Quale Roma vorremmo? Perché questa città, ancorché bellissima, è diventata il luogo dei misfatti, degli intrighi, dei costruttori e loro amici, dei Sindaci che non avrebbero nessun credito nemmeno come direttori di un supermercato. Mi è capitato di entrare in città attraverso Porta San Sebastiano e, come in un sogno ad occhi chiusi, ho immaginato che quel parco dell’Appia Antica mi seguisse fino alle Terme di Caracalla e poi, ancora, sfociasse nei Fori con tutta la sua carica di storia, di presenze silenziose, di colori del cielo. E’ stato solo un sogno ma ho pensato che fosse quello immaginato da Petroselli, Cederna, De Lucia e tanti altri. Poi, seduto su una pietra, ho aperto un quotidiano (uno qualsiasi) alla cronaca cittadina: ho letti di buche, cinghiali in transito, topi, discariche, municipalizzate, trasporti, immigrati, senzatetto, sfrattati. Un brutto risveglio da quel breve sogno.
Ho richiuso gli occhi e immaginato un giorno di festa dove venivano aperte le tante caserme di Roma, i cui spazi venivano restituiti alla città insieme ai tanti alloggi occupati da chi la casa non ce l’ha. Ho visto spazzini, insieme ad abitanti, pulire strade e marciapiedi, salutati da un coro di persone scese nella strada per contribuire all’opera. Ho sognato i Fori riempirsi di ragazzi delle scuole, girare tra i ruderi, sentirsi orgogliosi di quella grande storia raccontata da quelle presenze solenni.C’era aria di festa in quel mio sogno, il suono di un fiume che scorreva lì vicino e le grida di tanti bambini che giocavano in strade dove una volta passavano auto veloci, e, ora: biciclette, tricicli, carrozzelle, pattini, che si mescolavano alla folla; felice, ognuno, di essere in compagnia di altri in questa grande città.
Ho riaperto per un attimo gli occhi e ho visto le ferite inferte: recinsioni, reti metalliche, camionette che sbarrano il passo, militi che, pur se gentili, evocano spettri di una minaccia sconosciuta e misteriosa, segnali di pericolo. Questa volta, chiudendo gli occhi, ho avuto un incubo: il Colosseo divorato da tante cavallette travestite da turisti; l’ho visto, così solenne, sgretolarsi d’incanto, pezzo dopo pezzo, molecola dopo molecola. Ho sentito il rombo degli arei della parata del 2 giugno, il gran silenzio interrotto dal rumore assordante dei carri.
Ho visto cinghiali rotolarsi in Campo dei Fiori tra la spazzatura, intimoriti solo dalla presenza di nutrie che arrivavano risalendo i muraglioni del fiume, e poi, ancora, gabbiani e gabbiani dare la caccia ai colombi. Sulla gran Colonna di Traiano appollaiati strani pappagallini gialli e verdi come vedette che mettono in guardia altri uccelli a stare alla larga e un cielo nero solcato da rondoni e falchi. Ho visto il fiume trasformarsi in una marea di fango che trascinava con sé relitti di barche e rami spezzati.
Ho di nuovo aperto gli occhi e pensato come vorrei questa città: è un sogno che tengo per me.
Qualche giorno fa, l’8 gennaio, è stato pubblicato un curioso articolo sul quotidiano la Repubblica, passato inosservato, dal singolare titolo: “Il 2017 è stato l’anno migliore”, in assoluto della lunga storia dell’umanità. L’autore è Nicholas Kristof, editorialista del prestigioso New York Times, vincitore di ben due premi Pulitzer, quindi, se ne dovrebbe dedurre, voce autorevole del giornalismo internazionale. Se il titolo dell’articolo suscita serie e legittime perplessità, il suo contenuto lascia ancora più sorpresi. La percentuale, afferma, della popolazione mondiale che soffre la fame, è in miseria, o non sa leggere e scrivere, non è mai stata così bassa. La percentuale di bambini che muoiono non è mai stata così bassa. Anche la percentuale di persone sfigurate dalla lebbra, accecate da malattie come il tracoma o affette da altri mali, è scesa. Ogni giorno, il numero di persone di tutto il mondo che vivono in povertà estrema (quelli che guadagnano meno di due dollari al giorno) scende di 217.000 unità, ogni giorno 325.000 persone in più hanno accesso all’energia elettrica e 300.000 persone in più hanno accesso a un’acqua potabile pulita.
Più oltre, nell’articolo, si afferma anche: in tempi recenti, come gli anni Sessanta, la maggioranza degli esseri umani era analfabeta dalla nascita e viveva nella miseria più estrema. Ora meno del 15 per cento della popolazione mondiale non sa leggere e scrivere e meno del 10 per cento vive in estrema povertà. Tra altri quindici anni l’analfabetismo e la povertà estrema saranno quasi del tutto scomparsi. Dopo migliaia di generazioni, questi fenomeni stanno, più o meno, svanendo alla vista.
Che dire? Un esempio fulgido di come le magnifiche sorti e progressive dell’umanità sono all’opera, nonostante i dubbi di Leopardi e di tutte le generazioni che sono a lui seguite. A me l’articolo ha fatto ricordare un divertente sillogismo con il quale mia nonna (democristiana doc) riusciva a stroncare, alla fine degli anni Cinquanta, i miei aneliti comunisti quando avevo l’età di 13 anni. Ella diceva: adesso non c’è più la guerra, nessuno più muore di fame, abbiamo la radio, siamo nel benessere. Tu osi contestare tutto questo? Di chi il merito se non del partito che ci governa (democristiano)? Di fronte all’evidenza di queste evidenze non mi rimaneva che restare in silenzio, pur sospettando che quello non era certamente il migliore dei mondi.
L’editorialista, però, non può fare a meno di riconoscere che il mondo sta andando a scatafascio, ma ha una sua ricetta per salvarlo. Più avanti nell’articolo afferma: in quale momento storico preferireste vivere? Francis Scott Fitzgerald diceva che la prova di un’intelligenza di prima categoria è la capacità di intrattenere due pensieri contraddittori nello stesso momento. Provate con questi (ecco la ricetta, nda): il mondo sta registrando importanti progressi, ma è anche esposto a minacce letali. Il primo pensiero dovrebbe darci la forza per agire rispetto al secondo.
Non ci avevamo pensato! Basta dunque non vedere il mondo che sta andando a scatafascio e concentrarci sulle magnifiche sorti e progressive, per risolvere tutti i problemi. Straordinario questo articolo che ci insegna a fare come gli struzzi che, di fronte, a un pericolo mettono la testa sotto la sabbia per non vedere. E’ un esempio di come i mass media possono manipolare le menti delle persone e far credere loro che questo è il migliore dei mondi possibili. Anzi, non potremmo desiderare di meglio e ringraziare chi ce lo ricorda e chi ci governa!
In questi giorni, Trump ha deciso di spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, provocando le proteste e la giusta indignazione di tutti i paesi arabi alla Turchia all’Arabia Saudita, alla Palestina,che annuncia “un giorno di collera”... (segue)
In questi giorni, Trump ha deciso di spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, provocando le proteste e la giusta indignazione di tutti i paesi arabi, dalla Turchia all’Arabia Saudita, alla Palestina (che annuncia “un giorno di collera”), e di molte cancellerie europee preoccupate per quella che sembra, nemmeno troppo velatamente, una provocazione gravida di conseguenze imprevedibili per tutta l’area del Medio Oriente. Con lo spostamento dell’ambasciata a Gerusalemme, di fatto gli Stati Uniti riconoscerebbero la città santa come capitale d’Israele, come mai prima aveva osato fare la comunità internazionale. Per ricordare il valore simbolico di questa città, sono riportati, di seguito, alcuni brani tratti dal libro del cardinale Martini, Verso Gerusalemme.
Carlo Maria Martini, l’arcivescovo di Milano, avrebbe voluto trascorrere a Gerusalemme gli ultimi anni della sua vita, scegliendola addirittura come la terra per la propria sepoltura. Non perché fosse semplicemente terra dei luoghi santi; semmai perché città lacerata da conflitti violenti, da passioni contrapposte, eppure fatta di persone viventi, di popoli, di comunità delle tre religioni monoteistiche che qui convivono. La chiamava la città dello shalom, che significa pace, completezza, prosperità, ma soprattutto amicizia, accoglienza.
Nel suo libro, così descrive il suo incontro con la città:
«Arrivai in aereo da Roma di sera tardi, mi recai sul terrazzo della casa e mi misi a contemplare il cielo stellato guardando verso le mura. A un tratto ebbi quasi con prepotenza questa percezione: io sono nato qui, a Gerusalemme. […] Mi sembrava di essere davvero nato lì, di essere sempre vissuto a contatto con quelle pietre.
Questa città, unica al mondo, svolge un ruolo simbolico fondamentale: «Ne deriva che la pace in Gerusalemme è il segno della pace nel mondo, è una questione cruciale per i popoli che vi abitano e insieme per l’umanità intera, in quanto simbolo, segno, del destino umano».
Ma Gerusalemme è anche la città della tensione, tra i praticanti e i non praticanti, tensione tra comunità differenti: «E’ una tensione che vibra sempre in questa città”, dove permane un conflitto mai sanato e che forse mai si sanerà. Ed ecco affacciarsi il tragico dilemma, si chiede Martini: il dualismo; città dell’incontro o semplicemente città della coesistenza? Città in cui tante persone e situazioni si passano vicini, ma non si compenetrano? La risposta del cardinale è questa: «Gerusalemme è un mondo di coesistenza e non di simbiosi: voi siete là, per esempio, alla porta di Sichem e potete vedere, gli uni accanto agli altri, un rabbino che va a pregare al Muro, una ragazzina in minigonna che viene da un kibbutz, un musulmano sul suo asino e poi un monaco greco. Non c’è, direi, alcuna interpenetrazione. Ciascuno vive nel suo mondo; non c’è niente di comune tra il mondo del rabbino e quello del monaco greco: sono mondi differenti che coesistono, l’uno affianco dell’altro».
Gerusalemme è città dei simboli. La pietra, innanzi tutto: «pietra non soltanto perché sorge su colline rocciose ma anche perché «pietra» sono i tre centri della città: la pietra del Muro del Pianto, la pietra della cupola, la pietra ribaltata del Sepolcro. E la Porta, porta della speranza: entrare in Gerusalemme, scrive Misrahi, è entrare nel combattimento per la giustizia, è assumere la responsabilità della lotta. Questa entrata avrà perciò uno sbocco, un’uscita: da Gerusalemme uscirà la Legge».
«E la nuova Gerusalemme è il punto di riferimento che dà senso a tutta la storia umana, è il punto d’arrivo di tutte le nazioni e di tutti i popoli, è la città ideale aperta e pronta a ricevere tutti, è la città che esclude ogni impurità e ogni falsità, che affratella nazioni e popoli a mano a mano che vengono immersi in questa pienezza luminosa».La decisione di Trump di spostare, in questo luogo sacro dell’umanità, l’ambasciata americana, è quanto di più empio sia stato partorito da questa modernità che ha totalmente perso il concetto della sacralità (come lo intendeva Pasolini). Solo a un Tycoon come Trump poteva venire in mente un’idea simile, segno e simbolo di future sciagure.
Qualche giorno fa ho partecipato a una riunione alle Officine Zero, una delle tante fabbriche dismesse, nella zona di Portonaccio. Un tempo in questa fabbrica si riparavano i vagoni letto, fiore all’occhiello delle ferrovie italiane, come sa chi abbia viaggiato su di uno di esso almeno una volta nella sua vita. I treni della TAV hanno reso inutile questo glorioso esercizio e un giorno sono stati letteralmente tagliati i binari che dalla stazione Tiburtina portavano a questi capannoni, lasciando morire, oltre gli impianti, una sapienza di lavoro costituita da tappezzieri, meccanici, elettricisti, falegnami. Le tracce di questa sapienza sono state raccolte da un gruppo di giovani che hanno creato un virtuoso contesto di lavoro che ospita abili espulsi dal lavoro e giovani che tentano, in un mare di difficoltà, di ripristinare un ciclo produttivo moderno. Insomma, una visione del mondo diversa. Invitati a visitare gli impianti, erano arrivate illustre personalità istituzionali che hanno, come don Abbondio, parlato in un gergo incomprensibile dei tanti problemi istituzionali che si sarebbero dovuti affrontare. Ho pensato che se una cosa del genere fosse successa in un paese liberale qualche avveduto manager avrebbe valorizzato questa esperienza cogliendone gli aspetti innovativi. Di cose così ce ne sono molte in città, ignorate dalla politica ufficiale che, se mai se ne interessa, è solo per destinare aree come questa al prossimo centro commerciale.
Ho citato questo caso solo per dimostrare come la politica ufficiale distrugge quotidianamente risorse, occasioni di lavoro, saperi, inseguendo vanamente quel modello di crescita che ci ha trascinato in questa crisi, senza nemmeno curiosità per quelle esperienze innovative che potrebbero fornire una risposta al tema del lavoro e della innovazione (vera). Qui la distanza tra la realtà e la visione dei nostri governanti si fa abissale: non sanno vedere nulla che non ha a che spartire con le loro faccende di potere, chiusi e ciechi all’interno del Palazzo. Che altro si aspetta da una sinistra (quella impropriamente rappresentata dal PD) che non è capace di vedere quanto di innovativo si muove, nella più assoluta solitudine, nella nostra società e che lancia segnali inascoltati di nuove modalità di lavoro, nuove forme di socialità, nuovi modi di stare insieme?
Mi piacerebbe, è questa l’ingenuità, che venisse finalmente redatto un programma di pochi punti da parte della sinistra non PD nelle sue varie forme, per liberare le persone dal vincolo asfissiante del “questo è l’unico possibile mondo che ci è consentito” e restituire loro fiducia in se stesse e nel futuro che ci è stato espropriato. E’ possibile? Alle elezioni prossime non vorrei ritrovarmi a votare per il meno peggio, come spesso ho fatto insieme a tanti compagni. Il giorno delle elezioni vorrei uscire di casa sorridendo: questa volta so chi, e cosa, votare.
il manifesto dell’11 agosto 2017, a firma Costantino Cossu, un’intervista a Edoardo Salzano in merito al tentativo in corso di stravolgere il piano paesaggistico regionale... (segue)
“Non esiste più la separazione tra ciò che è naturale e ciò che è culturale. Le due divinità felicemente accoppiate, Natura e Cultura, sono morte e con loro l’idea di scrittura (segue)
Di per sé, l’affermazione non sorprende più di tanto, ma le conseguenze di questo evento (che dà l’avvio a una nuova era denominata Antropocene), possono essere sconvolgenti, se solo ci si riflette un attimo. Anni fa il noto scienziato e ambientalista senese, Enzo Tiezzi, (che aveva studiato negli Stati Uniti insieme a Barry Commoner e contribuito alla diffusione del famoso libro The Circle Closing), pubblicò un libro, Tempi storici e tempi biologici (Garzanti, 1984), nel quale si affermava che mentre la velocità di trasformazione naturale della biosfera si misura su una scala calibrata sui milioni di anni (ere geologiche), la velocità di trasformazione indotta dall’uomo si misurava invece nella scala delle centinaia di anni. Le due velocità, pertanto, non sono tra loro in alcun modo confrontabili. Quella che definiamo “la questione ambientale” altro non è, dunque, che il dis-adattamento tra la velocità dei cambiamenti naturali e quella dei cambiamenti prodotti all’uomo. Questa tesi fu ripresa da Giuseppe O. Longo che ha sostenuto che questo dis-adattamento tra il sistema-ambiente e il sistema-uomo (meglio sarebbe dire sistema: uomo-nell’ambiente), è la vera sostanza della questione ambientale.
In campo urbanistico si parla sempre più di resilienza. E’, come ho in altre occasioni sottolineato, un concetto preso a prestito dalle discipline biologiche e introdotto (seppure in modo scientificamente improprio) nel campo degli studi urbani. Qui esso starebbe a significare il tentativo di adattare le nostre città ai cambiamenti climatici in corso e a quelli che, molto probabilmente, si produrranno (con effetti ancora più disastrosi) nei prossimi anni. Ora a considerare vere le affermazioni di Ghosh, questi cambiamenti naturali sono tutt’uno con quelli culturali, ovvero è la nostra cultura (stili di vita, modelli di consumo, ecc.) a produrli. Anche questo è per certi versi scontato. I cambiamenti climatici sono principalmente l’esito delle modificazioni dello strato di CO2 che circonda la nostra biosfera e che garantisce quell’equilibrio delicatissimo tra energia solare in ingresso e calore rigettato fuori dalla biosfera, nello spazio. Un equilibrio, questo, simile a quello del nostro corpo dove il mantenimento di una temperatura costante di trentasei gradi è appunto garantito tra l’energia assimilata e il calore disperso nell’ambiente circostante. Nessuno potrebbe immaginare di poter sopravvivere con una temperatura corporea che oltrepassa i quaranta gradi o che sia, al contrario, inferiore ai 30. La temperatura media del nostro pianeta (misurata sulla superficie degli oceani) è di 14,5 °C. Variazioni modestissime (dell’ordine di due-tre gradi), provocherebbero conseguenze catastrofiche per tutte le specie viventi (uomo, soprattutto) che diventerebbero a rischio di quasi sicura estinzione.
Tornando alla resilienza, le affermazioni di Ghosh indurrebbero a pensare che più che ricorrere alla tecnologia per fronteggiare i cambiamenti in corso, bisognerebbe modificare il nostro modo di pensare il rapporto tra noi e l’ambiente. Noi – esseri umani – non siamo “altro” dall’ambiente che ci ha “prodotti”. “Il nostro corpo” – sosteneva Edgar Morin – “è una macchina di trenta miliardi di cellule, controllate e procreate da un sistema genetico che si è costituito nel corso di un’evoluzione naturale durata da due a tre miliardi di anni”, e “la bocca con cui parliamo, la mano con cui scriviamo sono organi biologici. Discesi dall’albero genealogico tropicale, dove viveva il nostro antenato, siamo convinti di essere sfuggiti per sempre fuori dalla natura, per costruire il regno indipendente della cultura”. Infine, aggiungeva Morin, noi siamo 100% natura e 100% cultura.
La nostra tecnologia (intesa come una delle manifestazioni della cultura), può aiutarci a ricomporre (o almeno a ridurre) il dis-adattamento prodotto tra uomo e ambiente. Se ad esempio, si riuscisse a far rispettare gli accordi della Cop di Parigi, potremmo sperare almeno di esserci avviati su una buona strada. Ma credo che non basti se non si interviene sulla cultura, ovvero se continuiamo a considerarci fuori dall’ambiente e a vederlo, o ad osservarlo, come uno sfondo, o un giacimento da cui continuare ad estrarre risorse. Ghosh, da antropologo, ne vede gli effetti. Abbiamo prodotto un mondo artificiale più “grande” di quello naturale pensando che possiamo ignorare quest’ultimo; pensando che possiamo farne a meno perché riteniamo la nostra tecnologia assai più potente delle forze della natura. Basta poi un piccolo sbadiglio di questa, come il recente terremoto nell’Italia centrale, per riportarci alla realtà della sua incommensurabile potenza, rispetto alla quale i nostri effimeri sforzi di adattare le nostre città alle conseguenze di quei cambiamenti da noi stessi prodotti, sono insignificanti.
Da sempre, dalla sua data di nascita, l’urbanistica ha fatto ampio uso di concetti importati da altre discipline, in particolare...(segue)
Da sempre, dalla sua data di nascita, l’urbanistica ha fatto ampio uso di concetti importati da altre discipline, in particolare dalla fisica e, più recentemente, dalla biologia. Negli anni Cinquanta e Sessanta, ad esempio, furono introdotti molti concetti dalla fisica per costruire modelli matematici che avrebbero dovuto simulare il comportamento delle persone in ambito urbano. Quei modelli presero a prestito, dalla fisica, la legge di gravitazione universale di Newton (opportunamente corretta, ovviamente) per spiegare e prevedere gli spostamenti casa-lavoro, ovvero per costruire modelli di traffico urbano. Poi, caduto un po’ di moda il paradigma della fisica, è sembrata la biologia la disciplina più adatta a fornire concetti e modelli da usare nelle scienze urbane.
E’ ben noto che la metafora (letteralmente: spostamento, trasferimento, traghettamento di un concetto da una disciplina all’altra) è stata da sempre origine di molte scoperte e invenzioni nel campo della scienza e della tecnologia per il suo carattere evocativo, non vincolato a un significato preciso. Essa però, per essere feconda (nella nuova disciplina), ovvero per produrre avanzamenti conoscitivi, è necessario che il termine trasferito - l’uso nomadico o viaggiante dei concetti, come diceva Isabelle Stengers - sia ridefinito nella nuova disciplina. L’esempio del concetto di “vis” è servito a Newton per coniare quello di “forza” che però, nella fisica, ha assunto un nuovo significato (è un vettore caratterizzato da un’intensità, una direzione e un verso e applicata a un solido, produce lavoro). Il semplice trasferimento del concetto non basta a produrre una innovazione nel campo della nuova disciplina. Anzi, potremmo dire, che il semplice trasferimento tout court si presta ad un’operazione ambigua, oscura, mistificante, senza aggiungere produzione di nuova conoscenza. Le metafore, dunque, vanno “usate” con estrema accortezza e delicatezza. Al contrario esse finiscono col fornire alla disciplina importatrice l’alibi di possedere un presunto, quanto inconsistente, statuto scientifico.
Dalle scienze biologiche l’urbanistica ha attinto a piena mani; basti pensare ai termini di: tessuto urbano, organismo urbano, metabolismo urbano. C’è tutta una corrente di pensiero che definisce la città come un organismo vivente dotato di un proprio metabolismo, evolutasi per selezione “naturale” (una metafora darwiniana). Da cui discendono una serie di concetti letteralmente trasferiti al campo dell’urbanistica, in particolare attribuiti alla città: omeostasi, resilienza, resistenza. Ma se questi concetti hanno un preciso significato nel campo scientifico dove sono stati coniati, trasferiti nell’urbanistica evidenziano una debolezza interpretativa, suppliscono una carenza argomentativa, e la espongono a rischi di falsificazione o mistificazione ideologica.
Oggi sono due i neo concetti “di successo” presi a prestito dalla biologia: quello di resilienza e quello di rigenerazione (quest’ultimo, in verità, presente in molte altre discipline). In biologia ed in ecologia la resilienza indica la capacità di un ecosistema di autoripararsi da eventuali danni prodotti (incendi, eventi atmosferici, inquinamento, ecc.), ovvero la misura (inversa) del tempo necessario all’ecosistema per ritornare nel suo stato di equilibrio originale dopo che l’eventuale perturbazione lo ha allontanato da quello stato. E’ un concetto per molti versi opposto a quello di resistenza. Ad esempio una grande foresta pluviale presenta una grande resistenza (ad essere distrutta da un incendio) ma una scarsa resilienza (moltissimo tempo per riprodursi). Al contrario un giovane boschetto ha una bassa resistenza (può essere distrutto facilmente), ma una grande resilienza (poco tempo necessario per tornare nella sua condizione originaria). Trasformare le città in resilienti starebbe a significare la capacità di una comunità e dei suoi abitanti di modificarsi (adattarsi) per rispondere agli effetti dei cambiamenti climatici. In questo modo essa si lega al concetto di sviluppo sostenibile e a quello di rigenerazione urbana, perché, sostengono i suoi teorici, una città sostenibile è necessariamente una città resiliente, come dimostrano gli esempi di altri Paesi europei che hanno investito sullo sviluppo di una strategia nazionale per l’adattamento ai cambiamenti climatici. La città resiliente è stata una bandiera dell’ex sindaco di New York, Bloomberg, che, all’indomani dell’uragano Sandy, ha lavorato per trasformare la città in uno spazio urbano preparato agli effetti dei cambiamenti climatici, primo fra tutti l’innalzamento del livello del mare, con interventi sul paesaggio e sugli edifici.
Ecco allora svelato il significato strumentale del neo concetto. Nei fatti, quello di resilienza si presta a nuove opportunità economiche per continuare a ricavare profitti anche in situazioni di disastro. Non a caso la città resiliente chiama in causa la green economy o le neo città smart cities come esempio di adattamento progressivo.
I cambiamenti climatici si affrontano riducendo la produzione di merci, ovvero la produzione di co2 associata ad essa. Il che significa in primo luogo riconversione ecologica della produzione che sappiamo comporta una vera e propria (e difficile) rivoluzione economica, culturale e antropologica, un nuovo paradigma, questo sì, in grado di invertire il fenomeno del riscaldamento globale. Cercare di contrastare i cambiamenti climatici adattando le città a resistere a eventuali catastrofi è come imbottirsi di aspirine per contrastare la febbre dovuta a qualche patologia grave. La resilienza diventa così la coperta di Linus per scongiurare il disastro annunciato.
L’altro termine: rigenerazione in biologia sta ad indicare la sostituzione di parti danneggiate con copie identiche alle stesse. E’ il caso della coda della lucertola che se mozzata può rigenerarsi, oppure dell’albero mutilato del suo ramo che in breve tempo rigenera se stesso. Ma in urbanistica? Essa starebbe ad indicare la possibilità di riconvertire (in maniera innovativa, così dicono i sostenitori) tutti quegli spazi lasciati liberi e inutilizzati dal processo di deindustrializzazione e delocalizzazione produttiva e, più in generale, di riconvertire parte del patrimonio edilizio invecchiato o obsoleto. In sintesi, una grande opportunità innovativa, di modernizzazione (e di fare affari). Anche in questo caso è necessario fare qualche riflessione critica. Da sempre le città si sono rigenerate, hanno cambiato forma e aspetto. Vecchie funzioni sono state sostituite da altre più adatte ai tempi. Si tratta di un processo quasi naturale, fisiologico. Ma le parole sono cariche di significati (e talvolta di ideologie) e l’enfasi per la rigenerazione è un po’ sospetta. Cosa si cela dietro questa parola magica? Riconvertire questi manufatti, queste aree abbandonate in quale prospettiva di nuova città? con quali vantaggi? e di chi?
Se non si risponde a queste domande, la rigenerazione resta una parola grimaldello, come lo sviluppo sostenibile o la resilienza, con la quale scardinare qualsiasi equilibrio in nome della solita innovazione e modernizzazione. Oggi, ad esempio, questa parola viene invocata da molte amministrazioni per sfrattare centri sociali e culturali da vecchi edifici fatiscenti. Altra cosa sarebbe se per rigenerazione si intendesse proprio favorire queste esperienze in nome di un rinnovamento culturale e sociale.
In conclusione, questo uso di concetti e modelli importati da altre discipline più “dure” si spiega forse con il fatto che quello dell’urbanistica è un sapere più recente (possiamo datare la nascita dell’urbanistica moderna nell’epoca della rivoluzione industriale, verso la fine del Settecento), che non ha raggiunto il grado di maturità che permette alla fisica o alla chimica, per esempio, di svilupparsi in modo autonomo, al riparo delle influenze ideologiche e culturali. Presentarsi come disciplina scientifica ha delle ricadute in termini di prestigio, ma anche di finanziamenti di ricerca o contratti di consulenza.
Sarebbe bene che questa disciplina smettesse di importare concetti da altri campi per darsi una veste di apparente scientificità o per mostrarsi alla moda, e ne sviluppasse dei propri a partire dalla sua tradizione, con proprie parole e propri significati; il processo di partecipazione inizia da qui.
«Come esistono quelli specializzati nel piastrellare un pavimento, così esistono i partecipatori. Questi vengono adoperati da amministrazioni, autorità locali ma anche grosse imprese di progettazione per mediare il rapporto tra progetto ed utenti. Diventano facilitatori del consenso, o comunque negoziatori tra le richieste della popolazione e le decisioni dei pianificatori» [1]
La loro vocazione (un tantino tenuta nascosta) è quella di eliminare il conflitto tra i rappresentanti e i rappresentati, tra l’amministrazione e gli abitanti, in ordine a un qualche progetto o a una qualche opera controversa. Dunque, semplificando, prima i rappresentati (cittadini) votano i loro rappresentanti politici (amministratori), poi, una volta eletti questi ultimi, si organizzano gruppi di pressione per far valere quelli che ritengono i propri diritti. Tutto questo laborioso progetto maschera la crisi della politica, il vuoto politico tra eletti ed elettori. Ma siamo sicuri che il conflitto (parola di questi tempi oscurata) vada eliminato o comunque ridotto?
«Si tratta, in sostanza, di riflettere sulle trasformazioni della rappresentanza in un’epoca in cui il popolo non si sente più rappresentato dalle istituzioni e i cittadini non concorrono più a determinare la politica nazionale (o locale, nda) associandosi in partiti, ma, eventualmente, in altro modo. Potremmo deprecare o meno entrambi i fatti, tuttavia questo è il dato di realtà dal quale partire. E allora delle due l’una: o si ritiene si possa fare a meno del parlamento e dei partiti, rinunciando in tal modo all’idea stessa di democrazia così come definita dalla modernità giuridica (in fondo le pulsioni populiste che sono oggi egemoni operano in tal senso) oppure diventa necessario ricollegare le istituzioni e gli strumenti della democrazia rappresentativa alle diverse espressioni in cui si manifesta la volontà popolare. Se si vuole rafforzare la democrazia costituzionale è necessario ripensare oltre alle forme della rappresentanza anche le forme della partecipazione»[2]
Ma c’è un secondo aspetto della questione che è dirimente: chi partecipa alla partecipazione? Non tutti gli abitanti della città, ovviamente, ma un limitatissimo gruppo di loro esponenti, quelli che se lo possono permettere, mentre la gran parte della popolazione, una volta esaurita la fase elettorale, è occupata a procurarsi quanto necessario per vivere o, più spesso, per sopravvivere. Il gruppo dei partecipanti diventerà ben presto un gruppo di pressione che, a sua volta, pretenderà di aver ricevuto una delega dagli abitanti esclusi e di rappresentarli di fronte agli amministratori.
«Una specie di professione cuscinetto tra interessi diversi. Il problema è che in questa funzione filtro specializzata tutto si ricompone in maniera tale che poco cambia nella passività degli abitanti e nella vecchiezza dell’impostazione progettuale».[3]
Ma nel lungo periodo il rischio è che tale pratica tecnica aumenti ancora di più il distacco tra popolazione e suoi rappresentanti, anzi che ne sancisca definitivamente il distacco, che è crisi della politica, crisi della rappresentanza, crisi della democrazia. E anziché affrontare questa crisi, si preferisce aggirarla, sterilizzarla. E come sempre è la tecnica ad assolvere questa funzione. Perché, spiegano i cosiddetti facilitatori, la partecipazione ha delle regole ferree che bisogna conoscere e rispettare, pena la sua perdita di efficacia. Quella del “facilitatore” è diventata dunque una professione a parte che si avvale di un linguaggio e di tecniche che solo uno specialista può conoscere. Così che all’opacità dei progetti di una amministrazione si aggiunge quella, ancora più opaca, della partecipazione, con buona pace del conflitto e della cittadinanza attiva. Se applicassimo questo concetto alla malattia, sarebbe come dire che trovando oscure le parole del medico cui ci si affida e altrettanto incomprensibili le cure da lui prescritte, si decidesse di far nascere una figura professionale (il facilitatore) che fa da cuscinetto tra il paziente e il medico.
Quì la crisi dell’urbanistica, in quanto sapere specializzato, si fa più evidente. Sappiamo bene che un abitante che volesse leggere il piano regolatore del proprio paese per conoscere la destinazione d’uso di una qualche area e le norme tecniche che ad esso si riferiscono, troverebbe assai difficile comprendere quelle mappe e ancor più difficile destreggiarsi tra quelle norme. Sorge allora la domanda: quand’è che l’urbanistica si è così specializzata tanto da diventare incomprensibile agli abitanti al servizio degli interessi dei quali essa è nata, a tal punto specializzata che occorre una figura professionale ad hoc per decifrarne il senso e le insidie? Questa sua specializzazione, come la lingua latina usata da don Abbondio per abbindolare Renzo e Lucia, sembra costruita ad arte per essere di volta in volta, interpretata in funzione delle esigenze dei privati, delle agenzie immobiliari. Il piano regolatore, ad esempio, detta delle regole precise in tema di edificazione e uso dei suoli. Ma poi poteri forti sono sempre capaci di derogare quelle norme, o attraverso nuove norme o attraverso varianti al piano. Alla fin fine lo strumento di piano finisce sempre col favorire l’interesse privato rispetto a quello pubblico.
In che modo la cittadinanza può difendere l’interesse pubblico in una condizione di svuotamento della democrazia rappresentativa? Non sempre una democrazia pluralista e conflittuale può supplire questa carenza. La complessità sociale con la quale si manifesta oggi la cittadinanza difficilmente si presta ad essere interpretata e men che mai ad essere rappresentata. Così che anche «il rappresentato dovrà convincersi – in tempi di crisi della rappresentanza e di liquefazione del rappresentante – che la lotta per le istituzioni democratiche gli appartiene»[4]
[1] F. La Cecla, Contro l’urbanistica, Einaudi, Torino, 2014, p.79
[2] Così Gaetano Azzariti, riassume il senso dell’attuale crisi della rappresentanza; da: I tre cardini del rinnovamento istituzionale, Il manifesto, 15 marzo, 2017
[3] Ivi