare e, meno che mai salvare qualcuno nel Mediterraneo. E anche di questo si farà carico Salvini. Ma, come ha detto Macron, il porto di sbarco non potrà che essere italiano (e in effetti ha poco senso far navigare una nave dal canale di Sicilia fino a Marsiglia o a Valencia).
Poi, dopo la selezione negli hotspot già in essere, o nei centri di controllo che nessuno vuole e che per questo non si faranno, i “veri profughi” prenderanno la strada dei paesi che “volontariamente” se li spartiranno. Ma siccome, quando la spartizione era obbligatoria, non li ha presi quasi nessuno, da ora in poi i paesi disposti ad accoglierli saranno ancor meno e i più resteranno in Italia. E gli altri? I cosiddetti “migranti economici”? Quelli verranno rimpatriati tutti, come ha promesso, tuonando, Capitan Fracassa in campagna elettorale (in questo preceduto, per la verità, da Berlusconi), pronti entrambi a imbarcare per destinazioni ignote i 500mila “clandestini” presenti in Italia. Con i soldi dell’UE, che non li ha stanziati e non li stanzierà. E con gli accordi con i paesi di provenienza (se identificati), che non ne vogliono assolutamente sapere, se non per mettere in scena qualche volo dimostrativo. E allora?
Allora, dopo aver riempito qualche Cie, ai “migranti economici” verrà consegnato, come è stato fatto finora, un foglio di via con l’ingiunzione di abbandonare il paese entro 7 giorni. Ovviamente non se ne andranno: non saprebbero né dove né come. Entreranno ufficialmente nella categoria giuridica dei “clandestini” e si trascineranno da un campo di pomodori a uno di frutta (a due euro all’ora); da una baraccopoli all’altra; da un marciapiede all’altro, se donne; e da un sottopasso all’altro se saranno ancora una famiglia; con la certezza di incappare prima o dopo in un progrom o nella malavita.
È questo abbandono, accoppiato con un sistema di accoglienza truffaldino messo in capo ai Prefetti (nessuno dei quali è ancora finito in galera, nonostante le malversazioni gigantesche perpetrate senza alcun controllo da molti dei loro affidatari) ad aver screditato anche i tanti operatori onesti impegnati nell’accoglienza fino allo spasimo. Ma anche ad aver creato allarme sociale e rancore da entrambe le parti. Sono questi due meccanismi, e non il numero degli arrivi, a permettere a Salvini&Co di presentare i profughi come un’invasione, riscuotendone un dividendo elettorale crescente. Fino a quando le forze sparse impegnate nei salvataggi e nell’accoglienza non si uniranno per mettere a punto un’alternativa per mettere a punto un’alternativa alle politiche dell’Unione europea più umana, più costruttiva, più realistica,
.
Il dramma dei popoli fuggiti dagli inferno creati dal capitalismo dei paesi ricchi raccontato con emozione e sapienza. Una cantata che meriterebbe di circolare ben al di là del piccolo mondo di eddyburg.
MARE NOSTRO
Artista: Storie Storte (ft. MC Bible)
Autore: Giorgia Dalle Ore
il Manifesto,
Lo scontro tra l’Italia e il resto dell’Europa sui migranti sta probabilmente arrivando alla fine e il risultato, qualunque dovesse essere, rischia di decretare molti perdenti e nessun vincitore. Le speranze che dal Consiglio europeo di oggi possano uscire soluzioni condivise per quanto riguarda la gestione dei migranti, col passare delle ore si sono infatti ridotte sempre più al lumicino al punto che già ieri sera a Bruxelles giravano voci preoccupate circa non solo la possibilità che l’Italia possa non firmare il documento finale del vertice, ma anche che i 28 leader europei possano ritrovarsi presto a far fronte a un’eventuale chiusura delle frontiere tra Germania e Austria e tra Austria e Italia. Decisione catastrofica che comporterebbe di fatto la fine di Schengen e il definitivo isolamento dell’Italia.
Intervenendo ieri in parlamento proprio per illustrare i contenuti del Consiglio europeo di oggi, il premier Conte è stato chiaro: per l’Italia punti come la condivisione tra gli Stati della responsabilità dei migranti, l’apertura dei porti europei alle navi che effettuano i salvataggi e il superamento del regolamento di Dublino rappresentano condizioni imprescindibili. «Bisogna scindere il piano dell’individuazione del porto sicuro da quello dello Stato competente a esaminare le richieste di asilo», ha spiegato tra gli applausi della maggioranza.
Senza avere prima incassato questi risultati, per Conte non vale neanche la pena discutere di come bloccare i movimenti secondari dei richiedenti asilo, praticamente l’ultima boa alla quale è aggrappata la sopravvivenza politica della cancelliera Angela Merkel. Ma il premier ha anche fatto suo, senza citarli, il lavoro svolto negli ultimi cinque anni dai governi Letta e Renzi, ricordando come l’Italia abbia salvato l’onore dell’Europa prestando soccorso a decine di migliaia di vite nel Mediterraneo. Un riconoscimento attribuito per la verità nel 2017 al nostro Paese dal presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker, che probabilmente all’epoca non pensava certo di dover discutere un giorno con il leader di un Paese il cui ministro degli Interni liquida come «retorica» le torture subite dai migranti in Libia.
Proprio il rapporto con Salvini è del resto per Conte uno dei punti più complicati da gestire. Giusto per facilitare il lavoro del premier in vista del consiglio di oggi, ieri il leghista è tornato a insultare il presidente francese: «Macron fa il matto perché è al minimo della popolarità nel suo Paese», ha esternato lasciando la Camera dopo aver sentito l’intervento del premier. Una complicazione in più per Conte, diviso dalla necessità di muoversi senza marcare in maniera evidente la distanza con il suo vicepremier e quella di non urtare leader europei con i quali seppure sottotraccia – vedi la cena segreta di due sere fa a Roma proprio con Macron e consorte – cerca disperatamente di scongiurare una possibile rottura. Raccomandazione che ieri sera, in un incontro al Quirinale, gli avrebbe rivolto anche il presidente Mattarella.
La strada è dunque in salita, anche se a Conte arrivano segnali incoraggianti. Il leader spagnolo Pedro Sanchez, che ha scelto di schierarsi con Germania e Francia – ha fatto sue alcune richieste italiane chiedendo «l’individuazione di porti sicuri» in modo che la responsabilità de migranti sia distribuita tra tutti i Paesi membri. E aperture in questo senso sarebbero arrivate anche dalla Francia e dalla cancelliera Merkel. Decisa, però, a far rispettare lo stop dei richiedenti asilo che dopo aver presentato domanda di protrzione nello Stato di arrivo si muovono all’interno dell’Unione europea. Punto sul quale l’ennesima bozza di documento finale del vertice non a caso ribadisce come fondamentale, chiedendo agli Stati di adottare «misure interne legislative amministrative» per bloccare i movimenti secondari.
Unico punto in comune a tutti a questo punto è la volontà di esternalizzare le frontiere europee aprendo campi profughi in Paesi terzi. Anche questa però, a poche ore dall’inzio del vertice, sembra essere una strada tutta in salita. In un documento circolato ieri la Commissione Juncker ha escluso che i campi profughi possano sorgere in Paesi europei che non fanno parte dell’Ue, come possono essere i Balcani nella proposta avanzata dall’Austria. E per quanto riguarda la possibilità di collocarli in Nordafrica continuano ad arrivare rifiuti da parte dei Paesi in teoria interessati. Tutti segnali che non lasciano prevedere niente di buono. «La posta in gioco è molto alta e c’è poco tempo per trovare una soluzione», spiegava ieri il presidente del Consiglio Ue Donald Tusk.
Il 28 e 29 giugno si terrà a Bruxelles una riunione di emergenza dei leader dei paesi dell'Unione Europea per discutere su un approccio unitario alla questione migranti e superare le divisioni emerse già nella 'crisi migratoria' del 2015 e diventate più accese con l'ascesa di forze di estrema destra e populiste in Europa (1).
Non che l'Europa abbia dimostrato la volontà di applicare una politica di accoglienza o di lungimirante strategia per affrontare le problematiche connesse ai flussi migratori. Tutt'altro,il dramma degli oltre 66 milioni di sfollati nel mondo sembra turbare la coscienza europea solo quando i riflettori dei media si accendono su una qualche una tragedia ai confini dell'Europa, Calais, Lampedusa, Lesvo, Bardonecchia.
L'approccio europeo è incentrato: sulla fortificazione delle frontiere con la messa in campo di una sorveglianza sempre più sofisticata; e sulle persone con una ascesa delle deportazioni e diminuzione delle opzioni legali per ottenere permesso di soggiorno o residenzialità. Questo approccio aumenta il numero di sfollati che entrano illegalmente, costringendoli a intraprendere vie sempre più pericolose per sfuggire ai conflitti, alla violenza, alla povertà.. Ma questa strategia di creare una fortezza non si svolge solo sui confini europei, ma è sempre più esternalizzata, e delegata a paesi terzi, con i quali si stipulano accordi tali da estendere a questi paesi le stesse politiche adottate dall'Europa (2).
Le proposte che possono emergere da questo summit non sono rincuoranti, saranno comunque totalmente inadeguate al problema, ma rischiano anche di legalizzare atti criminali di violazione dei diritti umani. Infatti, anche trovare un consenso politico comunque moderato sulle riforme in materia di asilo sembra improbabile in quanto i capi di stato e i primi ministri sembrano invece convergere sull'idea di rafforzare le frontiere esterne. Inclusa la strategia di creazione di 'piattaforme di sbarco regionali' (regional disembarkation platforms) e periferiche dove smistare e distinguere tra migranti economici e coloro che necessitano di protezione internazionale. Definito anche come il "modello australiano", in quanto adottato dall'Australia verso i migranti arrivati in barca, questa strategia comporta l'internamento dei migranti in 'centri' fuori dall'Europa. Nella bozza di questo progetto del Consiglio Europeo si menziona che questi centri verrebbero istituiti in stretta collaborazione con l'agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) e l'Organizzazione internazionale per le migrazioni (IOM), ma un portavoce dell'UNHCR ha dichiarato di non essere ancora stato interpellato su questo, ma invece di avere notato che l'Europa sta lavorando a programmi di reinsediamento dalla Libia e dal Niger con il progetto di crearne un altro in Burkina Faso.
Come espresso nella lettera preparata da Miguel Urban Crespo (Podemos) e indirizzata a Donald Tusk, Jean-Claude Juncker e ai membri del Consiglio europeo, il modello australiano - a cui le piattaforme di sbarco regionali si ispirano - è stato denunciato come inumano dall'ONU.
"La segretezza e la mancanza di responsabilità hanno portato a gravi violazioni della legge internazionale sui diritti umani, inclusa la detenzione arbitraria; crudele, inumano o degradante trattamento o punizione; tortura; e persino un omicidio di un rifugiato per mano del personale. Autolesionismo e i tentativi di suicidio sono frequenti e i detenuti, tra cui donne e bambini, sono stati oggetto di abuso sessuale e fisico. C'è grande disperazione nel centro mentre la disperazione ha derubato la gente della voglia di vivere. [...] L'obbligatorio e prolungato centro di detenzione sia a terra che su una piattaforma impedisce l'accesso alla giustizia, ai servizi di base come assistenza sanitaria o istruzione e diventa discriminante in tutti i settori della vita sulla base dello status attribuito al migrante o alla sua famiglia."
Eddyburg vi terrà aggiornati sugli sviluppi.
Note
(1) Per ulteriori informazioni si legga su eddyburg i due articoli di Bernard Guetta e Pierre Haski.
(2) A questo proposito si veda la copertina No. 32 del 5 giugno per una mappa dei paesi con i quali l'Europa ha o sta stipulando accordi.
Internazionale (i.b.)
Internazionale, 26 giugno 2018
SUI MIGRANTI L’EUROPA SI PRESENTA SEMPRE PIÙ DIVISA
Gli argomenti al centro del Consiglio europeo del 28 e 29 giugno saranno due: i migranti e l’eurozona. Questo significa che il vertice dei leader dell’Unione, capi di stato o di governo, sarà molto difficile.
Sui migranti esistono tre posizioni diverse. I paesi dell’Europa centrale, quelli del gruppo di Visegrád, sono aperti all’idea di un controllo comune delle frontiere dell’Unione e di un’azione europea nei paesi di transito, ma rifiutano la possibilità di ripartire il peso dei migranti che hanno diritto all’asilo politico.
Poi ci sono le proposte francesi, ormai condivise da Germania, Spagna, Commissione europea e, tutto sommato, anche dai paesi scandinavi e dai Paesi Bassi. Già parzialmente applicate, queste proposte consistono prima di tutto in un’azione collettiva nei paesi di transito per dissuadere (anche con aiuti per il rimpatrio) i migranti economici che vorrebbero rischiare la vita per raggiungere la loro destinazione. In secondo luogo, tra le proposte, c’è il sostegno alla guardia costiera libica affinché intercetti quelli che decidono comunque di attraversare il Mediterraneo. Infine ci sono il rafforzamento del controllo comune delle frontiere e un trasferimento di tutti quelli che vengono salvati in centri chiusi dove sia possibile fare distinzione tra migranti economici e rifugiati politici.
Oltre a queste posizioni c’è la manovra del ministro dell’interno e leader della Lega Matteo Salvini, che in piena contraddizione con il presidente del consiglio italiano e con il resto della coalizione di governo orchestra la tensione con la Francia e limita la sua azione e le sue proposte alla chiusura dei porti italiani per le imbarcazioni cariche di migranti, con lo scopo (finora raggiunto) di guadagnare voti mostrando i muscoli.
A Bruxelles l’obiettivo sarà duplice. Innanzitutto bisognerà trovare un’intesa sull’insieme delle proposte francesi e non soltanto sul controllo delle frontiere e, in secondo luogo, rompere il fronte tra l’estrema destra italiana e centro-europea proponendo che i rifugiati politici possano chiedere asilo in un paese diverso da quello che raggiungono per primo. È quello che spera l’Italia ed è ciò che rifiutano i centro-europei.
Riforme basilari
Non è una chimera, ma resta difficilmente realizzabile, perché la percezione generale è che i flussi migratori continuino ad aumentare, quando in realtà stanno calando sensibilmente dopo il picco del 2015 legato alla tragedia siriana.
Quanto alle riforme dell’eurozona proposte da Francia e Germania, si scontrano con reticenze talmente forti che difficilmente possiamo sperare che vengano adottate dal Consiglio. Nel migliore dei casi potrebbero essere accettate come una “base di discussione”. Il vertice si annuncia davvero complicato.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Internazionale, 25 giugno 2018
SE VINCE LA LINEA DELLA CHIUSURA IL FUTURO DELL’EUROPA È A RISCHIO
di Pierre Haski
La questione dei migranti si è inserita nel cuore della crisi europea. Paradossalmente, più che come questione umanitaria, come oggetto di scontro culturale: una kulturkampf, come si diceva nel diciannovesimo secolo, ovvero una lotta per un ideale di società.
Il soggetto evidentemente non è nuovo e, senza risalire troppo in là nel tempo, divide concretamente gli europei dai tempi della crisi dei rifugiati e dei migranti del 2015. Allora emerse l’incapacità dell’Europa a 28 di trovare un accordo su un piano comune e su una solidarietà minima per affrontare una situazione difficile per alcuni stati membri.
La questione è diventata letteralmente esplosiva nel corso delle elezioni degli ultimi 18 mesi in Europa, segnate dalla vittoria o dalla forte ascesa dei partiti populisti e/o d’estrema destra. L’elezione di Emmanuel Macron, con i suoi ideali liberali ed europeisti, appare col senno di poi più un’eccezione che una battuta d’arresto per l’onda populista.
La questione dei migranti si è inserita nel cuore della crisi europea. Paradossalmente, più che come questione umanitaria, come oggetto di scontro culturale: una kulturkampf, come si diceva nel diciannovesimo secolo, ovvero una lotta per un ideale di società.
Il soggetto evidentemente non è nuovo e, senza risalire troppo in là nel tempo, divide concretamente gli europei dai tempi della crisi dei rifugiati e dei migranti del 2015. Allora emerse l’incapacità dell’Europa a 28 di trovare un accordo su un piano comune e su una solidarietà minima per affrontare una situazione difficile per alcuni stati membri.
La questione è diventata letteralmente esplosiva nel corso delle elezioni degli ultimi 18 mesi in Europa, segnate dalla vittoria o dalla forte ascesa dei partiti populisti e/o d’estrema destra. L’elezione di Emmanuel Macron, con i suoi ideali liberali ed europeisti, appare col senno di poi più un’eccezione che una battuta d’arresto per l’onda populista.
Salvini ha fatto volontariamente esplodere il fragile equilibrio moltiplicando le dichiarazioni violente
La vittoria in Italia della coalizione eterogenea tra la Lega di Matteo Salvini, di estrema destra, e il Movimento 5 stelle di Luigi Di Maio, è stato il culmine di questa serie di elezioni. Diventato ministro dell’interno, e quindi incaricato della questione migratoria, Salvini ha fatto volontariamente esplodere il fragile equilibrio, moltiplicando le dichiarazioni violente e bloccando l’attracco dell’Aquarius, l’imbarcazione umanitaria che si occupa di soccorrere i migranti in mare.
Laddove l’Europa procedeva a colpi di fragili compromessi e accordi improvvisati, il cambiamento di maggioranza in Italia ha imposto chiarezza, rendendo dunque evidente la crisi.
L’Unione europea è quindi entrata, suo malgrado, in un periodo di alta tensione, che durerà almeno fino alle elezioni europee della primavera del 2019. Ammesso che riesca a sopravvivere fino ad allora.
Due discorsi pronunciati negli ultimi giorni danno il tono dello scontro culturale che si profila all’orizzonte, e senza dubbio del tono della campagna per le elezioni europee, solitamente le meno accese di tutto il calendario elettorale.
Giovedì scorso Emmanuel Macron ha deciso di suonare la carica usando termini non abituali, denunciando “la lebbra che si diffonde” in Europa, in occasione di un discorso pronunciato a Quimper. Il presidente francese ha usato toni solenni per denunciare “la rinascita del nazionalismo” nel continente, senza per questo sostenere una politica migratoria più morbida.
Matteo Salvini si è sentito chiamato in causa e ha replicato con virulenza al capo di stato francese, in particolare sul suo account Twitter, imitando Donald Trump e la sua quotidiana logorrea sul social network.
Ma è un altro il discorso che va analizzato in opposizione a quello di Macron, ed è quello di Viktor Orbán, il presidente ungherese, il quale, il 16 giugno, in occasione del primo anniversario della morte di Helmut Kohl, l’ex cancelliere cristiano-democratico tedesco, ha esposto la sua strategia e il cuore del suo pensiero. Questo testo merita tutta la nostra attenzione.
Ancor più dei nuovi dirigenti italiani, che devono ancora dimostrare la loro capacità di resistere e di agire, è Viktor Orbán a incarnare la “resistenza” all’ordine liberale. È lui che nel 2015, chiudendo l’Ungheria al passaggio dei rifugiati e dei migranti e innalzando il filo spinato alle frontiere, ha preso il controllo della fazione cosiddetta “illiberale”, ovvero non più del tutto democratica.
Viktor Orbán, l’ex dissidente del periodo comunista, che ha avuto una precedente vita liberale prima di diventare illiberale, non parla dai margini estremi del mondo politico, come molti nemici dell’immigrazione, come Salvini o la francese Marine Le Pen, ma dal cuore del sistema, dal Partito popolare europeo (Ppe), la prima formazione del Parlamento europeo, del quale fa parte il suo movimento, Fidesz. La stessa confederazione politica della Cdu di Angela Merkel o dei Repubblicani francesi di Laurent Wauquiez.
Il presidente ungherese sostiene un cambiamento del centro di gravità europeo verso destra
In questo discorso del 16 giugno, Viktor Orbán dice con fermezza “no” a qualsiasi compromesso con gli altri paesi sulla questione migratoria, oggetto di un minivertice europeo il 28 e 29 giugno. Un “no” diretto in primis contro Emmanuel Macron e Angela Merkel.
“Possiamo raggiungere un compromesso nel dibattito sui migranti? No, e non è necessario farlo. Ci sono quelli che sono convinti che la parte avversa debba fare concessioni, che debbano discutere e poi stringersi la mano. È un approccio sbagliato. Alcune questioni non potranno essere risolte con un consenso. Non succederà, e non è necessario. L’immigrazione è una di queste questioni”.
Ma il presidente ungherese non si ferma qui. Suona la carica contro la Commissione europea, paragonata a “Mosca” (!), e da lui accusata di favorire sistematicamente i grandi paesi dell’Europa occidentale. E sostiene un cambiamento del centro di gravità europeo verso destra, molto più a destra. Denuncia il modello tedesco, ovvero la “Groko” (grande coalizione) tra la destra cristianodemocratica e cristianosociale da una parte, e la sinistra socialdemocratica dall’altra, opponendo a essa il modello austriaco, ovvero l’alleanza tra destra ed estrema destra. È quello che Orbán definisce “prendere sul serio le questioni sollevate dai nuovi partiti e dare risposte serie”.
“Noi crediamo che sia venuto il tempo di una rinascita democraticocristiana, e non di un fronte popolare antipopulista. Contrariamente alla politica liberale, la politica cristiana è in grado di proteggere i nostri popoli, le nostre nazioni, le nostre famiglie, la nostra cultura, radicata nel cristianesimo e nell’uguaglianza tra uomini e donne: in altri termini, il nostro stile di vita europeo”, prosegue il presidente ungherese, esprimendosi senza mezzi termini: “Dobbiamo tutti capire che l’islam non farà mai parte dell’identità dei paesi europei”.
Le ultime parole di Viktor Orbán annunciano il programma dei prossimi mesi: “Aspettiamo che il popolo europeo esprima la sua volontà nel corso delle elezioni del 2019. Poi quel che dovrà succedere, succederà”.
Questa dichiarazione del presidente ungherese deve fare riflettere tutti gli attori politici del continente: non bisogna sottovalutare la capacità di quest’ala all’estrema destra del Ppe – che può contare su alleati forti come una parte della destra tedesca, e il cui messaggio non è molto lontano dai dibattiti che agitano la destra francese – di modificare l’equilibrio in seno al Parlamento europeo, e quindi paralizzare o riorientare la costruzione europea.
Utilizzando un termine particolarmente forte, la “lebbra”, anche Emmanuel Macron vuole rendere più drammatica la posta in gioco, dando l’idea di voler lanciare la sua campagna per le elezioni europee con una modalità di “muro contro muro”. Anche se, da vari mesi, evoca la sua inquietudine nel vedere la democrazia liberale europea cedere il passo di fronte alle sirene delle forze illiberali.
Il problema è che lo fa nel momento in cui lui stesso si è indebolito, a causa del suo silenzio sulle sorti dell’Aquarius e sul giro di vite del suo ministro dell’interno Gérard Collomb sulla questione migratoria. Malgrado le critiche Emmanuel Macron ha difeso la sua politica migratoria intermedia “della quale non dobbiamo vergognarci”, ovvero integrare meglio quanti ottengono asilo ed espellere sistematicamente tutti gli altri. Ha peraltro risposto ai suoi detrattori utilizzando accenti populisti, accusando le “élite economiche, giornalistiche e politiche” di avere “un’immensa responsabilità” nel rifiuto dell’Europa.
Sarà difficile, nei prossimi mesi, evitare le trappole politiche di questi dibattiti troncati. Perché se è vero che la posta in gioco è altissima per tutta l’Europa, esistono anche linee di scontro nazionali che possono modificarne la percezione.
Quel che è certo è che il clima si è fatto teso, ed è improbabile che si rassereni con l’avvicinarsi delle elezioni europee. La campagna elettorale per le europee si annuncia brutale e propizia alla manipolazione dell’opinione pubblica, come dimostrato in tutte le recenti elezioni nel mondo. E soprattutto si svolgeranno in un mondo destabilizzato e ansiogeno, con un’Europa che deve fare i conti con il fenomeno Trump. Un mondo nel quale torna nuovamente a porsi la grave questione della guerra e della pace.
(Traduzione di Federico Ferrone)
il Manifesto 26, giugno 2018. Il consenso a Erdogan non viene meno, mentre cresce quello al'ultradestra dell'Mhp, i Lupi Grigi. Al presidente poteri quasi assoluti in un paese sempre più diviso dove il nazionalismo diventa lo strumento di gestione e mantenimento del potere.
il Post, 26 giugno 2018
COSA ASPETTARCI ORA DALLA TURCHIA
Traduzione dell'articolo "Five Takeaways From Turkey’s Election" di Palko Karasz
comparso sul New York Times del 25 giugno 2018
Intanto, la Turchia è uscita da un lungo periodo di crescita economica, che aveva fatto la grande fortuna politica di Erdoğan, e sta attraversando un momento di crisi, anche politica. Il paese sta ancora facendo i conti con i postumi del tentato colpo di stato di due anni fa, centinaia di persone sono ancora a processo accusate di complicità con i golpisti e i principali giornali di opposizione sono stati messi sotto il controllo di figure vicine ad Erdoğan.
Il New York Times ha provato a fare un punto per capire dove sia la Turchia oggi e dove possiamo aspettare di trovarla tra cinque anni.
Se ufficialmente quella del presidente era prima una figura terza e imparziale, è bene però ricordare che da quando Erdoğan fu eletto presidente la prima volta nel 2014 le cose avevano già cominciato a cambiare. Anche prima della riforma Erdoğan dirigeva i lavori del Consiglio dei ministri al posto del primo ministro e aveva un quasi totale controllo del sistema giudiziario del paese, controllo che era ulteriormente cresciuto con la repressione dopo il tentato colpo di stato del 2016.Le elezioni sono state libere, quasi
Gli osservatori internazionali non hanno rilevato casi di brogli di misura tale da aver compromesso il risultato delle elezioni di domenica, ma questo non significa che il voto sia stato completamente libero. Il campo di gioco – come si dice – non era in piano.
Negli ultimi anni Erdoğan è arrivato ad avere un controllo quasi totale sui media di stato e, indirettamente, è arrivato a controllare anche gran parte dei giornali e delle televisioni private del paese. Nel 2016 si era parlato molto del commissariamento di uno dei principali giornali di opposizione, Zaman, la cui direzione era stata sostituita nel giro di poche ore per un intervento dell’autorità giudiziaria considerato da molti come politicamente motivato. Pochi mesi prima delle elezioni, uno dei più importanti e rispettati giornali turchi – Hurriyet – era stato comprato da un gruppo molto vicino a Erdoğan. In generale, tra persecuzioni giudiziarie e inserzionisti che stanno alla larga per paura di ritorsioni del governo, la vita per qualsiasi giornale indipendente e di opposizione è diventata durissima.
A questo bisogna aggiungere gli arresti degli ultimi due anni tra i principali esponenti dell’opposizione, le molte limitazioni ai loro comizi in campagna elettorale e in generale il clima di paura che molti descrivono nel paese.
L’economia turca potrebbe peggiorare ancora
Prima delle elezioni, per esempio, Erdoğan aveva promesso e minacciato di aumentare il suo controllo sulla banca centrale turca nel caso avesse vinto le elezioni e il solo annuncio delle sue intenzioni era stato sufficiente per far precipitare il valore della lira turca. Ora non è chiaro cosa farà Erdoğan, ma se mantenesse fede alle sue promesse sarebbe «un disastro per la lira, per l’inflazione e per quelli che hanno investito nel debito turco», ha detto al New York Times l’analista Emre Deliveli, ex editorialista del quotidiano Hurriyet.
La Turchia si avvicinerà alla Russia?
Quando Erdoğan arrivò al potere per la prima volta nel 2003 sembrava voler portare la Turchia più vicina all’Occidente e inizialmente accelerò il processo che avrebbe dovuto portare il paese a fare parte dell’Unione Europea. La Russia, fino a poco meno di tre anni fa, sembrava un nemico della Turchia e i rapporti tra Erdoğan e Vladimir Putin erano tutto fuorché buoni.
Le cose sono cambiate velocemente. Gli attriti tra l’Unione Europea e il governo turco si sono fatti sempre più intensi e nel 2017 Erdoğan ha esplicitamente detto di aver cambiato idea sull’ingresso della Turchia nella UE. Nello stesso periodo, Russia e Turchia hanno fatto la pace e trovato un’importante intesa su un grande gasdotto che fino a quel punto aveva molto fatto litigare i due paesi. A questo, si è aggiunto l’accordo con cui nel 2017 la Russia ha venduto alla Turchia un efficace sistema missilistico: però la Turchia fa parte della NATO e una tale vicinanza militare con la Russia è quantomeno strana.
È probabile che la tendenza di avvicinamento della Turchia alla Russia non cambierà nei prossimi anni, scrive il New York Times. Per assicurarsi le grandi vittorie politiche degli ultimi anni, Erdoğan ha stretto sempre più forti alleanze con i partiti nazionalisti di estrema destra, da sempre su posizioni anti-occidentali e anti-curde, e dovrà accontentarli. Questo, oltre che per l’Europa, potrebbe diventare un grosso problema anche per gli Stati Uniti, storici alleati della Turchia con cui da tempo però i rapporti non vanno benissimo. Le cose si sono già mostrate complicate in Siria negli ultimi mesi quando la Turchia ha attaccato direttamente le forze dei curdi siriani nel nord del paese, da tempo alleate degli Stati Uniti nella guerra contro il regime di Bashar al-Assad.
L’opposizione è in una posizione difficile
Prima del voto di domenica in molti pensavano – o speravano – che il risultato avrebbe potuto essere una brutta sorpresa per Erdoğan. Il principale candidato dell’opposizione – Muharrem Ince del Partito Popolare Repubblicano – aveva condotto una campagna elettorale molto apprezzata e, sebbene abbia perso le elezioni, il fatto che sia arrivato al 30 per cento dei voti è stato di incoraggiamento per qualcuno. Il problema, dice il New York Times, è che continuare a partecipare alle elezioni in un contesto “falsato” come quello turco non fa che rafforzare la posizione di Erdoğan, legittimando le sue vittorie.
«È arrivato il momento che le opposizioni decidano se vogliono continuare a facilitare lo status quo nella speranza che a un certo punto cambino le cose, o se vogliono provare ad attirare l’attenzione sul fatto che le regole democratiche siano di fatto state svuotate», ha detto al New York Times Howard Eissenstat, esperto di Turchia e professore alla St. Lawrence University.
Le prime reazioni alla vittoria di Erdogan: l'Alleanza Atlantica e Mosca mandano le loro congratulazioni, Mogherini denuncia le condizioni inique della campagna elettorale ma il patto sui migranti non è in pericolo. Sullo sfondo l'escalation militare tra Siria e Iraq.
Fa buon viso a cattivo gioco Angela Merkel, la cancelliera che prima ha pavimentato la strada turca verso l’incasso di sei miliardi di euro europei per bloccare i rifugiati siriani e poi ha attraversato una delle peggiori crisi diplomatiche tra Berlino e Ankara, dal no ai comizi dell’Akp in Germania nei mesi del referendum costituzionale fino alla detenzione del reporter turco-tedesco Deniz Yucel.
Con il milione e mezzo di turchi residenti in Germania che ha votato per Erdogan con percentuali più alte di quelle domestiche (65,7%), a poche ore dalla vittoria del Rèis il portavoce di Merkel, Steffen Seibert, ha parlato dell’intenzione di continuare a lavorare «in modo costruttivo e vantaggioso» con Ankara.
A vantaggio di chi si sa: della Ue interessata a mantenere chiusa la rotta balcanica; di Berlino che alla Turchia vende armi poi usate in Rojava, secondo le denunce delle unità curdo-siriane Ypg; e del presidente vittorioso che si garantisce la seconda tranche da tre miliardi di euro.
L’Europa opta per gli stessi toni: prende atto e spera. A parlare per prima ieri è stata la Commissione Ue che si augura che «la Turchia rimanga impegnata con l’Unione europea sui principali temi comuni come migrazioni, sicurezza e stabilità regionale». Quella che Ankara devasta con operazioni unilaterali nei paesi vicini, dalla Siria all’Iraq.
Molto più critica Federica Mogherini, alto rappresentante Ue agli esteri, che prima dice di voler attendere i risultati definitivi (secondo la Commissione elettorale turca disponibili il 5 luglio) prima di rilasciare dichiarazioni di merito e poi definisce «iniqua» la campagna elettorale e condanna la riduzione delle «libertà di associazione e di espressione per i media».
Sull’altro fronte, quello del doppiogiochismo regionale turco, è un susseguirsi di felicitazioni. Russia e Nato, protagonisti di un tiro alla giacchetta molto apprezzato e ben sfruttato da Erdogan, ieri hanno inviato le rispettive congratulazioni: via lettera il presidente russo Putin ha sottolineato «la grande autorità politica» di Erdogan e ribadito la volontà di mantenere vivo il dialogo con uno degli sponsor del negoziato siriano di Astana (a tal proposito congratulazioni sono giunte anche dall’Iran, dai tempi degli imperi ottomano e persiano tra i principali competitori dell’attuale Turchia); mentre il segretario generale della Nato Stoltenberg ha espresso il suo plauso e ricordato a Erdogan quello che chiama «il nucleo di valori» che caratterizzano il Patto atlantico, «democrazia, Stato di diritto, libertà individuale» in primis (alcuni popoli avrebbero da dissentire).
Parole non da poco, soprattutto alla luce delle prime dichiarazioni post-vittoria del presidente turco: «Libereremo la Siria», ha detto lunedì notte dal terrazzo del quartier generale dell’Akp ad Ankara, aprendo a un’escalation dell’operazione militare contro i curdi in Siria e Iraq che è già realtà quotidiana.