ytali.com, 19 giugno 2017 (p.d.)
Nel dibattito sull’ le reazioni d’ira delle destre hanno almeno l’utilità di ricordarci che la legge in corso d’esame al senato – una volta approvata- costituisce un passaggio trasformativo epocale per il nostro paese.
È una riforma che fa la storia, e hanno ragione le destre, dal loro punto di vista, a volerla bloccare, e con essa la storia. Lo
ius soli aggiunge un capitolo fondativo alla vicenda del nostro paese. E pone l’Italia come nazione modello e all’avanguardia in un mondo nel quale la rivoluzione demografica sta cambiando radicalmente in pochi anni assetti di secoli. È una riforma con un peso specifico pari, se non superiore a quello delle riforme che negli anni del miracolo economico furono definite “strutturali”, perché incidevano sulla struttura stessa della nazione, in
primis la nazionalizzazione dell’energia elettrica. Ha la stessa portata, se non maggiore, delle grandi riforme sociali degli anni Settanta, come la 180 che aboliva i manicomi, la legge che riconosceva l’obiezione di coscienza, la Baslini-Fortuna che istitutiva il divorzio, la legge a tutela del diritto di interruzione della gravidanza. Furono riforme spinte e accompagnate da una forte, appassionata e corale pressione della società e della politica. Anche per questo, furono riforme che rivoluzionarono l’Italia.
Questa volta niente di tutto questo. Lo sembra una riformetta capitata chissà come in parlamento (e dire che furono 26 i ddl all’inizio del percorso nel 2014), un affare che riguarda il governo in carica, da una parte, e Salvini, Meloni e Grillo dall’altra, con la chiesa che ancora una volta supplisce alla latitanza della politica progressista nelle grandi battaglie per i bisognosi e gli esclusi. Nei giorni scorsi, abbiamo appreso di riunioni delle sinistre, di operazioni politiche di vario tipo. Di leader vecchi e nuovi tirati per la giacca, di leader vinavil tra fazioni in conflitto. Niente, zero sulla battaglia in corso per i nuovi italiani in attesa di essere regolarizzati. Fa veramente male contemplare l’indifferenza della sinistra, in tutte le sue versioni, e anche dei social, sul tema dello ius soli.
Siamo nell’imbarazzo di scegliere quale sia la spiegazione meno imbarazzante, se cioè l’assenza sia dovuta a distrazione, provocata da un’attenzione puramente autoreferenziale alla proprie vicende interne che esclude il mondo esterno, cadesse pure un meteorite sull’Italia; o se sia a dovuta al non voler riconoscere al governo in carica e al partito che lo sostiene il merito di una riforma storica, di cui l’Italia di sinistra e progressista dovrebbe essere particolarmente fiera. Abbiamo raccolto una voce secondo la quale Matteo Renzi avrebbe adesso intenzione di mobilitare il partito in tutte le sue articolazioni locali per difendere e sostenere la legge. Finora il leader del Pd si è limitato a polemizzare con i grillini, senza però rivendicare con la dovuta forza “in positivo” l’importanza rivoluzionaria della misura. Facendo così, anche lui contribuisce a banalizzare la riforma riducendola a oggettucolo di polemica tra tanti con avversari e concorrenti .
Noi vogliamo prenderla per buona, l’indiscrezione, perché sarebbe addirittura ovvio, da parte del segretario del principale partito di governo, accompagnare il varo della nuova legge con una mobilitazione sociale, non solo per dare più forza al governo, ma per sottolineare la portata storica della riforma. Come le marce che spinsero in America le grandi conquiste dei neri, conquiste che avrebbero portato al pieno godimento, da parte degli africani-americani, di tutti i diritti. Cittadini al pari di tutti gli altri. Come i nuovi cittadini italiani* che tali diventeranno grazie allo ius soli.
* Secondo la Fondazione Leone Moressa, basandosi su dati dell’ISTAT, ci sono circa un milione e sessantacinquemila minori stranieri, in gran parte figli di genitori da tempo residenti in Italia, o che hanno già frequentato almeno un ciclo scolastico (le due categorie si possono sovrapporre). I minori nati in Italia da madri straniere dal 1999 a oggi sono 634.592.
Ampia documentazione dei primati raggiunti da Matteo Renzi e dai suoi scherani, Paolo Gentiloni incluso, nell'incrementare le spese di guerra in Italia e nel favorire i nostrani mercanti di morte e fomentatori di conflitti nel mondo.
Comune.info, 6 giugno 2017. Una denuncia da ricordare
RENZI È NELLA STORIA
Lo sa, ma non lo dice in pubblico. E la notizia non compare né sul suo sito personale, né sul portale Passo dopo passo e nemmeno tra “I risultati che contano” messi in bella mostra con tanto di infografiche da Italia in cammino. Eppure è stata la miglior performance del suo governo. Nei 1024 giorni di permanenza a Palazzo Chigi, Matteo Renzi ha raggiunto un primato storico di cui però, stranamente, non parla: ha sestuplicato le autorizzazioni per esportazioni di armamenti. Dal giorno del giuramento (22 febbraio 2014) alla consegna del campanellino al successore (12 dicembre 2016), l’esecutivo Renzi ha infatti portato le licenze per esportazioni di sistemi militari da poco più di 2,1 miliardi ad oltre 14,6 miliardi di euro: l’incremento è del 581 per cento che significa, in parole semplici, che l’ammontare è più che sestuplicato. Una vera manna per l’industria militare nazionale, capeggiata dai colossi a controllo statale Finmeccanica-Leonardo e Fincantieri. È tutto da verificare, invece, se le autorizzazioni rilasciate siano conformi ai dettami della legge n. 185 del 1990 e, soprattutto, se davvero servano alla sicurezza internazionale e del nostro paese.
Renzi e il motto di BP
Un fatto è certo: è un record storico dai tempi della nascita della Repubblica. Ma, visto il totale silenzio, il primato sembra imbarazzare non poco il capo scout di Rignano sull’Arno che ama presentarsi ricordando il motto di Baden Powell (BP è il fondatore degli scout): “Lasciare il mondo un po’ migliore di come lo abbiamo trovato”. L’imbarazzo è comprensibile: la stragrande maggioranza degli armamenti non è stata destinata ai paesi amici e alleati dell’Ue e della Nato (nel 2016 a questi paesi ne sono stati inviati solo per 5,4 miliardi di euro pari al 36,9 per cento), bensì ai paesi nelle aree di maggior tensione del mondo, il Nord Africa e il Medio Oriente. È in questa zona – che pullula di dittatori, regimi autoritari, monarchi assoluti sostenitori diretti o indiretti del jihadismo oltre che di tiranni di ogni specie e risma – che nel 2016 il governo Renzi ha autorizzato forniture militari per oltre 8,6 miliardi di euro, pari al 58,8% del totale. Anche questo è un altro record, ma pochi se ne sono accorti.
Il basso profilo della sottosegretaria Boschi
Eppure non sono cifre segrete. Sono tutte scritte, nero su bianco e con tanto di grafici a colori, nella “Relazione sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento per l’anno 2016” inviata alle Camere il 18 aprile. L’ha trasmessa l’ex ministra delle Riforme e attuale Sottosegretaria di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri, Maria Elena Boschi.
Nella relazione di sua competenza l’ex catechista e Papa girl si è premurata di segnalare che “sul valore delle esportazioni e sulla posizione del Kuwait come primo partner, incide una licenza di 7,3 miliardi di euro per la fornitura di 28 aerei da difesa multiruolo di nuova generazione Eurofighter Typhoon realizzati in Italia”. Al resto – cioè ai sistemi militari invitati in 82 paesi del mondo tra cui soprattutto quelli spediti in Medio Oriente – la Sottosegretaria ha riservato solo un laconico commento: “Si è pertanto ulteriormente consolidata la ripresa del settore della Difesa a livello internazionale, già iniziata nel 2014, dopo la fase di contrazione del triennio 2011-2013”.
La legge n. 185 del 1990, che regolamenta la materia, stabilisce che l’esportazione e i trasferimenti di materiale di armamento “devono essere conformi alla politica estera e di difesa dell’Italia”: autorizzare l’esportazione di sistemi militari a paesi al di fuori delle principali alleanze politiche e militari dell’Italia meriterebbe pertanto qualche spiegazione in più da parte di chi, durante il governo Renzi e oggi col governo Gentiloni, ha avuto la delega al programma di governo.
I meriti della ministra Pinotti
Non c’è dubbio, però, che gran parte del merito per il boom di esportazioni sia della ministra della Difesa, Roberta Pinotti. È alla “sorella scout”, titolare di Palazzo Baracchini, che va attribuito il pregio di aver consolidato i rapporti con i ministeri della Difesa, soprattutto dei paesi mediorientali. La relazione del governo non glielo riconosce apertamente, ma la principale azienda del settore, Finmeccanica-Leonardo, non ha mancato di sottolinearne il ruolo decisivo. Soprattutto nella commessa dei già citati 28 caccia multiruolo Eurofighter Typhoon: “Si tratta del più grande traguardo commerciale mai raggiunto da Finmeccanica” – commentava l’allora Amministratore Delegato e Direttore Generale di Finmeccanica, Mauro Moretti. “Il contratto con il Kuwait si inserisce in un’ampia e consolidata partnership tra i Ministeri della Difesa italiano e del Paese del Golfo” – aggiungeva il comunicato ufficiale di Finmeccanica-Leonardo. Alla firma non poteva quindi mancare la ministra, nonostante i slittamenti della data dovuti – secondo fonti ben informate – alle richieste di chiarimenti circa i costi relativi “a supporto tecnico, addestramento, pezzi di ricambio e la realizzazione di infrastrutture”.
Anche il Ministero della Difesa ha posto grande enfasi sui “rapporti consolidati” tra Italia e Kuwait: “rapporti – spiegava il comunicato della Difesa – che potranno essere ulteriormente rafforzati, anche alla luce dell’impegno comune a tutela della stabilità e della sicurezza nell’area mediorientale, dove il Kuwait occupa un ruolo centrale”. Nessuna parola, invece, sul ruolo del Kuwait nel conflitto in Yemen, in cui è attivamente impegnato con 15 caccia, insieme alla coalizione a guida saudita che nel marzo del 2015 è intervenuta militarmente in Yemen senza alcun mandato internazionale. I meriti della ministra Pinotti nel sostegno all’export di sistemi militari non si limitano ai caccia al Kuwait: va ricordato anche l’accordo di cooperazione militare con Qatar per la fornitura da parte di Fincantieri di sette unità navali dotate di missili MBDA per un valore totale di 5 miliardi di euro, che però non compare nella Relazione governativa. Ma, soprattutto, non va dimenticata la visita della ministra Pinotti in Arabia Saudita per promuovere “affari navali” (ne ho parlato qualche mese fa e rimando in proposito ai miei precedenti articoli).
Le dichiarazioni dell’ex ministro Gentiloni
Una menzione particolare spetta all’ex ministro degli Esteri e attuale presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni. È lui, ex catechista ed ex sostenitore della sinistra extraparlamentare, che più di tutti si è speso in difesa delle esportazioni di sistemi militari. Lo ha fatto nella sede istituzionale preposta: alla Camera in riposta a due Question Time. Il primo risale al 26 novembre 2015, in riposta a un’interrogazione del M5S, durante la quale il titolare della Farnesina, dopo aver ricordato che “… abbiamo delle Forze armate, abbiamo un’industria della Difesa moderna che ha rapporti di scambio e esportazioni con molti paesi del mondo…” ha voluto evidenziare che “è importante ribadire che l’Italia comunque rispetta, ovviamente, le leggi del nostro paese, le regole dell’Unione europea e quelle internazionali (pausa) sia per quanto riguarda gli embargo che i sistemi d’arma vietati”. Già, ma la legge 185/1990 e le “regole Ue e internazionali” non si limitano agli embarghi, anzi pongono una serie di specifici divieti sui quali Gentiloni ha bellamente sorvolato.
Nel secondo, del 26 ottobre 2016, in risposta ad un’interrogazione del M5S che riguardava nello specifico le esportazioni di bombe e materiali bellici all’Arabia Saudita e il loro impiego nel conflitto in Yemen, Gentiloni ha sostenuto che “l’Arabia Saudita non è oggetto di alcuna forma di embargo, sanzione o restrizione internazionale nel settore delle vendite di armamenti”. Tacendo però sulla Risoluzione del Parlamento europeo, votata ad ampia maggioranza già nel febbraio del 2016, che ha invitato l’Alta rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza e Vicepresidente della Commissione, Federica Mogherini, ad “avviare un’iniziativa finalizzata all’imposizione da parte dell’UE di un embargo sulle armi nei confronti dell’Arabia Saudita”, in considerazione delle gravi accuse di violazione del diritto umanitario internazionale perpetrate dall’Arabia Saudita nello Yemen. Questa risoluzione, finora, è rimasta inattuata anche per la mancanza di sostegno da parte del Governo italiano.
Ventimila bombe da sganciare in Yemen
Rispondendo alla suddetta interrogazione, Gentiloni ha però dovuto riconoscere le “la ditta RWM Italia, facente parte di un gruppo tedesco, ha esportato in Arabia Saudita in forza di licenze rilasciate in base alla normativa vigente”. Un’assunzione, seppur indiretta, di responsabilità da parte del ministro. Il quale, nonostante i vari organismi delle Nazioni Unite e lo stesso Ban Ki-moon abbiano a più riprese condannato i bombardamenti della coalizione saudita sulle aree abitate da civili in Yemen (sono più di 10mila i morti tra i civili), ha continuato ad autorizzare le forniture belliche a Riad. E non vi è notizia che le abbia sospese, nemmeno dopo che uno specifico rapporto trasmesso al Consiglio di Sicurezza dell’Onu non solo ha dimostrato l’utilizzo anche delle bombe della RWM Italia sulle aree civili in Yemen, ma ha affermato che questi bombardamenti “may amount to war crimes” (“possono costituire crimini di guerra”).
Nella Relazione inviata al Parlamento spiccano le autorizzazioni all’Arabia Saudita per un valore complessivo di oltre 427 milioni di euro. Tra queste figurano “bombe, razzi, esplosivi e apparecchi per la direzione del tiro” e altro materiale bellico. La relazione non indica, invece, il paese destinatario delle autorizzazioni rilasciate alle aziende, ma l’incrocio dei dati forniti nelle varie tabelle ministeriali, permette di affermare che una licenza da 411 milioni di euro alla RWM Italia è destinata proprio all’Arabia Saudita: si tratta, nello specifico, dell’autorizzazione all’esportazione di 19.675 bombe Mk 82, Mk 83 e Mk 84. Una conferma in questo senso è contenuta nella Relazione Finanziaria della Rheinmetall (l’azienda tedesca di cui fa parte RWM Italia) che per l’anno 2016 segnala un ordine “molto significativo” di “munizioni” per 411 milioni di euro da un “cliente della regione MENA” (Medio-Oriente e Nord Africa).
La legge n. 185/1990 vieta espressamente l’esportazione di sistemi militari “verso Paesi in conflitto armato e la cui politica contrasti con i princìpi dell’articolo 11 della Costituzione”, ma – su questo punto – nessun commento nella Relazione. E nemmeno da Renzi. Men che meno da Gentiloni. Che l’attuale capo del governo si sia dato come obiettivo quello di migliorare la performance di Renzi nell’esportazione di sistemi militari?
«. il manifesto,
14 giugno 2017 (c.m.c.)
Brutti, sporchi e ovviamente cattivi. Migranti, profughi, rifugiati, fuggitivi, sopravvissuti. Non ne vogliamo più. Scaricateli in qualche altra città. Da oggi Roma è città chiusa.
È partita una lettera trepidante e animosa della sindaca Virginia Raggi. Nella quale chiede alla prefetta Paola Basilone d’interrompere il flusso migratorio in città: non vogliamo più stranieri, accoglierli sarebbe «impossibile e rischioso». E ad amplificare il messaggio arriva di sponda anche Beppe Grillo con il suo sacro blog, a minacciare espulsioni e rastrellamenti: faremo a Roma quello che per vent’anni nessuno ha fatto. Eccola affiorare, la pulsione razzista a cinque stelle. È di sicuro un riflesso elettorale, tanto meccanico quanto primitivo. Conseguenza diretta del deludente risultato nelle amministrative di domenica, con tutti quei voti reazionari che sono tornati da dove erano venuti, cioè a destra.
Ma è qualcosa di più. Fa parte dell’orizzonte culturale piccolo-borghese con cui il movimento di Grillo è riuscito a raccogliere consensi indifferenziati. Interpretando e accarezzando gli egoismi gretti, le angustie benpensanti, le collere malintese, i furori xenofobi. Prendersela allora con i Rom che chiedono l’elemosina alle stazioni della Metro o con i ragazzi africani che si accampano alla Stazione Tiburtina, rassicura il perbenismo incupito e le coscienze ottuse. Finora a Roma ci si era limitati a qualche sgombero di richiedenti asilo e a qualche retata di ambulanti abusivi, con una polizia municipale sempre più manesca e sbrigativa.
E nulla era stato allestito per l’accoglienza, saturando ben presto le strutture preesistenti. Un’inerzia amministrativa inefficiente e impaurita, che non ha regolato i flussi né dislocato i nuovi arrivi, finendo così per amplificare l’impatto migratorio in città.
Non che il Campidoglio brilli per efficacia e prontezza, ma a Roma le possibilità di gestire un’emergenza sociale, accogliendo e ospitando, ci sono e non sono poche. Volumetrie pubbliche inutilizzate, ospedali dismessi, caserme acquisite dal Comune, stabilimenti industriali abbandonati, oltre a migliaia di ettari lungo i margini della città. La sindaca Raggi ha però preferito cullarsi nell’ignavia: per non sottrarre al mercato patrimonio comunale in vendita e per non insediare nuovi centri d’accoglienza invisi ai territori.
Meglio dunque fermare tutto, fermare tutti, e chissenefrega di tutta quella povera gente disperata.
«Giusi Nicolini lo aveva detto ad aprile: “Il Pd non è con me. Sull’isola ha un altro candidato”. Quando lo storytelling renziano nasconde un'altra verità» Del resto, è difficile sostenere insieme Giusi Nicolini e Marco Minniti. il Fatto Quotidiano, 14 giugno 2017 (p.d.)
Il popolo democratico ventoteniano accogliente terzomondista e obamiano, come da copione leopoldo, vibrava ancora dall’emozione di Fuocoammare vincitore a Berlino quando è arrivata la doccia fredda. Giusi Nicolini, sindaca di Lampedusa ormai per antonomasia, “salvatrice di vite” per l’Unesco e brand della “poesia dell’accoglienza” per Matteo Renzi, non ce l’ha fatta. Ha perso in casa sua contro la lista “Susemuni” (“Alziamoci”, a significare che con lei gli isolani erano riversi o bocconi), creata non da un leghista xenofobo, ma da un ex sindaco di Lampedusa di centrosinistra dal nome da suonatore di pianobar su una nave da crociera americana: Totò Martello.
Questo Totò Martello, che nel profilo Facebook appare col sole in faccia, la sciarpa al collo e il sigaro in mano, secondo le cronache è “amico dei pescatori”, proprietario di alberghi lampedusiani e gestore di un circolo del Pd, uno dei due sull’isola, dove l’altro fa capo al marito di Nicolini. Per noi che seguiamo il Twitter di @matteorenzi, e da tre anni retwittiamo le foto che lo ritraggono insieme alla sindaca mentre osservano entrambi il tramonto da uno scoglio, è stato un trauma. Per i lampedusani, aizzati da Totò Martello, un po’ meno. Sull’isola, Nicolini, candidata al Nobel per la Pace dal pidino Ermete Realacci, era “una ladra di medaglie”, una che badava più alla sua immagine che al benessere degli isolani, e Totò Martello ha meditato la sua rivincita sguarnito di (per 5 anni ha usato Facebook solo per scrivere “Buongiorno”, “Buonanotte” e “Buona Pasqua a tutti”) ma con l’orecchio a terra. E ha capito quel che Nicolini s’è fatta sfuggire nella rapinosa voluttà antropofagica di Matteo.
Così questa storia che pare un canovaccio camilleriano mostra in controluce la filigrana della narrazione renzista. Tutto quel che Renzi tocca, e tanto più quel che costruisce sopra alle persone per suo comodo, si scioglie al sole come il gelato Grom della gag nel cortile di Palazzo Chigi. Così nel marzo dell’anno scorso Matteo “raccontava” l’isola di Giusi Nicolini, che intanto diventava l’isola di Totò Martello: “Lampedusa, cuore d’Europa. Ho scelto di passare qui questo venerdì speciale, accolto da @giusi_nicolini e da una comunità bellissima”. Un mese prima non si faceva scappare gli allori italici: “Berlino premia Gianfranco Rosi, il suo talento e la poesia dell’accoglienza #Fuocoammare #orgoglio”. E poco dopo ribadiva: “Spero che #Fuocoammare vinca l’Oscar. Grazie #Lampedusa” (per chi avesse dubbi, Fuocoammare non vinse). Seguirono i giorni dell’epica: ben “quattro donne ‘simbolo dell'eccellenza italiana’ accompagneranno il presidente del Consiglio Matteo Renzi alla Casa Bianca per la cena ufficiale con il presidente degli Stati Uniti Barack Obama” (così Ansa l’ottobre scorso, con toni da agenzia Stefani). Come nelle corti del ‘500, quando i sovrani si facevano visita portandosi dietro musici, teatranti, ritrattisti, eruditi, cuochi e danzatori, Renzi con sé – a ornamento della sua gloria – portava due premi Oscar, uno stilista, un campione dell’Anticorruzione e, appunto, un poker di donne (come nell’Urss delle astronaute): l’atleta, la scienziata, l’architetta e la sindaca. Giusi Nicolini fu un colpaccio, spendibile negli Usa anti-Trump al pari del parmesan, simbolo degli italiani brava gente che vincono i premi ripescando la gente in mare (e chissà se Renzi se l’è rivenduta pure alla cena con Obama a Borgo Finocchietto, menù di Luca Bottura: cinque stagionature di parmigiano e dessert a base di fiori).
Erano i giorni della Speranza contro la Paura, dell’Amore che vince sull’Odio. Si favoleggiava di #Italiariparte e si copiava quel che faceva Papa Francesco, che a Lampedusa andò nel 2013 e, con gesto appena un po’retorico, bevve da un calice ricavato dal legno dei barconi. Si mandava Franceschini sull’isola a inaugurare il “Museo della fiducia e del dialogo per il Mediterraneo”; così come una settimana fa si mandava il ministro dello Sport Luca Lotti a “sostenere una grande donna e una brava sindaca” con la scusa di inaugurare un campo di calcio. Ebbene, Nicolini ha perso, con 908 voti contro i quasi 1600 di Totò Martello, avendo contro mezzo Pd locale e pure Pietro Bartolo, medico eroe di Fuocoammare e quindi ovviamente star dell’ultima Leopolda, dove Matteo lo abbracciò mostrandosi commosso. Renzi – che s’è guardato bene dal promuovere le primarie sull’isola – l’ha liquidata su Fb: “Ieri Giusi ha perso a Lampedusa, succede… Ma la qualità dei rapporti umani (come si sa, il suo forte, ndr) non viene mai meno. Grazie Giusi... Lavoreremo ancora nel Pd, avanti, insieme”. Noi le diremmo di scappare, indietro e da sola, perché per quanto ci piaccia Totò Martello, con quel nome da parrucchiere del New Jersey, la nostra solidarietà va lei, che ad aprile,benché tardi,aveva capito tutto: “Il Pd non è con me. Sull’isola ha un altro candidato”.
La strategia di potere mondiale della Germania di Merkel sembra aprire una nuova fase nel colonialismo del Primo mondo. Compatibile o meno con il Migration Compact di Renzi &Co? Articoli di Alessandro Alviani, Tonia Mastrobuoni, Fabio Celestino, edizioni online de
La Stampa, la Repubblica, BlastingNews, 13 giugno 2017
La Stampa online
MERKEL, UN PIANO PER L’AFRICA
TEST PER LA LEADERSHIP GLOBALE
di Alessandro Alviani
«A Berlino vertice in vista del G20. Aiuti economici per le riforme. La Cancelliera tedesca Angela Merkel ha incontrato, tra gli altri, a Berlino, i leader di 7 Paesi africani, tra cui quello della Guinea e presidente dell’Unione africana, Alpha Condé
Altro che «Piano Marshall con l’Africa», come lo chiama da mesi il ministro tedesco per la Cooperazione economica, Gerd Müller. Il presidente della Costa d’Avorio, Alassane Ouattara, non ha dubbi: «Direi volentieri al ministro Müller che si potrebbe parlare quasi di un Piano Merkel al posto di un Piano Marshall», spiega, tra gli applausi, Ouattara alla conferenza sull’Africa, organizzata ieri a Berlino nel quadro della presidenza di turno tedesca del G20. E anche il presidente del Niger, Mahamadou Issoufou, non ha dubbi: «Il Piano Merkel per l’Africa richiederà più tempo» del Piano Marshall originale, «ma abbiamo bisogno di sforzi da entrambe le parti, serve una partnership che sia vantaggiosa per tutti».
E pazienza che il «Piano Merkel», in sé, non esista, ma sia la sintesi di strumenti elaborati da Müller e dal suo collega delle Finanze, Wolfgang Schäuble: da un lato 300 milioni di euro per programmi di formazione professionale e occupazione, destinati ai Paesi – si parte con Tunisia, Ghana e Costa d’Avorio, mentre Marocco, Ruanda, Senegal ed Etiopia potrebbero seguire – che si impegnano a rispettare i diritti umani, combattere la corruzione e garantire lo stato di diritto, creando così un clima economico più favorevole; dall’altro i «Compact with Africa», che puntano a incentivare le riforme sul posto, per attirare maggiori investimenti privati. Il fatto che molti politici africani, ieri, abbiano parlato di «Piano Merkel» non fa che riflettere la centralità di una leader che ha deciso di porre l’Africa in cima all’agenda del G20.
E che ha riunito a Berlino una platea impressionante: dal premier Gentiloni, che ha insistito sulla necessità di un «miglioramento del contesto per gli investimenti privati» in Africa, al ministro dell’Economia Padoan, dalla direttrice del Fmi, Christine Lagarde, al presidente della Banca mondiale Jim Yong Kim, dal Commissario europeo agli Affari economici Moscovici, fino al presidente della Bundesbank Weidmann, atteso stamattina. E che si è spostata poi in cancelleria per una nuova girandola di incontri: Merkel ha visto tra gli altri il presidente egiziano al-Sisi, i capi di Stato di Costa d’Avorio, Ghana, Niger, Mali, Ruanda, Senegal e Tunisia. Interlocutori centrali, agli occhi della cancelliera: Merkel è convinta da tempo che sia necessario contrastare direttamente sul posto le cause delle migrazioni, creando chance e posti di lavoro soprattutto per i più giovani. Lavorare insieme per migliorare la situazione nei Paesi africani significa anche «creare più sicurezza per noi» e combattere i trafficanti, ha notato la cancelliera. Non risparmia critiche: «Nei Paesi industrializzati dobbiamo chiederci se abbiamo seguito sempre la strada giusta coi classici aiuti allo sviluppo. Non credo. Dobbiamo concentrarci di più sullo sviluppo economico dei singoli Stati». Merkel vuole iniziare. E spera, fino al summit di luglio ad Amburgo, di convincere quanti più Paesi del G20 ad affiancarla.
La Repubblica
INVESTIMENTI E ALLEANZE
ECCO IL PIANO DEL G20
BERLINO IN PRIMA LINEA
di Tonia Mastrobuoni
«Il continente avrà una popolazione di 2,5 miliardi nel 2050. Per prevenire l’ondata migratoria, o renderla un’opportunità, servono accordi di sviluppo»
«Chiamiamolo Piano Merkel, non Piano Marshall» sorride Alassane Ouattara, il presidente della Costa D’Avorio, e qualche timido applauso si leva dalla platea del G20 per l’Africa. L’iniziativa berlinese dimostra la serietà d’intenti del governo tedesco, che ha voluto porre lo sviluppo in Africa al centro della propria presidenza del summit dei Grandi. In piena sintonia, ha ricordato ieri Paolo Gentiloni, con il G7 italiano. Non c’è argomento su cui Berlino e Roma siano più concordi: aiutare un continente in crescita demografica esponenziale — entro il 2050 la popolazione sarà raddoppiata a 2,5 miliardi — significa anche prevenire migrazioni di massa verso l’Europa. Soprattutto perché è una popolazione giovane: «ricordiamoci — ha detto Merkel — che l’età media in Germania è 43 anni, in Niger o in Mali è 15».
Per la cancelliera «servono iniziative che parlino non tanto dell’Africa ma con l’Africa». E «se c’è troppa disperazione in Africa, è ovvio che i giovani si cercano un’alternativa». Le ha fatto eco Gentiloni — era a Berlino per la concomitante presidenza italiana del G7 — che ha messo in evidenza come «per affrontare con efficacia il problema delle migrazioni occorra sostenere uno sviluppo duraturo e stimolare gli investimenti nei Paesi d’origine». Anche il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha sottolineato da Berlino come lo sforzo sia di «renderla la principale destinazione delle partnership bilaterali ».
D’altra parte, come ricorda l’organizzazione umanitaria One, proprio l’invecchiamento rapido delle società europee creerà un crescente fabbisogno di forza lavoro. Entro il 2050, per scongiurare il collasso economico, l’Europa avrà bisogno di 100 milioni di migranti, circa 2,5 milioni all’anno. L’Africa va vista anche come un’opportunità.
Soprattutto, anche le organizzazioni umanitarie ammettono ormai che la chiave per il futuro dell’Africa è il coinvolgimento dei privati. Come ha riconosciuto il presidente del Ruanda Paul Kagame, «se gli aiuti tradizionali sono utili, non potranno mai essere sufficienti per uno sviluppo duraturo ». E dunque il ministro delle Finanze, Wolfgang Schaeuble, ha spiegato come «il “Compact con l’Africa punti sulla responsabilità dei singoli Paesi africani: sono loro a decidere con quali partner collaborare e sono loro a dover creare le condizioni per attrarre investimenti privati».
Scopo dell’iniziativa è quello di favorire una collaborazione più stretta anche tra le istituzioni presenti in Africa come il Fmi o la Banca mondiale, perché aiutino a disegnare le riforme che creino un ambiente più favorevole agli investimenti — quelle fiscali, della giustizia o quelle per favorire le energie rinnovabili o sviluppare le economie digitali, solo per fare qualche esempio. E Christine Lagarde, sempre dal palco berlinese del G20 per l’Africa, ha raccontato che «in base alla mia esperienza di 25 anni nel settore privato posso dire che se un investitore sa che ci sono regole, c’è certezza del diritto, e non c’è corruzione, gli investimenti arrivano».
BlastingNews online
IL PIANO MERKEL PER L'AFRICA
TRA I PUNTI DEL PROSSIMO G20 DI AMBURGO
di Fabio Celestino
«Il 6 e 7 luglio Amburgo si prepara a ospitare il G20. Il piano di sviluppo in Africa è il tema centrale presentato dalla Cancelliera Angela Merkel»
Il 6 e 7 luglio si apre ad Amburgo il G20 e alte sono le aspettative, come dimostrano anche le azioni in fase di preparazione all'evento. Ieri, lunedì 12 giugno, si è tenuta a Berlino una pre-conferenza cui erano presenti alcuni dei massimi rappresentanti della politica internazionale: tra gli altri, per l'Italia, il presidente del Consiglio Gentiloni e il ministro dell'Economia Padoan; la direttrice del FMI (Fondo Monetario Internazionale), Christine Lagarde; il presidente della Banca Mondiale, Jim Yong Kim; il Commisssario europeo agli Affari economici, Moscovici, e il presidente della Bundesbank, Weidmann. Durante la conferenza è emerso più degli altri quello che sarà uno dei fulcri dominanti del summit di luglio, ossia lo sviluppo dell'Africa.
Si è parlato di un "#Piano Merkel", per fare riferimento a un piano di investimenti voluto dalla leader tedesca in favore della crescita del continente africano.
Il Piano per l'Africa della Cancelliera tedesca
Il nuovo Piano di investimenti in Africa prende il nome da un altro che ha segnato la storia passata - il Piano Marshall dopo la seconda guerra mondiale - e corrisponde a uno stanziamento di 300 milioni di euro per l'occupazione in Africa. Una cifra considerevole che, come previsto dal ministro dello Sviluppo tedesco, servirà a: sostenere programmi di formazione professionale e occupazione locale e coinvolgerà paesi come Tunisia, Ghana, Costa d'Avorio, prima di tutto. A cui seguiranno, in un secondo momento, Marocco, Ruanda, Senegal ed Etiopia; stimolare le riforme sul territorio africano, tali da "attrarre un numero maggiore di investimenti privati" (tale misura prende il nome di "Compact with Africa".)
Il Piano per l'Africa è ambizioso e prevede un impegno ingente da ambo le parti.
Se da un lato si prevedono forti investimenti per favorire lo sviluppo dei paesi africani, dall'altro lato sono richiesti profondi cambiamenti strutturali da parte delle nazioni africane, che sono chiamate a un impegno oggettivo per il rispetto dei diritti umani, per la lotta alla corruzione e per la salvaguardia dello stato di diritto.
Ragioni per investire in Africa secondo Angela Merkel
Il Piano prende il nome dalla leader tedesca in segno d'omaggio al suo impegno di mettere l'Africa al centro del dibattito in preparazione del summit che la Germania sarà chiamata a presiedere a luglio. Nel vertice di Berlino di ieri, la Merkel ha spiegato le ragioni per un tale investimento. Non si tratta di un banale aiuto economico a paesi emergenti. Un lavoro sinergico di quanti più paesi possibili per migliorare le condizioni in Africa equivale, infatti, a "creare più sicurezza anche per noi", ha spiegato. In questo senso, la Merkel ha messo in dubbio l'efficienza degli aiuti stanziati fino adesso.
"Nei paesi emergenti dobbiamo chiederci se abbiamo seguito sempre la strada giusta. Non credo". Il suo suggerimento è, piuttosto, quello di orientarsi maggiormente "sullo sviluppo economico dei singoli Stati". Nel prossimo G20 di Amburgo il suo intento principale sarà quindi quello di coinvolgere quanti più paesi possibile in questa direzione.
LETTERA APERTA A QUANTI SI SCANDALIZZANO
SE LE O.N.G. HANNO CONTATTO CON GLI SCAFISTI
Due sono i casi: o siete d’accordo con Matteo Salvini e gli altrineonazisti (ce ne sono tanti in giro, malamente mascherati), e vi augurate chei milioni di africani e mediorientali chefuggono dagli inferni che oggi abitano affoghino, oppure siete dagli ipocriti.
In apparenza, meglio essere ipocriti che assassini. Ma avolte l’ipocrisia può essere peggiore: nasconde sotto una maschera dibenevolente umanità una persona che persegue il medesimo risultato pratico,uccidere per conto terzi. Forse è peggio essere un Minniti che un Salvini.
Criminale è infatti ogni politica che assuma il respingimento deiprofughi come obiettivo primario.
Persone che hanno la capacità di leggere almeno un giornalenon possono non sapere quali sono le cause che generano l’esodo di milioni di persone,famiglie, gruppi etnici verso i paesidove si vive come noi viviamo: in Europa, al riparo da guerre, persecuzioni,assenza di nutrimento e di riparo.
Chi ha la competenza necessaria per scrivere un articolo suun giornale, o di preparare un servizio per la televisione, o di fare unalezione in un’università, o tenere un corso in una scuola media o elementare,costui non può non aver percepito la vastità dell’inferno che si è prodottonelle regioni da cui fuggono verso l’Europa. E, di conseguenza, la dimensione dell’umanità che tenta di fuggire dalmale in cui vive.
Le persone che hanno la capacità di guardare con occhicritici la storia di oggi, di ieri e dell’altro ieri non possono non sapere chequell’inferno non è stato prodotto dai suoi abitanti, né solo da governicorrotti, né solo da lotte tribali o religiose, ma dal pesante sfruttamentocompiuto per secoli dai paesi del capitalismo, il quale ha utilizzato, comestrumento del proprio dominio, anche la corruzione dei governi locali e l’accensionedi sopiti conflitti etnici.
In una parola, l’esodo dagli inferni del mondo di oggi non cesseràfinche non si sarà stati capaci di ristabilire equilibri che sono statidistrutti.
Sarà un processo lungo, e non vi sono segni che sia neppure iniziatonelle menti dei potenti della terra: quelli che hanno compreso quel che sidovrebbe fare sono pochi, e privi di altri strumenti che non siano la predicazione.
Se così stanno le cose veniamo al punto di oggi: allo “scandalo”che sarebbe costituito dal fatto che le organizzazioni non governative siaccorderebbero con gli uomini e le organizzazioni che, per danaro (poiché questoè lo strumento col quale si paga qualunque servizio nella società in cui viviamo)aiutano i migranti a fuggire dai loro inferni.
Che cosa dovrebbe fare chi volesse aiutare i profughi afuggire? Forse aspettare che i trafficanti li abbiano gettati in mare, eraccoglierne i corpi inanimati o agonizzanti? Non so se le donne e gli uominidelle ONG siano degli eroi o degli angeli: so che, nell’assenza criminale deglistati, in assenza della predisposizione di canali protetti per l’esodo e di idoneestrutture e politiche per l’accoglienza, sono gli unici che fanno ciò che deveesser fatto – se non si vuole riconoscere d’essere affini ai neonazisti alla Salvini.
I governi europei e l'UE fingono di voler combattere gli slogan xenofobi, neonazisti e criminale dei Salvini e Le Pen, ma ne assumono pienamente le politiche. Il modello turco, farcito di menzogne e di crudeltà, viene proposto da Renzi come "soluzione finale" e accettato da tutti.
il Fatto quotidiano, 6 giugno 2017, con postilla
Solo in apparenza e per opportunismo le istituzioni europee e i governi degli Stati membri sono preoccupati dalle estreme destre che crescono in tutta l’Ue e in alcuni casi già governano. Si dicono allarmati dalla loro chiusura verso immigrati e rifugiati, dalla xenofobia. La verità è diversa e ci vuole poco per accorgersene. Da fine 2015 le politiche d’immigrazione comunitarie e nazionali incorporano ed emulano le linee difese dalle destre estreme.
Gli slogan di Salvini e Le Pen – “aiutiamoli a casa loro”, “respingiamoli in massa”, senza minimamente curarsi delle ragioni delle fughe (guerre, fame, siccità) – non sono più loro esclusive parole d’ordine. Sono ormai l’ossatura della politica comunitaria. Il governo austriaco che chiudeva le frontiere (e che oggi propone di relegare i rifugiati nelle isole greche, seguendo l’esempio australiano) obbediva già agli slogan del partito di Norbert Hofer.
Il Migration compact 2.0 di Renzi, approvato dalle istituzioni europee, dice esattamente questo: aiutiamoli a casa loro, in Africa soprattutto, visto che da lì parte il maggior numero di richiedenti asilo o migranti. Il modello da imitare è quello dell’accordo UeTurchia stipulato il 7 marzo, che garantisce sovvenzioni dirette di 6 miliardi di euro. L’accordo (ma viene chiamato statement, dichiarazione, per aggirare l’approvazione che il Parlamento europeo deve dare ai Trattati) è giudicato pericoloso e potenzialmente illegale da tutte le maggiori Ong:
- perché i rimpatri forzati e per gruppi etnici verso la Turchia violano la Convenzione di Ginevra e la Carta europea dei diritti fondamentali (divieto di respingimento), secondo cui ogni domanda d’asilo deve essere esaminata individualmente, non secondo l’appartenenza a una collettività;
- perché la Turchia respinge una notevole parte dei rimpatriati nelle stesse zone di guerra da cui erano fuggiti (Siria), non esitando a sparare sui fuggitivi siriani che vorrebbero scappare in Turchia;
- perché la Turchia ha sì ratificato la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati, ma con precise limitazioni geografiche: Ankara non si assume obblighi verso profughi non europei. Non ha ratificato il Protocollo di New York del ’67 che ha rimosso gli originari limiti che definivano rifugiati solo i profughi europei sfollati per eventi antecedenti il ’51.
In altre parole, quello di Erdogan non è uno “Stato sicuro”. L’intesa comunque porrebbe naufragare, visto che Ankara non ha ottenuto la liberalizzazione dei visti per i connazionali.
Nonostante ciò, l’accordo è presentato come eccellente. È anzi il prototipo degli accordi con una serie di Stati africani suggeriti nel
Migration Compact 2.0 come soluzione ottimale della questione rifugiati. Ecco i 4 principali obiettivi del piano:
1) Aiuti allo sviluppo e cooperazione economica vanno massicciamente rilanciati, ma in stretta e assai contestabile connessione con il management delle frontiere, con la gestione dei rifugiati e, molto genericamente, con le questioni di sicurezza. Mettere tutto ciò sullo stesso piano è contestabile dal punto di vista del diritto internazionale.
2) Priorità deve essere data a 17 “partner strategici”: Algeria, Egitto, Eritrea, Etiopia, Costa d’Avorio, Gambia, Ghana, Guinea, Libia, Mali, Marocco, Niger, Nigeria, Senegal, Somalia, Sudan e Tunisia. Nessuna preoccupazione sfiora gli estensori circa il non rispetto dei diritti fondamentali e dell’obbligo di non-respingimento in paesi come Eritrea, Sudan, Libia, Mali, Etiopia e Somalia.
3) Fin dal Consiglio europeo del 28-29 giugno, sarà proposto un “piano straordinario”, che prevede accordi con 7 “Paesi-pilota”: 4 Paesi d’origine (Costa d’Avorio, Ghana, Nigeria, Senegal), 2 di transito (Niger, Sudan), e uno di transito e origine (Etiopia). Qui si sperimenterà il nuovo volto dell’aiuto allo sviluppo: investimenti in progetti sociali e in infrastrutture, condizionati a “precise obbligazioni” nella cooperazione sulla sicurezza militar-poliziesca e il contenimento dei flussi migratori, economici o politici che siano.
4) Il finanziamento: si parla di una sorta di Piano Juncker per l’Africa, come se il Piano per l’Unione avesse funzionato: il bilancio Ue metterebbe a disposizione 4,5 miliardi, che dovrebbero servire da leva per investimenti privati o pubblici pari a 60 miliardi.
Fin qui i punti chiave del piano che il governo italiano difende da tempo, e che la Commissione e i partner europei (Ungheria in testa) mostrano di apprezzare. Questa involuzione dell’Unione ha ormai una storia. La svolta avvenne il 4 marzo 2015, quando il commissario all’immigrazione Avramopoulos ruppe il tabù, in una conferenza stampa: “Dobbiamo cooperare con i regimi dittatoriali nella lotta allo smuggling” di migranti e rifugiati.
Segue un’escalation di momenti di verità della governance europea. Il culmine è raggiunto il 25 gennaio dalle parole che il segretario di Stato belga all’immigrazione Théo Francken avrebbe rivolto all’omologo greco Ioannis Mouzalas, secondo quanto riferito da quest’ultimo alla Bbc: in un Consiglio informale dei ministri dell’Interno e della Giustizia, ad Amsterdam, il belga gli avrebbe consigliato: “Respingeteli o affondateli” (“push back migrants, even if that means drowning them”). Il ministro belga ha smentito, ma Mouzalas ha ripetutamente confermato.
A questo si aggiungano le dichiarazioni ufficiali del massimo rappresentante del Consiglio europeo, il presidente Donald Tusk. Ne elenchiamo alcune:
13 ottobre 2015, lettera ai colleghi del Consiglio europeo. C’è un’apertura alla Turchia (compreso l’appoggio a “zone sicure” in Siria) e una messa in guardia contro le frontiere aperte: “La facilità con cui è possibile entrare in Europa è il principale pull factor per i migranti”. Nessun accenno alla fuga per ben altri motivi: guerre attizzate o acuite dagli occidentali, dittature cruente, respingimenti in massa di eritrei operati dal Sudan, disastri ambientali e fame in gran parte provocati da investimenti e accaparramenti di terre (land grabbing) da parte di imprese occidentali.
22 ottobre 2015, intervento al Congresso di Madrid del Partito popolare europeo: “Non possiamo continuare a pretendere che la gran marea di migranti sia ciò che vogliamo, e che stiamo perseguendo una politica di frontiere aperte”.
3 marzo 2016, appello ufficiale “ai migranti potenzialmente illegali”: “Non venite in Europa. Non credete agli smuggler. Non rischiate le vostre vite e il vostro denaro. Non servirà a nulla!”. Ricordiamo che la stessa identica frase (“It’s all for nothing!”) fu detta nel 2014 dal governo australiano, uno degli Stati più criticati per la politica dei rifugiati.
Il Migration compact 2.0, unito a simili proposte dell’ungherese Orbán, è una tappa di questa escalation. Pochi giorni fa, alla vigilia del G7 in Giappone, il capo gabinetto di Jean-Claude Juncker, Martin Selmayr, ha twittato: “Un G7 con Trump, Le Pen, Boris Johnson, Beppe Grillo? Uno scenario dell’orrore che mostra perché è importante combattere il populismo. Con Juncker”. Mettere sullo stesso piano quei quattro nomi è una truffa, sicuramente apprezzata da Renzi alla vigilia delle amministrative e cinque mesi prima del referendum costituzionale. Ma più fondamentalmente resta la domanda: se è importante combattere Le Pen e l’estrema destra, perché adottare precisamente le sue politiche, con direttive, accordi e il Migration compact di Renzi?
Postilla
La vigorosa e documentata denuncia della nostra parlamentare europea, che nessuna eco ha avuto nei mass media italiani, denuncia la politica criminale dei governi e delle istituzioni europee nei confronti dei popoli costretti a fuggire dalla morte per guerra, per miseria, per fame e per sete, a causa delle iniziative politiche, economiche e sociali tenacemente condotte dal Primo mondo e dai suoi emuli nel corso dei secoli del colonialismo, ancora pesantemente in atto. Numerosi articoli sull' Emigration conpact, sono reperibili in eddyburg digitando l'espressione nel "cerca".
Finalmente una buona notizia dal fronte più dolorante del mondo di oggi. Ma «non ci si illuda che bastino pareri e future sentenze come grimaldello per scardinare l’ideologia neonazionalista della Fortezza Europa, trasformandola in una casa dalla cui porta entra chi ha diritto».
l'Avvenire, 9 giugno 2017
.Grazie a un parere dell’avvocato generale della Corte Ue inizia finalmente a vacillare il "sistema Dublino", cardine della Fortezza Europa. E, a conti fatti, uno dei maggiori impedimenti a una più equa gestione sul territorio Ue del problema dei migranti. Il principio impone ai profughi di presentare domanda di asilo nel primo Stato Ue in cui hanno posto piede. Altrimenti vi ci vengono rispediti. "Dublinanti" è diventato così il brutto sinonimo, quasi dispregiativo, usato dalla burocrazia per indicare chi è stato respinto nel Paese di primo arrivo. Da ieri si riconosce che in caso di crisi potrebbe non valere più.
In questa lunga crisi migratoria, a conti fatti, la norma è stata un peso per la Ue. Oltre agli enormi costi umani, ha infatti ulteriormente appesantito la situazione degli Stati in prima linea come il nostro Paese, la Grecia e la Spagna. L’Italia in particolare si è trovata a pattugliare, dopo il 3 ottobre 2013, un tratto di Mediterraneo smisurato con la propria Guardia Costiera per salvare vite umane stipate da bande di trafficanti senza scrupoli su barche sempre più fragili e contemporaneamente, grazie al "Dublino" a mettere in piedi un sistema di accoglienza complesso e oneroso perché obbligata ad assistere coloro che aveva salvato. Anche la xenofobia ricomparsa sul web e nelle strade deve molto al caos creato dalle norme dei regolamenti Dublino. Caos cui si è sommata l’indifferenza dei membri transalpini della Ue verso il flusso in arrivo prima dal Medio oriente e poi dall’Africa che ha portato Roma – come anche la Grecia – a rinunciare a prendere le impronte alle persone salvate che si sono dirette verso nord per ricongiungersi ai familiari laddove welfare e mercato del lavoro offrivano maggiori possibilità di integrazione.
Dopo un lungo braccio di ferro l’Ue ha raggiunto nel 2015 un fragile e discutibile compromesso, lasciando alla Turchia il compito di bloccare la rotta balcanica per tre miliardi di euro mentre il sistema di ricollocamento interno per quote di profughi eritrei e siriani avrebbe dovuto alleggerire la pressione sugli Stati mediterranei. Ma l’accordo è congelato per l’avversione dell’Europa orientale.
Ieri l’Avvocato generale della Corte Ue ha dato ragione alla Ue mediterranea. Non si può applicare la normativa di Dublino in casi di emergenza, ha stabilito. Cosa cambia? Il diritto di rispedire i migranti nei Paesi di primo ingresso potrebbe essere di fatto sospeso. In concreto, guardando ai nostri confini, potrebbe ad esempio finire il blocco dei gendarmi francesi a Ventimiglia e cessare il rimpatrio dei minori africani da parte delle guardie di frontiera austriache. Per l’Avvocato generale il fatto che in un momento di forte pressione migratoria uno Stato membro organizzi o faciliti il transito dei migranti verso altri Paesi europei non è contestato. Vedremo a breve se a questo parere su casi concreti di richiedenti asilo farà seguito una sentenza della Corte di Giustizia del Lussemburgo. In genere il parere viene accolto.
Comunque il banco potrebbe saltare. È la prima volta che alla voce critica delle Ong e delle organizzazioni umanitarie contro le norme "dublinanti" si affianca un parere legale che sostituisce il buon senso alla rigidità di un regolamento insostenibile. Ora è il turno di una soluzione politica che sancisca il definitivo superamento del "muro di Dublino". Abbia il coraggio di riformarlo con un meccanismo di suddivisione responsabile e solidale dei rifugiati e dei richiedenti asilo in base alla popolazione, senza eccezione, includendo tutti e 27 i membri. Non è certo a colpi di sentenze che la Ue può uscire dalla profondità di questa crisi migratoria che contribuisce a metterne a repentaglio l’unità.
Nonostante le difficoltà, non ci sono alternative a una politica europea unitaria, ricca di lungimiranza e di umanità, per provare ad affrontare questi scenari complessi. E non ci si illuda che bastino pareri e future sentenze come grimaldello per scardinare l’ideologia neonazionalista della Fortezza Europa, trasformandola in una casa dalla cui porta entra chi ha diritto. Solo un’Unione più coesa nell’accoglienza responsabile può trovare lo slancio unitario per vincere la sfida e riuscire a governare con una logica nuova – quella della cooperazione con l’Africa – flussi che altrimenti rischiano di non fermarsi.
«C’erano solo individui. Atomi solitari, ognuno accecato da un "si salvi chi può" esclusivo, arrestato al confine del proprio Io. Ognuno in guerra disperata col proprio vicino in una fuga da non-si-sa-cosa verso non-si-sa-dove…». il manifesto,
8 giugno 2017 (c.m.c.)
Il surplus – l’eccedenza – di messaggi e di energia negativa dell’evento, e il deficit di pensiero con cui è stato elaborato. L’accaduto è (non riesco a trovare altra parola) “inusitato”: una folla ferma, ordinata, fino ad allora tranquilla d’improvviso impazzisce, senza altra apparente ragione se non la folla stessa. Qui non ci sono hooligans che aggrediscono, come all’Heysell trent’anni fa. E nemmeno un attacco terroristico: di terroristi nemmeno l’ombra, solo molto terrore sottocutaneo che evidentemente attraversava come una corrente elettrica quella massa di corpi assiepati. Per tre giorni si è cercato un episodio,anche minimo, che possa aver scatenato il panico: un petardo, uno spray urticante, delle urla minacciose, un gesto provocatorio. Nulla. Almeno fino ad ora. Tutto sembra parlare di un fenomeno (“inusitato”, appunto) di autocombustione della folla. Di un evento (terribilmente distruttivo) privo di causa efficiente. E di un “autore”.
È questa la cosa – il monstrum, grande come una piazza grande – su cui dovremmo alzare l’allarme e applicare il cervello: questa gigantesca sindrome mentale che ci rende irriconoscibili a noi stessi (e inspiegabili), materializzatasi nel cuore di Torino. E invece è partita subito la banale caccia all’errore da cronaca quotidiana, la più trita polemica politica sulle colpe amministrative e sui loro colpevoli: il prefetto, il questore, il sindaco, il capo dei vigili, che pure qualche errore avranno fatto se alla fine si sono contati oltre 1500 feriti (in gran parte, bisogna dirlo, non gravi). Ma che non possono certo essere indicati all’origine del disastro (a meno di pensare che un’ordinanza, qualche transenna meglio posizionata, un centinaio di vigili o agenti in più avrebbero potuto per miracolo arginare quel fiume di folla impazzita). E la focalizzazione sui quali serve solo a rassicurare e rimuovere il carattere tremendamente perturbante dei fatti.
Invece quel perturbante dobbiamo tenerlo ben fermo davanti agli occhi. Per decodificare ciò di cui ci parla. E la prima cosa che ci dice, attraverso quelle immagini notturne, un po’ gotiche, di quella piazza in preda ai fantasmi, è che siamo cambiati. Nel profondo. La guerra a bassissima intensità che da anni si combatte nel cuore d’Europa (a fronte di quella ad altissima intensità che si consuma oltre i suoi confini), questa guerra le cui armi sono coltelli, martelli, furgoni, Suv Van e Tir, oggetti domestici o quasi, ha avuto in realtà un fortissimo impatto mentale, sulla nostra sfera psichica. Quello stillicidio di attacchi, da Charlie Hebdo a Bataclan a Nizza Berlino Londra Manchester… ha depositato sul nostro sistema nervoso collettivo una pellicola tossica. Ha riconfigurato i nostri neuroni-specchio sui codici del panico. E ha abbassato la soglia di allarme fin quasi a zero, così che il meccanismo della chiusura difensiva verso ogni altro scatta pressoché “per nulla”. Siamo davvero tutti dei “mutanti”, anzi ormai dei mutati.
La seconda cosa che Torino ci dice è che la profezia annunciata dalla signora Thatcher all’inizio degli anni ’80, si è pienamente adempiuta. «La società non esiste, esistono solo gli individui», predicava. E in effetti in quello spazio pubblico per eccellenza che è la piazza centrale della città la Società non c’era. C’erano solo individui. Atomi solitari, ognuno accecato da un «si salvi chi può» esclusivo, arrestato al confine del proprio Io. Ognuno in guerra disperata col proprio vicino in una fuga da non-si-sa-cosa verso non-si-sa-dove… Chi c’era racconta cose che chiede di non ripetere, di nasi fratturati a gomitate, gambe storpiate, bambini calpestati e neppur visti, abiti stracciati nel tentativo di sopravanzare chi era davanti come ostacolo, i più fragili abbattuti dai più muscolosi, i più lenti dai più veloci… È come se lì si fosse materializzata, in forma di girone infernale, l’immagine plastica del paradigma che definiamo “neo-liberista”. La potenza dissolvente del suo negativo, in una rappresentazione drammaturgica del suo individualismo possessivo, anzi predatorio.
La sua competitività – il suo
mors tua vita mea – eletta a dato strutturale e naturale. La rottura dei legami sociali visti come ostacolo e rallentamento. L’assenza di senso che non sia quello del mero sopravvivere. La dissoluzione di ogni lavoro – anzi “mestiere” – in astratta ed effimera funzione. Non è senza significato che gli unici “eroi” di quella notte, coloro che hanno fatto scudo e salvato Kelvin, il bambino di origine cinese, siano un
bodyguard nero e un ex soldato italiano, due che hanno ritrovato nella propria “professione” la risorsa per “restare umani”. E che il giovane che, a braccia larghe, si sforzava di calmare i vicini perché non era “successo niente” – uno dei pochi “spiriti critici” in quella follia – sia stato selezionato come possibile colpevole, fermato e interrogato per ore.
Curare questa doppia sindrome dovrebbe essere compito della politica. Che invece oggi più che mai mostra la propria miseria, miopia e, in qualche caso, vocazione sciacallesca, nel ricercare nel proprio competitor immediato il colpevole di tutti i mali.
il manifesto, 6 giugno 2017
Cominciando dal nuovo ordine globale dopo la prima Guerra mondiale, la narrazione storica presenta un mondo sempre più interconnesso dal punto di vista economico e in espansione rispetto alle tecnologie di comunicazione. L’Europa si è sviluppata secondo l’internazionalismo liberale wilsoniano e ha superato l’era delle monarchie e degli imperi. Il panorama politico europeo consisteva in moderni stati nazione, i cui cittadini erano in possesso di un passaporto e di diritti civili, mentre negli anni Venti del Novecento la Società delle Nazioni come organismo sovranazionale si rivolgeva ai soggetti coloniali almeno nel caso di ex possedimenti degli stati conquistati.
Sempre in quegli stessi anni, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro ha lavorato per la diffusione su scala globale di leggi sul lavoro, introducendo patti tra i sindacati, gli stati e i lavoratori come misura contro lo sviluppo del movimento comunista. Ad un’analisi più approfondita, però, gli stati nazione moderni, nati dopo il 1919, seguivano l’idea di un’entità omogenea basata sullo stesso linguaggio, religione ed etnia, tutti e tre questi fattori combinati in una concezione essenzialista del nazionalismo e del patriottismo.
Accanto a questo processo di costruzione della nazione e tenendo conto dell’evoluzione del «mondo in connessione», in una dicotomia ossimorica, gli strumenti dell’esclusione e della marginalizzazione si sono decisamente diffusi. Anche l’istituzione di diritti delle minoranze era basata sulla individuazione dell’alterità. Va sottolineato il fatto che l’idea dell’esistenza di un’autenticità etnica, considerata un fattore di modernità, ha nutrito l’anti-semitismo e legittimato l’eliminazione delle popolazioni nomadi.
La società delle Nazioni si vantava di avere supportato e organizzato un cosiddetto «scambio di popolazioni» tra la Grecia e la Turchia nel 1923. L’organizzazione di stampo coloniale ancora vigente differenziava tra cittadini e soggetti originari delle colonie e offriva tutte le ragioni per legittimare differenti gradazioni di diritti civili, minando ciò che era stato dichiarato come universale e innegabile dalla tradizione dell’Illuminismo.
Utilizzando il concetto di cittadinanza, lo stato ha lavorato alla produzione di strumenti di esclusione, utilizzando la difesa dallo snaturamento «etnico» di una nazione come metodo. Un processo usato quasi ovunque nel mondo dopo il 1919, dall’Unione Sovietica agli stati fascisti. Di conseguenza, la lista di coloro che non rientravano nel contesto sociale di quella che era immaginata come una nazione etnicamente autentica era cresciuta significativamente ben prima che Hitler instaurasse il regime nazista in Germania.
Il risultato di queste molteplici forme di esclusione è di avere creato un nuovo tipo umano migrante. La denominazione contemporanea di profughi, nemici stranieri, sfollati ci dà un’idea di quanto il mondo dal ventesimo secolo si sia allontanato dal cosmopolitismo kantiano. Così, un supposto background trans-culturale si è trasformato nella più pericolosa e indesiderata questione durante il ventesimo secolo.
Mentre si concentrano sugli strumenti legali di esclusione, i governi elevavano a imprescindibile essenza la nozione di uno stato nazione etnicamente omogeneo, generando la riduzione della diversità culturale, con conseguenze devastanti. Come spiega Timorhy Snyder nel suo libro impressionante e terrificante Terre di sangue (Rizzoli), dopo Hitler e Stalin il tessuto sociale cosmopolita dell’Europa dell’Est è stato distrutto per sempre.
Ma così facendo, discutiamo su un problema europeo e sulla storia del fascismo? Non esattamente. L’inclusione dell’Asia conferma l’organizzazione ossimorica di un mondo sempre più connesso da una parte e di una distanza sempre maggiore tra i diritti politici e sociali, se paragonati alla protezione delle catene di merci e di oggetti e alle relazioni economiche, dall’altra parte. Invece di una continuazione del «mondo in connessione» come si era sviluppato nel tardo Ottocento, una separazione del mondo caratterizza il ventesimo secolo. Fino ad oggi, coloro che sono stati esclusi dalla protezione nazionale hanno avuto raramente una voce. Ciò che conosciamo, al di là delle testimonianze autobiografiche, risulta dagli strumenti che gli stati hanno utilizzato in un processo di marginalizzazione delle persone, per esempio le decisioni in merito all’immigrazione, il rifiuto della convalida dei passaporti, i tentativi di propaganda in contesti ideologici e politici vari.
Durente la Seconda Guerra Mondiale, la sovrapposizione tra la marginalizzazione e la connessione globale aumentò. Le parti in guerra imprigionarono civili in campi di internamento in Asia, Europa e Stati Uniti con l’accusa di essere «nemici della nazione». A partire dal 1942, una serie di accordi complessi tra gli stati belligeranti portarono ad attività di rimpatrio sia del corpo diplomatico, ma soprattutto di civili. Alcuni di loro avevano vissuto per anni in luoghi ora chiamati «esteri» rispetto alla loro nazionalità, sebbene le espressioni «nemici stranieri» e «rimpatrio» non corrispondessero alla loro concezione di sé.
In questo contesto sociale, il teatro europeo della guerra era ugualmente presente nel Pacifico, come testimonia l’esperienza delle navi di scambio che spesso ospitavano diplomatici che rappresentavano uno dei molti organismi di governo in esilio a Londra. Sulle navi di scambio era sempre presente un delegato svizzero, custode del rispetto dei patti definiti internazionalmente. In un caso, il delegato svizzero sperò in una breve tappa in Vietnam organizzata dalla Francia di Vichy quando i rappresentanti del movimento della Francia Libera di De Gaulle erano saliti a bordo. In altri casi, le famiglie ebree ebbero grossi problemi coi passaporti. Lo stesso accadde alle molte persone bloccate a Shangai dopo un lungo viaggio dall’Europa Occidentale attraverso la Siberia o dalla Siria e dall’Egitto. I missionari americani dalla Cina si incontrarono con i diplomatici latinoamericani a Manciukuò e in Corea per gestire il possibile ingresso di persone in fuga nei loro paesi. In molti di questi casi, che hanno ottenuto visibilità grazie alla prospettiva degli European Global Studies, il rimpatrio è stato un atto di migrazione forzata, realizzato su navi neutrali, noleggiate specificatamente con questo scopo.
Le navi partivano da porti americani, inglesi e asiatici e navigavano per i cosiddetti scambi verso porti neutrali in Portogallo, Goa e Mozambico. C’era sempre un delegato svizzero a bordo, che vigilava sulle condizioni di scambio negoziate, per esempio controllando la lista dei passeggeri, la gestione dei bagagli, delle merci e del denaro. Visto che la Svizzera riceveva tutte le informazioni da entrambi le parti in trattativa, le fonti presenti negli Archivi Svizzeri permettono uno sguardo unico su una delle operazioni più spettacolari e meno studiate che la guerra nel Pacifico offre.
Da questo esempio, pressoché sconosciuto nella storia per altro ben approfondita della Seconda Guerra Mondiale, comprendiamo fino a che punto una guerra globale determina nuovi modi di connessione e come si siano aperti nuovi spazi di scambio con l’Africa, come importante centro nevralgico. Impariamo che tali operazioni di scambio coinvolsero un considerevole numero di strutture che trasformarono piccoli stati neutrali in potenti agenti di relazioni.
In ogni caso, incrementando strumenti e metodi di connessione, le attività descritte hanno distrutto le società transculturali nei porti asiatici. La conseguenza è stata che la conoscenza e le competenze globali sono diventate fonti di sospetto, da un punto di vista nazionale. Sia le potenze dell’Asse che gli alleati effettuarono interrogatori meticolosi ai loro cittadini rimpatriati per ottenere informazioni che avessero rilevanza militare. La comunità a bordo, quindi, rispecchiava ogni sorta di biografia rotta, reindirizzata e distrutta nel limbo della non-appartenenza. La sovrapposizione antitetica di mercati connessi e di comunità globali separate o addirittura distrutte si è perpetuata anche nel periodo della Guerra Fredda.
Quali sono le conseguenze a lungo termine di una storia del ventesimo secolo raccontata dal punto di vista della separazione? In contrasto col contesto di una società di consumi neoliberale, la storia della separazione individua un vuoto sociale, politico e culturale nella comprensione delle opportunità e delle emergenze delle vite di chi attraversa le frontiere, in quanto risorse umane per la costruzione di identità fondate su competenze globali. Le leggi sull’immigrazione di oggi propongono verifiche negative – l’ossimoro «migrante temporaneo permanente» può servire, quindi, come esempio.
Traduzione di Laura Marzi
«In origine fu Al Qaeda, poi vennero i video del Califfato: “Kill them wherever you can”, uccidili ovunque tu possa». Perchè Londra è l'obiettivo preferito dei terroristi. Perchè e come la strategia della "cupola" del terrorismo voglia favorire la reazione violenta della nazioni colpite.
il Fatto Quotidiano online, 5 giugno 2017
Al-Hayat, testata web che è portavoce del Califfato, 24 gennaio 2016. In un nuovo video di rivendicazione degli attentati del maledetto venerdì 13 novembre 2015 a Parigi, due dettagli allarmano l’intelligence inglese. Il primo è il nome in codice dell’operazione: “Kill them wherever you can”. Uccidili ovunque tu possa. Il secondo è nel finale del video: in cui, successivamente, appaiono le immagini di David Cameron, allora premier inglese, la Camera dei Lord e alcune zone turistiche britanniche. Gli analisti non hanno dubbi: “Si tratta di una conclamata minaccia agli interessi britannici”. Del resto, il Regno Unito era tra i bersagli prioritari previsti da Abdelhamid Abaaoud, il capo dei terroristi che avevano attaccato Parigi e che verrà ucciso in un raid della polizia francese pochi giorni dopo, a Saint-Denis.
Dieci anni prima, il 7 luglio del 2005, era stata al-Qaeda a colpire Londra con attentati alla rete dei trasporti (metro, bus) causando la morte di 56 persone. Il terrorismo islamico presentava il macabro conto dell’alleanza Bush-Blair, del fatto che la Gran Bretagna era il più fedele alleato degli Stati Uniti nella coalizione internazionale che aveva anche come obiettivo non secondario la distruzione della rete di Osama bin Laden. Londra aveva pesantemente contribuito all’eliminazione di numerosi centri di addestramento dei quadri di al-Qaeda, nonché allo smantellamento di molti gruppi estremisti islamici che ad essa facevano riferimento. Tuttavia, grazie alla struttura proteiforme di al-Qaeda e alla forte esposizione mediatica degli attentati in Europa, in Medio Oriente e in India, l’organizzazione si trasforma poco per volta in una sorta di vasta confederazione che aggrega militanti in nome “dello jihad dal basso”, e che attua operazioni condotte da individui isolati o da piccoli gruppi, spesso autoradicalizzati, che vivono nella clandestinità e che non hanno legami diretti con il centro dell’organizzazione. È da questa eredità logistica che parte l’Isis, nei cui ranghi s’inseriscono tra il 2013 e il 2014 numerosi jihadisti anglofoni, come il boia “Jihad John”, al secolo Mohamed Emzawi, ucciso alla fine del 2015.
Negli ultimi tre mesi le minacce si sono concretizzate con tre attacchi (a marzo, la folle corsa del suv sul ponte di Westminster, poi la recente strage alla Manchester Arena, infine Londra), in altre cinque occasioni i servizi segreti sono riusciti a sventare altrettanti complotti terroristici. Non è un caso: l’8 giugno ci saranno le elezioni anticipate volute dalla premier Theresa May. Gli attacchi di Londra arrivano quando mancano cinque giorni al voto, coi sondaggi che danno i laburisti in grande rimonta rispetto ai conservatori e il rischio di una svolta imprevista rispetto ai calcoli della May.
Non è la prima volta che il terrorismo cerca di radicalizzare la situazione politica. Di recente, ci ha provato in Francia, alla vigilia delle primarie presidenziali, con la sparatoria agli Champs Elysées. Lo scopo è forzare le decisioni di chi governa in senso autoritario. Il terrorismo – quale che sia la sua matrice e i suoi mandanti – punta a destabilizzare. Gli attentati spesso diventano pretesti per adottare leggi più restrittive in nome dell’emergenza. Infatti, la May ha avvisato ieri l’opinione pubblica: “Non “possiamo e non dobbiamo far finta che le cose possano continuare come sono, no, le cose devono cambiare”. Convinta che dietro tutto ci sia l’estremismo islamista, ha proposto un piano articolato in quattro punti. Solo che non c’è nulla di nuovo, è aria fritta in funzione elettorale: “Li affronteremo sul terreno delle idee e di Internet”. Putin queste cose le sostiene dai tempi di Beslan…Vuole rilanciare la cooperazione antiterroristica tra l’Unione Europea e Londra, dimenticando che la condivisione delle informazioni non passa da Bruxelles e che per il momento solo Francia e Germania lo fanno, ma fra di loro. Pure la lotta al net-terrorismo (col blocco amministrativo dei siti che ospitano materiale apologetico) risale, in Gran Bretagna, al 2005-2007, e si è visto come funziona…
La May, infine, scopre che il terrorismo si è evoluto e che c’è una nuova “tendenza dell’estremismo: i terroristi si ispirano non solo sulla base di un complotto pianificato, ma si copiano gli uni con gli altri”. Dicasi emulazione. Insomma, per riassumere, la premier vuole sconfiggere l’ideologia islamista per far capire che i valori occidentali sono superiori, mettere fine allo spazio sicuro offerto i terroristi della rete on-line, continuare l’azione militare contro l’Isis in Iraq e in Siria, garantire pene detentive più lunghe e collaborare con gli alleati per regolare il cyber-spazio “in modo da evitare il diffondersi dell’estremismo e la pianificazione degli attentati”. Un replay dell’intervento al G7 di Taormina.
«Accordo di Parigi. Levata di scudi mondiale contro la decisione del presidente Usa. Solo Putin tende la mano. La Ue respinge l'ipotesi di rinegoziare l'accordo».
il manifesto, 3 giugno 2017 (c.m.c.)
Attraverso il simbolo di decine di monumenti nel mondo illuminati di verde come segno di protesta, il risultato della decisione di Trump di far uscire gli Usa dall’accordo di Parigi è l’isolamento internazionale di Washington. Al punto che ieri il segretario di stato, Rex Tillerson, si è sentito in dovere di precisare che gli Usa continueranno a ridurre le emissioni di Co2 (Tillerson era fino a qualche mese fa alla testa della Exxon-Mobil, che come altre grandi società è contraria all’abbandono della Cop21).
Intanto, il giorno dopo non è chiaro quali saranno le mosse di Trump: stando alla dichiarazione di giovedì, dovrebbe attivare l’articolo 28 dell’accordo di Parigi per uscirne, ma questo prevede tempi lunghi, complessivamente 4 anni dalla ratifica, che per gli Usa è stata il 4 novembre 2016. In altri termini, se gli Usa usciranno, lo faranno solo nel novembre 2020, cioè al momento delle nuove elezioni presidenziali. La decisione ha grandi possibilità di restare lettera morta (a differenza dell’accordo di Kyoto, distrutto dal rifiuto di Bush di rispettare gli impegni di Clinton).
Anche se c’è un effetto imminente: gli Usa non parteciperanno più al «fondo verde» dell’accordo, dove avrebbero dovuto contribuire con 3 miliardi di dollari a favore dei paesi più poveri (Obama ha già versato 1 miliardo). Toccherà agli altri – Ue e Cina in testa – compensare questo vuoto.
Un primo effetto della decisione di Trump è stato di rinforzare l’intesa Ue-Cina su questo fronte (ma solo su questo): alla conclusione dell’incontro bilaterale annuale a Bruxelles, c’è stata la riconferma dell’impegno alla lotta contro il riscaldamento climatico, ma la prevista dichiarazione comune è saltata (a causa di tensioni sul fronte commerciale, acciaio in testa, Bruxelles frena sull’apertura alla Cina come «economia di mercato»).
«Aumenteremo la cooperazione sul cambiamento climatico», ha precisato il presidente del Consiglio Ue, Donald Tusk. La Cina, che è il principale inquinatore mondiale ma anche il paese che investe di più nella transizione energetica, ha confermato la volontà di proseguire su questa strada, in stretta collaborazione con gli europei. Solo Vladimir Putin tende la mano a Trump, anche se la Russia non seguirà gli Usa e non uscirà dall’accordo (che ha firmato, ma non ancora ratificato). Con una dichiarazione confusa, il presidente russo, alla testa di un’economia dipendente dall’energia fossile, ha affermato: «Non giudicherò Obama, ops Trump, per la decisione presa, non bisogna agitarsi, ma creare le condizioni per lavorare in comune, se non sarà impossibile trovare un accordo».
I dirigenti del mondo intero hanno utilizzato parole molto dure contro la decisione di Trump. Il Vaticano l’ha definita «terribile» per l’umanità. Il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, che aveva cercato di fare pressione su Trump per evitare l’uscita, ha espresso «immensa delusione» per una decisione «a favore di una crescita delle emissioni di Co2». Guterres ha reiterato ieri l’appello, rivolgendosi alle città e alle imprese americane per «un’economia durevole».
Gli europei sono decisi a recuperare la leadership nell’economia verde. Emmanuel Macron, che ha reagito già nella notte di giovedì, ha fatto una parodia della frase feticcio di Trump e invitato, in inglese, a «make our Planet great again».
Macron ha invitato gli scienziati a una fuga di cervelli verso la Francia, dove «troveranno una seconda patria e soluzioni concrete». Macron, che oggi riceve il premier indiano Narendra Modi (che ha confermato l’impegno per l’accordo), è stato drastico, dopo una telefonata con Angela Merkel: «Francia e Usa continueranno a lavorare assieme, ma non sul clima». Il presidente francese ha escluso un «rinegoziato» dell’impegno preso da Obama (riduzione delle emissioni di Co2 del 26-28% entro il 2025), non ci sarà «un accordo meno ambizioso». «Non vi sbagliate – ha aggiunto – sul clima non c’è un piano B, perché non c’è un pianeta B».
La cancelliera Merkel ha parlato di «scelta molto disdicevole» («e mi esprimo in termini misurati») e si è detta «più determinata che mai» a cercare un fronte unito per far fronte alla sfida. Per Berlino, la scelta di Trump è semplicemente «nociva» per il mondo. Macron ha parlato di «colpa».
Germania, Francia e Italia hanno firmato un documento comune dove prendono «conoscenza con dispiacere della decisione Usa» e sottolineano che sono «fermamente convinti che l’accordo non potrà essere rinegoziato».
Il commissario all’azione per il clima, Miguel Arias Canete, ha affermato che «il mondo può contare sull’Europa» dopo la «decisione unilaterale» degli Usa. La britannica Theresa May, che ha telefonato a Trump, ha sottolineato che l’accordo «protegge la prosperità e la sicurezza delle generazioni future, assicurando contemporaneamente l’accessibilità all’energia per i cittadini e per le imprese».
Finalmente trovata la soluzione tecnica idonea a sostituire scafisti, Ong e altre più evolute forme di canali protetti per garantire condizioni umane all'esodo degli abitanti che il Primo mondo ha tramutato in inferni.
la Repubblica online, "Viaggi", 1 giugno 2017
Ieri la consegna, nei cantieri francesi STX di Saint-Nazaire, sull'estuario della Loira; domenica la cerimonia di inaugurazione. Queste sono invece le prime miglia marine percorse dalla Meraviglia, nuova ammiraglia della flotta MSC. Con 171.598 tonnellate di stazza lorda e capacità di ospitare 5.714 passeggeri, MSC Meraviglia è la nave più grande mai costruita da un armatore europeo, MSC Crociere, e la più grande entrata in servizio nel 2017.
Msc Meraviglia è una delle 6 nuove navi che entreranno in servizio trail 2017 e il 2020. Alla cerimonia della consegna, che prevede il cambio della bandiera, da quella del Paese costruttore a quella dell'armatore, ha presenziato il neopresidente francese Emmanuel Macron. Dopo il varo, la nave inizierà la sua stagione inaugurale nel Mediterraneo Occidentale. MSC Meraviglia è lunga 315 metri, larga 43 metri e alta 65 metri con una stazza lorda di 171.598 tonnellate.
La nave può viaggiare ad una velocità fino a 22.7 nodi, è stata progettata per navigare in tutte le stagioni e per essere in grado di scalare la maggior parte dei porti crocieristici internazionali, offrendo la più ampia ed emozionante gamma di funzionalità di bordo di qualsiasi altra nave da crociera di MSC.
Tra le peculiarità della nuova generazione di cruiser, la possibilità di offrire a bordo uno spettacolo dedicato del Cirque du Soleil. Lo show Cirque du Soleil at Sea verrà presentato per sei giorni la settimana due volte al giorno. Dopo il varo, la nave inizia quindi il suo primo viaggio lungo la costa atlantica, con scalo a Vigo (Spagna), Lisbona (Portogallo), fino al Mediterraneo, toccando quindi Barcellona (Spagna), Marsiglia (Francia) e, infine, Genova (Italia). L’11 giugno inizierà il primo itinerario di 7 notti, in partenza da Genova per Napoli (Italia), Messina (Italia), La Valletta (Malta), Barcellona, Marsiglia e rientrerà a Genova il 18 giugno.
mediatica dei fatti dopo l'intervento perverso del dott. Zuccaro dimostrata dal rapporto “Navigare a vista - Il racconto delleoperazioni di ricerca e soccorso di migranti nel Mediterraneo centrale".AssociazioneCarta di Roma, 29 maggio 2017.
Di operazioni di ricerca e soccorso i media parlano, e tanto: presenti nel13% delle notizie sull’immigrazione nei principali quotidiani italiani e nel18% dei servizi sull’immigrazione de itelegiornali in prima serata e legate soprattuttoal racconto di naufragi (39%) e azioni di salvataggio (22%). Ma come se neparla?
Organizzazioni militari e civili: quale il racconto di chi è operativo?
L’analisi di 400 tweet sulle operazioni Sar postati dagli account ufficialidelle Ong più attive, di Eunavfor Med, della Marina militare e della Guardiacostiera italiana ha consentito di rilevare importanti differenze nel raccontodelle Sar da parte degli stessi attori coinvolti: se quello delle Ong è unracconto costante nel tempo e spesso emotivo, che si sofferma sulle personesoccorse, quello di Eunavfor Med e della Marina è un racconto più tecnico,focalizzato sulla gestione delle azioni di intervento. Nel mezzo si pone laGuardia costiera, che alterna entrambe le tipologie di comunicazione.
Diverso anche il linguaggio usato: gli attori civili parlano più spesso di“persone” salvate (nel 42% dei loro tweet), quelli militari di “migranti” (nel77% dei loro tweet); il racconto delle Ong è empatico nel 53% dei casi, mentrelo è solo nel 6% dei tweet delle organizzazioni militari. Ed è solo nelracconto delle organizzazioni non governative che troviamo riferimenti anche aciò che accade prima e dopo il soccorso.
«Nel caso dei soccorsi viene data voce ai protagonisti, esperti, operatoriSar o migranti che siano, nel 67% dei casi», così Paola Barretta,ricercatrice senior dell’Osservatorio di Pavia.
La rappresentazione delle Sar nei mainstream media
Con l’avvio di Mare Nostrum nell’ottobre 2013, in risposta ai tragicinaufragi avvenuti il 3 e l’11 dello stesso mese, le operazioni di ricerca esoccorso acquisiscono centralità nel racconto dell’immigrazione: dagli arrivisulle coste italiane agli incidenti, fino alla cronaca degli interventi stessi.Una narrazione che fino al 2016, se confrontata alla rappresentazione dimigrazioni e migranti nel loro complesso, rappresenta una buona pratica:nonostante il tema dell’immigrazione sia divisivo, quello delle Sar è unracconto positivo, che mette al centro i protagonisti del soccorso e le loroazioni - organizzazioni e esperti hanno voce in oltre la metà dei servizi -presentandoli come “angeli del mare” e che, soprattutto, umanizza il fenomeno,soffermandosi su solidarietà e accoglienza. Se nel totale dei servizi primetime sull’immigrazione, migranti, rifugiati e immigrati stabilmente residentiin Italia hanno voce solo nel 3% dei casi, la percentuale sale al 14% quando sitratta di notizie relative alle Sar. Questo, almeno, fino ai primi mesi del2017. Poi tutto cambia.
Dopo Carmelo Zuccaro: Da “angeli” a “taxi”
Con il video di un blogger divenuto virale prima e le dichiarazioni delprocuratore di Catania Carmelo Zuccaro poi, la cornice da positiva diventanegativa: un’ombra è gettata sull’operato delle ong. Si apre così una nuovafase del racconto delle Sar: l’operato delle organizzazioni che conduconoquesti interventi è messo in discussione, fino a dubitare dello spiritoumanitario che le anima.
A prevalere è ora il sospetto. «La narrazione delleoperazioni Sar porta con sé diversi rischi tra cui la legittimazione dipolitiche migratorie più restrittive e la criminalizzazione della solidarietà»evidenzia Valeria Brigida, giornalista freelance tra gli autori del rapporto. Non solo: i media talvolta confondono e sovrappongono i ruoli diorganizzazioni militari e Ong, mentre la diversità della loro natura e delleloro missioni è emersa anche, come osservato, nelle modalità di comunicazioneda esse adottate.
Afferma Anna Meli, Cospe: «Interrogarsi su cosa davvero succeda a livello dipolitiche globali, lo spostamento di attenzione è un po’ obbligato, ma comegiornalisti è importante domandarsi perché stia accadendo un certo fenomeno edove un certo tipo d’informazione istituzionale ci vuol portare a ragionare».E ribadisce Pietro Suber, vicepresidente dell’Associazione Carta di Roma: «Bloccarei migranti diventa la risposta più facile della politica agli umori dellapiazza. In questo contesto la ricerca che presentiamo oggi assume unparticolare interesse per comprendere come si sta trasformando uno dei temiprincipali del nostro dibattito mediatico, pubblico».
Una cornice, quella del sospetto, che appare difficile da scardinarenonostante le repliche degli attori attaccati, fino a quando non saràsostituita da un frame narrativo più accurato e aderente alla realtà.
Tra gliobiettivi comunicativi portati avanti da Medici senza frontiere, sostieneFrançois Dumont, direttore della comunicazione di Medici Senza Frontiere: «C’èla richiesta all’Europa di mettere in atto delle politiche concordate di Sar masoprattutto di creare dei corridoi sicuri per arrivare in Europa». Tra glistrumenti comunicativi da utilizzare, Fabio Turato, politologo, docente pressol’Università di Urbino, sottolinea come sia importante «autodefinirsi primadi essere definiti dalla retorica portata avanti dagli imprenditori della pauranella cornice del tema immigrazione e Ong».
«». che-fare, 31 maggio 2017 (c.m.c.)
Nausicaa Pezzoni, La città sradicata. Geografie dell'abitare contemporaneo. I migranti mappano Milano, Prefazione di Patrizia Gabellini, O barra O edizioni, p. 360, 15,5x23, €28
La città contemporanea è solcata da abitanti temporanei che attraversano i luoghi in maniera transitoria e imprevedibile, attribuendo agli spazi significati ogni volta diversi, modificando e risignificando il progetto urbano. Progettare oggi il disegno delle città significa contemplare una forma in continuo divenire, plasmata da relazioni non più fondate su un senso identitario di appartenenza e riconoscimento ma esito di adattamenti ogni volta diversi.
Nausicaa Pezzoni, architetto e urbanista, sceglie di studiare la città attraverso l’esperienza dell’abitare meno codificata e tradizionale, ricercando nello sguardo di 100 migranti al primo approdo a Milano la fase dell’orientamento al suo stato iniziale, quando alcuni oggetti-spazi si fissano nella memoria diventando centro, confine da non superare o spazio dove tornare.
La città sradicata. Nuove geografie dell’abitare. I migranti mappano Milano (O Barra O Edizioni) raccoglie l’esito di questa ricerca: 100 mappe disegnate da 100 migranti che raccontano di un “abitare senza abitudine”, forme di una città non rintracciabile nella cartografia tecnica eppure rappresentative di uno stare al mondo che evidenzia nuovi interrogativi e sollecita un ascolto più attento e profondo, necessario nella progettazione urbanistica quanto in quella culturale.
Questi temi sono stati al centro della lezione aperta La città da reinventare: proposte culturali per la rigenerazione urbana organizzata dal Master Progettare Cultura dell’Università Cattolica di Milano lo scorso giovedì 25 maggio, con gli interventi di Alessandra Pioselli, Roberto Pinto, Paolo Cottino, Elena Donaggio, Nausicaa Pezzoni, Gabi Scardi e Ivana Vilardi, introdotti da Federica Olivares, direttore del Master e Elena Di Raddo, direttore scientifico del corso.
La città sradicata è un’indagine che mette in discussione il modo abituale con il quale pensiamo alla forma e agli usi dei luoghi e degli spazi delle nostre città. Come nasce questa ricerca e quali sono i suoi esiti?
«Questo lavoro nasce da una ricerca di dottorato in Governo e Progettazione del Territorio (Dipartimento di Architettura e Studi Urbani, Politecnico di Milano) dove mi interessava indagare la transitorietà dell’abitare e il modo di vivere la città da parte delle popolazioni che sempre più numerose stanno abitando la città contemporanea in modi diversi, intercettando degli spazi che non sono noti, spesso trasformandone il significato, dando altre interpretazioni e nuove forme. Il mio lavoro di ricerca parte da una mancanza: dal punto di vista tecnico-urbanistico, sociologico, geografico mancano delle rappresentazioni di quello che sta avvenendo nelle città.L’urbanistica, l’ambito di cui mi occupo, è orientata all’abitare stanziale sul quale si fonda la programmazione dei servizi e di tutte le strutture della città.
La transitorietà non è dunque mai contemplata, la rappresentazione tradizionale della città non contiene al proprio interno la dinamica trasformativa di come le persone abitino e trasformino gli spazi.
Ho cercato dunque come primo indizio lo sguardo più estraneo, il punto di vista che includesse tutti i cambiamenti in atto nella contemporaneità e lo sguardo del migrante al primo approdo è sicuramente quello più decentrato, che mi impegna e mi sollecita maggiormente. Scelgo lo strumento delle mappe mentali perché interrogare lo sguardo più estraneo attraverso domande astratte sulla città, sui desideri e i bisogni di chi sta iniziando ad abitarla, sarebbe più difficile e meno diretto: la mappa è un elemento di mediazione tra uno spazio esterno per lo più sconosciuto e l’esperienza intima di relazione con quello spazio.
Ho incontrato e intervistato dunque 100 migranti nei luoghi del primo approdo, cercando di capire e osservare come abitano e interpretano lo spazio dell’abitare, non focalizzandomi mai sulle loro storie personali, che pure emergono inevitabilmente dalle mappe, ma sul loro impatto con il territorio di approdo, con quella che è la loro attuale vita nella città.
Con questo metodo di lavoro ho intercettato campi disciplinari molto diversi dall’urbanistica che poi sono quelli che hanno avuto i risvolti più imprevisti dopo la pubblicazione del libro. Pochi giorni fa, ad esempio, una curatrice di musei letterari ha voluto utilizzare il metodo descritto nella Città sradicata per far disegnare alcune mappe sui percorsi e sui paesaggi di Goffredo Parise ad alcune persone che avevano esplorato con lui i suoi luoghi, cercando di far emergere il paesaggio e creare intorno alla casa-museo un ambiente vissuto, non fossilizzato.
Dalla Città sradicata sono scaturite anche altre esplorazioni su città e contesti diversi. A Rovereto, ad esempio, sono andata a incontrare in un campo profughi un gruppo di 22 rifugiati arrivati con gli sbarchi di pochi mesi prima, proponendo loro un esperimento ancora diverso: al disegno della mappa mentale si aggiungeva in questo contesto la relativa restituzione al gruppo, con una presa di coscienza ulteriore del territorio e della propria esperienza personale.
A Bologna, ancora diversamente, a partire dalle mappe di una ventina di richiedenti asilo al primo approdo ho costruito un itinerario da percorrere in bicicletta che intercettasse sia gli spazi da loro rappresentati sia i luoghi topici di Bologna, quelli consolidati da far conoscere a un nuovo abitante. Il lavoro è stato poi presentato ad un pubblico più ampio durante la giornata conclusiva di “Terra di Tutti Art Festival”.
I risvolti del mio lavoro di ricerca da un punto di vista più politico e amministrativo sono meno diretti: questo studio intende sollecitare uno sguardo critico verso una realtà che in modo sempre più evidente ha un’urgenza di rappresentazione e di trattamento che sta mettendo in crisi le città europee e non solo. Quando ho scritto il libro era meno urgente parlarne e paradossalmente sta diventando più attuale adesso perché la politica e i decisori sembrano non trovare, a mio avviso, delle strade di inclusione che siano efficaci dal punto di vista di una integrazione fondata sulla reciprocità.
Questo lavoro si incentra sulla domanda di un grande impegno: chiedere di disegnare una mappa è una richiesta strana alla quale tutti rispondono in modo un po’ dubbioso, spaesati, inizialmente con un rifiuto; è un lavoro impegnativo ma che incuriosisce e può innescare quel processo di apprendimento e di presa di coscienza di un territorio nuovo ed estraneo che è già quello in cui in realtà il migrante si trova ad abitare. Il processo di individuazione dei luoghi da disegnare, di ricostruzione mentale degli spazi e la loro modalità di restituzione grafica comporta un percorso di apprendimento e riconoscimento di un’appartenenza, e l’esito di questo lavoro impegnativo, la scoperta che il migrante compie, è quella di sentirsi parte della città.
In questa ricerca chiedo un intervento preciso, non si tratta di un lavoro in cui l’altro è un soggetto passivo che accetta una proposta precostituita e mi fa scoprire una città che non conoscevo: quello che emerge dalle mappe è un’immagine sempre nuova, tante città nuove quanti sono gli abitanti che la vogliono rappresentare e quanti sono gli sguardi che la osservano. Parlando di esiti di ricerca più pratici e immediati, vi è poi uno strumento che ho costruito a latere e che ho inserito nel libro, una mappa del primo approdo, uno strumento che ho presentato all’amministrazione di Milano dove sono mappati tutti i luoghi che la città già offre ai nuovi abitanti, dai dormitori, alle mense, gli ambulatori, le scuole d’italiano, le docce pubbliche.
Tutti quei servizi di accesso alla città “del primo approdo” con una legenda pensata con icone facilmente leggibili, molto comunicative per chi non conosce la lingua e sta cercando di orientarsi. Uno strumento che è già la base di un discorso anche progettuale nel suo creare connessioni tra i servizi di primo approdo della città, che esistono e sono molti ma per la maggior parte scollegati, senza una vera e propria infrastruttura che li tenga insieme.
La mappa del primo approdo è uno strumento già pronto di per sé ma l’intento della ricerca è quello di sollecitare e provare a spostare il punto di osservazione sulla città, formare un terreno culturale comune su questi temi per poter includere lo sguardo dell’altro, lo sguardo più diverso in assoluto».
La sensazione, quando si parla di periferie urbane e rigenerazione, soprattutto in questo periodo, è che si rischi di rimanere intrappolati all’interno di una polarità che vede i quartieri periferici alternativamente come luoghi critici del disagio sociale, delle complessità e delle soluzioni architettoniche infelici o, all’opposto, come luoghi generativi, fertili, abitati da comunità da incorniciare, evidenziare, raccontare. Due letture apparentemente distanti che si rifanno però alle stesse categorie interpretative limitanti e riduttive.
«Sono assolutamente d’accordo e anzi mi offri lo spunto per parlare di un altro risvolto indiretto della mia ricerca, che coinvolge però direttamente il lavoro che sto svolgendo in Città Metropolitana di Milano.
Insieme ad oltre 30 Comuni e istituzioni del territorio siamo stati selezionati fra le città vincitrici del Bando periferie promosso dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri nel 2016.
Con il progetto Welfare metropolitano e rigenerazione urbana. Superare le emergenze costruire nuovi spazi di coesione e di accoglienza ho cercato di concettualizzare il tema della periferia come luogo di marginalità e non come periferia geografica, cercando di intersecare i due aspetti: quello della riqualificazione degli edifici abbandonati e degli spazi dismessi con quello dell’inclusione abitativa e sociale, dove l’abitare è inteso non soltanto come soluzione residenziale ma come una complessa articolazione di servizi che danno forma a un abitare più ampio.
Quando parliamo di questi temi ciò di cui abbiamo bisogno è di articolare di più il discorso perché la realtà è naturalmente più complessa e mutevole di come viene spesso ridotta a due narrazioni principali, in due direzioni diverse ma forse sullo stesso piano del discorso.
Le mappe cartografiche, il mio abituale strumento di lavoro, sono fondamentali per molti fattori ma non sono in grado di restituire la profondità di cui necessitiamo: abbiamo bisogno di sguardi non ordinari sulla città e nuove modalità di rappresentazione, non per convergere verso una visione conciliante e pacificatoria ma, al contrario, per aprire le questioni e affrontarle in modo più complesso.
Le mappe riportate nel libro sono a volte drammatiche e raccontano un disagio esistenziale profondo, narrano una provvisorietà e un approdo che non è mai finito, un continuo dover cambiare luogo dell’abitare anche una volta arrivati.
Nella ricerca non mi occupo del viaggio migratorio ma alcune mappe danno conto anche di questo, ci raccontano di una migrazione mai finita, di un abitare sospeso, transitorio perché non riesce a radicarsi e forse la condizione della contemporaneità è anche questa e ci riguarda tutti come condizione esistenziale, in particolare in questo momento storico.
Se da una parte si costruiscono muri e barriere di ogni genere per impedire quello che è un flusso storico, dall’altra bisogna trovare degli strumenti più adatti e più sensibili, senza cedere alle banalizzazioni, aprire dei canali di comunicazione e iniziare ad interrogarsi sulle differenze, dialogare con esse, con chi ci porta davvero un modo nuovo di guardare alle cose e alla città e ci fa interpretare ad esempio piazza del Duomo come confine piuttosto che come centro.
Si tratta indubbiamente di un esercizio sfidante, che forse poco rassicura rispetto ad alcuni meccanismi identitari e di costruzione di appartenenza: non c’è un’identità che viene definita una volta per tutte, non c’è la mia città e la tua, ma luoghi che appartengono a entrambi e che entrambi stiamo modificando e conoscendo con una forma via via sempre nuova».
Ha visto recentemente progetti culturali nati e sviluppati con questo tipo di sensibilità e ascolto nei confronti dei territori e delle comunità che li abitano?
«Il progetto Un nuovo paesaggio nutre il viandante, nato in occasione degli eventi culturali che accompagnavano Expo 2015 nel territorio di Gaggiano e Cisliano, e recentemente arrivato nel cuore di Milano, sulla Darsena: un percorso di opere d’arte di Paolo Ferrari, artista e fondatore del Centro Studi Assenza di Milano.
Si tratta di un’installazione di opere d’arte di grandi dimensioni inserite nei luoghi che rappresentano la vita civica della città, la piazza principale, il municipio, la biblioteca, così come nei punti più remoti del territorio, seguendo il corso del Naviglio fino alla Darsena e che inseriscono nuove prospettive attraverso le quali guardare il territorio. Si tratta in un certo senso anche di un progetto di accoglienza nella sua capacità di introdurre nuovi sguardi sulla città attraverso fotografie di scorci urbani e paesaggi, raddoppiati dal segno pittorico dell’artista e lavorati con altri elementi di tipo scientifico, come la carta millimetrata.
Sono opere che compaiono ormai in molti luoghi della città e che si inseriscono all’interno del progetto architettonico come delle finestre sul mondo, un elemento culturale a fondamento dell’abitare e quindi della vita».
Ha avuto modo di confrontare gli esiti del suo lavoro di ricerca con ricerche simili svolte all’estero? So che è stata recentemente invitata al Metropolitan Institute of Technology di Boston per portare la sua esperienza di lavoro sulle città
«Si, è stata un’occasione per aprirsi a nuovi spunti di riflessione e ricerca. Sono stata invitata al MIT Metro Lab, un laboratorio di ricerca e formazione composto da docenti e ricercatori del Dipartimento di Studi Urbani e di Pianificazione del MIT di Boston che organizza conferenze e workshop su alcuni temi della città contemporanea; il mio laboratorio in particolare si interrogava sulla creazione di una disciplina metropolitana con professionisti e docenti provenienti da università di tutto il mondo, da amministrazioni locali e istituzioni che si occupano a vario titolo dell’abitare.
Ho presentato La città sradicata e, nel panel di chiusura della settimana del workshop, insieme alle città di Parigi, Boston e New York, ho raccontato nello specifico il progetto Welfare metropolitano e rigenerazione urbana della Città Metropolitana di Milano. Tornando al contesto italiano, allo IUAV di Venezia stanno lavorando con alcuni paesi della Locride a un programma di inclusione abitativa e rigenerazione urbana attraverso la collaborazione di molti migranti.
Si tratta di un progetto che nasce sull’esempio di Riace, paese che era quasi completamente abbandonato fino a pochi anni fa, dove il sindaco ha cercato di invertire il processo di spopolamento e impoverimento anche culturale del territorio, ristrutturando le case e rimettendo in attività le botteghe artigiane grazie ai migranti arrivati nella città con gli sbarchi del 1999 e dando il via di fatto alla ricostruzione di un paese. Il modello Riace, come ora viene chiamato, ha saputo dare un indirizzo a tutta la Regione, basando il suo intervento di rigenerazione urbana su una prospettiva di accoglienza e inclusione.
Rispetto a questi temi, ritengo che questa sia la prospettiva di lavoro per il futuro più intensa e avanzata, perché ci può permettere di rinascere come Paese e come territorio. Ci stiamo muovendo, forse in ritardo rispetto ad altri, ma con alcune punte avanzate e progetti di riqualificazione e inclusione dagli esiti efficaci e intelligenti come questo».
Una delle tante storie che dovrebbero farci comprendere che abbiamo costruito noi stessi - nella nostra superbia di "civilizzatori"gli incubatori dell’odio, di cui il terrorismo è l'espressione disperata.
Corriere della Sera, 29 maggio 2017
Mamma, mi dai il pallone? «No, Ashraf. Tu devi stare con me». Posso giocare almeno con le guardie? «No, ho paura che ti violentino». Mamma, ma quando andrò a scuola? «Mai». A Jamina la marocchina è rimasto solo Ashraf, 7 anni, e tutta sola se lo tiene tutto il giorno nel buio del capannone delle sudanesi, nel pozzo nero delle sue angosce.
I materassi per terra, qualche sporta di plastica, un pallone mezzo sgonfio, mezz’ora d’aria, la puzza densa dei disperati ammassati da mesi. Guai a chi l’avvicina. Jamina non vuole andare in Europa, né tornare in Marocco: dice che vivrà per sempre qui con Ashraf, nel campo-carcere di Sikka, lungo la vecchia ferrovia di Tripoli. Ne ha viste troppe, la sua storia scuote perfino le guardie che ne hanno viste molte: abbandonata incinta da un francese, cacciata dalla famiglia, passata per la Libia con la speranza d’arrivare in Francia assieme ad Ashraf, prima è finita schiava nel Sahara di Sebha («un giorno mi hanno stuprato 36 camerunesi») e poi è stata venduta a un bordello dell’Isis a Sirte. Quando l’hanno arrestata, il figlio sempre con lei, stava in una casa di jihadisti e ha dovuto spiegare il perché.
Nessuno ora sa che farne: la famiglia la disconosce, il francese è sparito, il governo marocchino non vuole riavere chi ha frequentato terroristi. «Ma lei non sa nulla del mondo - dice Adel Mustafa, il direttore -, è stata solo sfortunata». In che casella mettiamo questa donna e suo figlio? Rifugiati di guerra? Migranti economici? Gente che poteva starsene a casa sua? Oggi Jamina ha 34 anni, è disturbata e spesso straparla, un giorno si vela e l’altro si spoglia, spesso picchia il bambino per niente. «Ci vorrebbe uno psicologo. L’abbiamo chiesto all’agenzia Onu per i profughi, l’Unhcr, ma non hanno mandato nessuno. Noi scoppiamo di gente, da sei mesi non paghiamo nemmeno chi ci fornisce i pasti… Chi può occuparsene?».
«». il blog di Guido Viale, 28 maggio 2017 (c.m.c)
Quello di cui intendo parlare qui sono alcune soluzioni di ordine istituzionale per affrontare l’ingresso nel mondo del lavoro di profughi e migranti; non i meccanismi con cui vengono sfruttati tutti coloro che si trovano nel nostro paese in una condizione di irregolarità e che, grazie alla condanna alla clandestinità imposto da chi si oppone alla loro regolarizzazione, è ormai da tempo uno dei pilastri portanti dell’economia italiana in molti settori.
Va comunque rilevato che diverse innovazioni recenti nel campo della legislazione del lavoro rendono sempre più sfumato, sia di fatto che in linea di diritto, i confini che separano il lavoro legale da quello illegale. Basta pensare ai cosiddetti scontrinisti, lavoratori – anzi lavoratrici – pagati dal Ministero dei Beni Culturali fino a un massimo di 400 euro al mese sulla base degli scontrini che riescono a presentare (evidentemente falsi, cioè raccolti da altri) e senza alcuna tutela. Non so in quale altro paese del mondo possa esistere un istituto contrattuale del genere.“Mettere al lavoro” profughi, richiedenti asilo e migranti non ancora regolarizzati o a cui è spirato il permesso di soggiorno, cioè offrir loro la possibilità di avere un lavoro regolare e retribuito, è il problema centrale intorno a cui si gioca il futuro dell’Europa e del nostro paese. Le considerazioni alla base di questo enunciato sono elementari:
- Gli sbarchi e gli arrivi in altre forme, tutte irregolari fino a che non saranno istituiti corridoi di ingresso legali, continueranno e, anzi, aumenteranno nel tempo, a causa dei cambiamenti climatici, della devastazione economica e ambientale delle loro terre, dei conflitti che questi processi innescano e alimentano, degli accordi commerciali che devastano le economie di sussistenza dei paesi da cui si originano quei flussi;
- Nessuna politica di contrasto, per quanto spietata, cioè fondata sull’abbandono di profughi e migranti in viaggio verso l’Europa in mare, nel deserto o tra le mani dei loro aguzzini, né tantomeno i rimpatri, possono permettere un contenimento significativo di questi flussi;
- L’accoglienza, così come è organizzata, non basta. In Italia, con l’eccezione della rete SPRAR – e neanche tutta – essa è per lo più affidata all’apprestamento estemporaneo di contenitori dove le persone che richiedono asilo (praticamente tutti i nuovi arrivati, dato che non esistono altri canali di accesso a una regolarizzazione) vengono mantenuti, a spese dello Stato, in una condizione di inattività forzata che umilia loro, ma che umilia anche le comunità dei territori dove insistono gli edifici in cui sono ospitati, e che li vedono bighellonare mentre loro lavorano.
In ogni caso questo è il destino di tutti coloro che sbarcano in Europa, perché l’Italia è ormai l’unico paese di approdo e le sue frontiere con il resto dell’Unione europea sono chiuse, sia fisicamente che dalla convenzione Dublino III. Questa forma di accoglienza, ma anche quella affidata alla rete SPRAR, rispondono a una logica di emergenza che non ha più alcuna ragion d’essere, dato che il fenomeno degli arrivi è destinato a protrarsi nel tempo.
Una volta ottenuto l’asilo o il diniego definitivo – spesso dopo anni – per le persone ospitate in queste strutture non è previsto alcuna altra forma di accompagnamento e vengono abbandonate per strada, con o senza documenti che ne legittimino la permanenza in Italia, a seconda dell’esito del procedimento. Il presupposto è che chi ha ricevuto il diniego ritorni da dove è venuto come ingiunto dal foglio di via che gli viene consegnato – ma nessuno lo fa – oppure che venga rimpatriato a forza, passando eventualmente attraverso un CPR; ma questi rimpatri sono costosi, per lo più impraticabili e vengono e verranno fatti solo ogni tanto “per dare l’esempio”. Ma anche per chi ha ricevuto la protezione internazionale non è prevista alcuna forma di accompagnamento;
Il risultato è che le persone messe per strada si accumuleranno di qui a poco al ritmo di cento/duecentomila all’anno: il numero degli arrivi da cui si prevede che l’Italia sarà interessata nei prossimi anni e forse per decenni. Si tratta di una situazione insostenibile, che non farà che alimentare e moltiplicare la propaganda di coloro che chiedono misure sempre più feroci di respingimento e di confinamento, anche se sanno benissimo – ma non lo dicono al pubblico a cui si rivolgono – che si tratta di misure inattuabili e inefficaci;
Il lavoro, un lavoro regolare e retribuito, è per tutte le persone in questa condizione il mezzo fondamentale di inclusione sociale e di empowerment: per avere un reddito, per sentirsi indipendenti, per trovarsi e pagare un alloggio, per crearsi una rete di relazioni sociali, per impratichirsi nella lingua, per imparare un mestiere, per risparmiare e contribuire al mantenimento di parenti rimasti in patria.
Molte delle persone che arrivano in queste condizioni, soprattutto se profughi di guerra o di qualche conflitto, ma anche se profughi ambientali o cosiddetti migranti economici, desiderano ritornare prima o poi da dove sono venute non appena se ne presentino le condizioni. Per questo il lavoro è anche ciò che può creare le basi per un ritorno: con nuove professionalità acquisite, con un patrimonio di relazioni con il paese di arrivo che può essere messo a frutto nel paese di origine – soprattutto se, come spiegheremo, le attività in cui verrebbero impegnate sono prevalentemente legate al risanamento ambientale sia locale che globale – e in alcuni casi anche con un piccolo capitale che oggi, per mancanza di supporto a impieghi alternativi, viene spesso dilapidato in attività immobiliari senza alcun beneficio.
In queste condizioni, e per tutte queste persone, la ricerca del lavoro non può essere affidata al mercato, cioè all’iniziativa individuale, anche se avvenisse in condizioni di legalità, cioè con un regolare permesso di soggiorno che oggi non viene dato a nessuno. E questo, non solo perché il mercato del lavoro, in Italia come in quasi tutti gli altri paesi europei, non offre in questo periodo, e per molti anni a venire, grandi opportunità nemmeno ai cittadini autoctoni; e neanche solo perché le agenzie di intermediazione non funzionano; ma soprattutto perché persone arrivate in queste condizioni hanno bisogno di un forte accompagnamento personalizzato.
Alcuni amministratori locali, ben consapevoli che è innanzitutto necessario spezzare la gabbia dell’inattività forzata a cui sono condannati i richiedenti asilo, hanno cominciato ad impegnarli, a titolo volontario e gratuito, in attività “socialmente utili”, con l’obiettivo di mostrare alla cittadinanza che quei profughi non sono solo un peso, e meno che mai un pericolo, ma possono essere anche un aiuto. Altri, tra cui alcuni studiosi del fenomeno, hanno proposto di riattivare l’istituto dei “lavori socialmente utili” (LSU): un istituto attivato dalla legislazione italiana del lavoro in un periodo compreso tra il 1984 e i primi anni del 2000), con l’intento dichiarato, ma quasi mai veramente perseguito, di avviare al lavoro un bacino di disoccupati che si era progressivamente andato allargando da alcuni lavoratori in cassa integrazione ad altri in mobilità, fino ad includere giovani inoccupati e disoccupati di lunga durata.
Entrambe queste soluzioni – lavoro gratuito e LSU – sono fattispecie di un approccio alla disoccupazione generale chiamato workfare, tutt’ora in vigore, anche se in disgrazia, in molti paesi, che era nato in contrapposizione, anche da un punto di vista terminologico, al welfare e, segnatamente, alle indennità di disoccupazione, considerate un incentivo all’ozio, o alla rinuncia della ricerca attiva di un lavoro. Al workfare veniva così assegnato sia il compito di tenere il disoccupato “in esercizio”, sia quello di riavviarlo in qualche modo al lavoro. Ma entrambe le soluzioni, più altre che vi possono essere assimilate, sono invece una vera e propria trappola: sia per il lavoratore che per le istituzioni che le promuovono e la società che le adotta.
Intanto ne vanno messe in discussione le finalità: in molti casi il workfare è stato introdotto con intenti punitivi: far pagare al disoccupato, come che sia, il costo del suo mantenimento; in altri casi, con intenti compassionevoli: sottrarlo all’inattività, farlo sentire, per l’appunto, “socialmente utile”. L’approccio prevalente è comunque quello di considerare il workfare una forma di avviamento o riavviamento al lavoro. Tutti e tre questi approcci presentano però più controindicazioni che benefici.
Sul lavoro volontario e gratuito c’è poco da dire: attivato una tantum con persone costrette a un isolamento forzato nelle loro strutture può essere giustificato come modo per allacciare un loro rapporto con la cittadinanza. Trasformato in pratica continuativa è una forma di schiavismo che risponde al principio di compensare con lavoro gratuito il proprio mantenimento, senza che da esso derivi alcuna prospettiva di sbocco occupazionale vero, o di inclusione sociale, allontanando così ancora di più le persone coinvolte da un percorso di integrazione.
Il lavoro socialmente utile (LSU), così come è stato introdotto e sviluppato in Italia, prevedeva una occupazione a mezzo tempo, con una retribuzione ridotta, ma contributi sociali garantiti interamente, in progetti temporalmente definiti – ma di fatto rinnovati di anno in anno alla scadenza – presso amministrazioni pubbliche, società miste pubblico-private, o imprese già esistenti o costituite ad hoc in forma cooperativa, affidatarie di lavori o servizi pubblici esternalizzati. La formula non poteva funzionare, e non ha funzionato, innanzitutto per il fatto che la retribuzione dimezzata era, sì, insufficiente a garantire il mantenimento di una persona e ancor più di una famiglia, ma era anche una buona base per impiegare il resto della giornata in un doppio lavoro “in nero”, anche grazie al fatto che i contributi sociali erano comunque interamente coperti.
Questo metteva di fatto molti lavoratori socialmente utili addirittura in una situazione privilegiata rispetto a chi svolgeva una attività regolare a tempo pieno, rendendoli così particolarmente restii ad abbandonare la loro posizione, anche in presenza di un’offerta di lavoro regolare. Questa renitenza era ulteriormente aggravata dalla speranza, spesso alimentate da forze politiche e sindacali, di utilizzare l’ingaggio nei LSU come corridoio di ingresso nella Pubblica amministrazione, posizione che in Italia gode ancora, nonostante tutto, di una particolare protezione.
Ma, oltre a ciò, sia il lavoro socialmente utile che il lavoro volontario e gratuito non sfuggono a un dilemma radicale: o il lavoro è effettivamente “socialmente utile”, e allora dovrebbe essere svolto in via ordinaria, con contratti di lavoro regolari, perché svolgerlo in forma gratuita, o in ambiti riservati ed esclusivi, significa entrare in concorrenza sia con i lavoratori interessati a svolgerlo dietro il pagamento di un salario regolare, sia con le imprese interessate ad averlo in affidamento a condizioni di mercato. Oppure quei lavori non fanno concorrenza a nessuno perché sono lavori finti o non sono per nulla utili; vanno solo a vantaggio di chi li gestisce e contribuiscono a creare delle sacche di parassitismo tra chi li gestisce.
Che è esattamente quanto successo per molti anni, mano a mano che si dilatava il bacino dei LSU e che venivano riconfermati gli pseudoprogetti in cui quei lavoratori venivano impegnati. Basti pensare alle migliaia di lavoratori ingaggiati in raccolte differenziate dei RSU o in lavori di bonifica senza essere dotati di attrezzature, strumenti e know how per operare; e venendo spesso assegnati ad aree e interventi in cui operavano già altre imprese più o meno regolari. Questo ha fatto sì che sui LSU finissero per ricadere anche le stimmate di persone incapaci o indisposte a lavorare in condizioni ordinarie, pregiudicandone ogni eventuale successiva ricollocazione.
Per di più, quando i lavori sono utili, perché coprono funzioni rimaste scoperte – ed è stato il caso di molti lavoratori applicati a ruoli della Pubblica amministrazione – questa si mette nella condizione di non poterne più fare a meno e, quando il sedicente progetto giunge a scadenza, scopre di non aver più le risorse per coprire alcune funzioni vitali.
Insomma, sia il lavoro volontario gratuito, a prescindere dalla sua inaccettabilità, sia il lavoro socialmente utile attribuito in riserva si rivelano una trappola tanto per il lavoratore che per le amministrazioni che lo impiegano direttamente o attraverso l’affidamento a un’impresa. Lo è per il lavoratore, perché, lungi dal funzionare come strumento di avviamento a un lavoro regolare, lo rinchiude in un recinto da cui nessuno ha più interesse a farlo uscire. Tanto è vero che lo svuotamento del bacino degli LSU italiani ha richiesto un progetto ad hoc (OFF), finanziato dall’Unione europea, costato molte decine di milioni, durato quasi dieci anni e nel quale la maggior parte delle uscite sono state di fatto realizzate per prepensionamento.
Ma è una trappola anche per le amministrazioni, perché le inducono a creare delle finte attività per sostenere lavori di nessuna utilità o efficacia, oppure ad affidare funzioni per essa vitali a interventi a termine, destinati a lasciarle scoperte quando il progetto viene a scadenza.
Qual è allora la soluzione? Una soluzione soddisfacente per adesso non c’è, perché il problema è il più complesso che l’Europa, e forse tutte le economie sviluppate, si trovano ad affrontare oggi. Ma per quanto riguarda l’Italia e gli scenari di qui a due o tre anni, valgono comunque le seguenti considerazioni:
Il problema è di assoluta priorità e va riportato come tale a livello europeo: profughi e migranti sbarcano in Italia, ma per raggiungere l’Europa. Il nostro paese non può essere lasciato solo ad affrontare questo flusso, anche se tutti gli altri paesi membri dell’Unione Europea trovano molto comodo lasciare le cose come stanno.
Non si tratta di “pestare i pugni sul tavolo” come hanno promesso di fare sia Renzi che i 5stelle, ma di far capire a tutti, e innanzitutto all’opinione pubblica, che in mancanza di iniziative adeguate è l’intera costruzione europea a rovinare;
Le ricollocazioni previste dalla Commissione europea, anche se venissero effettuate – il che non è – non sono adeguate: innanzitutto riguardano solo la fase dell’accoglienza e non quella della inclusione sociale successiva; poi dovrebbero essere rinnovate ogni anno, perché ogni anno c’è un nuovo flusso di profughi da accogliere e sistemare;
Il problema è creare occasioni di lavoro per tutti in settori che abbiano veramente bisogno di molta manodopera. Questi sono soprattutto i settori legati alla manutenzione del territorio, alle riconversioni energetica, agricola ed edilizia, alla manutenzione e riparazione dell’usato, ai servizi alla persona, compreso il trasporto personalizzato. Luciano Gallino aveva stimato la necessità immediata di almeno un milione di nuovi posti di lavoro aggiuntivi per alleviare la disoccupazione in Italia; cifra che proiettata su scala europea e proporzionata alla consistenza della disoccupazione ufficiale degli altri paesi, significa almeno sei milioni di posti di lavoro su scala continentale. Perché non sembri una esagerazione, bisogna ricordare che fino alla crisi del 2008 i paesi europei di immigrazione assorbivano “normalmente” almeno un milione e mezzo di nuovi migranti all’anno, trovandogli un lavoro. Sono dunque le politiche di austerità che da allora hanno prodotto 25 milioni di disoccupati nell’UE che vanno cambiate;
Non si può aspettare un cambiamento radicale di questo genere, assimilabile a un regime change a livello europeo, per cominciare ad agire. Occorre fin da ora mettere a punto, trovare i finanziamenti e realizzare progetti di inclusione sociale e lavorativa di profughi e migranti a livello locale. Per poi riproporli come modelli di buone prassi da recepire e valorizzare in tutta Europa. E viceversa: conoscere, importare e riprodurre quanto di valido è stato sperimentato in Europa su questo piano;
Ovviamente gli esempi non bastano, ma è solo a partire dalla loro realizzazione e dalla loro valorizzazione che è possibile dare credibilità a un programma generale di riconversione produttiva dell’Europa fondata su un piano generale di lavori inclusivo di tutte le competenze e di tutte le componenti sociali che possono essere impiegate nella sua realizzazione;
Gli inserimenti lavorativi di profughi e migranti arrivati da poco in Europa hanno bisogno di un accompagnamento personalizzato gestito da organismi capaci di svolgerlo, sia che si tratti di assunzioni in imprese esistenti che di creazione di nuove imprese. Le uniche organizzazione in parte attrezzate per questa funzione sono le imprese del terzo settore, a cui spetta un ruolo fondamentale nel farsi promotrici e soggetti attuatori di un programma del genere;
In tutti gli ambiti dove sono in campo nuovi progetti o creazione di nuove imprese una condizione essenziale è che a essere coinvolti siano gruppi misti di disoccupati italiani, soprattutto giovani, e stranieri; e soprattutto che ci sia un transfer di conoscenze e di competenze manageriali da chi le ha potute maturare all’interno di imprese già operanti a chi si trova a dover iniziare quasi da zero.
In tutti i casi è importante mantenere i contatti più stretti possibili con tutti i livelli istituzionali, perché si capisca che questa è l’unica strada percorribile per non lasciar precipitare il nostro paese, e dietro di esso, tutta l’Europa, in un caos senza ritorno. Le cose da fare sono tantissime e gigantesche, ma si può e si deve cominciare a lavorare da quello che si può fare.
Gli esempi positivi di inserimento in attività già in corso o di creazione di nuove imprese non mancano e andrebbero raccolte in un repertorio. Il paradosso e che coinvolgono richiedenti asilo che attraverso questi progetti si inseriscono positivamente nel lavoro e nella società. Poi quando arriva il diniego, devono essere licenziati perché non possono essere regolarizzati, determinando spesso anche il fallimento delle attività che avevano contribuito a far vivere.
la Repubblica, 29 maggio 2017
Uno è il numero del cinismo europeo. L’Italia ha bisogno di 5000 posti nell’Unione per ricollocare i minori non accompagnati arrivati sulle nostre coste. Ma i paesi europei hanno accolto finora «soltanto un minore non accompagnato», scrive nero su bianco il Parlamento di Strasburgo. Così come il milite ignoto è il simbolo della ferocia della guerra, l’anonimo e unico bambino senza genitori coinvolto nel programma di accoglienza è l’emblema della mancata solidarietà della Ue, della sua disunione e della sua crisi. Uno stavolta non si riferisce al deficit, alle correzioni di bilancio ma alla stitica capacità di condivisione dei nostri partner. È il numero più significativo, un puntino scandaloso nella statistica del fenomeno migratorio e dei richiedenti asilo. L’intero piano di ricollocazione però sta fallendo. E la risoluzione approvata a larghissima maggioranza il 18 maggio dall’Europarlamento mette in chiaro le cifre di questo fallimento.
Solo l’11 per cento
Al 27 aprile erano stati ricollocati 17903 richiedenti asilo: 12490 dalla Grecia e 5920 dall’Italia. «Un dato — scrivono i promotori della mozione — che equivale ad appena l’11 per cento degli obblighi assunti». Cioè, 18410 persone su 160 mila previste.
Chi fa la propria parte
Il programma di accoglienza solidale naturalmente esclude Italia, Grecia e Germania che fanno già il possibile nella gestione del fenomeno. In quanto paesi di arrivo sono loro a dover essere aiutati nel controllo dei flussi da tutti gli altri. Ma questa solidarietà si limita a pochissimi stati. Soltanto la Finlandia e Malta rispettano gli obblighi. E la sola Finlandia lo fa «sistematicamente » per il capitolo doloroso dei “minori non accompagnati”.
Chi diserta
Praticamente tutti gli altri. Alcuni più degli altri. Ungheria e Slovacchia rifiutano la ricollocazione e hanno portato la commissione Ue davanti alla Corte europea di giustizia. Austria, Polonia e Repubblica Ceca sono fra i Paesi che fanno di meno. «Ma la maggior parte degli stati membri è ancora molto in ritardo, sebbene si siano registrati alcuni progressi».
L’Italia
Il paradosso è che nel 2016 il nostro Paese ha ricollocato più richiedenti asilo di quanti sia riuscita a dirottarne negli altri stati Ue. Lo scorso anno sono arrivati da noi 181436 persone, il 18 per cento in più rispetto al 2015. Il 14 per cento di loro erano minori. Tra i richiedenti asilo sono stati ammessi gli eritrei e 20700 sono sbarcati sulle nostre coste. In questo caso, l’Italia è indietro nella loro registrazione, necessaria a inserirli nel programma di solidarietà.
Chi fa il furbo
Alcuni stati membri utilizzano criteri restrittivi e discriminatori nel rifiutare le quote di accoglienza. Ricollocano soltanto le madri sole o escludono richiedenti di alcune nazionalità, ad esempio gli eritrei. Al 7 maggio scorso la Grecia si era vista respingere 961 persone che avevano i requisiti per essere trasferiti altrove.
L’obiettivo
Il Consiglio europeo si è impegnato a garantire il traguardo di 160 mila ricollocazioni. Siamo lontanissimi dal risultato. L’Europarlamento invita gli stati a dare la priorità ai minori non accompagnati e ad altri « richiedenti vulnerabili » . Si chiede quindi almeno di cancellare dalle statistiche lo scandaloso “ 1” che riguarda la drammatica situazione dei bambini giunti in Italia. La Grecia sta meglio di noi, almeno in questa classifica. Invece di 5000 posti, al momento ha bisogno di altri 163 “ visti” per il trasferimento di altrettanti minori.
Procedure d'infrazione
Strasburgo chiede alla commissione di partire davvero con le sanzioni. Così come scattano per i decimali di sforamento del deficit (la manovra correttiva chiesta da Bruxelles all’Italia è per l’0,2 per cento), la procedura d’infrazione adesso va avviata anche per chi non rispetta il programma sui migranti. «Se i paesi non incrementeranno rapidamente le loro ricollocazioni, i poteri della commissione vanno usati senza esitazione», si legge nella mozione. «Un largo fronte europeista chiede ora a Juncker di battere un colpo», scrive il vicepresidente dell’Europarlamento David Sassoli nel suo blog su Hufpost. Ieri a Ventotene, al festival dell’associazione “La nuova Europa”, Laura Boldrini ha detto che «l’Unione avrà un futuro solo senza muri e senza paura ». E da Malta il segretario del Pd Matteo Renzi ha invitato il Continente «a non voltarsi dall’altra parte» davanti alla spinta migratoria.
Un signore è accusato di reato per aver provocato la morte di un bambino a causa di una diagnosi medica sbagliata. Chi punirà i signore osannati da se stessi e dai media pur avendo ucciso milioni di bambini, nel Mediterraneo e negli inferni di provenienza, per una diagnosi politica sbagliata?
la Repubblica, 28 maggio 2017
La ragazza nigeriana, ridotta ad uno scheletro, gli è morta tra le braccia durante il trasbordo dal gommone su cui viaggiava insieme alla famiglia. Aveva solo 19 anni. « Se fossimo arrivati mezz’ora prima forse a quest’ora sarebbe ancora viva — si dispera Michele Trainiti, capo delle operazioni di soccorso di Msf a bordo della Vos Prudence — ma c’eravamo solo noi giovedì in quel tratto di mare e i gommoni spuntavano uno dietro l’altro. Ne abbiamo soccorsi 12 in 24 ore senza che nessuno potesse venire a darci una mano e adesso ho 1449 persone a bordo di una nave che ne può contenere al massimo 600».
Al largo della costa di Taormina c’è una nave che naviga in condizioni disperate. Uomini e donne ammassate sui ponti, uno sull’altro, avvolti nelle coperte. Tre notti all’addiaccio, sotto il vento teso e il freddo, con le ustioni che bruciano e le ossa rotte dalle violenze inaudite subite in Libia. Non c’è spazio per tutti sotto coperta, entrano solo i 45 bambini, tra cui cinque neonati, il più piccolo ha solo 15 giorni di vita, e qualche donna incinta o in condizioni particolarmente precarie. Non c’è posto neanche per sdraiarsi ed è difficile persino muoversi per fare la fila nei sei bagni della nave. A bordo è pieno di spazzatura, le condizioni igieniche sono al limite ed è impossibile per i medici curare le persone come si dovrebbe. Un po’ di cibo è arrivato ieri grazie alla staffetta assicurata dalle motovedette della Guardia costiera davanti al porto di Palermo dove la Vos Prudence, però, non è potuta attraccare per il divieto di sbarco in tutta la Sicilia durante i giorni del G7 deciso dal capo della polizia Gabrielli per l’indisponibilità delle forze dell’ordine impegnate nella sicurezza del vertice.
E a sera, mentre è in navigazione sotto la costa messinese, Trainiti dice: «Se avessi potuto avrei sbarcato questa gente a Taormina per far capire a quelli che chiamate i Grandi della terra chi sono gli ultimi, per far vedere i loro volti e sentire le loro storie. Ma non ho potuto. Questa cosa dei porti siciliani chiusi per il G7 quando si sa bene che gli arrivi non si fermano è un altro scandalo e ora io mi ritrovo da 48 ore a navigare in queste condizioni. Li abbiamo salvati tutti noi, da soli, 12 soccorsi in 24 ore, in stretto raccordo con la centrale della Guardia costiera a Roma. Ma non c’era nessun’altra nave a meno di cinque, sei ore di navigazione che potesse venire in nostro aiuto.
Mi chiedo dov’erano le navi della Marina militare, quelle di Frontex, quelle di Eunavformed. Mi chiedo, se non ci fossimo stati noi, che fine avrebbero fatto queste 1449 persone. Sarebbero morte tutte come quella povera ragazza nigeriana che è spirata sotto i nostri occhi e come la sua amica che era senza vita sullo stesso gommone. Ora sono nella nostra camera mortuaria a bordo, le stiamo portando a Napoli dove spero potranno trovare almeno una degna sepoltura ». Tre notti e tre giorni di passione a bordo, carichi di tensione tra i migranti sofferenti per le gravissime violenze e torture subite in Libia, ma anche di solidarietà tra questi uomini e donne capaci di togliersi un biscotto dalla bocca per darlo a chi sta peggio. È successo questo venerdì quando gli 800 salvati nei soccorsi del pomeriggio precedente e già rifocillati con le provviste a bordo della nave hanno dovuto stringersi per far posto ai nuovi arrivati per i quali non c’era più cibo. «Ho visto decine di persone spezzare la barretta che gli avevamo dato e offrirla a chi aveva più fame di loro o far posto sotto una coperta. Una lezione di umanità».
. il manifesto, le Monde diplomatique , maggio 2017
Campi per rifugiati e sfollati, accampamenti di migranti, aree di attesa, campi di transito, centri di detenzione amministrativa, centri di identificazione ed espulsione, punti di passaggio frontalieri, centri di accoglienza per richiedenti asilo, «ghetti», «giungle», hotspots... Dalla fine degli anni 1990 queste parole occupano l’attualità di tutti i paesi.I campi non sono solo luoghi di vita quotidiana per milioni di persone; diventano una delle componenti più rilevanti della «società mondiale», una delle forme di governo del mondo: un modo di gestire l’indesiderabile.
Prodotto della deregulation internazionale seguita alla fine della guerra fredda, queste strutture hanno assunto proporzioni importanti nel XXI secolo, in un contesto di sconvolgimenti politici, ecologici ed economici. Il fenomeno indica il fatto che un’autorità di qualche tipo (locale, nazionale o internazionale), la quale esercita un potere su un territorio, colloca persone in campi di vario tipo, o le costringe a collocarvisi autonomamente, per una durata di tempo variabile .
Nel 2014, sei milioni di persone, soprattutto popoli in esilio – i karen della Birmania in Tailandia, i sahrawi in Algeria, i palestinesi in Medioriente ... –, vivevano in uno dei 450 campi di rifugiati «ufficiali», gestiti da agenzie internazionali – come l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Hcr) e l’agenzia onusiana per i rifugiati palestinesi – o, più di rado, da amministrazioni nazionali. Spesso allestiti in fase di emergenza, senza che i loro iniziatori ne avessero immaginato e ancor meno pianificato la durata nel tempo, questi campi esistono talvolta da oltre vent’anni (come in Kenya), trent’anni (in Pakistan, Algeria, Zambia, Sudan) o anche sessant’anni (in Medioriente). Con il tempo, alcuni sono arrivati ad assomigliare ad ampie aree periurbane, dense e popolose.
Inoltre, nel 2014, il pianeta contava anche più di 1.000 campi per sfollati interni, che ospitavano circa 6 milioni di individui, oltre a diverse migliaia di piccoli campi auto-organizzati, i più precari e meno visibili, con circa 4 o 5 milioni di occupanti, essenzialmente migranti chiamati «clandestini». Queste strutture provvisorie, talvolta definite «selvagge», si ritrovano in tutto il mondo, nelle periferie delle città o lungo le frontiere, su terreni abbandonati o fra le rovine, in interstizi, in edifici abbandonati. Infine, almeno un milione di migranti è passato via via in uno dei 1.000 centri di detenzione amministrativa sparsi per il mondo (400 nella sola Europa).
In totale, tenendo conto degli iracheni e dei siriani fuggiti dal loro paese in questi ultimi tre anni, si può stimare che da 17 a 20 milioni di persone oggi siano «accampate».
Differenze a parte, i campi presentano tre tratti comuni: l’extra-territorialità, l’eccezione, l’esclusione. Innanzitutto, sono spazi a parte, fisicamente delimitati, non-luoghi che spesso non risultano sulle mappe. È il caso del campo per rifugiati di Dadaab, in Kenya, il quale pure conta una popolazione di due o tre volte più grande rispetto a quella del dipartimento di Garissa, nel quale si trova. I campi hanno un status di eccezionalità: sono gestiti da norme diverse da quelle dello Stato nel quale si trovano. E questo, si tratti di campi chiusi o aperti, consente di accantonare, rinviare o sospendere il riconoscimento di un’uguaglianza politica fra i loro occupanti e i normali cittadini.
Infine, questa forma di raggruppamento umano esplica una funzione di esclusione sociale: segnala, e al tempo stesso nasconde, una popolazione in eccesso, in sovrannumero. Il fatto di essere apertamente diversi dagli altri, di non essere integrabili, afferma un’alterità che deriva da questa duplice esclusione,giuridica e territoriale.Ogni tipo di campo sembra accogliere una popolazione particola-re – i migranti senza permesso di soggiorno nei centri di detenzione amministrativa, i rifugiati e gli sfollati nelle strutture umanitarie ecc. –, ma vi si ritrova in un certo senso lo stesso tipo di persone, provenienti da Africa, Asia e Medioriente.
Le categorie istituzionali di identificazione sembrano maschere ufficiali, applicate provvisoriamente sui loro volti. Così, uno sfollato interno liberiano che nel 2002-2003 (nel periodo più acuto della guerra civile) viveva in un campo alla periferia di Monrovia, diventa un rifugiato se l’anno successivo va a registrarsi in un campo dell’Hcr al di là della frontiera settentrionale del suo paese, nella Guinea forestale; e diventa un clandestino se nel 2006 lascia il campo e va a cercare lavoro a Conakry, dove ritrova diversi compatrioti che vivono nel «quartiere dei liberiani» della capitale guineana.
A quel punto, magari tenterà di arrivare in Europa, via mare o attraverso il continente, con le rotte trans-sahariane; se arriverà in Francia, sarà portato in una delle cento zone di attesa per persone con domande in corso (zones d’attente pour personnes en instance, Zapi), che contano anche porti e aeroporti. Verrà ufficialmente considerato un assistito, prima di poter essere registrato come richiedente asilo, con forti probabilità di veder respinta la propria domanda. A quel punto, sarà trattenuto in un centro di detenzione amministrativa (in Francia Centre de rétention administrative, Cra; in Italia Centro di identificazione ed espulsione, Cie, ndt), in attesa che siano compiuti i passi necessari alla sua espulsione (si legga l’articolo a pagina 14). Se legalmente non può essere espulso, sarà «liberato» e si ritroverà, a Calais o nella periferia romana, migrante clandestino in un accampamento o in un edificio occupato da migranti africani.
I campi e gli accampamenti di rifugiati non sono più realtà confinate in lontane contrade dei paesi del Sud, né appartengono al passato. A partire dal 2015, l’arrivo di migranti del Medioriente ha fatto emergere una nuova logica dei campi in Europa. In Italia, in Grecia, alla frontiera fra la Macedonia e la Serbia e fra l’Ungheria e l’Austria, sono nati diversi centri di accoglienza, registrazione e smistamento degli stranieri. Di carattere amministrativo o di polizia, possono essere organizzati dalle autorità nazionali, dall’Unione europea o da soggetti privati.
Queste strutture, allestite in magazzini risistemati o caserme militari riconvertite, su terreni incolti dove sono stati piazzati i container, si saturano ben presto. Tutt’intorno sorgono allora piccoli campi definiti «selvaggi» o «clandestini», approntati da organizzazioni non governative (Ong), da abitanti della zona o dagli stessi migranti. È quanto si è prodotto, ad esempio, intorno al campo di Moria, a Lesbo, il primo hotspot (centro di controllo europeo) creato da Bruxelles ai confini dello spazio Schengen nell’ottobre 2015 per identificare i migranti e prelevarne le impronte digitali. Queste sistemazioni di fortuna, che in genere accolgono alcune decine di persone, possono arrivare a dimensioni considerevoli, al punto di assomigliare a vaste bidonville.
In Grecia, di fianco al porto del Pireo, un accampamento di tende ospita fra 4.000 e 5.000 persone, e fino a 12.000 persone hanno trascorso un periodo a Idomeni, alla frontiera greco-macedone, in una sorta di ampia zona di attesa (2). Negli ultimi anni, anche in Francia sono stati aperti diversi centri di accoglienza per richiedenti asilo (Cada; in Italia Cara, ndt) e centri di accoglienza d’emergenza.
Anch’essi soffrono di una cronica carenza di posti e, intorno, proliferano gli insediamenti selvaggi. Per esempio, i migranti respinti dalla struttura aperta dal comune di Parigi alla porta della Chapelle nell’autunno 2016 sono costretti a dormire in tende, sui marciapiedi o sotto i cavalcavia della metropolitana. Qual è il futuro di questo paesaggio di campi? Le strade possibili sono tre. La prima è la loro sparizione, come è avvenuto con la distruzione degli accampamenti di migranti a Patrasso in Grecia, e a Calais in Francia, nel 2009 e nel 2016, e anche con il reiterato smantellamento dei campi «rom» intorno a Parigi e Lione.
Quanto ai campi per rifugiati di antica data, la loro scomparsa pura e semplice costituisce sempre un problema. Lo testimonia il caso di Maheba, in Zambia. Il campo, aperto nel 1971, avrebbe dovuto grabili, afferma un’alterità che deriva da questa duplice esclusione,chiudere nel 2002. Ma all’epoca aveva 58.000 occupanti, in gran parte rifugiati angolani di seconda o terza generazione. Un’altra strada è la trasformazione, nel lungo periodo, che può arrivare al riconoscimento e a un certo «diritto alla città», come mostrano i campi dei palestinesi in Medioriente, o la progressiva integrazione nella periferia di Khartoum dei campi di profughi dal Sud Sudan. L’ultima possibilità, attualmente la più diffusa, è quella dell’attesa.
Eppure, altri scenari sarebbero possibili. La proliferazione dei campi in Europa e nel mondo non è una fatalità. È vero che i flussi di rifugiati, soprattutto siriani, sono molto aumentati dopo il 2014 e il 2015; ma erano prevedibili, annunciati dal continuo aggravarsi dei conflitti in Medioriente, dall’aumento delle migrazioni negli anni precedenti, da una situazione globale che rivela come la «comunità internazionale» abbia fallito nel compito di mantenere o ristabilire la pace.
Del resto questi flussi erano stati anticipati dalle agenzie delle Nazioni unite e dalle organizzazioni umanitarie che, dal 2012, invano chiedevano una mobilitazione degli Stati per accogliere i nuovi profughi in condizioni sicure e dignitose. Arrivi massicci e apparentemente improvvisi hanno provocato il panico in diversi governi impreparati, governi che hanno poi trasmesso la propria inquietudine ai cittadini.
La strumentalizzazione del disastro umanitario ha permesso di giustificare interventi duri e recitare, con l’espulsione o il confinamento dei migranti, il copione della difesa del territorio nazionale. Sotto molti punti di vista, lo smantellamento della «giungla» di Calais nell’ottobre 2016 ha avuto la stessa funzione simbolica dell’accordo del marzo 2016 fra Unione europea e Turchia (3) o dell’innalzamento di muri alle frontiere di diversi paesi (4): si tratta di mostrare che gli Stati sanno rispondere all’imperativo securitario, proteggere nazioni «fragili»tenendo a distanza gli stranieri indesiderabili. Nel 2016, l’Europa alla fin fine ha visto arrivare tre volte meno migranti che nel 2015. Gli oltre 6.000 morti nel Mediterraneo e nei Balcani (5), l’esternalizzazione della questione migratoria (verso la Turchia o verso paesi dell’Africa del Nord) e la proliferazione di campi nel continente ne sono stati il prezzo.
(1) Cfr. Gérer les indésirables. Des camps de réfugiés au gouvernement humanitaire, Flammarion, coll. «Bibliothèque des savoirs», Parigi, 2008.
(2) Per una più ampia descrizione dei campi in Europa, cfr. Migreurop, Atlas des mi grants en Europe. Géographie critique des politiques migratoires, Armand Colin, Parigi, 2012, e Babels, De Lesbos à Calais. Comment l’Europe fabrique des camps, Le Passager clandestin, coll. «Bibliothèque des frontières», Neuvy-en-Champagne,in uscita nel mese di maggio 2017..
(3) Si legga Hans Kundnani e Astrid Ziebarth, «Fra Germania e Turchia, la questione dei rifugiati», Le Monde diplomatique/il manifesto, gennaio 2017.
(4) Cfr. Wendy Brown, Murs. Les murs de séparation et le déclin de la souveraineté étatique, Les Prairies ordinaires, Parigi, 2009.
(5) Cfr. Babels, La Mort aux frontières de l’Europe. Retrouver, identifier, commémorer, Le Passager clandestin, coll. «Bibliothèque des frontières», 2017.
Continua la strage nel Mediterraneo, davanti alle coste del migliore alleato dei governi a trazione Renzi. Le benemerite Ong ne possono salvare alcuni, ma per interrompere la strage occorre cambiare chi ci governa, in Italia e in Europa
il manifesto, 25 maggio 2017
Le prime immagini diffuse dalla Ong maltese Moas mostrano centinaia di uomini che si sostengono a vicenda attaccati ai giubbotti di salvataggio, mentre sullo sfondo si vede il barcone sul quale viaggiavano carico di altre centinaia di uomini e donne. Erano almeno in cinquecento a bordo di quella carretta che non ha retto al peso di tanta umanità disperata in mezzo alla quale si trovavano anche tantissimi bambini. Non a caso tra i 34 migranti morti nell’ennesima tragedia del Mediterraneo si contano anche molti dei minori: «Almeno una decina», fa sapere in serata la Guardia costiera che con la nave Fiorillo ha affiancato la Phoenix del Moas nei soccorsi. A provocare il rovesciamento parziale del barcone sarebbe stata un’onda anomala o la decisione di molti migranti di spostarsi tutti sullo stesso lato del mezzo alla vista della Phoenix. Fatto sta che la barca si è inclinata improvvisamente provocando la caduta in mare di almeno duecento tra uomini, donne e bambini prima che il barcone riuscisse a raddrizzarsi.
Nel Mediterraneo si continua quindi a morire. Accantonate per il momento, almeno si spera, le polemiche sulle Ong, resta solo da aggiornare la contabilità di quanti perdono la vita nella speranza di raggiungere l’Europa. Con la certezza che nessun accordo con i paesi africani riuscirà mai a fermarli. La tragedia di ieri è avvenuta intorno alle 9 del mattino 30 miglia a nord della città libica di Zuara, quindi in piene acque internazionali. Il primo ad avvistare l’imbarcazione carica fino all’inverosimile di migranti è l’equipaggio della nave Phoenix del Moas che allerta la sala operativa della Guardia costiera a Roma.
Forse proprio la vista della nave intervenuta a prestare loro soccorso crea agitazione tra i migranti che si trovano a bordo del barcone, una parte dei quali si sarebbe spostata su un di lato sbilanciando l’imbarcazione che comincia a inclinarsi. Inevitabile la caduta i mare di quanti si trovano ammassati lungo i bordi. «Non è la scena di un film dell’horror, ma una tragedia che sta avvenendo adesso, alle porta dell’Europa» twitta il fondatore del Moas, Chris Catrambone. Inviate dalla sala operativa della Guardia costiera italiana sul posto arrivano anche la Fiorillo e, in seguito, altre unità navali. Oltre alle 34 vittime accertate ci sarebbero anche dei dispersi.
Intanto due episodi fanno chiarezza su quanto accade lungo la rotta tra la Libia e l’Italia e sulle conseguenze degli accordi siglati con il paese nordafricano. Il primo sarebbe avvenuto martedì ed è stato denunciato dalla ong tedesca Jugend Retted secondo la quale la guardia costiera libica avrebbe usato le armi per convincere alcuni barconi a fermarsi. Un episodio smentito dalla Marina libica ma confermato anche da Medici senza frontiere e da Sos Mediterranee. Sempre martedì la Guardia costiera libica avrebbe inoltre raggiunto e bloccato 12 miglia al largo di Sebrata due barconi con a bordo in tutto 237 migranti provenienti dalla stessa Libia, dal Marocco, dall’Africa subsahariana e dal Bangladesh. Costretti a rientrare a Sebrata, i migranti sono stati stati arrestati con l’accusa di immigrazione clandestina e consegnati al centro di accoglienza di Al Nasr che fa capo all’autorità della lotta contro l’immigrazione clandestina di Zawiya. L’episodio conferma così il trattamento riservato ai migranti dalle autorità di Tripoli con le quali il Viminale sta trattando ormai da mesi, e questo nonostante le garanzie più volte offerte da Roma e Bruxelles sul fatto che da parte libica si sarebbero rispettati i diritti umani di quanti fuggono da guerre e miseria.
Per quanto riguarda i soccorsi quella di ieri è stata una giornata particolarmente intensa e difficile, con 14 navi impiegate dalla Guardia costiera italiana in 12 operazioni per soccorrere più di 2.000 migranti diretti verso l’Italia a bordo di gommoni e piccole imbarcazioni. Secondo stime fornite dall’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim) su un totale di oltre 50 mila migranti arrivati quest’anno (il 39% in più rispetto allo stesso periodo del 2016) circa 1.400 hanno perso la vita nel tentativo di attraversare il Mediterraneo. Sempre l’Oim ha denunciato un altro naufragio avvenuto venerdì scorso e nel quale risulterebbero disperse 150 persone.
Bisogna comprendere la strategia del terrorismo per vincerlo. «Se il terrorismo colpisce qui, le sue leve sono nei campi di battaglia siriani, iracheni, yemeniti e libici. Chissà se a Taormina qualcuno dei piccoli leader europei avrà il coraggio di dirlo al nuovo e lunatico padrone del mondo».
il manifesto, 24 maggio 2017
C’è qualcosa di nazista nelle tattiche terroristiche promosse dall’Isis. Colpire la folla dei concerti, composta da adolescenti e da ragazzini o bambini, a Parigi o Manchester, per fare più vittime possibile, significa mirare alla popolazione civile, perché se ne stia a casa e non faccia uscire i figli. Allo stesso modo, gli attentati di Nizza e Berlino e tanti altri avevano lo scopo di far rinunciare alla partita del sabato o della domenica, alla festa in piazza, a prendere un treno o a salire su un aereo.
Per quanto i lutti siano atroci, questa è la conseguenza strategica più grave della guerriglia contro le popolazioni dell’occidente: farle vivere perennemente nella paura. Gli appelli dei governi del tipo «la vita deve continuare come prima» o «combattiamo la paura» sono inevitabili, ritualistici e inutili. Possono ben poco contro un terrorismo ubiquo, probabilmente in franchising, i cui attori sono per lo più cittadini europei da lunga data (con buona pace di Le Pen e Salvini, che se la prendono con i migranti). Gente che può aver combattuto in Siria, Libia o Iraq per l’Isis o qualche altra sigla, ma che forse è anche composta di sbandati delle banlieue o di quartieri satellite che decidono di fare il salto della morte per la morte, in nome dell’Islam, dell’odio per la loro esistenza o dell’occidente.
A onta tutta la loro sorveglianza, degli infiltrati, dei monitoraggi delle moschee e degli imam estremisti, nonché delle espulsioni dei sospetti, i servizi occidentali non sembrano in grado di mettere le mani in questi mondi circoscritti, ma dissimulati e sfuggenti. E capaci di rinnovarsi in continuazione. Ma manca anche un’analisi della strategia dell’Isis, senza la quale nessuna contromisura politica efficace può essere davvero presa. Ora, è abbastanza evidente che l’Isis, attraverso l’organizzazione o la rivendicazione degli attentati, vuole provocare i governi occidentali, perché reagiscano scompostamente, facciano arresti nel mucchio, magari decidano qualche nuovo intervento militare contro l’Isis. E soprattutto perché attacchino l’Islam in quanto tale, come predicano Le Pen, Salvini, Farage e tanti altri. Aumentando così un risentimento che, per quanto minoritario, può alimentare il reclutamento di terroristi, kamikaze o no che siano.
In questo senso, il «muslim ban» di Trump ha già fatto danni enormi, anche se bocciato dalle corti federali americane. Ma anche la sua incursione in Arabia saudita è molto meno astuta di quanto non pensino i trumpiani, anche in Europa. Certo, The Donald ha firmato contratti miliardari, vendendo armi che finiranno in Yemen e, forse, per vie traverse e oscure, nelle mani dell’Isis. Nello stesso momento in cui chiede di cacciare i terroristi Donald Trump riconosce il coinvolgimento dei governi arabi, a cui però fornisce armi di ogni tipo. Poi, scagliandosi contro l’Iran e gli sciiti, fa una bella piroetta in chiave anti-iraniana e anti-siriana, cioè anti-russa. Una strategia velleitaria e contraddittoria, che radicalizza quella dei neo-cons di Bush.
Una strategia che inevitabilmente porterà all’inasprimento della guerra in Siria e nello Yemen, e forse in Libia, e a ulteriori conflitti con Putin. L’Isis non chiede di meglio che la radicalizzazione dei conflitti, perché questo è il suo terreno di propaganda e reclutamento. Con la conseguenza di minacciare ulteriormente la nostra vita quotidiana.
Infatti, se il terrorismo colpisce qui, le sue leve sono nei campi di battaglia siriani, iracheni, yemeniti e libici. Chissà se a Taormina qualcuno dei piccoli leader europei avrà il coraggio di dirlo al nuovo e lunatico padrone del mondo. C’è da dubitarne.
Il contenuto dell'accordo è chiarissimo: costruiamo barriere invalicabili per impedire ai disgraziati popoli delle regioni che noi stessi abbiamo fatto diventare inferni di sfuggirne. Se questo non è nazismo!
la Repubblica, 22 maggio 2017, con riferimenti in calce
«Vertice con i ministri dell’Interno di Libia, Niger e Ciad. Cabina di regia a Roma contro il traffico di esseri umani La strategia: centri di accoglienza nel deserto e guardie di confine addestrate per identificare gli schiavisti»
Ora c’è la conferma del ministero dell’Interno. Italia, Libia, Niger e Ciad lavoreranno insieme contro il traffico di esseri umani e l’immigrazione clandestina in uno dei punti cruciali delle rotte migratorie, il confine sud della Libia. L’operazione “Deserto rosso” era stata anticipata mercoledì scorso da
Repubblica, ma ieri, dopo il vertice al Viminale presieduto dal ministro dell’Interno Marco Minniti e al quale hanno partecipato i suoi omologhi di Libia, Aref Khoja, di Niger, Mohamed Bazoum, e del Ciad Ahmat Mahamat Bachir, c’è stata la descrizione dell’accordo nei particolari.
Roma ha ottenuto dunque la cabina di regia per gestire le operazioni in Africa e verificare periodicamente gli obiettivi dell’accordo. Quattro i punti principali dell’intesa: «Lavorare assieme per contrastare il terrorismo e il traffico di esseri umani, con l’obiettivo di assicurare la sicurezza dei confini; sostenere la formazione ed il rafforzamento delle guardie di frontiera creando una “rete di contatto” tra le forze che controllano i vari confini; sostenere la costruzione di centri di accoglienza in Niger e Ciad; promuovere lo sviluppo di un’economia legale alternativa a quella collegata al traffico di esseri umani».
Per sostenere le guardie di frontiera saranno impiegati i militari italiani, tuttavia la missione al momento non è stata annunciata dal ministero della Difesa perché i negoziati sia con i Paesi africani, sia con i partner europei, Francia e Germania su tutti, sono stati portati avanti soprattutto dall’Interno. Il finanziamento sarà invece a carico degli Esteri, con 200 milioni già stanziati per l’assistenza alle aree interessate dalle rotte dei migranti. Per quanto si parli di promozione dell’economia legale in alternativa ai proventi del traffico di esseri umani, la missione sarà essenzialmente militare. Una squadra specializzata dello Stato Maggiore della Difesa è in Niger da settimane, per studiare le possibili basi, in collaborazione con i militari francesi già presenti nella zona. L’obiettivo principale è infatti di addestrare un corpo di guardie di confine libiche, come previsto dagli accordi siglati a Roma lo scorso 2 aprile tra una sessantina di tribù del Sud, per contrastare jihadisti e trafficanti. Poiché però i governi libici non accettano la presenza di forze straniere, è stato necessario puntare sul Niger e il Ciad per i centri di accoglienza in cui potenziare i controlli di frontiera per identificare gli schiavisti e assistere i migranti.
L’incontro di oggi è un passaggio cruciale della strategia voluta da Minniti fin dal suo insediamento al Viminale, per chiudere la rotta migratoria dalla Libia all’Italia. Il ministro dell’Interno vuole rafforzare la guardia costiera libica e per aiutarla a fermare i barconi è prevista entro giugno la consegna di dieci motovedette. Poi si punta a chiudere la rotta del Mediterraneo all’origine, con operazioni di polizia sui cinquemila chilometri di confine che separano appunto la Libia dal Niger e dal Ciad, dove da anni agiscono indisturbate le organizzazioni di trafficanti di esseri umani.
riferimenti
L'accordo promosso e firmao dal governo italiano (Minniti ha voluto che la "cabina di regìa fosse a Roma) è un'applicazione del patto scellerato (come lo ha definito Alex Zanotelli) per contrastare con la violenza l'esodo, reso inevitabile dalle efferrate politiche compiute dal capitalismo negli ultimi secoli, e particolarmente nella sua attuale fase terminale. Si veda anche, di Alex Zanotelli, No Migration compact