Un «bilancio di fine legislatura» sulla politica del PD «su una materia, quella dei diritti umani, dei diritti di cittadinanza, dei rapporti presenti e futuri fra le due sponde del Mediterraneo e di un contrasto efficace al terrorismo» che induce a dimettersi dal partito di Renzi.
Nigrizia, 23 agosto 2017
Correva l’anno Duemila, lo stesso anno in cui ho cominciato a scrivere Giufà, la rubrica per Nigrizia, quando ho sentito per la prima volta un noto leader politico italiano proporre al telegiornale: “Dobbiamo sparare sulle imbarcazioni degli scafisti, affondiamole!”. In quel momento dirigevo il Tg1 e mi toccò dargli qualche minuto di gloria, pur sapendo entrambi che la sua sparata avrebbe lasciato il tempo che trovava. Nei diciassette anni successivi, tale ideona bellicosa è stata replicata infinite volte, sempre con la medesima prosopopea e in favore di telecamera, da leader di opposti schieramenti (dal centrodestra, al centrosinistra, ai grillini). Non mi stupisce, dunque, se quest’estate un tipo come Salvini, che sempre deve manifestarsi il più assatanato di tutti, sia giunto a chiedere anche l’affondamento delle navi delle organizzazioni non governative (Ong), colpevoli di supportare gli scafisti.
La falsa emergenza che descriveva la penisola italiana invasa da orde incontenibili di migranti, smentita dalle cifre ma alimentata dai giornaloni che si trincerano dietro alla scusa del “percepito”, e così manipolano la realtà, si rivela per quello che è: non una “emergenza migranti”, ma una “emergenza elezioni”. Se i giornaloni e le televisioni fanno da megafono a chi sproloquia di invasione, e gli italiani si sentono invasi, ahimè in automatico i politici di ogni ordine e grado innescano il refrain “stop all’invasione”.
Questo sta succedendo, e dobbiamo trarne le conseguenze. Per me la goccia che ha fatto traboccare il vaso è la campagna di denigrazione mossa contro le Ong impegnate nei salvataggi in mare. Culminata in accuse di complicità con gli scafisti e tradotta nella pretesa governativa di sottometterle a vincoli non contemplati dal diritto internazionale né dai codici di navigazione.
Scusate se approfitto, forse impropriamente, di questo spazio che mi è tanto caro. Ma è venuto il momento di formulare anch’io un mio bilancio di fine legislatura su una materia, quella dei diritti umani, dei diritti di cittadinanza, dei rapporti presenti e futuri fra le due sponde del Mediterraneo e di un contrasto efficace al terrorismo, che considero di importanza cruciale. Non solo in quanto ebreo, ex apolide, figlio fortunato di più migrazioni. Ma proprio come cittadino italiano che, dieci anni fa, è stato fra i promotori di un Partito democratico i cui valori fondativi vedo oggi deturpati per convenienza.
Metto in fila l’operato degli ultimi tre anni. La revoca dell’operazione Mare Nostrum con la motivazione che costava troppo e con limitazione del raggio d’azione della nostra Marina Militare. La mancata abrogazione del reato di immigrazione clandestina, per ragioni di opportunità. La soppressione, solo per i richiedenti asilo, del diritto a ricorrere in appello contro un giudizio sfavorevole. La promessa non mantenuta sullo ius soli temperato. E, infine, la promulgazione di questa inedita oscena fattispecie che è il “reato umanitario” mirato contro le organizzazioni non governative.
Dietro a questa sequenza si riconosce un vero e proprio disarmo culturale. Vittimismo. Scaricabarile. Caricature grossolane della complessa realtà africana con cui siamo chiamati a misurarci. Il tutto contraddistinto da una impressionante subalternità psicologica alle dicerie sparse dalla destra. Lo scorso 13 agosto, sul Corriere della Sera, Luciano Violante raccontava di essere rimasto senza parole davanti a un vecchio calabrese che, indicandogli un gruppo di africani, si lamentava: «Per loro lo stato spende 35 euro al giorno, per mio figlio disoccupato, invece, non fa niente».
Ecco, mi lascia costernato che neanche un uomo delle istituzioni come Luciano Violante si mostri capace di far notare a quel cittadino che, per fortuna, lo stato ha speso e continuerà a spendere molto, ma molto di più per suo figlio che non per gli immigrati. Ne ha perso forse contezza, l’ex presidente della Camera?
Ho ben presente l’importanza dell’unità dentro un partito grande e plurale. So anche che nel Pd continuano a essere numerosi coloro che hanno a cuore gli ideali oggi deturpati. Ma io che avevo visto male la scissione, né ho considerato motivi sufficienti per un divorzio le riforme istituzionale e il jobs act, ora, per rispetto alla mia gerarchia di valori, mi vedo costretto a malincuore a separarmi dal partito in cui ho militato dalla sua nascita. L’involuzione della politica del Pd sui diritti umani e di cittadinanza costituisce per me un ostacolo non più sormontabile.
… e quella
di Nigrizia
Non è una provocazione. Con questo editoriale, si è voluto sottolineare la presa di posizione di Gad Lerner perché coglie con precisione un problema che ha la politica oggi: invece di governare i fenomeni di questa epoca (come le migrazioni) prende la scorciatoia di sforbiciare i diritti e di raccontare all’opinione pubblica che va bene così. È un tragitto pericoloso e inconcludente perché rifiuta di fare i conti in profondità con la realtà politico-economica dell’Africa e del Mediterraneo e porta alla memoria un ammonimento del giornalista e scrittore Tiziano Terzani: «Purtroppo, oggi, sul palcoscenico del mondo noi occidentali siamo insieme i soli protagonisti e i soli spettatori, e così, attraverso le nostre televisioni e i nostri giornali, non ascoltiamo che le nostre ragioni, non proviamo che il nostro dolore».
Anche organizzazioni della Mafia in aiuto alla politica italiana ed europea dei respingimenti. A Roma come a Bruxelles hanno deciso: chiunque ci aiuta a respingere i fuggitivi dagli inferni che abbiamo contribuito a realizzare è nostro amico.
il Fatto quotidiano, 23 agosto 2017
Brigata 48. Ha un nome, secondo quanto riporta l’agenzia Reuters, il tappo che ha fermato le partenze di migranti dalla Libia verso l’Italia da luglio a oggi. È una milizia che sarebbe stata fondata da “un ex boss mafioso” libico, secondo quanto riferiscono fonti anonime locali alla Reuters. Questa Brigata 48 sarebbe molto attiva sulla costa per complicare la vita ai trafficanti e sabotare le partenze da Sabrata, la città a 65 chilometri a ovest di Tripoli che in questi anni è stata uno dei principali punti di imbarco per navi e gommoni carichi di migranti.
Pochi giorni fa, l’agenzia europea Frontex aveva comunicato il crollo degli sbarchi censiti a luglio: 15.400, circa la metà del mese prima. Tra le ragioni di questo rallentamento, di cui ha beneficiato soprattutto l’Italia, Frontex indicava proprio “gli scontri vicino a Sabrata, una delle aree chiave per le partenze”. E adesso sappiamo perché: è il frutto delle azioni di questa Brigata 48 combinato con quello della Guardia costiera libica che da settimane sembra aver finalmente deciso di contrastare il lavoro dei trafficanti invece che agevolarlo, come ha fatto per lunghi anni durante i quali – per colpa del caos della Libia – i suoi membri non potevano contare su uno stipendio regolare pagato dal governo. Il 24 di luglio, per esempio, il portavoce della Guardia costiera Ayoub Qassim si era premurato di far sapere ai media internazionali di un’operazione che aveva messo in salvo 150 persone, proprio a Sabrata.
In questi anni i trafficanti hanno spesso seguito una rotta che portava i loro carichi di umanità sofferente dalla città di Beni Ualid, nell’interno, a Sud di Tripoli e prima di Misurata, verso la costa. Evitando con attenzione le zone controllate dalla tribù Zintan, che gestisce in autonomia alcune attività del traffico, le carovane di migranti potevano arrivare ai porti di imbarco sulla costa senza neppure passare da Tripoli, grazie al supporto della tribù Warshefana che domina le cruciali aree di accesso alla costa per chi arriva dall’interno (l’alternativa è una strada costiera, troppo sorvegliata e quindi non utilizzata dai trafficanti).
Adesso qualcosa sembra essersi incrinato nel modello di business intorno a Sabrata. Secondo le fonti della Reuters, questa Brigata 48 non solo complica la vita ai trafficanti, ma gestisce anche dei centri di detenzione dove rinchiude i migranti (in Libia, non essendoci diritto di asilo l’unica destinazione per chi non riesce a partire via mare è di fatto la prigione). Difficile dire che cosa sia questa Brigata 48. Al ministero dell’Interno italiano non si lambiccano troppo: è chiaro che agisce per raggiungere gli obiettivi politici del governo di Al Sarraj, quello riconosciuto dalla comunità internazionale ma con scarso controllo del territorio in Libia.
Il ministro Marco Minniti in questi mesi sta perseguendo una strategia molto netta: rafforzare Sarraj in modo che il suo fragile esecutivo riesca a prendere il controllo del territorio almeno sulle coste e così fermare il traffico di migranti. A questo è servita la dura iniziativa contro le organizzazioni non governative che, nel tentativo di salvare i migranti abbandonati al loro destino sui canotti poco lontano dalle coste libiche, finivano per agevolare e quindi incentivare il lavoro dei trafficanti. L’Italia non ha alcun contatto ufficiale con questa Brigata 48 o con le altre compagini simili sul terreno: Roma tratta soltanto con Sarraj. Almeno in teoria, perché poi Minniti ha costruito una rete di relazioni con le tribù del sud della Libia, nel tentativo di disincentivarle a trarre lauti profitti dal traffico di esseri mani.
E il 28 agosto a Roma Minniti riunirà la cabina di regia che coordina i Paesi confinanti a Sud: Niger, Ciad e Mali. Lo scopo è sempre lo stesso: soltanto con il coinvolgimento di tutti gli attori che oggi partecipano al traffico di esseri umani si può arginare il flusso. Ci sono 90 milioni di euro di fondi europei da spendere nell’area proprio per progetti che offrano delle alternative di reddito a chi oggi vive di traffico. I primi tentativi in Niger per ora hanno creato più tensioni politiche che altro, ma al momento non ci sono strategie alternative.
Anche il ministro degli Esteri Angelino Alfano segue una sua agenda sulla Libia che prevede meno interventi diretti e un maggiore coinvolgimento del nuovo inviato dell’Onu, Ghassan Salamé. I due hanno avuto un colloquio lunedì.
Arma non tanto dei generici "populisti", come l'improprio titolo, ma chi alimenta «l’onda emotiva basata su insicurezza e paura che in tutta Europa cavalcano populismi e neonazionalismi. evocando ipotesi di “cooperazione” e di “comunione di intenti” fra soccorritori e trafficanti».
la Repubblica, 23 agosto 2017
Caro direttore, la sospensione delle attività delle ong impegnate nel soccorso in mare di fronte alle coste libiche ha avuto conseguenze drammatiche, con la chiusura dell’unica via di salvezza verso paesi sicuri rappresentata per centinaia di migliaia di migranti dall’intervento dei volontari da tempo impegnati su questo fronte.
Dietro la riduzione dei salvataggi in mare, ottenuta con il sostegno alle autorità libiche nella loro decisione di limitare l’area di intervento delle navi impegnate nel soccorso umanitario, si consuma una gravissima e sistematica violazione dei diritti fondamentali delle persone: in mancanza di una via di accesso sicura e “legale” all’Europa, si nega il diritto d’asilo a quanti, costretti alla fuga dalla guerra e dalla fame, non sono messi in condizione di raggiungere i paesi dove questo diritto possa essere esercitato; con il trattenimento nei centri di detenzione libici i migranti diventano vittime dei trattamenti inumani e degradanti che in questi luoghi abitualmente si praticano.
Questo effetto giunge dopo vari mesi di costanti attacchi alle ong. La continua enfatizzazione della necessità di “regolamentare” gli interventi di soccorso per ragioni di sicurezza e per lottare contro la tratta di essere umani, evocando ipotesi di “cooperazione” e di “comunione di intenti” fra soccorritori e trafficanti, ha ottenuto il risultato sperato. L’opinione pubblica ha ormai metabolizzato l’idea che sia necessario mettere sotto accusa l’attività di salvataggio e che sia legittimo porre “limiti” al nostro dovere di intervenire per sottrarre al loro destino di morte i migranti abbandonati in mare dai trafficanti. Anche le recenti indagini avviate da alcune procure per accertare eventuali condotte di favoreggiamento attuate nel soccorso in mare confermerebbero l’esistenza di un “collateralismo” fra i soccorritori e i trafficanti di esseri umani.
A prescindere dagli sbocchi giudiziari di queste indagini, è evidente la pericolosa semplificazione operata nel dibattito mediatico delle problematiche con le quali si devono confrontare l’interpretazione e l’applicazione delle norme penali nel contesto di attività di soccorso delle quali è riconosciuta la finalità umanitaria e dove attori privati devono sopperire alle carenze degli stati operando in situazioni molto complesse dove l’inazione o anche la sola prudenza può comportare la perdita di numerose vite umane.
L’attacco alle Ong è parte di un più ampio progetto e dei suoi obiettivi:
- portare in secondo piano le gravi responsabilità dell’Europa e dei paesi europei per non aver saputo e voluto sino ad oggi elaborare una politica di gestione del fenomeno migratorio all’altezza delle sfide e del nuovo ordine mondiale;
- riproporre come prioritarie le risposte in chiave securitaria, difensiva e repressiva alle emergenze legate alla gestione dell’emigrazione, alimentando l’onda emotiva basata su insicurezza e paura che in tutta Europa cavalcano populismi e neonazionalismi;
- criminalizzare chi da tempo, con l’impegno umanitario nell’attività di soccorso e di accoglienza e oggi con scelte coerenti con la propria identità e con le finalità della propria missione, ha deciso di stare incondizionatamente dalla parte dei diritti, dei valori di solidarietà e di pari dignità delle persone;
- ridurre al silenzio quanti chiedono con forza alla politica nazionale ed europea sull’emigrazione e sulla gestione della crisi umanitaria che ha determinato, di restituire centralità a tali valori posti a fondamento delle nostre democrazie e del progetto di Europa come luogo di diritti, di accoglienza e di opportunità per tutti.
Il futuro delle nostre democrazie richiede oggi un impegno comune perché si immettano nel dibattito pubblico forti anticorpi ai veleni mortali diffusi dal populismo che nella propaganda sui temi dell’emigrazione ha trovato una delle sue più potenti armi politiche.
Per questo è necessaria la nostra resistenza culturale alla logica del “nemico” che al populismo fornisce linfa vitale e che è sempre alla ricerca di “nuovi nemici”. Per questo occorre la nostra consapevolezza che restare dalla parte dei diritti fondamentali dei migranti significa difendere la nostra democrazia e salvare la nostra Europa dal progetto alternativo di società che nuovi populismi e neonazionalismi perseguono, rinnegando i valori di solidarietà, di eguaglianza e di pari dignità delle persone.
L’autrice è segretaria generale di Magistratura Democratica
«Il messaggio per la prossima Giornata dei migranti. Visti umanitari, ricongiungimenti familiari, prima sistemazione decorosa, libertà di movimento: raccomandate quattro "azioni"».
Avvenire online, 21 agosto 2017
Quattro azioni per cercare di affrontare il tema dei migranti e dei rifugiati salvaguardando - sempre e in primo luogo - la dignità della persona. Papa Francesco ha scelto la giornata odierna per diffondere il testo del suo Messaggio per la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato, che la Chiesa cattolica celebrerà il prossimo 14 gennaio 2018. Un testo ricco di proposte e azioni concrete, che Francesco offre all'analisi e allo studio della comunità cristiana e di quella internazionale. Del resto, ricorda lo stesso Pontefice "nei primi anni di pontificato ho ripetutamente espresso speciale preoccupazione per la triste situazione di tanti migranti e rifugiati". Una preoccupazione che lo ha portato a tenere sotto la propria guida quella sezione dedicata ai migranti istituita con la creazione del Dicastero per il Servizio dello sviluppo umano e integrale.
Quattro azioni: accogliere
Ecco allora i quattro verbi-azione che il Papa propone: accogliere, proteggere, promuovere e integrare. Per ognuno di loro il Messaggio offre anche indicazioni pratiche su come attuare questo invito. L'accogliere diventa "innanzitutto offrire a migranti e rifugiati ingresso sicuro e legale nei Paesi di destinazione" in modo che si sfugga al traffico di esseri umani. Sì, dunque, a visti umanitari, ai ricongiungimenti familiari, alla creazione di corridoi umanitari, alla formazione del personale di frontiera perché sappia operare nel rispetto della dignità umana. Forte chiaro il no a "espulsioni collettive e arbitrarie".
Proteggere il loro cammino
Anche il proteggere viene declinato dal Papa con alcune proposte operative concrete. In primo luogo l'informazione, sia in Patria sia nei luoghi in cui si recheranno, per evitare "pratiche di reclutamento illegale". Ma anche con il riconoscimento e la valorizzazione delle "capacità e delle competenze dei migranti, richiedenti asilo e rifugiati", che rappresentano "una vera risorsa per le comunità che li accolgono". Dunque integrazione passando dal mondo del lavoro, perché in esso vi è anche la dignità dell'uomo. Un pensiero il Papa lo rivolge anche ai minori, specialmente quelli non accompagnati, affinché, in assenza di documenti reali, diventino apolidi. Il Papa chiede che nel rispetto del diritto universale a una nazionalità «questa va riconosciuta e opportunamente certificata a tutti i bambini e le bambine al momento della nascita».
Promuovere la dignità della persona
Promuovere è il terzo verbo-azione indicato dal Messaggio. In questo punto il Papa invita la comunità che accoglie di "mettere queste persone in condizione di realizzarsi come persone in tutte le loro dimensioni", compresa quella religiosa, garantendo "a tutti gli stranieri presenti sul territorio la libertà di professioni e pratica religiosa". E ancora una volta l'integrazione lavorativa è una azione da promuovere con sempre maggior efficacia.
Integrare, cioè incontrarsi
Non meno importante la quarta pista di lavoro: integrare. Questo non vuole dire affatto assimilare, precisa papa Francesco nel suo messaggio, ma "aprirsi a una maggior conoscenza reciproca per accogliere gli aspetti validi" di cui ogni cultura è portatrice. Ecco allora l'invito ad accelerare questo processo anche "attraverso l'offerta di cittadinanza slegata da requisiti economici e linguistici e di percorsi di regolarizzazione straordinaria per migranti che possano vantare una lunga permanenza nel Paese".
La responsabilità degli Stati
Non manca infine un chiaro e diretto richiamo alla responsabilità degli Stati di tutto il mondo che, ricorda il Papa, "durante il vertice all'Onu nel settembre 2016 hanno espresso chiaramente la loro volontà di prodigarsi a favore di migranti e dei rifugiati". Forte anche l'invito alla comunità cristiana "ad approfittare di ogni occasione per condividere questo messaggio con tutti gli attori politici e sociali che sono coinvolti al processo che porterà all'approvazione dei patti globali, così come si sono impegnati a fare entro la fine del 2018".
Ancora troppe ombre sul caso Regeni e molte domande che necessitano una risposta.
La Repubblica, 22 agosto 2017 (p.d.)
Caro direttore, la notizia diffusa a Ferragosto dal New York Times secondo cui le autorità americane avrebbero trasmesso nei primi mesi del 2016 al governo Renzi - attraverso l’Aise, afferma Repubblica - un dossier con “ notizie esplosive” e “ prove inconfutabili” sul coinvolgimento di istituzioni egiziane nel sequestro, tortura e omicidio di Giulio Regeni, nonché sulla consapevolezza che ne avrebbe avuto la “leadership dell’Egitto”, ha determinato polemiche e commenti di opposti contenuti: c’è chi dice che queste informazioni non sono mai state comunicate a chi indaga e chi afferma che comunque esse erano inutili e scontate. È preannunciata per il 4 settembre una fase di chiarimento politico, mentre il Copasir intende convocare il premier Gentiloni e forse il suo predecessore.
Premesso che chi scrive non ha alcuna conoscenza del contenuto processuale delle indagini in corso e del fondamento delle notizie diffuse dal Nyt, va comunque osservato che nel dibattito di questi giorni è mancato ogni riferimento ad una domanda pregiudiziale: cosa prevede la legge in casi come questi?
Va subito detto che secondo la legge n. 124/ 2007 ( che disciplina l’attività dei Servizi), l’Agenzia informazioni e sicurezza esterna (Aise, ex Sismi) ha il compito di ricercare ed elaborare tutte le informazioni utili alla difesa dell’indipendenza, dell’integrità e della sicurezza della Repubblica dalle minacce provenienti dall’estero, mentre l’Agenzia informazioni e sicurezza interna (Aisi, ex Sisde) ha lo stesso compito sul fronte interno contro ogni minaccia, attività eversiva ed ogni forma di aggressione criminale o terroristica. Entrambe rispondono al presidente del Consiglio e informano, tempestivamente, i ministri della Difesa, degli Esteri e dell’Interno per le materie di rispettiva competenza.
I rapporti tra il Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica e l’autorità giudiziaria sono peraltro disciplinati in ossequio ai principi di leale e reciproca collaborazione e del bilanciamento tra l’interesse di giustizia e quello di tutela della sicurezza dello Stato. A tal fine è importante ricordare che l’articolo 23 della legge citata prevede l’obbligo dei direttori delle agenzie di riferire alla polizia giudiziaria (a sua volta obbligata dal codice di procedura a fare altrettanto, “senza ritardo”, nei confronti del pubblico ministero competente) ogni notizia di reato di cui vengano a conoscenza a seguito delle attività svolte dal personale dipendente. E l’adempimento di tale obbligo può essere solo ritardato (non omesso), ma su autorizzazione del presidente del Consiglio. Dunque, ai Servizi spettano fondamentali compiti di prevenzione, ma non attività di indagine giudiziaria in senso stretto, riservate esclusivamente alla polizia giudiziaria ed alla magistratura. Si tratta di previsioni che costituiscono una scelta virtuosa del sistema italiano, anche in chiave di sinergia istituzionale e di efficace contrasto del terrorismo.
Tornando al caso Regeni, ecco allora, alla luce della normativa vigente, le domande da porre all’Aise ( ove sia confermato che tale agenzia abbia ricevuto il predetto dossier) ed al governo:
1) l’Aise ha trasmesso alla polizia giudiziaria le notizie ricevute dalle autorità statunitensi?
2) se lo ha fatto, la polizia le ha inviate, dopo eventuali approfondimenti, alla Procura di Roma?
Se le risposte sono affermative, il problema non esiste e tocca solo ai pubblici ministeri romani valutare in assoluta autonomia e - se del caso - utilizzare le informazioni ricevute.
Ma se l’Aise non ha inviato alla polizia quelle specifiche informazioni, si pongono altre domande:
3) è intervenuto un provvedimento del presidente del Consiglio che ha autorizzato tale ritardo?
4) se sì, quale ne è stata la motivazione, posto che la legge prevede che l’inoltro sia ritardato solo “quando ciò sia strettamente necessario al perseguimento delle finalità istituzionali del Sistema di informazione per la sicurezza” (il che non sembra pertinente al caso Regeni)?
Se non è intervenuto alcun atto di questo tipo, le ragioni del mancato doveroso inoltro delle informazioni a chi stava indagando sono da chiarire sotto ogni profilo, con il contributo del presidente del Consiglio, quale responsabile del Sistema dell’intelligence. Né può bastare una risposta del tipo “ma noi già sapevamo del coinvolgimento dei servizi egiziani” nella tragica vicenda. O del tipo: “il reato era già noto”. La notizia di reato di cui è per i Servizi obbligatorio l’invio alla polizia, infatti, può riguardare anche un reato di cui sia già nota la consumazione, mentre ogni valutazione circa il suo effettivo rilievo rispetto alle indagini (anche sotto il profilo del rafforzamento di ipotesi già sotto esame) e la sua eventuale utilizzazione in forma legale spetta esclusivamente alla Procura ed ai presidi di polizia giudiziaria che indagano.
Un’ultima osservazione: fortunatamente, in questa storia, non c’entra il segreto di Stato che, a quanto è dato di sapere, non risulta apposto- opposto: anzi è proprio la pertinenza della notizia a fatti notori che viene addotta come giustificazione della sua presunta irrilevanza investigativa.
L'imprevedibile Trump prende la svolta interventista e concede maggiori poteri ai suoi generali.
La Repubblica, 22 agosto 2017 (p.d.)
C'era una volta il Donald Trump isolazionista. In campagna elettorale diceva: «Basta missioni all’estero, è l’America la nazione che dobbiamo ricostruire». La guerra in Afghanistan? «Denaro sprecato, ritiriamoci subito» (un tweet del 2016). E c’è adesso il presidente Trump che rinuncia a un’altra delle sue promesse. Con il risultato paradossale che l’Afghanistan diventa da oggi una “sua” guerra. Qualsiasi rovescio sul terreno entrerà nel bilancio della sua presidenza. Il frastuono delle armi copre per un attimo gli ultimi due scandali: il Russiagate; e l’inaudita indulgenza verso i neo-nazisti di Charlottesville. Mentre il terrorismo islamico insanguina l’Europa, ecco un presidente americano che torna a parlare di talebani, di guerra al fondamentalismo, di nuove truppe da mandare al fronte. Nello stesso giorno in cui partono le grandi manovre militari congiunte con la Corea del Sud, in un altro teatro geostrategico ad alta tensione. (E sullo sfondo, c’è pure il mistero degli incidenti a ripetizione che colpiscono la Settima Flotta, proprio quella di stanza nell’Asia- Pacifico).
La decisione di inviare nuovi soldati americani in Afghanistan, in contro-tendenza rispetto ai piani di disimpegno totale annunciati da Barack Obama, è un prezzo che Trump paga per il suo strisciante “commissariamento” da parte dei militari. Avviene in una fase di difficoltà acuta della sua presidenza, coi sondaggi che scivolano ai minimi storici perfino negli Stati operai come il Michigan che lo avevano miracolato l’8 novembre. I mesi passano e il bilancio di governo è magrissimo, la contro-riforma sanitaria non c’è stata, la riduzione delle tasse dipende da quei gruppi parlamentari repubblicani che ormai diffidano apertamente del loro presidente. Nel caos di una Casa Bianca dove si susseguono i licenziamenti in tronco, restano gli uomini in divisa a garantire un sembiante di solidità, sangue freddo, disciplina. Lo spostamento del baricentro di potere verso i militari è confermato dal licenziamento di Stephen Bannon venerdì scorso. Bannon è un estremista di destra ma anche un tenace isolazionista. E’ contrario ad aumentare le truppe americane in Afghanistan e su questo aveva avuto vari scontri con la terna di generali che circondano Trump: McMaster capo del National Security Council, Mattis alla Difesa, Kelly capogabinetto. La cacciata di Bannon è una vittoria dei generali, che ora incassano un invio di nuove truppe americane all’estero.
L’Afghanistan è un conflitto interminabile, ormai più lungo del Vietnam. Iniziò con George W. Bush poco dopo l’attacco dell’11 settembre 2001, si trascina da quasi 16 anni con risultati alterni ma per lo più deludenti. Ogni volta che gli americani stanno per ritirarsi o comunque riducono sostanzialmente la loro presenza, i talebani rialzano la testa. L’idea di “nazionalizzare” la guerra delegando tutte le responsabilità al governo di Kabul e alle sue forze armate, si è rivelata fin qui un’illusione. Obama fu a suo tempo protagonista di un memorabile braccio di ferro con il Pentagono che voleva a tutti i costi un “surge”, un forte incremento del dispositivo militare, al termine del primo mandato. Obama cedette alle richieste dei generali a condizione che il “surge” fosse temporaneo e accompagnato da una data certa per il ritiro. Sembrò sul punto di mantenere la promessa fatta agli americani, alla fine del suo secondo mandato la presenza di soldati Usa era diventata quasi simbolica. Ma non c’era stato un ritiro totale. Ad oggi restano circa 9.000 militari Usa in Afghanistan, su una presenza Nato di 13.000. Già a giugno il segretario alla Difesa Mattis aveva convinto Trump ad autorizzare l’invio di altri 4.000 soldati. A questo si aggiunge un ripensamento di strategia complessiva che abbraccia tutto il teatro “AfPak”, cioè Afghanistan più Pakistan. Da anni infatti il Pakistan è un santuario di protezione di forze integraliste, inclusi i talebani. Fin dai tempi dell’uccisione di Osama Bin Laden che si nascondeva sul territorio pakistano, l’opinione pubblica americana scoprì quanto poco affidabile fosse un paese teoricamente alleato degli Stati Uniti, al quale Washington continua a fornire aiuti militari.
Bannon ha precipitato i tempi del suo licenziamento con un’intervista in cui ridicolizzava l’opzione militare in Corea del Nord… minacciata dallo stesso presidente. Gaffe, peccato di presunzione? Forse no. L’ex consigliere dell’estrema destra sentiva arrivare il conto per la “militarizzazione” di questa Casa Bianca allo sbando. Trump sembra rispettare ormai solo due gruppi di persone: i familiari stretti e gli alti comandi delle forze armate. Questi ultimi lo risucchiano verso una logica imperiale, una continuità nella politica strategica. Tutto il contrario dell’America First che l’operaio di Detroit attende con impazienza da sette mesi.
«La rimozione delle statue “sudiste” ha fatto riesplodere tensioni latenti che ormai degenerano in vero conflitto sociale, non più soltanto fiammate di rabbia dopo le violenze della polizia sui neri».
Il Fatto Quotidiano, 21 agosto 2017 (p.d.)
Siamo nel grande subbuglio americano. Adesso che Donald Trump si è voluto intromettere nella montante diatriba tra suprematisti bianchi e attivisti antirazzisti, coi suoi provocatori commenti e con la sua iper-provocatoria equidistanza dalle parti, la questione è divenuta di portata nazionale, con echi internazionali. Come se davvero solo ora, fuori tempo massimo, gli americani scoprissero la contrapposizione frontale destra-sinistra che in altri luoghi del dibattito politico è superata e archiviata.
L’oggetto del contendere non sfiora nemmeno la cosa sociale, né mette in discussione i principi del capitalismo americano e della piramidale distribuzione delle ricchezze. Il conflitto è interamente abbarbicato all’idea di razza, alle interpretazioni di diritto, sopraffazione e risarcimento, e a quel proposito di “salvare la vecchia America” su cui questo presidente ha trasformato un’incerta campagna elettorale in un prodigio. Questo confronto sempre più acre, acuito dalla partecipazione della traballante amministrazione-Trump, dimostra ancora una volta che la questione della razza in America non solo non è risolta, ma nemmeno anestetizzata. E che gli incidenti a sfondo razziale che hanno punteggiato l’ultimo biennio dell’amministrazione Obama, in particolare quelli che hanno messo sul banco degli accusati le forze di Polizia e il loro rapporto con la comunità afroamericana, erano solo il battistrada di un fronteggiamento che adesso sta scalando rapidamente i gradi del conflitto sociale.
Non è più questione di esplosioni ingiustificate di violenza a sfondo razzistico a opera di agenti indottrinati a produrre distinguo anticostituzionali nello svolgimento delle loro mansioni. A impadronirsi dello scontro è la piazza e le fazioni contrapposte di due visioni incompatibili dell’America d’oggi. Un’America autoprotezionistica, razzista e “chiusa” e un’America progressista e “aperta”, ora dai tratti insolitamente belligeranti. L’insofferenza tra le due parti è divenuta altissima e sono bastati pretesti, come il procedimento di rimozione di statue dei combattenti confederati nella Guerra Civile, per stabilire un’atmosfera di scontro sociale che aggrava il senso d’impotenza di cui l’America della politica ufficiale si sente investita. Quale degli eletti a Washington ha vere chances di parlare agli americani in turbolenza, con l’opportunità d’essere ascoltato? Esistono leader acclarati, in ciò che resta dei due grandi partiti?
Trump ha cominciato a etichettare quei dimostranti antirazzisti come membri di una frangia “alt-left”, parte di una sinistra alternativa fuori dagli schemi della politica tradizionale. Altrettanto, i “fascisti” presentatisi a Chalottesville, città della venerabile Università della Virginia, con torce e bastoni per urlare che l’America deve restare bianca, dai media vengono etichettati come “alt-right”, destra alternativa. Due “non appartenenze” politiche, due tribù aliene, che accendono uno scontro da cui la Washington del Congresso si sente estranea e nel quale non vorrebbe sporcarsi le mani. Ma nel quale, invece, un presidente in delirio ha preso ad affondare le mani, sull’onda del suo protagonismo. È spuntato il tono derisorio e paternalistico dei suoi tweet, i suoi ammiccamenti all’area grigia del razzismo e infine le lodi pronunciate da David Duke, vecchio leader del Ku Klux Klan, per la sua onestà e il suo coraggio.
È uno scenario di caos: un presidente instabile, disinformato, divisivo; un Congresso immobilizzato in un’impotenza votata solo al contenimento dei danni; uno slancio partecipativo popolare che percepisce questa situazione d’emergenza come un risveglio in cui schierarsi da una parte o dall’altra. Una destra estrema che prova a compattare i mille gruppuscoli locali e la crescente insofferenza di chi assiste a questo smantellamento dell’etica americana - non ultimo il drappello di Ceo delle corporation, ritiratisi precipitosamente dal comitato di consultazione attivato dagli amministratori economici di Trump.
La sensazione d’emergenza sale: l’America deve verificare i propri principi fondatvi, se un presidente ammicca a chi scende in piazza per rilanciare la questione che la stessa America bianca ha generato, allorché ha letteralmente inventato il problema della razza. Destra e sinistra alternative ora sono schierate per riesaminare l’interrogativo originale: cos’è l’America? Una repubblica multirazziale o un sistema maschilista, nel quale solo i bianchi hanno diritto a piena cittadinanza? Riaffiora la vecchia narrativa connessa al mito dell’innocenza e falsamente simboleggiata proprio da quelle icone confederate che gli scalmanati separatisti - e un benevolo presidente - provano a difendere. In questo scenario, venerdì è arrivata la cacciata di Stephen Bannon, stratega della campagna di Trump e architetto della sua visione, nella quale ha istillato i principi da ras dell’ultradestra e lo spregiudicato uso delle fake news di cui era l’orchestratore. Trump lo sacrifica a chi gli chiede un gesto di ragionevolezza. Inutile dire che l’immediato riposizionamento di Bannon sarà alla testa di quelle milizie della alt-right che puntano a destabilizzare la nazione. Almeno fin quando la crisi non finirà per sommergere la Casa Bianca.
«». il manifesto, 20
agosto 2017 (c.m.c.)
Brava Ada Colau a convocare subito una manifestazione a Piazza de Catalunya, nemmeno 24 ore dopo l’orribile massacro. Bravi i barcellonesi che a centinaia di migliaia hanno risposto all’appello gridando «no tinc por». E bravi i cittadini globali che si sono uniti a loro, piangendo per la ferita inferta alla città simbolo dell’accoglienza e dell’inclusione, ma anche per le proprie vittime: impressionante la cifra di 35 nazionalità. Hanno espresso, oltre alla pena per i corpi maciullati, la protesta per l’insulto che è stato fatto a quello che viene chiamato il «nostro libero modello di vita».
E però c’è qualcosa che non mi convince nella ormai ripetuta proclamazione dei nostri valori, non sono certa che la nostra idea di libertà sia davvero così acriticamente proponibile ad un mondo in cui la maggioranza degli esseri umani ne sono stati privati.
So bene che a proporre questo discorso si entra su un terreno scivoloso, quasi si volesse negare l’importanza dei diritti e delle garanzie individuali che la Rivoluzione francese ci ha conquistato, così come il sistema democratico-borghese che accorpa oramai quasi tutto l’occidente. Non vorrei scambiarlo con nessun altro sistema attualmente vigente, quale che sia la sua denominazione. Per questo, del resto, penso si debba difendere un’idea di Europa che lo salvaguardi dal vortice terrificante che attraversa il mondo.
E però non posso non chiedermi se questo modello, questa idea di libertà, possono davvero risultare convincenti per chi ne vive la contraddizione, per chi abita l’altra faccia del modello: una moltitudine di esseri umani, quelli che disperatamente attraversano il Mediterraneo e vengono respinti; chi vive nelle desolate periferie urbane e patisce una discriminazione di fatto (no, non «legale», per carità!); chi abita i villaggi del Sahel o mediorientali.
La nostra orgogliosa riaffermazione «non abbiamo paura» ha certamente un senso molto positivo: vuol dire non sopprimeremo la libertà, non ricorreremo ad antidemocratiche misure di polizia, non ridurremmo per garantirci sicurezza le nostre libertà. È un messaggio importante ed è bello che a Barcellona sia stato riaffermato a Piazza de Catalunya. Ma non basta, e, anzi, ripeterlo, se non ci si aggiunge qualche cos’altro, rischia di essere controproducente.
Siamo tutti consapevoli che la disfatta che l’Isis sta subendo sul territorio non rappresenta affatto la fine della minaccia terrorista. Che, anzi, lo smantellamento delle sue roccaforti potrebbe rendere anche più intenso il ricorso alle azioni di gruppo, o persino individuali, che colpiscono senza possibilità di prevedere come e dove. Sappiamo oramai anche che è ben lungi dall’essere esaurito il reclutamento di giovani jihadisti pronti a morire. Che provengono dall’Oriente, dal Sud, ma sempre più spesso anche dalla strada accanto. Contro di loro non c’è polizia che tenga, una sicurezza militare è impossibile.
La sola ancorché ardua via da imboccare sta innanzitutto nell’interrogarsi su cosa muove l’odio di questi ragazzi. Non l’abbiamo fatto abbastanza. Non ci riproponiamo la domanda con altrettanta forza quando ribadiamo la superiorità della nostra idea di libertà. E così questo nostro atto di coraggiosa resistenza rischia di suonare inintellegibile a chi di quella libertà gode così poco. Perché chiama in causa non solo il nostro orrendo passato coloniale, le responsabilità per le rapine neocoloniali del dopoguerra, il razzismo di fatto, le sanguinose, offensive guerre che continuiamo a produrre con la scusa di portar la democrazia. Queste sono responsabilità di governi che anche noi combattiamo, anche se dovremmo farlo con maggiore vigore. ( Ha ragione Ben Jelloun che si è chiesto perché non abbiamo portato dinanzi alla Corte per i delitti contro l’umanità il presidente Bush, il maggiore artefice dell’esplosione jihadista).
E però c’è qualcosa che tocca a noi, proprio a noi di sinistra, fare: ripensare il nostro stesso, superiore modello di democrazia, ripensarlo con gli occhi dell’altro, dell’escluso, sforzarsi di capire la rabbia che induce al martirio. Non per giustificarlo, per carità, e neppure per chiudere gli occhi sulle occultate manovre di potere che guidano e finanziano il terrorismo. Ma – ripeto – per capire e impegnarsi a ripensare il nostro stesso modello di civiltà, all’ individualismo che la caratterizza, tant’è che la democrazia la decliniamo sempre più in termini di diritti e garanzie personali, non come rivendicazione di un potere che deve riuscire a liberare l’intera umanità.Penso che questo bisognerebbe gridarlo nelle piazze, aggiungendo un impegno politico al «non abbiamo paura».
L’Europa, che gli attentati vogliono colpire, è forse il meglio di questo orrendo mondo globale, ma non è innocente, non può essere riproposta semplicisticamente come punto d’approdo del processo di civilizzazione.
Un articolo spietatamente veritiero sulle ragioni degli attentati in Europa e sulle morti, anche quelle taciute, che la folle crescita economica sta producendo. Il Fatto Quotidiano online, 19 Agosto 2017 (i.b.)
La notizia dell'ennesimo attentato che ha colpito l'Europa sta riempiendo giornali, tv e blog di immagini e video. All’indignazione per le tante vittime innocenti si intrecciano i commenti di intellettuali, giornalisti e politici. Purtroppo, come al solito, si tratta di commenti fuorvianti che cavalcano l’emozione del momento, completamente incapaci di mostrare una visione d’insieme. La quasi totalità delle opinioni che ci apprestiamo ad ascoltare nello tsunami dis-informativo che giungerà nelle nostre case non ci spiegheranno i perché di tali gesti che sono solo sintomi di una grave malattia. Una malattia che è la fine del modello di sviluppo del mondo occidentale che, per perseverare nella sua folle crescita economica, deve depredare nuovi territori sempre con maggiore voracità.
Il fine nei prossimi giorni sarà sempre lo stesso: dividere in modo ipocrita il mondo tra buoni e cattivi, in modo da permettere a coloro che esercitano il vero potere di raggiungere gli obiettivi prefissati. Obiettivi atti a giustificare nuove spese militari, ulteriori restrizioni delle libertà in Occidente e la possibilità di usare, ancora un volta, la religione come maschera per celare la vera posta in palio che è la razzia di petrolio, gas e stupefacenti. Negli ultimi anni pianificate guerre dirette e per procura hanno destabilizzato un’importante area geografica. Le aggressioni all’Iraq, all’Afghanistan, alla Libia, alla Siria hanno fatto montare la rabbia. Rancori e odi che si sono incanalati in tanti disadattati europei usati come concime per seminare paura ma anche in gruppi radicali e terroristici. Gruppi come Al Qaeda e Isis, che però sono stati usati e finanziati, come è accaduto in Siria, in maniera strumentale dagli Stati Uniti che si sono autoproclamati portatori sani di democrazia e libertà.
L’invito che sento di rivolgere è di non limitarsi a volerinterpretare l’immagine di un puzzle solo con l’ultimo pezzo che ci viene mostrato dai mass media. Per rispettare le vittime degli attentati non serve essere informati su che musica ascoltassero e di quali film fossero appassionati, la vera sfida è spegnere la Tv e trovare gli altri tasselli del puzzle, quelli che poi danno la possibilità di vedere il quadro d’insieme, quello che è vietato mostrare. Secondo uno studio dell'associazione privata Council on Foreign Relations, solo nel 2016 il premio Nobel per la Pace, Obama, ha permesso che fossero sganciate ben 26.172 bombe su ben sette Paesi sovrani (Siria, Iraq, Afghanistan, Libia, Yemen, Somalia e Pakistan). Si tratta di tre bombe ogni ora per 24 ore al giorno che hanno ucciso migliaia e migliaia di civili innocenti come coloro che passeggiavano sulla Rambla a Barcellona.
Secondo un rapporto del 2014 dell'Ong britannica Reprive, per ogni “terrorista” ucciso nella guerra dei droni combattuta dagli Usa, le vittime civili sono state 28. In dieci anni, su 41 terroristi assassinati i droni hanno ucciso 1.147 innocenti. Uomini, donne e bambini di cui giornali e Tv non ci renderanno mai conto.
Guai se i fuggitivi dagli inferni del Terzo mondo danneggiano il turismo firmato Unesco! Rigettiamoli in mare e salviamo il nostro Pil, chiede l'assessore al turismo dell'indigena Sicilia. Il FattoQuotidiano, 18 agosto 2017, con postilla
«In un'intervista al quotidiano La Sicilia, Anthony Barbagallo ha spiegato che a suo avviso la presenza di rifugiati e richiedenti asilo "danneggerebbe" il turismo italiano e deturperebbe il patrimonio paesaggistico d'eccellenza della Penisola: "Non sono razzista e sono per l’accoglienza, ma con alcuni limiti di buon senso"»
“L’immigrazione danneggia le nostre eccellenze paesaggistiche”. Ad affermarlo è l’assessore al Turismo della Regione Sicilia, Anthony Barbagallo, in un’intervista rilasciata al quotidiano La Sicilia. “Non sono razzista e sono per l’accoglienza, ma con alcuni limiti di buon senso – prosegue il politico del Pd che, nel proprio profilo Facebook riporta la pagina del giornale con le sue parole – Uno di questi: non distribuire i profughi nei comuni turistici. Non si possono fare Sprar con decine di migranti a Taormina, a Bronte o nel patrimonio Unesco. I migranti vanno distribuiti altrove. Perciò chiedo ai nostri solerti prefetti di esentare dall’obbligo di accoglienza i sindaci dei comuni turistici siciliani”.
Secondo Barbagallo la deroga riguarderebbe circa una cinquantina di Comuni: tutti quelli sedi di siti Unesco, più quelli a evidente vocazione turistica. “Non è difficile, secondo me si può fare – ha aggiunto – Sin da subito”. Tra le altre emergenze che danneggiano il turismo nell’Isola, l’assessore ha citato anche “i pesantissimi danni d’immagine” causati dai “rifiuti, per i quali, oltre ai controlli, urge una rivoluzione culturale” e quest’anno dagli incendi: “Calampiso, con le immagini degli sfollati in tv – ha ricordato Barbagallo – ma anche Piazza Armerina con tre ordigni bellici esplosi in mezzo a una lingua di fuoco: sembrava la fine del mondo e io mi sono assunto la responsabilità di sospendere uno spettacolo a Morgantina”.
postilla
Il sig. Antony Barbagallo vive in Sicilia, regione i cui abitanti sono il prodotto di successive migrazioni. Sembra non sapere che le bellezze di cui la Sicilia è piena sono opera di migranti, venuti in gran parte dai paesi che sono oggi gli stessi da cui fuggono i disperati che vorrebbe rimuovere. Certamente non sa che i migranti di oggi fuggono dai loro territori perché sono stati sfruttati, devastati e resi deserti per ottenere il benessere nel quale vive. Se l’Unesco si occupasse di educazione degli adulti potrebbe forse insegnare al sig. Barbagallo qualcosa di utile. Ma è, ahimè, solo un’agenzia mondiale per lo sviluppo del turismo nei paesi ricchi, quindi finirà per raccomandare ai prefetti di accogliere le sue richieste. Oppure provvederà ancor prima il solerte Marco Minniti, che i prefetti comanda.
I ministri degli esteri che si sono succeduti nei governi ENI-Renzi continuano a smentire le reiterate dichiarazioni del
New York Times. Si coprono il viso di fango pur di non rinunciare agli affari, politici e petroliferi in Egitto e Libia. il Fatto Quotidiano, 19 agosto 2017
«Sulla verità per Giulio Regeni, promessa a più riprese dalle nostre istituzioni, nessun passo avanti. Secondo il governo italiano, nell’articolo del New York Times non ci sono notizie»
Il governo smentisce ancora il
New York Times. Ieri Palazzo Chigi ha accettato di rispondere alle domande del
Fatto Quotidiano, le stesse pubblicate in prima pagina il 17 agosto per chiedere chiarimenti sulle rivelazioni del giornale statunitense. In un passaggio della lunga inchiesta sulla morte del ricercatore triestino, il
Nyt ha raccontato delle “informazioni esplosive” acquisite dai servizi segreti americani nelle settimane dell’omicidio di Regeni, che dimostravano la mano dei servizi di Al-Sisi nel rapimento e nella tortura del ricercatore triestino, e furono subito comunicate al governo Renzi: “Avevamo l’evidenza incontrovertibile della responsabilità degli apparati egizia
Le domande del Fatto Quotidiano sono rivolte ai protagonisti politici della vicenda: i vertici dell’esecutivo di ieri e di oggi; l’ex premier Renzi, l’ex ministro degli Esteri Gentiloni (oggi presidente del Consiglio), l’ex ministro dell’Interno Alfano (oggi alla Farnesina), l’ex responsabile dei Servizi segreti Minniti (oggi al Viminale).
Le risposte sono arrivate unicamente da Palazzo Chigi. Con una nuova smentita: “Confermiamo quanto detto nella nota diramata a Ferragosto: non c’è stata comunicata nessuna prova esplosiva, né elementi di fatto”.
Abbiamo chiesto di chiarire il contenuto delle comunicazioni tra la Casa Bianca e l’Italia in quei giorni, e il motivo per cui quelle informazioni furono ignorate. Ma per il governo non c’è niente da aggiungere: “Nei contatti tra le Amministrazioni non c’è stata alcuna rivelazione”.
Abbiamo chiesto poi di chiarire il comportamento dei nostri Servizi segreti e il ruolo dell’Eni (secondo la fonte del Nyt, interpellata poi da Repubblica, l’azienda avrebbe “affiancato i Servizi segreti per cercare una soluzione”). “I nostri servizi di informazione – la replica – hanno lavorato e lavorano per aiutare ad accertare la verità sulla morte di Giulio Regeni. Eni è una grande azienda italiana e internazionale, che opera in diversi Paesi, tra cui l’Egitto, e che è spesso in contatto con la nostra rete diplomatica”. L’Eni quindi ha collaborato, ma specificano dal governo, “non c’è stato alcun affiancamento”.
Abbiamo chiesto, infine, se non fosse poco più che una velleità confidare in un successo dell’indagine della Procura di Roma sulla morte di Regeni, vista l’assenza di collaborazione tra governo italiano ed egiziano. “Possiamo ribadire – replica Palazzo Chigi – che il governo ha collaborato in maniera assidua e puntuale, fin dal primo momento, con la Procura di Roma. E ne ha pienamente supportato l’attività investigativa nel quadro della cooperazione giudiziaria con la procura generale del Cairo”. La stessa, aggiungiamo noi, che per settimane ha prodotto solo mistificazioni e depistaggi.
L'Australia come l'Europa: respingimenti e campi di detenzione. La vita nei campi di detenzione australiani sull'isola di Nauru e Manus raccontate nel documentario di Eva Orner.
Al Jazeera 17 Agosto 2017 (i.b.)
Chi intraprende il viaggio attraverso l'Oceano Indiano in cerca di asilo e in Australia trova un posto inospitale quanto l'Europa. I richiedenti asilo vengono rinchiusi nei campi di detenzione sulle isole lontane di Manus e Nauru. Il film della regista Eva Orner raccoglie le testimonianze dei richiedenti asilo e di informatori che si sono infiltrati. Un estratto del film è visibile sul sito di Al Jazeera (i.b.).
CHASING ASYLUM: AUSTRALIA'S OFFSHORE DETENTION CENTRES
No asylum seeker arriving in Australia by boat will ever be settled in the country. With this harsh policy, Australia's government has stemmed the flow of hopeful asylum seekers in reaching its shores.
Anyone picked up making the treacherous journey across the Indian Ocean is sent to Australia's offshore detention camps on the remote tropical islands of Manus and Nauru.
Once there, men, women and children are held in indefinite detention, away from media scrutiny.
Featuring never-seen-before footage of appalling living conditions and shocking testimonies from detainees and whistle-blowers who worked in the camps, Chasing Asylum exposes the effect of Australia's brutal policy for those seeking a safer home.
"I've been making films for more than 20 years and this is the hardest film I have ever made," filmmaker Eva Orner told Al Jazeera.
"Chasing Asylum is a film about places you are not allowed to go to and people you are not allowed to talk to. And halfway through the making of the film, it became a criminal act with a prison sentence of up to two years for people working with asylum seekers to speak out about what was happening."
Quick facts:
- As of May 31, 2017, there were 1,186 refugees in detention on Nauru and Manus Island, 43 of them are children.
- The asylum seekers spend an average of 443 days in immigration detention.
- Six refugees on Nauru volunteered to be resettled in Cambodia, at a cost of 55 million Australian dollars - three of them have since returned to their country of origin.
Dopo le documentate denunce della stampa d'Oltreoceano anche i media italiani più vicini ai governi ENI grondano indignazione. Meglio tardi che mai. Articoli di Goffredo De Marchis e Francesca Caferri.
laRepubblica, 17 agosto 2017
REGENI, LITE SUIDOSSIER DAGLI USA
IL GOVERNO: MAI RICEVUTO DOCUMENTI
di Goffredo De Marchis
«Il New York Times:l’Italia fu informata sulle responsabilità dietro la morte del ricercatoreSalvini: gravissimo. I grillini: riaprite le Camere. I genitori di Giulio inEgitto a ottobre»
Il governo è sicuro: non esiste alcun documento trasmesso in via ufficiale dall’amministrazione americana all’esecutivo italiano sulla morte di Giulio Regeni. Dopo l’articolo del New York Times,
la sera di Ferragosto c’è stato un giro di telefonate tra gli attori dell’esecutivo: Gentiloni, Alfano, Minniti e l’ex premier Renzi. Con incarichi diversi, ognuno aveva un ruolo nella vicenda anche al tempo dei fatti raccontati dal quotidiano Usa: alla Farnesina, alla presidenza del consiglio, al Viminale, ai servizi segreti. Nessuno ha ricevuto niente. Mai Barack Obama, nei suoi incontri con il presidente del Consiglio Renzi, ha parlato del ricercatore ucciso. E comunque tutti gli atti in possesso dell’esecutivo sono stati consegnati alla Procura di Roma che indaga sull’omicidio. Questa è la versione di Palazzo Chigi.
Dunque, il New York Times sbaglia, perlomeno nel collegare le “prove esplosive” a livelli istituzionali italiani. Un altro conto sono gli scambi tra intelligence, ma questo non coinvolgerebbe responsabilità politiche. Il presidente della commissione Esteri del Senato, Pier Ferdinando Casini, parla di «bufala» del Nyt, e si spinge a dar voce ad alcuni sospetti che circolano in ambienti di governo: «Con quell’inchiesta si vogliono colpire gli interessi italiani in Egitto e in particolare quelli dell’Eni».
Il ritorno dell’ambasciatore italiano al Cairo non subirà uno stop. Ma nella capitale egiziana si preparano ad andare anche i genitori di Regeni. Lo faranno il 3 ottobre, anche se la madre di Giulio, Paola Deffendi, non esclude un viaggio anticipato per «prendere le carte, quelle vere». In un’intervista a Rainews24, i genitori del ricercatore non mettono in discussione la scelta di Gentiloni di riaprire i rapporti diplomatici con Al Sisi. Il punto è usare argomenti diversi dal nome di Giulio, dicono. La ragion di Stato, la presenza italiana in un Paese chiave per le dinamiche mediterranee. Ma non il nome di Giulio.
La mamma e il papà di Regeni chiedono di essere accompagnati al Cairo da «una scorta mediatica» per tenere vivo l’interesse sul caso. Iniziativa sostenuta dal presidente del sindacato dei giornalisti Beppe Giulietti. Il primo a chiedere un congelamento del ritorno dell’ambasciatore, almeno per il tempo utile a tradurre le ultime carte inviate dagli investigatori egiziani. Una linea che trova qualche sostegno anche tra le forze politiche.
Per il momento però le opposizioni sostengono la linea dura puntando il dito sulla scelta diplomatica del governo e chiedendo chiarimenti sui fatti rivelati dal New York Times. Alessandro Di Battista accusa Gentiloni, Renzi, Minniti e Alfano: «Sono traditori della patria. Vengano riaperte le Camere e i protagonisti riferiscano in aula ». I 5 stelle chiedono a una commissione d’inchiesta parlamentare sul caso. Anche Sinistra italiana chiede un informativa urgente, così come Pippo Civati che presenterà un’interrogazione parlamentare. Matteo Salvini incalza: «Se la ricostruzione del Nyt fosse vera, sarebbe gravissimo». Il presidente dell’Europarlamento Antonio Tajani invece non critica la decisione del governo: «Ma questo non significa non continuare a cercare la verità». Verità che l’Egitto giura di aver sempre detto e il ministro degli Esteri del Cairo Ahmed Abou Zeid dice: «Dopo l’ambasciatore, ora tornino i turisti».
L’UOMO CHE PER OBAMA SEGUÌ IL CASO:
“ORDINAI AGLI 007: AIUTATE GLI ITALIANI”
di Francesca Caferri
«La fonte del Nyt:“Le informazioni arrivarono alla vostra intelligence Era chiaro che il delittofu voluto dai servizi egiziani e che i vertici del regime sapevano”».
«Chiedemmo dipassare agli italiani quante più informazioni possibili. La scelta di nontrasmettere tutto quello che avevamo fu fatta per proteggere le fonti che ciavevano aiutato. Per questo non so dire se fu rivelata l’identità dell’unitàspecifica responsabile della morte di Giulio. Molto probabilmente quello chearrivò non era materiale che si poteva usare in un processo, perché non erastato raccolto seguendo canali tradizionali. Ma non ho dubbio alcuno che daidocumenti che trasmettemmo all’Italia si potesse capire quello di cui eravamofortemente convinti: che i servizi di sicurezza egiziani fossero responsabilidel rapimento e dell’omicidio di Giulio Regeni. E che quello che era accadutofosse noto ai livelli più alti dello Stato egiziano ».
L’alto funzionariodell’Amministrazione Obama, una delle persone che ha seguito sin dal primomomento e molto da vicino il caso del ricercatore italiano, pesa le parole unaa una. Ma le dichiarazioni arrivate ieri da Palazzo Chigi non spostano di unavirgola quello che, sempre in forma anonima, ha detto al New York Times e che oggi confermaa Repubblica: nellesettimane successive alla morte di Regeni l’intelligence americana, surichiesta del dipartimento di Stato e della Casa Bianca, trasmise ai colleghiitaliani le informazioni raccolte dai suoi uomini su quello che era accaduto alCairo fra il 25 gennaio e il 3 febbraio 2016.
La fontericostruisce la vicenda con precisione: «Seguimmo il caso di Giulio con moltaattenzione: perché ci aveva sconvolto e perché temevamo che quello che eraaccaduto potesse capitare di nuovo a uno dei nostri cittadini. Non aprimmonessuna inchiesta specifica, ma raccogliemmo tutto il materiale che potevamo.Concludemmo, con forza, che la responsabilità era dei servizi di sicurezza egiziani.Chiedemmo che la condivisione delle informazioni con gli italiani fosse unapriorità per i nostri servizi segreti: non c’era alcuna resistenza, ma volevamocon forza che il passaggio di informazioni fosse fatto senza ritardi perchécredevamo che potesse aiutare a fare giustizia. So per certo che leinformazioni furono trasmesse via servizi segreti, e non per canalidiplomatici: e che lo scambio avvenne in diverse occasioni, non in una solavolta. Tutto questo accadde nelle settimane successive al ritrovamento delcorpo di Regeni».
Quello che l’ex funzionario non sa o non può dire, è qualiinformazioni esatte siano arrivate a Roma: per evitare di identificare le lorofonti, gli americani decisero di non consegnare l’intero fascicolo ma difornire comunque tutto il possibile agli alleati: «Non so se sia stato rivelatoagli italiani quale unità fu responsabile della morte di Giulio: ma fu di certoindicata la responsabilità dei servizi di sicurezza. E il fatto che i verticidello Stato erano a conoscenza di quanto accaduto». Dette così, leparole del funzionario non aiutano a fare luce su uno dei punti più controversiche ancora oggi, a più di 18 mesi dalla morte, circonda la vicenda Regeni: sela responsabilità dei servizi di sicurezza egiziani è (almeno da parteitaliana) ormai chiara, meno semplice è capire a quale dei tre apparatiparalleli del Cairo, - la Sicurezza nazionale, i Servizi segreti veri e proprie i Servizi segreti militari, spesso in competizione l’una con l’altro - sia daattribuire il rapimento, la tortura e l’assassinio del 28nne di Fiumicello.
A domanda direttala fonte si trincera dietro a una frase interlocutoria: «Non so se siano statetrasmesse informazioni su quale fosse l’apparato responsabile », ripete. Paroleche però dicono molto: gli Stati Uniti avevano informazioni in questo senso.Ovvero, erano in grado di dire quale sia l’apparato di sicurezza responsabiledi quello che è accaduto: «Abbiamo raccolto prove incontrovertibili sulleresponsabilità», si limita a dire il funzionario. C’è solo uninterrogativo che il funzionario americano non è in nessuna maniera in grado disciogliere. Lo stesso che agita le notti di Paola e Claudio Regeni: perchéGiulio è stato ucciso? «Posso capire perché era finito nel mirino: in quellegiornate di tensione per l’anniversario di Piazza Tahrir c’era un clima diparanoia e le sue ricerche avevano destato sospetti. Ma perché sia statoucciso, e in quel modo, non so dirlo. Anche io me lo chiedo ancora ».
Il
NYT ricorda l’omicidio e rivela che col ritorno dell’ambasciatore italiano al Cairo sarà la politica e non il lavoro di polizia a determinare la conclusione del caso Regeni. 15 agosto 2017 (i.b.)
Premessa
Uno schiaffo ai media italiani. Prontamente pubblicato dal NYT Magazine all’indomani dell’annuncio del rientro dell’ambasciatore italiano al Cairo, questo dettagliato e critico riepilogo degli eventi che precedettero e seguirono la scomparsa del dottorando italiano al Cairo, fanno capire come la notizia sia importante e degna di rilievo, nonostante i media italiani lo abbiano glissato. Solo il manifesto ne ha dato notizia, ripresa qui su eddyburg.
Il capo dell'ufficio del Times al Cairo ripercorre le vicende di Giulio, contestualizzandole nel clima politico del Cairo, che dopo il colpo di stato di Sisi del 2013, “è senza dubbio un posto più duro di quanto non sia mai stato sotto Mubarak”.
L’articolo non manca di spiegare come le buone relazioni diplomatiche tra l’Italia e l’Egitto, che continuano all’indomani del colpo di stato e ignorano l’attacco ai diritti umani, si incrinano con l’indagine su Giulio e aprono “fratture dolorose all'interno dello Stato italiano”. Se da una parte, sotto le pressioni della famiglia e delle migliaia di persone che si sono mobilitate per chiedere verità su Giulio, il governo italiano chiede risposte, dall’altra parte ci sono altre priorità. Dai servizi di intelligence italiani che hanno bisogno dell'aiuto dell'Egitto per contrastare lo Stato islamico, gestire il conflitto in Libia e monitorare il flusso degli immigrati in tutto il Mediterraneo all’ ENI, con i suoi interessi e progetti relative all’estrazione di idrocarburi. D'altronde il pozzo Zohr, che come dice l’ENI “è il più grande giacimento di gas nel mar Mediterraneo e uno dei sette progetti #EniRecord” si avvia a cominciare la sua produzione a Dicembre. (i.b.)
The target of the Egyptian police, that day in November 2015, was the street vendors selling socks, $2 sunglasses and fake jewelry, who clustered under the arcades of the elegant century-old buildings of Heliopolis, a Cairo suburb. Such raids were routine, but these vendors occupied an especially sensitive location. Just 100 yards away is the ornate palace where Egypt’s president, the military strongman Abdel Fattah el-Sisi, welcomes foreign dignitaries. As the men hurriedly gathered their goods from mats and doorways, preparing to flee, they had an unlikely assistant: an Italian graduate student named Giulio Regeni.
He arrived in Cairo a few months earlier to conduct research for his doctorate at Cambridge. Raised in a small village near Trieste by a sales manager father and a schoolteacher mother, Regeni, a 28-year-old leftist, was enthralled by the revolutionary spirit of the Arab Spring. In 2011, when demonstrations erupted in Tahrir Square, leading to the ouster of President Hosni Mubarak, he was finishing a degree in Arabic and politics at Leeds University. He was in Cairo in 2013, working as an intern at a United Nations agency, when a second wave of protests led the military to oust Egypt’s newly elected president, the Islamist Mohamed Morsi, and put Sisi in charge. Like many Egyptians who had grown hostile to Morsi’s overreaching government, Regeni approved of this development. ‘‘It’s part of the revolutionary process,’’ he wrote an English friend, Bernard Goyder, in early August. Then, less than two weeks later, Sisi’s security forces killed 800 Morsi supporters in a single day, the worst state-sponsored massacre in Egypt’s history. It was the beginning of a long spiral of repression. Regeni soon left for England, where he started work for Oxford Analytica, a business-research firm.
From afar, Regeni followed Sisi’s government closely. He wrote reports on North Africa, analyzing political and economic trends, and after a year had saved enough money to start on his doctorate in development studies at Cambridge. He decided to focus on Egypt’s independent unions, whose series of unprecedented strikes, starting in 2006, had primed the public for the revolt against Mubarak; now, with the Arab Spring in tatters, Regeni saw the unions as a fragile hope for Egypt’s battered democracy. After 2011 their numbers exploded, multiplying from four to thousands. There were unions for everything: butchers and theater attendants, well diggers and miners, gas-bill collectors and extras in the trashy TV soap operas that played during the holy month of Ramadan. There was even an Independent Trade Union for Dwarfs. Guided by his supervisor, a noted Egyptian academic at Cambridge who had written critically of Sisi, Regeni chose to study the street vendors — young men from distant villages who scratched out a living on the sidewalks of Cairo. Regeni plunged into their world, hoping to assess their union’s potential to drive political and social change.
But by 2015 that kind of cultural immersion, long favored by budding Arabists, was no longer easy. A pall of suspicion had fallen over Cairo. The press had been muzzled, lawyers and journalists were regularly harassed and informants filled Cairo’s downtown cafes. The police raided the office where Regeni conducted interviews; wild tales of foreign conspiracies regularly aired on government TV channels.
Regeni was undeterred. Proficient in five languages, he was insatiably curious and exuded a low-intensity charm that attracted a wide circle of friends. From 12 to 14, he served as youth mayor of his hometown, Fiumicello. He prided himself on his ability to navigate different cultures, and he relished Cairo’s unruly street life: the smoky cafes, the endless hustle, the candy-colored party boats that plied the Nile at night. He registered as a visiting scholar at American University in Cairo and found a room in Dokki, a traffic-choked neighborhood between the Pyramids and the Nile, where he shared an apartment with two young professionals: Juliane Schoki, who taught German, and Mohamed El Sayad, a lawyer at one of Cairo’s oldest law firms. Dokki was an unfashionable address, but it was just two subway stops from downtown Cairo with its maze of cheap hotels, dive bars and crumbling apartment blocks encircling Tahrir Square. Regeni soon befriended writers and artists and practiced his Arabic at Abou Tarek, a four-story neon-lit emporium that is Cairo’s most famous spot for koshary, the traditional Egyptian dish of rice, lentils and pasta.
He spent hours interviewing street vendors in Heliopolis and at the small market behind the Ramses train station. To win their trust, he ate from the same grubby street carts as his subjects; his academic supervisor at American University warned he would get food poisoning. Regeni didn’t care: He glided through Cairo with a quiet sense of purpose.
By chance, Valeriia Vitynska, a Ukrainian he met in Berlin four years earlier, had come to Cairo for work. They reconnected. ‘‘She was more beautiful than I remembered,’’ he texted a friend. They took a trip to the Red Sea, and when she returned to her job in Kiev, they kept the relationship going over Skype. ‘‘It was very intense and beautiful,’’ Regeni’s friend Paz Zárate told me. ‘‘He was so joyful, so full of hope for the future.’’
Yet Regeni was also conscious of Cairo’s dangers. ‘‘It’s very depressing,’’ he wrote Goyder a month into his stay. ‘‘Everyone is superaware of the games that are going on.’’ In December he attended a meeting of trade-union activists in central Cairo and wrote about it, under a pseudonym, for a small Italian news service. During the meeting, he told friends, he spotted a veiled young woman taking his picture with her cellphone. It was disconcerting. Regeni complained to friends that some street vendors were hassling him for favors, like new cellphones. Then his relationship with his main contact, a burly man in his 40s named Mohamed Abdullah, took a strange turn.
Abdullah, who worked for a decade for a Cairo tabloid, in distribution, before rising to the top of the street vendors’ union, was Regeni’s guide, offering advice and introducing him to men he could interview. One evening in early January last year, the two met in an ahua — a cafe where men often smoke water pipes — near the Ramses train station. Over tea, they discussed a £10,000 ‘‘scholar activist’’ grant offered by a British nonprofit group called the Antipode Foundation. Regeni offered to apply for the money. Abdullah had other ideas. Could it be used for ‘‘freedom projects’’ — political activism against the Egyptian government? No, it could not, Regeni replied firmly. Abdullah changed tack. His daughter required surgery, and his wife had cancer. He would ‘‘jump on anything’’ for cash. Regeni, growing exasperated, gesticulated theatrically as he touched the limits of his Arabic. ‘‘Mish mumkin,’’ he said. It’s not possible. ‘‘Mish professional.’’
Two weeks later, on the fifth anniversary of the 2011 uprising, Cairo was in lockdown. Tahrir Square was deserted except for 100 or so government supporters bused in to wave Sisi signs and take selfies with the riot police. The security services had been rounding up potential protesters for weeks, raiding downtown apartments and cafes. Like most Cairenes, Regeni spent the day at home, working and listening to music. Once darkness fell he deemed it safe to leave the apartment: An Italian friend had invited him to a birthday party for an Egyptian leftist. They’d arranged to meet at a cafe near Tahrir Square.
Before heading out, Regeni listened to a Coldplay song — ‘‘A Rush of Blood to the Head’’ — and texted Vitynska. ‘‘I’m going out,’’ he announced at 7:41 p.m. It was a short walk to the subway. But by 8:18 Regeni still had not arrived. His Italian friend began trying to contact him — at first with texts, then with frantic calls.
Among the most intoxicating promises of the Arab Spring was the hope that Egypt’s detested security apparatus would be dismantled. In March 2011, in the heady early months of the uprising, Egyptians stormed the headquarters of State Security, the chief arm of Mubarak-era repression, and emerged with lists of informants, copies of surveillance photos and transcripts of intercepted phone calls. Some found pictures of themselves. There were calls for a radical overhaul of the security sector. But as the country skidded into post-revolution disorder, the talk of reform was lost. After Sisi came to power, in 2013, it became clear how little had changed.
State Security was renamed the National Security Agency, but it remained under the control of the powerful Interior Ministry, which was thought to employ at least 1.5 million police officers, security agents and informants. Officers who had been fired were reinstated and the torture chambers reopened. Opposition leaders, fearing arrest, fled the country. Human rights monitors started to count the numbers of the ‘‘disappeared’’ — critics who vanished into state custody without arrest or trial — until the monitors, too, began to disappear.
Today, Egypt is arguably a harsher place than it ever was under Mubarak. After seizing power, Sisi was elected president in 2014 with 97 percent of the vote. Parliament is stuffed with his supporters, and the jails are filled with his opponents — 40,000 people, by most counts, primarily from the banned Muslim Brotherhood, the Islamist organization founded in 1928, but also lawyers, journalists and aid workers. Sisi justifies these measures by pointing to the danger from extremists. Islamic State militants have been fighting Egyptian soldiers in Sinai since 2014; this year they sent suicide bombers into Coptic churches, killing dozens. A good number of Egyptians worry that without a firm hand, their nation of 93 million could become the next Syria, Libya or Iraq. Most of the country’s elites, fearing the kind of upheaval that followed the Arab Spring, are firmly with Sisi; many of its intellectuals, dismayed by their short-lived experiment with democracy, admit that they are out of ideas.
Unaffiliated with a political party, Sisi draws his authority from the totems of the state — generals, judges and security chiefs — who are increasingly powerful. The guiding principle of this incipient police state is to prevent a recurrence of the events of 2011, one Western ambassador, who asked to remain unnamed because he is not authorized to speak on the subject, told me as we sat in his garden last winter. In his final decade in power, Mubarak made a number of concessions. The Muslim Brotherhood won a fifth of the seats in Parliament; the press enjoyed a measure of freedom; some labor strikes were grudgingly permitted. But none of this saved Mubarak — in fact, in the view of Sisi officials, his laxity hastened his demise. The lesson was clear: ‘‘To give an inch is a mistake,’’ the ambassador said, listing the characteristics of the Sisi regime, ‘‘secrecy, paranoia, the sense that you assert power by looking strong and not showing weakness or building bridges.’’
Deciphering the inner workings of the three major security agencies has become a fixation of Egypt watchers. ‘‘It’s very opaque, like a black box,’’ Michael Wahid Hanna of the Century Foundation, a policy institute based in New York, told me. ‘‘But there are clues.’’
The security agencies are loyal to Sisi, Hanna explained, but are always jockeying for position. National Security, thought to have 100,000 employees and at least as many informants, remains the most visible. Its emergent rival is Military Intelligence, which traditionally steered clear of politics but has expanded under Sisi, who led the agency from 2010 to 2012. The General Intelligence Service is Egypt’s equivalent of the C.I.A. Hugely powerful under Mubarak, it is now viewed as somewhat diminished.
Together, these agencies enjoy inordinate influence. They own TV stations, control blocs in Parliament and dabble in business; their agents patrol the streets and the internet. They draw the red lines in Egyptian society between what is permissible and what is not. That makes Egypt a perilous place to navigate for critics: One wrong move, or even a misjudged joke (Egyptians have been jailed for their Facebook posts), can lead to imprisonment or to being barred from leaving the country. Amnesty International puts the number of disappeared at 1,700 and says that extrajudicial executions are common.
When Regeni arrived in 2015, foreigners were thought to be subject to different rules. It was true that some had run into trouble. Earlier that year, the Australian journalist Peter Greste of Al Jazeera was finally freed after 13 months in jail on charges of ‘‘damaging national security’’; a French student was expelled for interviewing democracy activists. Regeni’s academic advisers warned him to avoid contact with members of the Muslim Brotherhood. ‘‘The situation here is not easy,’’ he messaged a friend a month after he arrived. But on the whole, Regeni, his supervisor later told me, believed that his passport would protect him. His abiding fear was that he would be sent back to Cambridge before he could finish his research.
A week after Regeni vanished, Italy’s ambassador to Cairo, Maurizio Massari, was seized by a sense of foreboding. With his shock of gray hair and his polished charm, Massari was a popular fixture on the Cairo diplomatic circuit. He liked to host gatherings of Egyptian academics and politicians, and on weekends he watched soccer games with his American counterpart, Ambassador R. Stephen Beecroft. Now, he restlessly paced the long marble corridors of the Italian Embassy overlooking the Nile.
News of Regeni’s disappearance was rippling across Cairo. His friends had started an online search campaign with the hashtag #whereisgiulio. Regeni’s parents had flown in from Italy and were staying at his apartment in Dokki. A rumor circulated that Regeni had been snatched by Islamist radicals — a terrifying prospect because, six months earlier, a Croatian engineer kidnapped on the outskirts of Cairo was beheaded by Islamic State militants. The ambassador’s anxiety was amplified by the response of Egyptian officials. The Italian intelligence station at the embassy had no leads, so he sought out the foreign minister, the minister of military production and Sisi’s national-security adviser Fayza Abul Naga. All claimed to know nothing of Regeni. The most disquieting encounter was with the powerful interior minister, Magdi Abdel-Ghaffar, who took six days to agree to a meeting only to sit impassively as the Italian diplomat pleaded for help. Massari left perplexed: Abdel-Ghaffar, a 40-year veteran of the security services, had an army of informants on the streets of Cairo. How could he be in the dark?
The police started a missing-persons investigation but seemed to be pursuing some odd lines of inquiry. When detectives interviewed Amr, a leftist university professor and a friend of Regeni’s who asked that his last name not be used to protect him from retaliation, they repeatedly asked if Regeni was gay. ‘‘I told them he has a girlfriend,’’ Amr said when we met over coffee near his home in the suburb of Maadi. ‘‘Then the next guy goes: ‘Are you sure he is straight? Maybe he’s one of these bisexuals.’ ’’
‘‘I said, ‘You should just find him.’ ’’
The crisis was compounded by the arrival of a high-level Italian trade delegation. Since 1914, Italy had maintained diplomatic ties with Egypt, embracing the country even when others kept their distance. Italy was Egypt’s biggest trading partner in Europe — nearly $6 billion in 2015 — and Rome prided itself on its close ties to Cairo. In 2014 Matteo Renzi, then the Italian prime minister, became the first Western leader to welcome Sisi in his capital, and Italy continued to sell weapons and surveillance systems to Egypt even as evidence of rights abuses mounted.
The day after Massari’s meeting with the interior minister, Italy’s investment minister, Federica Guidi, flew to Cairo with 30 Italian executives, hoping to strike deals in construction, energy and the arms trade. Now Regeni was at the top of the agenda. The group went straight to Al-Ittihadiya, the main presidential palace, where months earlier, Regeni had helped the street vendors during the police raid outside its back gates. Massari and Guidi were ushered into a private meeting with Sisi, who listened gravely as the Italians outlined their concerns. But he, too, offered only sympathy.
That evening Massari hosted a reception for the trade delegation and Egyptian business leaders at the embassy. About 200 people mingled in the reception hall, sipping wine as they waited for dinner to be served. Among them was Egypt’s deputy foreign minister, Hossam Zaki, who pushed through the crowd to Massari, wearing a dark expression. ‘‘Don’t you know?’’ he said.
‘‘Know what?’’ Massari replied.
‘‘A body has been found.’’
Early that morning, the driver of a passenger bus traveling the busy Alexandria Desert Highway, in western Cairo, noticed something on the side of the road. When he got out, he discovered a body, naked from the waist down and smeared in blood. It was Regeni.
Massari rushed to the Four Seasons hotel, where Guidi was staying, and together they phoned Renzi and the foreign minister, Paolo Gentiloni. They canceled the reception, sending puzzled guests home without explanation. Then Massari and the minister went to Regeni’s apartment in Dokki, where Regeni’s parents were staying. When the ambassador embraced Regeni’s mother, Paola Deffendi, her worst fears were confirmed. ‘‘It’s all over,’’ she later told the press. ‘‘The happiness of our family was so short.’’
Massari arrived at the Zeinhom morgue in central Cairo after midnight. A small team from the embassy, including a policeman, accompanied him. At first, morgue officials refused them entry. ‘‘Open the door!’’ yelled Massari, visibly agitated. Massari was finally led into a chilled room where Regeni’s body was laid out on a metal tray.
Regeni’s mouth was agape and his hair was matted with blood. One of his front teeth was missing and several were chipped or broken, as if they had been struck with a blunt object. Cigarette burns pocked his skin, and there were a number of deep wounds on his back. His right earlobe had been sliced off, and the bones in his wrists, shoulders and feet were shattered. A wave of nausea washed over Massari. Regeni appeared to have been extensively tortured. Days later, an Italian autopsy would confirm the extent of his injuries: Regeni had been beaten, burned, stabbed and probably flogged on the soles of his feet over a period of four days. He died when his neck was snapped.
The office of Ahmed Nagy, the prosecutor who initially oversaw Regeni’s murder investigation, is on the seventh floor of the dilapidated Giza courthouse building, a few miles from Tahrir Square. On any given day, hundreds of people course through the narrow corridors — lawyers, manacled prisoners and their families. When I went to see him a few weeks after Regeni’s death, Nagy, a wiry chain-smoker, was perched behind a Louis XIV-style desk piled with papers and half-drunk cups of coffee.
In the early hours of the investigation, Nagy spoke with astonishing bluntness. He told reporters that Regeni suffered a ‘‘slow death’’ and allowed that the police might be involved: ‘‘We don’t rule it out.’’ But soon after that, the chief detective on the case suggested that Regeni died in a car crash. Lurid theories appeared in the papers and on TV: Regeni was gay and had been murdered by a jealous lover. He was a drug addict or a Muslim Brotherhood pawn. He was a spy. Several reports noted his work at Oxford Analytica, which had been founded by a one-time Nixon administration official, as a probable sign of employment by the C.I.A. or Britain’s M.I.6. At a news conference, the interior minister, Abdel-Ghaffar, dismissed suggestions that the security forces had detained Regeni. ‘‘Of course not!’’ he said. ‘‘This is the final say in the matter: It did not happen.’’
Nagy’s office was cool and dark, the blinds tightly drawn as air spewed from a noisy air-conditioning unit. With his slicked-back hair and flickering smile, Nagy affected an air of easy confidence. But the boldness he once demonstrated about the Regeni case was gone. He responded to my questions with polished evasions, lighting one cigarette after another as he spoke. ‘‘Murders can go unsolved,’’ Nagy concluded after 30 unfruitful minutes. ‘‘We will just have to wait. Inshallah, something will come of it.’’
Egyptian officials have a long record of facing crises in just this way: denial, then obfuscation, followed by running the clock in hopes that the problem will fade away. In September 2015, the month Regeni arrived, an Egyptian helicopter gunship shot dead eight Mexican tourists and four Egyptians as they picnicked in the Western Desert, having mistaken them for terrorists. Instead of apologizing, the authorities tried to blame the tour guides, then promised an investigation that has never reported any findings. The government of Mexico was furious. A month later, Egypt initially refused to admit that an Islamic State bomb had downed a Russian jetliner over Sinai, killing 224 people, even though both Russia and the Islamic State said it had.
But if Egyptian officials thought they could bluff their way out of the Regeni crisis, they miscalculated. More than 3,000 people attended his funeral in his home village, Fiumicello; across Italy, grief turned to outrage as details emerged of his agonizing torture. In the press, Regeni was often portrayed in a photo that showed him smiling with a cat in his arms. Yellow banners with the slogan Verità per Giulio Regeniappeared in cities and villages. ‘‘We will stop only when we find out the truth,’’ Renzi, the prime minister, told reporters. ‘‘The real truth, and not a convenient truth.’’
Renzi’s fury was based on more than a hunch. In the weeks after Regeni’s death, the United States acquired explosive intelligence from Egypt: proof that Egyptian security officials had abducted, tortured and killed Regeni. ‘‘We had incontrovertible evidence of official Egyptian responsibility,’’ an Obama administration official — one of three former officials who confirmed the intelligence — told me. ‘‘There was no doubt.’’ At the recommendation of the State Department and the White House, the United States passed this conclusion to the Renzi government. But to avoid identifying the source, the Americans did not share the raw intelligence, nor did they say which security agency they believed was behind Regeni’s death. ‘‘It was not clear who gave the order to abduct and, presumably, kill him,’’ another former official said. What the Americans knew for certain, they told the Italians, was that Egypt’s leadership was fully aware of the circumstances around Regeni’s death. ‘‘We had no doubt that this was known by the very top,’’ said the other official. ‘‘I don’t know if they had responsibility. But they knew. They knew.’’
Weeks later, in early 2016, John F. Kerry, then secretary of state, confronted Egypt’s foreign minister, Sameh Shoukry, during a meeting in Washington. It was a ‘‘pretty contentious’’ conversation, one Obama official told me, although the Kerry team couldn’t figure out if Shoukry was stonewalling or simply didn’t know the truth. The blunt approach ‘‘raised eyebrows’’ inside the administration, another said, because Kerry had a reputation for treating Egypt, a fulcrum of American foreign policy since the 1979 Egypt-Israeli peace treaty, with kid gloves.
By then a team of seven Italian investigators had arrived in Cairo to help with the Egyptian investigation. They were hindered at every turn. Witnesses appeared to have been coached. Surveillance footage from the subway station near Regeni’s apartment had been deleted; requests for metadata from millions of phone calls were refused on the grounds that it would compromise the constitutional rights of Egyptian citizens. Some brave Egyptian witnesses visited the investigators at their temporary office in the basement of the Italian Embassy. But even there the Italians were uneasy.
Massari, the ambassador, became concerned about embassy security after Regeni’s death; soon he stopped using email and the phone for sensitive matters, resorting to an old-fashioned paper-based encryption machine to send messages to Rome. Italian officials worried that Egyptians who worked in the Italian Embassy were passing information to Egyptian security forces; they noticed that the lights were permanently off in an apartment across from the embassy — a good spot to place a directional microphone. Massari, still traumatized by the memory of Regeni’s injuries, had become a recluse, avoiding meetings with other ambassadors. His relationship with the Egyptian government was deteriorating; Egyptian officials, infuriated by an interview he gave to an Italian TV station, determined that he was trying to pin the murder on them. ‘‘We deduced he had already taken sides,’’ Hossam Zaki, the deputy foreign minister, told me later. ‘‘He was kind of moot. Useless.’’ When Massari did venture out, people noted that he looked exhausted. Friends said he was struggling to sleep.
International pressure was building on the Egyptians. Italian newspapers sent their most dogged investigative reporters to Cairo. A website called RegeniLeaks sprang up, soliciting tips from Egyptian whistle-blowers. Regeni’s mother began her own campaign to uncover the truth, relating in a news conference that she was able to recognize his battered body only by ‘‘the tip of his nose.’’ Italian actors, TV personalities and soccer players rallied to her side. Egyptians told Deffendi that her son had ‘‘died like an Egyptian’’ — a badge of honor in Sisi’s Egypt. The European Parliament passed a stinging resolution condemning the suspicious circumstances under which Regeni had died; in London, campaigners presented a petition with more than 10,000 signatures to Parliament, calling for the British government to ensure a ‘‘credible investigation.’’ The F.B.I. was also assisting in the Italian investigation; when an Egyptian friend of Regeni’s landed in the United States, on vacation, agents pulled her aside for an interview.
This time stonewalling wasn’t going to work. ‘‘We are in deep [expletive],’’ observed a leading TV host, Amr Adeeb, on his show.
‘‘Do you speak Latin?’’ Luigi Manconi, an Italian senator who championed the Regeni family’s cause, asked when I visited him in Rome in January. ‘‘There is a phrase in Latin — arcana imperii. It means the secrets of power.’’
He paused and looked up for effect.
‘‘That is what we see in Egypt: the dark side of those institutions; the secrets in their hearts.’’
The senator was referring to Egypt’s security agencies, but what he didn’t mention was that the Regeni investigation was also exposing painful rifts inside the Italian state. There were other priorities. Italy’s intelligence services needed Egypt’s help in countering the Islamic State, managing the conflict in Libya and monitoring the flood of migrants across the Mediterranean. And Italy’s state-controlled energy company, Ente Nazionale Idrocarburi, or Eni, had its own stake. Weeks before Regeni arrived in Cairo, Eni announced a major discovery: the Zohr gas field, 120 miles off the north coast of Egypt, which contained an estimated 850 billion cubic meters of gas — the equivalent of 5.5 billion barrels of oil.
Italy is one of Europe’s most energy-vulnerable countries, which makes Eni more than just a $58 billion titan with operations in 73 countries; it makes it an integral part of Italian foreign policy. In 2014, Renzi acknowledged as much, calling Eni ‘‘a fundamental piece of our energy policy, our foreign policy and our intelligence policy.’’ In many countries, Eni’s chief executive Claudio Descalzi — a towering Milanese oilman, who has driven recent exploration efforts across Africa — knows the leaders better than Italy’s ministers do.
As the pressure to solve Regeni’s murder mounted, Descalzi, a regular visitor to Cairo, assured Amnesty International that the Egyptian authorities were ‘‘putting in maximum effort’’ to find Regeni’s killers. He discussed the case at least three times with Sisi. According to one official at Italy’s Foreign Ministry, diplomats came to believe that Eni had joined forces with Italy’s intelligence service in a bid to find a speedy resolution to the case. Eni has a long history of hiring retired Italian spies to staff its internal security division, says Andrea Greco, a co-author of ‘‘The Parallel State,’’ a 2016 year book on Eni. ‘‘They have a strong collaboration,’’ he said. ‘‘I’m sure they may have collaborated in the Regeni case, although it’s not for certain that their interests are aligned.’’ A spokeswoman for Eni says that the company was ‘‘horrified’’ by Regeni’s death and while it had no responsibility to investigate, it continued ‘‘to follow the matter very closely’’ in its interactions with the Egyptian government.
The perceived cooperation between Eni and Italy’s intelligence services became a source of tension inside the Italian government. Foreign Ministry and intelligence officials turned guarded with one another, sometimes withholding information. ‘‘We were at war, and not only with the Egyptians,’’ one official told me. Diplomats suspected that Italian spies, in an attempt to close the case, had brokered an interview by the Italian newspaper La Repubblica with Sisi six weeks after Regeni’s death. (The editor of La Repubblica maintains that the request for the interview came from the newspaper.) In it, Sisi sympathized with Regeni’s parents, calling his death ‘‘terrifying and unacceptable,’’ and vowed to find the culprits. ‘‘We will get to the truth,’’ he said.
On March 24, eight days after the interview appeared, the Cairo police opened fire on a minivan carrying five men, several with criminal records or histories of drug abuse, as it drove through a well-to-do suburb. All five were killed, and the police issued a statement calling them a gang of kidnappers who had been targeting foreigners. In a subsequent raid on an apartment linked to the men, the police said they discovered Regeni’s passport, credit card and student identity card. Soon, state media was reporting that Regeni’s killers had been identified. The Italian investigators, who were at the Cairo airport to fly home for Easter, were recalled, and the Interior Ministry thanked them for their cooperation.
In Italy, news of the shooting met with skepticism — the hashtag #noncicredo, I don’t believe it, circulated on Twitter. The Egyptian account quickly fell apart. Witnesses told several journalists (including me) that the men had been executed in cold blood. One was shot as he ran, his corpse later positioned inside the van. ‘‘They never stood a chance,’’ one man told me, shaking his head. The men’s link to Regeni crumbled: Italian investigators used phone records to show that the supposed gang leader, Tarek Abdel Fattah, was 60 miles north of Cairo the day he supposedly kidnapped Regeni.
Last fall, Egypt’s chief prosecutor told his Italian counterpart that two police officers had been charged with murder in connection with the five deaths. But an awkward question remained: If the dead men hadn’t killed Regeni, then how did his passport get into their apartment?
Italians had little doubt that the whole episode was a crude cover-up, so badly bungled that the Egyptians had incriminated themselves. Yet it had worked. The Italian detectives left Cairo, and the investigation stalled. Massari was replaced with a new ambassador who was ordered to remain in Rome. In Egypt, ‘‘Regeni’’ became a word to be whispered. ‘‘Everyone who cares about Giulio is afraid,’’ Hoda Kamel, a union organizer who helped Regeni in his research, told me. ‘‘It feels like all of the state, with all of its strength, is trying to kill the story.’’
After months of strained diplomatic ties, the Egyptian wall of denial cracked — or seemed to. In a trip to Rome last September, Egypt’s chief prosecutor, Nabil Sadek, publicly admitted that Egypt’s National Security Agency, suspecting Regeni of espionage, had been monitoring him. In a series of meetings over the next few months, he provided the Italians with documents — phone records, witness statements and a video — that showed Regeni was betrayed by several people close to him.
Muhammad Abdullah, Regeni’s contact in the street vendors’ union, was an informant for the National Security Agency. Using a hidden camera, he had taped his conversation with Regeni about the £10,000 grant (the Egyptians handed over the video). He made a statement detailing his meetings with his handler, Col. Sharif Magdi Ibrahim Abdlaal, who, he said, had promised him a reward once the Regeni case was closed.
The identity of the second person was perhaps more surprising. Italian officials came to believe that in the month before Regeni vanished, his lawyer roommate, Mohamed El Sayad, allowed officials from the National Security Agency to search the apartment. In the weeks that followed, phone records showed, Sayad spoke with two National Security Agency officials.
Sayad did not respond to requests for comment, but I had a long exchange, over Facebook, with Regeni’s other roommate, Juliane Schoki. Her account was symptomatic of the climate of mistrust in Sisi’s Cairo. According to Schoki, Sayad voiced suspicions of Regeni within days of his moving into their flat. ‘‘I think Giulio is a spy,’’ she recalled him saying.
After Regeni disappeared, she began to share that view. The two speculated that he was working for Mossad. (Regeni, she said, told her he once had an Israeli girlfriend and had visited Israel.) Schoki, who has since left Egypt, relayed this theory to Egyptian intelligence officers. ‘‘They were surprised because they had the same idea,’’ she recalled.
After Regeni died, she would sit with Sayad watching thrillers on TV, saying, ‘‘That’s exactly how it is!’’ — something that, in retrospect, ‘‘looks a bit ridiculous,’’ she admitted. ‘‘But a year ago it made perfect sense.’’
The Italians used Egyptian phone records to make other connections and discovered that the police officer who claimed to have found Regeni’s passport had been in touch with members of the National Security team that had been following Regeni. Suddenly, Regeni’s parents dared to hope the truth might surface. ‘‘The evil is unraveling slowly, like a ball of wool,’’ his parents wrote in a letter published in La Repubblica on the first anniversary of his disappearance.
But although the Egyptians admitted to surveilling Regeni, they insisted they had not abducted or killed him. And even if that could be proved, the core mystery remained: Why had he been ‘‘killed like an Egyptian’’? One common theory pointed to the work of a rogue officer. At the Interior Ministry, which controls National Security, even low-level officers enjoy considerable autonomy yet are rarely held to account, according to Yezid Sayigh, a senior associate at the Carnegie Middle East Center in Beirut. ‘‘Things may happen that Sisi does not approve of,’’ he said. But there was much else that made little sense. Which Egyptian official figured that torturing a foreigner was a good idea? Why dump his body on a busy highway, instead of burying it in the desert where it might never be found? And why produce his body as a high-level Italian delegation arrived in Cairo?
An anonymous letter sent to the Italian Embassy in Bern, Switzerland, last year and later published in an Italian newspaper, offered another explanation: Regeni had been caught in a shadowy turf war between National Security and Military Intelligence, with one group seeking to use his death to embarrass the other. The details suggested that the author of the account was intimately familiar with Egypt’s security apparatus, yet it also seemed improbable that one person could know so much. Senior American officials told me the letter was consistent, however, with broader intelligence reports of the fierce jockeying for power among rival security agencies. ‘‘They try to use cases as a lever to embarrass one another,’’ one said.
The most alarming possibility is that Regeni’s death was a deliberate message — a sign that, under Sisi, even a Westerner could be subjected to the most brutal excesses. In Rome, an official told me that when Regeni’s body was discovered, it was propped up against a wall. ‘‘Did they want him to be found?’’ the official asked. The Obama official said he believed that someone in the ‘‘upper echelons’’ of the Egyptian government may have ordered Regeni’s death ‘‘to send a message to other foreigners and foreign governments to stop playing with Egypt’s security.’’
No senior Egyptian official agreed to speak to me for this article. But Hossam Zaki, the former deputy foreign minister who is now assistant secretary general at the Arab League, told me that Egyptian officials believe that the murder was the work of an unidentified ‘‘third party’’ seeking to sabotage Egypt’s relations with Italy. ‘‘Egyptians do not treat foreigners badly, full stop,’’ he said.
Nonetheless, Regeni’s death cast a chill over Cairo’s shrinking expatriate community. ‘‘Few things have shaken me so deeply,’’ one European diplomat told me. Before we spoke, the diplomat asked me to deposit my cellphone in a signal-blocking box so that our conversation could not be surveilled. Regeni’s death, the diplomat continued, signaled Egypt’s broader direction: Regeni had fallen victim to the paranoia about foreigners that now coursed through Egyptian society; since the revolution, even small interactions could be fraught. During lunch in Cairo’s Islamic Quarter, the diplomat recounted, an agitated man remonstrated loudly with another guest for taking a photo of a meal — beans, bread and tamiyya, the Egyptian falafel. ‘‘He started to shout: ‘You’re a foreigner. You will use this image to show that we only eat beans and bread!’ ’’
In Fiumicello, where Regeni grew up and his parents still live, a banner reading ‘‘Verità per Giulio Regeni’’ hangs in the main church, but few believe that the truth will ever come out. Regeni’s family has closed ranks, appointing a pugnacious lawyer as its gatekeeper, and begun their own investigation into his murder. (His parents declined to be interviewed for this article but answered some questions by email.) At the Rome headquarters of the Carabinieri’s Special Operations Group, which specializes in counterterrorism and anti-mafia operations, Gen. Giuseppe Governale insists that there is still hope of solving the crime. ‘‘The Arab mentality is to procrastinate until everyone forgets,’’ he said. ‘‘But we will not stop until we find an answer. We owe it to his mother.’’
Italians have what Carlo Bonini, a journalist for La Repubblica who has written extensively on the Regeni case, calls ‘‘the last bullet.’’ Under Italian law, they could press charges in an Italian court against the handful of Egyptian security officials they believe to be responsible. But that might be a Pyrrhic victory: Egypt would never extradite anyone for trial. And there seems little chance that Sisi can be pressured into revealing the truth. In Rome last month officials admitted that the investigation was now little more than geopolitical kabuki; politics and not police work would determine its conclusion. In the 18 months since Regeni was killed, Sisi has had dinner with the German chancellor, Angela Merkel, in front of the pyramids, and in April he received a rapturous welcome at the White House from President Trump. On Aug. 14, the Italian government announced it intended to send its ambassador back to Cairo. The Zohr gas field is on track to start production in December.
In Fiumicello, Regeni lies buried under a line of cypress trees. Flowers, devotional candles and plastic-wrapped volumes of Spinoza and Hesse are piled on his grave, and a small photograph shows him speaking to a crowd, clutching a microphone, his face open and earnest. But unlike the elaborate neighboring tombs that surround it, Regeni’s gravestone is just a plain marble slab. Because the investigation is still open, the parish priest explained, officials might yet need to exhume his remains.
Mentre le bande libiche catturano, col sostegno dell'Italia, i profughi e ne fanno schiavi, l'Europa chiude gli occhi. Facile prevedere il seguito: il terrorismo diventerà valanga.
il manifesto, 15 agosto 2017
Il blocco per le navi delle Ong a 97 miglia dalle coste africane, ordinato dal Governo di Tripoli con il plauso dell’Italia e dell’Unione Europea, chiude il cerchio di quella che appare quasi una guerra contro i migranti nel Mediterraneo.
La situazione dei soccorsi ai battelli carichi di profughi che chiedono asilo e rifugio in Europa viene riportata a quella creatasi all’indomani dell’abolizione del progetto Mare Nostrum quando, dovendo partire le navi da centinaia di chilometri di distanza per rispondere alle richieste di aiuto, ci fu immediatamente una moltiplicazione delle vittime e delle sofferenze. Non a caso, prima Medici Senza Frontiere e poi anche Save the Children e Sea Eye hanno deciso di sospendere le operazioni di salvataggio in mare: troppo lunga la distanza da percorrere per fronteggiare con efficacia emergenze nelle quali anche un solo minuto di ritardo può risultare decisivo e, soprattutto, troppo rischioso – per sé ma ancora di più per i migranti – sfidare le minacce della Guardia Costiera libica, la quale non esita a sparare contro le unità dei soccorritori, come dimostra tutta una serie di episodi, incluso quello denunciato in questi giorni dalla Ong spagnola Proactiva Open Arms.
La decisione di dare “mano libera” alla Libia purché, attuando veri e propri respingimenti di massa, si addossi il lavoro sporco di fermare profughi e migranti prima ancora che possano imbarcarsi o a poche miglia dalla riva, è il capitolo conclusivo della politica che, iniziata con il Processo di Rabat (2006) e proseguita con il Processo di Khartoum (novembre 2014), con gli accordi di Malta (novembre 2015) e il patto con la Turchia (marzo 2016), mira a esternalizzare fino al Sahara le frontiere della Fortezza Europa, confinando al di là di quella barriera migliaia di disperati in cerca solo di salvezza da guerre, persecuzioni, fame, carestia, e intrappolando nel caos della Libia quelli che riescono ad entrare o sono intercettati in mare e riportati di forza in Africa. Tutto ciò a prescindere dalla libertà, dalla volontà e dalle storie individuali dei migranti, calpestandone i diritti sanciti dalle norme internazionali e dalla Convenzione di Ginevra e senza tener conto della sorte che li aspetta, in Libia, nei centri di detenzione governativi, nelle prigioni-lager dei trafficanti, lungo la faticosa marcia dal deserto alla costa del Mediterraneo.
Una sorte orrenda, come denunciano da anni, in decine di rapporti, la missione Onu in Libia, l’Unhcr, l’Oim, l’Oxfam, Ong come Amnesty, Human Rigts Watch, Medici Senza Frontiere, Medici per i Diritti Umani, numerose associazioni umanitarie, diplomatici, giornalisti, volontari. Rapporti che parlano di uccisioni, riduzione in schiavitù, stupri sistematici, lavoro forzato, maltrattamenti e violenze di ogni genere come diffusa pratica quotidiana.
Non a caso il procuratore Fatu Bensouda ha annunciato sin dal maggio scorso, di fronte al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che la Corte Penale Internazionale ha aperto un’inchiesta su quanto sta accadendo ai migranti in Libia nei cosiddetti «centri di accoglienza» e su certi episodi che riguardano la stessa Guardia Costiera, avanzando l’ipotesi anche di «crimini contro l’umanità».
Chiunque sia artefice di questa politica di respingimento e chiusura totale e chiunque la sostenga – sorvolando, tra l’altro, sul fatto che la Libia si è sempre rifiutata di firmare la Convenzione di Ginevra sui diritti dei rifugiati – si rende complice di tutti questi orrori e prima o poi sarà chiamato a risponderne. Domani sicuramente di fronte alla Storia ma oggi, c’è da credere, anche di fronte a una corte di giustizia. Non mancano, infatti, diversi ricorsi a varie corti europee promossi da giuristi, associazioni, Ong, mentre anche il Tribunale Permanente dei Popoli, nella sessione convocata a Barcellona il 7 luglio, ha posto al centro della sua istruttoria il rapporto di causa-effetto tra le politiche europee sull’immigrazione e la strage in atto.
Alla luce di tutto questo, l’Agenzia Habeshia fa appello alla comunità internazionale e alla società civile dell’intera Europa perché contestino le scelte effettuate dalle istituzioni politiche dell’Unione e dei singoli Stati e le inducano a un radicale ripensamento, revocando tutti i provvedimenti di blocco, istituendo canali legali di immigrazione e riformando il sistema di accoglienza, oggi diverso da Paese a Paese, per arrivare a un programma unico con quote obbligatorie, condiviso, accettato e applicato da tutti gli Stati Ue.
A tutti i media e ai singoli giornalisti, in particolare, l’Agenzia Habeshia fa appello perché raccontino giorno per giorno le morti e gli orrori che avvengono nell’inferno ai quali i migranti sono condannati, in Libia e negli altri paesi di transito o di prima sosta, dalla politica della Fortezza Europa, preoccupata solo di blindare sempre di più i propri confini, senza offrire alcuna alternativa di salvezza ai disperati che bussano alle sue porte. Serve come non mai, oggi, una informazione precisa, dettagliata, puntuale, continua perché nessuno possa dire: «Non sapevo…».
Don Mussie Zerai è presidente dell’Agenzia Habeshia. Vedi su eddyburg : In difesa di don Mussie Zerai
Egitto e Libia: importantissime pedine per gli affari e il potere di chi comanda in Italia. Quindi si rinuncia volentieri a ottenere verità e giustizia: questa è la morale della Repubblica italiana, nelle sue supreme autorità Articoli di Michele Giorgio e Luigi Manconi.
il manifesto, 15 agosto 2017
REGENI,
IL COLPO DI SPUGNA DI ALFANO
di Michele Giorgio
«Italia/Egitto. Citando una presunta maggiore collaborazione tra le procure di Italia ed Egitto sul caso del brutale assassinio del ricercato italiano, il ministro degli esteri ieri ha annunciato l'invio al Cairo dell'ambasciatore Cantini. L'interesse di Stato e i rapporti economici tra i due Paesi prevalgono sull'accertamento della verità. La famiglia: questa decisione è una resa incondizionata»
Alla luce degli sviluppi registrati nel settore della cooperazione tra gli organi inquirenti di Italia ed Egitto sull’omicidio di Giulio Regeni…il Governo italiano ha deciso di inviare l’Ambasciatore Giampaolo Cantini nella capitale egiziana». Con questa laconica nota ieri il ministro degli esteri Alfano ha dato un colpo di spugna alla crisi con l’Egitto cominciata con il brutale assassinio al Cairo di Giulio Regeni e ha dato il via alla normalizzazione dei rapporti tra i due Paesi. Si avvera perciò la previsione fatta il mese scorso da anonimi funzionari italiani all’agenzia di stampa egiziana Mada Masr, e riportata da Chiara Cruciati sul nostro giornale, dell’invio di Cantini al Cairo a settembre.
La possibilità che tutto fosse programmato da tempo è altissima. I presunti «sviluppi» di cui parla Alfano con ogni probabilità sono un pretesto per concretizzare una decisione già presa. E il fatto che il presidente del consiglio Gentiloni abbia fatto sapere di aver incaricato l’ambasciatore Cantini di «contribuire alla azione per la ricerca della verità sull’assassinio di Giulio Regeni» non offre alcuna rassicurazione. La verità era e resta lontana.
Prevale, come si temeva, la real politik, l’interesse dello Stato sulla verità per la quale si batte la famiglia del giovane ricercatore italiano rapito all’inizio del 2016 al Cairo e torturato a morte. Non sorprende la rabbia dei genitori di Regeni che hanno espresso «indignazione per le modalità, la tempistica ed il contenuto della decisione del Governo italiano di rimandare l’ambasciatore al Cairo».
Ad oggi, spiegano, «dopo 18 mesi di lunghi silenzi e anche sanguinari depistaggi, non vi è stata nessuna vera svolta nel processo sul sequestro, le torture e l’uccisione di Giulio. Solo quando avremo la verità l’ambasciatore potrà tornare al Cairo senza calpestare la nostra dignità». La famiglia sottolinea anche che «si ignora il contenuto degli atti, tutti in lingua araba, inviati oggi, dal procuratore egiziano Sadek…La procura egiziana si è sempre rifiutata di consegnare il fascicolo sulla barbara uccisione di Giulio ai legali della famiglia, violando la promessa al cospetto dei genitori di Giulio e del loro legale Alessandra Ballerini».
Alfano invece parla di un Egitto disposto a collaborare senza però offrire elementi concreti. Si sa solo che la procura del Cairo ha trasmesso ieri a quella di Roma gli atti relativi ad un nuovo interrogatorio, sollecitato dall’Italia, cui sono stati sottoposti i poliziotti che hanno avuto un ruolo negli accertamenti sulla morte del giovane. I magistrati egiziani inoltre avrebbero affidato a una società privata il recupero dei video della metro del Cairo, essenziali per ricostruire i movimenti di Regeni il giorno del suo rapimento. Tutto qui. Ad Alfano comunque è bastato per inviare l’ambasciatore Cantini al Cairo. Tutto in nome dei buoni affari economici e politici tra i due Paesi.
A cominciare dall’influenza dell’Egitto sul generale libico Khalifa Haftar, pedina fondamentale che ostacola le manovre italiane in Libia e contro le partenze dei migranti in direzione del nostro Paese. Interessante, a questo proposito, è il commento fatto dal presidente della Commissione affari esteri del Senato, Pier Ferdinando Casini: «L’intensificarsi della collaborazione giudiziaria sul caso Regeni e le nuove difficoltà insorte, che riguardano in particolare la vicenda della stabilizzazione della Libia, hanno reso indispensabile questo passo del ministro Alfano».
REGENI VITTIMA DELL’INCAPACE
POLITICA ESTERA ITALIANA
di Luigi Manconi
«Italia/Egitto. La logica che sembra aver prevalso è quella della restaurazione della normalità diplomatica e politica nei rapporti tra l’Italia e l’Egitto. È una logica che, presentata come omaggio doveroso al realismo politico e alle esigenze geo-strategiche di quell’area del mondo, rivela invece tutta la goffaggine e il dilettantismo di una politica estera incapace, ancora una volta, di una propria autonomia e di un disegno di lungo periodo».
Negli ultimi mesi e nelle ultime settimane, nulla è accaduto che possa segnalare un mutamento, anche il più esile e controverso, nella condotta delle autorità politiche e giudiziarie dell’Egitto a proposito della vicenda di Giulio Regeni. Non il più piccolo atto che manifesti una più sollecita cooperazione con la procura di Roma e non la più sommessa dichiarazione politica di riconoscimento della centralità della questione della tutela dei diritti fondamentali della persona da parte di quel regime.
E nei confronti degli oppositori interni (rapiti, seviziati e uccisi a centinaia) e nei confronti delle associazioni umanitarie egiziane e di chi, come Giulio Regeni, voleva conoscere quel popolo, capirne le ragioni e diffonderne le voci.
Dunque, la scelta così insopportabilmente ferragostana, assunta dal governo, di inviare proprio in queste ore l’ambasciatore italiano al Cairo, risponde chiaramente a tutt’altra logica.
La logica che sembra aver prevalso è quella della restaurazione della normalità diplomatica e politica nei rapporti tra l’Italia e l’Egitto. È una logica che, presentata come omaggio doveroso al realismo politico e alle esigenze geo-strategiche di quell’area del mondo, rivela invece tutta la goffaggine e il dilettantismo di una politica estera incapace, ancora una volta, di una propria autonomia e di un disegno di lungo periodo. Un disegno che consenta all’Italia, senza complessi di inferiorità e senza automatismi di schieramento, di svolgere un ruolo davvero costruttivo in un’area così delicata e precaria.
La controprova inequivocabile è rappresentata dal fatto che, nel momento in cui manda al Cairo l’ambasciatore, il nostro paese «non ottiene nulla in cambio».
Gli asseriti «passi avanti» nella cooperazione giudiziaria tra la procura del Cairo e quella di Roma sono giusto una fola e la promessa più impegnativa è che a settembre i magistrati italiani potranno ricevere quelle registrazioni video che avrebbero dovuto ricevere nell’ottobre scorso. Ma non è questo il punto essenziale.
Ciò che davvero va sottolineato è che in più circostanze il premier Paolo Gentiloni si era impegnato, anche con chi scrive, ad adottare misure efficaci e incisive tali da garantire la continuità di una forte pressione sull’Egitto, nel caso che altre considerazioni consigliassero il ritorno dell’ambasciatore.
Così, nei giorni scorsi – sulla base di un ragionamento solo politico, che non coinvolgeva in alcun modo la famiglia Regeni – ho proposto una serie di provvedimenti, capaci di pesare nei rapporti con il regime di al Sisi in alcuni campi decisivi: quello dei flussi turistici italiani ed europei verso l’Egitto (la dichiarazione di quest’ultimo come «paese non sicuro»); quello dei rapporti commerciali nel settore degli armamenti; quello degli speciali accordi di riammissione nel paese d’origine dei profughi egiziani.
Non una di queste proposte è stata accolta.
Il risultato è che la normalità delle relazioni tra Egitto e Italia sembra oggi pienamente ripristinata.
Un altro e infelicissimo contributo a che la vicenda di Giulio Regeni sia consegnata all’oblio.
Resta, di conseguenza, una sola possibilità per quanti credono testardamente che la questione dei diritti umani non possa essere l’ultimo e trascurabile punto nell’agenda politica internazionale, ma priorità tra le priorità. Ovvero restare dalla parte di Paola e Claudio Regeni, consapevoli che la loro così faticosa e dolorosa battaglia riguarda tutti noi e il senso stesso di ciò che chiamiamo democrazia, di qua e di là del mediterraneo.
Un'analisi accurata e una bocciatura senza appello della politica dell'Italia nella crisi a molte facce del Mare nostrum. Le ragioni per cui il governo non vuole le Ong tra i piedi: testimoni scomodi.
l'Espresso, 13 agosto 2017
La polemica sulle organizzazioni non governative aiuta il governo italiano a nascondere il fallimento della sua azione diplomatica e politica in Libia. Se l'Italia fosse un'azienda privata avrebbe già licenziato il suo rappresentante per l'estero: il ministro Alfano ha gravissime colpe.
L'effetto della campagna del governo contro le Ong è ormai evidente: togliere di mezzo la presenza (e i testimoni) delle organizzazioni non governative a ridosso delle acque territoriali libiche, per lasciare mano libera alla Guardia costiera di Tripoli ed eventualmente alla Marina militare italiana nel fermare i barconi e i gommoni carichi di profughi.
Silvio Berlusconi e Roberto Maroni le chiamavano con orgoglio operazioni di respingimento, perché questo portava loro voti. Il ministro dell’Interno, Marco Minniti e il Pd le definiscono più laicamente operazioni di soccorso. Ma della stessa operazione si tratta. In sostanza, stiamo consegnando un’altra volta alla Libia il totale monopolio dell’arma degli sbarchi, senza preoccuparci troppo di quello che accade più a Sud nei luoghi d’origine dell’emigrazione. Finita l’estate, spenta questa esagerata polemica sugli interventi umanitari, scopriremo che il problema va oltre le Ong. Ed è ben più grave, come l’eredità degli anni scorsi ci insegna. A meno che non vogliamo consolarci con alcune migliaia di arrivi in meno, come l’andamento del 2017 sembra annunciare.
Gli effetti collaterali
È evidente che l’Italia non possa farsi carico da sola ogni anno dell’accoglienza e dell’integrazione di 180 mila persone, di cui gran parte uomini in giovane età. Ed è indispensabile e auspicabile cercare soluzioni anche a breve termine. Ma se sono aumentate le partenze dalla Libia, non è certo per la presenza nel Mediterraneo degli spavaldi attivisti tedeschi di “Jugend Rettet” sotto inchiesta per aver avuto, secondo la Procura di Trapani, rapporti fin troppo ravvicinati con i trafficanti. E non è nemmeno colpa di organizzazioni che si sono sempre coordinate con la Guardia costiera, come “Medici senza frontiere” o “Save the children”.
Perfino il codice di comportamento voluto da Minniti è un falso problema: il ministero dell’Interno ha sempre avuto il desiderio di dividere il volontariato tra mansueti da premiare e rompiscatole da allontanare, tra quanti sono disposti a chiudere un occhio e quanti si dimostrano rigorosi nel rispetto delle norme.
Lo si è visto nel 2013 nel centro di accoglienza di Lampedusa: per diversi giorni alcuni volontari del progetto governativo “Praesidium” hanno tollerato il fatto che intere famiglie con i loro bambini piccoli venissero tenute a dormire sotto gli alberi, mentre la notte i cani randagi urinavano sulle loro coperte. Anche per questo bene fa “Medici senza frontiere” a rispettare la sua neutralità e a non voler prendere a bordo agenti armati. Un codice di condotta simile a quello imposto dal Viminale oggi metterebbe fuori gioco perfino Henry Dunant, il fondatore della Croce Rossa e primo premio Nobel per la pace.
Non dobbiamo però sottovalutare gli effetti collaterali. Fin dove si spingeranno i barconi senza più la presenza costante delle Ong al largo della Libia? Fin dove arriveranno i cadaveri dispersi in mare? È sempre la cronaca del 2013, prima dell’arrivo delle organizzazioni umanitarie e prima dell’impiego della Marina con l’operazione “Mare nostrum”, a suggerirci una risposta: 13 annegati davanti ai turisti sulla spiaggia di Sampieri in Sicilia il 30 settembre; 366 annegati davanti a Cala Madonna a Lampedusa il 3 ottobre; 268 annegati a 60 miglia a Sud di Lampedusa l’11 ottobre.
Il corridoio umanitario
Dopo la fine di “Mare nostrum”, l’apertura del corridoio umanitario delle Ong ha ridimensionato l’impiego delle navi cargo nelle operazioni di soccorso: con un conseguente beneficio sui costi e i tempi dei commerci nel Mediterraneo. L’unica alternativa, la prassi adottata dall’Italia fino al 2013, coinvolge invece il traffico commerciale. Ed è spiegata proprio nelle comunicazioni che accompagnano i presunti ritardi, prima del naufragio dell’11 ottobre di quell’anno.
Dice al telefono un ufficiale della Guardia costiera italiana alla collega maltese che chiede l’intervento della Libra, il pattugliatore della nostra Marina: «Penso che sia una buona idea cominciare a coinvolgere anche una nave commerciale... Di solito noi lavoriamo in questo modo. Impieghiamo le nostre unità più grandi per avvistare (i barconi). E dopo se ci sono navi commerciali, noi preferiamo impiegare quelle e poi organizzare incontri con i nostri pattugliatori più piccoli. Perché noi non vogliamo perdere l’area... Bene, penso che il capo deve provare a trovare una nave commerciale».
L’assurda procedura quel giorno si conclude con una strage di profughi siriani, tra cui sessanta bambini, rimasti per cinque ore in inutile attesa sul peschereccio che stava affondando. Nave Libra ad appena una decina di miglia, meno di un’ora di navigazione, era stata mandata a nascondersi: nonostante nessuna nave commerciale fosse arrivata nelle vicinanze.
Se questa tornerà a essere la prassi, avremo forse qualche arrivo da vivi in meno. Ma probabilmente molti cadaveri sulle nostre spiagge in più.
Bocciati in francese
La polemica sulle Ong aiuta soprattutto il governo italiano a nascondere il fallimento della sua azione diplomatica e politica in Libia. A fine luglio il presidente francese Emmanuel Macron ha sgambettato l’Italia e portato a un (fragile) accordo il premier di Tripoli, Fayez al Serraj, sostenuto dall’Onu e da Roma e il signore della guerra di Bengasi, il generale Khalifa Haftar, sostenuto da Parigi.
Se Palazzo Chigi fosse un’azienda privata, andrebbe licenziato il rappresentante per l’estero. Il ministro Angelino Alfano infatti avrebbe potuto fare di più: dal primo gennaio al 30 giugno è stato una sola volta a Tripoli, una sola volta a Tunisi e mai, proprio mai, in almeno uno dei tanti Paesi africani o asiatici che con i loro cittadini impegnano così intensamente il nostro bilancio statale tra soccorsi e accoglienza. Lo confermano i piani di volo dell’aereo usato da Alfano.
l suo omologo francese, il socialista Jean-Yves Le Drian, artefice del vertice Serraj-Haftar di fine luglio, è invece stato trentadue volte in Africa come ministro della Difesa nel precedente governo. E dal 17 maggio di quest’anno, giorno della sua nomina agli Esteri, ha già visitato Tunisia, Algeria, Egitto, Stati subsahariani, Emirati, Arabia Saudita e Qatar per preparare il consenso allo “sbarco” francese in Libia.
Il generale Haftar cura da tempo gli interessi di Parigi nel tentativo di sottrarre all’influenza italiana i pozzi e i terminal della Mezzaluna petrolifera in Cirenaica, nell’Est. L’Eni rischia così di perdere alcuni futuri contratti. La pace con il premier di Tripoli, che a Ovest guida il Governo di accordo nazionale, però non è detto che regga. Solo l’annuncio italiano di inviare la nave militare “Comandante Borsini” in acque libiche per assistere la locale Guardia costiera contro i trafficanti di uomini, così come avrebbe richiesto Serraj, ha messo d’accordo tutte le fazioni.
Lo stesso vice di Serraj, Fathi Al-Majbari: «È una violazione della sovranità della Libia e degli accordi in vigore. L’azione di Serraj non rappresenta il governo». Il figlio del dittatore Muhammar Gheddafi, Saif al Islam, tornato libero due mesi fa: «È un’operazione coloniale». Lo stato maggiore di Haftar: «Bombarderemo le navi italiane». Un bel pasticcio diplomatico.
Uno dei dossier più drammatici è della primavera scorsa. Denuncia il mercato degli schiavi allestito in un parcheggio a Sebha, nel Sud della Paese, lungo la rotta che dal Niger sale verso il Mediterraneo: «I migranti subsahariani vengono venduti e comprati dai libici, con l’aiuto di trafficanti ghaniani e nigeriani che lavorano per loro».
L'intervento di un'autorevole esponente del PD, fuori dal coro "aiutiamoli a casa loro e diffidiamo delle Ong".
la Repubblica, 13 agosto 2017
CARO direttore, per me è stato un segno positivo leggere di differenze e dilemmi tra i ministri sui migranti e le Ong. Non ho certezze e le competenze di altri e, nel dubbio, il peso della bilancia lo metto sulla priorità assoluta: salvare, comunque e ovunque, la vita di chi, disperato, porge la mano.
Ho un profondo rispetto per il capo dello Stato. La legalità è un valore. Nessuno, neppure tra le Ong, sarà santo a prescindere, però la grandissima parte di loro fa un lavoro straordinario. E un salvato è un salvato.
Confesso così la mia vicinanza a chi - giornalista, volontario, esperto - ha lanciato l’allarme sui rischi di guardare il ramo e non vedere la foresta. Magari quella orribile dei respinti nei campi in Libia dove si mischiano violenze, soprusi, torture e si moltiplica il business di essere umani trattati peggio di merci. Allora se al ministro Delrio la destra ha dato del terzomondista cattolico, sappia che i suoi interrogativi a molti invece danno fiducia. Tra l’altro evitano a qualcuno come me di sentirsi un’estranea nella propria comunità. So cosa mi aspetta, la sinistra radical che critica in pantofole e, infatti, puntualissimi sono arrivati commenti triti anche da importanti esponenti del mio campo. Governare è difficile e in particolare farlo nelle città.
Tuttavia si può tentare di mobilitare per un altro racconto, magari più vero. Quanti sono davvero questi fuggitivi da guerre, disastri ambientali, persecuzioni? Come vivono in Italia e quante risorse danno le badanti, gli operai che scaricano merci o sistemano strade? In quel racconto troverebbero posto sindaci e assessori coraggiosi a cui riconoscere un premio in risorse. E si direbbe dell’aiuto che danno i corridoi umanitari, innanzitutto per donne e bambini, l’abolizione del reato di clandestinità, l’applicazione della legge sui minori stranieri. E, ancora, che la riapertura e la riorganizzazione di flussi legali è un contrasto alle organizzazioni criminali e alla tratta.
La legge sullo Ius soli, peraltro temperato, è il simbolo di una visione e delle società del futuro non comprimibili nella spinta alla sopravvivenza e alla speranza. Fino a ieri lo dicevamo con l’orgoglio rappresentato dalla nave che l’Italia ha voluto tirare su dalle acque della disperazione. Non vorrei che l’esito elettorale abbia prodotto un disastro culturale.
Perché è un dovere morale salvarli e accoglierli. Poi si veda come e in quale misura. Perché l’Occidente e l’Europa, qualche senso di colpa è utile che laicamente li coltivino. L’Africa è lì a mostrare che qualcosa non ha funzionato quando quel trittico di principi - uguaglianza, libertà, fraternità - è suonato nelle parate e poco nel progresso. La politica si è spesso piegata a tutelare affari, compreso il commercio delle armi, e a dividersi nell’influenza sulle aree geopolitche anziché farsi Europa di questo secolo. Perché, politically correct per politically correct, meglio fare rivivere utopie come pace e cooperazione che ritualità su una sicurezza svincolabile da una idea di destra o di sinistra. Diritti umani e sicurezza stanno insieme. Il fatto è che dipende da come guardi il mondo. Lo so, per la sinistra e per i democratici è più complicato.
Milano ha reso omaggio al cardinale Tettamanzi. Ecco, lui aveva saputo coi fatti e con le parole giuste andare controcorrente. Dobbiamo riuscirci, in fondo ci siamo per questo.
L’autrice è deputata e vicepresidente del Partito democratico
Aiutiamoli a casa loro. Servono 20 miliardi di dollari per «munizioni, armi, autoblindo, jeep per la sabbia, droni, sensori, visori notturni, elicotteri, materiali per costruire campi armati». Un lucroso finanziamento indiretto ai costruttori di armi occidentali. Intervista di Lorenzo Cremonesi a
Khalifa Haftar.Corriere della Sera 12 agosto 2017 (m.p.r.)
Parla il leader che controlla la regione della Cirenaica: «Non c’è stata alcuna intesa con noi. Io non vi ho dato alcuna luce verde. Sarraj ha violato in modo grave quegli accordi, dove si dice esplicitamente che mosse di questo genere vanno coordinate tra noi». Sin dalle prime battute in quasi un’ora e mezza di intervista il generale Khalifa Haftar fa capire che a questo punto non intende davvero bombardare le navi militari italiane in Libia. Ma l’uomo forte della Cirenaica spiega anche le ragioni del suo acceso risentimento contro il governo italiano e nei confronti del premier di Tripoli, Fayez Sarraj. Lo abbiamo incontrato nella capitale giordana mentre sta preparando una visita nei prossimi giorni a Mosca. Su cui specifica: «Con la Russia abbiamo un rapporto storico. Ma che io sappia non hanno alcuna intenzione di costruire una loro base militare in Cirenaica».
Generale può spiegare come mai ai primi di agosto ha dichiarato che avrebbe potuto attaccare le navi italiane che incrociassero nelle acque territoriali del suo Paese?
«In primo luogo voglio ribadire che libici e italiani sono amici. Abbiamo superato il retaggio dell’aggressione fascista. E, proprio perché i nostri rapporti sono eccellenti, tengo a combattere chiunque provi a rovinarli. In Italia veniamo in vacanza, i nostri feriti sono curati, abbiamo antiche relazioni economiche. Ma devo anche dire che noi libici teniamo alla nostra indipendenza e sovranità. Nessuno può entrare con mezzi militari nelle nostre acque territoriali senza autorizzazione. Sarebbe un’invasione e abbiamo il diritto-dovere di difenderci, anche se chi ci attacca è molto più forte di noi. Vale per l’Italia, come per qualsiasi altro Paese».
Ma l’arrivo delle navi italiane è il frutto di un accordo tra Roma e Sarraj, nel contesto del controllo del traffico dei migranti. Lei sa bene che non c’è alcuna mira aggressiva. Dove sta il problema?
«Non c’è stata alcuna intesa con noi. Io non vi ho dato alcuna luce verde. Non solo, nessuno ci ha mai detto nulla. È stato un fatto compiuto, imposto senza consultarci».
Dunque quelle navi della marina militare italiana nel porto di Tripoli e dintorni restano obbiettivi potenziali?
«No, non è questo il caso. Non si tratta di un atteggiamento specificamente anti-italiano. Vale per qualsiasi nave militare straniera che resta un obbiettivo legittimo, se non si coordina con le mie forze armate».
La sua è un’accusa a Sarraj, che non rispetta le vostre intese di cooperazione firmate a Parigi il 25 luglio sotto l’egida del presidente Macron?
«Assolutamente sì. Sarraj ha violato in modo grave quegli accordi, dove si dice esplicitamente che mosse di questo genere vanno coordinate tra noi. Ma la violazione è anche italiana. A Roma sono corresponsabili, sanno benissimo che Sarraj non ha alcuna autorità per permettere alle vostre navi di venire nelle nostre acque territoriali. Non ha chiesto il parere a me e neppure al suo Consiglio presidenziale. La sua è una scelta individuale, illegittima e illegale».
Lei stesso in gennaio ha spiegato in un’intervista al Corriere di avere contatti regolari con i servizi segreti italiani. Neppure loro l’hanno avvisata in anticipo?
«Nulla. Nessuno mi ha detto nulla dall’Italia. Per me è stata una sorpresa totale. Dopo che ho protestato è venuto personalmente il numero due dei vostri servizi a scusarsi, promettendo che avrebbe investigato per capire dove a Roma avevano sbagliato».
È il fallimento delle intese di Parigi?
«Non direi. Io credo ancora in quelle intese, restano l’unica piattaforma su cui costruire la transizione per cercare di alleviare le sofferenze del popolo libico. Penso inoltre sia possibile tenere elezioni politiche in Libia il marzo prossimo, come si è programmato a Parigi, e probabilmente anche prima».
Quindi Sarraj resta un partner, anche se ogni volta che parla con lei i suoi alleati lo attaccano duramente?
«Sarraj è messo alla prova. Vediamo se riesce a mantenere la parola data. Anche se sino ad ora ha sempre fallito a causa delle sue debolezze strutturali. Lo provano le sue ultime mosse, ha già tradito anche le promesse fatte al nostro incontro di Abu Dhabi in primavera. Il suo problema è che dipende dalle milizie, non possiede un esercito regolare come il nostro. Ecco perché subisce anche il peso delle bande di scafisti e della criminalità che gestisce il traffico dei migranti in Tripolitania».
Eppure, negli ultimi giorni il traffico di migranti verso l’Italia pare diminuire. I flussi crescono per contro verso la Spagna. Lei cosa suggerisce?
«Il problema migranti non si risolve sulle nostre coste. Se non partono più via mare ce li dobbiamo tenere noi e la cosa non è possibile. Anche gli accordi del vostro ministro degli Interni Minniti con le tribù, le milizie e le municipalità del nostro deserto sono solo palliativi, soluzioni fragili. Dobbiamo invece lavorare assieme per bloccare i flussi sui 4.000 chilometri del confine desertico libico nel sud. I miei soldati sono pronti. Io controllo oltre tre quarti del Paese. Possiedo la mano d’opera, ma mi mancano i mezzi. Macron mi ha chiesto cosa ci serve: gli sto mandando una lista».
Per esempio?
«Corsi di addestramento per le guardie di frontiera, munizioni, armi, ma soprattutto autoblindo, jeep per la sabbia, droni, sensori, visori notturni, elicotteri, materiali per costruire campi armati di 150 uomini ciascuno altamente mobile e posizionati ogni minimo 100 chilometri».
Costo?
«Stimo circa 20 miliardi di dollari distribuiti su 20 o 25 anni per i Paesi europei uniti in uno sforzo collettivo».
Una somma comunque enorme!
«Nulla, se paragonata a quella che l’Europa stanzia per Erdogan. La Turchia prende 6 miliardi e passa da Bruxelles per controllare un numero infinitamente inferiore di profughi siriani e qualche iracheno. Noi in Libia dobbiamo contenere flussi giganteschi di gente che arriva da tutta l’Africa. Se ogni governo europeo contribuisce ad aiutarci, per voi la spesa diventa irrisoria».
Lei continua a parlare del suo impegno nella lotta contro il terrorismo. Ma c’è ancora un vero pericolo Isis in Libia dopo la sua apparente sconfitta nella roccaforte di Sirte l’autunno scorso?
«È molto diminuito. A Bengasi e nel deserto sotto il nostro controllo l’abbiamo battuto. Restano pericolosi circa 300 militanti di Isis a Derna e 200 a Sabrata».
Agli inizi di giugno le milizie di Zintan, sue alleate, hanno liberato il figlio maggiore di Gheddafi, Saif al Islam. Lei ha avuto un ruolo?
«No e non gli ho mai parlato da quando è stato liberato. Saif non mi ha mai chiesto alcuna assistenza. È un cittadino libico come tutti gli altri, con obblighi e doveri. L’era di Gheddafi è cosa del passato, anche se so che tanti tra i suoi ex sostenitori oggi mi sono favorevoli.
Ancora un evento e un’iniziativa nel conflitto tra la legge del “restare umani e le leggi dei respingimenti.
R.itPalermo online, 9 agosto 2017
DON MUSSIE ZERAI SOTTO INCHIESTA:
PRETE CANDIDATO AL NOBEL
ACCUSATO DI FAVOREGGIAMENTO IMMIGRAZIONE
di Alessandra Ziniti
«La Procura di Trapanicontesta al sacerdote eritreo di aver segnalato gli arrivi dei migranti nellachat segreta dei capitani delle navi umanitarie»
fare il suo nome agli inquirenti sono stati i due addettidella security imbarcati a bordo della nave Vos Hestia di Save the children chehanno rivelato l'esistenza di una chat segreta tra i team leader a bordo dellenavi umanitarie.
Don Mussie Zerai, sacerdote eritreo che da anni vive inItalia ed è punto di riferimento per migliaia di suoi concittadiniche affrontano il viaggio verso l'Europa, è tra gli indagati della Procura diTrapani nell'ambito dell'inchiesta per favoreggiamento all'immigrazioneclandestina che ha già portato al sequestro della nave Juventa della Ongtedesca Jugend Rettet. Anche per il sacerdote l'accusa sarebbe la stessa.
Secondo quanto riferito dai due testimoni, il sacerdote chericeveva le comunicazioni dai migranti imbarcati sui gommoni dei trafficanti,avrebbe fatto da tramite con i membri delle Ong segnalando giorno, ora e posizionedelle imbarcazioni da soccorrere.
Candidato al Nobel per la pace nel 2015, fondatore epresidente dell'agenzia di informazione Habeshia, definita "il salvagentedei migranti", con la quale offre assistenza telefonica ai migranti inpartenza, stimolando l'intervento delle autorità nei luoghi in cui si trovanoimbarcazioni in difficoltà, a Don Zerai glòi uomini della squadra mobile diTrapani hanno notificato un avviso di garanzia.
"Ho saputo soltanto lunedì dell'indagine - dice MussieZerai - e voglio andare a fondo in questa vicenda. Sono rientrato a Romadall'Etiopia di proposito. In passato - aggiunge - ricevevo moltissimetelefonate ogni giorno. Oggi ne ricevo molte meno, non saprei dire perché, mail mio intervento è sempre stato a scopo umanitario". L'indagine, secondoambienti giudiziari, si riferisce a presunte pressioni svolte dal prelatopresso gli organi competenti nel soccorso in mare. "Prima ancora diinformare le Ong - dice il religioso -, ogni volta ho allertato la centraleoperativa della Guardia Costiera italiana e quella maltese. Mai ho avutorapporti con la Iuventa ne aderisco a chat segrete. Ho sempre comunicatoattraverso il mio telefono cellulare".
Sul fronte Ong, questa mattina un'altra organizzazione cheaveva già annunciato via mail la sua adesione, ha ufficialmente firmato ilcodice di comportamento al Viminale. E' la tedesca Sea eye. Per il momento sonoquattro su otto le Ong che hanno aderito, a queste potrebbe aggiungersi domaniSos Mediterranèe che ha chiesto un incontro per chiarire alcune perplessità chehanno fino ad ora spinto l'organizzazione a rimanere nel fronte del"no". Restano fuori ancora Medici senza frontiere e le altre duetedesche Sea Watch e Jugend Rettet, quest'ultima al centro dell'indaginetrapanese che da oggi passa sotto il coordinamento del nuovo procuratoreAlfredo Morvillo.
Un appello
Siamo persone privilegiate perché nel nostrocammino abbiamo incontrato una persona straordinaria come Don Mussie Zerai, dacui tanto tuttora impariamo. Lo abbiamo incontrato quando c’era da piangere ecelebrare i morti e quando c’era da salvare i vivi, chiunque, indipendentementedalla provenienza. Abbiamo apprezzato negli anni lo scrupolo con cui ha sempreoperato nel pieno rispetto di quelle istituzioni - come la Guardia costieraitaliana - impegnate ad affrontare drammi umanitari che passeranno alla storia,considerandole partner di riferimento, soggetti a cui affidare la sorte di chiera sull’orlo dell’abisso, in mare così come nei paesi di transito.
Lo abbiamo conosciuto mentre sosteneva “MareNostrum” e mentre tentava di far conoscere l’osceno commercio di organi nellemontagne del Sinai. Lo abbiamo visto, infaticabile, gettare fiori in memoriadella strage del 3 ottobre insieme ai sopravvissuti, lo abbiamo sentito denunciarecon forza l’inerzia complice dei governi europei, incapaci di far terminare lastrage ventennale che si realizza nel Mediterraneo Centrale.
Ne abbiamo condiviso il coraggio quando, conpochi altri, raccoglieva o rispondeva a chiamate di soccorso che sarebberoaltrimenti rimaste senza esito, trasmettendole immediatamente alle istituzionicompetenti nel rispetto di quanto previsto dalle legislazioni nazionali einternazionali. Tra l’omissione di soccorso e l’intervento umanitario non cisono margini di scelta.
Abbiamo gioito speranzosi quando è statoproposto per il Nobel per la Pace: lo abbiamo considerato un segnaleimportante, soprattutto perché Don Mussie cominciava a ricevere minacceesplicite dal governo eritreo.
Quando ci capita di incontrare uomini o donneche si sono salvati grazie al suo intervento, dichiararsi suoi amici significaricevere uno sguardo di gratitudine eterna. Don Mussie Zerai lascia dietro disé l’immagine di una persona umile a cui si deve semplicemente la vita.
Eppure, in questi giorni di pausa d'agosto edi guerre in arrivo, si prova, ancora una volta, a screditare il suo operato, ainsinuare sospetti, dubbi, mezze verità. Siamo certi che quando incontrerà isuoi accusatori, Don Mussie saprà difendersi e far valere le ragioni dellasolidarietà. L'impresa di metterlo sul banco sugli imputati si riveleràfallimentare e suicida Su quel banco dovranno un giorno finirci i responsabili,a vario titolo, di stragi, sofferenze, violenze, violazioni dei diritti umani,e coloro che contribuiscono a sostenere la dittatura di Isaias Afewerki. Ma nelfrattempo il dubbio sulla sua figura si insinuerà - come è già successo per leOng che salvano i migranti in mare - erodendo l'onorabilità di chi agiscedisinteressatamente per aiutare il prossimo. Colpendo, anche solo col sospetto,Don Mussie si finirà per colpire i tanti uomini e le tante donne che hannodeciso di restare dalla parte degli ultimi. Non possiamo permettere che il"reato di solidarietà” si imponga come un dato di fatto, nutrito da populismixenofobi, interessi geopolitici, disinformazione o cattiva informazionediffusa, e avveleni ancora di più il nostro paese, già incamminato verso undeclino morale e politico.
Per questo siamo con Don Mussie Zerai einvitiamo uomini e donne di ogni fede e cultura politica a schierarsi dalla suaparte: non solo per il profondo rispetto che non si può che nutrire nei suoiconfronti, ma perché nell'insensata logica di distruzione di ogni senso civico,di ogni barlume di solidarietà, la prossima vittima potrebbe essere ognuno/a dinoi.
ADIF
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. La feroce determinazione con cui si colpisce chi cerca di salvare vite umane mentre si lascia carta bianca alle multinazionali che si stanno spartendo la “risorsa rifugiato” sono due aspetti non disgiunti, ma complementari, dello stesso disegno di appropriazione del pianeta e di riduzione in schiavitù della maggioranza dei suoi abitanti perseguito dalle istituzioni finanziarie e dai governi che ai loro dettami ubbidiscono. Un disegno nel quale la crescente collaborazione tra il settore pubblico e le grandi imprese coinvolte nelle così dette “partnership per i rifugiati” ha un ruolo non irrilevante.
Più che dalla abusata motivazione che gli stati nazionali non hanno denaro e quindi devono collaborare con i privati ricchi di risorse ed esperienza manageriale, la diffusione di tali iniziative è frutto di una scelta strategica delle imprese. Molte, infatti, hanno capito che firmare un assegno o farsi un selfie con un rifugiato per migliorare l’immagine della ditta sono gesti che rendono poco rispetto ai profitti che si possono ricavare diversificando gli investimenti e destinando una quota di capitale alla filiera filantropica e hanno deciso di adottare linguaggio e metodi del capitale di ventura per conquistare il mercato dei beni e servizi per rifugiati.
Tale approccio è apertamente condiviso ai più alti livelli delle pubbliche istituzioni, come dimostrano, ad esempio, le dichiarazioni rilasciate durante il Summit per il rifugiato del settembre 2016 e la contemporanea iniziativa dell’allora presidente degli Stati Uniti Obama, che ha lanciato un call for action per spronare il settore privato a impegnarsi per “risolvere la crisi” dei rifugiati. All’appello hanno risposto con entusiasmo oltre 50 corporations, da Google a Airbnb, da Western Union a Linkedin, oltre che Goldman Sachs e JPMorgan.
Anche l’UNHCR, l’alto commissariato delle nazioni unite per i rifugiati, ha avviato una serie di compartecipazioni con grandi imprese mondiali. Uno dei primi accordi è stato siglato con IKEA, le cui iniziative, abilmente propagandate da campagne pubblicitarie, hanno suscitato il plauso unanime dei commentatori. In particolare Better shelter, un ricovero prefabbricato di semplice montaggio, ha avuto numerosi riconoscimenti. Nel 2016 è stato premiato come miglior oggetto di design dal museo di design di Londra e un suo esemplare è esposto al Moma di New York. UNHCR ne ha installati 5000 in varie parti del mondo: Iraq, Gibuti, Niger, Serbia, Grecia. Pressoché sotto silenzio, invece, è passata la notizia che IKEA ha dovuto ritirare dal mercato 10000 scatole di Better Shelter, già acquistate da UNHCR, dopo che la città di Zurigo si è rifiutata di usare le casette perché non soddisfano le norme antincendio svizzere.
Per Heggenes, amministratore delegato della IKEA foundation, ha ammesso che sapevano che il prodotto “non è adatto a tutti i climi” e che ora lo stanno ridisegnando. Comunque, sono soddisfatti perché è stata una esperienza istruttiva dalla quale hanno imparato molto. Quando il business incontra le Nazioni unite, ha aggiunto, ci sono sempre dei problemi… abbiamo bisogno di tempo di capirci… «noi non siamo organizzazioni umanitarie, noi investiamo. Ma cerchiamo un ritorno sociale e non solo finanziario».
E la ricerca del ritorno sociale è l’obiettivo dichiarato del più recente progetto che IKEA sta mettendo a punto per far lavorare i rifugiati in Giordania, uno dei paesi confinanti con la Siria dove Banca mondiale, Stati Uniti, Unione Europea e Gran Bretagna sono a caccia di occasioni di investimento.
2. Il piano di Ikea è di creare una linea di tappeti ed altri manufatti tessili da far produrre dai siriani dei campi. Le prime 200 postazioni dovrebbero essere pronte entro pochi mesi, ma l’ambizione è di creare, entro 10 anni, 200 mila posti di lavoro in varie località.
Rispetto a better shelter, si tratta indubbiamente di un programma diverso, nel quale il valore aggiunto non deriva tanto dalla merce prodotta ma dal lavoratore, secondo la logica sintetizzata dallo slogan “rifugiato come opportunità” ed ampiamente illustrata in un rapporto di un consulente della Unione Europea dal titolo inequivocabile: il lavoro del rifugiato, un investimento umanitario che genera dividendi (Philippe Legrain, The refugee work, an humanitarian investment that yelds economic dividends, 2016).
Anche la scelta di cominciare dal campo profughi di Zaatari non è irrilevante. Creato nel 2012, il campo è ormai, per dimensione, la quarta città della Giordania e secondo gli esperti internazionali non solo è destinato a permanere nel tempo, ma rappresenta il modello di città del futuro. Ed in effetti, se si tiene conto che la Banca mondiale ha concesso fondi alla Giordania perché riformi il mercato del lavoro, che l’Unione Europea ha negoziato la qualifica di “mercato preferenziale” per le merci prodotte in 18 zone industriali dove almeno il 15% degli occupati sono immigrati e che gli Stati Uniti hanno firmato un trattato di libero scambio commerciale con la Giordania, il futuro della città/deposito di esseri umani a disposizione degli investitori sembra garantito. Come ha spiegato il sottosegretario al commercio degli Stati Uniti, accompagnando una decina di rappresentanti di grandi imprese, tra le quali Microsoft, Master card, Coca cola e Pepsi cola a visitare il campo, «non vi portiamo in gita a Zaatari per farvi parlare con dei disgraziati, ma perché cogliate l’opportunità commerciale connessa all’impegno per una causa umanitaria».
3. In questo fervore di iniziative benefiche poco si dice a proposito delle condizioni di lavoro, ed anche immani disastri, come l’incendio di un capannone o il crollo di un edificio, vengono rapidamente archiviati e le ditte continuano a profittare dei nuovi schiavi. Quando nel 2015 l’organizzazione britannica Business and Human Rights Resource Centre ha distribuito un questionario alle grandi firme del tessile operanti in Turchia, solo H&M e Next hanno ammesso di aver scoperto che nelle fabbriche dei loro fornitori erano impiegati bambini siriani. Le altre hanno risposto in termini evasivi o non hanno nemmeno risposto.
In un momento in cui le organizzazioni senza scopo di lucro vengono trattate come criminali, non dovrebbe essere difficile pretendere trasparenza su questo punto da Ikea, che legalmente, cioè fiscalmente, è una onlus. Ikea foundation, infatti, non è una società per azioni ma una charity, con sede in Olanda, controllata dall’azienda olandese Ingka holding a sua volta posseduta da una fondazione non profit e paga le tasse con aliquota del 3,5%. La fondazione è una delle più grandi non profit al mondo ed ha un patrimonio che supera i 35 miliardi di dollari. Come recita un famoso aforisma di Henry David Thoreau «la bontà è l’unico investimento che non fallisce mai».
Paolo Rodari riferisce sulla"svolta" della Commissione episcopale italiana e il priore di Bose rivendica il rispetto della legge "restare umani".
la Repubblica, 11 agosto 2017, con postilla (i.b.-e.s.)
BASSETTI ALLE ONG:
RISPETTARE LE LEGGI
E NON COLLABORARE CON GLI SCAFISTI
di Paolo Rodari
«La svolta. Il presidente della Cei interviene sullaquestione migranti»
Il troppo buonismo fa vincere l’oltranzismo. Dopo giorni diriflessione la Cei esce allo scoperto. L’invito fatto sulle Ong allaresponsabilità e al codice imposto dal Viminale – «Si deve rispettare lalegge», ha detto ieri il presidente dei vescovi italiani, il cardinaleGualtiero Bassetti – muove dalla maturazione della consapevolezza che ilprincipio di umanità, che vale sempre e soprattutto nei confronti dei migranti,non può esautorare quel principio di legalità che anche Francesco tornando novemesi fa dalla Svezia aveva richiamato quando spiegò di comprendere le politicherestrittive di Stoccolma in materia di immigrazione. Anche sul tema delicatodell’accoglienza, insomma, il rischio che la Chiesa ha visto come reale è chela misericordia diventi ideologia ed è contro questo spauracchio che Bassetti èieri intervenuto.
Le parole del presidente dei vescovi trovano riscontri inVaticano. In questi giorni sono giunte Oltretevere alcune rimostranze, da partedel mondo cattolico e del mondo politico, per le prese di posizione giudicatetroppo schierate in favore delle Ong di
Avveniree di alcuni presuli. Molto attivo verso il Vaticano è stato il ministrodell’Interno Marco Minniti. Bassetti, prima di parlare, ha ascoltato la SantaSede, ma anche la pancia di una buona fetta del mondo cattolico che sul temachiede maggiore rigore: «Non possiamo correre il rischio – ha detto – neancheper una pura idealità che si trasforma drammaticamente in ingenuità, di fornireil pretesto, anche se falso, di collaborare con i trafficanti di carne umana».
E’ stato anche per questo motivo che la maggioranza dei vescovi ha votato perlui quale successore del cardinale Bagnasco alla scorsa assemblea della Cei:era stato ritenuto, anche dai vescovi più a “destra”, e ieri ne è arrivata unaconferma, come la personalità più capace di mediare fra l’anima vicina alleaperture del segretario generale Nunzio Galatino e una base più tradizionale ecentrista.
Con ieri è iniziata di fatto una nuova via, quella di una Cei conuna guida che, rispettata da tutte le anime, è capace di fare sintesi fra lasensibilità del Papa e la tradizione moderata del cattolicesimo del Paese. Unsegnale che Bassetti sarebbe intervenuto è arrivato dalle parole pronunciatenelle ultime ore, dopo prese di posizione più spinte, dal ministro Delrio cheha chiesto, in extremis, di tenere assieme umanità e rispetto delle leggi.Così, tre giorni fa anche il presidente Mattarella che, benedicendo «il nuovocodice sulle Ong», aveva dato un segnale preciso. Fra Mattarella e Bassetti ilrapporto è ottimo: «C’è uno spazio enorme di collaborazione per il bene delPaese», aveva detto il prelato dopo la visita di giugno del Papa al Quirinale.E ieri questa collaborazione è divenuta effettiva e ha mostrato come, in scia auna tradizione consolidata nel cattolicesimo italiano, Bassetti è anche uomodelle istituzioni.
I MIGRANTI
E IL DOVERE DI RESTARE UMANI
diEnzo Bianchi
L’INVITO del presidente della Cei, cardinalBassetti, ad affrontare il fenomeno dei migranti «nel rispetto della legge» esenza fornire pretesti agli scafisti è un richiamo all’assunzione diresponsabilità etica ad ampio raggio nella temperie che Italia e Europa stannoattraversando. Un richiamo quanto mai opportuno perché ormai si sta profilandouna “emergenza umanitaria” che non è data dalle migrazioni in quanto tali,bensì dalle modalità culturali ed etiche, prima ancora che operative con cui lesi affrontano. Non è infatti “emergenza” il fenomeno dei migranti - richiedentiasilo o economici - che in questa forma risale ormai alla fine del secoloscorso e i cui numeri sia assoluti che percentuali sarebbero agevolmentegestibili da politiche degne di questo nome. E l’aggettivo “umanitario” nonriguarda solo le condizioni subumane in cui vivono milioni di persone nei campiprofughi del Medioriente o nei paesi stremati da conflitti foraggiati daimercanti d’armi o da carestie ricorrenti, naturali o indotte. L’emergenzariguarda la nostra umanità: è il nostro restare umani che è in emergenza difronte all’imbarbarimento dei costumi, dei discorsi, dei pensieri, delle azioniche sviliscono e sbeffeggiano quelli che un tempo erano considerati i valori ei principi della casa comune europea e della “millenaria civiltà cristiana”,così connaturale al nostro paese.
È un impoverimento del nostro essere umani chesi è via via accentuato da quando ci si è preoccupati più del controllo e delladifesa delle frontiere esterne dell’Europa che non dei sentimenti che battononel cuore del nostro continente e dei principi che ne determinano leggi ecomportamenti. È un imbarbarimento che si è aggravato quando abbiamo siglato unaccordo per delegare il lavoro sporco di fermare e respingere migliaia diprofughi dal Medioriente a un paese che manifestamente vìola fondamenti etici,giuridici e culturali imprescindibili per la nostra “casa comune”.
Ora noi, già “popolo di navigatori e trasmigratori”,ci stiamo rapidamente adeguando a un pensiero unico che confligge persino conla millenaria legge del mare iscritta nella coscienza umana, e arriva aconfigurare una sorta di “reato umanitario” o “di altruismo” in base al qualediviene naturale minare sistematicamente e indistintamente la credibilità delleOng e perseguirne l’operato, affidare a un’inesistente autorità statale libicala gestione di ipotetici centri di raccolta dei migranti che tutti gliorganismi umanitari internazionali definiscono luoghi di torture, vessazioni,violenze e abusi di ogni tipo, riconsegnare a una delle guardie costierelibiche quelle persone che erano state imbarcate da trafficanti di esseri umanicon la sospetta connivenza di chi ora li riporta alla casella-prigione dipartenza.
Ora questa criticità emergenziale di un’umanitàmortificata ha come effetto disastroso il rendere ancor più ardua la gestionedel fenomeno migratorio attraverso i parametri dell’accoglienza,dell’integrazione e della solidarietà che dovrebbero costituire lo zoccoloduro della civiltà europea e che non sono certo di facile attuazione. Come,infatti, in questo clima di caccia al “buonista” pianificare politiche checonsentano non solo la gestione degli arrivi delle persone in fuga dalla guerrao dalla fame, ma soprattutto la trasformazione strutturale di questacongiuntura in opportunità di crescita e di miglioramento delle condizioni divita per l’intero sistema paese, a cominciare dalle fasce di popolazioneresidente più povere? E, di conseguenza, come evitare invece che i migrantiabbandonati “senza regolare permesso” alimentino il mercato del lavoro nero,degli abusi sui minori e della prostituzione?
L’esperienza di tante realtà che conosco e della mia stessacomunità, che da due anni dà accoglienza ad alcuni richiedenti asilo, mostraquanto sia difficile oggi, superata la fase di prima accoglienza e diapprendimento della lingua e dei diritti e doveri che ci accomunano, progettaree realizzare una feconda e sostenibile convivenza civile, un proficuo scambio dellerisorse umane, morali e culturali di cui ogni essere umano è portatore. Non puòbastare, infatti, il già difficilissimo inserimento degli immigrati accolti nelmondo del lavoro e una loro dignitosa sistemazione abitativa: occorrerebberipensare organicamente il tessuto sociale di città e campagne, larivitalizzazione di aree depresse del nostro paese, la protezione dell’ambientee del territorio, la salvaguardia dei diritti di cittadinanza. Questo potrebbefar sì che l’accoglienza sia realizzata non solo con generosità ma anche conintelligenza e l’integrazione avvenire senza generare squilibri.
Sragionare per slogan, fomentare anziché capire e governarele paure delle componenti più deboli ed esposte della società, criminalizzareindistintamente tutti gli operatori umanitari, ergere a nemico ogni straniero ochiunque pensi diversamente non è difesa dei valori della nostra civiltà, alcontrario è la via più sicura per piombare nel baratro della barbarie, perinfliggere alla nostra umanità danni irreversibili, per condannare il nostropaese e l’Europa a un collasso etico dal quale sarà assai difficilerisollevarsi.
Anche in certi spazi cristiani, la paura dominanteassottiglia le voci - tra le quali continua a spiccare per vigore quella dipapa Francesco - che affrontano a viso aperto il forte vento contrario,contrastano la «dimensione del disumano che è entrata nel nostro orizzonte» esi levano a difesa dell’umanità. Purtroppo, stando “in mezzo alla gente”,ascoltandola e vedendo come si comporta, viene da dire che stiamo diventandopiù cattivi e la stessa politica, che dovrebbe innanzitutto far crescere una“società buona”, non solo è latitante ma sembra tentata da percorsi cheassecondano la barbarie. Eppure è in gioco non solo la sopravvivenza e ladignità di milioni di persone, ma anche il bene più prezioso che ciascuno dinoi e la nostra convivenza possiede: l’essere responsabili e perciò custodi delproprio fratello, della propria sorella in umanità.
postilla
Quale legge deve prevalere?
La questione deimigranti del nostro secolo e dell’atteggiamento da tenere nei confronti di chi,come alcune Ong, non rifiuterebbe contatti con “trafficanti di uomini”, (cioè conquegli attori che in cambio di un prezzo,aiutano i profughi a fuggire) divide anche il mondo cattolico.
Le due posizioni alternative emergono conevidenza nei due scritti che riportiamo: l’uno esprime la posizione dellaCommissione episcopale italiana, espressa dal suo presidente GualtieroBassetti, l’altra quella di Enzo Bianchi, monaco laico fondatore della Comunitàmonastica di Bose.
Il pretesto con cui vieneammantato il dissenso è quello che si tira in ballo di solito quando gliargomenti di merito di una delle parti sono deboli: bisogna rispettare lalegge. Se la legge vieta alle Ong ad avere contatti con i “trafficanti” essesono obbligate a obbedire, quale che sia la pulsione, o il sentimento, o il principioo la convenienza che li spingerebbe a fare il contrario.
È evidente che ilgoverno italiano abbraccia con entusiasmo il rispetto della legge che impedisceogni accordo con i “trafficanti, e che invece parte rilevante del mondocattolico recentemente espressa dal quotidiano della Cei, l’Avvenire, si muove sul versante opposto. Èsignificativo che la stampa attribuisca a Marco Minniti un intervento direttosul Vaticano per convincere le gerarchie ecclesiastiche a mettere in riga i “buonisti”.
Ed è altrettantoevidente che il governo italiano si manifesta debole, impacciato, pusillanimefino alla viltà nel far comprendere all’Unione europea, della quale si spacciaper protagonista, che le migrazioni hanno la Penisola solo come il primo punto l’approdo,e che l’obiettivo e la responsabilità dei flussi migratori sono costituiti dall’insieme dell’Europa. Invece di Gentiloni e Delrio, è Enzo Bianchi a ricordare che sono «i parametri dell’accoglienza, dell’integrazione e dellasolidarietà che dovrebbero costituire lo zoccolo duro della civiltàeuropea»
L’intervento di EnzoBianchi mette in evidenza le due verità di fondo: non si tratta di un impegnoche riguardi solo l’Italia, ma l’intera Europa; né si tratta di un conflittotra chi rispetta la legge e chi non la rispetta, ma è un conflitto tra dueleggi. Deve prevalere lalegge secondo la quale ogni persona umana è portatrice di eguali diritti,oppure la legge (le leggi) che valgono solo a proteggere alcuni? La risposta diEnzo Bianchi, e della parte del mondo cattolico più vicina a papa Francesco,non sembra dubbia: “il dovere”, la legge, di “restare umani” (i.b.-e.s.)
Prosegue instancabile l'abbandono da parte del governo renziano dai principi dello stato liberale e dallo spirito e la lettera della Costituzione, cui i membri del governo avevano giurato solennemente fedeltà. La grande stampa tace. articoli di M. Bascetta e P. Pipino.
il manifesto, 10 agosto 2017
LO SCHEMA È QUELLO
DELLA LOTTA AL NARCOTRAFFICO
di Marco Bascetta
«Migranti. È la via più diretta per spacciare un fenomeno storico come emergenza criminale, un problema di politica globale come una questione di sicurezza»
Sotto la superficie della cronaca, con le parole sopraffatte dall’uso ripetitivo che se ne fa, scorre una narrativa mai esplicitata, ma tacitamente e immediatamente percepita. Questa narrazione applica all’immigrazione lo schema del narcotraffico.
C’è un cartello (o più cartelli) che manovrano gli scafisti (corrieri), ci sono governi e polizie corrotte che li coprono, ci sono centrali di smistamento in Europa. E, naturalmente, c’è la mercanzia: quell’umanità in fuga dalle più diverse catastrofi che rischia i propri averi e la propria vita nella traversata del mare. E che qualche approfittatore nostrano considera, ma non è vero, più redditizia degli stupefacenti. I trafficanti, piuttosto spietati, esistono e anche il confuso contesto politico-militare che ne consente, complice, l’azione. Ma lo schema si completa implicitamente con un elemento decisamente ripugnante: i migranti avrebbero sulle società europee lo stesso effetto della droga in termini di inquinamento della presunta purezza, di trasgressione delle regole di convivenza, di indebolimento dei legami sociali e di assorbimento indebito delle scarse risorse assistenziali degli stati. In una versione solo apparentemente meno efferata il migrante rivestirebbe invece la parte del tossico, colpevole di cercare scorciatoie per il paradiso, e pronto a farsi spacciare dagli scafisti il sogno di un’Europa immaginaria. Meritevole, dunque, di essere disintossicato a forza in qualche lager libico. Questo schema, che certamente entusiasmerà la destra xenofoba, sottende la riduzione del problema dell’immigrazione (che almeno in partenza è sempre e solo clandestina) alla lotta contro i trafficanti di fuggiaschi.
È la via più diretta per spacciare un fenomeno storico come emergenza criminale, un problema di politica globale come una questione di sicurezza (degli uni a scapito degli altri). Tutti sanno, beninteso, che non sono gli scafisti la causa delle migrazioni e neanche dell’impossibilità di tenerle sotto controllo, che è la domanda a creare l’offerta e la chiusura a produrre soluzioni fuori dalla legalità. E, tuttavia, i media sono concentrati su questa messa in scena della guerra agli scafisti e alle Ong sospettate di intelligenza con il nemico.
Proviamo a simulare un semplice scenario mettendoci nei panni di un trafficante. Caricando di disperati un natante del tutto inadeguato a raggiungere l’altra sponda, e sempre più frequentemente manovrato da un nocchiero scelto tra i passeggeri stessi, segnalerà via radio le coordinate del naufragio programmato.
Per le unità di soccorso non vi è altra scelta allora che lasciare al loro destino i naufraghi, poiché la segnalazione proviene dai trafficanti e il soccorso internazionale rischia di rientrare nel pacchetto che costoro vendono agli imbarcati, o soccorrere comunque le persone in pericolo di vita. Questa seconda scelta rende la Ong che la adotta rea di alto tradimento, meritevole di messa al bando e l’imbarcazione di essere catturata. Per il trafficante, comunque vada a finire, l’affare è concluso e la domanda non sarà scoraggiata perché non si tratta di un mercato di generi voluttuari e i fattori che lo alimentano lavorano a pieno ritmo.
All’opinione pubblica europea si potrà rivendere un “successo” nella lotta contro i trafficanti di esseri umani. Con il messaggio sottaciuto, perché impronunciabile, che un buon numero di affogati funzionerà da deterrente.
A completare l’intera rappresentazione di fronte alle coste libiche incrociano Ong che hanno firmato il codice di comportamento stilato dal ministro degli interni Minniti e altre che non lo hanno firmato, una nave nazifascista (speriamo resti l’unica) che da loro la caccia, la o le guardie costiere libiche delle quali ben poco si sa, la guardia costiera italiana e la marina militare, nonché quella del generale Haftar che minaccia di bombardarla, scafisti e relitti carichi di disperati. A suo tempo le acque della Tortuga dovevano essere molto più tranquille.
Alle spalle di questa specie di battaglia navale, un’Europa i cui membri cercano di truffarsi a vicenda e l’Unione che, quando si pronuncia richiamandosi ai “valori irrinunciabili”, afferma il contrario di ciò che concretamente lascia fare. Laddove la guerra navale diventa continentale, combattuta sui fronti del Brennero e di Ventimiglia, della Baviera e dei paesi dell’Est. Ma intanto, nella sua sostanziale insussistenza, la crociata contro i contrabbandieri di esseri umani riesce a mettere tutti d’accordo e a coprire i più diversi interessi che si nascondono nel suo cono d’ombra. È la comoda finzione che pretende di conferire perfino una coloritura etica (combattiamo gli schiavisti) al puro e semplice respingimento di una umanità che abbiamo costretto alla fuga o che cerca ragionevolmente di esercitare la sua libertà.
IMMIGRAZIONE,
REATO DI CRITICA.
TORNA GALLA IL VILIPENDIO
di Livio Pipino
«Ritorno all'antico. Un avvocato dice in piazza che i decreti Minniti-Orlando sono “allucinanti” e scatta la denuncia: “Vilipendio delle istituzioni e delle forze armate”. A un’interrogazione del senatore Manconi risponde il viceministro dell’interno confermando la tesi della denuncia, con l’accusa di «aver ingiuriato la polizia»
Ci fu un tempo, nel nostro Paese, in cui le contestazioni di vilipendio erano all’ordine del giorno quando erano ritenuti reati il canto dell’Inno dei lavoratori o il grido «Abbasso la borghesia, viva il socialismo!». Erano gli anni dello stato liberale e, poi, del fascismo quando si riteneva che la libertà non fosse quella di esprimere le proprie idee ma «quella di lavorare, quella di possedere, quella di onorare pubblicamente Dio e le istituzioni, quella di avere la coscienza di se stesso e del proprio destino, quella di sentirsi un popolo forte».
Poi è venuta la Costituzione con l’articolo 21: «Tutti hanno il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione». A tutela dell’anticonformismo e delle sue manifestazioni, poco o punto accette alle forze dominanti perché, come è stato scritto, «la libertà delle maggioranze al potere non ha mai avuto bisogno di protezioni contro il potere» e, ancora, «la protezione del pensiero contro il potere, ieri come oggi, serve a rendere libero l’eretico, l’anticonformista, il radicale minoritario: tutti coloro che, quando la maggioranza era liberissima di pregare Iddio o osannare il Re, andavano sul rogo o in prigione tra l’indifferenza o il compiacimento dei più». Nella prospettiva costituzionale le idee si confrontano e, se del caso, si combattono con altre idee, non costringendo al silenzio chi non è allineato al potere contingente o al pensiero dominante.
Come noto, peraltro, la Costituzione ha tardato a entrare nei commissariati di polizia e nelle stazioni dei carabinieri (nonché, in verità, nelle aule di giustizia). Un saggio di questo ritardo si trova in un’arringa di Lelio Basso del 10 marzo 1952 davanti alla Corte d’assise di Lucca in cui segnalò il caso di un capitano dei carabinieri che, alla domanda postagli nel corso di un dibattimento, «se per avventura avesse mai sentito parlare della Costituzione repubblicana», aveva «candidamente risposto che per l’adempimento delle sue funzioni conosceva la legge di pubblica sicurezza, il codice penale e quello di procedura penale, ma che nessuno dei suoi superiori gli aveva mai detto che egli dovesse conoscere anche la Costituzione». Poi il clima cambiò e negli ultimi decenni del secolo scorso il delitto di vilipendio sembrava diventato una fattispecie desueta.
Ma in epoca di pensiero unico si torna all’antico e la criminalizzazione della “parola contraria” è di nuovo in auge. Sta accadendo per molti temi caldi (è successo con la vicenda di Erri De Luca relativa all’opposizione al Tav in Val Susa) tra cui non poteva mancare la questione dei migranti. Mentre c’è chi invita impunemente ad affondare i barconi della speranza con il loro carico di uomini, donne e bambini (e magari anche le navi delle Organizzazioni non governative che praticano il soccorso in mare) e chi, altrettanto impunemente, sostiene la necessità – convalidata da atti di governo – di ricacciare i profughi da dove vengono (cioè di consegnarli ai loro torturatori e potenziali assassini) ad essere criminalizzate sono – nientemeno le critiche contro i tristemente famosi decreti Minniti-Orlando in tema di trattamento dei rifugiati e di sicurezza urbana.
È accaduto a Roma, in piazza del Pantheon il 20 giugno scorso. All’esito di un flash mob organizzato da Amnesty International per la giornata del rifugiato un giovane avvocato, in un breve intervento, ha vivacemente criticato quei decreti, denunciando l’abbattimento dei diritti dei migranti da essi realizzato, definendoli “allucinanti” e stigmatizzando le applicazioni subito intervenute (tra l’altro dall’amministrazione comunale romana). Sembra incredibile ma alcuni zelanti agenti di polizia, incuranti del coro «vergogna, vergogna» di un’intera piazza, hanno preteso dal giovane avvocato l’esibizione dei documenti ai fini della identificazione e di una ventilata denuncia per «vilipendio delle istituzioni costituzionali e delle forze armate», poi puntualmente intervenuta (con l’immancabile appendice della violenza e minaccia a pubblico ufficiale).
Come sempre più spesso accade, la sequenza dei fatti è stata documentata in video pubblicati sul web (in particolare Youmedia.fanpage.it) dai quali non emergono né parole o espressioni men che corrette né reazioni violente o minacciose alle richieste degli agenti. Espressioni o comportamenti siffatti non sono indicati neppure nella risposta, intervenuta nei giorni scorsi a un’interrogazione del sen. Manconi, nella quale l’ineffabile viceministro dell’interno si limita a dare atto, in modo del tutto generico, che l’avvocato ha «incitato la folla pronunciando parole offensive e ingiuriose nei confronti delle istituzioni e, in particolare, della polizia di Stato».
C’è da non crederci, eppure è avvenuto. Non conosciamo, ovviamente il seguito, ma qualunque esso sia non è, come si potrebbe pensare, un episodio minore. Certo si sono, sul versante repressivo, fatti ben più gravi. Ma quando si criminalizzano anche le parole si fa una ulteriore tappa nella realizzazione del diritto penale del nemico. E non è dato sapere quando ci si fermerà.
Nulla richiama guerra come altra guerra, a parte i soldi. Tutto il resto non conta.
il Fatto Quotidiano online, 10 agosto 2017 (p.d.)
Gli Stati Uniti vendono 110 miliardi di armi all’Arabia Saudita. Anzi no, forse molti di più. E il presidente Donald Trump nello stesso giro di ore se la prende con l’Iran che, secondo lui (ma anche secondo molti tra noi… che però non andiamo in giro per il mondo a vendere armi e ad ammazzare la gente) è un paese pericoloso.
Poi oggi sempre lui, Trump, dichiara “faremo fuoco e furie mai viste” contro la Corea del nord che non è meno bellicoso di lui, dell’Arabia Saudita e dell’Iran. Criminali si confrontano sul tavolo del loro Risiko infame. E versano qualche lacrima sintetica via Twitter per lo sterminio americano di Nagasaki ricordato ieri.
Joe O’Donnell fotografò un bambino che portava il fratello piccolo sulle spalle. Sembrava addormentato. Mia figlia si addormenta spesso così. Anche a me succedeva. Mio padre diceva che ero un sacchetto di patate. Anche io lo dico dei miei figli. Due. Uno dell’età che ha il più grande nella foto. L’altra più o meno di quella che ha il sacchetto che stava sulle spalle. Ma il sacchetto di patate era morto e suo fratello lo accompagnava alla cremazione. Erano bambini di Nagasaki.
Scriveva il poeta
“apritemi sono io…
busso alla porta di tutte le scale
ma nessuno mi vede
perché i bambini morti nessuno riesce a vederli”.
Non li vedono i presidenti. Non li vedono i commentatori. Non li vedono gli elettori. Non li vede quasi nessuno. Speriamo nella bontà dei “quasi”.