In un mondo in cui il livello della spesa per gli armamenti cresce l'Italia ottiene un primato infamante. E ancora non gli basta. la Repubblica online, "Economia e finanza", 29 aprile 2017
Il rapporto annuale dello Stockholm International Peace Research Institute. A livello globale il livello sale dello 0,4%. Boom di Russia e Cina, in crescita anche Stati Uniti
Paesi in forte espansione economica e paesi in grave crisi, democrazie e regimi autoritari, superpotenze industriali-postindustriali, paesi emergenti, paesi poveri. Il mondo è composto da tante realtà diverse, ma quasi tutte con un dato in comune: la tendenza prevalente all´aumento delle spese militari, che negli ultimi cinque anni per la prima volta sono giunte al massimo livello dalla fine della guerra fredda. In particolare, le spese militari nel mondo in totale sono aumentate dello 0,4 per cento in termini reali a 1686 miliardi di dollari.
Ma ben piú importante, in alcuni casi vertiginoso, è l´aumento dei bilanci per le forze armate negli Stati Uniti, in Cina, in Russia in India. Crescono le spese militari anche in Europa, Italia compresa anzi prima in percentuale tra i membri europei dell´Alleanza atlantica nonostante la spending review e l´alto debito sovrano, mentre tendono a calare in quasi tutti i Petrostati a causa dei bassi prezzi del greggio. Ecco la precisa diagnosi dell´ultimo rapporto annuale del SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute), forse la fonte piú attendibile in materia a livello mondiale.
Vediamo la situazione, caso per caso. In Europa occidentale l´aumento complessivo è stato del 2,6 per cento, a conferma della tendenza iniziata l´anno precedente. Significativo il fatto che secondo il SIPRI è l´Italia il paese in cui è stato registrato l´aumento più notevole con un piú 11 per cento tra il 2015 e il 2016. I dati sul nostro paese sono sostanzialmente confermati dalla Nato. Secondo cui la spesa militare italiana è aumentata l´anno scorso del 10,63 per cento.
Nell´Europa centrale le spese per la difesa sono cresciute complessivamente del 2,4 per cento. Piú marcatamente in paesi Nato come Polonia o Baltici, dove, rileva il SIPRI, è aumentata la percezione-allarme per la minaccia posta dalla politica aggressiva della Russia di Putin. Trend nuovo e forte anche nel pacifico Grande Nord: la Svezia ha appena deciso di ristabilire la leva obbligatoria per donne e uomini e di aumentare il bilancio della Difesa del 15 per cento, viste le continue, pericolose provocazioni aeree, navali, sottomarine, di cyberwar e fake news da parte del Cremlino.
Passiamo alle superpotenze. Gli Stati Uniti, dopo diversi anni di riduzione o contenimento, hanno aumentato le loro spese (611 miliardi di dollari) dell´1,7 per cento rispetto all´anno precedente. Ben superiore in percentuale è la crescita delle spese militari della Russia di Putin (69,2 miliardi di dollari, ma occorre tenere conto che il costo del lavoro anche nell´industria militare in Russia è infinitamente inferiore a quello negli Usa o in Europa) che registra una crescita del 5,9 per cento, e della Cina (analogo discorso come per la Russia sul basso costo del lavoro su cui “fare la tara”) con 215 miliardi e un aumento del 5,4 per cento. Putin ha rapidamente trasformato le sue forze armate dotandole di armamenti ultratecnologici dell´ultima generazione e di capacità operative dimostrate in modo devastante ad esempio con l´intervento in Siria. La Cina, che ha appena mostrato al mondo la sua prima portaerei fatta in casa, e dispone di migliaia di moderni jet da combattimento compresi tre modelli di cacciabombardieri stealth cioè invisibili ai radar nonché di una marina militare a crescenti capacità oceaniche di proiezione lontana della forza, ha a lungo termine capacità industriali e tecnologiche superiori a quelle russe, e si pone nel futuro come principale rivale degli Usa. Vola anche la spesa militare indiana, che aumenta dell´8,5 per cento, quinto paese nel mondo per investimenti nel settore militare) sia per l´arsenale nucleare coi primi missili intercontinentali, sia per modernissime armi convenzionali. Come il prossimo acquisto di circa 120 caccia invisibili Sukhoi PAK T-50, di produzione russa ma il cui sviluppo è reso possibile dalla collaborazione di team di ingegneri aeronautici indiani.
In Medio Oriente si registra una crescita solo in alcuni paesi come Iran e Kuwait, mentre in Arabia Saudita e Iraq la diminuzione è netta: in Arabia saudita il calo è addirittura del 30 per cento. Anche altri paesi petroliferi non mediorientali, ad esempio il Venezuela (meno 56 per cento) che recentemente si era lanciato in una pazzesca corsa al riarmo acquistando cacciabombardieri bisonici e tank russi, hanno dovuto contrarre le spese, per il calo del prezzo del greggio e per fattori di grave crisi economica interna. Quello che in decenni passati i migliori economisti critici americani battezzarono “il complesso militare-industriale”
Dure critica della europarlamentare agli "ignoranti militanti", primo fra tutti Luigi Di Maio, leader dei grillini e aspirante al governo del paese, che dimostrano platealmente di non conoscere i contorni del più grave evento di questo secolo.
il manifesto, 29 aprile 2017
Barbara Spinelli è eurodeputata indipendente del gruppo Gue-Ngl e membro della commissione Libe (Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni) del Parlamento europeo dove si occupa in maniera particolare di tutta la partita dei rifugiati, degli accordi con i paesi terzi e delle politiche sulle migrazioni.
I politici italiani e il giudice di Catania continuano a dire che le accuse alle ong vengono dall’agenzia Frontex ma nel rapporto Risk Analysis 2017 non se ne trova traccia.
«Infatti. In quel rapporto non c’è soprattutto l’accusa più infamante, quella di collusione con i trafficanti. Ce n’è una meno grave anche se grave lo stesso: quella che descrive le ong come pull factor cioè come fattore di attrazione per i migranti. Un’accusa che fu rivolta anche alla missione italiana Mare Nostrum, che perciò fu chiusa. La Ue e Frontex continuano a pensare che le attività di search and rescue alimentino le fughe dei migranti verso l’Europa ma voglio ricordare che nell’ultima plenaria del Parlamento europeo lo stesso vice presidente della Commissione Frans Timmermams ha detto chiaro che non c’è nessuna prova di collusione tra i trafficanti e le ong.
Perché allora si contina a cavalcare questa fake news?
«È il clima generale che porta a colpevolizzare le organizzazioni umanitarie che si occupano di salvataggi. E questo clima nasce dalle politiche europee di esternalizzazione dell’asilo e di accordi di riammissione con paesi dittatoriali o pericolosi. Poi c’è il gioco politico di chi su questo punta ad accentuare la xenofobia e la chiusura delle frontiere»
Salvini, Le Pen, ma anche Di Maio e M5S, non c’è una grande differenziazione, mi pare.
«Sì, mi è molto dispiaciuto quel post di denuncia delle ong scritto a nome di tutto il Movimento, poi Di Maio ha parlato anche di taxi e questo è stato non meno deludente, anche perché al Parlamento europeo i deputati M5S invece hanno posizioni più elaborate e serie sui diritti, sulle migrazioni. È una brutta svolta, spero che si ricredano».
Giusi Nicolini, sindaca di Lampedusa, ha detto ieri a Di Maio: “Se pensate che l’arrivo dei migranti sia aumentato per la presenza delle ong, non siete in grado di governare il paese”. Lei è d’accordo?
«Sono d’accordo su un punto: le dichiarazioni del M5S sono fondate su una profondissima ignoranza, oltretutto volontaria perché non è possibile che non si conosca cosa rischiano le persone che salgono sui barconi e sui gommoni per raggiungere l’Italia e l’Europa. Una ignoranza militante che rende i Cinque Stelle vicini di fatto alle destre e non del tutto credibili come forza di governo, anche se non è che i due ultimi governi italiani, Renzi e Gentiloni, abbiano avuto un comportamento esemplare e positivo su queste tematiche. Proprio questi governi hanno stipulato accordi di rimpatrio prima segretamente con il Sudan e poi, da ultimo, con la Libia. E questo è ancora più grave perché siamo di fronte non a qualche post su un blog o a qualche dichiarazione ma ad atti che violano la Convenzione di Ginevra e la legge internazionale dividendo e applicando il diritto all’asilo su basi etniche mentre ogni migrante ha diritto ad un esame individuale della sua richiesta di asilo. No, certamente non mi sento più sicura con questi governi».
Quali rischi in più vede con questa campagna?
«A livello europeo Frontex si tiene distante dai luoghi più esposti a possibili naufragi e non ha un vero mandato di ricerca e salvataggio. Continua a prendere sempre più finanziamenti europei al solo scopo di sigillare le frontiere e vede con fastidio le attività di search and rescue in acque internazionali o nei pressi della Libia. Bisogna ricordare che search vuol dire ricerca, cioè ascolto degli Sms che invocano aiuto. E rescue vuol dire soccorso, obbligatorio per le leggi internazionali. Le due cose vanno insieme. E poi temo che questo fango sulle ong possa indebolirle finanziariamente, soprattutto le più piccole. Qualcuno potrebbe decidere di non dare più contributi per timore di finanziare mafie e trafficanti».
Riferimenti
Sul'argomento vedi, su eddyburg, gli articoli Inedita alleanza tra gli accusatori delle Ong.... , È giusto sparare contro le Ong..., e l'eddytoriale n. 173
Carmelo Zuccaro, pretore a Catania, e Luigi Di Maio, grillino in cerca di voti, gareggiano per guidare il coro degli ipocriti e dei disinformati. Aspra tenzone.
laRepubblica, 28 aprile 2017
ZUCCARO: “DENUNCIO, NON HO PROVE
STA AI POLITICI FERMARE IL FENOMENO”
di Alessandra Ziniti
«L’intervista. Il magistrato che conduce l’inchiesta siciliana: “Ho informazioni che non possono essere usate in un processo”»
Alle sette di sera, solo nel suo ufficio al primo piano di giustizia, per nulla travolto dal coro di critiche che rischiano di far passare lui, magistrato da sempre sotto traccia, prudente e riservato, in una toga d’assalto sensibile alle lusinghe della notorietà, il procuratore Carmelo Zuccaro accetta di fare il punto con Repubblica sulla scivolosissima indagine sull’operato delle Ong.
Anche il ministro Orlando si è stupito delle sue accuse e l’ha invitata a parlare con gli atti giudiziari. Che risponde?
«È giusto che un magistrato parli con gli atti giudiziari e naturalmente lo farò quando e se sarò in grado di formulare imputazioni nei confronti di singoli. Ma adesso, da magistrato, ho il preciso do vere di denunciare un gravissimo fenomeno, criminale, per arginare il quale la politica deve intervenire tempestivamente. Se si dovessero aspettare i tempi lunghi di un’indagine che sarà complessa e per la quale ho bisogno di uomini e mezzi di cui al momento non dispongo, sarebbe troppo tardi. E a ragione, tra qualche tempo, mi si potrebbe rimproverare: ma dov’eri tu mentre succedeva tutto questo? Accadde così anche vent’anni fa quando i colleghi che si occupavano di mafia denunciarono il fenomeno delle collusioni ben prima di avere le prove su singoli soggetti ».
Ma lei le ha le prove dei comportamenti poco trasparenti di cui accusa le Ong?
«Spero di chiarire una volta per tutte. Quando io parlo di prove intendo prove giudiziarie, da poter portare in un dibattimento. Queste prove non le ho ma la certezza, che mi viene da fonti di conoscenza reale ma non utilizzabile processualmente, che alcune delle navi operano all’interno delle acque territoriali, che vi siano state delle conversazioni dirette, in lingua araba, tra soggetti che stanno sulla terraferma in Libia ed esponenti delle Ong che dichiarano di essere lì pronti a recuperare i migranti, che le navi spengono i trasponder perché non venga individuata la loro posizione, che prendano a bordo migliaia di persone ben prima che si verifichi una situazione di pericolo. E dunque fuori dalle norme di legge».
Andiamo ai soldi. Lei ha detto una cosa gravissima. Che alcune Ong potrebbero essere finanziate dai trafficanti e che addirittura avrebbero come fine di destabilizzare l’economia italiana. Anche di questo ha le prove?
«È un’ipotesi di lavoro. Dimmi chi ti finanzia e ti dirò chi sei. Dai bilanci delle Ong che abbiamo acquisito è evidente che abbiano una disponibilità finanziaria enorme. Ora, se è giustificato che organizzazioni di comprovata solidità come Msf o Save the children possano contare su questa disponibilità, lo è molto di meno per altre. Stiamo lavorando per sapere chi sono questi finanziatori, se oltre quelli dichiarati ce ne sono altri e da dove provengono questi soldi. Che un’organizzazione come Moas possa spendere 400mila euro al mese è un dato che merita un approfondimento ».
“ONG PAGATE DA SCAFISTI”,
BUFERA SUL PM
di m.v. e a.z
«Sugli sbarchi i sospetti del procuratore di Catania: “Forse l’obiettivo è destabilizzare l’economia del nostro Paese” Interviene il governo. Orlando: parli con gli atti e le indagini. Minniti: basta generalizzazioni e i giudizi affrettati»
Parole che hanno indotto il ministro di Grazia e giustizia Andrea Orlando ad ammonire il magistrato: «La Procura di Catania parli attraverso le indagini e gli atti. Ricostruire la storia delle Ong come la storia di collusi con i trafficanti è una menzogna ». L’invito a «evitare generalizzazioni » arriva anche dal ministro dell’Interno Marco Minniti. E Zuccaro replica: «Nessuna generalizzazione. I soldi spesi per Ong solide come Msf o Save the children sono spesi bene. Sulle altre stiamo svolgendo accertamenti ». Che non sono in capo alla sola Procura di Catania.
Già da mesi lo Sco della Polizia di Stato è al lavoro sulle modalità delle operazioni di alcune Ong i cui bilanci presenterebbero costi eccessivamente gonfiati rispetto a spese di gestione o ad attrezzature come i droni che, ad esempio, alla Marina italiana costano la metà. Con attenzione si guarda anche alle rotte seguite da alcune di queste navi che, pur raccogliendo migliaia di migranti a poche miglia da Malta, li avrebbero sempre portati in Italia in qualche caso trasbordandoli anche su strane navi, come il mercantile turco “Tuna 1”, nel 2015 bombardato dalle milizie libiche perché sospettato di trasportare armi per altre fazioni, al quale qualche settimana fa la nave Phoenix di Moas ha affidato quasi 500 migranti da portare al porto di Palermo.
«Che qualcuno non si stia comportando bene direi che è possibile. Arrivo a dire: è probabile – dice Matteo Renzi - Ma la visione degli operatori delle Ong che sono tutti al servizio degli scafisti, come detto da qualche aspirante statista, non va bene. Se qualche Ong va a qualche miglio dalla costa credo si debba intervenire. Dopodiché vanno combattuti gli scafisti, non i volontari che salvano in acqua le mamme che rischiano di morire...».
Le nuove accuse di Zuccaro riaccendono la polemica del M5S. «Non so se è chiaro: Ong forse finanziate dagli scafisti! Gli ipocriti continuino pure ad attaccarmi, io vado fino in fondo », dice il vice presidente della Camera Luigi Di Maio. Dalle Ong si leva un coro di proteste. Regina Catambrone, fondatrice di Moas, accusa: «Questi politici stanno facendo campagna elettorale sulla morte delle persone ».
»
. il Fatto Quotidiano, 27 aprile 2017 (c.m.c.)
I musei pubblici mostrano la propria indipendenza intellettuale attaccando duramente le politiche del governo. Non è dell’Italia che sto parlando, ma dell’America di Trump. Basta andare nelle affollatissime sale del MoMA (Museum of Modern Art) di New York, per vedere a ogni angolo una protesta contro le discriminazioni alla frontiera lanciate dal neo-presidente repubblicano. In ogni sala, accanto alle opere degli artisti più famosi, che attirano visitatori da tutto il mondo, la direzione del museo ha esposto un’opera di un artista che proviene dai Paesi ai cui cittadini Trump vuol negare l’ingresso negli Stati Uniti.
Chi va al MoMA in questi giorni vedrà accanto a Picasso un quadro del sudanese Ibrahim El-Salahi, accanto a Munch un dipinto dell’irachena Zaha Hadid (sì, proprio l’architetto del MAXXI, prematuramente scomparsa). La preziosa stanza con alcune opere di Umberto Boccioni ospita anche una scultura di Parviz Tanavoli, scultore iraniano che ha studiato a Brera; fra gli altri artisti iraniani, Shirana Shahbazi figura accanto a Marcel Duchamp, Charles Hossein Zenderondi vicino a Matisse, Tala Madani condivide una stanza con Mirò, Faranaz Pilaram fa compagnia a Jackson Pollock. Sotto ognuna di queste opere, sempre la stessa scritta: «Questa è l’opera di un artista che viene da una nazione ai cui cittadini, secondo un recente ordine esecutivo del Presidente, si vorrebbe negare l’accesso agli Stati Uniti. Come questa, numerose altre opere d’arte sono state installate in tutte le sale per affermare che gli ideali di accoglienza e libertà sono considerati vitali da questo Museo, e devono esserlo anche per gli Stati Uniti».
In un simile spirito, la Biennale di arte americana del Whitney Museum, che quest’anno si tiene per la prima volta nella sua nuova sede del quartiere di Chelsea, ospita un gran numero di opere di dura critica al governo americano, e in particolare all’attuale Presidente.
Per citarne solo una, Frances Stark occupa una vasta sala del museo con otto enormi tele che riproducono altrettante pagine di un libro di Ian Svenonius (cantante underground e leader di un comitato contro ogni autoritarismo). Il titolo del libro (e delle tele) è Censorship Now!, e invoca sarcasticamente l’immediata “censura” dei media che invocando la libertà di stampa si vendono al potere e all’ideologia neoliberista. «Siamo inondati, immersi, immolati notte e giorno dai detriti che il loro monopolio della libertà di parola ci rovescia addosso. È un monopolio del potere di cui godono i più egoisti, i più ricchi, e dunque i più grotteschi e i meno generosi. Non hanno freni, sono impazziti. Censuriamoli! (…)
Censuriamo i politici! Anche se eletti, sono totalmente corrotti e si svendono ai più schifosi interessi di parte. Dobbiamo mettergli la museruola! (…) Come mai si consente all’industria di inquinare il mondo con tutto quello che gli viene in mente di offrirci a modello dato che controllano il mercato? Perché non poniamo un limite alle tecnologie che trasformano e degradano la Terra e la nostra esperienza?». E così via. Il pamphlet di Svenonius è del 2015, ma Frances Stark lo riattualizza ingrandendone a dismisura le pagine, e arricchendole di sottolineature che è impossibile non leggere come altrettanti riferimenti all’amministrazione Trump.
Il museo, dunque, come luogo del dissenso e della protesta politica. Succede anche in Italia? C’è da dubitarne, visto che periodiche circolari e codici di comportamento invitano i funzionari dei musei pubblici a starsene zitti e buoni, parlando semmai solo per via gerarchica.
Storici dell’arte, archeologi, architetti che lavorano nei musei statali non possono nemmeno manifestare la propria opinione sulle riforme “a rate” del ministero in cui lavorano, a meno che «i contenuti siano preventivamente e obbligatoriamente vagliati dai Direttori generali competenti», mentre «ogni iniziativa autonomamente presa in maniera difforme sarà ritenuta non consona e darà luogo ad azione disciplinare». Negli scorsi anni si è fatto un gran parlare di autonomia dei musei (o almeno di quelli cosiddetti “principali”). Ma solo quando vedessimo nei nostri musei spuntare qualche spazio per la libera espressione del dissenso cominceremo a credere che per “autonomia” può intendersi, anche in Italia, prima di tutto la possibilità di pensare in proprio, e di dire quel che si pensa senza essere repressi dal Superiore Ministero.
».
il manifesto 28 aprile 2017 (c.m.c.)
Le nubi nere che sovrastavano il Tribunale d’Imperia promettevano pioggia, ma le lacrime di gioia dell’anziana nonna e da quelli della mamma di Felix riportano il sole in una giornata storica. Felix Croft è stato assolto dall’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Il collegio, presieduto da Donatella Aschero, ha ritenuto applicabile la «clausola umanitaria». La famiglia aiutata da Felix si trovava in uno stato di bisogno tale da rendere l’aiuto lecito.
È la prima sentenza in Italia di questo tenore. Rifacendosi all’articolo 12, comma 2, del Testo Unico sull’immigrazione, i giudici hanno pronunciato la sentenza di assoluzione perché il fatto non costituisce reato.
Libero quindi il 27enne francese che i carabinieri avevano arrestato il 22 luglio 2016 quando a bordo della sua Citroen imboccava l’autostrada che da Ventimiglia porta alla Francia. Insieme a lui una famiglia sudanese. Padre, madre incinta di sei mesi, il fratello della madre e i due figli, il maschio di 5 anni e la figlia di 2. Dormivano nella chiesa di Sant’Antonio a Ventimiglia, in condizioni disperate. Presto, per la rotazione imposta dai numeri dei migranti affollati nella città ligure, sarebbero finiti per strada.
Erano fuggiti dal Darfur, portandosi dietro nient’altro che le ferite di un genocidio che va avanti da 14 anni. Il bambino ha cicatrici sul fianco riportate nell’incendio che le truppe governative avevano appiccato alla loro casa. Lo stato di estrema frustrazione della famiglia aveva spinto Felix a fare qualcosa che non aveva mai fatto, decidere di attraversare il confine e portarli a casa sua per farli riposare e mangiare adeguatamente. In quel periodo era difficile aiutare i migranti in loco, il sindaco di Ventimiglia aveva emesso un’ordinanza che proibiva, per ragioni sanitarie, di dare cibo ai profughi.
Felix ha da subito rivendicato il suo gesto umanitario, anche di fronte alla pesante accusa. Per il Pubblico Ministero Grazia Pradella, che aveva chiesto 3 anni e 4 mesi e 50mila euro di multa, quell’atto metteva in pericolo la sicurezza dello Stato. Alla domanda, «Sapeva che portandoli in Francia commetteva un reato?», Felix aveva risposto semplicemente «Sì». Ma oggi il Tribunale gli ha dato ragione.
Il grido Hurriya, libertà in arabo, urlato anche in francese e italiano, è il coro che si sprigiona dalle bocche, fino a quel momento cucite dalla tensione, del centinaio di solidali che hanno accompagnato Croft durante il processo.
«Questa è una pietra miliare per chi si sente impotente e stritolato dalle leggi in questo periodo di immense sofferenze» – dice all’uscita dal Tribunale. «Questa sentenza dice alle persone di non avere paura della loro solidarietà. Se lo Stato è assente le persone devono agire perché la loro umanità è la base sulla quale si fondano le società». E a Ventimiglia, nell’estate 2016, né Italia né Unione europea avevano saputo trovare una soluzione per quelle migliaia di persone che premevano sul confine alla ricerca di un po’ di dignità, oltre che di un tetto e un pasto caldo.
«Sin dall’inizio non ho voluto ricorrere a scappatoie per difendermi – dice Felix – sapevo che non avevo fatto niente di male e che non dovevo avere paura della mia scelta. Mi hanno accusato di aver messo in pericolo lo Stato, credo che questo derivi dal fatto che c’è la tendenza, purtroppo molto diffusa, a fare l’equazione nero, musulmano, terrorista. Questo pensiero va combattuto col cuore e se c’è una giustizia quella prevarrà sul razzismo e sui pregiudizi».
Laura Martinelli, giovane avvocato del foro di Torino, che ha difeso Felix insieme a Ersilia Ferrante del foro d’Imperia, non nasconde la felicità: «È una grande vittoria, il collegio ha riconosciuto che la condotta di Felix non è reato. È un segnale positivo in un momento in cui molte persone e Ong impegnate nell’aiutare i migranti vengono criminalizzate, accusate di essere complici dei trafficanti di uomini. È un precedente importante».
«Ora continuerò ad aiutare chi ha bisogno, le migliaia di profughi che anche in Europa non trovano scampo dalle ingiustizie», dice il giovane francese: «Tutto quello che faccio è provvedere a piccole cose che però sono di enorme aiuto a chi si trova privato di tutto, compresa la speranza. Certo dovrò farlo in Francia, visto che ho un foglio di via dall’Italia per una manifestazione a Mentone».
Resoconto in diretta da una delle imbarcazioni delle Ong che, secondo il grillino Di Maio e la banda di xenofobi cui si è aggregato, dovrebbero essere puniti per eccesso di umanità.
il Fatto Quotidiano, 26 aprile 2017 (p.d.)
Alle 6 di mattina a 18 miglia dalla costa libica Pietro Catania, capitano della nave salvataggio Prudence di Medici Senza Frontiere, mi fa vedere sulla carta nautica tre gommoni segnalati in partenza nella notte dalle spiagge di Sabrata. Alle 6 di mattina hanno raggiunto le 8 miglia di distanza. Inizio il turno di avvistamento al binocolo. Il radar di bordo non basta a segnalare un’imbarcazione bassa, fatta di gomma e dicorpi umani. Sull’altro bordo di prua Matthias Kennes, responsabile di Msf, sorveglia il rimanente pezzo di orizzonte. Si vedono le luci della costa, l’alba è limpida. Passano le ore inutilmente.
Veniamo a sapere che i gommoni sono stati intercettati dalle motovedette libiche e costrette al rientro. Avevano raggiunto le 15 miglia, perciò fuori dal limite territoriale delle 12,che sono in terra 22 km. Potevano lasciarli stare. Sono già condannati a morte se fanno naufragio entro il limite, dove non possiamo intervenire. Li riportano a terra per chiuderli di nuovo in qualche gabbia: non tutti. Uno dei gommoni trainati si rovescia. Affogano in novantasette. Quando si tratta di vite umane, le devo scrivere con le lettere e non con le cifre. Ventisette invece sono ammesse alla lotteria della salvezza. A bordo della Prudence era tutto pronto. Restiamo con i pugni chiusi, senza poterli aprire per raccogliere. Guardo il mare stasera: disteso, pareggiato a tappeto. Non si può affondare senza onde. Bestemmia al mare è affogare quando è calmo, quando non esiste alcuna forza di natura avversa, tranne la nostra. Siamo coi pugni chiusi. Non soffro il maldimare, ho imparato da bambino a stare in equilibrio sulle onde. Non soffro il maldimare, ma stasera soffro il male, il dolore del mare, la sua pena d'inghiottire da fermo i naviganti. È creatura vivente il mare che i Latini chiamarono con affetto Nostrum, perché nessuno potesse dire: è mio. La nave in cui mi trovo vuole risparmiare al Mediterraneo altre fosse comuni. Rimaniamo al largo un giorno e un'altra notte di veglia.
Questo è oggi il trasporto delle vite sul Mediterraneo, da una parte crociere in girotondo, dall’altra parte zattere alla deriva, affidate all'arbitrio di chi intasca quattrini sia dai trafficanti che dall’Unione europea. Una pacchia per loro: perché dovrebbero rinunciare a uno dei contribuenti? Un naufragio qua e là, l'arresto di qualche gommone a casaccio, così per fingere di rispettare gli accordi. Gli accordi prevedono i naufragi? Non sia mai detto. Gli accordi ammettono effetti collaterali, colpa degli irriducibili che vogliono viaggiare per forza. Proprio così, per forza: vengono prelevati di notte dai recinti, a scaglioni di centocinquanta è costretti a salire sul gommone.Costretti: parecchi vorrebbero ritirarsi di fronte al buio e al rischio assurdo. Non possono. Chi resiste, sale sotto spinta di armi. Uno di questi, recuperato in un salvataggio precedente, aveva un proiettile nella gamba. I trafficanti li incalzano, poi affidano bussola a timone a uno del carico. Gli scafisti non ci sono più. Una delle unità veloci calate dalla Prudence per avvicinamento ai gommoni, chiede a quello che regge la barra del fuoribordo di spegnere il motore. Risponde che non lo sa fare. Gli scafisti hanno messo in moto e lui sa solo reggere la barra. L’unità veloce è costretta all'abbordaggio. Lionel, operativo di Msf, si fa tenere per i piedi e dalla prua si lancia sul motore fuoribordo del gommone per spegnerlo. Gli scafisti non esistono più.
Nel porto di Augusta in Sicilia, dove salgo a bordo della Prudence, c'è un campo di primo internamento per chi sbarca da navi soccorso. A fianco, grandi gru caricano rottami di ferro dentro stive dirette a fonderie in Asia. Viaggiano con documenti in regola pure i chiodi arrugginiti. Gli esseri umani del campo vicino sono invece carico fuorilegge in attesa di respingimento. Le ultime procedure introdotte dal nuovo malgoverno cancellano il diritto di appello del richiedente asilo, in caso di primo rigetto della sua domanda. Tolgono il diritto di appello: a chi ha perso tutto quello che poteva già perdere. Si scrivono e si approvano da noi leggi d' inciviltà feroce. Qualche svaporato nostrano dice che i gommoni partono perché ci sono le navi di soccorso al largo.
Sono venti anni che partono zattere a motore imbottite di umanità spaesata. La prima fu affondata nella Pasqua del ‘97 da una nave militare italiana che aveva l'ordine d'imporre un abusivo blocco navale in acque internazionali. Veniva dall'Albania, il suo nome era Kater i Rades. Lo Stato italiano se la cavò con dei risarcimenti alle famiglie dei circa novanta annegati.
Sono venti anni che viaggiano sul Mediterraneo zattere a motore senza alcun soccorso.Ora che finalmente esiste una comunità internazionale di pronto intervento in mare, sarebbe colpa sua se partono i gommoni. Come dire che esistono le malattie per colpa delle medicine. Se i delfini venissero in aiuto dei dispersi in mare, questi svaporati li accuserebbero di complicità coi trafficanti. In verità la loro fandonia intende accusare i soccorritori d’interrompere il regolare svolgimento del naufragio. Perché siamo e dobbiamo rimanere contemporanei incalliti del più lungo e massiccio affogamento in mare della storia umana.
Il giorno seguente all’alba torniamo a scrutare l'orizzonte dietro le lenti dei binocoli. Sappiamo che sono partiti di notte da Sabrata. Il mio compagno di cabina, Firas,di origini siriane, legge su FB messaggi in arabo dove si scambiano queste notizie. Localizziamo il primo gommone, stracarico, gli uomini stanno a cavallo dei tubolari, a prua è mezzo sgonfio. Si cala l’unità veloce che per prima cosa distribuisce giubbotti di salvataggio. Spesso la vista del soccorso produce una pericolosa agitazione a bordo del gommone. Il mare è quello piatto di ieri. Firas a prua col megafono mantiene la calma spiegando le manovre seguenti. Quando tutti hanno indossato il giubbotto, la Prudence si accosta e aggancia il gommone alla sua fiancata. Da una scaletta di corda salgono a bordo uno per volta, aiutati da braccia robuste. Alcuni non si reggono in piedi per la posizione forzata tenuta sul gommone per molte ore. Salgono donne incinte e due bambini. A ognuno viene dato subito uno zainetto con una tuta, barrette caloriche, succhi di frutta, acqua, un asciugamano. La squadra medica fa a ognuno una prima visita. Tre container sul ponte sono attrezzati a unità ospedaliera, divisa in rianimazione, pronto soccorso, isolamento per casi infettivi e una piccola sala parto. Se ne occupa Stefano Geniere Nigra, giovane medico torinese. A bordo della Prudence non si usa il termine di profughi, migranti e titoli affini. Sono chiamati ospiti. Ricevono la più urgente ospitalità, quella data a chi arriva dal deserto. Mi affaccio sul gommone svuotato, il fondo è tenuto insieme da un tavolato sconnesso. Ha portato centoventinove persone, con un motorino fuoribordo di 40 cavalli. Dalle sei di mattina fino a sera si raggiungono altri tre gommoni sparsi fuori delle 12 miglia, più un trasbordo da una nave soccorso più piccola che era a limite di carico. A sera si trovano sistemati seicentoquarantanove ospiti.
La Prudence può contenerne mille, è la più grande unità della zona. La sera si fa rotta su Reggio Calabria, destinazione assegnata dal comando di Roma. Gli ospiti finalmente al sicuro, nutriti, riscaldati, iniziano preghiere, canti e ballano insieme, popoli di terre diverse e lontane tra loro. Sono a bordo, diretti in Italia. È la sola parte del viaggio che non costa loro nulla. È il solo dono, l’unico passaggio gratis venuto loro incontro. È anche il migliore trasporto. Qui sul mare è successo il sottosopra dell'economia: il peggiore trasporto è costato loro carissimo, il migliore invece niente. Esultano per liberazione. Ho con me il passaporto. Nessuno di loro ha un documento nè un bagaglio. Il loro esilio li ha privati del nome, l' identità è che sono vivi e basta. I loro figli, i loro nipoti vorranno sapere, ritrovare le impossibili piste attraversate, l’epica leggendaria che oggi è un trafiletto in cronaca, in caso di strage.
“Ennesimo” è l'aggettivo osceno che accompagna il titolo, accanto al neutrale sostantivo di naufragio. Ennesimo: il cronista è stanco di dover tenere il conto, alzare il sopracciglio per l’ennesima volta. Sulle rive del lago Kinneret, chiamato Tiberiade dai conquistatori venuti da Roma, il giovane fondatore del cristianesimo cercò i primi compagni. Erano di mestiere pescatori. Al giovane piacevano le metafore. Secondo Matteo (4,19) disse: “Venite con me, vi farò pescatori di uomini”. Eccomi in un tempo e su una nave che applica alla lettera l'impulsiva metafora. Sto con persone che si sono messe a pescare uomini, donne, bambini. Il Mediterraneo è un lago Kinneret salato e più grande.
Chi sono questi pescatori? Per coincidenza con la vicenda precedente, a bordo sono tredici, ma senza un Iscariota in squadra. Quattro di personale medico, tre organizzatori tecnici, tre interpreti e mediatori culturali, una psicologa, una responsabile delle comunicazioni e in più il coordinatore. Ognuno ha esperienza di interventi con Msf in varie aree del mondo. Hanno scelto la professione del soccorso, ma per farla non è sufficiente la competenza. Serve una catapulta interiore pronta al lancio dove si grida aiuto. Hanno passaporti di molte nazioni, ma il loro titolo è: senza frontiere. Qui nelle acque internazionali sono nel loro ambiente. Quando la loro presenza è indispensabile, non valgono i confini. Perciò disturbano spesso la condotta dei governi coinvolti. Hanno scelto di non prendere fondi dall'Unione Europea. Perciò non piacciono alla sua agenzia Frontex, che si occupa di frontiere nel Mediterraneo e non sopporta l'impegno di organismi indipendenti, anche se salvano vite che senza di loro andrebbero perdute.
Domenica mattina di Pasqua la Prudence è in vista del porto di Reggio Calabria. Troveremo sul molo in un giorno di festa solenne il dispositivo necessario alla sbarco? Il dubbio si dilegua all'imbocco del porto: primi si vedono per numero e colore di magliette azzurre i giovani volontari cattolici che cantano cori di benvenuti. Poi il personale medico al completo, i funzionari di polizia del servizio immigrazione, i molti autobus per il trasporto degli sbarcati nelle varie destinazioni. A ognuno che scende lungo la passerella, i volontari danno un opuscolo in varie lingue che informa su diritti e procedure, a conferma di quanto già spiegato a bordo. Scendo e ricevo addirittura il saluto del sindaco venuto al molo con alcuni assessori. Non riesco a credere: è domenica di Pasqua, ma sono tutti pronti a funzionare con efficienza, cordialità, rispetto. A Reggio Calabria, mi dicono, è prassi da due anni. Matthias Kennes mi conferma che anche nel porto di Palermo hanno un simile spirito di servizio negli sbarchi. Gli uomini e le donne scendono separatamente. Una di loro si volta intorno smarrita. Una funzionaria di polizia fa chiedere a un’interprete cosa stia cercando. Si tratta del marito. La funzionaria lo va a cercare, lo trova e si assicura che la coppia viaggi insieme. Si può fare: tenere insieme procedure e senso di umanità solidale. Grazie Reggio. Il mattino dopo si è di nuovo in mare dopo un rifornimento accelerato. Si va a velocità sostenuta, c'è urgenza in zona. Sono partiti molti gommoni e sul posto la nave Phoenix del Moas è già carica, con intorno nove gommoni, cioè mille persone senza acqua nè giubbotti salvataggio. Sono tenuti insieme con qualche corda. Abbiamo davanti almeno trenta ore di navigazione e mare grosso che ci rallenta. Non potremo arrivare in tempo. Uno dei gommoni cede e nessuno può farci niente. Questo può spiegare che i trafficanti lanciano gommoni al largo senza nessun calcolo circa la presenza di soccorsi. La loro unica condizione è che il mare sia calmo, non per motivi umanitari, ma perché centocinquanta persone spinte da un motore di 40 cavalli non riescono a prendere il largo se il mare appena increspa. A bordo della Prudence queste partenze vengono chiamate lanci, perché scagliati da un lanciatore che rimane a riva. L’intensità dei lanci di aprile è dovuta alla nostra fornitura di motovedette nuove alla Guardia Costiera libica, che entreranno in servizio a maggio. I trafficanti nell’incertezza affrettano tutti i lanci consentiti dalle condizioni meteo. Il capitano Pietro Catania e il suo equipaggio sono coinvolti anima e corpo in queste operazioni, perché sono gente di mare. Non badano a turni né a orari, fanno tutt’uno con la gioventù di Msf. In rotta da Reggio Calabria la nave incontra maltempo. Veniamo a sapere che è rimasto un gommone, in attesa fuori delle 12 miglia. Siamo i meno lontani ma comunque arriveremo troppo tardi. Allora da Lampedusa, che sta parecchio più a sud di noi, la Guardia Costiera manda due motovedette veloci, che arrivano molto prima e salvano centoquarantatre persone caricandole a bordo. Ci corrono incontro e le trasferiscono da noi. I due equipaggi sono partiti così in fretta da Lampedusa, da non avere caricato neanche il cibo per loro. Sono digiuni, i marinai della Prudence li riforniscono per il loro viaggio di ritorno.
Salgono centoquarantatre persone intirizzite, una donna all'ottavo mese di gravidanza. I loro occhi hanno perduto espressione di domanda, di preghiera, di messa a fuoco. Stanno ancora fissando l'orizzonte vuoto.“Lo senti dall'odore, da quanto tempo stanno in acqua” mi dice Cristian Paluccio, comandante in seconda. Lo sento forte anch’io, è tannino, materia da conciatore di pelle, un sudore di cuoio. Ricevuto lo zainetto di primo ristoro si mettono in fila per la doccia. Si tolgono di dosso il fradicio di naufraghi. Dopo il getto di acqua dolce, per loro anche più dolce, riprendono espressione i loro occhi. Cercano i volti, cominciano a chiedere notizie, a capire chi li accoglie al sicuro. Affiorano i canti, i ritmi e il contagioso ballo. Non ho uso di tatuaggi, la mia superficie riporta solo i segni degli anni. Ma gli avvenimenti del mondo che mi hanno coinvolto fisicamente, mi hanno inciso tatuaggi dalla parte interna della pelle. Abito dentro la mia, posso percepirli e li distinguo. Ho disegni scritti sul lato che non scolorisce. Le due settimane a bordo mi hanno impresso un tatuaggio nuovo: una scala di corda che pesca nel vuoto. Dal suo ultimo gradino ho visto spuntare una per una le facce di chi risaliva dal bordo di un abisso. Stipati in una zattera, scalavano i gradini della loro salvezza. Quelle centinaia di facce: non ho la virtù di poterle trattenere. Ho avuto l’assurdo privilegio di averle viste. i loro mi resta la scala di corda che hanno scalato seminudi e scalzi su pioli di legno. Pratico alpinismo e credo di sapere di preciso cosa sia il verbo scalare. Invece non lo sapevo. Ho imparato in mare a bordo di una nave quello che nessuna cima raggiunta mi ha insegnato prima. Perciò sotto pelle si è impresso il tatuaggio di una scala di corda coi pioli di legno.
Riferimenti
Sull'argomento vedi anche, in eddyburg, gli articoli raccolti sotto il titolo È giusto sparare contro le ONG che salvano i profughi? e la relativa postilla
ù
Le Organizzazioni non governative che salvano dalla morte i profughi sono complici dei mercanti di schiavi e soccorrono per lucro? Articoli di Roberto Saviano e Marco Tarquinio,
la Repubblica, l’Avvenire, 25 aprile 2017, con postilla
la Repubblica
PERCHÉ DIFENDO
di Roberto Saviano
«Dalle leggi travisate alla parola taxi citata a sproposito: l’emergenza sfruttata a fini elettorali Eppure Msf e gli altri riempiono un vuoto umanitario lasciato dalle istituzioni europee»
PER capire bisogna prendersi del tempo. Per capire bisogna leggere le fonti e verificarle. La tristissima vicenda che riguarda la polemica del Movimento 5Stelle sulle Ong che nel Mediterraneo si occupano di soccorrere i migranti mostra come, a partire da Beppe Grillo per finire con il vicepresidente della Camera Luigi Di Maio, i 5Stelle parlino su questo argomento per sentito dire, riportando affermazioni senza verificarle, dandole per vere e proponendo interrogazioni parlamentari che hanno il sapore di strumento di propaganda fine a se stessa.
Di Maio dichiara: «Definire taxi le imbarcazioni delle Ong non è un mio copyright. Prima di me, e a ragione, lo ha detto l’agenzia dell’Ue Frontex nel suo rapporto “Riskanalysis 2017”».
Basterebbe leggerlo davvero il rapporto per verificare che non paragona mai, in nessun punto, le imbarcazioni delle Ong che si occupano di search and rescue nel Mediterraneo a dei taxi. Non lo fa perché sarebbe scorretto, e non lo fa perché “taxi” significa lusso, significa comodità. E comodità e lusso sono parole che con le storie di chi attraversa il Mediterraneo per raggiungere l’Europa non c’entrano nulla.
E allora, se la parola taxi non si trova nel rapporto Frontex — anche se Di Maio dice di aver letto il rapporto ed è convinto che vi sia la parola “taxi” — chi l’ha pronunciata per primo? Nemmeno il procuratore della Repubblica di Catania, Carmelo Zuccaro, che Di Maio indica come altra sua fonte. Ma vale la pena analizzarle le parole di Zuccaro, perché sono comunque la fonte primaria della comunicazione che sull’argomento hanno fatto il Movimento 5 Stelle e Luigi Di Maio. La procura di Catania viene infatti citata in un articolo pubblicato sul blog di Grillo e trattato come fosse un documento dirimente sull’argomento, quasi pietra miliare.
Dice testualmente Carmelo Zuccaro in un’intervista: «Tra il settembre e l’ottobre 2015 nascono numerose Ong. Cinque tedesche, una spagnola e una maltese, che quindi nascono dal nulla e che dimostrano di avere subito disponibilità di denari per il noleggio delle navi, per l’acquisto di droni ad alta tecnologia e per la gestione delle missioni, che sembra molto strano che possano aver acquisito senza avere un ritorno economico ». Quindi la domanda che la procura di Catania si pone è: chi paga le missioni? Il procuratore apre un fascicolo conoscitivo, senza indagati né capi di accusa, su sette Ong che, con tredici navi, salvano migranti nel Mediterraneo. Le Ong rivendicano la trasparenza dei loro bilanci che si basano su finanziamenti privati e infatti Zuccaro non ha alcuna certezza che le missioni umanitarie nel Mediterraneo siano in realtà dei “taxi per migranti” e parla di “sospetto” e ribadisce di “un mero sospetto”, se non fosse ancora abbastanza chiaro. Un mero sospetto che nelle dichiarazioni del Movimento 5 Stelle e di Di Maio diventa una quasi certezza, lanciata come sempre in pasto ai social, dove si sa, l’approfondimento non è di casa. Dove ci si affida al pensiero di terzi perché il proprio vi si adegui.
Ma quello che mi ha colpito delle dichiarazioni di Zuccaro è la riflessione sul pericolo che corre l’Italia ad accogliere migranti in maniera incontrollata. Ed è proprio qui che si collega l’articolo pubblicato sul blog di Beppe Grillo dal titolo: “Più di 8mila sbarchi in 3 giorni: l’oscuro ruolo delle Ong private”. Dove si fermano le ipotesi della procura di Catania, arrivano le certezze dei 5 Stelle, dove la procura di Catania non si inoltra per mancanza di prove, lo fanno Grillo e Di Maio: le Ong, prima di qualsiasi indagine o processo, sarebbero “colpevoli” di portare migranti in Italia.
Ma perché in Italia? Perché non nei porti fisicamente più vicini? Semplice: perché l’Italia è il porto più sicuro, perché chi fugge dalla Libia o dalla Tunisia non può tornare in Libia o in Tunisia. Intanto perché la Libia non ha ratificato la Convenzione di Ginevra sui rifugiati e poi perché «nei soccorsi in mare», come riporta Annalisa Camilli in un fondamentale articolo sul tema, «viene applicata la convenzione di Amburgo del 1979». “Porto sicuro” non è infatti semplicemente un luogo che sia terraferma, ma sicuro anche e soprattutto per la garanzia dei diritti delle persone che si trovano in mare. Perché se è illegale favorire l’immigrazione clandestina è altrettanto illegale non prestare soccorso in mare.
Spesso poi si fa riferimento alla distanza tra le imbarcazioni delle Ong che effettuano salvataggi in mare e la costa, come a insinuare questo dubbio: «Perché quelle navi si trovavano così vicino alle coste? Perché a 12 miglia?». Si omette però di dire che è lecito avvicinarsi fino a 12 miglia nautiche se serve per salvare vite umane. Medici Senza Frontiere, per esempio, nel 2016 in cinque occasioni ha prestato soccorso a circa 11,5 miglia dalla costa dopo aver avuto l’ok delle autorità libiche. Le Ong agiscono dove altri non arrivano e mai senza il via libera delle autorità competenti.
Ma veniamo all’articolo che è stato la base teorica per i post di Di Maio. Se è vero, come è vero, che le prime righe di un testo contengono il messaggio che si vuole veicolare, ecco il messaggio che il blog di Beppe Grillo vuol farci arrivare: «Negli ultimi giorni l’Italia ha registrato un record di sbarchi senza precedenti. In poco più di 72 ore circa 8mila migranti sono approdati in Sicilia dopo una lunga traversata in mare». Ergo: il problema sono gli arrivi. E poi, dato che come è noto, nessuno di noi ha tempo da perdere per leggere ed approfondire, l’articolo ci rende la vita facile e mette alcune frasi chiave in evidenza cosicché quello che ci troviamo davanti è un articoletto di poche righe, che facilmente ci resteranno impresse. Eccole: «Con l’aumento degli sbarchi aumenta ovviamente anche la spesa interna dell’Italia». «È la solita solfa, con un’Europa che ci è totalmente estranea e indifferente ». «Ma c’è un nuovo capitolo che sta emergendo in queste ore e che merita attenzione ».
Qui vale la pena riportare l’intero paragrafo perché aggiunge liberamente informazioni alle dichiarazioni ipotetiche della Procura di Catania: «Parliamo di circa una dozzina di Ong tedesche, francesi, spagnole, olandesi, e molte di queste battono bandiere panamensi o altre bandiere ombra». Zuccaro parlava di sette Ong e tredici imbarcazioni attenzionate dalla Procura di Catania, ma nell’articolo sul blog di Grillo il loro numero lievita.
In un’altra intervista sullo stesso argomento, Zuccaro precisa che non tutte le Ong che recuperano migranti sono uguali: «Ci sono quelle buone e quelle cattive». Nel dubbio, però, Grillo e Di Maio hanno pensato di gettare fango su tutte: prima che ci sia un processo e che si possa accertare cosa accade, meglio disincentivare le donazioni alle Ong che salvano vite e che portano migranti in Italia.
Ora, terminato il fact checking alle dichiarazioni di Grillo e Di Maio, ci tengo a fornire una serie di strumenti utili a capire qual è la situazione. Se le navi delle Ong Proactiva open arms, Medici senza frontiere, Sos Méditerranée, Moas, Save the Children, Jugend Rettet, Sea watch, Sea eye e Life boat si trovano anche vicino alle coste libiche è perché è lì che serve la loro presenza allo scopo di salvare vite. Le Ong non si sono messe a fare un “servizio taxi” per i migranti di punto in bianco, ma riempiono un vuoto umanitario lasciato dalle istituzioni europee.
Ma Di Maio afferma ancora: «La verità è che in Italia in questi ultimi 20 anni ci sono stati due generi di sfruttamento dell’immigrazione. Il primo è quello della Lega, che ha lucrato elettoralmente sul problema, senza mai risolverlo. L’altro invece è quello del centrosinistra, che ha anche preso soldi dalle cooperative che sfruttavano il business dei migranti. Non a caso Salvatore Buzzi finanziò una cena elettorale di Matteo Renzi. Destra e sinistra hanno già fallito».
Bene, se è così, allora il M5S ha capito che vale sicuramente la pena, in questo momento, aderire alla prima strada, ovvero a quelli che la questione migranti la sfruttano per motivi elettorali. E sono i numeri a parlare: nel 2016 su 178.415 migranti salvati nel Mediterraneo, le Ong ne hanno salvati 46.796, a fronte dei 35.875 salvati dalla Guardia Costiera, dei 36.084 salvati dalla Marina Italiana, dei 13.616 salvati da Frontex (dati della Guardia Costiera Italiana). Se le Ong fossero spazzate via da diffidenza e sospetti, se si interrompesse il sostegno economico privato, calcolate quanti migranti in meno arriverebbero in Italia, e non perché ne partirebbero di meno, ma perché morirebbero in mare, seppelliti dalle acque, e noi saremmo circondati da un cimitero più cimitero di quanto non lo sia già.
E in tutto questo, come ha reagito il Partito democratico alla polemica sulle Ong? Parole vuote e di circostanza. Dichiarazioni smentite dai fatti, con il decreto Minniti che sta progressivamente criminalizzando la solidarietà. Invece di eliminare, come sarebbe ovvio, giusto e conveniente, il reato di immigrazione clandestina si sta subdolamente introducendo il reato di solidarietà.
l’Avvenire
Quella «supplenza diciviltà» in mare.
Basta fuoco sulle Ong
di Marco Tarquinio
Ci risiamo. Dopo le cooperative sociali, le organizzazioni non governative umanitarie. Mentre ancora romba sordamente la campagna anti-cooperative fondata ingenerosamente sull’infedeltà e sul malaffare di alcune (solo alcune) di esse, ha preso a stringersi, a strappi violenti e continui, la tenaglia della polemica politica – dalla Lega ai 5 Stelle, passando per pezzi dell’area di governo – e della narrazione mediatica ambigua e ostile sulle attività delle organizzazioni umanitarie. Ancora una volta il settore d’impegno e d’azione messo nel mirino è quello del soccorso e dell’accoglienza a profughi e migranti. Stavolta in mare aperto, nelle attività di ricerca e soccorso dei bambini, delle donne e degli uomini in fuga dalla guerra, dalla violenza, dalla fame e dalla schiavitù che rischiano di morire nelle traversate del braccio di mare tra il Nord Africa e l’Italia. Traversate da incubo a cui sono costretti dalla mancanza di navi e vie e voli regolari e regolati e da un sistema di norme che li “clandestinizza” (e meno male che l’Italia ha saputo capovolgere questa impostazione almeno riguardo ai bambini e ai ragazzi che arrivano da soli nel nostro Paese). Traversate che continuano vista la piccolezza dei «corridoi umanitari» – aperti, in accordo coi rispettivi Governi, solo grazie alle iniziative ecumeniche di Sant’Egidio, dei protestanti italiani e francesi e delle Conferenze episcopali d’Italia e Francia – che possono diventare la giusta e finalmente proporzionata risposta alle sofferenze e agli appelli delle vittime dei conflitti e delle persecuzioni.
Le Ong impegnate nel Canale di Sicilia sono gli occhi che rischiamo di non avere più, sono le mani che non possiamo lasciare inerti, alimentano consapevolezze e sani e tenaci rovelli nelle coscienze d’Italia e d’Europa. Per questo non si può restare neutrali e indifferenti al tentativo di lordarne l’immagine e di “espellerle” dal Mediterraneo. È un fatto: denunce, segnalazioni, dossier, pamphlet, video anti-immigrati e anti-Ong si moltiplicano. Strumentalizzano accertamenti giudiziari. Trovano spazio, eco e legittimazione sulle pagine di giornali, anche autorevoli, dove nel giro di una manciata di settimane titoli pesanti e un aspro rumore di fondo informativo hanno preso a costruire, poco a poco ma con impressionante determinazione, l’abbinamento senza senso e senza verità tra gli «affari» dei trafficanti di essere umani e le Ong umanitarie.
Eppure corre quest’ennesimo falso ritornello – falso, sì, anzi falsissimo, fino a prova contraria – e continuiamo a registrare che inquirenti di prim’ordine, come quelli della Guardia di Finanza, stanno facendo cadere le più malevoli illazioni. Eppure dà ritmo, il ritornello, alla colonna sonora e iconografica di un brutto film, tutto giocato sull’incattivimento degli sguardi e delle parole a proposito dello straniero «che sta alla porta», e importuna, come tutti i poveracci, e sporca, e costa, e ruba ai vecchi di casa nostra, ed è nullafacente… Una “colonna infame” fatta di barzellette ciniche e di immagini odiosamente congegnate, che infestano il web e i cellulari degli italiani e ostentano uno stile che ricorda e aggiorna quello mortalmente usato contro gli ebrei nel cuore più malato del XX secolo a preparare l’inimmaginabile e la criminalizzazione permanente e senza scampo degli «zingari».
Certo, è vero: ogni malefatta compiuta all’ombra di simboli umanitari – se davvero se ne compissero – peserebbe il doppio. E correttezza operativa, onestà di intenti e di mezzi, trasparenza economica e gestionale sono beni necessari, attitudini qualificanti e decisive. Ma è ancora più vero che la specifica azione nel Mediterraneo delle Ong umanitarie, svolta sempre in stretto coordinamento con la Guardia costiera e la Marina militare italiana, vale oggi almeno il quadruplo del normale. È una supplenza di civiltà. È dedizione esemplare, nella più pura applicazione della “legge del mare” e dei grandi princìpi enunciati nei Trattati Onu e nella Costituzione italiana, o semplicemente, per chi crede, è adesione al Vangelo. Un servizio di umanità che risalta ancor più di fronte all’enormità della degenerazione meramente «securitaria» del doppio dispositivo europeo Frontex ed Eunavfor Med che ha sostituito in modo insufficiente e, diciamolo pure, umanitariamente sparagnino e reticente l’operazione italiana Mare Nostrum, voluta con scelta lucida e generosa dall’allora presidente del Consiglio Enrico Letta all’indomani della sconvolgente strage di migranti causata dal naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013.
Quando finirà, insomma, questo gioco al massacro della verità? Ong – come coop – non è una parolaccia, non è una sigla malavitosa. Qualche Ong fasulla c’è stata, qualcun altra ci sarà, ma quello delle Ong è un mondo esigente e buono. La stragrande maggioranza di esse – che operi in Italia, su barche in mezzo al nostro mare o in parti del mondo che forse conosceremo solo grazie a qualche coraggioso reportage o docufilm – è un prezioso e resistente pezzo dell’umanità che non si rassegna alla disumanizzazione, a quella «cultura dello scarto» che papa Francesco non si stanca di additare alla reazione della nostra intelligenza e del nostro cuore.
postilla
Ciò che stupisce e indigna, nelle posizioni dei grillini alla De Maio, dei renziani allaMinniti e degli altri numerosi che ragionano come loro, non è solo la sostanziale inumanità che esprimono ma anche e soprattutto la più cieca ignoranza di due fatti incontestabili:
(1) l'esodo proseguirà inevitabilmente finché proseguirà lo "sviluppo" come è concepito e praticato dal Primo mondo e dalle sue espansioni asiatiche;
(2) i mercanti di profughi (chiamateli scafisti o come altro volete) rimarranno attivi finché i paesi del benessere non si saranno decisi sia a organizzare dei "canali protetti" che aiutino gli "sfrattati dallo sviluppo"a raggiungere i nostri paesi sia a realizzare nelle nostre terre le condizioni per un'accoglienza temporanea o definitiva.
Così stando le cose, non potranno alla lunga essere efficaci - oltre a essere inumani - i tentativi di emulare i nazisti e indurre dli stati di transito, come la Libia) a trasformare i oro territori giganteschi campi di concentramento.
«Questi fatti, vanno seguiti con la massima attenzione: rivelano la tendenza a ritornare a una fase pre-moderna del diritto, quando con i vagabondi e i sovversivi e gli esuli, veniva processato chi dava loro soccorso
». Articoli di Luigi Manconi,Livio Pepino e Marco Revelli.il manifesto, 25 aprile 2017 (c.m.c.)
QUANDO ESSERE UMANI
È UN REATO
di Luigi Manconi
Estate 2016. Ventimiglia, estremo occidente della costa ligure: centinaia di migranti sostano al confine tra Italia e Francia. Cercano di varcarlo, per continuare il loro viaggio, ma l’Europa ha chiuso loro quella porta. Il campo della Croce rossa italiana non riesce più ad accogliere tutti, prendono forma campi di fortuna, allestiti da organizzazioni umanitarie, dove volontari prestano aiuto e assistenza. Félix Croft, europeo di cittadinanza francese, è uno di questi. Di fronte a una simile mobilitazione il sindaco, per motivi di «igiene e decoro», emette un’ordinanza (di recente provvidenzialmente revocata) che vieta la distribuzione di cibo e bevande ai migranti.
Ora, mentre una nuova estate di sbarchi si avvicina, Félix Croft aspetta di sapere del suo futuro. Il 27 aprile sapremo se sarà condannato: la procura del Tribunale di Imperia ha chiesto per lui una pena di 3 anni e 4 mesi di reclusione per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, oltre a una multa di 50 mila euro.
Questo il suo racconto: «Il 22 luglio, parlando con alcuni profughi e volontari del campo, sono venuto a conoscenza della storia particolarmente dolorosa di una famiglia sudanese con due bimbi di 2 e 5 anni, proveniente dal Darfur; insieme ad un’amica psicologa sono andato a trovarli nella chiesa dove avevano trovato un alloggio provvisorio, per verificare i loro bisogni e le necessità più urgenti. Mi sono trovato di fronte a una situazione che mi ha colpito nel profondo: la donna, incinta di 6 mesi, era duramente provata, uno dei bambini aveva ancora su un fianco gli esiti di una profonda ustione, per non parlare del racconto tragico del loro viaggio e della distruzione del loro villaggio, dato alle fiamme. Si trovavano lì bloccati, senza vie d’uscita.
Impossibile per loro camminare lungo l’autostrada, rischiando la morte con i bambini, o peggio prendere un treno, viste le continue perquisizioni sui convogli che passavano la frontiera; non avevano denaro per pagarsi un passeur per tentare di raggiungere la Germania dove avevano dei parenti. Più volte la giovane madre mi ha chiesto aiuto, quasi implorandomi di portarli via con me. Pensavo di ospitarli da me, a Nizza, di farli riposare, per poi affidarli a un’associazione umanitaria che si sarebbe occupata di aiutarli concretamente, di trovargli una sistemazione.
Siamo stati fermati al casello autostradale di Ventimiglia, io sono stato arrestato – anche se i carabinieri hanno verificato che non avevo denaro addosso – la famiglia presa in carico dalla Caritas. Dopo tre giorni in prigione, mi è stata concessa la libertà provvisoria, in attesa di essere giudicato per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina».
Laura Martinelli, Ersilia Ferrante e Gianluca Vitale – gli avvocati che difendono Félix Croft – hanno obiettato all’impianto accusatorio chiedendo l’applicazione della clausola che consente l’eccezione alla fattispecie di reato di favoreggiamento quando esso sia stato prestato per motivi umanitari. Ne hanno chiesto pertanto l’assoluzione, essendo stato – quello dell’accusato – un gesto di solidarietà e umanità.
D’altro canto, proprio in Francia simili casi giudiziari hanno esito diverso. Cédric Herrou, agricoltore della Val Roja, è stato condannato dal Tribunale di Nizza a una multa di 3000 euro con il beneficio della condizionale (la procura nel suo caso aveva chiesto 8 mesi di carcere, sempre con la condizionale) per aver favorito l’ingresso in Francia di 200 migranti privi di documenti. E il 19 maggio conosceremo la sentenza nel caso della giovane attivista italiana Francesca Peirotti, a processo il 4 aprile sempre a Nizza. Il procuratore ha chiesto per lei una condanna a 8 mesi con la condizionale e 2 anni di interdizione dal territorio francese per «aver favorito l’ingresso irregolare di otto migranti».
Questi fatti, che sembrano rispondere a un’unica logica, vanno seguiti con la massima attenzione: rivelano la tendenza a ritornare a una fase pre-moderna del diritto, quando si perseguivano le «colpe d’autore» e diventava materia di sanzione penale la condizione esistenziale. E, con i vagabondi e i sovversivi e gli esuli, veniva processato chi dava loro soccorso.
PRIMA VITTORIA
CONTRO L'INTOLLERANZA
di Livio Pepino e Marco Revelli
L’ordinanza del sindaco di Ventimiglia che vietava di «somministrare cibo ai migranti» è stata revocata!È un primo risultato (anche) del nostro appello alla mobilitazione nella città del ponente ligure il 30 aprile. Ed è una buona ragione per moltiplicare l’impegno e la pressione.
Ventimiglia non è il luogo di maggior pressione migratoria né quello in cui si sono verificati i più gravi episodi di intolleranza. Ed è luogo in cui parte significativa dell’associazionismo laico e cattolico si sta impegnando al meglio per l’accoglienza. Ma è un simbolo di assoluta centralità. Per due motivi fondamentali.
Primo. Ventimiglia è un luogo di confine. Lì, come in altri confini d’Italia e d’Europa, emergono in modo più evidente gli egoismi e le contraddizioni del nostro sistema. I confini tornano ad essere muri. Elementi di divisione. Presìdi contro altre donne e altri uomini. E riemergono intolleranza, violenza, brutalità, rifiuto da parte delle istituzioni.
Eppure sui confini si sono mossi, negli ultimi anni, migliaia di cittadini – pensiamo all’Austria, alla Germania, alla Svizzera… – che hanno sfidato le autorità e accompagnato i migranti in un transito che si voleva impedire. Proprio sui confini, dunque, si gioca la credibilità di chi sostiene di volere un’altra Europa, senza precisare quale. Oggi il discrimine è proprio sul tema dell’accoglienza. Senza demagogie. Sapendo che i problemi ci sono. Ma sapendo anche – e dicendolo forte – che essi vanno affrontati con umanità e lungimiranza, non esorcizzati e rimossi.
Secondo. Ventimiglia è un simbolo anche sotto un altro profilo. Perché lì c’è stata una delle più esplicite tra le ordinanze sindacali che vietano la solidarietà e prescrivono il rifiuto. Oggi quella ordinanza è stata revocata ma la cultura che l’ha ispirata resta pericolosamente viva, come si vede, per esempio, con la vergognosa criminalizzazione delle organizzazioni umanitarie che cercano di salvare i naufraghi nel Mediterraneo.
Con il decreto Minniti, poi, quella cultura diventa regola. Per difendere il «decoro» urbano e tutelare la «tranquillità» dei cittadini ogni prevaricazione diventa lecita. Fino a trasformare l’antico principio che impone di dar da mangiare a chi ha fame e di dare un tetto a chi non ce l’ha nel suo contrario.
Così l’intolleranza e il rifiuto non sono più solo situazioni di fatto. Diventano regole di diritto e si scrive una nuova pagina di un crescente «diritto del nemico». Con gli sviluppi che la storia insegna e che possiamo facilmente immaginare.
C’è quanto basta per essere in molti, ancora di più, a Ventimiglia il 30 aprile e per dare alla manifestazione un ulteriore significato.
Alle ambigue accuse di "buonismo" rivolte a chi soccorre i disperati, e ne salva le vite, provenienti dai politici precocemente invecchiati che fanno l'occhiolino alla destra razzista, ecco la risposta pacata e ragionevole a chi guarda le cose per quello che sono.
la Repubblica, 24 aprile 2017 (c.m.c.)
Chi è ipocrita sulla questione dei salvataggi in mare dei migranti? Le Ong e chi le sostiene finanziariamente (ma anche la marina italiana e Frontex) perché effettuano i salvataggi pur sapendo che c’è chi lucra sui migranti sia nei luoghi di partenza che nei luoghi di arrivo, o chi fa finta di non vedere e non sapere che premono alle porte dell’Europa persone così disperate da correre rischi inenarrabili, compresa la morte, pur di sfuggire alle condizioni di vita che sono loro toccate in sorte?
Basta vedere i minori non accompagnati, le donne incinte, gli anziani che sbarcano dalle navi dopo mesi di cammino e spesso sofferenze indicibili per capire che nulla li può fermare, salvo un cambiamento radicale nelle loro condizioni di partenza. Non è che non conoscano i rischi che corrono, non solo in mare, ma lungo tutto il percorso che li ha portati su quei barconi. Li mettono in conto e considerano che il trade-off tra questi rischi e la vita che toccherebbe loro e ai loro figli se rimangono è comunque positivo, che è meglio rischiare che rimanere.
Se anche tutte le navi delle Ong sparissero dal tratto del Mediterraneo ormai diventato un cimitero, coloro che non hanno altra speranza che cercare di venire in Europa continueranno a tentare, a proprio rischio e pericolo. Ne moriranno solo un po’ di più, perché Frontex è (intenzionalmente?) sottodimensionato rispetto alla necessità.
Che si controlli pure se le Ong che effettuano i salvataggi hanno le carte in regola, se chi si occupa dell’accoglienza lo fa con coscienza e responsabilità o invece lucra sulla pelle dei migranti. Ma ci si dovrebbe anche chiedere perché è stato lasciato loro questo spazio, invece di riempirlo con una efficace iniziativa pubblica europea, come si era promesso quando fu chiusa l’operazione Mare Nostrum.
E perché è possibile che Ong di tutt’Europa possano operare in mare per portare in Italia chi salvano, mentre la redistribuzione nei diversi paesi più volte decisa rimane lettera morta. Così come, nel denunciare giustamente chi lucra sulla accoglienza, ci si dovrebbe chiedere perché si permette che si aprano strutture (o si trasformino strutture preesistenti non più lucrative) per accoglienze di massa che inevitabilmente non fanno nessuna integrazione e al contrario provocano ostilità e sospetto, invece di privilegiare esplicitamente e sistematicamente l’accoglienza diffusa.
Come mi raccontava un esponente di un consorzio di comuni piemontesi, «noi abbiamo fatto grandi sforzi per distribuire pochi migranti in ciascun comune. Poi il proprietario di un albergo chiuso da tempo lo ha riciclato in struttura di accoglienza, ha partecipato a un bando e ora ci sono più di 100 migranti tutti insieme in un comune, cui non si propone nulla e non hanno nulla da fare». Diventando, aggiungo io, facile preda di sfruttatori e malintenzionati di ogni tipo.
Un responsabile di una cooperativa del Sud mi ha detto che loro non partecipano ai bandi per accogliere persone a cento alla volta, perché con questi numeri non è possibile offrire nessuna seria attività di integrazione né avere un minimo di controllo sulle persone. Non c’è solo la malversazione esplicita, come nel caso di Mafia capitale. C’è anche l’infelice incontro tra una politica miope e una, legittima, voglia di guadagno.
Chi ci va di mezzo sono i migranti stessi, oltre le comunità in cui sono collocati. È ipocrita chi fa finta di non vedere questi rischi. Ma anche chi denuncia senza prove e senza proporre alternative, salvo forse il respingimento in mare e l’abbandono al proprio destino.
Vive in Italia, ma non è italiano, né parla come la maggior parte degli italiani. Quelli di cui parla e piange meriterebbero di sfilare anche loro per le nostre strade e piazze il 25 aprile, insieme agli altri rappresentanti della Resistenza.
Corriere della Sera, 23 aprile 2017
ROMA «Sono campi di concentramento» dice il Papa dei centri di raccolta dei profughi. Augura che la generosità del Sud possa «contagiare il Nord». Azzarda che se ogni municipio accogliesse due migranti «ci sarebbe posto per tutti». In coda a una preghiera scritta aggiunge: «A te Signore la gloria e a noi Signore la vergogna».
Con volto scuro e parole accese Francesco ha intrecciato ieri pomeriggio all’Isola Tiberina l’argomento tragico dei martiri cristiani — in particolare quelli uccisi in Paesi musulmani — all’argomento scottante dei profughi, improvvisando alcune delle affermazioni più forti che abbia formulato fino a oggi sull’accoglienza.
Il contesto era dato da una «liturgia in memoria dei nuovi martiri del XX e XXI secolo» che si teneva nella Basilica di San Bartolomeo dove la Comunità di Sant’Egidio ha realizzato un Memoriale dei cristiani d’ogni continente uccisi in odio alla fede negli ultimi decenni.
Reso omaggio ai martiri che lì sono ricordati con foto e con oggetti loro appartenuti — da Romero a Puglisi — Francesco ha così continuato a braccio: «Io vorrei, oggi, aggiungere un’icona di più, in questa chiesa. Una donna. Non so il nome. Ma lei ci guarda dal cielo. Ero a Lesbo, salutavo i rifugiati e ho trovato un uomo trentenne con tre bambini. Mi ha detto: Padre, io sono musulmano. Mia moglie era cristiana. Nel nostro Paese sono venuti i terroristi, hanno visto lei con il crocifisso, e le hanno chiesto di buttarlo per terra. Lei non lo ha fatto e l’hanno sgozzata davanti a me. Ci amavamo tanto!».
Fatto questo racconto Bergoglio ha detto la sua parola più forte in tema di immigrati: «Non so se quell’uomo è ancora a Lesbo o se è stato capace di uscire da quel campo di concentramento, perché i campi di rifugiati — tanti — sono di concentramento, per la folla di gente che è lasciata lì. E i popoli generosi che li accolgono devono portare avanti anche questo peso, perché gli accordi internazionali sembra che siano più importanti dei diritti umani».
Dopo aver incontrato un gruppo di rifugiati arrivati con i «corridoi umanitari» della Comunità di Sant’Egidio, Francesco è tornato a battere sulla «crudeltà» contro chi arriva «in barconi» e poi resta confinato «nei Paesi generosi come l’Italia e la Grecia».
Ed eccolo che pronuncia altre parole che saranno usate contro di lui nella polemica che Marine Le Pen in Francia e Matteo Salvini in Italia già hanno avviato chiamandolo in causa come uno che «invita i migranti»: «Se in Italia si accogliessero due migranti per municipio, ci sarebbe posto per tutti. E questa generosità del Sud, di Lampedusa, della Sicilia, di Lesbo, possa contagiare un po’ il Nord. È vero: noi siamo una civiltà che non fa figli, ma anche chiudiamo la porta ai migranti. Questo si chiama suicidio. Preghiamo!».
.il manifesto
, 22 aprile 2017 (c.m.c.)
«Anche se compiono azione contraria alla legge, sappiano almeno compierla obbedendo a una legge del cuore».
Nel 1948 il sindaco di Bardonecchia Mauro Amprino aveva fatto affiggere manifesti nelle vie per invitare chi si offriva di accompagnare gli immigrati oltre confine a una maggiore umanità: c’era chi si faceva pagare e poi abbandonava i migranti a metà strada. Molti furono trovati morti, i corpi conservati dal gelo.
È un episodio, certo, ma basta a misurare la differenza tra una politica che agisce secondo coscienza e responsabilità e una politica che si nasconde invece dietro una legalità astratta e di convenienza, di cui lei stessa è ispiratrice.
L’ordinanza emanata l’11 agosto 2016 a Ventimiglia, in base alla quale sono stati incriminati alcuni volontari francesi, «colpevoli» di avere distribuito del cibo a migranti bisognosi, scaturisce da questa perdita di umanità e di intelligenza. Già perché non si tratta solo del tradimento di un principio elementare di umanità, di quell’etica del riconoscimento che ci consente di vederci negli altri, di metterci nei loro panni e che dalla notte dei tempi ispira le azioni più belle e i più fecondi percorsi di liberazione. Ma anche di una ristrettezza mentale e culturale, di una rimozione e manipolazione di due fatti evidenti.
Il primo è che il fenomeno migratorio è in massima parte effetto di un sistema economico che genera disuguaglianze e che perciò papa Francesco non esita a definire «ingiusto alla radice».
La seconda è che l’Occidente ha il dovere di governarne le conseguenze, da un lato con politiche di accoglienza e inclusione, dall’altro ripristinando condizioni di vita dignitose nei Paesi sfruttati e impoveriti, affinché le persone non siano costrette a partire o fuggire.
L’immigrazione deve essere una libera scelta e nessuno può essere condannato a vita dal proprio luogo di nascita.
Questa sarebbe davvero una politica che costruisce sicurezza. Impegnata a investire nella pace e non nella guerra. E fedele alle Carte scritte nel dopoguerra per scongiurare il ritorno della barbarie in qualunque forma: la Dichiarazione universale dei diritti umani, la Convenzione di Ginevra sui rifugiati, la nostra Costituzione.
Tra pochi giorni ricordiamo la Liberazione. Ma è una liberazione incompiuta quella che permette che ancora tante persone siano private della loro libertà e della loro dignità. Ci si libera insieme, e lo saremo davvero scacciando la corruzione, l’indifferenza, l’ignoranza, tre grandi tiranni del nostro tempo. Anche questo segnala la manifestazione di domenica 30 aprile a Ventimiglia per la solidarietà e contro l’intolleranza.
In questi giorni numerosi interventi elogiano o criticano le perverse novità introdotte con le leggi Minniti Orlando, in materia di immigrazione e “sicurezza urbana”. un testo pubblicato recentemente da
comune.info 12 aprile 2017
L’approvazione dei Decreti Legge nn. 13 e 14 dello scorso febbraio, che portano le firme del Ministro degli Interni Marco Minniti e di quello alla Giustizia Andrea Orlando, a soli tre giorni l’uno dall’altro, sancisce un ennesimo punto di non-ritorno. Ancora una volta il centro-sinistra – i “moderati”, i “progressisti” o che dir si voglia -, non solo sceglie di inseguire le destre sul terreno securitario del “sorvegliare e punire”, ma addirittura supera e inasprisce il terreno già seminato dal Decreto Sicurezza di Maroni del 2008.
Nel 2009 il sociologo francese Loïc Wacquant pubblicava un libro dal titolo Simbiosi mortale. Neoliberalismo e politica penale dove evidenzia il sistematico nesso tra la distruzione dello “stato sociale” e il rafforzamento dello “stato penale”.
Studiando le trasformazioni del sistema carcerario statunitense, soffermando lo sguardo anche su quelle degli stati europei in ottica comparativa, Wacquant osserva come lo smantellamento progressivo del “welfare state” venga accompagnato, nonostante la retorica anti-statista e anti-welfare del neoliberismo, da un intervento sempre più massiccio dello stato nella gestione della sicurezza pubblica. In poche parole, lo stato neoliberista si sottrae dall’ottemperare ai suoi compiti nei confronti della “res publica” per liberare da lacci e lacciuoli l’indole più selvaggia del mercato, affinché sia possibile l’espandersi dei dispositivi penali per gestire le conseguenze sociali generate dalla disfunzionalità del mercato.
A partire da questa situazione, emerge una nuova moralità pubblica, riflessa nelle logiche della punizione e dell’incarcerazione, che vede i gruppi meno abbienti come soggetti falliti nei loro progetti personali, individui parassitari e pericolosi per la coesione pubblica.
Dentro questo tracciato, lo stato neoliberista esonera sé stesso dalle responsabilità di non aver saputo contenere la galoppante ineguaglianza socio-economica, poiché è la punizione dei poveri che diventa autentica “politica sociale”. Nelle prigioni si moltiplicano le “vite di scarto” escluse dal magico mondo del mercato. L’imperativo assoluto è far scomparire dagli occhi del cittadino-consumatore quelle marginalità che si potrebbero incontrare nello spazio pubblico, nelle strade e nelle piazze.
Si esalta il “decoro” delle piazze a scapito della possibilità di attraversarle socialmente; la “bonifica” delle aree degradate e delle periferie” diventano la stella polare di una visione politica “sanitaria” dello spazio urbano. Il mantra di Matteo Salvini della “ruspa” e del “fare pulizia”, in realtà, non è affatto un rigurgito verbale proto-fascista di un’intolleranza di destra, ma sempre più la cifra qualificante delle politiche di sicurezza, ormai spacciate anche per politiche “sociali”, promosse sia dalle destre che dal così detto centro-sinistra.
I ministri Orlando e Minniti sostengono che la sicurezza è a tutti gli effetti un “bene pubblico”, per questo la sua continua garanzia, per risolversi, ha necessità di alimentare un paradosso, ovvero l’espulsione dalla società di coloro che il sistema stesso non è più in grado di includere. Il Governo si preoccupa quindi di muovere guerra nei confronti dei poveri, degli ultimi e degli emarginati.
Minniti e Orlando hanno ribadito come “sicurezza” sia una parola di sinistra (sic!) e in un periodo di ripiegamenti dovuti alla morsa della crisi, di fronte alla necessità di giustizia sociale ed equità, rispondono con politiche securitarie che non trovano alcuna giustificazione se non inseguire slogan populisti e razzisti, nella costante paura di non essere più rieletti.
La parola “Sicurezza”, checché ne dicano Minniti e Orlando, nel dibattito pubblico e nella percezione individuale, richiama alla mente di tutti politiche populiste, autoritarie e di destra: dalla Turco-Napolitano, passando per la Bossi-Fini fino al pacchetto sicurezza di Roberto Maroni. Dobbiamo pertanto dire chiaramente che non ha nulla a che fare con l’inclusione, la solidarietà, l’uguaglianza e con l’estensione dei diritti, né tanto meno con la giustizia sociale.
I DECRETI MINNITI-ORLANDO
Punire i poveri
il Decreto n. 14 attacca duramente “accattoni”, “rovistatori” e i più emarginati dalla nostra società. Chi viene dai margini viene criminalizzato per la sola ragione di essere povero: pertanto chi vive fuori dal mercato del lavoro è privato di ogni diritto umano. Il neoliberismo non ammette l’appropriazione di un bene fuori dalle regole del mercato e per questo viene sanzionato l’accattonaggio, invece di immaginarsi forme di inserimento di soggetti svantaggiati in un circuito virtuoso.
Ma chi ha determinato l’aumento della povertà e quindi il moltiplicarsi di situazioni di marginalità e vulnerabilità se non appunto i governi di questi anni, di cui Minniti e Orlando hanno fatto parte? Appare qui più facile e utile eliminare dalla vista di tutti il prodotto delle loro politiche, o anche quello che potrebbe capitare ad ognuno di noi, a causa di quelle stesse politiche, perché non possa venire alla mente di voler cambiare e immaginarsi una vera e praticabile alternativa.
I sindaci sceriffi e “legibus solutus”
A far rispettare i divieti ci penserà il sindaco sceriffo, una figura che viene di fatto istituzionalizzata allargandone poteri e discrezionalità in materia di ordine pubblico e sicurezza urbana, al termine di un lungo processo iniziato oltreoceano a fine degli anni ’90 con il mantra della “Tolleranza Zero” del sindaco di New York Rudolph Giuliani e subito applicato da sindaci leghisti come il trevigiano Giancarlo Gentilini o gli ex-comunisti Dominici a Firenze e Zanonato a Padova. Ci troveremo di fronte alle ordinanze “capriccio” dei fantasiosi sindaci che promulgheranno ordinanze al fine di accontentare le pulsioni più varie di parti di quello che vedono ormai solo come elettorato. Un modo solo per nascondere questioni o problematiche, senza realmente affrontarle e risolverle.
Daspo Urbano, occupazione di immobili e repressione del dissenso politico
Gli stadi sono da sempre un laboratorio di repressione che si sta allargando al resto della società, infatti il così detto Daspo metropolitano applica un dispositivo, ideato e sperimentato nelle curve di tutta Italia, a chi manifesta. Una logica che abbiamo recentemente visto all’opera lo scorso 25 marzo nella capitale, in occasione delle manifestazioni per la celebrazione del 60° anniversario dei Trattati di Roma, quando decine di manifestanti hanno ricevuto fogli di via preventivi, dal territorio romano, senza nemmeno poter arrivare in città e manifestare.
Un provvedimento che potrà essere applicato a chi viene denunciato o fermato per reati minori, ma anche per chi sostiene la lotta per il diritto all’abitare, dei lavoratori in sciopero o promuove le lotte collettive per il riuso e il riutilizzo degli spazi abbandonati. Un obiettivo chiaro è quello di punire, preventivamente, il dissenso o l’alternativa di chi cerca invece di estendere diritti e verificare quella giustizia sociale, di cui ormai l’Italia ha abbandonato il senso e l’importanza.
I richiedenti asilo
A loro è dedicato il primo dei due decreti che si occupa di accelerare i procedimenti giurisdizionali volti al riconoscimento dello status di rifugiato e di contrastare l’immigrazione clandestina.
Siamo di fronte all’azzeramento di una serie di diritti costituzionalmente garantiti, su tutti, la giurisdizionalizzazione delle Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione e l’abolizione del secondo grado di giudizio.
La prima previsione contrasta con l’art. 111, secondo comma della Carta costituzionale, secondo cui ognuno ha diritto a un giudice terzo e imparziale. Le Commissioni non possono evidentemente assurgere a tale compito, trattandosi di organismi a tutti gli effetti interni alla Pubblica Amministrazione.
Quanto, poi, all’abolizione del secondo grado, basta richiamare l’art. 113 Cost., che non ammette vengano limitati in alcun caso i mezzi di impugnazione esperibili avverso i provvedimenti amministrativi.
Infatti, per i richiedenti asilo non sarà più garantita l’audizione da parte del Giudice, il quale potrà limitarsi a visionare la videoregistrazione dell’audizione in Commissione territoriale. Ciò contrasta con uno dei principi cardine del nostro ordinamento giuridico, il diritto di difesa in ogni stato e grado del procedimento assicurato dall’art. 24 della Costituzione ed il diritto al Contraddittorio ex art 111 Cost.. Il processo si svolgerà quindi alla stregua di una volontaria giurisdizione ai sensi dell’art. 737 c.p.c., senza udienza, senza partecipazione, senza avvocati. Una riforma così non riuscì neppure al Governo Berlusconi, il quale aveva nella Lega Nord di Bossi e Maroni il suo pugno di ferro più violento.
L’aumento dei CIE
questo criminale dispositivo d’internamento amministrativo di cui conosciamo bene le aberrazioni di cui sono stati negli anni portatori, viene rivitalizzato con la nascita dei CPR (Centri di permanenza e rimpatrio). Non è chiaro quale sia la differenza con gli attuali CIE, ma ne viene disposta la nascita di uno a regione, nei pressi o addirittura all’interno degli aeroporti. Un dispositivo che vuole mirare all’efficienza e alla celerità dei rimpatri e delle espulsioni, a discapito ovviamente delle garanzie giuridiche e dei diritti dei richiedenti asilo. Viene quindi riproposto un luogo di confinamento, internamento e repressione che non poggia su alcuna base giuridica, comminando la detenzione amministrativa.
Il lavoro gratuito e l’istituzionalizzazione per legge dello sfruttamento
il lavoro gratuito per i rifugiati diventerà legge, chi scappa dalla guerra e dalla fame, solo per citare alcune delle cause dei flussi migratori, se vuole restare se lo deve meritare, nella perversa logica di barattare i diritti con un presunto “merito”. A questo punto i diritti divengono a tutti gli effetti privilegi. La pericolosità di questo dispositivo che istituzionalizza una nuova forma di schiavitù, è evidente sia in termini di diritto del lavoro che di ricaduta sulla “percezione dei fenomeni”, a cui si dà sempre molta importanza e per cui viene da pensare che sia voluto e intenzionale inasprire la “guerra tra poveri” e instillare odio e intolleranza verso la componente migrante e richiedente asilo della cittadinanza.
Il decreto appena approvato dunque, non solo non offre nessun tipo di risposta ai problemi che si prefigge di risolvere, ma riesce a far ammettere ancora una volta ad un governo (che ha la pretesa di essere) di “sinistra” una scelta securitaria, repressiva e, su molti aspetti, anche chiaramente anticostituzionale. Non una parola in termini di welfare, di possibilità di miglioramento dell’accoglienza, sulle esperienze di integrazione buone e giuste che ci sono state e continuano ad esserci in Italia; neanche una singola parola sul malsano utilizzo del concetto di “sicurezza” che colpisce senza alcun ritegno ancora i più deboli e permette ai sindaci di poter gestire la cosa pubblica come se tutto ruotasse attorno all’ordine e alla lotta al degrado. Si lascia il problema com’è e si acuisce la rabbia, l’odio e il disprezzo, che sia questo rivolto verso un immigrato o verso una famiglia sfrattata, o verso chi continua a voler fare sentire la propria voce tramite il dissenso e azioni di autodeterminazione e di informazione.
Nessuna propositività, nessun impegno a lungo termine, ma solo un altro muro costituito da norme e un altro calcio in faccia alla nostra Costituzione.
«I missili in Siria e la superbomba in Afghanistan sono l’esemplificazione dell’America di Trump pronta a ritorsioni militari che superano ogni più perversa immaginazione. Un disegno politico che è prassi storica per questo paese sin dai tempi della Guerra Fredda».Intervista di Patricia Lombroso.
il manifesto, 20 aprile 2017
«Per la prima volta nella storia dell’umanità viviamo una situazione pericolosissima che rischia la stessa sopravvivenza della specie umana. Parlo della capacita mostruosa odierna di uccidere da parte degli Stati Uniti. Grazie al progetto iniziato anche con l’amministrazione Obama ed ora finito nelle mani di Trump, per l’ammodernamento tecnologico nucleare che ha raggiunto livelli radicalmente superiori all’arsenale nucleare russo quale deterrente. I margini si sono assottigliati al punto che non si può escludere una catastrofe nucleare».
È in questi termini drammatici che si apre l’intervista a Noam Chomsky concessa a il manifesto dopo l’attacco militare, unilaterale, in Siria con 59 missili Tomawak; il raid in Afghanistan con lo sganciamento della «madre di tutte le superbombe», la Daisy supercutter tecnologicamente perfezionata dal Pentagono che la impiegò già nel 1991 in Iraq; a seguito della minaccia di ritorsioni militari per la tensione con la Corea del Nord; e mentre Trump annuncia la «revisione per verificare se Tehran si è attenuta ai contenuti», anche se «prudente, perché consapevole dei rischi» dell’accordo sul nucleare civile con l’Iran firmato da Obama.
Qual è la strategia e la motivazione dei nuovi attacchi militari in Siria e in Afghanistan?«Le aggressioni unilaterali da parte degli Stati Uniti in Siria e in Afghanistan sono state preparat a tavolino da questa nuova amministrazione incurante del crimine commesso che viola tutte le norme del diritto internazionale. Per uno show rivolto all’opinione pubblica in attesa della promessa "America First".
«Con l’intento di perseguire indisturbati nel progetto selvaggio di smantellamento, passo dopo passo, dell’intera legislazione federale istituita 70 anni fa, per proteggere l’intera popolazione americana dalla logica dei profitti immediati e dalla massima concentrazione del potere. Di fatto la reazione immediata di Trump è stata quella di rassicurare l’opinione pubblica americana che un nuovo sceriffo è finalmente arrivato. Con questo messaggiio diretto: i brillanti risultati conseguiti dai nostri uomini del Pentagono, nelle ultime otto settimane sono superiori a quanto conseguito durante gli ultimi otto anni dalla presidenza Obama; siamo in grado di effettuare operazioni coraggiose. Insomma, ecco il nuovo sceriffo che dimostra di essere l’uomo forte che voi volete. E che ha dato mano libera a chi voleva intraprendere le cosiddette azioni coraggiose. Come quella di sganciare la superbomba in Afghanistan senza aver neppure idea quale territorio abbiamo distrutto, né di quanti civili abbiamo ucciso.
«Paradossalmente qui negli Stati uniti l’applauso è stato univoco e totale anche da parte dei democratici, visto che in Siria il nuovo sceriffo Trump ha inviato un messaggio alla comunità internazionale per dimostrare che l’America è ancora una superpotenza che sa reagire con la nuova forza dell’ "America First".
«L’attacco militare americano in Siria è stato interpretato in Europa ed in tutto il mondo occidentale come un messaggio contro Assad per avere impiegato armi di distruzioni di massa. Non dando però alcuna importanza ai dubbi, francamente credibili, di esperti di armi chimiche e dei russi che hanno chiesto subito una inchiesta internazionale indipendente degli organismi sulle armi chimiche delle Nazioni unite. L’obiettivo di Trump, Bannon e dei loro portavoce è quella di accentrare l’attenzione con costanti immagini televisive e twitter dei social media, dell’opinione pubblica su di loro e non sulle reali tematiche promesse pr l’America First. Passo dopo passo, dietro le quinte viene approvata una legislazione che toglie ogni speranza alla popolazione americana nel rivendicare i benefici di protezione sociale ed economica istituiti 70 anni fa. È questa l’organizzazione di potere piu pericolosa nella storia del mondo. Che , per continuare ad avere più profitti e sempre più potere, è capacere anche di usare l’arma nucleare. Sino alla distruzione dell’umanità.»
Quali i rischi immediati prevede in questa situazione di strategia bellica che, per affermare la propria immagine promessa, va verso la catastrofe di una guerra nucleare?
«L’ Atomic Bulletin of Scienctists nela marzo scorso ha pubblicato uno studio sul programma di ammodernamento dell’arsenale nucleare messo in atto con l’amministrazione Obama ed in mano ora di Trump, dal quale risulta che il sistema dell’arsenale atomico statunitense ha raggiunto un livello da strategia atomica avanzata e radicale, tale da poter annientare la deterrenza dell’arsenale atomico russo. Questo non è all’oscuro di Mosca. Ma con l’intensificarsi della tensione diretta, specialmente nei paesi Baltici ai confini della Russia, determina il rischio di un confronto nucleare diretto con la Russia.»
Che cosa dobbiamo aspettarci allora?
«Questi dati devono farci capire i rischi per la sicurezza mondiale, dati i margini assottigliati e “al limite massimo” per una catastrofe nucleare provocata da “mutual destruction”. Perché si è messa in moto una situazione in base alla quale la Russia, con l’intensificarsi delle provocazioni degli Stati Uniti, possa decidere di sferrare un “preemptive strike” nucleare nella speranza di sopravvivere, dal momento in cui non ha più la capacità di un arsenale deterrente.
«Ci troviamo in una situazione gravissima e pericolosa.Il rischio è dato dalle reazioni imprevedibili di Trump. Un Trump che, se non sarà in grado di mantenere le promesse di cambio fatte alla “working class” a cui si è riferito in campagna elettorale (e che sarà la prima vittima della sua presidenza), prima o poi seguirà un dilagare di accuse di terroristismo islamico verso gli immigrati per giustificare misure repressive eccezionali e nuovi bandi. Prefabbricando prove di un attacco all’America, tanto da giustificare il ricorso all’arma nucleare.
«I missili in Siria e la superbomba in Afghanistan sono l’esemplificazione dell’America di Trump pronta a ritorsioni militari che superano ogni più perversa immaginazione. Un disegno politico che è prassi storica per questo paese sin dai tempi della Guerra Fredda.»
«Israele/Territori occupati. Il ministro israeliano per la sicurezza interna ribadisce la linea dura contro lo sciopero della fame attuato da circa 1500 prigionieri palestinesi, proclamato dal leader di Fatah Marwan Barghouti».
il manifesto, 19 aprile 2017
Sono state immediate le contromisure adottate dalle autorità carcerarie nei confronti del segretario generale di Fatah, Marwan Barghouti, e degli altri detenuti palestinesi, circa 1500, che da lunedì fanno lo sciopero della fame nelle carceri israeliane per ottenere migliori condizioni di vita. I palestinesi denunciano il trasferimento dei prigionieri in sezioni diverse, la sospensione delle visite dei familiari e altri provvedimenti punitivi. Barghouti lunedì era stato trasferito, insieme ad altri due prigionieri, Karim Junis e Mahmoud Abu Srour, dal carcere di Hadarim a quello di Jalama dove è stato messo in isolamento. Israele respinge l’apertura di una trattativa. Parlando ieri ai microfoni di Galei Tzahal, la radio delle forze armate, il ministro per la sicurezza interna Ghilad Erdan ha detto che l’isolamento di Barghouti «si è reso necessario perché (il leader di Fatah) incitava alla rivolta e guidava lo sciopero».
Erdan definendo la protesta «uno sciopero politico ed ingiustificato», ha aggiunto che Israele ha allestito nei pressi del centro di detenzione di Ketziot, nel Neghev, un ospedale da campo dove saranno curati quanti fra gli scioperanti dovessero aver bisogno di cure mediche nei prossimi giorni. E non ha escluso che i detenuti possano essere alimentati contro la loro volontà. Dietro l’idea dell’ospedale da campo ci sarebbe proprio la possibilità dell’alimentazione forzata, vietata dal diritto internazionale. Nei nosocomi civili i medici israeliani non intendono nutrire con la forza i detenuti palestinesi malgrado il recente parere favorevole della Corte suprema. L’uso di un ospedale da campo perciò sembra offrire una scappatoia. Tuttavia Israele sa che obbligare i prigionieri ad alimentarsi finirebbe per gettare altra benzina sul fuoco della protesta delle famiglie dei detenuti e di molte migliaia di palestinesi che si stanno mobilitando in appoggio allo sciopero della fame che riceve sostegni anche in altri Paesi, arabi ed europei.
Marwan Barghouti presto affronterà una corte disciplinare per la sua lettera pubblicata il 16 aprile dal New York Times in cui ha spiegato i motivi dello sciopero e rivolto pesanti accuse a Israele. Le polemiche infuriano e le proteste dello Stato ebraico hanno spaccato la redazione del Nyt dove non poche voci si sono levate contro la decisione di pubblicare la lettera di Barghouti, senza precisare le ragioni per le quali è stato condannato a cinque ergastoli. Ieri è intervenuto anche il premier israeliano Netanyahu. «Indicare Barghouti come leader politico equivale a definire Bashar Assad un pediatra», ha commentato con sarcasmo il primo ministro che poi ha descritto «terroristi e assassini» i personaggi come il dirigente di Fatah.
Marwan Barghuti, promotore dello sciopero della fame che da ieri osservano circa 1500 detenuti palestinesi, è stato trasferito dal carcere di Hadarim e chiuso in isolamento in un altro penitenziario. Ufficialmente la sanzione fa seguito alla pubblicazione «non autorizzata» di un suo articolo sul New York Times che ha provocato forte irritazione nel governo israeliano. Barghouti ha scritto che gli arresti di massa condotti da Israele per decenni non sono riusciti ad indebolire i palestinesi. «Questo sciopero – ha scritto – dimostra una volta di più che il movimento dei prigionieri è la bussola che guida la nostra lotta per la libertà e la dignità…i prigionieri palestinesi stanno soffrendo torture, trattamenti degradanti e inumani e negligenza medica, alcuni sono stati uccisi in custodia». Immediata la replica del ministero degli esteri israeliano secondo il quale, i palestinesi in carcere «non sono prigionieri politici ma terroristi condannati ed assassini». Il ministro dell’intelligence Israel Katz ha scritto su twitter «Mentre i parenti degli (israeliani) uccisi ricordano e soffrono, c’è una sola soluzione: pena di morte per i terroristi». Per Israele anche Barghouti è un terrorista, condannato a cinque ergastoli per aver organizzato attentati contro civili. Accusa che al processo il dirigente di Fatah ha respinto. Per i palestinesi invece Barghouti è il nuovo Mandela.
L’inizio dello sciopero della fame, nel “Giorno del prigioniero”, al quale stanno prendendo parte detenuti di varie fazioni politiche e non solo quelli di Fatah – Hamas ha espresso sostegno al digiuno ad oltranza ma finora non ha ordinato ai suoi membri reclusi di parteciparvi – è stato segnato da manifestazioni di protesta in varie città della Cisgiordania, in particolare a Ramallah e a Betlemme. I soldati israeliani hanno arrestato cinque dimostranti palestinesi e ferito almeno 15.
Secondo dati dell’ong Addameer, sono circa 6500 i prigionieri politici in Israele. Di essi, 478 scontano l’ergastolo. Altri 300 sono sotto ai 18 anni. Il presidente dell’Anp Abu Mazen ha espresso solidarietà ai detenuti e invocato un intervento internazionale in loro favore. Allo stesso tempo guarda con attenzione all’evoluzione delle proteste che potrebbero estendersi mettendolo di fronte al dilemma di reprimerle o assecondarle con conseguenze politiche in entrambi i casi. Questo mentre si prepara all’incontro con il presidente americano Trump.
Riferimenti
Qui, nella traduzione italiana, il testo integrale dell'ampio articolo del New York Times la cui pubblicazione ha provocato l'ulteriore irrigidimento delle inumane sanzioni applicate dal governo Netanyahu ai patrioti palestinesi.
Preoccupazioni, tremori, ma soprattutto rassegnazione al disastro annunciato: questi sembrano i primo commenti dei media "democratici. Articoli dalle edizioni online di
Repubblica,l'Unità, il Fattoquotidiano. 17 aprile 2017
La Repubblica online
REFERENDUM IN TURCHIA, ERDOGAN VINCE
SUL FILO DI LANA.
INSORGE L'OPPOSIZIONE
di Marco Ansaldo e Giovanni Gagliardi
«I "Sì" alle riforme costituzionali che assegnano tutti i poteri al presidente ottengono il 51,3% contro il 48,7 dei "No". Vantaggio esile ma sufficiente a cambiare il volto del Paese. Che si avvia a diventare una autocrazia di stile mediorientale. Il presidente: "Decisione storica che tutti devono rispettare". E sulla reintroduzione della pena di morte possibile una nuova consultazione»
ISTANBUL - Una vittoria sul filo di lana, per Recep Tayyip Erdogan. I "Sì" alle riforme costituzionali che in Turchia gli assegneranno tutti i poteri hanno ottenuto il 51,3 per cento dei consensi, contro il 48,7 dei "No". Un vantaggio risibile, ma sufficiente a cambiare il volto del Paese. L'opposizione sostiene tuttavia che molti voti non sono validi, e anzi parla apertamente di brogli, perché un alto numero di certificati elettorali non presenterebbero il timbro ufficiale.
"La Turchia ha preso una decisione storica di cambiamento e trasformazione" che "tutti devono rispettare, compresi i Paesi che sono nostri alleati", ha detto Erdogan, nel suo primo discorso dopo la vittoria. "La Turchia ha preso la sua decisione con quasi 25 milioni di cittadini che hanno votato sì, con quasi 1,3 milioni di scarto. È facile difendere lo status quo, ma molto più difficile cambiare", ha detto Erdogan, ringraziando i leader dei partiti che hanno sostenuto il 'Sì' al referendum. "Voglio ringraziare ogni nostro cittadino che è andato a votare. È la vittoria di tutta la nazione, compresi i nostri concittadini che vivono all'estero. Questi risultati avvieranno un nuovo processo per il nostro Paese", ha concluso il presidente turco.
In ogni caso, non appena le autorità vidimeranno la correttezza dello svolgimento sul referendum, nuovi scenari si apriranno da ora in poi per la Turchia. E cioè quelli di un Paese molto più vicino a una autocrazia di stile mediorientale, che alla realtà pensata dal fondatore della Repubblica, Mustafa Kemal, detto Ataturk, il padre dei turchi, di una nazione laica e candidata all'ingresso nell'Unione Europea.
Perché anche questo aspetto è destinato, fin da subito, a cambiare. Il "Sultano", come lo definiscono con sprezzo gli avversari, ha già detto di essere pronto a chiamare un nuovo referendum, e questa volta sulla permanenza di Ankara come Paese candidato alla Ue. Poi di essere pronto a un altro, scioccante voto referendario: quello sulla reintroduzione della pena di morte in Turchia, misura eliminata nel 2004 proprio in virtù di un auspicato ingresso del Paese della Mezzaluna in Europa. E arringando la folla, Erdogan ha promesso la questione sarà discussa con gli altri leader politici e che potrebbe essere oggetto di un nuovo referendum.
Con un comunicato la Commissione europea fa sapere che "in considerazione del risultato del referendum e le implicazioni di vasta portata delle modifiche costituzionali, anche noi chiediamo alle autorità turche di ricercare il più ampio consenso possibile a livello nazionale nella loro attuazione".
LEGGI Cosa prevede la riforma costituzionale di Erdogan
I primi risultati usciti alle 4 del pomeriggio, non appena le urne si sono chiuse, davano una vittoria schiacciante per i "Sì": addirittura il 65 per cento contro il 35 assegnato al fronte del "No" riconducibile all'opposizione rappresentata principalmente dal partito repubblicano, di ispirazione socialdemocratica, che si contrappone ai conservatori di origine religiosa fondati dal Capo dello Stato Erdogan.
Poi, via via, il consenso per i fautori delle modifiche costituzionali è andato assottigliandosi, arrivando a un risicato 51,3 dei voti. Tanto bastava tuttavia per far gridare Erdogan, e il suo premier Binali Yildirim, alla vittoria.
A quel punto era l'opposizione a definire il risultato come irregolare. E il vice-leader del principale partito di opposizione, Bulent Tezcan, commentava la decisione repentina del Consiglio elettorale supremo di autorizzare per la prima volta il conteggio delle schede senza timbro ufficiale nel referendum costituzionale sul presidenzialismo, a meno che non venga provato un loro impiego fraudolento, come illegittima. "Il Consiglio elettorale supremo ha cambiato le regole del voto - denunciava Tezcan - questo significa permettere brogli creando un serio problema di legittimità".
In ogni caso Erdogan avrà ora mano libera su tutto il campo. Non solo il suo partito ha la maggioranza in Parlamento, ottenuta alle elezioni del novembre 2015 con il 49,9 per cento dei voti. Ma adesso potrà assumere in sé i poteri esecutivo, giudiziario e legislativo, senza più controlli da parte dell'Assemblea di Ankara, di fatto depotenziata nonostante l'aumento proposto dei deputati da 550 a 600. Il quarto potere, con più di 150 giornalisti in carcere per aver espresso le loro opinioni e tacciati di "sostegno al terrorismo", è già impaurito e silenziato.
Erdogan, dal 2019, potrà essere rieletto per due termini consecutivi di 5 anni ciascuno, con una prelazione per ulteriori cinque anni. Scatto che lo porterebbe, in teoria, a rimanere in carica fino al 2029, e poi addirittura al 2034. Un potere a vita, in pratica, visto che l'uomo forte della Turchia è alla guida del Paese dal 2002, prima come premier e poi come presidente della Repubblica. Come capo dello Stato rimarrebbe infatti la sola figura di riferimento, poiché l'incarico di premier verrebbe abolito. Ci saranno solo due vice presidenti, e i ministri verranno nominati direttamente dal presidente, ma in maniera esterna al Parlamento, a cui i titolari dei dicasteri non presterebbero responsabilità. Un potere illimitato, e a questo punto difficilmente arginabile. Se mai lo sia stato, fino ad ora.
L’Unità online
LA TURCHIA È SCIVOLATA FUORI
DALLA DEMOCRAZIA TRADIZIONALE
di Marco Di Maio
«Dare un segnale: stop al negoziato per l’adesione alla Ue»
La Pasqua ci consegna una Turchia che scivola fuori dai confini della democrazia “tradizionale”, come abbiamo avuto la fortuna di conoscerla da questa parte del mondo.
Il presidente Recep Tayyip Erdogan ha ottenuto il proprio obiettivo: la vittoria degli evet (sì in turco) al referendum sulla nuova costituzione ha confermato il voto del parlamento e consegnato al presidente poteri quasi assoluti. Il referendum si è svolto in condizioni di grande tensione, dato il perdurare dello “stato d’emergenza” dichiarato il 15 luglio 2016 (quando si verificò il fallito colpo di Stato) e da allora mai cessato, anzi.
La Turchia si trasforma così da repubblica parlamentare a repubblica presidenziale. Il presidente sarà anche capo del governo perché la riforma, tra le altre cose, elimina la figura del primo ministro; nominerà e revocherà a suo piacimento i ministri; potrà con decreti presidenziali intervenire su molte materie senza passare dal parlamento; potrà nominare direttamente i vertici dell’esercito e dei servizi segreti, i rettori delle università, i dirigenti della pubblica amministrazione, buona parte dei giudici.
Basterebbe questo per rendere allarmante la situazione, ma c’è dell’altro.
Dal giorno del fallito (finto?) colpo di stato l’attuale presidente Erdogan e il governo turco hanno arrestato 43mila persone, sequestrato 800 società, chiuso giornali ed emittenti televisive, mandato in carcere 150 giornalisti (per 16 è stato chiesto l’ergastolo), allontanato dal lavoro 140mila dipendenti pubblici (tra cui funzionari, dirigenti, giudici, poliziotti). Con una complessa rete di relazioni, poi, il presidente turco controlla anche le principiali aziende del paese. Una riforma in senso presidenziale proposta da una guida politica che ha fatto tutto questo, non può che spaventare.
Per l’Europa e “l’Occidente” si pongono molti interrogativi sull’atteggiamento da tenere con la Turchia, che non solo è membro della NATO (dal 1952), non solo è un “cuscinetto” tra noi e il caos mediorientale, ma è anche uno stato che per lungo tempo Europa e Stati Uniti hanno corteggiato illudendola addirittura di poter diventare l’avamposto dell’occidente in Medio Oriente.
Erdogan, salvo colpi di scena, rimarrà in carica fino al 2029: lo farà grazie al fatto che sì, rimane il limite dei due mandati, ma l’approvazione di una nuova costituzione azzera il “conteggio” e dalle presidenziali del 2019 il presidente in carica potrà ricandidarsi e farlo successivamente anche nel 2024.
Non si potrà rimanere indifferenti di fronte alle prevaricazioni portate avanti dal suo regime, ma purtroppo Erdogan sarà un difficile e obbligato interlocutore per tutti. A maggior ragione l’Europa non può pensare di rispondere con un ritorno ritorno agli Stati-nazione come vorrebbero i vari Grillo, Salvini, Le Pen, Orban, May.
Serve più Europa, serve un’Europa più compatta, capace di progredire nel processo di integrazione portando con sè tutti i paesi membri; ma impedendo a chi non ci vuol stare di bloccare tutti gli altri.
C’è una cosa che si potrebbe fare subito e che darebbe un “segnale” importante: l’interruzione del negoziato (per me poco sensato) avviato nel 2005 per l’adesione della Turchia all’Unione europea e da tempo arenato. Sarebbe un atto di difesa dei valori democratici e liberali che assegnerebbe autorevolezza a chi lo promuovesse.
Il Fatto Quotidiano online
REFERENDUM TURCHIA, ERDOGAN VINCE MA IL PAESE È SPACCATO: IL SUPER PRESIDENZIALISMO PASSA CON IL 51%
di FQ
«Dopo settimane di infuocata campagna elettorale Ankara vara la riforma costituzionale voluta dal presidente, ma il voto referendario non è esattamente un plebiscito: i No alla Sultanizzazione, infatti, sfiorano quota 49%, con un affluenza all'84%. Decisivo il voto nelle campagne mentre nelle grandi città vince il fronte anti Erdogan. L'opposizione accusa: "Voto illegittimo: conteggiate anche schede senza timbro ufficiale". Ora Erdogan può restare fino al 2034»
l presidente può esultare ma quella che esce dalle urne è una Turchia praticamente spaccata in due: da una parte ci sono i sostenitori fedeli a Recep Tayyip Erdogan, dall’altra quelli che invece non vogliono la Sultanizzazione del Paese. E dunque non vogliono nemmeno un Sultano. A vincere il referendum costituzionale sono i primi, ma sul successo si allungano subito le proteste da parte dell’opposizione che parla esplicitamente di “brogli” elettorali e annuncia la richiesta di riconteggio delle schede.
Dopo settimane di infuocata campagna elettorale, in ogni caso, Ankara svolta verso il super presidenzialismo voluto da Erdogan, anche se il voto referendario non è esattamente un plebiscito in favore del presidente. Secondo i dati diffusi dall’agenzia Anadolu, infatti, i Sì alla riforma costituzionale sono “appena” il 51,33% dei voti, contro i No che alla fine di una lunga rincorsa si fermano a quota 48,67 %. Da segnalare che il fronte contrario alla riforma vince sia ad Ankara che ad Instabul – cioè nella capitale e nella città in cui Erdogan è stato sindaco per anni. Decisivo, invece, per la vittoria del Sì il voto nelle province più periferice e nelle campagne.
Alla fine a dividere le due facce del Paese poco più di un milione di preferenze: 24 milioni e 819 mila turchi hanno votato per la riforma approvato dal parlamento il 21 gennaio scorso, mentre sono 23 milioni e 526 mila i voti espressi contro il super presidenzialismo, quando lo scrutinio è ormai arrivato al 99% delle schede. Numeri da non sottovalutare dato che l’affluenza è stata molto alta, quasi all’84%: su oltre 55 milioni di elettori, quasi 49 milioni sono andati a votare.
Le urne sono state chiuse alle 16, ora italiana, lo spoglio è cominciato subito dopo e aveva dato subito in largo vantaggio il fronte pro Erdogan con il Sì che era dato superiore al 60%. Una percentuale che si è abbassata via via che le scrutinio andava avanti. Alla vigilia, d’altra parte, si registrava qualche incertezza sull’esito del voto con i No che erano addirittura dati in vantaggio. Negli ultimi giorni, però, la tendenza si è rovesciata a favore del Sì, dopo una partenza in sordina. E alla fine dunque, il voto decisivo di un milione e trecentomila turchi fa vincere la grande scommessa ad Erdogan, il presidente uscito vincitore dal tentativo di colpo di Stato del luglio scorso: adesso potrebbe restare al potere fino al 2034.
Il clima post scrutinio, però, appare tutt’altro che rilassato. Subito dopo la diffusione dei primi dati sullo scrutinio, infatti, il Chp – principale partito di opposizione – ha messo in dubbio la legittimità del voto. Il motivo? La dichiarazione apparsa sul sito della Consiglio elettorale supremo turco (Ysk) qualche ora prima della chiusura delle urne segnalava che sarebbero state conteggiate anche le schede non timbrate dai funzionari, a meno che non si potesse provare che le stesse schede fossero contraffatte. La decisione, precisano dalla commissione, è giunta dopo che diversi votanti hanno segnalato che erano state consegnate loro schede senza timbro. In passato, queste venivano considerate nulle. “L’Alta commissione elettorale ha sbagliato, consentendo la frode nel referendum”, ha detto Bulent Tezcan, vice presidente Chp, ai giornalisti presenti nel quartier generale del partito ad Ankara. “Il Consiglio elettorale supremo – ha continuato Tezcan – ha cambiato le regole del voto. Questo significa permettere brogli“, creando “un serio problema di legittimità“. Il Chp ha dunque annunciato che chiederà di ricontare il 37% delle schede scrutinate. Che l’esito ufficiale sia Sì o No, contesteremo 2/3 delle schede. I nostri dati indicano una manipolazione nell’intervallo del 3-4%”, scrive invece su twitter l’account ufficiale del Partito Democratico dei Popoli (Hdp), la formazione turca che unisce le forze di sinistra e filo-curde.
Parole dure quelle di Tezcan, alle quali replica in qualche modo il primo ministro della Turchia, Binali Yildirim. “La nazione ha fatto la sua scelta. Questa è una nuova pagina nella storia della nostra democrazia, il risultato verrà usato per garantire la pace e la stabilità della Turchia”, ha detto il premier nella prima dichiarazione ufficiale dopo il voto. “Non ci fermeremo – ha aggiunto – andremo avanti dal punto in cui eravamo arrivati”.
Nel frattempo piazza Taksim, uno dei luoghi più frequentati della zona europea di Istanbul e palcoscenico di duri scontri tra manifestanti e polizia nel 2013, è stata chiusa al traffico per ragioni di sicurezza. Nelle altre zone della città, invece, i sostenitori di Erdogan, festeggiano.
«. Ma soprattutto intrecciata con il dogma della supremazia colonizzatrice degli USA . il manifesto,
Trump è nel suo
buen retiro di Mar-a-Lago. Trascorrerà la Pasqua sollazzandosi sui suoi adorati campi da golf o l’irrequietezza di uomo umorale lo spingerà a sparare un altro dei suoi stupidi quanto micidiali
tweet di sfida? La flotta americana è in massima allerta di fronte alla Corea del Nord, basta il suo
i-phone, bastano le 140 battute del suo lessico, povero quanto provocatorio, per incendiare l’Asia, e non solo.
È a Mar-a-Lago, il presidente statunitense, e non a Camp David, la “Casa Bianca di vacanza” ufficiale, che lui disdegna, anche quando riceve ospiti come Shinzo Abe o Xi Jinpeng. Un piccolo dettaglio, che costa però milioni ai contribuenti americani, per la sicurezza sua e dei suoi cari. E che dice molto del personaggio. Del tutto allergico a obblighi e consuetudini dell’incarico. Così come può essere un dettaglio, ma non lo è, la decisione di non rendere noti i nomi dei suoi visitatori alla Casa Bianca. Sì, anche da questi “dettagli” si vede che Trump non è un presidente come quelli che l’hanno preceduto. Anche se c’è l’assillo del mondo politico e dei media – perfino i nostri politici e media – di “normalizzarlo” a tutti i costi, finalmente diventato il presidente americano che ci voleva, e lo mettono in contrasto con l’imprevedibile vulcanico sfidante di Hillary. No, il comandante in capo The Donald non fa che reclamare, anche nella sua nuova veste di bombarolo, il diritto a continuare a essere visto esattamente con le lenti con cui era osservato nella corsa presidenziale.
Certo, ha cambiato spartito, rispetto a quanto andava affermando durante la campagna elettorale. A dimostrarlo soprattutto i 59 tomahack lanciati su Khan Sheikhoun, e poi la “madre di tutte le bombe” sganciata in Afghanistan, e poi ancora i toni ultimativi nei confronti di Pyongyang, e poi ancora le parole sulla Nato, non più obsoleta.
Ma è un cambiamento che prefigura un mutamento di strategia? Che implica l’affermazione di una “dottrina”? Da isolazionista Trump è oggi interventista? «What is the strategy?», si chiede giustamente Elizabeth Warren dopo i missili lanciati contro la Siria.
Su un tipo come The Donald ogni etichetta va stretta. Non solo per la spudorata propensione alla bugia e al flip flopping, all’ondeggiamento senza principi, ma perché il personaggio merita un altro tipo di percezione, il più possibile scevra dalla tentazione di incasellarlo nelle categorie conosciute della politica novecentesca.
Trump è un prodotto della politica nel mondo di oggi. Di una politica permanentemente intrecciata con i media, nuovi e vecchi. In Trump non c’è l’ambizione a costruire un nuovo ordine mondiale, come pretendevano di fare i suoi predecessori dopo la caduta dell’assetto bipolare del mondo. America First è e continua a essere essenzialmente questo. Non tanto un isolazionismo d’altri tempi, ma la rinuncia ad affidare all’America un ruolo di ordinatore del mondo. «Noi non cerchiamo d’imporre a nessuno il nostro stile di vita», disse il giorno dell’insediamento a presidente. E all’indomani dell’attacco alla Siria ha ribadito: «Le nostre decisioni saranno guidate dai nostri valori e dai nostri obiettivi, rifiutando il percorso di un’ideologia inflessibile che troppo spesso conduce a conseguenze indesiderate».
Trump, con le sue azioni militari, non prova a disegnare un nuovo ordine americano, come in tanti, anche in casa nostra, gli implorano di fare. Trump è piuttosto l’uomo del disordine mondiale. Il disordine l’alimenta, non lo contrasta. E il suo fiuto politico consiste, come ha dimostrato ampiamente nella campagna elettorale, di saper muoversi nella confusione, con colpi sotto la cintura, in un continuo gioco d’anticipo e di spiazzamento degli avversari, adusi invece a partite in cui vigono regole condivise, non importa se spesso violate, ma del tutto a disagio invece nel misurarsi con un avversario capace di cambiare il campo di gioco stesso.
Ed è quello che sta facendo in questo momento Trump, portando la palla fuori del campo domestico, dove ha problemi non indifferenti, per poi tornarci il prima possibile. Attento com’è innanzitutto all’elettorato che l’ha portato alla Casa Bianca, la sua base, l’unico suo vero riferimento. Nell’immediato può anche allargare la platea, includendovi anche quegli americani che l’hanno avversato e che sicuramente non l’hanno votato, ma che, secondo i sondaggi, hanno approvato la sua azione in Siria. Ma sa anche benissimo che quell’ampliamento può evaporare facilmente, mentre è sicuro che – spingendosi troppo oltre come gendarme del mondo – s’allontanerebbero da lui i suoi elettori, quei contribuenti americani arrabbiati ai quali, come ha detto Rex Tillerson, «non importa niente dell’Ucraina».
La superconservatrice Ann Coulter scrive su Breitbart News, la rivista online diretta da Steve Bannon, che il presidente, colpendo la Siria, si è infilato in una «disavventura» che «viola ogni promessa della campagna elettorale le che potrebbe affondare la sua presidenza».
Nel fiuto di Trump vi è anche la pretesa di essere visceralmente in sintonia con il suo elettorato. Lo stesso che ha visto, per ore, per giorni, le immagini dei bambini colpiti dai gas in Siria. Se un giorno verrà fuori un’altra versione di quei fatti, è secondario oggi, di fronte a un clamore che ha spinto Trump a vestire i panni del giustiziere mondiale. Anche lui aveva visto quelle immagini, e s’era immedesimato nei suoi elettori. «La dottrina Trump – scrive Max Boot su Foreign Policy – sembra essere: gli Stati Uniti si riservano il diritto di usare la forza ogniqualvolta il presidente è scosso da qualcosa che vede in tv».
Altri presidenti americani hanno portato l’America in guerra in nome di una “dottrina”, in nome di una pretesa ordinatrice del mondo. Con Trump è il suo eccentrico combinato di “viscere” e di capacità di nuotare nel caos che fa ballare il mondo. Ma se finora ha potuto contare sullo spaesamento dei suoi interlocutori mondiali, costringendoli con la novità del suo stile nella difensiva, adesso ha a che fare con un tipo che non gli è da meno, in quanto a eccentricità e ad azzardo. È il leader di un paese che, diversamente dalla Siria, è dotato di testate atomiche.
Una legge per togliere un marchio ai più fragili. Il 4 dicembre la maggioranza degli italiani ha saputo rispondere con entusiasmo bocciando una legge che voleva privarli dei loro diretti. Sapranno essere altrettanto pronti a difendere i diritti degli altri?
il manifesto, 13 aprile 2017
Sembrava finita la stagione dei crimini attribuiti su base etnica. «Ricordate? C’erano le elezioni e sembrava ci fosse uno stupro al giorno da parte di rumeni. Poi, chiuse le urne, finiti gli stupri». Emma Bonino accenna appena a una smorfia quando l’eco triste delle parole di Luigi Di Maio la raggiungono nella sala Nassirya del Senato dove sta coordinando la presentazione della campagna culturale «Ero straniero – L’umanità che fa bene», lo strumento scelto per promuovere la legge di iniziativa popolare che supera la Bossi-Fini.
La sala è gremita, perché la campagna nazionale promossa da Radicali Italiani, Acli, Arci, Asgi, Fondazione Casa della carità, Centro Astalli, Cnca, A Buon Diritto e Cild ha già ottenuto il sostegno di almeno una sessantina di sindaci, un lungo elenco di organizzazioni che si occupano di migranti e un presidente di Regione, Enrico Rossi, il governatore della Toscana che annuncia «l’adesione e la mobilitazione di Mdp per la raccolta delle firme». Il dibattito è ricco: qui il gap tra percezione e realtà è al minimo assoluto.
«C’è una parte politica che soffia irresponsabilmente sul fuoco, e con menzogna». Bonino, che bacchetta anche i giornalisti, ricorda che «dopo la più grande sanatoria mai fatta in Italia, quella dei 700 mila del governo Berlusconi-Maroni, i crimini compiuti da stranieri calarono: più c’è integrazione, meno si delinque».
È buonismo? No, anche se qui nessuno rinnega quella parola. Don Virginio Colmegna, presidente della Casa della carità, per esempio, a Di Maio manda a dire che «accanto alle parole solidarietà e bontà sappiamo usare anche la parola indignazione». Patrizio Gonnella di Cild denuncia la «narrazione tossica» e mostra con i dati, che «mentre crescono in numero percentuale e assoluto i detenuti italiani e di altre nazionalità, i rumeni in controtendenza diminuiscono».
E Riccardo Magi, segretario di Radicali italiani, ricorda a Di Maio e a Minniti che «se l’accoglienza è soggetta ai limiti dell’integrazione, bisogna lavorare sull’integrazione, come facciamo con la nostra pdl, mentre nel decreto appena trasformato in legge si è scelto di rilanciare una fallimentare strategia securitaria. Ma i fatti hanno già dimostrato che securitario non è sinonimo di sicuro. Se quindi il M5S vuole contrastare il crimine, ci aiuti a raccogliere le firme per mandare in soffitta l’attuale legge sull’immigrazione, che ha prodotto solo lavoro nero, sfruttamento e quindi criminalità».
In linea con la tradizione Radicale si è scelto di affidare all’iniziativa popolare la pdl che si sviluppa soprattutto sul piano del lavoro, «unico ambito in cui l’Ue non stabilisce strette linee guida per i Paesi membri», come spiega l’avvocata dell’Asgi, Giulia Perin, e sui principi di «accoglienza, integrazione e diritti». Anche perché è grazie agli immigrati – «che sono il 13% della forza lavoro, hanno versato 7 miliardi di contributi e percepito lo 0,2% delle pensioni pagate dall’Inps», sottolinea lo scrittore di origini senegalesi Pap Khouma, anni di «sofferta clandestinità» alle spalle e orgoglioso esponente della società italiana – se l’Italia può sperare di sopravvivere al suo ineluttabile destino di popolazione in via d’estinzione.
«Abbiamo oggi 500 mila irregolari – fa presente Bonino – Continuo a chiamarli clandestini, perché esiste ancora un reato che si chiama di clandestinità. Ma non si può deportare, con i rimpatri, un esercito di irregolari, che aumenteranno ancora visto che le domande vengono respinte al 60% e non ci sono altri modi per entrare da regolari».
Perciò, oltre all’abolizione del reato di clandestinità, tra i punti salienti della Pdl ci sono: il permesso di soggiorno temporaneo di 12 mesi, per facilitare l’incontro tra lavoratori stranieri e datori di lavoro italiani, anche grazie a soggetti di intermediazione tra la domanda e l’offerta; la reintroduzione del sistema a chiamata diretta con lo sponsor, previsto dalla Turco-Napolitano («cancellato da un centrodestra molto aggressivo», ricorda in sala Livia Turco che ha aderito alla campagna); un permesso di soggiorno «per comprovata integrazione» che dovrebbe essere rinnovabile anche in caso di perdita del posto di lavoro, «sul modello della Germania e della Spagna, dove in questo modo si è abbattuto il numero dei clandestini», come spiega ancora l’avvocata Perin.
Ma senza diritti non c’è integrazione. Dunque: «piena equiparazione per il diritto alla salute», «uguaglianza nelle prestazioni di sicurezza sociale», «la garanzia di conservare tutti i diritti pensionistici in caso di rimpatrio volontario», e «effettiva partecipazione alla vita democratica».
Il testo della pdl che si propone come una nuova legge quadro sull’immigrazione sarà depositato oggi in Cassazione. Poi, tutti al lavoro, per raccogliere le firme. L’ex ministra degli Esteri Emma Bonino lancia un appello: «Siccome la politica è distratta, guarda dall’altra parte, chiediamo ora ai cittadini di farsi sentire».
Sempre più spietata la discriminazione verso chi è più fragile e bisognoso di aiuto, sempre più ostile e rischiosa la città per chi osa esprimere critica e dissenso. E le chiamano "sinistra" e "democrazia". Articoli di Andrea Fabozzi e Gaetano Azzariti, il manifesto, 13 aprile 2017
ASILO E SICUREZZA URBANA,
È LEGGE LA DOPPIA STRETTA
di Andrea Fabozzi
«Con il minimo dei voti e defezioni anche nel Pd la camera e il senato approvano in contemporanea i decreti Minniti-Orlando»
Il decreto Minniti-Orlando è legge. I numeri della camera all’ultimo passaggio dicono questo: l’Italia ha introdotto nel suo ordinamento un rito processuale di serie B, con meno garanzie, che sacrifica i diritti universali di una categoria particolarmente debole, i richiedenti asilo, grazie a una maggioranza molto scarsa, appena sufficiente, e garantita da un solo partito: il Pd. Neanche tutto il Pd, visto che all’appello sono mancati circa ottanta deputati del gruppo, prova tangibile dei malumori provocati dalla stretta repressiva. Alla fine i sì al decreto, dopo che martedì era passata la fiducia al governo legata al provvedimento, sono stati 240, molto al di sotto della teorica maggioranza di governo e anche della maggioranza assoluta. Se la legge non è stata fermata è stato ancora una volta per il largheggiare delle «missioni» e le assenze delle (teoriche) opposizioni, Forza Italia soprattutto con più di mezzo gruppo a spasso, ma anche Fratelli d’Italia. Conferma indiretta dell’apprezzamento di cui gode Minniti a destra.
Molti assenti (un terzo) anche nel gruppo 5 Stelle, ma i grillini ieri hanno fatto notizia più per le dichiarazioni anti rumene di Di Maio. Dei 240 sì, ben 205 appartengono al Pd, il resto è contorno centrista – e pure da quelle parti prevalevano gli assenti. Nella calda mattinata di ieri era più facile incontrare deputati in giro per la città tra bar e musei che in aula, dove è stato convertito un decreto che scardina il principio dell’uguaglianza davanti alla legge. Ma a finire sotto accusa è stato il gruppo Mdp-Articolo 1, bersaglio degli attacchi dei renziani. I deputati bersanian-dalemiani ex Pd ed ex Sel hanno votato no alla legge, come annunciato martedì quando invece si erano divisi sulla fiducia, con gli ex democratici che non se l’erano sentita di negare l’appoggio al governo. Ieri invece sono rimasti più o meno uniti, dal no della maggioranza del gruppo si è distinta una pattuglia di otto deputati che preferito la mossa più soft di non partecipare al voto.
Un attimo dopo l’approvazione, il capogruppo del Pd Rosato ha sorvolato sulle assenze dei suoi deputati ma ha attaccato Mdp, definendo «inaccettabile» il voto contrario di un partito che fa parte della maggioranza. «Se vogliono destabilizzare la legislatura lo dicano espressamente – ha detto – sono sulla strada giusta per farlo, i decreti sono un pezzo dell’azione di governo». Insomma, la colpa delle fibrillazioni attorno a Gentiloni non è della voglia di Renzi di correre alle urne, ma dei bersaniani. Che hanno risposto tentando di spiegare il differente atteggiamento tra camera e senato, dove avevano votato sì alla fiducia e dunque al decreto: «C’era l’impegno a modificarlo alla camera, ma ci è stato impedito», ha detto il capogruppo Laforgia. Un ragionamento del genere sta dietro le assenze «politiche» dei deputati Pd, anche se pochi – Bruno Bosio, Monaco – hanno reso pubblico il dissenso.
Lo hanno fatto invece al senato Manconi e Tocci, anche loro del gruppo Pd, che non hanno partecipato al voto sulla fiducia con la quale ieri, parallelamente, si è compiuto il ciclo dell’altro decreto Minniti, quello sulla sicurezza urbana, ugualmente contestato da giuristi e associazioni. Anche in questo caso nessun dibattito vero, nessuna modifica possibile e volontà del governo blindata con la fiducia. E ancora numeri molto bassi, solo 141 sì, un altro record negativo per l’esecutivo Gentiloni. Sufficiente però per andare avanti, calpestando diritti e garanzie.
CON IL DECRETO MINNITI
PIÙ TUTELE AI REATI BAGATELLARI
CHE GARANZIE AI MIGRANTI
di Gaetano Azzariti
«Diritti e Costituzione. E il governo riduce le garanzie a chi ne ha più bisogno»
La riduzione delle garanzie processuali per i richiedenti asilo contrasta con la nostra tradizione giuridica e costituzionale. Se, come si sostiene dalle parti del Governo, il decreto Minniti-Orlando è di sinistra, esso ne riflette lo stato confusionale. E mostra la difficoltà d’affrontare le questioni dell’immigrazione nel rispetto del principio della dignità delle persone.
Quel che più colpisce è che la “sinistra al governo” si fa promotrice di una normativa che nega adeguata protezione proprio ai soggetti più vulnerabili, sbilanciando ulteriormente il già iniquo sistema giudiziario. Le nuove disposizioni eliminano un grado di giudizio nei casi in cui si sia negato al richiedente il diritto d’asilo. In tal modo si pensa di accelerare i processi, senza però tener conto che l’oggetto del giudizio riguarda un diritto fondamentale tutelato dalla nostra Costituzione dall’articolo 10. Sino ad ora questi diritti richiedevano una tutela rafforzata, adesso essa si attenua. È sintomatico che la riduzione dei tempi processuali riguardi i migranti e non magari i reati bagatellari.
Ad aggravare il quadro è la riduzione delle garanzie nell’unico giudizio di merito rimasto (v’è poi solo la possibilità di ricorrere in Cassazione per violazione di legge, garantita dall’articolo 111 della Costituzione). Una delle misure previste appare assai significativa in quanto lesiva del diritto di difesa, nonché del principio del giusto processo garantiti in Costituzione dagli articoli 24 e 111. Nei processi relativi alle richieste di asilo non è infatti assicurato il contraddittorio, il giudice può decidere senza aver ascoltato l’interessato. Ciò comporta che l’unico momento in cui il migrante può esporre le sue ragioni a fondamento della richiesta d’asilo è nell’incontro con la Commissione territoriale. Un “colloquio personale” che, ovviamente, non può fornire nessuna certezza processuale: esso si svolge in assenza di ogni assistenza legale ed è da dubitare che gli interessati siano in grado di valutare correttamente la situazione e prospettare adeguatamente le complesse motivazioni a sostegno del loro diritto fondamentale.
Un esame più accorto, che solo l’udienza pubblica con l’intervento delle parti davanti ad un giudice terzo e l’assistenza di un difensore può garantire, appare necessario non solo in ragione della tutela dell’interesse del migrante, ma anche per assicurare la correttezza della decisione. Dovrebbe, in effetti, essere tenuto in maggior conto l’interesse pubblico alla certezza del giudizio da salvaguardare sempre, ma tanto più in quei casi in cui, come ci viene continuamente ripetuto, può venire in gioco persino la sicurezza dello Stato. Anche da questo punto di vista la nuova normativa risulta irragionevole. In molti casi di richiesta d’asilo l’accertamento che deve essere compiuto si rileva particolarmente complesso, immaginare che tutto si possa risolvere in un’intervista videoregistrata appare assai superficiale.
Un particolare rivela lo spirito essenzialmente securitario, nonché l’inadeguatezza del decreto. Una delle questioni più delicate delle politiche di accoglienza riguarda i Centri di identificazione ed espulsione (Cie). La Corte costituzionale ha indicato da tempo (sent. n. 105 del 2001) come il trattenimento dello straniero in simili luoghi rappresenti una misura che incide sulla libertà personale e che dunque debba essere garantito il rispetto delle garanzie dell’articolo 13 della Costituzione. Un legislatore consapevole e rispettoso dei principi costituzionali dovrebbe affrontare la questione e definire un sistema di trattenimento con – come scrive ancora la Corte – «finalità di assistenza» e che impedisca la «mortificazione della dignità dell’uomo che si verifica in ogni evenienza di assoggettamento fisico all’altrui potere».
Il decreto per ora si limita a cambiare il nome dei Cei, ma non sembra preoccuparsi della natura sostanzialmente detentiva della permanenza coatta entro queste strutture. Un modo per sfuggire alla realtà di politiche migratorie le cui soluzioni sono certamente assai complesse che devono però essere costituzionalmente orientare. Questo dovrebbe essere l’obiettivo di una sinistra di governo e non solo al governo.
«Alla camera passa con un record negativo la fiducia sul decreto che istituisce un diritto di serie B per i profughi che cercano la protezione internazionale
». il manifesto, 12 aprile 2017 (c.m.c.)
MINNITI È LEGGE DI DELLO STATO.
di Andrea Fabozzi
Il decreto Minniti-Orlando entra definitivamente nell’ordinamento giuridico italiano. In 53 giorni da quando il ministro dell’interno e quello della giustizia hanno firmato il nuovo rito processuale riservato ai richiedenti asilo, che prevede un grado di giudizio in meno e riduce le garanzie in prima istanza -, e aggiunge la riapertura e moltiplicazione dei Cie (con un altro nome) per velocizzare le espulsioni – il parlamento ha detto sì. Questa mattina l’ultimo passaggio, ormai solo formale, alla camera. Una doppia fiducia nei due rami del parlamento che ha impedito ogni dibattito su una misura che è però epocale: l’Italia accede al principio che per una categoria di persone, i migranti che chiedono la protezione internazionale, è possibile prevedere un diritto speciale. Attenuato. Se ne occuperà la Corte costituzionale.
Sono in dodici nell’aula di Montecitorio quando comincia la discussione sulla fiducia, compresi il presidente di turno dell’assemblea, una stenografa e il ministro Minniti. Il ministro se ne andrà quasi subito, sostituito da due sottosegretari a staffetta. Convintissimi solo i deputati che si pronunciano per il No. Tutti quelli a destra che avrebbero voluto misure ancora più drastiche. I 5 Stelle, secondo i quali «quando si parla di immigrazione, la verità è una sola: il nostro paese non riesce a fronteggiare questo fenomeno». E Sinistra italiana-Possibile, che giudica il decreto «uno spot che però introduce gravissimi precedenti nella nostra cultura e prassi giuridica». Assai meno convinti i sostenitori del provvedimento, almeno quelli non iscritti al Pd che parlano tutti di «fiducia sofferta», «a malincuore» e «metodo sbagliato», «confronto impossibile». Alla fine sarà la fiducia più magra alla camera del governo Gentiloni (lo stesso record negativo registrato nel passaggio al senato, due settimane fa). Appena 330 sì, quaranta voti sotto la maggioranza teorica.
Eppure non è mancato il sostegno dei bersanian-dalemiani fuoriusciti dal Pd. E per questo si è diviso il nuovo gruppo Mdp-articolo 1. Gli ex Sel (i deputati che non hanno aderito a Sinistra italiana) hanno negato la fiducia non partecipando al voto, con qualche eccezione. Gli ex Pd, con qualche eccezione anche loro, hanno deciso di non negare l’appoggio al governo, spaventati dalla propaganda renziana che li presenta come una forza di inaffidabile opposizione.
Si ritroveranno stamattina, nel giudizio sul merito del provvedimento – alla camera è previsto il doppio passaggio – dove tutti voteranno no. Salvo l’eccezione di chi non parteciperà al voto.
«C’è un oggi e c’è un domani», ha detto (ieri) il deputato di Mdp Fossati parlando a nome del gruppo. Fuori discussione l’appoggio degli ex Pd a Gentiloni, e così in una riunione convocata subito dopo Bersani ha chiesto ai nuovi compagni di sinistra di non evidenziare troppo il loro dissenso. Quindici deputati ex Sel hanno così evitato di rispondere alla chiama per la fiducia, mentre due (Duranti e Sannicandro) non hanno rinunciato al loro no. Uno invece, Kronbichler, ha votato sì, come il resto dei componenti del gruppo, gli ex Pd, salvo Epifani e Formisano che non hanno risposto. In definitiva una spaccatura a metà.
Nel frattempo Laura Boldrini, che con Pisapia anima la sinistra ponte tra Mdp e Pd, ha espresso riserve sul decreto, compatibilmente con il ruolo di presidente dell’aula. «Le associazioni temono che possa essere lesa la fruibilità del diritto di asilo – ha detto – in fase di applicazione bisognerà verificare». E poi ha aggiunto che «è giusto dire che l’accoglienza ha un limite nella capacità di integrazione, ma mancando le risorse la frase di Minniti resta un principio senza seguito coerente». Il decreto in effetti prevede la creazione di sezioni specializzate in 26 tribunali per le cause sul diritto di asilo, ma senza costi aggiuntivi per l’assunzione di nuovi magistrati o cancellieri né per la formazione. Prevede stanziamenti invece per i voli di riaccompagnamento degli espulsi e l’assunzione di altri carabinieri per le sedi diplomatiche in Africa.
I DECRETI MINNITI-ORLANDO
SONO INCOSTITUZIONALI . ECCO PERCHÈ.
di Eleonora Martini
«A rischio di incostituzionalità». Il giudizio è praticamente unanime, in Piazza Montecitorio dove decine di associazioni e formazioni politiche si sono date appuntamento per contestare i decreti legge Minniti-Orlando, mentre i deputati in Aula votavano la fiducia. Entrambi – quello sull’immigrazione, che oggi verrà convertito in legge con l’ultimo voto della Camera, e quello sulla sicurezza urbana che è passato all’analisi del Senato – violano i principi stessi su cui fonda lo Stato italiano, secondo molti militanti delle organizzazioni che hanno aderito al sit-in, tra le quali Antigone, Arci, Asgi, Acli, Cgil, Cisl, Cnca, Fondazione Migrantes, Legambiente, Libera, Lunaria, Medici senza frontiere, Radicali italiani, Rifondazione comunista, Sant’Egidio e Sinistra Italiana.
A cominciare dalla necessità e dall’urgenza che hanno motivato la forma dell’atto normativo. Ma di punti «deboli», costituzionalmente parlando, i provvedimenti di Minniti e Orlando ne hanno molti. Basti pensare al «Daspo urbano» applicato anche il 25 marzo scorso a Roma per fermare preventivamente alcuni manifestanti «per l’altra Europa» provenienti dalla Val Susa e dal Nord-est, «che viola l’art.21 sulla libertà di espressione del pensiero». O alla riforma dell’iter per il riconoscimento dello status di rifugiato, resosi necessario, secondo il legislatore, a causa dell’intasamento di alcuni tribunali, quelli su cui insiste la competenza delle commissioni che vagliano le richieste di asilo. Per intenderci, nel Lazio tutti i ricorsi degli aspiranti asylanten gravano solo su quella decina di magistrati della Prima sezione del Tribunale di Roma. «Ma il ministro Orlando, invece di cambiare le competenze e distribuire sul territorio questo carico di lavoro, ha deciso di semplificare l’iter a scapito di molti diritti costituzionali», spiega l’avvocato Stefano Greco, della Casa dei diritti sociali.
Andando nei particolari del «decreto immigrazione», il primo punto è la giurisdizionalizzazione del procedimento amministrativo davanti alle Commissioni (le cui sedute saranno d’ora in poi videoregistrate e i cui verbali saranno informatizzati) che, secondo il ministro Orlando, permette di evitare il secondo grado di giudizio nel caso di ricorso davanti a un giudice. «In questo modo, si viola l’articolo 111 secondo il quale “la giurisdizione si attua mediante il giusto processo” – spiega ancora l’avv. Greco – che vuol dire contraddittorio tra le parti, parità, e un giudice terzo e imparziale. Davanti alle commissioni invece il richiedente asilo è solo, senza un avvocato e posto dinanzi ad un dipendente del Ministero dell’Interno. In sostanza, si fa confusione tra i poteri dello Stato, sostituendo in questo caso quello giudiziario».
Se c’è diniego, poi, si hanno solo 30 giorni per trovare un avvocato, preparare e depositare il ricorso. E, se in seconda istanza si vuole fare ricorso in Cassazione, per un giudizio di legittimità, il tutto va ripetuto, compresa la delega all’avvocato (norma particolare, si badi bene, applicata solo ai richiedenti asilo).
Ma come si forma il giudizio del tribunale di primo (e unico) grado? «Prima il giudizio si formava anche con l’ausilio di prove e testimonianze, la cosiddetta “cognizione piena” – ricorda Greco – poi con l’ultimo governo Berlusconi, nei cui piani c’era la semplificazione che sta portando in porto Orlando, si è passati alla “cognizione sommaria”, ossia un processo sostanzialmente documentale ma che poteva essere trasformato, al bisogno, in rito “pieno”, arricchendo il dibattimento con testimoni e prove.Con questo decreto invece si va oltre: si applica l’art. 737 del Codice di procedura civile, quello usato per le cause senza contenzioso, dove non c’è udienza, non c’è dibattimento, non c’è comparizione delle parti. Il giudice può non incontrare mai né il richiedente asilo, né il suo avvocato: visiona la registrazione della commissione e decide. Ed è la prima volta che ciò avviene in Italia in materia di diritti fondamentali della persona».
».
il manifesto, 11 aprile 2017 (c.m.c.)
Nel campo della Croce Rossa di Settimo Torinese vivono 700 persone, la metà dorme in tenda, 6 o 7 brandine in ognuna: «La tendopoli è qualcosa che non ci piace, ma negli ultimi due anni sono transitate 30mila persone e stiamo gestendo l’emergenza da un decennio», afferma il comandante della Croce Rossa Ignazio Schintu.
78 ospiti sono donne, venti incinta: «Molte sono vittime di tratta – dice Schintu – mentre gli uomini soggiornano per 1 mese, le donne rimangono anche 3 o 4 come transitanti perché i centri a loro dedicati sono pochi». In altri hub, come quelli di Udine e Brescia, la permanenza dura anche un anno.
Una ragazza col pancione di sei mesi esce dalla tenda e si avvia al container-bagno, ce n’è uno ogni 30 persone. Il comandante Schintu dirige l’hub e sa bene i rischi che corrono le donne in strutture non protette: «Arrivavano auto da tutto il nord Italia, caricavano le ragazze e le portavano via. Alcune tornavano, altre no. I carabinieri hanno identificato quindici persone».
La tratta di donne, spesso ragazze giovanissime, vede coinvolte nella maggior parte dei casi le nigeriane, vittime di un sistema collaudato che si avvia già nel Paese d’origine. Yasmine Accardo, dell’associazione LasciateCIEntrare, ha visitato numerosi centri d’accoglienza in tutta Italia: «La tratta si sta ampliando, abbiamo notizie del coinvolgimento di ivoriane, camerunensi e ghanesi, ma anche di minori, sia maschi che femmine. Le persone vengono intercettate già allo sbarco e prelevate appena arrivano nei centri di accoglienza».
Nel container-ambulatorio, una ragazza nigeriana, sui diciotto anni, aspetta di vedere il medico. Nei Centri di accoglienza straordinaria (Cas) di Torino e provincia risiedono 389 sue connazionali, fanno sapere dalla Prefettura, un numero destinato ad aumentare dato il raddoppio degli arrivi di nigeriane nell’ultimo anno. «Il 90% è vittima di tratta – dice una dirigente -, ma finché non si dichiarano tali non possiamo fare nulla».
Nonostante l’estensione e la gravità del problema, il programma regionale anti tratta, per la prima volta dopo 12 anni, non è stato rifinanziato per problemi burocratici. La Regione Piemonte coprirà con propri fondi, fino ad aprile, una parte del progetto. Dopo tutte le associazioni che si occupano delle ragazze dovranno interrompere la loro attività.
». il manifesto
, 8 aprile 2017 (c.m.c.)
Avvengono secondo un copione consolidato, gli attacchi ordinati da Trump nella notte scorsa sulla base aerea siriana di Khan Sheikhou. Come da modello balcanico – vedi la strage inventata di Racak per l’intervento «umanitario» Nato in Kosovo nel 1999 – e con lo «stile» del governo israeliano del quale ancora non abbiamo smesso di contare le vittime civili per i suoi attacchi aerei su Gaza nel 2009.
I 59 missili Tomawak lanciati sulla Siria rompono l’ equilibrio di una saga immaginifica. Perché è tornata l’America, anzi questa è l’America. A smentire il povero Alan Friedman che dovrà scrivere almeno un altro libro. Perché la davano per persa, l’America. Con un Trump descritto come filo-Putin, quindi addirittura anti-Nato, naturalmente tenendo fissa la barra degli interessi strategici verso Israele e l’Arabia saudita; ma deciso nella lotta contro l’Isis.
Invece con un dietrofront repentino, a pochi giorni dalla dichiarazione rilasciata all’Onu dalla rappresentante Haley che «la fuoriuscita di Assad non è più la priorità», subito dopo la strage di Khan Sheikhou ha ripreso la rotta che già fu di Bush per l’Iraq del 2003: ha autorizzato il capo del Pentagono «cane pazzo» Mattis all’azione di guerra. Senza il parere dell’Onu e del Congresso Usa, con il veto russo alla condanna unilaterale di Assad, e di fronte alla richiesta di una indagine internazionale indipendente.
Per una strage, è bene ribadirlo, che vede i ribelli armati, opposizioni democratiche, jihadisti e qaedisti, uniti ad accusare il governo di Damasco; che invece ammette la responsabilità dei bombardamenti ma a sua volta accusa che tra gli obiettivi colpiti c’era un deposito di armi chimiche in mano ai ribelli. Dentro questo conflitto senza tregua né regole, la ferocia appartiene a tutti e nessuno – tantomeno Assad – è innocente, non ci sono in Siria angeli e demoni.
Ma è assolutamente legittimo dubitare della verità unilaterale delle opposizioni subito accettata dalle cancellerie europee e dagli Stati uniti. Che è bene ricordarlo sono stati i Paesi destabilizzatori della Siria – che non esiste più, come l’Iraq e la Libia – da subito. Fin dal 2011 nel tentativo di fare a Damasco quello che era «riuscito» già a Tripoli. Così a suffragare le accuse ad Assad per l’uso del gas sarin c’è la Turchia dell’«umanitario» Erdogan, che fa le autopsie come Paese «terzo». Quando è stato invece la retrovia dei jihadisti con cui ha intessuto traffici in armi, addestramento e petrolio come testimoniato dalla stampa turca indipendente non a caso finita in galera.
Ora il «democratico» Erdogan esulta, anche la piega degli avvenimenti lo aiutano nel suo referendum iper-presidenzialista della prossima settimana; e già rilancia la richiesta di
no-fly zone sulla Siria libero di continuare a massacrare i curdi. Esulta Israele perché le modalità di Trump seguono in Medio Oriente le orme di sangue delle sue rappresaglie sui palestinesi e i tanti raid recenti contro la Siria; né deve essere bastato a Netanyahu la dichiarazione di Mosca dell’ultimo momento che, pur rispettando Risoluzioni Onu e soluzione dei Due Stati, ha riconosciuto Gerusalemme est capitale del futuro Stato di Palestina ma anche la parte Ovest capitale d’Israele.
Plaude l’«umanitario» presidente egiziano Al Sisi. E naturalmente l’Arabia saudita, il finanziatore della jihad in tutta l’area, che massacra in Yemen gli sciiti senza che nessuno protesti. Ed esultano jihadisti, da Al Sharam a an-Nusra/Al-Qaeda (che a marzo a Damasco ha rivendicato due stragi, il 12 marzo con 74 morti e il 15 marzo con 30), fino all’Isis per questo non atteso sostegno alla loro campagna per abbattere Assad.
Trump dunque va alla guerra. Rispettando la tradizione della storia americana, come risposta alla sua debolezza interna a nemmeno tre mesi dal suo ingresso alla Casa bianca e smentendo gran parte ormai delle sue promesse di un approccio diplomatico alle crisi. Soprattutto dopo avere incassato un disastro dietro l’altro, sulla nomina del suo staff di governo, sulla promessa di cancellare l’Obamacare, sulla Corte suprema, sul presunto Russiagate ora brillantemente smentito a suon di missili. E così facendo prova a rimettere in riga ogni critica interna e aggiustando con la colla i cocci occidentali. Zittisce le critiche dei Repubblicani e dei Democratici; Hollande e Merkel firmano uniti il loro apprezzamento; Gentiloni, si accoda all’alleato americano. E infine oscura la visita in Usa di Xi Jinping con un messaggio esplicito sulla crisi nordcoreana ai confini con la Cina.
Trump riporta questa Pasqua 2017 al mondo in ansia per la terza guerra mondiale dell’estate 2013. Quando, anche allora su un raid al presunto gas nervino, Obama era pronto alla guerra e venne fermato sia dalla preghiera mondiale del papa che da quel momento cominciò a denunciare la maledetta guerra e quelli che «fanno la guerra dicendo di fare la pace»; sia da Putin che si fece garante con l’Onu dello smantellamento dell’arsenale chimico di Damasco. Ecco il punto. Trump è intervenuto «per i bambini siriani».
Ma meritano davvero una tale vendicatore? L’azione di guerra di Trump avviene infatti appena dopo l’ammissione da parte degli Stati uniti, solo venti giorni fa, di avere massacrato, «per sbaglio» e «per sconfiggere l’Isis», a Mosul più di 150 tra donne e bambini come testimoniato dall’Onu e non raccontato dai media
mainstrem; che tacciono sulle migliaia di civili uccisi in Afghanistan dai raid occidentali. Esistono dunque bambini di serie A e bambini di serie B. Forse che cluster bomb, uranio impoverito e bombe al fosforo sono meno micidiali del gas sarin? Un salto cultural-motivazionale: dalla «guerra umanitaria» siamo alla «guerra per i bambini» con fissa l’immagine tv sui loro occhi innocenti.
Ma attenzione. Vista l’irresponsabilità del gesto trumpista ora provano a dire che non è successo nulla, che i danni sono limitati. È vero il contrario. La reazione dell’Iran, che sul campo si oppone militarmente allo jihadismo, è rabbiosa: si trova esposta e nel mirino. E quella della Russia di Putin non lo è da meno. La rottura del collegamento diretto con il Pentagono e del coordinamento per i voli dei caccia militari in Siria è prodromo ad un confronto, anche involontario, diretto, non più per procura. Siamo a un passo dal precipizio. Pezzo per pezzo, nella terza guerra mondiale.
Nessuno si chiami fuori da questo atroce delitto. Meno che meno i governanti della nazione di cui Giulio pensava di essere cittadino, i quali hanno continuato a fare affari con i mandanti dei colpevoli e gli occultatori dei fatti. Forse per obbedire alla Trilateral Cmmission?
la Repubblica, 7 aprile 2017
«Il 25 gennaio del 2016 un giovane ricercatore italiano scompare al Cairo. Il suo corpo viene ritrovato nove giorni dopo. Comincia così il dramma di una famiglia e la lotta di un intero Paese per cercare di capire chi sono gli assassini, chi li ha coperti, chi ha depistato. Ecco la ricostruzione di come si sono svolti i fatti. E, per la prima volta, i nomi degli alti ufficiali egiziani coinvolti nel delitto»
Prologo
Il Cairo, 25 gennaio 2016. Pomeriggio.
Non era un giorno qualsiasi. Né poteva esserlo. Perché quel giorno, cinque anni prima, tutto era cominciato.
Piazza Tahrir. La Rivoluzione. La caduta dell’immarcescibile Regime di Hosni Mubarak. Il sogno di una Primavera che si era trasformata nel suo contrario e aveva spalancato le porte al colpo di Stato militare del generale Abd Al Fattah Al Sisi. A un nuovo inverno di violenza, sopraffazione, sparizioni, delazioni, per piegare ogni forma di dissenso.
Ahmed Abdallah, ingegnere informatico, professore universitario, attivista per i diritti umani e direttore della ong “Egyptian Commission for Rights and Freedoms”, non poteva immaginare che il suo destino stava per cambiare. Esattamente come quello di un ragazzo italiano che avrebbe conosciuto solo da morto. «Quel 25 decisi di non farmi trovare in casa. Erano in corso retate indiscriminate. Gli arrestati venivano trascinati direttamente di fronte a un tribunale speciale, la Corte Suprema della Sicurezza dello Stato. La mattina, la caffetteria che frequentavo quotidianamente, era stata assaltata da uomini armati a bordo di un automobile senza targa. Erano arrivati prima di me, ringraziando Dio. Avevano chiesto se qualcuno mi avesse visto o sapesse dove fossi. E se ne erano andati prima che arrivassi. Durante il giorno era stato imposto una sorta di coprifuoco. Il Regime aveva paura del popolo. Il popolo aveva paura della paranoia del Regime. Quel giorno respiravamo paura».
Alle 19, sulla riva sinistra del Nilo, nell’appartamento all’ultimo dei quattro piani della palazzina di Dokki dove abitava da quattro mesi, Giulio Regeni digitò sul suo portatile una chiave di ricerca su Youtube. “Coldplay. A Rush of blood to the head”. Aveva voglia di ascoltare quel brano che, anni prima, aveva consacrato la band nata a Londra. Giulio si è laureato in Inghilterra prima a Leeds, poi a Cambridge per il Phd con la ricerca sui sindacati nell’Egitto dei Generali.
Le 19. Aveva tempo. Il suo amico Gennaro Gervasio lo aspettava per le 20.30 in una caffetteria non lontana da piazza Tahrir. Tre fermate di metropolitana. Insieme sarebbero andati a cena da un professore che entrambi conoscevano, Kashek Hassamein.
Partì il brano dei Coldplay. Giulio non poteva sapere in cosa fosse precipitato. Né immaginare la profezia che era in quelle strofe.
See me crumble and fall on my face
Mi vedo sgretolare e cadere di faccia
See it all disappear without a trace
Vedo tutto scomparire senza lasciare una traccia
Salutò il suo coinquilino, il giovane avvocato Mohamed El Sayed. E uscì di casa poco prima delle 20.
Per l’ultima volta.
Morgue
Il Cairo, 31 gennaio 2016. Pomeriggio.
Il cellulare di Claudio Regeni vibrò. Era Maurizio Massari, ambasciatore italiano in Egitto.
I genitori di Giulio erano arrivati al Cairo il 30. E vivevano nell’appartamento che Giulio divideva con El Sayed e una tedesca, Juliane Schoki.
Paola e Claudio avevano lasciato Fiumicello in fretta e furia. Senza far parola con nessuno del perché fossero partiti per l’Egitto. Gli avevano consigliato di inventare una scusa. Ci aveva pensato Paola con gli amici: « Giulio non sta tanto bene. Una colica renale o un’appendicite. Se c’è da operarlo, meglio a casa». Aveva messo in valigia quello che riteneva potesse servire. «Dissi a Claudio: “Facciamo vedere che nostro figlio ha una famiglia. Una mamma, un papà. Che non è un ragazzo allo sbando. Quindi, portati la giacca. Io porto la collana”». Aveva pensato anche al rossetto. Ma era rimasto in borsa. «Lo dimenticai, perché normalmente non lo uso. Volevamo fare bella impressione perché all’ambasciata facessero tutto quello che era nelle loro possibilità per ritrovare Giulio».
Massari andò dritto al sodo. « Signori, con il ministro egiziano è andata male. Continua a dire che non sa niente di Giulio, quindi…». « Quindi? » , chiesero. « Quindi abbiamo deciso di dare la notizia all’Ansa. Forse in questo modo la pressione della stampa internazionale potrà smuovere un po’ le cose. Ecco, avete cinque minuti per avvisare casa prima che la notizia esca».
Paola chiamò allora Irene, la figlia più piccola, cinque anni meno di Giulio. Era rimasta a Fiumicello. «Le dissi: “Corri più veloce che puoi a casa e prendi tutto quello che ti serve. Poi, scappa, perché arriveranno i giornalisti”».
Alle 18 e 14 lampeggiò l’urgente dell’Ansa: FARNESINA, SCOMPARSO UN 28ENNE ITALIANO AL CAIRO «L’ambasciata italiana al Cairo e la Farnesina stanno seguendo “con la massima attenzione e preoccupazione” la vicenda di Giulio Regeni, studente italiano di 28 anni sparito “misteriosamente” la sera del 25 gennaio nel centro della capitale egiziana. Gentiloni — si legge in una nota della Farnesina — “ha avuto poco fa un colloquio telefonico con il suo omologo egiziano Sameh Shoukry, al quale ha richiesto con decisione il massimo impegno delle autorità del Cairo, già sensibilizzate dall’Ambasciata, per rintracciare il connazionale e per fornire ogni possibile informazione sulla sue condizioni. Ambasciata e Farnesina sono anche in stretto contatto con i genitori di Giulio”».
2 febbraio 2016. Uffici del ministero dell’Interno. Il Cairo.
Il ministro dell’Interno, Magdy Abdul Ghaffar, aveva ascoltato l’ambasciatore Massari senza muovere un muscolo. A 64 anni, quanti ne aveva, quaranta dei quali trascorsi nei servizi di sicurezza, era l’altro uomo forte del Regime. In silenziosa e ostinata opposizione ad Al Sisi. Se il Presidente poteva contare sulla struttura militare — forze armate e intelligence — Ghaffar controllava la “Stasi” del Medio Oriente, l’occhiuto, onnipresente servizio segreto interno: la National Security, così ribattezzata dopo la rivoluzione di piazza Tahrir in un maquillage che non ne aveva cambiato di una virgola le pratiche. Arresti illegali, torture, sparizioni. Al Sisi non poteva liberarsi di Ghaffar. Ghaffar non poteva fare a meno di Al Sisi. Ma le strutture di spionaggio che facevano capo ai due erano in perenne e paranoica competizione.
Ghaffar conosceva bene Massari, diplomatico cresciuto professionalmente nella Mosca del crollo sovietico e tra Washington e i Balcani, e non gli era sfuggito il modo in cui quel pomeriggio aveva deciso di rompere l’etichetta, tradendo una certa insofferenza. «Per incontrare Ghaffar c’era voluto molto tempo, almeno rispetto alla prassi — ricorda Massari — Non so dire per quanto rimasi seduto di fronte al ministro. Ma non fu una cosa breve. Al Cairo stava per arrivare il ministro dello Sviluppo economico, Federica Guidi, con una delegazione di nostri imprenditori». L’Eni aveva chiuso l’accordo per lo sfruttamento del giacimento di gas naturale di Zohr, una partita da 10 miliardi di euro. Gli imprenditori — infrastrutture, edilizia, settore creditizio — che accompagnavano la Guidi guardavano al Cairo come una straordinaria opportunità. «Resi esplicito quale imbarazzo provocava al nostro paese la coincidenza tra quella visita e la circostanza che dal 25 gennaio non sapevamo più nulla del nostro Giulio Regeni. Che da otto giorni le autorità egiziane non ci avevano fornito una sola informazione. Non avevo interprete quel giorno. Parlavo in inglese. E ricordo che continuai a ripetere a Ghaffar: “ We want Giulio back, we want Giulio back”. Rivogliamo Giulio” ».
Ghaffar aveva annuito.
Giulio era già stato ucciso.
3 febbraio 2016, casa di Giulio Regeni, Dokki. Il Cairo
Fuori era buio. Il cellulare di Claudio Regeni vibrò. Era Maurizio Massari.
«Buonasera. Sono con il ministro Guidi. Stiamo venendo da voi». Strano. Avrebbero dovuto vedersi il giorno successivo. Racconta Paolo: «Io e mio marito ci guardammo: “ Perché un ministro viene fin qui se avevamo appuntamento per domani?” » . « Due sono le cose: o vogliono farci una bella sorpresa e portarci Giulio, oppure le notizie sono cattive…», rispose Claudio. «Andavo su e giù dalla finestra… Ero molto nervosa. Mi misi persino a spolverare nervosamente il soggiorno, per ingannare l’attesa… Al Cairo entra molta polvere in casa».
Di nuovo il cellulare. Di nuovo Massari. «Disse che erano in ritardo di dieci minuti. Ma, stavolta, aggiunse che non portavano buone notizie. Al che, guardai Claudio e capimmo. Dissi: è già finito tutto. La felicità della nostra famiglia è durata così poco. Pensai che non sarei mai diventata nonna dei figli di Giulio. Perché a Giulio piaceva l’idea di avere dei figli». Suonò il citofono. Massari entrò nell’appartamento insieme con il ministro Guidi. Abbracciarono Paola. Abbracciarono Claudio.
«Avete cinque minuti di tempo per avvisare casa».
3 febbraio 2016, uffici della direzione del Servizio centrale operativo della Polizia di Stato, Cinecittà. Roma.
Il primo dirigente Vincenzo Nicolì sollevò il telefono al secondo squillo. Aveva fatto notte a discutere di droga. Sul display riconobbe il prefisso del Cairo. Doveva essere quel collega che in ambasciata seguiva le rotte e il traffico di migranti. «Ciao, dimmi». I migranti non c’entravano. « Fu una di quelle telefonate che un poliziotto non dimentica mai. L’ispettore mi informò che era stato trovato il corpo di quel ragazzo scomparso otto giorni prima». La chiamata si sovrappose al cicalio della linea interna con l’ufficio del direttore del servizio, il Questore Renato Cortese. «Vincenzo, vedi che domani mattina devi andare in Procura. Ti aspetta il pm Sergio Colaiocco, il fascicolo sul ragazzo del Cairo è suo. Vuole fare un gruppo di lavoro misto, con i Carabinieri. C’è da capire rapidamente cosa è successo » . Avrebbero lavorato con la sezione antieversione del Ros dei Carabinieri. La comandava un colonnello di cui, a ragion veduta, si diceva un gran bene, Massimiliano Macilenti.
Notte 3- 4 febbraio 2016, Garden City, Cairo.
Ora o mai più. Se c’era una finestra utile per capire cosa fosse accaduto a Giulio, era quella notte. Maurizio Massari era rientrato in ambasciata da casa Regeni intorno alla mezzanotte, soltanto per riuscirne poco dopo. Un’affidabile fonte egiziana — la stessa che lo aveva avvertito qualche ora prima del ritrovamento del corpo di Giulio e che, peraltro, lo aveva conosciuto bene da vivo — gli aveva anche fornito indicazioni sulla morgue in cui era stato trasferito. Voleva vederlo, prima che quel corpo potesse essere manomesso.
Troppe cose non tornavano. E poi, come facevano gli egiziani a essere certi che quel ragazzo occidentale ritrovato per caso da un tassista con l’auto in panne, semi nascosto da un muro di sabbia, lungo la superstrada Il Cairo- Alessandria fosse proprio Giulio Regeni? Attraversò la città deserta. E all’ingresso dell’obitorio convinse i piantoni a consentirgli l’accesso alle celle frigorifere. Ne aprirono una prima. Sbagliata. Quindi, una seconda. « Non avevo mai visto nulla di simile. I segni di tortura erano evidenti. Sul volto, le braccia, le spalle, le gambe e, soprattutto, sul dorso. Non poteva essere opera di altri che non professionisti della tortura». E chi in quel Paese era professionista della tortura?
Paola non poteva prendere sonno. «Con il telefonino andai sul sito di Repubblica. E lessi che Giulio, secondo le prime indiscrezioni raccolte in Egitto, era stato torturato. Sollevai lo sguardo dal telefono e avrei voluto scaraventarlo contro il cassettone che avevo di fronte. Avrei voluto urlare. E in effetti ho urlato. Piano». Ricevette un primo messaggio di condoglianze da un’amica. Usava belle parole. Le rispose di getto: «Grazie, ma Giulio non è soltanto morto. È stato torturato». Poi, scorse la rubrica, e trovò il numero di Maha Abdelrahman. Era la tutor egiziana di Giulio a Cambridge. La docente che aveva concepito la sua ricerca e deciso il suo semestre al Cairo. «Nel mio inglese pasticciato le scrissi: “Ma non lo sapevi che era pericoloso mandarlo in Egitto?”».
*** 4 febbraio 2016, Sala mortuaria dell’ospedale italiano. Il Cairo.
Riconoscimento. La legge lo chiama così. Non si può riconsegnare un corpo ai suoi cari se non ne confermano l’identità. Ma l’ambasciatore non voleva. Non lì almeno, aveva insistito: « Paola, Claudio, ho provveduto io. È meglio se ricordate vostro figlio com’era». Claudio fece per annuire. Paola si impuntò. A metà mattina erano nella sala mortuaria dell’ospedale italiano del Cairo dove il corpo di Giulio era stato trasferito. «Ci trovammo di fronte un sacco. Un sacco bianco. Come quello dei vestiti dell’Ikea. Era chiuso. Chiesi di vedere almeno i piedi, perché quelli di Giulio erano come i miei, quelli di mio padre e del nonno. Abbiamo tutti le stesse dita » . Massari scosse la testa: «Paola, meglio di no. Davvero». Fuori dalla sala c’erano anche due suore. Una delle due le si avvicinò: «Signora, lo sa che ha un figlio martire?». La gomitata dell’altra la interruppe. «Forse pensava non sapessi». Ora toccava ai medici egiziani. Avrebbero effettuato l’autopsia del corpo di Giulio. Poi sarebbero potuti tornare a casa.
6 febbraio 2016, volo Egyptair Il Cairo-Roma.
Quando si viaggia a 13mila piedi di altezza non si pensa mai a quello che si è caricato in stiva. Il bagaglio si affida al check-in e lo si recupera al nastro. Giulio era in stiva. Una bara di legno chiaro, con i sigilli in cera lacca rossi. «Ci avevano assegnato due poltrone in economy. Finché non si avvicinò un’hostess, facendoci segno di spostarci in testa all’aereo, in business. Ci avevano riconosciuto. Tutto l’equipaggio egiziano venne a salutarci » . Claudio ne rimase impressionato: «Piangevano tutti. Si scusarono. Fu un momento, come dire… forte. E loro furono… splendidi » . E poi erano con Giulio. Paola lo sentiva: «Avevamo la percezione fisica che sotto di noi c’era la bara di nostro figlio». «Atterrati a Roma, attendemmo sotto l’aereo che... insomma... scaricassero Giulio. Sì, scaricassero. La parola giusta è questa».
Una prima verità
6 febbraio 2016, pomeriggio, Policlinico universitario Umberto I, Padiglione di radiologia. Roma.
Il pubblico ministero Sergio Colaiocco aveva incaricato della consulenza medico legale sul corpo di Giulio Regeni, il professor Vittorio Fineschi, direttore dell’istituto di medicina legale di Roma. Aveva accolto lui la bara arrivata da Fiumicino. «Con il pm pensammo di far riconoscere il corpo in una sala diversa da quelle usate normalmente. Lontana dall’obitorio. Scegliemmo un padiglione di radiologia. Un luogo più raccolto».
«I medici mi chiesero: “ Signora, avete già visto Giulio?”. Io gli risposi: “ Devo dirvi la verità, no. E vi avrei chiesto di farlo perché altrimenti mi sentirei una vigliacca per il resto della mia vita”». Il corpo, avvolto in un lenzuolo, con il capo fasciato di garze che lasciavano intravedere soltanto l’ovale del viso, era adagiato su una lettiga al centro del padiglione. «Entrati nella stanza riconobbi il naso di Giulio. Fino a quel momento avevo sperato non fosse lui. Che si fossero sbagliati. E invece era lui. Lo riconobbi dalla punta del naso e non avrei mai pensato di riconoscere una persona cara da quel particolare. Mi tornò in mente una domanda che da allora non mi ha mai abbandonato: come avevano fatto le autorità egiziane a essere certe al momento del ritrovamento che fosse mio figlio? Non aveva indosso i documenti. Era semi nudo, trasfigurato, non somigliava neppure lontanamente al ragazzo della fotografia che avevamo consegnato per le ricerche. A una mamma, a un papà bastano pochi particolari. Ma come avevano fatto degli estranei a riconoscerlo?».
6 febbraio 2016, notte. Sala settoria, Policlinico universitario Umberto I. Roma.
Il professor Fineschi, la sua équipe, i medici incaricati dalla famiglia, lavorarono sul corpo di Giulio per oltre otto ore. Apparve una lavagna dell’orrore. Gli avevano spezzato un polso, le scapole, l’omero destro, le dita di entrambe le mani e piedi, i peroni erano come esplosi, la bocca era offesa dalle lesioni provocate dalla rottura di numerosi denti. La cute era segnata da tagli e bruciature. E chi si era accanito su quel ragazzo lo aveva segnato come si fa con le bestie, come nell’orrore nazista, incidendo lettere dell’alfabeto sul dorso, all’altezza dell’occhio destro, a lato del sopracciglio. Sulla mano sinistra e sulla fronte.
Giulio era stato finito da un’ultima violenza. Una torsione improvvisa e letale delle vertebre cervicali. Il che suggeriva più che un’ultima tortura, un’esecuzione. Era un ulteriore dato che scioglieva ogni dubbio. E che avrebbe potuto far concludere al professor Fineschi: «Le lesioni sul corpo di Giulio erano state inflitte in tempi significativamente diversi, nell’arco di giorni » . Giulio, dunque, era stato torturato con metodo. Alternando violenza a sospensione. « Era ipotizzabile che lo avessero colpito con calci, pugni, bastoni, mazze. Scaraventandolo ripetutamente contro muri o pavimenti. Il corpo di quel ragazzo ci aveva raccontato tutto quello che poteva testimoniare».
La ricerca della verità cominciava da qui. È vero, quell’autopsia non indicava il nome degli assassini, ma ne definiva il profilo (professionisti della tortura). Lo sapevano il procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, e il sostituto Sergio Colaiocco. Ne erano consapevoli il colonnello Massimiliano Macilenti e il primo dirigente Vincenzo Nicolì. «Le lesioni sul corpo di Giulio escludevano una serie di ipotesi investigative. La morte di quel ragazzo non era riconducibile a una vicenda di carattere personale. Non era opera di una persona sola. E che Giulio fosse stato poi torturato in tempi diversi offriva un’ulteriore, cruciale, indicazione. Chi lo aveva sequestrato aveva avuto a sua disposizione un luogo in cui agire indisturbato per giorni, con la tranquillità di non essere trovato. Insomma, avevamo la certezza di trovarci di fronte a una struttura organizzata. Sicuramente di tipo statale o parastatale. L’indagine si complicava».
La Macchinazione
Notte tra il 5 e il 6 febbraio 2016, Aeroporto Mar al-Qhirah al-Duwaliyy. Cairo.
Il piccolo corteo di auto che aveva lasciato l’aeroporto procedeva a fatica verso la palazzina liberty di Garden City, sede dell’ambasciata italiana. L’ispettore dello Sco Alessandro Gallo, uno dei sette, tra poliziotti e carabinieri, della squadra investigativa arrivata da Roma, osservava il traffico impazzito della città. Era la prima volta che metteva piede in Egitto. «Non esistevano accordi di cooperazione, e gli apparati egiziani avrebbero dovuto aiutarci a scoprire gli autori di un omicidio per il quale i principali indiziati erano proprio appartenenti a quegli apparati». La strada era tutta in salita. E i sette ne ebbero la conferma entrando in ambasciata.
Erano stati istruiti a non usare telefoni cellulari nelle comunicazioni con Roma. A non agganciarsi ad alcuna sorgente wi-fi pubblica o in luoghi aperti al pubblico. Ma ora scoprivano che avrebbero dovuto, anche, imparare a riconoscere i luoghi e gli spazi in cui parlare tra di loro. Anche l’ambasciata, infatti, non era terreno franco. Il lato est del villino confinava con condomini ad alveare, dagli appartamenti per lo più abitati. Con un’eccezione. Due case dalle finestre cielo-terra, le cui luci non si accendevano mai. E curiosamente coincidenti, in altezza, con gli uffici dell’ambasciata. In linea d’area, poco meno di un centinaio di metri. Una distanza irrisoria per dei microfoni direzionali. Persino Massari evitava di avere incontri nei saloni che davano su quel lato dell’ambasciata. E aveva l’abitudine di liberarsi del cellulare una volta rientrato nei suoi uffici.
8 febbraio 2016, Ministero della Sicurezza Nazionale. Il Cairo
Il ministro dell’Interno, Maghdi Abdel Ghaffar, sedeva da solo al centro di un grande tavolo alla cui estremità si era sistemato un interprete. Di fronte a lui una folla di giornalisti, per lo più italiani, si chiedeva se il Regime avrebbe messo un punto fermo in quella storia. E quale. Non era un dettaglio. Quando si decide di parlare, inevitabilmente, ci si impegna a una versione dei fatti. E le autorità egiziane lo avevano, sin lì, evitato. Fatto salvo ciò che aveva raccontato, nell’immediatezza del ritrovamento del corpo di Giulio, Khaled Shalaby, capo della Polizia criminale e del Dipartimento investigativo di Giza. Un tipo con precedenti per tortura e un forte peso specifico negli apparati. «Un incidente stradale», aveva detto, liquidando le prime domande sulle circostanze della morte.
Ebbene, quella mattina, il ministro Ghaffar decise di usare un format che avrebbe riproposto per mesi. Evitare di spiegare ciò che era successo, preferendo sostenere ciò che non lo era. «Non conoscevamo Giulio Regeni. Non esistevano indagini a suo carico. Non era mai stato arrestato dalla Polizia né fermato. Non riteniamo si trattasse di un agente segreto, e respingiamo ogni “rumor” o accusa che indichino che sia stato torturato da appartenenti agli apparati della sicurezza del nostro paese. Fino a quando non saranno completati gli accertamenti medico-legali e non avremo sentito tutte le persone che questo ragazzo frequentava al Cairo, quel che viene detto è solo speculazione. La verità è che in Egitto non si tortura e che della morte di Regeni sono incerte sia le circostanze sia il movente. Posso rassicurare che la delegazione italiana che si trova al Cairo per partecipare all’inchiesta viene informata minuto per minuto su tutti i dettagli delle indagini».
I rumors. La stampa filo regime egiziana ne traboccava. Perché strumentali ad accreditare una contro narrazione che consegnasse Giulio a una storia che non era la sua. Un drogato, un omosessuale, uno spacciatore, una spia per conto della Gran Bretagna, quanto meno uno sprovveduto che si era messo nei guai da solo. Peraltro, quella vicenda delle indagini congiunte aveva subito assunto un tratto farsesco. I sette della squadra arrivata da Roma lo capirono alla prima stretta di mano con quelli che sarebbero stati i loro interlocutori per i successivi tre mesi. L’ufficiale della National Security, il servizio segreto interno competente per i reati politici e il terrorismo, che li aveva accolti si era presentato come «colonnello Osan Helmy». Quel poco che aveva aggiunto chiudeva l’indagine prima ancora che si aprisse. «Per noi Giulio Regeni è uno sconosciuto. Nessuno dei nostri uffici si è mai occupato di lui. Bisogna cercare altrove», aveva detto.
24 marzo, Aeroporto Mar al-Qhirah al- Duwaliyy. Cairo.
Alessandro Gallo consegnò la sua carta di imbarco al gate e mostrò il passaporto, mentre gli altri sei colleghi che erano con lui avevano già preso posto nel pullman che li portava all’aereo.
Tornavano a casa. Almeno per Pasqua. Un permesso di qualche giorno. Tanto, non c’era fretta. Se n’erano andati poco meno di due mesi e le tessere del complicato mosaico che erano riusciti a mettere insieme erano costate uno sforzo estenuante. Gli egiziani continuavano a non fornire dati investigativi cruciali. Tabulati telefonici, immagini delle telecamere di sorveglianza delle stazioni della metropolitana dove Giulio era scomparso, testimonianze che non rispondessero a un liso copione di «non so», «non ricordo», «non notai nulla di anormale».
A voler essere brutali avevano solo “prove negative”. Sapevano cioè soltanto ciò che Giulio non era. E ciò che a Giulio non era successo. Sapevano che Giulio Regeni non era stato sequestrato né in casa né nel tragitto che, tra le 19.30 e le 20, del 25 gennaio, aveva percorso a piedi per raggiungere la stazione della metropolitana di El Behoos. Sapevano che alle 19.38 aveva parlato al telefono con il professor Gennaro Gervasio, confermandogli il loro appuntamento, di lì a poco, in una caffetteria non lontana da piazza Tahrir per raggiungere insieme la cena di compleanno del professor Kashek Hassamein.
Sapevano che alle 19.41 aveva avvertito la fidanzata ucraina che quella sera, non avrebbero potuto fare la consueta video chiamata su Skype.
Sapevano che alle 19.58 il suo telefono aveva squillato a vuoto, che alle 20.02 aveva agganciato la rete dati della metropolitana, prima di spegnersi per sempre.
Sapevano che non era morto in un incidente stradale, né per vendetta personale.
Sapevano che non aveva nulla a che fare con gli stupefacenti, di cui peraltro non faceva alcun consumo come avevano documentato gli esami tossicologici svolti durante la sua autopsia.
Sapevano che non era una spia, e che non aveva mai avuto contatti con agenzie di intelligence di qualsiasi Paese, alleato o terzo.
Sapevano che sulle uniche due figure di interesse investigativo di quei primi 60 giorni di inchiesta gli egiziani avevano giocato opaco. Per dirne una: chi diavolo era davvero Mohammed Abdallah, il leader del sindacato degli ambulanti con cui Giulio, almeno a partire dall’ottobre 2015, aveva avuto rapporti di una certa assiduità e che era tra le ultime persone contattate a ridosso della scomparsa? La testimonianza che il tipo aveva reso alla polizia egiziana era stata fin troppo sbrigativa e generica. Come avesse fretta di farsi dimenticare.
E ancora: che parte aveva avuto Mohamed El Sayed, il coinquilino della casa di Dokki? Lavorando sotto traccia, avevano accertato che durante le vacanze di Natale 2015, durante l’assenza dal Cairo di Giulio, rientrato in Italia, El Sayed aveva ricevuto nell’appartamento la visita di un ufficiale della National Security, intenzionato a ficcare il naso nella stanza e nelle cose di Giulio. Curioso, per apparati che continuavano a smentire di essere mai inciampati nel nome del ricercatore italiano prima della sua scomparsa. E che peraltro continuavano a rimbalzare la richiesta dei tabulati telefonici di quei due tipi, l’avvocato e l’ambulante. Perché non consegnarli se erano “innocui”?
Del resto, l’indagine italiana al Cairo aveva autonomamente acquisito una testimonianza che confermava come la traccia dell’ambulante promettesse bene. Quella di Hoda Kamel, direttrice del “Egyptian Center for Economic and social rights”. Giulio le era stato raccomandato per la ricerca che stava facendo da Fatma Ramadan, docente dell’università americana al Cairo, alla quale era arrivato su segnalazione di Maah Abdelrahman, la sua tutor a Cambridge. Era stata Hoda poi a metterlo in contatto con Mohammed Abdallah. All’inizio il rapporto con l’ambulante aveva funzionato. Poi, si era complicato. Colpa di un finanziamento da 10 mila sterline, messo a disposizione dalla fondazione Antipode e destinato ai paesi in via di sviluppo, per un progetto di ricerca della cui esistenza Giulio aveva parlato ad Abdallah. Cosa che lo aveva prima ingolosito e poi gonfiato di risentimento. Quando era apparso chiaro che quel denaro non sarebbe mai potuto arrivare né a lui né al sindacato. «Penso che quella vicenda possa in qualche modo aver giocato nel definire i presupposti di quello che è accaduto — aveva raccontato la Kamel — Quelle incomprensioni potrebbero essere state alla base sia di una vendetta di Abdallah nei confronti di Giulio, ovvero l’occasione che le autorità hanno avuto per arrestarlo » . Non fosse altro perché anche la Kamel sapeva quello che al Cairo era il segreto di Pulcinella. Gli ambulanti lavorano regolarmente come informatori della Polizia e dei Servizi. Sono l’occhio e l’orecchio del Regime.
L’ispettore Alessandro Gallo aveva ormai raggiunto la scaletta dell’aereo per l’Italia e il cellulare si era messo a vibrare. Era Nicolì. «Ale, stammi a sentire, lo so che tu e i ragazzi state salendo su quel benedetto aereo, ma ora mi fate la cortesia di tornare indietro ». «Cosa?». «Gli egiziani sostengono di aver trovato gli assassini di Regeni». «Vivi o morti?».«Parlano di un conflitto a fuoco». «Immaginavo».
Una cruenta messa in scena
24 marzo, Roma, uffici dello Sco. Notte
Il primo dirigente Vincenzo Nicolì guardò negli occhi Renato Cortese, il capo dello Sco. Era arrivato dal Cairo il dettaglio di quella che gli egiziani consideravano la conclusione del caso. Cinque predoni a bordo di un pulmino bianco affiancati a un semaforo durante un controllo di routine. Un accenno di reazione. Un conflitto a fuoco. La morte di tutti i sospetti. Quindi, la perquisizione nella casa di quello che si voleva fosse il capo della banda, Tarek Saad Abde El Fattah Ismail. E qui, la sorpresa: da una borsa rossa da calcio, con lo scudetto tricolore della nazionale italiana, erano saltati fuori il passaporto di Giulio Regeni, il suo badge dell’università dell’American University of Cairo, il suo bancomat, il portafoglio, degli occhiali da sole e una pallina di una sostanza marroncina. Hashish, presumibilmente.
Cortese non diede il tempo a Nicolì di parlare. «So quello che mi vuoi dire. Lo penso anche io. Nessun bandito al mondo si sognerebbe di tenere nella sua abitazione la pistola fumante, il collegamento tra lui e un caso di omicidio di cui si sta occupando tutto il mondo. Hai ragione, Vincenzo. Questa storia sta in piedi come un sacco vuoto ».
8 aprile, Procura della Repubblica di Roma, palazzina B, ufficio del sostituto procuratore Sergio Colaiocco
Nella stanza del dottor Colaiocco erano arrivati il colonnello Macilenti del Ros e Nicolì per lo Sco. Le cose si mettevano male. I due giorni di vertice con i magistrati della Procura generale del Cairo, che aveva avocato le indagini, e gli investigatori egiziani si erano risolti in un catastrofico fallimento. Il Governo aveva richiamato per consultazioni l’ambasciatore, Maurizio Massari, congelando di fatto i rapporti diplomatici tra Roma e il Cairo. Davanti a loro c’era il nulla.
«Dipende», disse Colaiocco. «Dipende da dove la vogliamo guardare». Se la si guardava partendo da ciò che mancava e che gli egiziani avevano deciso di non consegnare — tabulati telefonici, sviluppo delle celle interessate la sera del 25 dal tragitto che ragionevolmente Giulio aveva percorso prima di scomparire, i filmati dei circuiti di sorveglianza della metropolitana — non si andava da nes-suna parte. Se invece la si guardava partendo dall’unica cosa che gli egiziani avevano messo al centro del tavolo — la banda dei cinque — era possibile far rientrare dalla finestra ciò che gli apparati del Regime avevano fatto uscire dalla porta. E questo perché se — come tutto lasciava supporre — la storia della banda era una messa in scena, scoprire chi l’aveva architettata significava avvicinarsi agli assassini di Regeni, che da quel depistaggio dovevano essere coperti.
24 aprile, Il Cairo, casa di Ahmed Abdallah
Erano le tre di notte e lo svegliarono prima il rumore del calcio dei mitra battuti sulla porta di ingresso e quindi le urla di una decina di poliziotti in passamontagna che lo buttarono giù dal letto. Il professor Ahmed Abdallah di alcuni riconobbe le uniformi delle forze speciali. Di altri, in borghese, i modi tipici degli agenti della National security, il servizio segreto interno. Da due mesi la sua Ong aveva accettato la consulenza legale per la famiglia Regeni. Ora, lui, ne pagava il conto.
«Chiesi se avessero un mandato di perquisizione. Non mi risposero neppure. Mi sequestrarono il cellulare, perquisirono tutta la casa, infilarono in una borsa alcuni cd che documentavano la mia attività di ambientalista. Quindi mi trascinarono in una stazione di polizia. Qui mi mostrarono alcuni documenti, chiaramente contraffatti, che incitavano a manifestazioni di piazza contro la vendita ai sauditi delle isole di Tiran e Sanafir. Dissi: “Se volete arrestarmi per un reato specifico, contestatemelo. Ma non parlatemi di questi documenti perché non mi appartengono”» .
Gli comunicarono che era accusato di terrorismo, insurrezione e attentato alla sicurezza dello Stato. Rischiava la pena di morte. «Mi misero prima in una piccola cella con altri 12 detenuti, dove ero obbligato a stare in piedi 12 ore al giorno, con la possibilità di dormire al massimo 4 ore. Continuavo a svenire e non riuscivo a tenermi in equilibrio. Poi fui trasferito in una cella di isolamento, buia e con un buco in terra che serviva da gabinetto». L’ufficiale che quella notte aveva firmato le accuse che giustificavano il suo arresto aveva un nome che in quel momento non gli diceva nulla. Ma che molto avrebbe detto in seguito. Il colonnello Sharif Magdi Ibrqaim Abdalaal.
La mano del colonnello Mahmud
8 giugno, uffici dello Sco
Allo Sco e al Ros ne erano venuti a capo. Aveva ragione il dottor Colaiocco. La storia della banda era una messa in scena che portava dove gli egiziani mai avrebbero voluto. Gli esami balistici sul pulmino e quelli autoptici sui cadaveri dei suoi cinque passeggeri disposti dalla magistratura egiziana documentavano tre circostanze incontrovertibili. La prima: le cinque vittime erano state uccise con colpi esplosi a bruciapelo dietro la nuca. Incompatibili, dunque, con una qualunque dinamica di conflitto a fuoco. La seconda: tutti i colpi esplosi dalla Polizia avevano raggiunto il pulmino frontalmente. Il che era incompatibile con la dinamica che vedeva una pattuglia aver fatto fuoco durante un affiancamento. La terza: nell’abitacolo del pulmino non c’erano tracce di sangue. Dunque, i cadaveri vi erano stati trascinati.
Di più: Tarek Saad Abde El Fattah Ismail, il capo della banda, il 25 gennaio non era nella zona del Cairo in cui Giulio era scomparso. Il suo telefono cellulare aveva agganciato — alle 16.00, alle 17.33 e alle 20.32 — una cella dell’area di Awlad Saqr, regione a nord della capitale egiziana.
Restava una domanda: come ci erano finiti i documenti di Giulio nella casa del bandito? Chi ce li aveva portati? Rispondere avrebbe fatto fare alla ricerca degli autori dell’omicidio di Giulio un significativo passo avanti.
Era arrivato in soccorso un testimone che aveva riferito una circostanza che neppure lui poteva immaginare così cruciale. Il giorno della perquisizione dell’abitazione di Tarek Saad Abdel Fattah Ismail, un parente del bandito aveva distintamente visto un ufficiale del Dipartimento investigazioni criminali estrarre dalla propria tasca i documenti del ragazzo italiano che sarebbero poi stati ritrovati nella borsa da calcio rossa. Quell’ufficiale aveva un nome. Il colonnello Mahmud Hendy.
Lo svelamento
9 settembre, Istituto superiore di pubblica sicurezza, via Guido Reni, Roma
Erano tornati in visita a Roma, i magistrati egiziani. Gli apparati della sicurezza del Regime erano in un angolo. Lo svelamento della macchinazione della banda dei cinque li costringeva a muovere. La Procura di Roma sapeva che la National security era dietro la messa in scena del 24 marzo. E, avendo sviluppato autonomamente i pochi tabulati ricevuti dal Cairo, era anche in grado di dimostrare che il coinquilino di Giulio, l’avvocato Mohamed El Sayed, era stato in contatto con almeno due funzionari della stessa National Security, nelle settimane che avevano preceduto la sua scomparsa.
Ce n’era abbastanza per costringerli a non arrivare a mani vuote. E infatti la procura generale del Cairo lasciò cadere sul tavolo dei colleghi italiani un lungo verbale di interrogatorio datato 10 maggio. La chiave per venire a capo del rebus. Documentava il pieno coinvolgimento degli apparati di sicurezza egiziani e la menzogna del ministro dell’Interno, Abdel Ghaffar, che li aveva coperti. Dimostrava l’ultimo disperato tentativo del Cairo di sequestrare la verità. Da maggio a settembre quel verbale era rimasto in un cassetto della procura generale egiziana. Ora ne saltava fuori. Probabilmente perché il Regime non aveva più scelta. Qualche pedina andava sacrificata.
Nel verbale era raccolta la confessione di Mohammed Abdallah, l’ambulante di cui Giulio si era fidato e che lui aveva tradito. Un ex giornalista di gossip. Soprattutto, un informatore della Polizia. « Mi chiamo Mohammed Abdullah Saeed, ho 44 anni. Sono un rappresentante dei venditori ambulanti. Nel dicembre del 2015 mi ha chiamato la dottoressa Hoda Kamel per dirmi che c’era un ricercatore che doveva eseguire un dottorato sui venditori ambulanti e mi ha chiesto di incontrarci per vedere in che modo potevamo aiutarci a vicenda: era Giulio Regeni… » . Abdallah riferiva di aver incontrato Giulio almeno sette volte, tra il tardo autunno 2015 e il gennaio 2016. Per portarlo ai mercati Ramses. Per fargli toccare con mano l’oggetto della sua ricerca. Per tirarlo in trappola.
Non aveva importanza se fosse vero o meno che la decisione di tradirlo fosse stata una vendetta per il denaro della ricerca che Giulio gli aveva paventato e che aveva capito non avrebbe mai ottenuto. O, più semplicemente, perché consegnare un’asserita spia alla vigilia del 25 gennaio gli avrebbe fatto guadagnare qualche tipo di ricompensa dal Regime. Ciò che aveva importanza è quanto Abdallah raccontava fosse accaduto tra dicembre 2015 e il 6 gennaio 2016. Aveva prima denunciato Giulio come spia alla Polizia municipale, che aveva quindi trasmesso la pratica alla National security. « Il 4 gennaio venni chiamato dal mio contatto negli uffici della sede centrale del Servizio. Mi chiese di avvertirlo quando avessi rincontrato il ragazzo italiano. Lo feci il 5 gennaio. Mi diedero una telecamera e un microfono con cui registrare clandestinamente il nostro incontro » . Abdallah, del suo contatto al Servizio, ricordava il nome. Il colonnello Sharif Magdi Ibrqaim Abdlaal.
“Il ragazzo è partito”
6 gennaio, Il Cairo, mercati Ramses
Il 6 gennaio, ai mercati Ramses, Giulio Regeni si offrì inconsapevole all’occhio elettronico e al microfono nascosti che lo condannavano di fronte alla paranoia della National Security. Intorno alle 22.30 di quella notte, dopo averlo salutato, Mohammed Abdallah chiamò il colonnello Sharif, il suo referente al Servizio: «Pronto Signore… Con il suo permesso vorrei essere contattato urgentemente da qualcuno per questa cosa che ho… Ho paura di spegnerla, di cancellare qualcosa… Vorrei sapere come spegnerla. Vorrei che qualcuno mi chiamasse per questa cosa qui. La spengo o la lascio accesa? Il ragazzo è appena partito».
Il 6 gennaio 2016 Giulio Regeni aveva cominciato a morire. E il Procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, e il sostituto Sergio Colaiocco avevano ora in mano il bandolo della matassa.
Epilogo
13 marzo 2017, Roma, Piazzale Clodio, Uffici della Procura della Repubblica
Sergio Colaiocco rilesse un’ultima volta il testo della rogatoria che si preparava a notificare alla procura generale del Cairo. Gli uomini del team investigativo si erano avvicendati. E allo Sco era arrivato dalla mobile di Bari un altro sbirro di lungo corso, Luigi Rinella. Il risultato del lavoro non cambiava. Anzi, rafforzava il quadro di sistematico depistaggio della ricerca della verità da parte di appartenenti degli apparati di sicurezza del Regime. Gli ultimi accertamenti tecnici dell’inchiesta italiana documentavano, infatti, attraverso lo sviluppo dei tabulati di almeno una decina tra ufficiali e sottoufficiali del Servizio segreto, che la mano della National security era intervenuta in tutti i capitoli di quella storia.
La National Security aveva arruolato Mohammed Abdallah per incastrare Giulio Regeni. E cinque erano stati i referenti dell’ambulante nel quartier generale del Servizio, a Nasr City. Per giunta, uno di loro era il colonnello Osam Helmy, lo stesso ufficiale che un anno prima aveva accolto la squadra investigativa italiana arrivata al Cairo negando che l’intelligence egiziana avesse mai avuto a che fare con il ricercatore italiano.
La National Security era entrata nella casa di Giulio agganciando il coinquilino di cui lui si fidava. E non era avventuroso immaginare che se qualcuno la sera del 25 aveva avvisato il Servizio del momento in cui era uscito di casa, quello non potesse che essere il giovane avvocato Mohammed El Sayed. La National Security aveva partecipato alla messa in scena del 24 marzo. I due gruppi di ufficiali del Servizio, responsabili del depistaggio e dei rapporti con l’ambulante Abdallah, erano stati costantemente in contatto tra loro, come ora documentavano i tabulati telefonici consegnati dalla procura generale del Cairo e sviluppati dall’inchiesta italiana.
Le indagini difensive dell’avvocato Alessandra Ballerini avevano svelato tre ulteriori dettagli. A loro modo cruciali. Il primo: il colonnello della National Security Sharif Magdi Ibrqaim Abdlaal, che aveva coordinato l’operazione di spionaggio su Giulio, era lo stesso che aveva falsamente accusato e arrestato Ahmed Abdallah, il consulente della famiglia Regeni. Il secondo: lo stesso Sharif aveva agganciato nelle settimane precedenti la scomparsa amici egiziani di Giulio di cui Giulio si era fidato.
Il terzo: era stato il colonnello Mahmud Hendy l’ufficiale che aveva collocato i documenti di Giulio nella casa del capo della banda dei cinque eliminati il 24 marzo.
Si poteva dunque tirare finalmente una riga.
« Questo ufficio, alla luce delle risultanze sin qui acquisite, ritiene che Giulio Regeni, denunciato da Mohammed Abdallah prima del dicembre 2015, sia stato oggetto di accertamenti, per un non breve periodo, ad opera di ufficiali degli apparati di sicurezza egiziani. Questi ultimi, nel ricostruire le indagini effettuate, hanno riferito, tra molte reticenze, fatti non conformi al vero. Orbene, il perimetro investigativo che conduce ad apparati pubblici, rafforzato dagli accertati rapporti tra coloro che hanno rinvenuto i documenti di Regeni e coloro che lo avevano attenzionato nel gennaio precedente, appare non in contrasto con la circostanza che i soggetti responsabili dei fatti dovevano disporre di un luogo di detenzione dove Giulio Regeni è rimasto sequestrato almeno una settimana e che detto luogo doveva avere una doppia caratteristica: essere idoneo alle torture che sono state riscontrate e che tali torture fossero inflitte senza che terzi estranei ne venissero a conoscenza» .
C’erano voluti 14 mesi per poter mettere nero su bianco in un documento ufficiale le prove che inchiodavano alle loro responsabilità gli apparati del Regime. E che interpellavano i suoi due uomini forti: il ministero dell’Interno, Ghaffar, il Presidente Al Sisi.
Il muro di sabbia cominciava a sbriciolarsi.
*** In Egitto continuano a scomparire non meno di due innocenti al giorno.
A Venezia solo i cattolici hanno il diritto di pregare nei loro luoghi di culto. Gli altri no. E c'e chi sostiene che Venezia è la città dell'incontro e dell'accoglienza...
La Nuova Venezia, 7 aprile 2017 con postilla propositiva
«La Polizia municipale ha consegnata alla comunità bengalese la diffida a chiudere entro tre giorni. Il presidente della comunità: "Il Comune ci dia subito una soluzione alternativa". Un fedele: "Paghiamo le tasse, pregheremo per strada"»
MESTRE. Venerdì 7 aprile è l'ultimo giorno in cui i musulmani che frequentano il centro culturale bengalese di via Fogazzaro potranno pregare. Dalla prossima settimana, invece, saranno senza una sala di preghiera perché il luogo finora utilizzato verrà chiuso all’attività di culto.
Mohamed Alì, il presidente della comunità, ha ricevuto dalle mani degli agenti di Polizia municipale la diffica a chiudere il centro entro tre giorni: giovedì era stato convocato nella sede della polizia municipale, a Venezia, dove ha incontrato assieme al portavoce Kamrul Syed, il comandante generale Marco Agostini, il quale gli ha spiegato il provvedimento di diffida.
Il presidente Alì incontrerà la sua comunità, ma chiede al Comune di fare presto: "Ci dia subito un'alternativa o sarà sciopero. La gente non capisce perché ora che abbiamo pagato tutto per questa sede, ci mandino via.
«Oggi notificheremo l’ordinanza», chiarisce Agostini, «nel frattempo stiamo pensando assieme all’ufficio di gabinetto del sindaco a una soluzione temporanea, in attesa che trovino quella definitiva».
La reazione dei fedeli non si è fatta attendere: "Siamo cittadini come gli altri, paghiamo le tasse o ci danno una nuova sede o pregheremo per strada".
Il venerdì. Il bisogno più impellente della comunità è quello di onorare il venerdì, specialmente in vista del Ramadan di fine maggio. «Oggi riusciremo a pregare tranquilli», continua Alì, «la stessa cosa ci consentiranno di fare per tre giorni, fino a domenica, poi potremo utilizzare lo spazio solo come centro culturale, per fare scuola ai bambini, per attività amministrative e di ufficio, ma non in quanto luogo di preghiera».
Alternative. Il vero problema, si presenterà nei giorni successivi. «Mercoledì», prosegue il presidente, «devono trovarci uno spazio sostitutivo finché non ne acquistiamo uno di nuovo, uno spazio di transizione dove pregare. Come faccio altrimenti con le persone che vengono qui? Io sono il più “anziano”, perché abito in Italia da molti anni, la comunità mi ascolta, ma devo offrire loro una soluzione, devono potersi fidare quando gli dirò che questo è l’ultimo venerdì di preghiera in via Fogazzaro, nello spazio che si sono acquistati con i loro risparmi. Se non do loro una risposta, si arrabbieranno e mi destituiranno. Sono un po’ deluso e preoccupato, spero che vada tutto bene, che non succeda nulla. Noi vogliamo la pace, siamo una comunità pacifica, di lavoratori, rispettiamo le regole, paghiamo le tasse. Non abbiamo nulla a che fare con droga e illegalità». Aggiunge: «E abbiamo il diritto di pregare».
L’appello. «Questo spazio ce lo siamo sudati finché non è diventato nostro a tutti gli effetti e nessuno ci ha mai contestato nulla sino ad oggi. Dopo otto anni ci dicono che non va bene, non appena avevamo terminato di pagare il mutuo». Poi rivolto al Comune: «Ci devono mettere a disposizione un sito alternativo, e speriamo che siano veloci, perché la comunità non può rimanere senza un luogo di preghiera venerdì prossimo, altrimenti io alzo le mani e poi il Comune si arrangerà».
Futuro. La comunità sta cercando un capannone o un’ex concessionaria chiusa da acquistare in zona via Torino-via Ca’ Marcello, ma ci sono difficoltà con le destinazioni d’uso. «Servono i permessi», conclude Mohamed Alì, «altrimenti cosa facciamo?». Due gli ordini di problemi da risolvere. Per il centro transitorio, il Comune si sta attrezzando; per quello definitivo la comunità ha presentato ieri al comandante Agostini quattro possibili ipotesi tutte da vagliare.
postilla
Qualche giorno fa il patriarca di Venezia, capo locale della chiesa cattolica apostolica romana, ha dichiarato che molte chiese di quella religione sarebbero state chiuse al rito e messe a disposizione della comunità. Non era chiaro se si riferisse alla comunità del suo rito o a quella, ben più larga, cui si riferisce papa Francesco. Sarebbe bello se, raccogliendo l'implicito messaggio del suo principale, mettesse qualche chiesa superflua al servizio delle altre religioni, magari con un modico canone di locazione.