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«Il brano è tratto da

Retrotopia, l’ultimo libro di Zygmunt Bauman il quale sostiene che nella società contemporanea l’utopia guarda a un passato che consideriamo più rassicurante». Robinson/la Repubblica, 3 settembre 2017 (c.m.c)


«L’utopia di Tommaso Moro di instaurare “il Cielo sulla Terra” non esiste più perché il futuro, troppo incerto e spaventoso, è considerato inaffidabile e ingestibile. Così, mentre prende piede l’individualismo che cancella il senso di comunità, il passato si trasforma in una condizione rassicurante e nell’unica prospettiva accettabile»

Zygmunt Bauman, Retrotopia, Laterza, (traduzione di Marco Cupellaro), in uscita il 7 settembre,

Ecco - per chi le avesse dimenticate - le parole con cui all’inizio degli anni Quaranta Walter Benjamin, nelle Tesi di filosofia della storia, commentava l’Angelus Novus - da lui ribattezzato “ angelo della storia” - dipinto nel 1920 da Paul Klee: «L’angelo della storia ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui nel cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta».

A quasi un secolo da quella lettura, di imperscrutabile e incomparabile profondità, a guardar bene l’opera di Klee si scorge di nuovo l’angelo della storia ad ali spiegate. Ma ciò che forse colpisce di più l’osservatore è il cambio di rotta, come se quell’angelo fosse colto nel bel mezzo di un’inversione di marcia: il volto dal passato si rivolge al futuro, le ali vengono respinte dalla tempesta che, stavolta, spira dall’inferno del futuro ( immaginato, previsto e temuto prima ancora che accada) verso il paradiso del passato (un passato probabilmente solo raffigurato a posteriori, dopo averlo perduto e visto andare in rovina). Ma le ali dell’angelo sono schiacciate, adesso come allora, con una violenza tale “ che egli non può più chiuderle”. La possibile conclusione è che in quel disegno il passato e il futuro sono colti mentre si scambiano i rispettivi vizi e virtù registrati da Klee — come ci spiega Benjamin — un secolo fa. Tocca ora al futuro, deprecato perché inaffidabile e ingestibile, finire alla gogna ed essere contabilizzato come voce passiva, mentre il passato viene spostato tra i crediti e rivalutato, a torto o a ragione, come spazio in cui la scelta è libera e le speranze non sono ancora screditate.

La nostalgia — dice Svetlana Boym, docente di Letterature slave e comparate a Harvard — «è un sentimento di perdita e spaesamento, ma è anche una storia d’amore con la propria fantasia». Nel Seicento la nostalgia era considerata una malattia da cui si poteva guarire: per curarla i medici svizzeri, ad esempio, raccomandavano oppio, sanguisughe e una gita in montagna; ma « nel ventunesimo secolo quella lieve indisposizione si è trasformata in una condizione insanabile. Il ventesimo secolo, iniziato con un’utopia futurista, si è chiuso con la nostalgia». Boym conclude diagnosticando « un’epidemia globale di nostalgia« e avverte: « Il pericolo della nostalgia è che tende a confondere la casa vera con quella immaginaria » . […] Cinquecento anni dopo che Tommaso Moro diede il nome di Utopia al millenario sogno umano di tornare in paradiso o di instaurare il Cielo sulla Terra, l’ennesima triade hegeliana formata da una doppia negazione si avvia a completare il proprio giro.

A partire da Moro, le aspettative di felicità dell’uomo sono state sempre legate a un determinato topos ( un luogo stabilito, una polis, una grande città, uno Stato sovrano, tutti retti da un sovrano saggio e benevolo): ma una volta sganciate e slegate da qualsiasi topos, individualizzate, privatizzate e personalizzate (“ subappaltate” ai singoli esseri umani che le portano con sé come le chiocciole la propria casetta), adesso tocca a loro essere negate da ciò che avevano coraggiosamente e quasi vittoriosamente cercato di negare.

Dalla doppia negazione dell’utopia in stile Tommaso Moro ( prima negata e poi risorta) affiorano oggi “ retrotopie”: visioni situate nel passato perduto/ rubato/ abbandonato ma non ancora morto, e non — come la loro progenitrice due volte rimossa — legate al futuro non ancora nato, quindi inesistente […] La privatizzazione/ individualizzazione dell’idea di “ progresso” e degli sforzi per migliorare costantemente l’esistenza fu offerta dai governanti, e accolta da gran parte dei governati, come una liberazione che poneva fine ai severi obblighi della sottomissione e della disciplina, in cambio della rinuncia ai servizi sociali e alla protezione dello Stato.

Per tante persone — sempre di più — quella liberazione si rivelò una fortuna e insieme una disgrazia, o forse una fortuna adulterata da una dose notevole e crescente di disgrazia. Ai disagi dei vincoli subentrarono — non meno umilianti, spaventosi e gravosi — i rischi, che inevitabilmente finirono per saturare quella condizione di autonomia imposta per decreto. Se la paura di non dare un contributo ( con le sanzioni che ciò comportava) poteva essere tenuta a bada dal conformismo e dall’obbedienza che fino a ieri imperavano al posto dove oggi vige l’autonomia, a quella paura è subentrato il terrore, non meno straziante, di risultare inadeguati.

Mentre le vecchie paure scivolavano lentamente nell’oblio e le nuove si ingigantivano e si intensificavano, promozione e declassamento, progresso e arretramento si scambiavano le parti — e si moltiplicavano sempre più gli individui che, come pedine su una scacchiera, erano ( o si sentivano) condannati alla sconfitta. Ecco così spiegata la nuova inversione di rotta del pendolo della mentalità e degli atteggiamenti pubblici: le speranze di miglioramento, a suo tempo riposte in un futuro incerto e palesemente inaffidabile, sono state nuovamente reinvestite nel vago ricordo di un passato apprezzato per la sua presunta stabilità e affidabilità.

Un simile dietrofront trasforma il futuro, da habitat naturale di speranze e aspettative legittime, in sede di incubi: dal terrore di perdere il lavoro e lo status sociale che esso conferisce, a quello di vedersi “ riprendere” la casa e le cose di una vita, di rimanere impotenti a guardare mentre i propri figli scivolano giù per il pendio del binomio benessere- prestigio, di ritrovarsi con abilità che, sebbene faticosamente apprese e assimilate, hanno perso qualsiasi valore di mercato. La via del futuro somiglia stranamente a un percorso di corruzione e degenerazione. Il cammino a ritroso, verso il passato, si trasforma perciò in un itinerario di purificazione dai danni che il futuro ha prodotto ogni qual volta si è fatto presente. Gli effetti di un simile cambiamento […] si vedono e si toccano a tutti i livelli della convivenza sociale, nella nascente visione del mondo e nelle strategie di vita che tale visione insinua e prepara.

Il fenomeno che definisco “ retrotopia” deriva dalla negazione della negazione dell’utopia, che con il lascito di Tommaso Moro ha in comune il riferimento a un topos di sovranità territoriale: l’idea saldamente radicata di offrire, e possibilmente garantire, un minimo accettabile di stabilità, e quindi un grado soddisfacente di fiducia in sé stessi. Al tempo stesso, la retrotopia si discosta dall’eredità di Moro in quanto approva, fa proprie e assimila le contribuzioni/ correzioni apportate dal suo precedessore immediato, che aveva rimpiazzato l’idea di “ perfezione assoluta” con l’assunto di non- definitività e di endemico dinamismo dell’ordine delle cose, ammettendo in tal modo la possibilità ( e desiderabilità) di una infinita successione di cambiamenti ulteriori, che l’originaria idea di utopia delegittimava e precludeva a priori.

Fedele allo spirito dell’utopia, la retrotopia è spronata dalla speranza di riconciliare finalmente la sicurezza con la libertà: impresa mai tentata — e, in ogni caso, mai realizzata — né dalla visione originaria né dalla sua prima negazione. […] Le più significative tendenze di “ ritorno al futuro” che si riscontrano in questa incipiente fase “ retropica” della storia dell’utopia […] ovviamente, non rappresentano un ritorno diretto e immediato a una modalità di vita praticata in passato: sarebbe semplicemente impossibile, come ha ben dimostrato Ernest Gellner. Essi rappresentano invece — per richiamare la distinzione concettuale proposta da Derrida — tentativi consapevoli di iterazione ( e non reiterazione) dello status quo che esisteva, o si immagina esistesse, prima della seconda negazione, sulla base di un’immagine in ogni caso riciclata e modificata significativamente attraverso un processo di memorizzazione selettiva strettamente intrecciata all’oblio selettivo.

Come che sia, nel tracciare la strada che porta a Retrotopia, i principali punti di riferimento sono gli aspetti veri o presunti del passato che, pur avendo dato buoni risultati, sarebbero stati inopportunamente abbandonati o irresponsabilmente mandati in rovina. Per collocare nella giusta prospettiva l’innamoramento retrotopico per il passato, è opportuno premettere un altro avvertimento. Boym nota che un’epidemia di nostalgia “ spesso segue le rivoluzioni”, e saggiamente aggiunge che nel caso della Rivoluzione francese del 1789 « non fu solamente l’ancien régime a produrre la rivoluzione, ma anche la rivoluzione, per certi versi, a produrre l’ancien régime, dandogli una forma, un senso di compiutezza e un alone di rispettabilità».

Fu invece il crollo del comunismo a far nascere l’idea che gli ultimi decenni dell’impero sovietico fossero stati “ un’età dell’oro di stabilità, forza e normalità, che è l’immagine oggi prevalente in Russia”. In altri termini, ciò a cui di solito “ torniamo” nei nostri sogni nostalgici non è il passato “ in quanto tale” — wie es ist eigentlich gewesen, com’è stato davvero — , quel passato che Leopold von Ranke raccomandava di recuperare e rappresentare ( come diversi storici hanno cercato di fare, con scarsi consensi). […] Ci sono buone ragioni per ipotizzare che l’avvento del World Wide Web e di Internet abbia segnato il declino dei “ Ministeri della Verità”, ma non certo il tramonto della “ politica della memoria storica”, di cui ha semmai moltiplicato le possibilità di applicazione, reso infinitamente più accessibili gli strumenti per praticarla e potenzialmente spinto all’estremo le conseguenze.

In ogni caso, la scomparsa dei “Ministeri della Verità” (ossia del monopolio incontrastato dell’autorità costituita sulle sentenze in materia di veridicità) non ha certo spianato la strada ai messaggi inviati alla coscienza pubblica da chi per mestiere ricerca e comunica la “verità dei fatti”, ma ha semmai reso quella strada ancora più accidentata, tortuosa, infida e incerta.

vocidall'estero.it, online, 18 agosto 2017 (c.m.c)


«Proponiamo la traduzione integrale di un capitolo tratto dal Skin in the Game, l’ultimo libro di Nassim Nicholas Taleb. Con tipica irriverenza e lucidità, Taleb propone un’interpretazione provocatoria e contro-intuitiva delle dinamiche che regolano i comportamenti sociali: a determinate condizioni, i cambiamenti sociali, ben lungi dall’essere causati dalle azioni della maggioranza, sono il frutto dell’ostinata volontà di una minoranza intollerante. In quest’ottica le attuali retoriche di accoglienza, integrazione e tolleranza acquistano un significato inquietante e tendenzialmente auto-distruttivo. Come sempre il messaggio, però, può anche essere visto dalla prospettiva opposta: la consapevolezza di avere una “posta in gioco” nel cambiamento sociale potrebbe portare anche una minoranza virtuosa, purché motivata e determinata, a contrastare l’apparentemente inevitabile declino sociale, economico e culturale».

Perché gli europei mangeranno Halal — Perché non è obbligatorio fumare nella zona fumatori — Le preferenze alimentari al funerale del re saudita–Come impedire ad un amico di ammazzarsi di lavoro – La conversione di Omar Sharif — Come causare un crack dei mercati

Per gettar luce sul funzionamento dei sistemi complessi, inizierei col portare qualche esempio. Se una minoranza intransigente – una minoranza di un certo tipo – raggiunge un livello percentuale anche minimo, diciamo il tre o quattro per cento della popolazione totale, l’intera popolazione dovrà sottostare alle sue preferenze. Inoltre, il dominio della minoranza causa una distorsione ottica: un osservatore sprovveduto potrebbe ritenere che le scelte e preferenze corrispondano a quelle della maggioranza. Se sembra assurdo, è perché le nostre percezioni scientifiche non sono calibrate per comprendere i sistemi complessi (inutile rifarsi a convinzioni scientifiche o accademiche e alle prime impressioni; nei sistemi complessi queste falliscono, e qualsiasi razionalizzazione, tranne la saggezza delle nonne, è destinata a fallire).

L’idea che sta alla base dei sistemi complessi è che l’insieme si comporta in modo non deducibile dalle sue componenti. Le interazioni sono più importanti della natura di ciascuna unità. Studiare le formiche prese singolarmente non potrà mai (e per situazioni di questo tipo si può tranquillamente dire “mai” senza tema di smentita) dare un quadro d’insieme sul funzionamento di una colonia di formiche. Per questo, è necessario studiare una colonia di formiche come una colonia di formiche, né più, né meno, e non come una collezione di formiche. Si ha così una qualità “emergente” del tutto, per la quale le parti e il tutto differiscono, perché ciò che conta è l’interazione tra queste parti. E l’interazione può obbedire a regole molto semplici. La regola discussa in questo capitolo è la regola della minoranza.

La regola della minoranza spiega come sia sufficiente un piccolo gruppo di persone virtuose ed intolleranti che non abbiano niente da perdere, e che abbiano coraggio, perché la società funzioni secondo le loro preferenze.

Questa spiegazione della complessità mi è venuta, inaspettatamente, durante una grigliata all’aperto offerta dal New England Complex Systems Institute. Mentre gli organizzatori apparecchiavano i tavoli e sistemavano le bevande, un mio amico molto osservante, che mangia soltanto Kosher, si avvicinò per salutarmi. Gli offrii un bicchiere di quel liquido giallo zuccherato con aggiunta di acido citrico altrimenti noto come limonata, nella quasi certezza che l’avrebbe rifiutato per via delle sue regole alimentari. Ma così non fu. Accettò e bevve il liquido detto limonata, ed un altro osservante Kosher commentò: “Tanto, tutte le bevande sono Kosher qui”. Diedi un’occhiata al cartone di limonata. In piccolo, stampigliato, c’era un simbolo, una U racchiusa in un cerchio, ad indicare che era Kosher. Il simbolo può essere facilmente identificato dagli interessati, che vanno espressamente a cercare questa minuscola stampigliatura. Tutti gli altri, incluso me, avevamo passato tutti questi anni a bere bevande Kosher senza rendercene conto.

Delinquenti allergici alle noccioline

Allora mi venne una strana idea. La popolazione Kosher rappresenta meno di tre decimi di punto percentuale dei residenti negli Stati Uniti. Nonostante questo, quasi tutte le bevande in commercio sono Kosher. Perché? Semplicemente perché produrre esclusivamente Kosher permette a produttori, distributori e ristoratori di non dover distinguere tra bevande Kosher e non-Kosher con etichette speciali, scaffali separati, inventari separati, magazzini differenti. E la discriminante di tutto ciò è questa:

Chi segue le regole Kosher (o Halal) non mangerà cibo non Kosher (o non Halal), ma chi non segue le regole Kosher può comunque consumare alimenti Kosher.Oppure, trasposto in altri ambiti:Un disabile non userà mai i bagni regolari ma un non-disabile può usare il bagno per i disabili.
Chiaro, a volte nei fatti si esita ad usare un bagno con il simbolo per disabili a causa di una certa confusione – si scambia questa regola con quella dei parcheggi, credendo che l’uso del bagno sia riservato esclusivamente ai disabili.

Chi ha un’allergia alle noccioline non può mangiare prodotti che siano entrati in contatto con arachidi, ma chi non ha questa allergia può tranquillamente mangiare cibi senza traccia di arachidi. Il che spiega perché sia così difficile trovare noccioline in aereo e perché le noccioline siano vietate nelle scuole (contribuendo così ad aumentare il numero di persone con allergie da noccioline, dato che una delle cause di queste allergie è la ridotta esposizione).

Applichiamo ora la regola in ambiti in cui la cosa diventa divertente:

Una persona onesta non commetterà mai atti criminali, ma un criminale può sempre agire legalmente.Chiamiamo la minoranza il gruppo intransigente, e la maggioranza quello flessibile. E la regola è quella della asimmetria nelle scelte.

Una volta ho fatto uno scherzo ad un amico. Anni fa, quando i produttori di tabacco nascondevano e minimizzavano le prove dei danni causati da fumo passivo, i ristoranti di New York avevano aree fumatori e non-fumatori (persino gli aerei, incredibilmente, avevano un’area fumatori). Un giorno andai a pranzo con un amico che era in visita dall’Europa: il ristorante aveva tavoli liberi solo nella zona fumatori. Io riuscii a convincere il mio amico che dovevamo comprare delle sigarette perché per stare nella zona fumatori si doveva fumare. E lui si conformò.

E ancora. Innanzi tutto conta parecchio la geografia del territorio, la sua organizzazione dello spazio; è molto diverso se gli intransigenti vivono tutti insieme o se sono distribuiti in mezzo al resto della popolazione. Se i seguaci della regola di minoranza vivessero in un ghetto, con la loro piccola economia separata, la regola della minoranza non si applicherebbe. Ma se la popolazione è distribuita nello spazio, se ad esempio la percentuale di tale minoranza in un quartiere equivale a quella nel villaggio, quella nel villaggio equivale a quella della provincia, quella della provincia a quella della regione, e quella della regione è la stessa che in tutto il paese, allora la maggioranza (flessibile) dovrà sottostare alla regola della minoranza.

Inoltre, anche la struttura dei costi ha la sua importanza. Nel nostro primo esempio, si dà il caso che produrre limonata conforme alle regole Kosher non cambi molto il prezzo, almeno non abbastanza da giustificare inventari separati. Ma se la produzione di limonata Kosher costasse molto di più, la regola si indebolirebbe in una qualche proporzione non-lineare con la differenza di prezzo. Se produrre cibi Kosher costasse 10 volte tanto, la regola della minoranza non si applicherebbe, tranne forse in qualche quartiere molto ricco.

Anche i musulmani hanno il loro tipo di regole Kosher, ma queste sono più limitate e si applicano solo alla carne. Musulmani ed ebrei hanno infatti le stesse regole di macellazione (tutto ciò che è Kosher è anche Halal per i musulmani, o almeno così era nei secoli scorsi, ma non è sempre vero il contrario). Si noti come queste regole di macellazione siano motivate dalla posta in gioco, e tramandate da pratiche greche e semitiche del Mediterraneo Orientale, in base alle quali le divinità erano venerate solo investendoci qualcosa, come sacrificare animali alla divinità per poi mangiarne i resti. Gli dei non amano le cerimonie a buon mercato.

Ora si consideri questa manifestazione della dittatura della minoranza. Nel Regno Unito, dove la popolazione musulmana (praticante) è solo il tre o quattro per cento, gran parte della carne è Halal. Quasi il settanta per cento delle importazioni di agnello dalla Nuova Zelanda sono Halal. Circa il dieci per cento dei negozi della catena Subway sono Halal (cioè, non servono carne di maiale), nonostante le significative perdite commerciali derivanti dal non poter servire prosciutto. Lo stesso vale in Sudafrica, dove, con la stessa proporzione di musulmani, una quantità sproporzionata di polli sono certificati come Halal. Tuttavia, in UK e in altri paesi cristiani, Halal non è un concetto abbastanza neutro da diffondersi molto, poiché la gente potrebbe ribellarsi se costretta a seguire regole religiose estranee. Ad esempio Al-Akhtal, poeta arabo cristiano del VII secolo, ribadì la scelta di non consumare mai carne Halal in un noto poema provocatorio in cui si vantava del suo Cristianesimo: “Io non mangio carne sacrificale”. (Al-Akhtal si riferiva alla tipica reazione cristiana di tre o quattro secoli prima — i cristiani in epoca pagana venivano torturati obbligandoli a mangiare carne sacrificale, che per loro era sacrilegio. Diversi martiri cristiani morivano di fame.)

Ci si può attendere lo stesso rifiuto delle regole religiose in Occidente, man mano che la popolazione musulmana va crescendo.

Quindi la regola della minoranza potrebbe portare a una maggiore proporzione di alimenti Halal nei negozi rispetto a quanto giustificato dalla proporzione dei consumatori Halal nella popolazione, ma solo fino ad un certo punto, perché alcuni potrebbero sviluppare un’avversione al cibo musulmano. Per certe regole Kashrut (concernenti i cibi Kosher, N.d.T.) senza connotazioni religiose, la percentuale può tranquillamente avvicinarsi al 100%. Negli USA e in Europa i produttori di cibo “biologico” vendono sempre di più proprio grazie ad un’applicazione della regola della minoranza, e perché i prodotti ordinari non etichettati come tali sono spesso percepiti come contenenti pesticidi, erbicidi ed organismi transgenici geneticamente modificati, “OGM”, che secondo alcuni presentano rischi sconosciuti. (In questo contesto OGM si riferisce al cibo transgenico, ottenuto trasferendo geni da un organismo o una specie estranea). Oppure la preferenza può essere dettata da motivi esistenziali, da un atteggiamento di prudenza, o da un’inclinazione (in stile Burke) verso i valori della tradizione – c’è chi preferisce non discostarsi troppo e troppo velocemente da ciò che mangiavano i nonni. L’etichettatura “biologico” è un modo per indicare che quell’alimento non contiene OGM.

Spingendo per gli alimenti geneticamente modificati con mezzi che andavano dalle lobby, alle mazzette ai politici, fino alla palese propaganda scientifica (con campagne diffamatorie contro individui come il sottoscritto), le grandi aziende agricole si illudevano ingenuamente che bastasse avere la maggioranza dalla loro parte. Niente di più sbagliato. Come dicevo, il tipico ragionamento aridamente “scientifico” è troppo poco sofisticato per questo genere di decisioni.

Teniamo presente che chi mangia OGM transgenici può mangiare anche non-OGM, ma non il contrario. Quindi basta che ci sia una piccola parte, non più del 5%, di popolazione che non mangia gli OGM, distribuita uniformemente nello spazio, per far sì che l’intera popolazione finisca con il consumare non-OGM. In che modo? Supponiamo che si debba organizzare un evento aziendale, un matrimonio, o una grande festa per celebrare la caduta del regime saudita, o il fallimento della banca di investimenti speculativi Goldman Sachs, o la pubblica umiliazione di Ray Kotcher, il presidente di Ketchum, l’agenzia di pubbliche relazioni specializzata nel diffamare scienziati e informatori scientifici in nome e per conto delle grandi multinazionali. C’è forse bisogno di mandare questionari per chiedere agli invitati se mangiano o no OGM transgenici e prenotare se è il caso pasti speciali? No. Basta ordinare tutto non-OGM, a meno che la differenza di prezzo non sia significativa. E la differenza di prezzo sembra essere irrilevante, perché il prezzo degli alimentari (freschi) in America è determinato in gran parte (fino all’80 o 90%) dalla distribuzione e stoccaggio, non dal costo di produzione agricola. E dato che la domanda di alimenti biologici (o designati come “naturali”) da parte della minoranza è in continua crescita, i costi di distribuzione diminuiscono e la regola della minoranza finisce con l’accelerare anche questo effetto.

Le grandi imprese agricole industriali non hanno capito che, in questo gioco, per vincere non basta avere più punti dell’avversario, ma bisogna avere il 97% dei punti totali. Ancora una volta, stupisce che a queste grandi aziende, capaci di spendere milioni di dollari in campagne di ricerca e diffamazione, con centinaia di scienziati convinti di essere più intelligenti del resto della popolazione, sia potuto sfuggire un concetto talmente elementare come le scelte asimmetriche.

Un altro esempio: non si pensi che la diffusione di auto con il cambio automatico [negli USA, N.d.T.] sia dovuta necessariamente al fatto che la maggioranza preferisce guidare automatico; potrebbe essere semplicemente il caso che chi sa guidare con il cambio manuale può sempre guidare con quello automatico, ma non il contrario [1].

Il metodo di analisi qui utilizzato è noto come gruppo di rinormalizzazione, un potente apparato matematico che in fisica teorica permette di studiare i cambiamenti nel tempo. Vediamo di che si tratta – senza usare le formule.

Gruppo di rinormalizzazione

La figura in alto mostra quattro riquadri che presentano la cosiddetta auto-similarità frattalica. Ciascun riquadro contiene quattro riquadri più piccoli. Ciascuno dei quattro riquadri contiene quattro riquadri, e così via, verso l’alto e verso il basso fino a raggiungere un certo livello. I due colori rappresentano: il giallo la scelta maggioritaria, il rosa quella minoritaria.

Immaginiamo che l’unità più piccola contenga quattro persone, una famiglia. Uno di questi è la minoranza intransigente e mangia solo alimenti no-OGM (inclusi quelli biologici). Il suo riquadro sarà in rosa mentre gli altri sono gialli. Con la “prima rinormalizzazione”, la figlia testarda riesce ad imporre le sue regole a tutti e quattro, ed il riquadro-famiglia diventa interamente rosa, ovvero tutti sceglieranno no-OGM. Nel terzo passaggio, la famiglia è invitata ad una grigliata cui partecipano altre tre famiglie. Poiché l’ospite sa che loro mangiano solo no-OGM, cucinerà esclusivamente biologico. Lo spaccio alimentare del quartiere, rendendosi conto che i suoi clienti ormai chiedono solo no-OGM, inizierà a vendere solo cibi no-OGM per semplificarsi la vita, il che avrà un impatto sul distributore locale, e così via di rinormalizzazione in rinormalizzazione.

Per caso, il giorno prima del barbecue di Boston, mi trovavo a zonzo per New York, e passai dall’ufficio di un amico cui volevo impedire di lavorare, ossia, svolgere quell’attività che, se abusata, causa perdita di lucidità mentale, nonché cattiva postura e perdita di definizione dei connotati facciali. Il fisico francese Serge Galam si trovava anche lui per caso di passaggio, e aveva deciso di bighellonare un po’ nell’ufficio del mio amico. Galam era stato il primo ad applicare le tecniche di rinormalizzazione alle scienze sociali e politiche; il suo nome non mi era nuovo perché si trattava dell’autore del più importante libro sull’argomento, che da mesi giaceva in una scatola di Amazon mai aperta nella mia cantina. Mi illustrò dunque le sue ricerche e mi mostrò un modello computerizzato di elezioni, in base al quale basta che una minoranza superi un certo livello perché le sue preferenze prevalgano.

Nelle analisi politiche esiste dunque la stessa illusoria convinzione, diffusa dagli “scienziati” politici: si pensa che se un determinato partito di estrema destra o sinistra ha, poniamo caso, il sostegno del 10% della popolazione, ne consegue che il suo candidato otterrà il 10% dei voti. No: gli elettori di riferimento devono essere classificati come “inflessibili” e voteranno sempre per la loro parte. Ma alcuni elettori flessibili possono anche votare per i partiti estremisti, esattamente come chi non osserva l’alimentazione Kosher può mangiare Kosher, e questi sono gli elettori su cui ci si deve concentrare perché possono gonfiare il numero di voti per un partito o l’altro. Il modello di Galan produceva una miriade di effetti contro-intuitivi per le scienze politiche – e le sue previsioni risultavano molto più vicine alla realtà di quanto lo sia un’interpretazione ingenua.

Il veto

Quando una persona è in grado di pilotare le scelte di un gruppo di rinormalizzazione, questo si chiama l’effetto “veto”. Rory Sutherland suggerisce che sia questo il motivo per cui certe catene di fast-food, come McDonald, hanno successo, nonostante la scarsa qualità dei loro prodotti, perché in un certo gruppo socio-economico non vi sono obiezioni a frequentarlo – e solo per una piccola parte di quel gruppo. Per dirla in termini tecnici, si tratta della migliore tra le peggiori ipotesi di divergenza dalle aspettative: quando la media e la varianza sono basse.

Quando ci sono poche scelte, il McDonald sembra l’opzione più sicura. Ed è un’opzione sicura anche in posti poco raccomandabili, con pochi clienti abituali, in cui la varianza del cibo rispetto alle aspettative può essere significativa – sto scrivendo queste righe alla stazione centrale di Milano e, per quanto possa essere offensivo per un visitatore che venga da lontano, il McDonald è uno dei pochi ristoranti frequentabili qui. Sembrerà strano, ma ci vanno anche gli italiani che cercano di salvarsi dai cibi più a rischio.

Lo stesso vale per la pizza: è un tipo di cibo comunemente accettato e, tranne che non ci si trovi in un ristorante di lusso, non c’è nulla di male ad ordinarla.

Rory mi scrisse anche a proposito dell’asimmetria birra-vino e di come questo influenza le scelte ai ricevimenti: “Se la percentuale di donne invitate supera il 10%, non è più possibile servire soltanto birra. Ma la maggior parte degli uomini beve anche vino. Quindi, se si serve solo vino, basta un solo set di bicchieri — il donatore universale, per usare la terminologia dei gruppi sanguigni.”

La strategia del miglior limite inferiore è la stessa adottata dai Cazari per scegliere tra Islam, Giudaismo e Cristianesimo. Narra la leggenda che tre delegazioni di alto livello (vescovi, rabbini e sceicchi) cercarono di convertirli. Ai cristiani venne chiesto: se doveste scegliere tra Giudaismo e Islam, quale preferireste? Il Giudaismo, risposero questi. Poi fu chiesto ai musulmani: quale delle due, Cristianesimo o Giudaismo. Il Giudaismo, dissero i musulmani. Era dunque il Giudaismo, e la tribù si convertì.

Lingua Franca

Se ad un meeting che si svolge in Germania, in un’austera sala conferenze in stile teutonico di un’azienda sufficientemente internazionale o quantomeno europea, uno dei presenti non capisce il tedesco, l’intero meeting si terrà in…inglese, o almeno nell’inglese sgangherato parlato nelle aziende di tutto il mondo. Così si riesce ad oltraggiare sia gli antenati teutonici che la lingua inglese[2]. Tutto cominciò con la regola asimmetrica per cui coloro che non sono di madrelingua inglese parlano (male) l’inglese, ma il contrario (che gli anglofoni parlino altre lingue) è meno probabile. Il francese in passato era la lingua della diplomazia usata dai funzionari, che generalmente erano di estrazione aristocratica – mentre i loro connazionali più rozzi, occupandosi di commercio, si affidavano all’inglese. Nella rivalità tra le due lingue, l’inglese risultò vincitore man mano che il commercio acquisì prevalenza nella vita moderna; questa vittoria non ha nulla a che fare con il prestigio della Francia o gli sforzi dei loro funzionari nella promozione della loro più o meno gradevole ed ortograficamente coerente lingua latina rispetto a quella ortograficamente più confusa dei polpettoni d’oltre Manica.

Si può dunque intuire in che modo l’emergere di una lingua franca possa rispondere alle regole della minoranza – e questo è un aspetto che i linguisti ignorano. L’aramaico è una lingua semitica che soppiantò il canaita (ossia, l’ebraico-fenicio) nel Levante, e somiglia all’arabo; era la lingua parlata da Gesù Cristo. Il motivo per cui riuscì a prevalere nel Levante e in Egitto non è una particolare potenza imperiale semitica o il fatto che hanno una forma del naso interessante. Furono i Persiani – che parlano una lingua indoeuropea – a diffondere l’aramaico, la lingua di assiri, siriani e babilonesi. I Persiani insegnarono agli egiziani una lingua che non era la loro.

Semplicemente, quando i Persiani invasero Babilonia, lì trovarono un’amministrazione con scribi che erano in grado di usare solo l’aramaico e non conoscevano il persiano, quindi l’aramaico divenne la lingua ufficiale. Se un segretario è capace di scrivere sotto dettatura solo in aramaico, gli si deve parlare aramaico. Ciò portò alla stranezza per cui l’aramaico si è diffuso fino in Mongolia, perché i registri di stato erano scritti in siriaco (un dialetto orientale dell’aramaico). Secoli dopo la storia si replicò al contrario, con gli arabi che usarono il greco nei loro primi governi del VII e VIII secolo. Infatti, durante l’epoca ellenistica, il greco aveva soppiantato l’aramaico quale lingua franca nel Levante, e gli scribi di Damasco tenevano i loro registri in greco. Ma non furono i Greci a diffondere il greco in tutto il Mediterraneo – non fu Alessandro (che comunque non era greco ma macedone e parlava un dialetto greco differente) a causare l’immediata e profonda ellenizzazione. Furono i Romani ad accelerare la diffusione del greco, che veniva usato nelle loro amministrazioni in tutto l’Impero orientale.

Un mio amico franco-canadese di Montreal, Jean-Louis Rheault, si lamentò una volta con me a proposito della perdita della lingua dei franco-canadesi fuori dai confini delle province. Disse queste parole: “In Canada, per bilingue si intende anglofono, e per “francofono” si intende bilingue.”

La strada a senso unico delle religioni

Allo stesso modo, la diffusione dell’Islam in Medio Oriente, dove il Cristianesimo era fortemente radicato (essendo nato lì) può essere attribuita a due semplici asimmetrie. In origine, i sovrani islamici non erano particolarmente interessati a convertire i Cristiani, dato che questi pagavano le tasse – il proselitismo dell’Islam non si rivolgeva alle cosiddette “genti del libro”, cioè individui di credo abramitico. In realtà, i miei antenati, che sopravvissero per tredici secoli sotto il dominio musulmano, trovavano vantaggioso non essere musulmani: in particolare, così evitavano la coscrizione obbligatoria.

Le due regole asimmetriche erano le seguenti. Primo, se un uomo non-musulmano sotto dominazione islamica sposa una donna musulmana, deve convertirsi all’Islam – e se uno dei genitori è musulmano, il figlio sarà musulmano[3]. Secondo, essere musulmani è irreversibile, e l’apostasia è il crimine più grave per la religione, punito con la morte. Il famoso attore egiziano Omar Sharif, nato Mikhael Demetri Shalhoub, era di origine cristiana libanese. Si convertì all’Islam per sposare una famosa attrice egiziana e dovette cambiare il nome con uno arabo. Più tardi divorziò, ma non tornò alla religione dei suoi antenati.

Con queste due regole asimmetriche è possibile fare delle semplici simulazioni e vedere come un piccolo gruppo islamico che occupi l’Egitto cristiano (Copto) possa, nel corso dei secoli, portare i Copti a diventare un’esigua minoranza. Basta soltanto una piccola percentuale di matrimoni interconfessionali. Si spiega egualmente perché il Giudaismo non si diffonda e tenda a restare in una minoranza, dato che questa religione segue la regola opposta: la madre deve essere ebrea, e i matrimoni interconfessionali abbandonano la comunità. Un’asimmetria ancora più estrema di quella del Giudaismo spiega la diminuzione in Medio Oriente di tre religioni gnostiche: i Drusi, gli Yazidi e i Mandei (le religioni gnostiche sono quelle in cui i misteri e la conoscenza sono tipicamente accessibili soltanto ad una minoranza di anziani, mentre il resto della comunità è all’oscuro delle questioni religiose). A differenza dell’Islam, dove uno qualsiasi dei genitori deve essere musulmano, e del Giudaismo, dove almeno la madre deve avere quella religione, queste tre religioni richiedono che entrambi i genitori siano della stessa fede, altrimenti la persona viene esclusa dalla comunità.

L’Egitto ha un territorio pianeggiante. La popolazione è distribuita in maniera omogenea, il che permette la rinormalizzazione (cioè permette la prevalenza della regola delle asimmetrie) – come spiegato precedentemente in questo capitolo, perché le regole Kosher diventino prevalenti è necessario che gli ebrei siano distribuiti abbastanza uniformemente nel paese. Ma in posti come il Libano, la Galilea e il nord della Siria, dove il territorio è montagnoso, cristiani e altri musulmani non sunniti sono rimasti isolati. Se i cristiani non vengono in contatto con i musulmani, non vi sono matrimoni interconfessionali.

I Copti d’Egitto hanno anche avuto un altro problema: l’irreversibilità delle conversioni islamiche. Molti Copti si convertirono all’Islam durante il dominio islamico quando si trattava di una procedura puramente burocratica, per poter accedere a determinate professioni o per risolvere un problema che richiedesse la giurisprudenza islamica. Non c’è bisogno di credere, perché l’Islam non è fondamentalmente diverso dal Cristianesimo Ortodosso. Con il passar del tempo una famiglia cristiana o ebrea convertita per convenienza diventa convertita sul serio, e un paio di generazioni più tardi i discendenti dimenticano che quello dei propri antenati era solo un accomodamento.

Quindi l’arma vincente dell’Islam è stata il suo essere più intollerante del Cristianesimo, il quale a sua volta si era imposto grazie alla sua intolleranza. Infatti, prima della nascita dell’Islam, la diffusione del Cristianesimo nell’Impero Romano si può considerare dovuta….alla cieca intolleranza dei cristiani, l’incondizionata, aggressiva resistenza del loro proselitismo. I pagani romani inizialmente tolleravano il Cristianesimo, era nella loro tradizione condividere le divinità con gli altri popoli dell’impero. Ma poi iniziarono a chiedersi perché questi Nazareni non fossero disposti a fare cambio con le loro divinità e ad inserire il loro Gesù nel pantheon romano in cambio di altri dei. Forse i nostri dei non valgono abbastanza per loro? Ma i cristiani erano intolleranti verso il paganesimo romano. Le “persecuzioni” dei cristiani furono causate molto più dall’intolleranza dei cristiani verso il pantheon e gli dei locali che non il contrario. Noi però leggiamo la storia scritta dai cristiani, non dai greco-romani. [4]

Non sappiamo abbastanza del lato dei Romani durante l’ascesa del Cristianesimo, perché il dibattito è stato monopolizzato dall’agiografia: ad esempio, conosciamo la storia di Santa Caterina martire, che continuò a convertire i suoi carcerieri finché non fu decapitata, se non che…probabilmente non è mai esistita. Esistono un’infinità di storie di martiri e santi cristiani – ma quasi nulla sull’altra parte, gli eroi pagani. Gli unici documenti che abbiamo sono quelli sul ritorno al Cristianesimo durante l’apostasia dell’imperatore Giuliano e gli scritti del suo seguito di pagani greco-siriani, come Libanio Antioco. Giuliano aveva inutilmente tentato di ritornare all’antico paganesimo, ma era come cercare di mantenere un pallone sott’acqua. E ciò non perché, come ritengono gli storici erroneamente, la maggioranza fosse pagana: ma perché la fazione cristiana era troppo intransigente. Il Cristianesimo poteva contare su menti brillanti come Gregorio Nazianzeno e San Basilio, ma nessuno che potesse paragonarsi, o almeno avvicinarsi, al grande oratore Libanio. (La mia ipotesi euristica è che più una mente è pagana, più è intelligente, con maggiori capacità di comprendere sfumature ed ambiguità. Religioni puramente monoteistiche come il Protestantesimo, il Salafismo o l’ateismo fondamentalista, riescono a soddisfare solo le menti capaci di ragionamenti letterali e mediocri, incapaci di tollerare le ambiguità.)

Si evidenzia infatti nella storia delle “religioni” mediterranee, o piuttosto dei rituali e sistemi di comportamento e di credenze, una cesura storica operata dagli intolleranti, che ha effettivamente portato a ciò che viene comunemente inteso come religioni. Il Giudaismo avrebbe potuto quasi estinguersi a causa della regola di successione materna e il suo confinamento su base tribale, ma il Cristianesimo poté imporsi, e lo stesso vale per l’Islam. E poi, quale Islam? Ne esistono molte varietà, e il risultato finale è molto diverso dalle versioni precedenti. Perché lo stesso Islam ha finito con l’essere monopolizzato dai puristi (nella sua parte sunnita), semplicemente perché questi erano più intolleranti degli altri: i Wahabbiti, fondatori dell’Arabia Saudita, erano quelli che distruggevano i templi, per imporre le regole più intolleranti, imitati recentemente dall’”ISIS” (l’Islamic State of Iraq and Syria/il Levante). Ogni derivazione successiva dell’Islam sunnita sembra essere concepita per compiacere il suo ramo più intollerante.

Imporre la virtù

Questa idea di unilateralità aiuta a sfatare un certo numero di altri equivoci. Perché i libri vengono messi all’indice? Certamente non perché offendono la gente comune – la maggior parte di loro è passiva e disinteressata, o non abbastanza motivata da richiederne la censura. Sembra piuttosto, sulla base delle esperienze passate, che bastino pochissimi (ma motivati) attivisti per censurare un libro, o includere certe persone in una lista nera. Il grande filosofo razionalista Bertrand Russell perse la sua cattedra alla City University of New York a causa di una lettera scritta da una madre furiosa – e ostinata – per il fatto che sua figlia potesse trovarsi nella stessa aula con una persona dallo stile di vita dissoluto e dalle idee sovversive. [5]

Lo stesso vale per i proibizionismi – almeno negli Stati Uniti il proibizionismo dell’alcool ha originato una serie di storie di mafia davvero appassionanti.

Non illudiamoci che la formazione dei valori morali di una società avvenga come evoluzione del consenso. No, sono i più intolleranti ad imporre la virtù agli altri, proprio in base alla loro intolleranza. Lo stesso vale per i diritti civili.

Esempio questo perfetto per capire come i meccanismi della religione e della trasmissione di regole morali obbediscano alle stesse dinamiche di rinormalizzazione delle regole alimentari – e per mostrare che il senso morale comune non è altro che un’imposizione da parte di una minoranza. Abbiamo visto in precedenza l’asimmetria tra l’osservanza e l’infrazione delle regole: chi rispetta le leggi ( o le regole) seguirà sempre le regole, ma un delinquente, o una persona con una serie di principi più permissivi, non infrangeranno sempre tutte le regole. Analogamente si è discusso l’effetto fortemente asimmetrico delle regole alimentari Halal. Uniamo adesso i due concetti. In arabo classico, la parola Halal ha un suo contrario: Haram. La violazione di disposizioni legali e morali – di qualsiasi tipo – è Haram. La stessa interdizione disciplina sia l’alimentazione che tutti gli altri comportamenti umani, come giacere con la donna altrui, prestare ad usura (senza condividere il rischio del debitore) o uccidere il proprio latifondista per diletto. Haram è Haram, ed è una regola asimmetrica.

Da ciò consegue che, perché una regola morale si affermi, una minoranza intransigente di individui sparsi geograficamente è sufficiente a determinare le norme prevalenti in una società. La cattiva notizia è che chi osservi l’umanità in aggregato potrebbe erroneamente arrivare alla conclusione che il genere umano si stia spontaneamente evolvendo per essere migliore, più morale, più amabile, con un alito più profumato, quando invece questo vale solo per una piccola parte dell’umanità.

La persistenza della regola della minoranza, una tesi probabilistica

Una tesi probabilistica che conferma la prevalenza della regola della minoranza nel dettare i valori sociali è la seguente. Dall’osservazione di diverse società e della loro storia si evidenzia come siano sempre le stesse regole morali generali ad affermarsi, con alcune varianti non significative: non rubare (quanto meno, non dalla stessa tribù); non adescare gli orfani per il tuo piacere; non picchiare gratuitamente il primo venuto per allenarti, usa invece i sacchi da boxe (tranne se sei spartano, ma anche in quel caso sei autorizzato a uccidere solo un numero finito di iloti per allenarti), ed altre interdizioni di questo genere. Si nota anche che con il passare del tempo queste regole si evolvono per diventare sempre più universali, espandendosi in territori sempre più vasti, fino ad includere progressivamente gli schiavi, le altre tribù, le altre specie (gli animali, gli economisti), ecc. Ed una delle proprietà salienti di queste regole è il loro essere “o nero o bianco”, binarie, discrete, non ammettere gradazioni. Non è possibile rubare “un pochino” o uccidere “con moderazione”. Non è possibile osservare il Kosher e mangiare “solo un pezzettino” di maiale alla grigliata domenicale.

Per questo è molto più probabile che questi valori provengano da una minoranza che non dalla maggioranza. Perché? Consideriamo queste due tesi:
Paradossalmente, applicando la regola della minoranza i risultati sono molto più costanti—la varianza dei risultati è minore e la regola è più suscettibile di affermarsi indipendentemente tra la popolazione.

Ciò che emerge dalla regola della minoranza sarà probabilmente o bianco o nero.

Un esempio. Immaginiamo che un malvagio voglia avvelenare una collettività aggiungendo delle sostanze alle lattine di soda. Ha due possibilità. La prima è il cianide, che segue la regola della minoranza: una goccia di veleno (oltre una certa soglia) rende velenosa la totalità del liquido. La seconda è un veleno che funzioni solo se è prevalente, che richiederebbe l’aggiunta di oltre metà di liquido velenoso per essere efficacemente mortale. Consideriamo adesso il problema inverso, in cui un gruppo di persone dopo aver cenato assieme muoiano tutte misteriosamente, e se ne debbano investigare le cause. Lo Sherlock Holmes del caso concluderebbe che una condizione per cui tutte le persone che hanno consumato la soda sono state ammazzate, è che il nostro malvagio abbia optato per la prima ipotesi, non per la seconda. In altre parole, la regola della maggioranza presenta ampie fluttuazioni sulla media, con un’alta percentuale di sopravvivenza.

Il carattere o-bianco-o-nero di tali regole sociali si può spiegare anche così. È come se, a certe condizioni, mescolando il bianco con il blu scuro in varie proporzioni il risultato non sia diverse gradazioni di celeste, ma sempre il blu scuro. A queste condizioni è infinitamente più probabile che il colore prodotto sia blu scuro che non con altre regole che permettano altre gradazioni di blu.

Il paradosso di Popper

Una volta mi trovai ad un ricevimento con tanti tavoli, la tipica situazione in cui si deve scegliere tra il risotto vegetariano e il menù non-vegetariano, quando notai che al mio vicino era stato servito il pasto (incluse le posate) in un vassoio simile a quello dei pasti in aereo. I piatti erano avvolti in carta stagnola. Si trattava evidentemente di un ultra-Kosher. Tuttavia, questi non appariva contrariato dal fatto di condividere il tavolo con mangiatori di prosciutto che, per di più, combinavano burro e carne nello stesso piatto. Lui voleva soltanto essere libero di seguire le sue preferenze.

Per gli ebrei e per minoranze islamiche come gli Shiiti, i Sufi, e religioni simili come i Drusi e gli Alawiti, l’obiettivo è di essere lasciati in pace nel seguire le loro preferenze alimentari – con rare eccezioni storiche qua e là. Ma se il mio vicino fosse stato un Salafita Sunnita, avrebbe preteso che l’intera sala fosse Halal. O forse l’intero palazzo. O l’intera città. Magari l’intero paese. Possibilmente l’intero pianeta. Infatti, data la totale assenza di separazione tra chiesa e stato, e tra sacro e profano, in quel caso Haram (il contrario di Halal) significa letteralmente illegale. L’intera sala sarebbe stata fuori legge.

Mentre scrivo queste righe, si discute se la libertà dell’Occidente può essere minacciata dalle politiche invasive necessarie per combattere i fondamentalisti salafiti.

In altre parole, può la democrazia – che per definizione è la regola della maggioranza – tollerare i suoi nemici? La domanda da porsi è: “Siete d’accordo sull’opportunità di negare la libertà di parola a qualsiasi partito politico che abbia tra i suoi obiettivi l’abolizione della libertà di parola?” Oppure, andando oltre, “Può una società che ha scelto la tolleranza essere intollerante con gli intolleranti?”

Questa è l’incoerenza della Costituzione americana denunciata da Kurt Gödel (gran maestro del rigore logico) quando si presentò all’esame per la cittadinanza. Leggenda vuole che Gödel abbia iniziato a contestare l’esaminatore e che Einstein, che era suo testimone, sia dovuto intervenire per salvarlo.Ho già scritto in precedenza di come persone carenti nella logica mi chiedano spesso se sia necessario essere “scettici sullo scetticismo”; in questi casi rispondo come fece Popper quando gli chiesero se fosse possibile “falsificare la falsificazione”.

Questi punti possono essere chiariti con la regola della minoranza. Sì, una minoranza intollerante può controllare e distruggere la democrazia. Anzi, come abbiamo visto, se le si dà corda alla fine distruggerà l’intero pianeta.

Quindi, con determinate minoranze intolleranti è necessario essere intolleranti. Non è ammissibile utilizzare “valori americani” o “principi occidentali” quando si ha a che fare con il Salafismo intollerante (che disconosce agli altri il diritto di avere la propria religione). L’Occidente è attualmente sulla via del suicidio.

L’irriverenza dei mercati e della scienza
Passiamo adesso al mercato. Possiamo affermare che il mercato non è la somma dei suoi partecipanti, ma che le variazioni di prezzo riflettono le azioni degli acquirenti e venditori più motivati. Sì, è il più motivato a comandare. Questa è una cosa che solo i trader capiscono: perché un prezzo può crollare del 10% a causa di un singolo venditore. Basta solo che sia un venditore intransigente. I mercati reagiscono in maniera sproporzionata rispetto all’impeto iniziale. Il mercato azionario globale rappresenta attualmente oltre trentamila miliardi di dollari, ma nel 2008 una singola transazione di soli cinquanta miliardi, meno di due decimi percentuali del totale, scatenò un crollo di quasi il dieci percento, causando perdite per circa tremila miliardi. Si trattava di una transazione avviata dalla banca parigina Société Générale, che aveva scoperto una truffa da parte di un trader disonesto e tentava di annullare così l’acquisto. Perché i mercati reagirono in modo così esagerato? Perché la transazione era unilaterale – rigida – ossia esisteva la volontà di vendere, ma non la possibilità di far cambiare idea a qualcuno. Il mio motto è:

Il mercato è come un grande cinema con un piccolo ingresso.

E il modo migliore per scovare un idiota (come il tipico giornalista economico) è vedere se la sua attenzione è focalizzata sulle dimensioni della porta o su quelle della sala. Se qualcuno, mettiamo, grida “al fuoco!” in un cinema, il panico si scatena proprio perché chi vuole uscire non ha nessuna intenzione di stare tranquillo, esattamente con la stessa intransigenza vista nel caso delle regole Kosher.

La scienza funziona in modo analogo. In un’altra occasione spiegherò perché la regola della minoranza è alla base dell’approccio di Popper alla scienza. Ma per adesso occupiamoci dell’assai più divertente Feynman. Che t’importa di cosa dice la gente? è il titolo di una raccolta di aneddoti del grande Richard Feynman, lo scienziato più insolente e irriverente dei suoi tempi. Come il titolo del libro suggerisce, Feynman illustra la sua idea della fondamentale irriverenza della scienza, che si comporta in modo analogo all’asimmetria Kosher. In che modo? La scienza non è la somma di ciò che pensano gli scienziati ma, proprio come il mercato, un processo fortemente asimmetrico. Quando un’ipotesi viene falsificata, da quel momento è falsa (questo almeno è il modus operandi della scienza, per adesso mettiamo da parte discipline come le scienze economiche o politiche, che sono poco più che pompose forme di svago). Se la scienza si basasse sul consenso della maggioranza staremmo ancora al Medio Evo, ed Einstein sarebbe finito laddove aveva iniziato, da impiegato dell’ufficio brevetti con degli strani, inutili hobby.

Alessandro diceva che era meglio avere un esercito di pecore guidate da un leone che un esercito di leoni guidati da una pecora. Alessandro (o senza dubbio chi inventò questo proverbio plausibilmente apocrifo) aveva capito il potere di una minoranza attiva, intollerante e coraggiosa. Annibale terrorizzò Roma per oltre quindici anni con un piccolo esercito di mercenari, vincendo ventidue battaglie contro i Romani, nelle quali questi ultimi avevano sempre la superiorità numerica. Si ispirava ad una versione dello stesso proverbio. Durante la battaglia di Canne, a Giscone che lamentava il fatto che i Cartaginesi fossero molto meno numerosi dei Romani, rispose: “Una sola cosa vale più del loro numero…fra tutti loro non c’è un solo uomo che si chiami Giscone.[6]”[i]

Unus sed leo: ne basta uno, ma che sia un leone.

Il vantaggio dato dal coraggio ostinato non vale solo negli affari militari. Tutto lo sviluppo della società, sia economico che morale, nasce da un piccolo gruppo di persone. Chiudo qui questo capitolo sull’importanza delle forze in gioco nelle condizioni della società. Una società non si evolve attraverso il consenso, con votazioni, maggioranze, comitati, riunioni prolisse, conferenze accademiche, e sondaggi; per spostare in modo significativo l’ago della bilancia sono sufficienti pochi individui molto motivati. Basta che esista, da qualche parte, una regola asimmetrica. E l’asimmetria è presente praticamente ovunque.

Note

[1] Grazie ad Amir-Reza Amini.

[2] Grazie ad Arnie Schwarzvogel.

[3] Vi sono minime varianti nelle diverse regioni e sette islamiche. La regola originale è che se una donna musulmana sposa un uomo non musulmano, l’uomo deve convertirsi. In pratica, in molti paesi devono farlo entrambi.

[4] I vari culti esistenti nel mondo Romano erano considerati, dal popolo, egualmente veri; dal filosofo, egualmente falsi; dal magistrati, egualmente utili. La tolleranza produceva dunque non soltanto la comprensione reciproca, ma anche la pace religiosa. Gibbon

[5] “Non dubitare mai che un piccolo gruppo di persone attente e impegnate possa cambiare il mondo. In realtà sono sempre e solo stati loro a cambiarlo.” — Margaret Mead

[6] I Cartaginesi presentano una penuria nelle varietà onomastiche: la frequenza dei nomi Amilcare e Asdrubale tende a confondere gli storici. Così come esistono una miriade di Gisconi, tra cui uno dei personaggi del Salambo di Flaubert.

[i] https://books.google.com/books?id=VzMGAAAAQAAJ&pg=PA269&lpg=PA269&dq=gisco+battle+of+cannae&source=bl&ots=2ybmCD6EaT&sig=lqU71NF46YOpnOSXDfZUsQco2O0&hl=en&sa=X&ved=0CC4Q6AEwAmoVChMI7vnU8-2tyAIVRjw-Ch3DhQkM#v=onepage&q=gisco%20battle%20of%20cannae&f=false


il manifesto, 4 agosto 20017

«Immigrati clandestini» e «soggetti la cui presenza in mare è finalizzata all’immigrazione clandestina»: in quattro minuti di conferenza stampa,

il Procuratore della Repubblica di Trapani parla dei migranti trasbordati dai barconi sulle navi delle Ong in mare aperto senza mai usare la parola «persone», «esseri umani», «donne e bambini in fuga», «profughi», «richiedenti asilo».

Nel linguaggio burocratico sono tutti «soggetti» o «immigrati clandestini» e questo linguaggio disumanizzante e dissacrante (perché ogni essere umano è sakros, cioè unico e inviolabile) apre la strada alla deformazione della pubblica opinione, che di fronte agli «uomini di legge» che additano i «soggetti la cui presenza in mare è finalizzata all’immigrazione clandestina» correrà a chiudere porte, coscienze, cuori e senso critico.

Il cattivo uso del linguaggio, troppo sottovalutato, è una parte importante del problema.E per «cattivo» intendo esattamente ed etimologicamente «prigioniero» del proprio pregiudizio, che replicato dai media e rimbalzato di bocca in bocca diventa stereotipato «linguaggio comune».

Ma in questo caso il cattivo uso del linguaggio disegna anche la scenografia del cattivo uso del diritto.

Se è vero (ed è vero) che il salvataggio di vite umane in mare è un preciso dovere giuridico, se è vero che la stessa fattispecie di reato (articolo 12 Testo Unico Immigrazione) esclude la rilevanza penale di chi abbia agito per salvare qualcuno dal pericolo attuale di un danno grave alla persona (è lo stato di necessità di cui all’articolo 54 del Codice penale), allora dove sta il reato e, soprattutto, chi è il criminale?

Colui che trasbordando un gommone carico all’inverosimile di esseri umani evita che si ribalti facendo affogare in mare le persone trasportate? O colui che aspetta che il gommone si spinga oltre, in mare aperto, si ribalti, consegni al mare le vite dei trasportati e solo allora, codice Minniti alla mano, intervenga?

E non è forse doveroso dubitare della legittimità di una missione militare dell’Italia che supporta i libici nel respingimento dei migranti, restituendoli ai campi di concentramento dove si perpetrano violenze, torture e stupri e rimettendoli nelle mani dei trafficanti di esseri umani? Contro il principio di non refoulement della Convenzione di Ginevra sulla protezione dei rifugiati (che del resto la Libia non ha ratificato, ma l’Italia invece sì) e contro l’articolo . 10 della nostra Costituzione che garantisce il diritto di asilo?

Lo dico con pacatezza e rispetto ma lo dico, perché è un mio preciso dovere etico, giuridico e politico dirlo: l’uso della forza del diritto contro i diritti fondamentali delle persone e l’esercizio dell’azione penale senza conoscenza approfondita e meditata del complesso sistema dei diritti umani e dei processi migratori contro gli operatori, singoli o organizzati, di solidarietà fa il paio con la cattiva politica dei decreti Minniti-Orlando che introducono il diritto diseguale, il diritto su base etnica, l’apartheid giudiziaria.E iniziano a disegnare i contorni di uno stato autoritario».

«Gridiamo “Siamo tutti Charlie!” ad ogni nuova strage terroristica nella nostra Europa, ma ci facciamo passare sotto gli occhi i morti ammazzati a Kabul e Aleppo o annegati nelle acque del Mediterraneo».

il Fatto Quotidiano, 31 luglio 2017 (p.d.)

Una settimana fa un attacco terroristico ha ucciso 37 civili, e ne ha feriti più di 40. A Kabul. Alcuni ne avranno letto, ad altri, anche coscienziosi e ben informati, sarà sfuggito. Certo la reazione, in Italia come in Gran Bretagna e nel resto dell’occidente, è stata ben diversa rispetto all’angoscia e all’attenzione spasmodica riservata agli attacchi di Londra o Manchester. Ogni volta è lo stesso: siamo tutti Charlie, ma facciamo un po’più fatica ad essere Kabul, o Aleppo. Come se le vite non contassero tutte allo stesso modo.
Tra chi si è preso la briga di leggere il primo paragrafo di questo articolo, possiamo identificare due categorie. Da un lato quelli che annuiscono energicamente: due pesi e due misure, l’ipocrisia dell’occidente e via discorrendo. Dall’altro quelli che scuotono il capo con qualche impazienza: non capisci che è diverso se succede in Europa? che non ci si può far carico di tutti i problemi del mondo? che alla fine si ammazzano tra di loro? Eccetera eccetera. Questa seconda categoria coincide in parte con quelli che pensano che i morti nel Mediterraneo non siano affar nostro, e un suo nutrito sottogruppo sbraita che questa gente viene qui per rubare o per farsi saltar per aria (semplifico).

La prima categoria la pensa in modo radicalmente opposto, naturalmente, e tuttavia, anche tra questi, la maggioranza ha dedicato ai fatti di Kabul (o di Aleppo, o del Sudan) una frazione dell’attenzione e del cordoglio dedicato a Manchester, a Nizza o a Parigi. Persuasione politica, analisi geopolitica, credo religioso, convincimenti morali fanno una qualche differenza, ma non tutta la differenza.

Non è un fenomeno nuovo. Se n’era già accorto Aristotele, che notava nella Retorica che la compassione (così come l’invidia) la si prova per chi conosciamo, o per chi è simile a noi per età, carattere, costumi e cultura, nascita o condizione sociale. Perché la compassione è legata alla paura – alla paura che possa succedere a noi. Per questo si prova compassione per ciò che è vicino, mentre ciò che è lontano – ciò che è alieno – non ha lo stesso effetto. Aristotele descrive, non giudica: così stanno le cose, e basta.
In un magnifico saggio del 1994, Carlo Ginzburg esplorava queste dinamiche tracciando la genealogia culturale di una figura immaginaria, quella di un ipotetico mandarino cinese. Questo povero mandarino, in vari scritti di Diderot, di Adam Smith, di Chateaubriand e di Balzac, veniva introdotto soltanto per morire nell’indifferenza, o per volontà, di un altrettanto ipotetico europeo desensibilizzato dalla distanza. Nella versione più catastrofica, Adam Smith immagina che la Cina “con i suoi abitanti, venga improvvisamente inghiottito da un terremoto”. Per Smith, ogni europeo compassionevole ne sarebbe certo rimasto scosso, ma “se dovesse perdere un mignolo, stanotte non dormirebbe; mentre ronferà pacificamente sulla rovina di un centinaio di milioni di fratelli, purché non li abbia mai visti”.
E non si tratta certo solo di distanza effettiva. Per lo stesso principio, notava Diderot, “proviamo compassione per un cavallo che soffre, e schiacciamo una formica senza farci scrupolo alcuno”. In alcune versioni lo sventurato mandarino viene addirittura ucciso a distanza da un francese, con un solo cenno del capo. La domanda è se la distanza attenui la compassione e il senso di responsabilità morale a tal punto da rendere contemplabile anche l’omicidio.
Ginzburg, da storico (e a differenza di tanta filosofia morale), non pare giudicare. Nota piuttosto quanto queste dinamiche siano rilevanti oggi: “Sappiamo che il guadagno di alcuni può provocare, più o meno direttamente, le sofferenze di altri esseri umani lontanissimi, costretti alla miseria, alla denutrizione o addirittura alla morte… il mandarino cinese può essere ucciso semplicemente pigiando un bottone”. Osserva poi che “il progresso burocratico [ha creato] la possibilità di trattare grandi quantità di individui come se fossero puri numeri: un altro modo molto efficace di considerarli a distanza”, come le formiche di Diderot.
Assolviamoci pure per la nostra indifferenza verso chi è diverso e lontano, constatiamo pure, realisticamente, che non può essere altrimenti, che le nostre responsabilità di italiani, di europei non possono estendersi egualmente all’intero globo terraqueo, per quanto interconnesso. Nel mentre, però, è forse il caso di tenere a mente che nel nostro mondo di oscene diseguaglianze i mandarini, o le formiche, non sono solo gli altri – gli immigrati sui barconi, i richiedenti asilo visualizzati per cifre, i poveracci laggiù in Africa o in Afghanistan.
Sempre più spesso mandarini (o formiche) siamo anche noi. Perché la nostra vita non ha davvero nulla in comune con le esistenze dorate di quella micro-élite finanziaria che, complice la politica, decide per tutti noi, senza identificazione, senza compassione. Mandarini sono allora non solo le vittime di Kabul, o i migranti che affogano nel Mediterraneo. Sono anche quei 35 milioni di americani a cui Trump vuole togliere l’assistenza. Mandarini sono i disoccupati italiani senza futuro nascosti nelle tabelle ministeriali. Mandarini sono quei britannici che i tagli targati Tories hanno fatto sprofondare sotto la soglia di povertà. In questo non siamo poi così lontani nell’essere alla mercé di chi, simpatia per noi,davvero non ne prova alcuna.

«Nel cuore della miglior tradizione europea non c’è nessuna millanteria delle origini, c’è la ricerca della verità, l’incessante indagine conoscitiva. C’è il dubbio ed è da questo cuore che partono le istanze di dignità umana e di giustizia che percorrono la storia europea».

Il Fatto Quotidiano online, 26 luglio 2017 (c.m.c.)

L’Europa sta cercando la propria anima, e non sa bene dove trovarla. Ha senso girare la domanda a chi pratica le scienze storiche? Dipende. Troppo spesso gli intellettuali sbandierano slogan improbabili, come la pretesa continuità della storia europea da Omero ai nostri giorni; troppo spesso la retorica corrente fa leva su parole logore e vacue come “radici” o “identità”.

Alla base di queste prediche a vuoto c’è un colossale equivoco, l’idea che un’immagine monolitica dell’Europa sempre uguale a se stessa la rafforzi sulla scena “globale” del mondo di oggi. È vero il contrario: per secoli abbiamo coltivato un’idea di Europa eterna e immutabile, bandiera di un eurocentrismo che rivendicando la superiorità su ogni altra civiltà mirasse a legittimare ieri il più brutale colonialismo, oggi l’egemonia dell’Occidente. Quel tempo è finito per sempre, quell’idea di Europa ha generato formidabili anticorpi che l’hanno ridotta in polvere. Per non dire delle “radici cristiane”, formula che vuol chiudere l’Europa entro un muro. Ma se neghiamo tali artificiose continuità, che cosa resta dell’Europa?

Un netto bivio tra continuità e discontinuità non ha senso. Nel cuore della miglior tradizione europea non c’è nessuna millanteria delle origini, c’è la ricerca della verità, l’incessante indagine conoscitiva. C’è il dubbio, l’ideale socratico della “vita esaminata” (al fine di intendere da quali motivazioni sia mosso il nostro agire), ed è da questo cuore che partono le istanze di dignità umana e di giustizia che percorrono la storia europea. Perciò dobbiamo concentrare lo sguardo sui termini di passaggio, sulle fratture interne alla storia d’Europa.

Fratture che sono anche cerniere, ponti di comunicazione fra culture diverse. Leggere la storia culturale europea come perpetuo alternarsi di continuità e discontinuità, mescolarsi di civiltà, lingue, religioni. Incontri e scontri, anche violenti, che hanno costruito nei secoli il nostro Dna. Il suo vanto non è nella “radice unica”, ma nella sua ramificatissima, feconda pluralità. Nella sola Italia contiamo etruschi e greci, fenici e celti, sardi e italici, romani e liguri, longobardi e arabi, francesi e catalani, slavi e veneti, austriaci e spagnoli, “pagani” e cristiani, musulmani, ebrei. E molto altro ancora. È nelle pieghe, nelle suture e nei conflitti fra l’una e l’altra di queste componenti che dobbiamo cercare un’idea di Europa che sia vincente sulla scena globale del mondo.

Due concetti-chiave della storia culturale europea, quello di “classico” e quello di “Rinascimento”, mostrano quanto essa sia ricca e feconda, se solo rinuncia a una concezione angustamente identitaria. Il Rinascimento fu lo sforzo di far rinascere l’antichità classica, cioè di sanare una ferita, di gettare un ponte su una discontinuità. Ma di rinascimenti ce n’è stato solo uno, o tanti? Le molte ‘rinascenze’ al tempo di Carlo Magno o di Federico II, a Reims o a Padova o a Bisanzio, rivelano una sequenza segmentata e sofferta, non una pacifica continuità.

Ed è possibile, anzi necessario, chiederci se altre civiltà lontane dall’Europa non abbiano avuto un qualche loro rinascimento (lo ha fatto un grande antropologo, Jack Goody, nel suo Rinascimenti: uno o molti?, pubblicato in Italia da Donzelli). Quanto alla classicità greco-romana, essa non coincide affatto con l’Europa, anzi il suo spazio culturale ha avuto un orizzonte mediterraneo, esteso verso Sud e verso Oriente più che verso Nord. La stessa categoria di “classico” ha un ambito di applicazione enormemente più vasto dell’Europa, perché si presta a orientare lo sguardo e i comportamenti, a costruire sistemi di valori, gerarchie, preferenze, gusti, anche nella cultura araba, cinese, persiana, indiana.

Dobbiamo ripensare la classicità greco-romana attraverso il filtro di un’assidua comparazione con elaborazioni culturali affini, anche in orizzonti assai lontani dall’Europa. Non dobbiamo considerare i “nostri” Antichi come provvidenzialmente identici a noi stessi, ma anzi riconoscere la loro radicale alterità; e quando vi troviamo frammenti di un’identità che è ancora la nostra (per esempio in una moltitudine di parole greche, da ‘nostalgia’ a ‘democrazia’), dobbiamo guardarle più da vicino : quanto diversa dalla nostra la democrazia ateniese, dove le donne non votavano e non si metteva in discussione la schiavitù!

Eppure, abbiamo ancora molto da imparare dall’idea di cittadinanza come fu elaborata nella polis antica. Se consideriamo il classico come spola tra l’identico e il diverso, come esercizio della mente e della moralità che ci spinge al confronto con altre culture, anche la civiltà greco-romana potrà valere come chiave d’accesso alla molteplicità culturale del mondo contemporaneo: una piattaforma conoscitiva efficace solo se spogliata di ogni pretesa di unicità, e fecondata dalla comparazione.

Ogni tempo ha la sua Europa. Ma l’Europa di oggi conserva l’impulso a cercare la verità delle cose, la memoria di sé che induca al confronto, l’incessante interrogarsi sulla natura della nostra memoria culturale? C’è da dubitarne. Nelle istituzioni europee non regna la cultura, non regna il dubbio, non regna la dignità umana né la giustizia sociale. Regna un riduzionismo tecnocratico, di natura sostanzialmente autoritaria e antidemocratica, secondo cui al mercato, e ad esso solo, spetta regolare la società in tutti i suoi aspetti. Sembra esaurito il notevolissimo impulso ideale che fra le rovine della seconda guerra mondiale innescò il processo che avrebbe portato alla nascita dell’Unione Europea. Essa avrebbe dovuto partire dalla coscienza di sé per costruire un modello di convivenza che segnasse un suo nuovo ruolo nel mondo.

Quegli ideali si sono inariditi, e l’Europa a cui si pensa oggi non è quella dei suoi cittadini, della sua storia, della sua cultura, ma quella dei Trattati, dove il ruolo della memoria storica è marginale, come lo è l’equità sociale; è l’Europa dei mercati, prona a una logica di globalizzazione che implica la metamorfosi del cittadino in consumatore. In un tal contesto non vi sarà mai un vero patriottismo europeo: perché la patria ha un’anima, il mercato no. Rispetto all’Europa dei mercati, l’Europa della cultura è (per usare una metafora cara a Benjamin) come il mendicante che bussa alla porta. Avrà con sé un messaggio, o forse addirittura l’anima dell’Europa che andiamo cercando? Non lo sapremo mai, se quella porta non verrà aperta. Ma perché si apra, dobbiamo bussare più forte, dobbiamo alzare la voce.

Nel mare delle notizie che, nel loro complesso. spingono al pessimismo, abbiamo scelto due scritti, di diversa natura e radice, di Corrado Lorefice e di Marco Revelli, entrambi ripresi dal

manifesto (16 luglio 2016). Sollecitano entrambiverso la stessa domanda.

Neppure un grido si leva?
Le tragedie dei nostri anni e l’anatema per chi ha il poteree non lo esercita per abbattere la miseria e l’ingiustizia si incontrano, sullepagine del manifesto, nelle parole di un’omelia religiosa e di una cantatalaica, pronunciate la prima da Corrado Lorefice, vescovo di Palermo, la secondada Marco Revelli, noto saggista e animatore sociale.
Ma una domanda sorge prepotente in chi legge quelle parole econnette quelle tragedie con l’enorme dispendio di risorse materiali e moraliprovocate dalle guerre ormai endemicamente presenti in ogni angolo del pianetae con i conseguenti impegni bellici degli Stati. Come mai non si leva alto ungrido corale contro la guerra, la sua feroce inutilità, la miseria e l’ingiustiziache provoca?
Anche ciò che una volta si chiamava Sinistra tace. Forse lanotte è già calata, e il nuovo giorno non ha la forza di sorgere. (e.s.)
LA DURAOMELIA DEL VESCOVO DI PALERMO
SULL’«ALLEANZA DEI DUE ESODI»
una sintesiredazionale delle parole del vescovo di Palermo Corrado Lorefice
Dura e coraggiosa omelia del vescovo di Palermo Corrado Loreficedurante la messa per la patrona della città, santa Rosalia, su migranti emigrazioni.
«Le pesti, le grandi, dilaganti emergenze siciliane del nostrotempo si presentano stasera davanti ai nostri occhi. La prima, la piùimportante credo, è il rischio diffuso della mancanza di futuro. Rischiamo diessere una Città e una Regione senza futuro, il futuro – ricordiamolo – di unastoria gloriosa, perché la mancanza endemica di lavoro rischia non solo digettare in una crisi irreversibile la nostra economia, ma soprattutto rischiadi sottrarre la speranza di un domani ai nostri giovani».
«L’esodo dalla Sicilia sta diventando una necessità storicaterribile, che priva la terra del suo nutrimento decisivo. E ad alimentare unterritorio, una Città, sono i desideri, i progetti, la voglia di fare, le ideee le aspirazioni delle giovani generazioni che si avvicendano nel corso deidecenni e dei secoli. Senza la linfa ideale e rinnovata di questo ardore, senzail sapore di questo sogno, non c’è domani – dice il vescovo – Ma senza lavorovero, dignitoso, costruttivo, teso a cambiare il mondo, non c’è domani».
E ancora: «Mentre si compie quest’esodo doloroso, Palermo ela Sicilia tutta sono il porto ideale di un altro esodo, di dimensioniplanetarie, quello dei popoli del Sud del pianeta – dei nostri fratelliafricani e del Medio Oriente – che giungono in Europa in cerca di rifugio e diopportunità di vita – prosegue – Non dobbiamo nasconderci però dietro i luoghicomuni o le visioni distorte di molta politica.
La molla ultima di questo esodobiblico, al di là di ogni consapevolezza di chi parte, è il desiderio digiustizia. Perché abbiamo costruito e stiamo costruendo un mondo senzagiustizia, dove in maniera insopportabile i poveri impoveriscono e aumentano,mentre i ricchi si arricchiscono e sono sempre di meno. Un mondo in cui il Nord– gli Stati Uniti, l’Europa -, tutti i cosiddetti paesi sviluppati, possonosfruttare e depredare le ricchezze dei popoli del Sud – dell’Africa, dell’Asia– senza alcuno scrupolo e senza alcun ritegno. È da questo squilibrio cheaffama miliardi di persone, da questo ordine politico che accetta e fomenta laguerra e quindi la fuga disperata dei civili, è da questo modo di ordinare (odi disordinare) il mondo che viene l’esodo disperato di milioni di persone chein definitiva vengono a chiederci giustizia e diritti. E Palermo e la Siciliarappresentano la meta privilegiata di questi viaggi, il porto idealedell’Occidente».
Poi: «Care Palermitane, Cari Palermitani, sarebbe un graveerrore contrapporre i due esodi, quello dei nostri giovani e quello dei popolidel Sud. Chi ha una responsabilità politica ed è purtroppo miope e ignorantepuò farlo.
Noi no. Noi no.
Pensare che sia l’arrivo di tanti fratelli dal Sud del mondo atogliere il lavoro ai nostri giovani è una totale idiozia. Al contrario:l’esodo epocale dall’Africa attraverso il Mediterraneo è l’appello, esoprattutto l’opportunità che la storia ci offre, per ribaltare il perverso assettodel mondo e della sua economia; per creare nuove possibilità e nuove speranzeproprio grazie all’accoglienza e all’integrazione dei tanti che giungono e chegià oggi sono un polmone del lavoro e dello stato sociale in Italia.
L’alleanza tra i due esodi, e non la contrapposizione, è il veroorizzonte che ci può consentire un passaggio nuovo. I migranti ei giovani in Sicilia non sono reciprocamente nemici, ma sono il popolo delfuturo, il popolo della speranza».
ITALIA,
A CHE PUNTO È LA NOTTE
di Marco Revelli

Ogni giorno una nuova gittata di dati – una nuova slidetombale – viene emessa dalle torri del sapere ufficiale a coprire laprecedente, con un effetto (voluto?) d’irrealtà del reale.
Giovedì l’Istat, nella suanota annuale sulla Povertà, cidice che le cose vanno male, stabilmente male, e forse peggioreranno.
Venerdì la Banca d’Italia, nelsuo bollettino trimestrale, ci dice che (al netto del record del debito) lecose vanno abbastanza bene, e probabilmente miglioreranno…
Viene in mente Isaia (21,11) ela domanda che sale da Seir: «Sentinella, a che punto è la notte?», a cui dallatorre si risponde: «Vien la mattina, poi anche la notte».
Per la verità la situazionedella povertà è persino più grave di quanto a prima vista potrebbe sembrare.Nei commenti a caldo ci si è infatti soffermati soprattutto sui dati generali:i 4.742.000 poveri «assoluti» e gli 8.465.000 poveri «relativi», grandezze diper sé impressionanti, ma definite nella Nota arrivata dall’Istat «stabili»,essendo entrambi aumentati rispetto all’anno 2015 «solamente» di 150.000 unità.
Se però si spacchettano i dueinsiemi aggregati si scopre che il peggioramento è stato ben più consistente,addirittura catastrofico, per almeno tre categorie cruciali: i minori, glioperai, e i membri di «famiglie miste».
Tra le «famiglie con tre o piùfigli minori», ad esempio, la povertà assoluta è cresciuta in un anno di quasidieci punti.
Schizzando al 26,8%. NelMezzogiorno la povertà relativa in questa categoria sfiora addirittura il 60%.
Tra gli «Operai e assimilati»,poi, i poveri assoluti raggiungono il livello del 12,6% (un punto percentualepiù del 2015, una crescita del 9% in un anno!) e le famiglie con breadwinneroperaio in condizione di povertà relativa sfiorano il 20% (una su cinque). Sonoi working poors: coloro che sono poveri pur lavorando – pur avendo un «posto dilavoro» -, ed è bene ricordare che si definisce «in povertà assoluta» chi nonpuò permettersi il minimo indispensabile per condurre una vita dignitosa,alimentarsi, vestirsi, curarsi, mentre in «povertà relativa» è chi ha una spesamensile pro capite inferiore alla metà di quella media del Paese. Una parteconsistente del mondo del lavoro italiano è in una di queste due condizioni.
Infine le «famiglie miste»,quelle in cui cioè uno dei due coniugi è un migrante: nel loro caso la povertàassoluta è quasi raddoppiata nell’Italia settentrionale (dal 13,9 al 22,9%) equella relativa ha raggiunto nel Meridione il 58,8% (era il 40,3 nel 2015), conbuona pace di chi ha fatto dell’urlo tribale «Perché a loro e non a NOI» lapropria bandiera e considera privilegio lo jus soli in nome della propriamiseria.
Se poi si considera il quadronell’ultimo decennio, la storia assume i tratti del racconto gotico. Non soloil numero delle famiglie e degli individui in condizione di povertà assolutarisulta raddoppiato rispetto al 2007, ma per alcune figure la dilatazione èstata addirittura esplosiva: così per i minori, tra i quali i «poveri assoluti»sono quadruplicati (l’incidenza passa dal 3% al 12,5%).
Stessa dinamica per gli«operai e assimilati», tra i quali la diffusione della povertà assoluta,drammatica nel quinquennio 2007-2012, era rallentata fino al 2014, e poi èritornata prepotente nel biennio successivo (3 punti percentuali in più!) dovesi può leggere con chiarezza l’effetto-Renzi e l’impatto del Jobs Act sulpotere d’acquisto e sulla stabilità del lavoro.
In questa luce l’inno allagioia intonato da politica e media per le notizie da Bankitalia potrebbesembrare una beffa (un «insulto alla miseria» registrata invecedall’Istat), se non contenesse però un tratto di realtà.
E cioè che economia e societàhanno imboccato strade diverse, e per molti versi opposte. Che i miglioramentidell’una (o l’attenuazione della crisi sul versante economico) non significanoaffatto un simmetrico rimbalzo per l’altra (una risalita sul versante dellacondizione sociale).
Anzi. I ritocchini al rialzodelle previsioni sul Pil (+1,4 nel ’17, + 1,3 nel ’18, + 1,2 nel ’19) sono ineffetti perfettamente compatibili col parallelo degrado dei tassi di povertà edelle condizioni di vita delle famiglie.
Convivono nell’ambito di unparadigma, come quello vigente, nel quale la crescita redistribuisce laricchezza dal basso verso l’alto, dal lavoro all’impresa (e soprattutto allafinanza), dai many ai few (all’1% che possiede il 20% di tutto). E in cui ilPil, appunto, s’arricchisce (in termini economici) impoverendo (in terminisociali).
Forse nel 2019 (forse!)ritorneremo ai livelli pre-crisi del «valore aggiunto» monetario, ma saremo unpo’ di più vicini al Medioevo nell’equità sociale.
Finché non si spezzerà questocircolo vizioso, la sentinella dalla torre non potrà annunciare la definitivafine della notte.

L'iter della legge e il commento di Luigi Manconi nell'articolo di C. Torrisi e A. Zitelli. In quello di Valerio Onida le ragioni per le quali chi ha tenacemente voluto per trent'anni che anche l'Italia avesse una legge contro la tortura di Stato ha dovuto votare contro. valigiablu.it Corriere della Sera, 6 e 9 luglio 2017


valigiablu.it, 6 luglio 2017
REATO DI TORTURA IN ITALIA

“UN TESTO PROVOCATORIO E INACCETTABILE.
UNA LEGGE TRUFFA”
di Claudia Torrisi e Andrea Zitelli


Il reato di tortura è legge. La Camera dei deputati ha approvato definitivamente mercoledì 5 luglio il provvedimento, con il voto favorevole, tra gli altri, di Partito Democratico e Alternativa Popolare. Movimento 5 stelle, Sinistra Italiana e Mdp si sono astenuti, mentre Lega Nord, Forza Italia e Fratelli d'Italia hanno votato contro.
Quella dell'introduzione del reato di tortura in Italia è una storia lunga trent'anni. Il 3 novembre del 1988 con la legge 498 il nostro paese ha ratificato la Convenzione ONU contro la tortura ed altri trattamenti e pene crudeli, inumane e degradanti del 1984 (CAT). Il documento delle Nazioni Unite per la prima volta sanciva che ogni Stato aderente avrebbe dovuto prendere «provvedimenti legislativi, amministrativi, giudiziari» efficaci per «impedire che atti di tortura siano compiuti in un territorio sotto la sua giurisdizione», nonché provvedere «affinché qualsiasi atto di tortura costituisca un reato a tenore del suo diritto penale». Nonostante queste previsioni, in Italia nessuno delle decine di disegni di legge sul tema che si sono susseguiti a partire dal 1989 è riuscito a essere approvato (per molti l'esame non è mai iniziato).
Il 26 giugno scorso è arrivato in quarta lettura alla Camera dei deputati il provvedimento che dovrebbe introdurre nel nostro ordinamento il reato di tortura. Il testo è stato presentato nel 2013, ha avuto un iter piuttosto tormentato e ha subito numerose modifiche. A metà maggio c’è stata l’approvazione del Senato (con voto favorevole tra gli altri di Pd e M5S), accompagnata dalle critiche delle associazioni per i diritti umani e dello stesso promotore della prima proposta del disegno di legge, il senatore del Partito democratico Luigi Manconi, che ha parlato di «stravolgimento» del testo originario.
I richiami e le condanne internazionali all’Italia

La mancanza di un reato specifico nel nostro ordinamento è stata più volte richiamata a livello internazionale. Lo scorso 22 giugno la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha condannato l'Italia, definendo le sue leggi «inadeguate» a punire e prevenire gli atti di tortura commessi dalle forze dell'ordine. La sentenza è stata pronunciata in seguito al ricorso presentato da 42 persone che la notte tra il 20 e il 21 luglio 2001 si trovavano all'interno della scuola Diaz di Genova quando ci fu la violenta irruzione della polizia. Una condanna analoga era stata già emessa dalla Corte di Strasburgo nel 2015, con la decisione sul caso di Arnaldo Cestaro, un manifestante sessantenne all'epoca del G8 del 2001 e anche lui vittima del pestaggio da parte delle forze dell'ordine nella scuola sede del Genova Social Forum. In quell'occasione, la Corte ha ritenuto che «i maltrattamenti subiti dal ricorrente durante l’irruzione della polizia» dovessero essere «qualificati come 'tortura'», ma che Cestaro non avrebbe potuto ottenere giustizia nel proprio paese, poiché non è previsto il reato.
Per questa ragione i giudici hanno stabilito la necessità che l’ordinamento italiano si doti di strumenti giuridici adeguati. Due anni dopo, a marzo di quest'anno, il comitato dei ministri del Consiglio d'Europa ha ritenuto insufficienti le misure prese fino a questo momento dall'Italia per dare esecuzione alla sentenza della Corte europea sul caso Cestaro. L'organismo ha notato «con preoccupazione» che «la legislazione italiana non si è ancora ad oggi dotata di disposizioni penali che permettano di sanzionare in modo adeguato i responsabili degli atti di tortura e di altre forme di maltrattamenti vietati dalla Convenzione europea dei diritti umani». Nella stessa direzione vanno anche raccomandazioni del Comitato ONU contro la tortura e di quello analogo del Consiglio d’Europa. Anche nelle osservazioni conclusive dell'ultima sessione del Comitato dei Diritti Umani delle Nazioni Unite dello scorso marzo viene espressa apprensione per il fatto che «il reato di tortura non sia stato ancora inserito nel codice penale» italiano. Un passo che secondo il Comitato va fatto «senza ulteriore ritardo».
Il percorso del disegno di legge in Parlamento
Il lungo percorso di questo disegno di legge in Parlamento, dalla sua versione originaria a quella di oggi, è stato caratterizzato da continue modifiche al testo, apportate dalla maggioranza nel corso delle votazioni tra Camera e Senato, con le conseguenti critiche da parte di coloro che, pur favorevoli all’introduzione del reato di tortura, ritenevano che i cambiamenti depotenziassero il testo originario, tanto da rischiare di renderlo inutile.
Cosa prevedeva il testo presentato da Manconi
Nel marzo del 2013, Luigi Manconi, insieme ad altri 2 senatori, presentò un disegno di legge che prevedeva l’introduzione del reato di tortura nel codice penale. Il testo, “elaborato dalle associazioni Antigone e da A Buon Diritto, e fortemente voluta da Amnesty International”, puntava così a colmare la mancanza di questo reato nell’ordinamento giuridico italiano. Il Ddl (composto da quattro articoli) si rifaceva alla definizione di tortura della Convenzione delle Nazioni Unite del 1984: «(...) qualsiasi atto con il quale sono inflitti a una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla od esercitare pressioni su di lei o di intimidire od esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze derivanti unicamente da sanzioni legittime, ad esse inerenti o da esse provocate».
Il reato di tortura veniva pertanto riconosciuto come un “delitto proprio” – cioè commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio – e non era quindi inteso come un reato comune. L’articolo 1 prevedeva la reclusione da quattro a dieci anni per il “pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che infligge ad una persona, con qualsiasi atto, lesioni o sofferenze, fisiche o mentali” per ottenere informazioni o confessioni, per punirla, intimorirla o per discriminarla. La pena aumentava se c’erano anche lesioni personali e raddoppiava con la morte della persona sottoposta a tortura. Erano previsti inoltre gli stessi anni di reclusione per “il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che istiga altri a commettere il fatto, o che si sottrae volontariamente all’impedimento del fatto, o che vi acconsente tacitamente”.
Come è poi cambiata la proposta di legge

Il disegno di legge viene approvato con modifiche una prima volta, circa un anno dopo, nel 2014, da parte del Senato. Nel nuovo testo di legge (composto da 6 articoli), il reato di tortura passa da “proprio” a generico, con una pena prevista da 3 a 10 anni. Commettere il fatto da parte di un pubblico ufficiale da elemento costitutivo del reato passa così ad aggravante: con una reclusione in carcere da 5 a 12 anni (da 6 mesi a 3 anni per l’istigazione). Le pene, inoltre, vengono aumentate in caso di lesione personale. Se poi la tortura provoca la morte della vittima, sono previsti 30 anni. Per il colpevole che uccide volontariamente una persona, torturandola, c’è l’ergastolo.
Ad aprile del 2015, il provvedimento arriva per la seconda votazione alla Camera. L’aula lo approva, anche questa volta con modifiche. Oltre a cambiare l’entità delle pene previste (in alcuni casi aumentadole), nel nuovo testo si aggiunge che il reato di tortura si applica – sia nel caso generico, che nell’aggravante commessa da un pubblico ufficiale – se la sofferenza patita dalla vittima è ulteriore “rispetto a quella che deriva dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti”. Tre mesi dopo la Commissione Giustizia del Senato apporta nuovi cambiamenti al testo. Per configurarsi il reato di tortura le violenze e le minacce devono essere “reiterate” e il colpevole deve aver agito “con crudeltà” e aver cagionato oltre a sofferenze fisiche anche “un verificabile trauma psichico”. Il requisito delle condotte “reiterate” è stato poi cancellato dall’aula del Senato pochi giorni dopo.
Lo scorso 17 maggio, l’aula del Senato approva per la terza volta il provvedimento, circoscrivendo ulteriormente la configurazione del reato (che resta comune). Nel testo viene aggiunto che affinché ci sia tortura, il fatto deve essere commesso mediante “più condotte” o attraverso “un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona”. Vengono poi ridotti gli anni di carcere previsti per l’istigazione alla tortura da parte di un pubblico ufficiale (passando da “uno a sei anni” a “sei mesi a tre anni”) e specificato che il fatto deve avvenire con modalità concretamente idonee all’istigazione della tortura. La nuova formulazione del reato è quindi questa: «Chiunque con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, è punito con la pena della reclusione da quattro a dieci anni se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona».
In un dossier del servizio studi della Camera viene specificato che il testo votato al Senato (e ora arrivato alla Camera per la quarta votazione) “dal punto di vista sistematico, connota il delitto in modo non del tutto coincidente con quello previsto dalla Convenzione ONU e sembrerebbe rendere più ampia l'applicazione della fattispecie, potendo la tortura essere commessa da chiunque e indipendentemente dallo scopo che il soggetto abbia eventualmente perseguito con la sua condotta”. Una differenza dovuta al fatto che, si legge ancora nel documento, nella Convenzione ONU “la specificità del reato di tortura è individuata e saldamente agganciata alla partecipazione agli atti di violenza, nei confronti di quanti sono sottoposti a restrizioni di libertà, di chi è titolare di una funzione pubblica”.
Per questo nella Convenzione il reato non può essere comune, ma viene ritenuto “proprio del pubblico ufficiale che trova la sua specifica manifestazione nell'abuso di potere, quindi nell'esercizio arbitrario ed illegale di una forza”.

Chi si oppone al disegno di legge

I continui ritardi e rinvii cui è stato sottoposto il disegno di legge sul reato di tortura dipendono principalmente dall’ostruzionismo di diverse parti politiche, secondo le quali il Ddl sarebbe nocivo per le forze dell'ordine e ne limiterebbe l’operato. Di questa opinione, ad esempio, è il ministro degli Esteri Angelino Alfano, che a luglio del 2016 – quando era titolare del Viminale – ha di fatto bloccato l'esame della legge, per scongiurare «ogni possibile fraintendimento riguardo l'uso legittimo della forza da parte delle forze dell’ordine». Lo stop è arrivato in seguito a una richiesta congiunta da parte di sigle sindacali di polizia e carabinieri per ottenere modifiche a un testo che avrebbe esposto «tutti gli operatori a denunce strumentali da parte dei professionisti del disordine e dei criminali incalliti» e rischiato di «legare le mani alle forze dell’ordine».
Lo scorso maggio Maurizio Gasparri, senatore di Forza Italia, ha dichiarato di non aver partecipato al voto sul provvedimento perché preoccupato dell’«uso strumentale» che si potrebbe fare di queste norme; mentre la leader di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, ha detto che «punire ogni forma di tortura è sacrosanto, ma non è quello che fa il ddl», che avrebbe invece «un solo scopo: intimidire il personale del comparto difesa-sicurezza e impedirgli di lavorare». Su posizioni analoghe anche la Lega Nord (che ha votato contro il provvedimento al Senato e ha promesso battaglia alla Camera): «Idiozie come questa legge espongono le forze dell'ordine al ricatto dei delinquenti», aveva dichiarato nel 2015 il segretario Matteo Salvini partecipando al “No T-Day”, sit in davanti Montecitorio per protestare contro l'introduzione del reato organizzato dal sindacato autonomo di polizia (Sap).

Le critiche al disegno di legge
Il giorno dopo il passaggio al Senato, Luigi Manconi ha scritto sul Manifesto un articolo in cui ha spiegato le ragioni della sua decisione di astenersi dal voto del Ddl: «Ritengo che quello approvato non sia un testo mediocre: è né più né meno che un brutto testo. E la scelta di non votarlo è stata per me particolarmente gravosa». In effetti, come abbiamo ricostruito, il disegno di legge che il parlamento si appresta ad approvare è molto diverso rispetto a quello depositato quattro anni fa e presenta diversi punti critici. A differenza di quanto previsto dalla Convenzione del 1984, innanzitutto, la tortura non viene configurata come “reato proprio” ma come “delitto comune”, che può essere compiuto da chiunque si trovi a esercitare una qualche forma di «vigilanza, controllo, cura o assistenza».
Questo inquadramento è stato difeso dal relatore di maggioranza della legge, Franco Vazio: «Il reato comune è più ampio, se fosse il contrario mi verrebbe da dire che non sarebbero ricompresi atti di tortura non del pubblico ufficiale. Nel nostro caso, invece, il reato è comune e nel caso in cui venisse compiuto dal pubblico ufficiale subisce un particolare aggravamento di pena. (...) Abbiamo costruito cioè un testo capace di cogliere tutte le sfaccettature».
Secondo Manconi, però, definire la tortura un “reato comune” snatura l'essenza stessa di un delitto che non è «misurabile sulla base dell’efferatezza, della crudeltà o dell’intensità delle sofferenze che infligge, bensì sulla sua origine. Questo è il nodo che nessuno vuol comprendere: non è un atto tra due individui capace di produrre sofferenze fisiche o psichiche, ma è l’atto commesso e realizzato da chi detiene legalmente il potere di tenere sotto controllo un’altra persona. Questa parola 'legalmente' è cruciale». La tortura, insomma, «nasce dall’abuso di potere legale. Se non si capisce questo, non si capisce nulla. La tortura, per intenderci, non è quella di Er Canaro contro l’usuraio, quella è un’altra roba».
Questa posizione è condivisa anche dall'Unione Camere Penali Italiane, secondo cui «l’aver voluto insistere sulla sua qualificazione come reato comune, anziché proprio, prevedendo solo una circostanza aggravante (almeno nell’intento del legislatore) nel caso in cui dei fatti si renda responsabile un soggetto pubblico (bilanciabile con le attenuanti), ha comportato un vero e proprio stravolgimento dell’assetto, per così dire 'naturale' della fattispecie».
Un gruppo di magistrati che si è occupato dei processi per i fatti del G8 di Genova ha scritto una lettera alla presidente della Camera dei deputati, denunciando come la configurazione di “reato comune” possa avere delle conseguenze anche sul raggio d'applicabilità della legge a fatti riconosciuti come tortura in sede europea, come l'irruzione alla scuola Diaz: La necessità, imposta dalla norma, di inquadrare la relazione tra l’autore e la vittima (quest’ultima deve essere privata della libertà personale; oppure affidata alla custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza dell’autore del reato; ovvero trovarsi in condizioni di minorata difesa) è conseguenza della scelta di configurare la tortura come un reato comune, ma esclude dall’ambito operativo della fattispecie molte delle situazioni in cui si sono trovate le vittime dell’irruzione nella scuola Diaz che non erano sottoposte a privazione della libertà personale da parte delle forze di Polizia e non si trovavano in una situazione necessariamente riconducibile al sintagma della 'minorata difesa'.
Il Ddl prevede che per essere qualificato come tortura il delitto debba aver causato "acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico". Le violenze e minacce, inoltre, devono essere state perpetrate "con crudeltà" e si deve trattare di un atto compiuto attraverso "più condotte" o che comporta un "trattamento inumano e degradante per la dignità della persona". Il campo è poi ulteriormente ristretto, specificando che la legge non è applicabile nel caso "di sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti".
Anche questi aspetti, frutto delle modifiche cui è stato sottoposto il disegno di legge, sono stati duramente criticati da Manconi, secondo cui «così come è stata scritta, la norma risulta di ardua applicazione: devono ricorrere nella definizione votata tali e tante circostanze da rendere complessa ogni operazione ermeneutica». Ad esempio, la richiesta di più condotte implica per il senatore che «il singolo atto di violenza brutale (si pensi a una pratica singola di waterboarding, ndr cioè la simulazione d'annegamento) potrebbe non essere punito»; mentre il fatto che il trauma psichico debba essere verificabile «significa introdurre un elemento di valutazione che impone probabilmente perizie psichiatriche o psicologiche. Ma i processi per tortura avvengono per loro natura anche a dieci anni dai fatti commessi. Come si fa a verificare dieci anni dopo un trauma avvenuto tanto tempo prima?».
La previsione di un “trattamento inumano e degradante per la dignità della persona”, secondo il relatore di minoranza del Ddl Vittorio Ferraresi (M5s) «vuol dire tutto e niente» perché, così come per le “più condotte”, «si dovrà vedere la giurisprudenza e si dovrà vedere sia l’interpretazione dei giudici sia poi l’applicazione». Molte volte, ha aggiunto, «in luoghi come le carceri è già impossibile tirare fuori qualche informazione e qualche prova, figuriamoci con questa scritta se si potrà andare a vedere veramente se il trattamento è inumano o se c’è la crudeltà o non c’è. Stiamo parlando veramente di un livello di difficoltà di accertamento di un reato così grave, che lascia il tempo che trova».
Nella lettera alla presidente Boldrini, i magistrati del G8 di Genova lamentano che «se ai casi che sono stati esaminati nei processi di cui ci siamo occupati fosse stata applicata la normativa oggi in discussione» non avrebbero potuto chiamare in causa nemmeno l'agire «con crudeltà» previsto dal ddl: «secondo l’interpretazione corrente dell’omonima aggravante comune, infatti, la crudeltà è un contenuto psichico soggettivo non facilmente ravvisabile nell’agire del pubblico ufficiale che potrebbe sempre opporre di aver operato avendo di mira finalità istituzionali».
Quelle riferite dai magistrati sarebbero però, secondo il relatore Vazio, preoccupazioni eccessive: «Se entriamo nella logica della Diaz - non conosco i fatti e rispetto il parere del pubblico ministero - mi sentirei di dire che quei fatti vi rientrano pienamente. I giornali riferirono di attività di particolare crudeltà che hanno cagionato certamente 'acute sofferenze fisiche'. Ipotizziamo però che non ci siano le caratteristiche. Beh rimangono i reati per i quali si possono punire quelle persone che hanno commesso fatti di violenza, minacce, percosse o arresti illegittimi».
Queste ultime sono proprio le fattispecie che fino a questo momento sono state utilizzate nei processi in mancanza del reato di tortura in episodi come quelli della scuola Diaz, della caserma di Bolzaneto o del carcere di Asti, con il risultato di una pressoché generalizzata impunità, anche per via dei tempi di prescrizione brevi dei reati che sono stati ascritti ai colpevoli. E proprio sul tema della prescrizione del reato, infine, il Ddl non prevede nulla. Nel passaggio alla Camera è stata eliminata la previsione del raddoppio dei termini, nonostante sia la giurisprudenza della Corte di Strasburgo che la stessa Convenzione di New York prevedano l'imprescrittibilità per la tortura. Interpellato su questo punto, Vazio ha risposto: «Non stiamo parlando di un reato come la corruzione, che è difficile da scoprire perché colui che ha subito il reato non ha interesse a denunciarlo».
Molto spesso, invece, accade l'esatto contrario. Come spiega l'avvocato Michele Passione, autore di uno dei saggi contenuti nel libro Per uno Stato che non tortura, «l'emersione delle notizie di reato è molto complicata. Perché se una persona è detenuta in un qualunque luogo di privazione della libertà personale, far emergere fintanto che la sua condizione di detenzione permane quello che gli è accaduto è molto complicato. Si ha il timore di essere esposti a ritorsioni, e nel frattempo il tempo scorre. Poi le indagini sono molto complicate perché c'è una protezione che viene fatta attorno a queste vicende per questioni che sono spesso subculturali prima ancora che di altro tipo. E quindi la prescrizione è un approdo molto facile».
Per il senatore Manconi, dunque, l’approvazione di questo Ddl tortura «significa ancora una volta che non si vuole seriamente perseguire la violenza intenzionale dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio in danno delle persone private della libertà o comunque loro affidate». Un appello sottoscritto da cittadini, giornalisti, psicologi, vittime di tortura, magistrati e avvocati, ha definito inoltre il Ddl approvato dal Senato una «legge truffa», un «testo provocatorio e inaccettabile». Se la Camera lo approvasse, «l’Italia avrebbe una legge che sembra concepita affinché sia inapplicabile a casi concreti; avremmo cioè una legge sulla tortura solo di facciata, inutile e controproducente ai fini della punizione e della prevenzione di eventuali abusi», si legge nella petizione firmata, tra gli altri, anche dalle vittime del G8 Arnaldo Cestaro e Lorenzo Guadagnucci, e da Ilaria Cucchi.
Le associazioni per i diritti umani condividono le stesse preoccupazioni. Secondo Amnesty International Italia e Associazione Antigone si tratta di un testo «impresentabile» e «limitare la tortura ai soli comportamenti ripetuti nel tempo e circoscrivere in modo inaccettabile l’ipotesi della tortura mentale è assurdo per chiunque abbia un minimo di conoscenza del fenomeno della tortura nel mondo contemporaneo, nonché distante e incompatibile con la Convenzione internazionale contro la tortura».
Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International, in un’intervista a Radio Radicale ha ribadito a fine giugno che la legge non è adeguata, ma ha aggiunto di ritenere «che comunque il fatto di porre fine alla rimozione della tortura, al silenzio del codice penale sulla tortura, introducendo una legge che non sarà applicabile in tutti i casi ma lo sarà sicuramente in alcuni, rappresenti un piccolo, un piccolissimo passo avanti». Il 16 giugno scorso, il commissario dei diritti umani del Consiglio d’Europa, Nils Muižnieks in una lettera inviata ai presidenti di Camera e Senato, a quelli delle relative commissioni Giustizia e a Luigi Manconi, ha sollecitato il Parlamento italiano ad adottare una legge sulla tortura «pienamente conforme agli standard internazionali in materia di diritti umani». Muižnieks ha ravvisato come alcuni aspetti del Ddl siano «disallineati rispetto alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, alle raccomandazioni della Commissione europea per la prevenzione della tortura e delle pene e trattamenti inumani e degradanti e alla Convenzione delle Nazioni Unite sulla tortura». Per questa ragione il commissario ha espresso «preoccupazione» per il fatto che una tale legislazione possa creare «situazioni in cui episodi di tortura o di pene e trattamenti inumani o degradanti restino non normati, dando luogo pertanto a possibili scappatoie di impunità».

Corriere della Sera, 9 luglio 2017

LA LEGGE SULLA TORTURA

E I VINCOLI DA RISPETTARE
di Valerio Onida

Caro Direttore, è stata definitivamente approvata la legge che introduce nel codice penale il delitto di tortura. Si tratta di un provvedimento che lo Stato italiano era tenuto ad adottare fin da quando, nel lontano 1988, fu data esecuzione in Italia alla Convenzione di New York del 10 dicembre 1984, entrata in vigore nel 1987. Siamo in ritardo di quasi trenta anni!

Infatti da tempo la Corte europea dei diritti dell’uomo ha «messo in mora» l’Italia su questo tema. Nella sentenza Cestaro contro Italia del 7 aprile 2015, relativa ai noti fatti della scuola Diaz di Genova all’epoca del G8 del luglio 2001, la Corte aveva espressamente dichiarato che «è la legislazione penale italiana applicata al caso di specie a rivelarsi inadeguata rispetto all’esigenza di sanzionare gli atti di tortura in questione e al tempo stesso priva dell’effetto dissuasivo necessario per prevenire altre violazioni simili». E lo scorso 22 giugno, in un’altra pronuncia relativa agli stessi fatti (Bartesaghi Gallo e altri contro Italia), la Corte, confermando il suo giudizio, aveva ribadito «l’insufficienza dell’ordinamento giuridico italiano quanto alla repressione della tortura».

Dunque, una legge assolutamente necessaria. Come si spiega allora che si sia discusso per tanto tempo, e che addirittura, in Senato, proprio uno dei primissimi firmatari della relativa proposta di legge nella presente legislatura, Luigi Manconi, abbia dovuto annunciare che non votava, non condividendolo, il testo così come portato all’esame dell’assemblea?

Il punto chiave è nella definizione delle condotte che integrano il delitto di tortura. La definizione della tortura è espressamente e precisamente dettata dalla convenzione internazionale che l’Italia ha sottoscritto: «Ai fini della presente Convenzione, il termine «tortura» designa qualsiasi atto con il quale sono inflitti a una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla od esercitare pressioni su di lei o di intimidire od esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito»: esclusi naturalmente il dolore o le sofferenze «derivanti unicamente da sanzioni legittime, ad esse inerenti o da esse provocate». Dunque si tratta di un tipico «delitto di Stato».

La legge avrebbe dovuto semplicemente riprodurre la definizione della Convenzione, o comunque rifarsi integralmente ad essa, per darvi piena e fedele attuazione. Invece in Parlamento si sono elaborati e votati dei testi che hanno preteso di dare una diversa definizione. L’ultimo testo suona così: «Chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, è punito con la pena della reclusione da quattro a dieci anni se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona». Si noterà, anzitutto, che mentre la Convenzione si riferisce unicamente ad atti compiuti da un pubblico ufficiale o per sua istigazione o con il suo consenso, la legge si riferisce a «chiunque», quindi configura un delitto comune, sia pure poi prevedendo una aggravante e quindi una pena maggiore se i fatti sono commessi «da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio».

Perché questa diversa definizione? Non vale addurre che anche soggetti non investiti di funzioni pubbliche, come gli appartenenti a gruppi di criminalità comune o mafiosa o terroristica, possono ricorrere per i loro scopi criminali alla tortura nei confronti delle persone loro prigioniere. Infatti non mancherebbe comunque il modo di punire adeguatamente tali violenze commesse da privati, mentre le condotte «tipiche» da prevenire e da punire sono quelle dei pubblici funzionari che legalmente hanno il controllo fisico di una persona. Ma fin qui, si potrebbe dire, poco male: si è estesa la portata della definizione del delitto al di là dell’ambito internazionalmente definito. (anche se non è detto che questo non provochi delle conseguenze).

Tuttavia la legge in discussione va al di là: ritiene che vi sia un’ipotesi di tortura solo se «il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona». Perché «più condotte» e non ne basta una? Secondo la Convenzione, è tortura «qualsiasi atto» intenzionale con quei caratteri, ed è logico che sia così. Si potrà forse obiettare che comunque, secondo la legge, anche un singolo atto, se comporta «un trattamento inumano e degradante», sarebbe punito. Ma che cosa conduce a discriminare una singola condotta che cagioni «acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico» senza però comportare un «trattamento inumano e degradante»? E ancora, che vuol dire che il trauma psichico deve essere «verificabile»? Un atto che cagioni «acute sofferenze psichiche» non è tortura se il trauma psichico non è «verificabile»?

Il Parlamento non era libero di definire restrittivamente i confini del delitto: era vincolato dalla Convenzione internazionale, dato che la Costituzione (art. 117) obbliga il legislatore ordinario a conformarsi alle norme internazionali. Onde, una legge non conforme alla convenzione potrebbe e dovrebbe domani, nel caso in cui venga in applicazione, essere portata all’esame della Corte costituzionale e da questa censurata. Non a caso il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Nils Muižnieks, aveva indirizzato una lettera agli esponenti del Parlamento italiano esprimendo la preoccupazione che proprio queste caratteristiche della legge possano dare luogo a potenziali «scappatoie» di impunità.

Si è temuto forse di far apparire una «volontà punitiva» nei confronti delle forze dell’ordine? Ma chi può pensare che si esprima una «volontà punitiva» ingiustificata allorché si definiscono, in conformità alle norme internazionali, condotte illecite che non devono e non possono in nessun caso e sotto nessun pretesto essere proprie delle forze dell’ordine di uno Stato democratico? Piuttosto, suona offensivo per i nostri poliziotti e i nostri carabinieri pensare a nascondere o a mascherare o a minimizzare condotte inequivocabilmente contrarie, prima ancora che ai diritti umani, al loro statuto fondamentale di agenti e protettori della legalità .

la Repubblica, 1 luglio 2017 (c.m.c.)

Appaiono non solo incomprensibili, ma destituite di ogni fondamento storico e culturale, le obiezioni relative al nucleo stesso della legge sullo Ius soli. Per una ragione molto semplice: in Italia l’idea stessa di nazione è indissolubile dal territorio come costruzione culturale. Non siamo mai stati una nazione etnica, “per via di sangue”: non c’è nazione più felicemente “impura” di quella italiana, frutto dei più vari e numerosi meticciati. È un’altra, la nostra storia.

Negli stessi versi dell’XI canto del Purgatorio in cui Dante mette in chiaro che Guido Guinizzelli, Guido Cavalcanti e poi soprattutto lui stesso hanno la gloria di aver fondato il volgare italiano, vengono esaltati Cimabue e Giotto, padri dell’altra lingua degli italiani: quella dell’arte figurativa, e dei monumenti. E quando Raffaello, nel 1519, prova a convincere papa Leone X a difendere le rovine di Roma antica, definisce questa ultima «madre della gloria e della fama italiane»: in un momento in cui l’idea stessa di nazione era ancora solo un vago progetto, era già evidente il ruolo decisivo che in esso avrebbe avuto il suolo, e ciò che su quel suolo avevamo saputo costruire. Come tre secoli prima aveva capito Cimabue rappresentando (sulla volta della Basilica Superiore di Assisi) l’«Ytalia» attraverso i monumenti di Roma, è proprio la lingua monumentale dell’arte quella che, lungo i secoli, ha reso noi tutti “italiani” per purissimo Ius soli.

È un filo, questo, che si può seguire fino al Novecento. Per esempio, fino al momento in cui un gruppo di intellettuali antifascisti (Piero Calamandrei, Nello Rosselli, Luigi Russo, Attilio Momigliano, Benedetto Croce, Alfonso Omodeo, Leone Ginzburg e altri ancora) intraprese una straordinaria serie di “gite” domenicali per cercare nel paesaggio e nei monumenti «il vero volto della patria». Scrive Calamandrei: «C’era prima di tutto un grande amore, proprio direi una grande tenerezza, per questo paese dove anche la natura è diventata tutta una creazione umana… Era questo amore, che nelle nostre passeggiate ci guidava e ci commoveva; e lo sdegno contro la bestiale insolenza di chi era venuto a contaminare colla sua presenza l’oggetto di questo amore, e a preparar la catastrofe (che tutti sentivamo vicina) di questa patria, così degna di essere amata». Mentre il fascismo pervertiva il concetto stesso di nazione, si sentiva che era dal territorio - cioè dal suolo, dalla sua natura e dalla sua storia - che potevano rinascere un’idea di nazione e di patria.

È ciò che, dopo la Liberazione, riconosce la Costituzione, dove la Repubblica prende solennemente atto che siamo nazione per via di cultura. Accade nell’unico dei principi fondamentali dove appaia la parola “nazione”, il 9. Dicendo che la «Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione» si iscrive nella Carta fondamentale la vicenda nazionale preunitaria. E lo si fa attraverso che cosa? Non attraverso la lingua, non attraverso il sangue, non attraverso la fede religiosa, ma attraverso la storia, l’arte e la loro inestricabile fusione con l’ambiente naturale italiano. In altre parole, la Repubblica prende atto del ruolo fondativo che la tradizione culturale e il suo sistematico nesso col territorio hanno avuto nella definizione stessa della nazione italiana, agli occhi dei propri membri e agli occhi degli stranieri.

Non è un’idea astratta. Chiunque abbia un figlio che frequenti una scuola pubblica vede con i propri occhi come bambini di ogni provenienza divengano giorno per giorno italiani: facendo propria la lingua delle parole, ma anche prendendo parte a quell’antico rapporto biunivoco per cui noi apparteniamo al suolo patrio, che a sua volta ci appartiene. Siamo tutti, da sempre, italiani per via di suolo e cultura. La legge sullo Ius soli si può certo discutere laddove (per esempio riferendosi al reddito del genitore non comunitario) rischia di introdurre una cittadinanza per censo. Ma la necessità di migliorarla ed ampliarla (ciò che si dovrà fare in seguito) non può certo indurre a dubitare della necessità di approvarla quanto prima: se non altro perché non fa che riconoscere un antico dato di fatto.

«Amnesty international Italia. Scrivere finalmente quella parola indicibile nel codice penale può comunque scoraggiare i negazionisti».

il manifesto, 28 giugno 2017 (m.p.r.)

La nuova legge sulla tortura che la Camera si appresta ad approvare in via definitiva lascia l’amaro in bocca, ma non è inutile. E’ vero che dopo decenni di discussioni sterili, di proposte puntualmente archiviate ad ogni fine di legislatura, era lecito attendersi che il Parlamento approvasse una legge migliore. Ma il fatto di porre fine alla rimozione della tortura, scrivendo finalmente quella parola indicibile nel codice penale non è un’operazione priva di una sua logica apprezzabile.

La definizione della nuova fattispecie, frutto di un faticoso compromesso, è lunga e confusa. Ha alcuni difetti specifici, problematici sia dal punto di vista giuridico (nella prospettiva dell’applicabilità della norma) sia, soprattutto, da quello politico-culturale (per l’atteggiamento di diffidenza nei confronti dell’obbligo di punire severamente tutte le forme di tortura che inevitabilmente esprimono). In particolare, il requisito del “verificabile trauma psichico” ridimensiona l’applicabilità della nuova fattispecie alla tortura mentale. E lascia decisamente perplessi la formulazione da cui si desume la necessità, perché vi sia tortura, di più comportamenti (come se questa non potesse essere il risultato di una sola, gravissima, azione).

Una valutazione equilibrata richiede però che si tenga conto anche di un altro aspetto: quello della sistematica negazione della tortura e della necessità di contrastare quell’atteggiamento. L’esperienza di Amnesty International mostra come in tutto il mondo gli stati accusati di praticare la tortura reagiscano negando i fatti. E se ciò non è possibile, minimizzano, sostengono che si tratta di episodi isolati da attribuire a poche “mele marce”. E se neppure questo è possibile, argomentano che non si tratta di “tortura”, ma di qualcosa di meno grave … è disponibile un nutrito repertorio di eufemismi.

Nel nostro Paese la negazione e l’occultamento della tortura si sono tradotti soprattutto nella volontà di mantenere il silenzio del codice penale (quantomeno di quello ordinario, l’unico che interessa veramente) sulla tortura. Di non prevederla per non dovere ammettere che esiste o che può esistere anche da noi. E’ per questo che ci sembra che chiamare la tortura con il suo nome, prevederla in modo specifico nel codice penale, potere eventualmente discutere di “tortura” (senza nascondersi dietro l’“abuso d’ufficio” o le “lesioni”) in un’aula di tribunale, anche se la definizione è deludente, possa rappresentare un piccolo ma utile passo avanti.

Nessuna delle alternative, del resto, è credibile: né l’idea del tutto irrealistica che il Parlamento possa migliorare il testo della norma entro la fine di questa legislatura né quella di chi preferirebbe rinviare, per l’ennesima volta, nella speranza a dir poco incerta che un nuovo Parlamento possa avere un atteggiamento diverso dagli ultimi cinque. La chiusura dell’ennesima legislatura con un nulla di fatto servirebbe soltanto a rassicurare ancora una volta coloro che continuano a sostenere, a torto ma con determinazione, che una legge sulla tortura, qualsiasi legge sulla tortura, sia contro gli interessi delle forze di polizia.

Antonio Marchesi è presidente di Amnesty International Italia

il manifesto, 18 giugno 2017 (c.m.c)

Il rapporto del Gruppo interdisciplinare sulla medicina basata sulle evidenze (Gimbe) ha riaperto una discussione ciclica sul costo della sanità italiana. La spesa sanitaria italiana è poco inferiore alla media europea, e in percentuale sul Pil dovrebbe scendere ulteriormente al 6,5% nel 2019. Tuttavia, secondo il rapporto Gimbe, ci sono ancora sprechi e inefficienze, calcolabili nel 20% circa della spesa sanitaria totale. Di norma, dibattiti di questo tenore preludono a nuovi tagli in nome della razionalizzazione.

L’esperienza, però, suggerisce che malgrado la pesante riduzione di spesa, l’efficienza del sistema sanitario non sia migliorata, anzi. L’impressione è che i tagli favoriscano la parte malata del sistema sanitario, dove proliferano sprechi, clientele e frodi, a danno del servizio sanitario pubblico. Dal canto suo, quest’ultimo invece ottiene regolarmente riconoscimenti internazionale, per la capacità di coniugare l’accesso a tutte le fasce sociali con un livello elevato di qualità delle prestazioni. L’equilibrio però è sempre più precario: la spesa sanitaria alimenta gli sprechi, ma riducendola si lede il diritto sociale alla cura. In entrambi i casi, il vero sconfitto è il paziente.

Una delle cause principali degli sprechi è il grande numero di prescrizioni sanitarie inutili. Secondo le stime, circa tredici miliardi di euro si volatilizzano in esami medici inutili, prescritti con leggerezza sia dai medici di base che nei reparti di ospedale. Proprio per restituire sobrietà al sistema sanitario, senza pregiudicarne il carattere universale e pubblico, è nata l’associazione Slow Medicine. E il riferimento a Slow Food non è affatto casuale. Oggi, infatti, troppo spesso si va dal medico a chiedere esami specialistici come a un supermercato per fare la spesa. Tra i fondatori di Slow Medicine, figurano medici, ma anche scienziati, economisti studiosi di comunicazione, tutti uniti dalla promozione di una medicina «sobria, rispettosa e giusta». Per capire come migliorare la sanità italiana, abbiamo parlato con il suo presidente Antonio Bonaldi. 65 anni, bergamasco, ha diretto diverse Aziende Sanitarie Locali del nord Italia, e conosce dunque da vicino la sanità pubblica e i suoi problemi.

La sanità italiana non è già abbastanza «slow»? Per un’ecografia bisogna aspettare molti mesi…Il nome si presta a interpretazioni maliziose, ma per noi «slow» vuol dire «agire senza fretta», o «prendersi il tempo». Invece spesso si agisce senza riflettere: per esempio si prescrivono esami medici illudendosi che «più» significhi «meglio». I greci avevano due termini per il tempo, chronos e kairos. Noi stiamo con kairos.

Si spieghi meglio.Il primo indica la sequenza degli eventi. Il secondo è il tempo giusto per fare le cose, dunque l’evento nella sua relazione con il contesto. Per noi «slow» significa questo, anche in medicina. Il dialogo e la relazione con il paziente sono un elemento fondamentale. Instaurare un rapporto con il paziente serve a spiegare che certi problemi medici non hanno una soluzione immediata. Invece ci si preferisce prescrivere esami o terapie inutili. Ma troppi esami non sono solo inutili: sono dannosi. Si arriva al paradosso di una medicina che ammala, invece di guarire.

Però il paziente è più soddisfatto…Soprattutto, si evitano contenziosi. Perché quando l’esito di una malattia è negativo, spesso nascono cause legali e si dà la colpa al dottore. Perciò, il dottore prescrive qualunque esame per dare l’impressione che si stia facendo tutto il possibile. Ci costa 10 miliardi di euro l’anno, e vale il 10% dell’intera spesa. Quasi l’80% dei medici ci casca. Ma così il paziente si illude che la medicina sia una scienza esatta e che la tecnologia fornisca la soluzione per ogni problema, perciò aspettative e contenziosi aumentano ulteriormente.

I contenziosi legali si evitano instaurando un dialogo con l’ammalato. Infatti, le cause si concentrano nella medicina ospedaliera, non riguardano il medico di base che conosce meglio i suoi pazienti.

Il decreto Lorenzin sull’«appropriatezza prescrittiva» del 2015 voleva porre un freno a questo fenomeno.
Ma non funzionava, e infatti è stato abrogato nelle sue linee sostanziali. Il decreto aumentava i controlli sulle prescrizioni dei medici, ma l’appropriatezza non si può raggiungere a colpi di decreto. Quando tra dottore e paziente si inserisce la legge, viene meno il patto che li lega. Il dottore non prescrive esami che ritiene necessari per paura di controlli, mentre il malato crede che per ragioni di risparmio economico gli sia negato un diritto fondamentale come il diritto di essere curati. Due figure che dovrebbero collaborare, il malato e il paziente, vengono messe l’una contro l’altra. Bisognerebbe invece intervenire sulle cause a monte, sugli interessi anche economici che spingono a prescrivere troppo.

Può essere più preciso?
La ricerca medica è guidata dall’industria, che persegue il profitto. Troppi dispositivi medici sono introdotti sul mercato senza che la loro efficacia sia provata da ricerche serie, ma da articoli sponsorizzati dalla stessa industria. Si pensi alla moda degli integratori vitaminici, del tutto inutili ma diffusissimi.

Anche la sanità italiana però qualche colpa ce l’ha, o no?
Certo, l’eccesso di prescrizioni e la cattiva gestione vanno di pari passo. Basta controllare i dati forniti sul web dal Programma Nazionale Esiti per capirlo.

Per esempio?
Le fratture al femore vanno operate entro 48 ore, altrimenti si rischia di morire. Però, il Piano nazionale esiti ci dice che, per mancanza di ortopedici, solo il 60% dei pazienti viene operato in tempo. D’altra parte, in Italia si fanno duecentomila interventi in artroscopia l’anno. In gran parte, per curare l’osteoartrosi. Ma come conferma anche un recente articolo del British Medical Journal, contro l’artrosi la fisioterapia ha la stessa efficacia della chirurgia, a costi molto inferiori. Se si facessero meno interventi in artroscopia, si libererebbero ortopedici per interventi necessari come quelli al femore.

Quali consigli darebbe al ministro per rendere più efficiente il sistema sanitario?Ripeterei quello che consiglia un recente rapporto dell’Ocse intitolato «Tackling wasteful spending on health». Innanzitutto, agire sulle prestazioni inutili. In secondo luogo, a parità di efficacia, privilegiare le alternative terapeutiche meno costose. Infine, per ordine di impatto economico, intervenire su frodi, inefficienze e ridondanze.

Non sarebbe utile investire maggiormente in prevenzione?
Certo, a patto che non si scambi il concetto di «prevenzione» con quello di «diagnosi precoce», perché in quel caso si aumenterebbe ancora di più il numero delle prescrizioni. Per prevenire occorre agire sul contesto o, come diciamo noi, «coltivare la salute« nei vari settori: l’ambiente, l’alimentazione, la sicurezza sul lavoro, i vaccini.

Quindi la nuova norma sui vaccini vi trova d’accordo.
No, l’approccio del ministro Lorenzin è di nuovo sbagliato. Lo abbiamo spiegato in un documento stilato insieme alle trenta associazioni della rete «Sostenibilità e salute». Intendiamoci, i vaccini sono importantissimi. Ho diretto per molti anni un’azienda sanitaria locale e io stesso ne ho prescritti a migliaia. Ma i vaccini non si impongono per legge, con pene severe per chi non la rispetta. Dodici, per giunta. I vaccini vanno prescritti caso per caso, secondo le esigenze di ciascuno, perché si tratta comunque di farmaci. Con i genitori bisogna parlare e convincerli. Non ha senso dividerli tra chi è «per» e chi è «contro» i vaccini. Sarebbe come dividersi tra chi è «contro» o «a favore» dei farmaci. E quando si creano fazioni contrapposte, le persone smettono di ragionare. E a quel punto diventa difficilissimo convincerle.

Un buon esempio di ipocrisia applicata a un tema che tocca l'essenza profonda della democrazia: quello dell'uguaglianza tra gli esseri umani.

Corriere della sera, 18 giugno 2017, con postilla

Pur essendo favorevole in linea generale alla nuova legge sulla nazionalità in discussione al Senato, trovo che le si possono egualmente muovere alcune ragionevoli critiche. Principalmente due. La prima è che nella concessione automatica della cittadinanza prevista per coloro che sono nati in Italia da genitori di cui almeno uno con regolare permesso di soggiorno da cinque anni come minimo, non si prevede però alcun accertamento preliminare circa la conoscenza né della nostra lingua, né dei costumi, né delle regole, né di niente della società italiana.

Si tratta appunto di una concessione automatica che tra l’altro, per il solo fatto di essere tale, viene privata di quel forte rilievo simbolico che invece sarebbe stato giusto conferirle. Bisogna sempre ricordare, infatti, che tutto quanto viene dato senza alcun corrispettivo perde per ciò stesso d’importanza. Il secondo punto su cui mi sentirei di dissentire riguarda il divieto di doppia cittadinanza, che secondo me sarebbe stato opportuno introdurre in ogni caso e che invece è assente. Mi rendo conto delle possibili obiezioni, probabilmente anche di carattere costituzionale. Ma anche in questo caso era comunque necessario, ne sono convinto, pensare a un modo per conferire alla concessione della cittadinanza un carattere di cesura simbolicamente irrevocabile, di frattura definitiva, rispetto a qualsiasi altra appartenenza.

Bisognava far capire insomma che la concessione della cittadinanza esclude in modo assoluto qualunque eventuale doppia fedeltà. Così come sarebbe stato forse utile considerare l’ipotesi di accrescere i motivi per i quali la cittadinanza, una volta acquistata, la si può anche perdere. Proprio in relazione a questi ragionevoli dubbi mi pare per nulla campata in aria la preoccupazione che l’immissione di nuovi cittadini provenienti da contesti radicalmente differenti dal nostro possa finire per alterare l’identità storico-culturale del Paese.

La Repubblica, con la sua Costituzione, le sue regole le sue leggi, non è nata dal nulla, infatti, e non vive nel nulla, non discende dall’empireo giuridico-formale dei «Diritti». Per mille tramiti essa scaturisce e si alimenta ogni giorno, invece, di una storia - che è anche una complessa storia di valori - la quale, si provi qualcuno a dimostrare il contrario, si colloca nel tempo e nello spazio e ha un nome e un cognome. Si chiama Italia. Sollevare questioni del genere è semplice buon senso, non ha niente di xenofobico né di razzista. E un Paese serio che si trova davanti un problema esplosivo come quello di una immigrazione apparentemente incontrollabile ne dovrebbe discutere in modo serio.

Ma da noi questo si rivela sempre difficile. Presentando la proposta di legge di cui stiamo dicendo la Sinistra, ad esempio, ha avuto l’indubbio merito di porre il problema in modo concreto, indicando comunque una soluzione concreta, ed è del merito di questa che si dovrebbe parlare. Che bisogno c’è allora che essa ricorra al sentimentalismo un po’ dolciastro di pubblicare teneri visini di bimbi extra-comunitari dagli occhi spalancati, che - si dice per convincerci - «sono nati qui»?

È un sentimentalismo, va subito aggiunto, che però ha un’attenuante. Una sola ma politicamente decisiva, dal momento che anche in politica la moneta cattiva è destinata a scacciare sempre quella buona. E cioè il fatto di rispondere al «cattivismo» programmatico e apocalittico di buona parte della Destra. Alla quale, come se non bastasse si è aggiunto ora anche il Movimento Cinque Stelle (dopo essersi astenuto alla Camera). Gli argomenti messi in campo dagli oppositori si sono distinti infatti per la loro sgangherata demagogia. Abbiamo sentito e letto di tutto tranne che qualche proposta in positivo. Dal «non si fa nulla per gli italiani» (che non si capisce che cosa c’entri, essendo che gli italiani una cittadinanza fino a prova contraria già ce l’hanno) alla denuncia per gli affari sporchi connessi al traffico e all’accoglienza degli immigrati (tutto vero, ma realmente si pensa che eliminando il «business» dell’immigrazione magari si elimina anche l’immigrazione?), all’allarme diffuso per le terribili malattie che gli immigrati importerebbero (anche qui: ma che cosa c’entra con la nazionalità?).

Su tutto aleggia poi una sorta di furibonda paranoia identitaria nonché l’idea, non saprei dire se più ingenua o più bizzarra, che senza la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana di una legge sulla concessione della nazionalità, milioni di africani se ne starebbero tranquilli a morire di fame rinunciando a intraprendere il loro disperato viaggio verso l’Europa. Invece, se una cosa è certa è l’impeto ininterrotto e di difficilissimo contenimento del fenomeno migratorio da cui siamo investiti. Si tratta di una vera e propria emergenza nazionale che richiederebbe alle forze politiche d’opposizione, ma in modo tutto particolare a quelle della Destra, il perseguimento degli interessi vitali del Paese, non la ricerca a tutti i costi di un qualche possibile guadagno elettorale.

La cultura della nazione, il patriottismo, quello vero, significa tra le altre cose anche questo: capire quando bisogna rinunciare agli interessi della propria parte in nome di un interesse generale. Oggi tale interesse si sostanzia in due obiettivi assolutamente prioritari. All’interno, evitare da un lato l’apartheid di fatto e dall’altro il comunitarismo multiculturale, assicurando nel modo più rigoroso la legalità e la sicurezza; all’esterno utilizzare tutte le risorse politiche e diplomatiche (il ricatto compreso, caro presidente Gentiloni, il ricatto compreso!) per obbligare i nostri soci europei a non lasciarci da soli nelle peste alle prese con un problema che è anche il loro problema. Chiunque dia comunque una mano per raggiungere uno di questi obiettivi, a qualunque partito appartenga, è un benemerito del nostro Paese.

postilla

Sono nato da genitori entrambi italiani, da molte generazioni
(sebbene i miei avi paterni fossero di ispanica prosapia). Lo giuro, e posso documentarlo in modo ineccepibile. Quindi ho il pieno diritto di essere considerato italiano per jus sanguinis: ho certamente tutti quei requisiti che, secondo Ernesto Galli della Loggia, devono essere posseduti da chi voglia avere il brand di cittadino italiano Secondo lo jus sanguinis. E infatti, la legge mi ha riconosciuto tale.

Eppure devo ammettere, che, quando nacqui cittadino italiano non possedevo affatto quei requisiti, conoscenze, consapevolezze, innate capacità che, secondo Galli Della Loggia, sono indispensabili per essere catalogati con l’etichetta di “cittadino italiano”. Quando uscii, suppongo strillando, dal corpo di mia mamma non possedevo «alcuna conoscenza né della nostra lingua, né dei costumi, né delle regole, né di niente della società italiana». Purtroppo mia mamma non c’è più né alcuna delle altre persone che assistettero a quel lontano episodio, quindi il lettore dovrà accontentarsi della mia parola. Quindi secondo il conto elzevirista del Corriere non ho il diritto di essere “cittadino italiano.

Su molti altri punti e affermazioni di Galli Della Loggia sono in profondo disaccordo, ma soprattutto con i molti veli d’ipocrisia che avvolgono il suo nazionalismo spinto fino ai margini della xenofobia e del razzismo. Ma ciò che particolarmente mi ha irritato è il non assumere esplicitamente, da parte dell'autore, una posizione netta e dire, semplicemente e schiettamente: sono contrario allo jus soli e non mi distinguo affatto né dai Di Maio né dai Salvini. (e.s.)

«Il viaggio in Italia va fatto senza ansie di compiacimento o di denuncia. Abbiamo bisogno di creature rivoluzionarie, non di manovali del rancore».

comune.info, 14 giugno 2017 (c.m.c.)
Si potrebbe pensare che l’immiserimento della natura abbia riflessi anche sull’immiserimento della lingua. Oggi le immagini, le parole, i ritmi non sono più suggeriti dalla Natura, ma dalla Rete. E così abbiamo una lingua e una politica che sa di chiuso. Bello sfuggire alla tentazione dello sguardo apocalittico sull’Italia di oggi. Bello cercare i luoghi che non sono stati riempiti, i luoghi che non interessavano a nessuno, quelli poveri, impervi, fuori mano. In questi luoghi l’Italia si dà ancora.

E allora ti puoi stupire guardando il muso delle vacche nel bosco di Accettura, guardando un vecchio in un orto del Salento o un contadino che ara in un pomeriggio sardo. Il viaggio in Italia va fatto senza ansie di compiacimento o di denuncia. Andare in giro, guardare come cambiano città e paesi, Torino oggi è molto diversa da come era negli anni settanta, l’Aquila è una città doppia: la città dei monumenti e quella delle rovine. E doppia è anche Taranto, città di mare circondata dalla città dell’acciaio. Nel guardare l’Italia tenere insieme l’occhio di Leopardi e quello di Pasolini, il Pasolini che teneva insieme Casarsa e Caravaggio, quello che scrisse nel 1959 La lunga strada di sabbia, un viaggio costiero da Ventimiglia a Trieste, un atto di amore verso un’Italia dalle cento province non ancora devastata dal “genocidio culturale” che ha prodotto il paesaggio italiano che attraversiamo adesso.

Non mi piace l’Italia costruita negli ultimi decenni, quella delle città, ma anche quella dei paesi. Mi irrita vedere tante case sparse nelle campagne. E non mi piacciono neppure i paesi imbellettati, quelli con le pietre finte, quelli che non sono paesi, ma trappole per turisti.

L’Italia che cerco è quella che sa di Italia e di altrove. Penso ad Aliano, ai suoi calanchi che mi fanno pensare all’oriente. Mi piace molto l’Italia ionica. Mi piacciono i paesi che hanno un residuo arcaico, un nodo che non si è fatto rovistare dalla modernità incivile.

Sto male negli areoporti, tutta quella gente che crede di andare chissà dove, non mi piacciono neppure i silenziosi viaggiatori della freccia rossa, l’Italia che fila dritta e ignora il canto, ignora che la vita prende spazio quando sbaglia, quando s’incaglia.

Mi piace incontrare i vecchi dei paesi. Sto bene quando li ascolto. Non credo di avere più strada e più di futuro di loro. Il mio secondo è sempre in bilico, nessun attimo in me ha una fiducia assoluta, è come se dovessi ogni giorno patteggiare col tempo un altro poco di tempo. Nel mio girare per l’Italia non perdo mai di vista il corpo. È il corpo che guarda, è il corpo che prende avvilimenti ed euforie, è il corpo che incontra gli altri o li sfugge.

Mi piacerebbe vivere in un’Italia in cui la maggioranza sia fatta di percettivi e non di opinionisti. Non mi piace l’Italia che si è seduta sui divani, quella che guarda la televisione, che va in pizzeria, che tiene il bicchiere in mano davanti al bar, l’Italia dei giovani che prendono la notte a branchi, i giovani che mettono in posa compagnie che non hanno, vicinanze che non ci sono.

Gli Italiani che amo sono quelli che mettono assieme poesia e impegno civile, malinconia e ardore, indugio e frenesia. Abbiamo bisogno di creature rivoluzionarie, non di manovali del rancore. Non mi piacciono gli scoraggiatori militanti, i luminari del disincanto, i piromani dell’entusiasmo. Mi fa schifo il sentire stitico, il rimanere rigidi perfino nel calarsi.Non credo al centro, non credo ai potenti, ai famosi. Credo che il successo sia una forma di sventura, che rovina la pace e la lingua. Mi interessano i paesi e le persone arrese. La resa che non sa di rassegnazione, ma qualcosa che somiglia alla disperazione senza sgomento di cui parla Giorgio Caproni.

Abbiamo bisogno di un’Italia attenta alle cose che coltiva, attenta a quello che accade nelle scuole, negli ospedali. Un’Italia che sa ammirare e sa essere devota, alta e libera, e non laida e meschina.

Credo che non dobbiamo aspettare niente, non dobbiamo aspettarci niente. Nessuno ce la regala l’Italia che vogliamo. Bisogna andare avanti in quello che c’è, sentire la terra sotto i piedi, sapere che ovunque c’è aria e ci sono gli alberi, e c’è tanto da guardare.A me più di tutto danno fiducia questi due gesti: guardare e camminare. Mi pare che possiamo accedere a una qualche forma di grazia fino a quando possiamo guardare e camminare.

Abbiamo bisogno di immettere un po’ di sacralità nella nostra immiserita compagine civile. Non si può andare avanti col gioco del consumare e del produrre. La letizia può arrivare solo dall’amore e dall’immaginazione, viene quando non esci ai caselli stabiliti, ma ti apri all’impensato, sfuggi anche ai tuoi progetti, alle tue mire. Essere umani in un tempo autistico e vorticoso è un mestiere molto difficile. Non ci sono rotte definite, te le devi costruire attimo per attimo, devi cucire e strappare nello stesso tempo, devi capire che stiamo guarendo e stiamo morendo, stanno accadendo le due cose assieme.

Abbiamo bisogno di stare in ginocchio, di pregare, abbiamo bisogno di pensare a Dio, alla morte, alla poesia. Non sono pensieri da poeti, sono pensieri utili per essere buoni cittadini, semplici essere umani che passano il tempo dentro il tempo, che filano la vita per fare un vestito che indosseranno altri.

«L». la Repubblica, 15 giugno 2017 (c.m.c.)

È davvero difficile “orientarsi nel disordine del mondo”, come recita il titolo della Repubblica delle Idee di quest’anno. Perché il disordine, agli occhi dei cittadini, regna sovrano. Complicato dall’incertezza che avvolge il futuro, ma anche il presente, delle persone. Non ci sarebbe bisogno di statistiche per dimostrarlo. Basterebbero gli indicatori del senso comune. Tracciati dalle nostre percezioni. Ricavati dai discorsi della gente. Tuttavia, in questo caso, le statistiche, per una volta, danno fondamento al senso comune.

Per questo mi limito a riproporre dati e indici ricavati da sondaggi condotti da Demos (per Unipolis e per Repubblica) negli ultimi sei mesi. E dunque in tempi recenti. Il 76% degli italiani — dunque: oltre 3 persone su 4 — si sentono gravati da un senso di “insicurezza globale”. Temono, cioè, le minacce che vengono da lontano ma risuonano forte nella loro vita quotidiana, scandite e riprodotte dai media. In primo luogo, il terrorismo che compie i suoi massacri dovunque, in Europa, con attenzione e competenza mediatica. Ma poi, l’impatto della crisi economica, finanziaria, che si riflette sui nostri risparmi e sulla nostra condizione personale e familiare. Minacce lontane e dunque vicine. Che spaventano di più proprio perché non hanno volto e nome.

Ricordo mio padre, anni fa, quando, molto anziano e malato, mi chiedeva, angustiato, preoccupato per i propri risparmi, frutto del lavoro di una vita, e, quindi, della pensione: «Ilvo, ma chi è questo Spread? Che faccia ha? E dove abita? Perché ce l’ha con me? Con i miei risparmi?». Naturalmente non era facile rispondergli. E non lo è neppure oggi. Anzi, lo è sempre di meno. Perché le fonti dell’incertezza si sono moltiplicate. Perché non abbiamo più il privilegio dell’ignoranza. Il significato della globalizzazione è questo, ben evocato da Giddens.

Tutto ciò che avviene dovunque, nel mondo, si ripercuote su di noi. In modo im-mediato. Perché lo vediamo e lo sappiamo subito. Perché i nuovi media, il digitale, ci permettono di re-agire in modo im-mediato. Subito. In modo “digitale”. Con il nostro smartphone. Protagonisti e al tempo stesso bersagli di ogni messaggio. Di ogni informazione, circa ogni evento che avviene ovunque. Tanto più e tanto meglio se ansiogeno. Così e per questo l’incertezza si riproduce. E il mondo ci sembra sempre più largo. Al tempo stesso, più im-mediato e più incontrollabile. Anche perché l’im-mediato ci priva del futuro. Perché, se il futuro è adesso, allora è già passato. Nel momento stesso in cui lo evochiamo e lo sperimentiamo. Il futuro.Immaginarlo, se non prevederlo, sarebbe necessario per ridurre il disordine del mondo. Perché se hai un progetto, allora è più facile saper cosa fare, dove — e verso dove — muoversi.

Ma se il futuro si riduce, fino a venire riassorbito nel “quotidiano”, nell’immediato, allora il disordine prende il sopravvento. D’altra parte il nostro futuro è affidato ai giovani. Ai nostri figli. Ma noi siamo una società vecchia. Sempre più vecchia. Dove si fanno sempre meno figli. Le stesse famiglie di nuovi italiani, gli immigrati, quando si stabilizzano in Italia, assumono i nostri modelli e stili di vita. E fanno sempre meno figli. D’altronde, 3 italiani su 4 ritengono che i giovani nel nostro Paese avranno, nel prossimo futuro, una posizione sociale e professionale peggiore rispetto ai loro genitori.

Per la stessa ragione, una percentuale simile di persone ritiene che i giovani, se ambiscono a fare carriera, debbano lasciare l’Italia. Ed è ciò che effettivamente avviene, visto che da tre anni siamo in declino demografico. Peraltro, i nostri “emigranti” sono, soprattutto, i giovani con maggiori competenze e livello di istruzione più elevato. Per questo rischiamo di divenire sempre più pessimisti. Per ragioni “realiste”. Infatti, se lasciamo partire i più giovani e i più preparati, compromettiamo il nostro futuro. E allora: perché dovremmo essere ottimisti? Peraltro, l’ottimismo declina con l’età. I (più) vecchi difficilmente sono più ottimisti dei (più) giovani.

Eppure, quando chiediamo agli italiani se si sentano “felici”, circa 8 su 10 rispondono in modo affermativo (Demos). Sì: ci sentiamo “abbastanza” felici. E ciò potrebbe sorprendere. Apparire contraddittorio. Come fanno gli italiani ad essere pessimisti e insicuri, ma, al tempo stesso, abbastanza felici? Dipende dalle nostre risorse sociali. E di socialità. Perché l’incertezza si riduce in misura coerente con il nostro “capitale sociale”.

Noi, cioè, resistiamo all’insicurezza ricorrendo alle relazioni sociali. E, in primo luogo, alla famiglia. L’incertezza e le preoccupazione verso il futuro, infatti, si riducono tanto più quanto maggiore è il livello di partecipazione sociale. Ma anche quanto più forti sono i nostri legami di vicinato. La nostra vita associativa. Allora la fiducia negli altri, che da anni tende a calare, riprende a crescere. E il futuro ritorna. Dopo essersi perduto nel passato.

Così, per “orientarsi nel disordine del mondo”, occorre (in)seguire un percorso obbligato. Coltivare la fiducia negli altri. E, dunque, rafforzare i legami con gli altri. Partecipare. Perché “con gli altri” si sta meglio che “da soli”. E la partecipazione aiuta. A stare in mezzo agli altri. A camminare insieme. Verso una meta comune.

». il manifesto, 27 maggio 2017 (c.m.c.)

L’ottava edizione dei Dialoghi sull’uomo, il festival di antropologia diretto da Giulia Cogoli (Pistoia 26-28 maggio 2017), ha un titolo lungo: La cultura ci rende umani. Movimenti, diversità e scambi. Ma va bene così: a costo di sembrare noiosi, vale la pena di insistere su quanto abbiano pesato nella nostra storia gli scambi e i contatti fra popoli diversi. Siamo tutti bastardi, tanto biologicamente quanto culturalmente, ma rischiamo di dimenticarcene a furia di sentir parlare, in televisione, sui giornali e a cena con gli amici, di linee di confine fra chi è (o ci sembra), come noi e chi invece non lo è.

È una storia vecchia: abbiamo bisogno di parole per definire le cose. Ma queste parole, a prenderle troppo sul serio, tracciano linee divisorie nette: fra bianchi e neri, romani e barbari, nord e sud; oppure (ma è lo stesso) fra vegetariani e onnivori, fra credenti e altri credenti, e fra tutti i credenti e atei o agnostici. Ovviamente, le differenze ci sono, sia biologiche sia culturali: e meno male, se no sai che noia. Però ci sono tantissime sfumature, e il linguaggio corrente le trascura; se ce ne dimentichiamo, se le cancelliamo dal nostro mondo mentale, ecco che tutto si appiattisce intorno a noi.

L’operazione comporta dei rischi, e ce l’ha spiegato il premio Nobel Amartya Sen, nel suo Identità e violenza. Un manovale Hutu di Kigali può vedere se stesso solo come Hutu e arrivare a uccidere il suo collega Tutsi, scrive Sen, ma facendolo perde di vista tutto quello che li unisce: essere entrambi abitanti di Kigali, manovali, ruandesi, africani e esseri umani.

L’idea del Festival, allora, è di portare alla luce la ricchissima rete di contaminazioni che hanno fornito tanti elementi in comune sia alle nostre culture, sia (e qui si spiega cosa c’entri la genetica) alla nostra natura biologica: un compito più semplice di quanto si possa immaginare, perché la ricerca ha fatto grandi passi avanti, e oggi comprendiamo bene differenze e somiglianze su cui l’umanità si interroga da sempre. Abbiamo visto, per esempio, che la nostra tendenza a classificare i nostri simili, ad attribuire loro un’etichetta razziale, ci ha impedito per secoli di capire quanto siano piccole le nostre differenze biologiche e come si siano formate.

E così, da quando ci siamo tolti gli appannatissimi occhiali della razza, siamo riusciti a leggere nel nostro DNA un sacco di cose sulla nostra preistoria. Oggi sappiamo molto meglio chi siamo (una specie straordinariamente mescolata, in cui ognuno porta pezzi di DNA di provenienza diversissima) e da dove veniamo (dall’Africa), mentre su dove andiamo, purtroppo, siamo incerti e confusi come sempre. Sappiamo che le differenze fra le varie popolazioni umane sono sfumature, reali ma minuscole, in una tavolozza genetica in cui ognuno è identico al 99,9% a qualunque sconosciuto.

Stiamo studiando come in quell’uno per mille di differenze ci siano i fattori che spiegano le nostre diverse tendenze ad ammalarci e a rispondere al trattamento farmacologico, il che apre grandi prospettive in medicina preventiva. E abbiamo capito che il nostro carattere, le nostre scelte e i nostri gusti c’entrano pochissimo con i nostri geni, e molto invece col complesso di situazioni ed esperienze individuali che riassumiamo nella parola cultura.

C’è un paradosso: mentre la biologia abbandona la visione razziale perché ha capito che ogni gruppo umano comprende individui molto diversi, con caratteristiche che si sono evolute attraverso scambi e commistioni, una visione simile sta affiorando in ambito culturale. E così nascono forme di razzismo più sottili, secondo cui quello che ci separerebbe dagli altri non starebbe magari nei geni, ma nei nostri schemi culturali, che però sarebbero profondamente radicati e sostanzialmente immutabili.

Scontro fra culture, chi non l’ha sentita questa espressione? Col corollario: Non sono razzista, ma santo cielo! questi musulmani sono proprio diversi da noi. Per generare un ampio catalogo dei nuovi razzismi, basta sostituire di volta in volta alla parola “musulmani” l’etichetta di quelli che vorremmo discriminare. Le tre parole-chiave di questa edizione del festival ci ricordano, invece, come le nostre identità siano tutt’altro che immutabili e tutt’altro che impermeabili. Noi speriamo che ragionare insieme sulle nostre migrazioni, sulle nostre differenze e scambi che sempre ci sono stati fra popoli e culture diversi ci aiuti ad affrontare a mente fredda questa difficile fase, in cui nubi di intolleranza sempre più cupe si addensano sul cielo d’Europa.

«Come nel romanzo di Camus, gli europei accettano passivi la distruzione dei propri valori, dalla giustizia sociale al paesaggio, alla democrazia. Se non riconosciamo le rovine, la rinascita sarà impossibile».

il Fatto Quotidiano, 25 maggio 2017 (p.d.)

«Essi provavano la sofferenza profonda di tutti i prigionieri e di tutti gli esiliati: quella di vivere con una memoria che non serve a niente".
In queste parole taglienti Albert Camus ha condensato non solo il dolore, ma la trama quotidiana della città appestata (Orano) che aveva scelto come osservatorio del mondo. Da Tucidide in poi, la narrazione della peste che affligge una città e la isola dal mondo è stata un esercizio letterario ricorrente, ma La peste di Camus ha una forza speciale, perché la descrizione e il decorso del morbo vi sono concepiti come una potente allegoria politica, che legittima la narrazione proprio mentre svuota l’apparente verità del racconto. Come lo stesso autore ha scritto pochi anni dopo, “il contenuto evidente del libro è la lotta della resistenza europea contro il nazismo”: in questa luce, personaggi e fatti del romanzo agiscono come gli atomi o come le sillabe di un’unica, estesa metafora che corre per tutte le pagine del libro. Abitanti e autorità di Orano dapprima non vogliono neppur vedere gli indizi del flagello che li decimerà, poi esitano a dargli un nome, e quando osano pronunciare la parola “peste” hanno già piegato la testa, imparando a convivere con essa.
La rimuovono due volte, prima perché rifiutano di prenderne coscienza, poi perché la ritengono ineluttabile e vi si rassegnano. Se la crisi dei valori che viviamo è come una peste che sta serpeggiando e che non vogliamo riconoscere; se non sappiamo vedere la vastità e la natura di un tracollo dei valori culturali che si nasconde così bene dietro indici di Borsa e invocazioni al “realismo” e al “pragmatismo”; se accettiamo a testa china una politica che devasta città e paesaggi, condanna i nuovi poveri, relega al margine le istituzioni culturali, crea“generazioni perdute” di giovani senza lavoro, esilia la giustizia e l’equità; se tutto questo è vero, e se è solo l’inizio di un processo destinato a radicarsi e a crescere, proviamo a rileggere in questa luce la diagnosi di Camus. Sarà ormai, la nostra, “una memoria che non serve a niente”? Ma che cosa è la memoria culturale di una società come la nostra, in cui gli esseri umani e le loro culture si mescolano con ritmo disordinato ma incalzante?
In questo nuovo orizzonte, che troppo spesso rimuoviamo dalla coscienza, quella che rischia davvero di non servire più a niente è prima di tutto la memoria degli immigrati, che dalle profondità del loro esilio non vedono più intorno a sé i punti di riferimento che fino a ieri erano familiari e rassicuranti. La loro, nei termini di Camus, è la “memoria degli esuli”. Ma accanto agli esuli, e condividendo nel lungo periodo il loro destino, ci siamo anche “noi”, prigionieri di una crisi senza fine e senza nome. E anche la “memoria dei prigionieri” finirà col non servire a niente se accantoniamo senza nemmeno accorgercene le nostre coordinate più familiari: la forma della città e dei paesaggi, la cura della dignità umana, la priorità del bene comune, la giustizia sociale, l’eguaglianza, il diritto al lavoro, la democrazia.
Sotto il cupo ombrello della crisi, prigionieri ed esuli si somigliano e si affratellano senza saperlo: gli uni e gli altri inseguono briciole di benessere (che coincidono coi rituali del consumo), e intanto perdono il loro tesoro più prezioso, la memoria. O meglio la conservano, ma come un arnese desueto da riporre in soffitta. “Vivere con una memoria che non serve a niente” comporta una sofferenza profonda (questa la parola di Camus), ma non sempre acuta: perciò al basso continuo di questa deprivazione incessante ci abituiamo, ci facciamo il callo. E la peste si diffonde, seminando quella morte morale che si chiama rassegnazione, indifferenza, cinismo. La nave all’orizzonte (minacciosa e invisibile), le rovine, la peste: metafore che nascono da una preoccupazione, ma sono alimentate dalla speranza. Una speranza che esige una memoria che serva a qualche cosa, e dalla quale qualche cosa si possa ricostruire, qualche cosa di nuovo si possa creare. In un itinerario che corre fra rovina e rinascita, la cultura e la bellezza, il pensiero analitico e la consapevolezza storica sono ingredienti essenziali.
Ma quale memoria ci soccorrerà su questo cammino? L’idea di rinascita dalle rovine, a cui abbiamo fatto appello, non è forse per sua natura squisitamente eurocentrica? Richiamarsi a essa non equivale a immaginare una “fortezza Europa”, entro la quale “noi” (i prigionieri) possiamo sperare in una qualche salvezza, a cui “gli altri” (gli esuli) debbano restare estranei? Evocare una tradizione fatta di decadenze e di rinascite, secondo un ritmo così tipicamente europeo, non rischia di alzare una barriera fra i prigionieri e gli esuli?
Il Rinascimento europeo è stato condannato senza appello, in anni recenti, da una tendenza politically correct che lo ha considerato una millanteria auto-celebratoria, colorata di arrogante eurocentrismo (o anche di nazionalismo, quando se ne rivendichi l’origine italiana). A questo “rinascimento trionfante”, che comporterebbe l’esclusione degli illetterati e dei colonizzati, si è voluta opporre l’immagine di una non triumphant Renaissance caratterizzata a partire dalle periferie e dal basso, o meglio ancora ridotta a pura etichetta cronologica (spesso sostituita da Early Modern, come se Renaissance fosse ormai un termine imbarazzante). “Rinascimento”è in tal modo diventato sinonimo di “alta cultura” o di elitismo, una sorta di preteso monopolio europeo da respingere a ogni costo. È anche per questo che si è intensificato l’uso del termine per definire periodi di particolare fioritura delle civiltà più varie, dall’epoca Song in Cina (960-1279) alla Harlem Renaissance in America (negli anni Venti del Novecento). Ma questo slittamento lessicale ha due gravi svantaggi: da un lato, oscura e consegna all’oblio la potente metafora di una nuova nascita, da cui Rinascimento ebbe origine; dall’altro lato, ricicla la parola riducendola a un’etichetta con particolari connotazioni di prestigio, e per questo da applicarsi tal quale anche fuori d’Europa.
Torna qui, sotto altra forma, il modello storiografico che considera il Rinascimento come nascita della modernità, e cercare altri rinascimenti in altre culture corrisponde al desiderio di metterle al passo con gli orizzonti culturali europei; di rivendicare la loro presenza, accanto all’Europa, intorno alla culla del capitalismo, tacitamente considerato come il modello vincente.

La divinità femmina contro i poteri maschili.Perché dal mito a oggi non c’è vero diritto senza la dea bendata. Questo testo è un estratto dalla lectio che Gustavo Zagrebelsky terrà domani al Salone del Libro».

la Repubblica, 20 maggio 2017 (c.m.c.)

In origine non esistevano “professioni giuridiche”. Quella che noi chiamiamo “giurisprudenza” non esisteva come entità o funzione autonoma. Un passo determinante verso il diritto come dimensione autonoma della vita sociale è raccontato da Eschilo nella terza parte della saga di Oreste, le Eumenidi, un testo teatrale messo in scena nel 458 a.C.. Vi si racconta la conversione delle Furie o Erinni, forze che avvolgono gli esseri umani e le loro famiglie nella spirale di violenza distruttiva che non si estingue mai e, anzi, si estende di generazione in generazione: conversione in figure benevolenti che giudicano con parole definitive e mettono fine a quella che sarebbe stata, altrimenti, la catena infinita delle vendette.

La dea Atena, protettrice della città, fonda l’Areopago, istituzione perenne e luogo protetto dove si celebrano i riti della giustizia ateniese: «Insensibile al denaro, degno di venerazione, rigido d’animo, desto a vegliare i dormienti, presidio del paese: ecco il consesso che istituisco». Oreste, perseguitato per il matricidio, vi trova il giudizio definitivo che mette fine alla vendetta. Eschilo descrive, dunque, l’inizio di un processo d’individuazione della funzione della giustizia. Ma non è ancora il tempo dei giuristi e della loro scienza.

Il diritto, la giurisprudenza e i giuristi vengono dopo, da Roma. Roma li ha creati e creandoli ha cercato di farne un mondo a parte, con suoi rituali esclusivi, la sua scienza e la coscienza di ceto dei suoi adepti: insomma, ne ha fatto una professione. Come addetti a una professione che oggi definiamo “liberale”, nel senso della sovrana neutralità e superiorità spirituale rispetto alle bassure della vita, ci identifichiamo volentieri con Themis, la dea garante dell’ordine universale che abbraccia tanto gli dei quanto gli uomini o, più spesso, con Dike, sua figlia, la dea garante dell’ordine divino incarnato nelle istituzioni umane.

Dike è raffigurata come vergine saggia, figlia del pudore, nemica della menzogna (Platone, Leggi), pensosa e bella in tutti i sensi. Che i giuristi si considerino adepti di quella divinità, cioè della giustizia ch’essa rappresenta, è forse un atto d’orgoglio ma non è una arbitraria sostituzione o identificazione: tra il diritto e la giustizia c’è un legame intimo, essenziale. Potremmo concepire una sentenza o a una memoria difensiva che non si richiamassero a una qualche concezione della giustizia?

Il diritto, insomma, tende a identificarsi con la giustizia e la giustizia, a sua volta, vuole rappresentarsi per mezzo d’una immagine intramontabile: quella giovane donna che si presenta di solito con gli occhi bendati perché “non guarda in faccia nessuno”, con in una mano la bilancia, come segno d’imparzialità, e con l’altra che brandisce la spada, simbolo della separazione del giusto dall’ingiusto o forse anche della protezione ch’essa offre a chiunque le si rivolge per scampare ai prepotenti. Innanzitutto, colpisce che la giustizia appartenga al mondo femminile. La politica, luogo del potere, è stata per secoli pensata come dominio prevalentemente maschile.

Il Leviatano, l’animale marino scelto da Thomas Hobbes come simbolo del potere sovrano, è rappresentato da una figura imponente che brandisce spada e scettro, i cui elementi semplici sono piccolissimi lillipuziani che, insieme, concorrono a formare il corpo di quell’immane “uomo in grande”. In Il buon Governo di Ambrogio Lorenzetti a Siena, per fare soltanto un altro esempio, sulla destra campeggia la figura del principe governante e, sulla sinistra, la figura della giustizia. Ancora una volta troviamo l’identificazione del potere con il sesso maschile e l’identificazione del diritto e della giustizia con quello femminile.

La separazione dei sessi nell’iconografia politica è rigorosa. D’altro canto, non risultano uomini bendati, con bilancia e spada, e anche in altre culture troviamo sempre figure di donne, come la dea egiziana della giustizia cosmica, Ma’at.

La troviamo perfino nella cultura atzeca, dove la giustizia è rappresentata dalla donna-serpente, collocata subito sotto il re imperatore. La giustizia, nell’immaginazione sociale è dunque dominio femminile, ma la sua “amministrazione” lungo i secoli e dappertutto è stata riservata agli uomini. Come possiamo considerare questa contraddizione? Forse qui possiamo già cogliere un’ambiguità e un primo segno d’ipocrisia. Non di giustizia si tratta realmente, ma di potere (maschile) dissimulato. Perché la dissimulazione? Forse perché ogni società ha bisogno di confidare in una sfera di relazioni scevre dal potere, cioè dalla legge del più forte.

Forse l’archetipo è la vergine dea armata del mito, Pallade Atena. Si deve, tuttavia, fare attenzione agli attributi di quella fanciulla. Ai loro significati immediati – la spada che divide i torti e le ragioni, una volta che la bilancia li ha pesati, e la benda che assicura l’imparzialità tanto della pesa che della divisione – se ne possono accostare altri meno scontati che inducono a pensieri meno consolanti. La spada, infatti, fa pensare anche ad Alessandro Magno che, non riuscendo a sciogliere il nodo da cui sarebbe dipesa la conquista dell’Asia minore – il nodo di Gordio – lo taglia brutalmente.

Altro che le sottigliezze del diritto e l’intrico dei suoi argomenti da dipanare: qui, la spada è un atto di forza che rappresenta l’arroganza di chi non ha tempo da perdere e vuole procedere sulla sua strada. Potrebbe però anche essere rovesciata in simbolo difensivo. Ma potrebbe interpretarsi anche nel senso della pretesa arrogante d’essere riconosciuta come una forza che svolge un compito di natura sovrumana, quasi divina, a somiglianza dell’Arcangelo Michele che impugna la spada in nome di Dio per annientare Satana. Infine, ricordando l’Atena nell’Areopago, potrebbe anche trattarsi dell’arma che protegge il reo dalla furia vendicatrice della folla che punta a entrare nel tribunale per fare giustizia sommaria.

La dea bendata tiene nell’altra mano la bilancia. Un primo elemento di riflessione è che non si tratta della stadera, cioè dello strumento a un piatto solo. La giustizia non si avvale di questo strumento di pesatura che darebbe un responso, per così dire, assoluto alla domanda: quanto pesa? Il responso della bilancia, invece, è relativo: la domanda alla quale risponde è: quali ragioni pesano più o meno delle altre, non essendo escluso il caso che si equivalgano. In ogni caso, la bilancia ci dice, realisticamente, che la giustizia possibile nelle aule dei tribunali sta in un rapporto concreto, non in una verità astratta.

In più: dice che anche il piatto della bilancia che pesa meno dell’altro, ciò non di meno, può avere ragioni dalla sua parte: non sufficienti a vincere la causa ma, non per questo indegne d’essere considerate da una “giustizia giusta”. La differenza può stare anche solo nell’inezia d’una piuma, come nella figura della dea Ma’at.

La pesa è l’atto finale di un percorso guidato dalla virtù dell’equilibrio. Si può allora dire che il giudice è un equilibrista? Forse sì. Di sicuro, però, è colui che, volterrianamente, fa suo il motto écraser l’infâme, dove l’infamia è il pregiudizio e il fanatismo, fosse pure il fanatismo della giustizia.

L'appello e i firmatari per la manifestazione del 20 maggio, i commenti di Luca Fazio e Nicola Fratoianni.

il manifesto, 19 maggio 2017

Il 20 MAGGIO A MILANO, PER LA SOLIDARIETÀ CONTRO L'INTOLLERANZA

Ci sono soglie che non possono essere superate, pena la perdita di noi stessi. Una di quelle è la soglia che separa l’umano e il disumano. L’affermazione di quella comunità di genere che ci accoglie tutti e ci fa degni di riconoscimento reciproco, o la sua negazione.

Quella soglia viene oggi superata troppo spesso. Lo è con la colpevolizzazione della solidarietà in mare da parte di agenzie europee e di procure italiane.

Con la penalizzazione del precetto evangelico di nutrire gli affamati da parte di pubblici amministratori.

Con l’emanazione di una legislazione nazionale che sostituisce alla guerra alla povertà la guerra contro i poveri. Con la trasformazione dello stesso linguaggio corrente e l’emergere di parole segreganti come “decoro urbano”.

Con la messa in atto di una politica estera volta a creare ai confini d’Europa barriere più feroci degli stessi muri alleandoci con stati canaglia o capi-tribù chiamati a respingere nel deserto chi non vogliamo più soccorrere nel “nostro mare”.

Per questo due settimane fa eravamo in molti a Ventimiglia per dire che punire la solidarietà o impedirne l’esercizio mette in pericolo i principi e i valori minimi di umanità e di civiltà.

Sabato 20 maggio saremo molti di più a Milano per dire, riprendendo il grido della piazza di Barcellona, che l’accoglienza è un dovere.

La manifestazione sarà un gesto di solidarietà, una scelta di campo, una presa di parola contro il rifiuto e il razzismo in qualunque modo si manifestino. Per essere forte e capace di cambiare le politiche del paese quella parola deve essere chiara e coerente.

E deve fissare alcuni punti fermi. Il primo punto fermo - e ci riconosciamo in questo nelle parole del manifesto con cui la manifestazione è stata indetta - è un salto di qualità nella politica che porti «a compiere passi avanti reali, come l’effettivo superamento della legge Bossi-Fini, l’approvazione della legge sulla cittadinanza, la necessità di rafforzare un sistema di accoglienza dei migranti fondato sul coinvolgimento di tutte le comunità e le istituzioni, la trasparenza, la qualità, il sostegno ai soggetti più fragili (i minori, le donne, i vulnerabili), la cultura dei diritti e della responsabilità».

Ma c’è un secondo punto altrettanto decisivo senza il quale la pratica dell’accoglienza è inevitabilmente limitata e la sua proclamazione rischia di essere in gran parte retorica.

Il salto di qualità, la svolta della politica deve intervenire anche con riferimento ai più recenti provvedimenti legislativi (in particolare i decreti Minniti sui richiedenti asilo e sulla sicurezza, recentemente convertiti in legge dal Parlamento) che contraddicono in modo clamoroso lo spirito di accoglienza limitando le garanzie e i diritti per chi è in fuga da guerre e persecuzioni, incentivando risposte alle richieste di soccorso fondate sulla contenzione, creando improprie divisioni tra migranti, trasformando i sindaci in sceriffi e le istituzioni locali in presìdi a tutela degli inclusi contro i più deboli e i marginali.

La “retata” della stazione di Milano di qualche giorno fa, con una inedita esibizione di forza muscolare fino all’uso della polizia a cavallo, è figlia di quella cultura e di quella politica.

Guai a ignorarlo.

Solo con questa consapevolezza e con un impegno conseguente la manifestazione del 20 maggio sarà davvero «contro i muri». In questa prospettiva e con questo spirito vi aderiamo con convinzione e determinazione.

Firmatari:
Livio Pepino (magistrato e saggista)

René Dahon (Association Roya citoyenne)

Marco Revelli

(storico e politologo)Cédric Herrou (attivista),
don Luigi Ciotti (presidente Gruppo Abele e Libera)

Etienne Balibar (professeur émérite Université de Paris-Ouest)

Alessandra Algostino

(Università di Torino)

Annie Carton (porte parole pour RESF 06)
Domenico “Megu” Chionetti (Comunità San Benedetto al Porto)
Riccardo De Vito (presidente Magistratura democratica)
Monica Di Sisto (Campagna Stop Ttip)
Carlo Freccero (autore televisivo e scrittore)
monseigneur Jacques Gaillot (évêque)
Patrizio Gonnella (Coalizione italiana per le libertà civili e Antigone),
Georges Gumpel (Union Juive Française Pour la Paix)
Elisabetta Grande (Università del Piemonte orientale)
Mariarosaria Guglielmi (segretaria nazionale Magistratura democratica)
Franco Ippolito (presidente Tribunale permanente dei popoli)
Roberto Lamacchia (avvocato, presidente Associazione nazionale Giuristi democratici)
Olivier Long (Université Paris 1- Panthéon Sorbonne)
Susanna Marietti (Antigone)
Christian Masson (Mouvement contre le Racisme et pour l’Amitié entre les Peuples)
Ugo Mattei (Università di Torino)
Lidia Menapace (staffetta partigiana, femminista e saggista)
Tomaso Montanari (storico dell’arte, presidente Libertà e giustizia)
Andrea Morniroli (cooperativa Dedalus)
Richard Moyon (co-fondateur Réseau Education Sans Frontières)
don Fredo Olivero (Caritas Migranti)
Moni Ovadia (attore teatrale, drammaturgo e compositore)
Valentina Pazè (Università di Torino)
Carlo Petrini (fondatore Slow Food)
Henri Rossi (Ligue des Droits de l’Homme région Provence-Alpes-Côte d’Azur)
Nicole Scheck (porte parole pour l’association “Habitat et Citoyenneté”)
Ugo Sturlese (attivista), Gianni Tognoni (segretario Tribunale permanente dei popoli)
Massimo Torelli (attivista)
Lorenzo Trucco (avvocato, presidente Associazione studi giuridici sull’immigrazione)
padre Alex Zanotelli (missionario comboniano)
Gianluca Vitale (avvocato, copresidente Legal team Italia)

MILANO, C'È SPAZIO PER TUTTI NELLA MARCIA PER L'ACCOGLIENZA

di Luca Fazio

«20 maggio. Domani Milano sarà attraversata da migliaia di persone che chiedono (anche al governo) politiche diverse per l'immigrazione. Dopo una lunga trattativa si è arrivati ad un accordo per la composizione del corteo che prevede la presenza, non ai margini, anche dello spezzone "Nessuna persona è illegale". Ieri, intanto, il ministro degli Interni Marco Minniti ha firmato un protocollo in Prefettura che impegna 76 sindaci dell'area milanese ad accogliere i profughi sul territorio».

Settantasei sindaci dell’area metropolitana milanese (su 134) hanno detto sì. Sono disponibili ad accogliere sul territorio gruppi di migranti per un’accoglienza “equilibrata, sostenibile e diffusa” - come dice il ministro degli Interni Marco Minniti. Il protocollo è stato sottoscritto ieri in Prefettura, alla presenza del sindaco di Milano, ed è una mossa che va nella direzione giusta a poche ore dalla manifestazione “per l’accoglienza” che domani riempirà le strade della città.

Il protocollo impegna i sindaci ad accogliere entro il 2017 un numero di richiedenti asilo secondo una ripartizione stabilita in base al numero dei cittadini residenti. Si tratta di tre profughi ogni mille abitanti per un totale di circa cinquemila persone da suddividere tra i Comuni. «E’ un protocollo – ha detto Minniti – che può rappresentare un modello per l’Italia e l’Europa e può servire a superare i centri di accoglienza».

Il sindaco Beppe Sala, che sarà un protagonista della marcia per l’accoglienza di domani, non essendo condizionato più di tanto dalle inadeguatezze del Pd locale e nazionale, non ha perso l’occasione per dispensare buon senso: «Uno che fa il sindaco non può far finta che le cose magicamente si risolvano e girarsi dall’altra parte, non è giusto che ci sia qualcuno che deve fare anche la parte degli altri, perché questo dell’immigrazione è un tema che sarà dominante anche per le prossime decadi».

Nel frattempo la complicata macchina organizzativa della giornata “Insieme senza muri” (appuntamento domani alle 14 in Porta Venezia) ha raggiunto un accordo di massima sulla composizione della piazza. Non è una questione di lana caprina, è il frutto di una lunga trattativa per dare dignità e visibilità politica anche allo spezzone che intende coniugare il generico concetto di “accoglienza” con una decisa critica della legge Minniti-Orlando (associazioni e centri sociali che aderiscono alla piattaforma “Nessuna persona è illegale”). Il loro striscione sarà nelle prime file, appena dopo quello ufficiale - “Insieme senza muri” - e quello di Radio Popolare, che di fatto si è incaricata di trainare un evento concepito con alcune ambiguità che hanno provocato le tradizionali risse a sinistra.

A seguire, sfileranno i migranti, gli amministratori locali, le bande musicali, poi sindacati, Acli, Emergency, Casa della Carità, Legambiente, Arci, lo spezzone “più radicale” con i centri sociali, le associazioni e in fondo i politici. L’ex sindaco Pisapia, esponenti di Mdp, Emma Bonino, Giusi Nicolini, Carlo Petrini, il presidente del Senato Pietro Grasso e (forse) il ministro Maurizio Martina, anche se una rappresentanza governativa potrebbe agitare gli animi. Poi, in piazza del Cannone, musica dal basso e dj set (il Comune non ha sborsato un euro). Si attendono più di diecimila persone. Anche se da una manifestazione nazionale preparata pensando a Barcellona, con più di 500 adesioni e tutta la sinistra più o meno organizzata in piazza, sarebbe lecito aspettarsi qualcosa di più. Comunque vada, sarà un successo.

INSIEME A MILANO, PERCHè NESSUNO è ILLEGALE
di Nicola Fratoianni

È sempre più urgente proporre un punto di vista diverso rispetto al tema dell’accoglienza in Europa. Di fronte ai muri, al veleno della xenofobia e del razzismo iniettato dagli imprenditori della paura nelle vene della società, di fronte alla sordità di gran parte delle istituzioni, bisogna reagire. Per questo la manifestazione di Milano può e deve essere un punto di snodo importante, come lo è stata quella di Barcellona, per questo saremo in piazza. Marciare per l’accoglienza significa, oggi più che mai, marciare per la vita e per la dignità umana.

Non sfuggirà a nessuno, credo, che la condizione dei migranti, oggi più di ieri, è strettamente connessa a quella dei più deboli e dei più poveri che abitano le nostre città, le nostre periferie. È sulla pelle dei più deboli, di qualunque colore sia, che si sta giocando una partita terribile, e che abbiamo il dovere di contrastare se vogliamo anche solo provare a disegnare un mondo diverso.

L’Europa si presenta sempre più come una fortezza, intenta a proteggere i propri confini. Lo fa con Frontex e lo fa con il vergognoso accordo con la Turchia di Erdogan a cui cerca di appaltare controllo e repressione. Oggi l’Italia riproduce lo stesso modello di esternalizzazione firmando accordi con pezzi di governo e tribù libiche. In Italia anni di legislazione fondata sulla cultura del respingimento hanno costruito il terreno su cui sono cresciuti razzismo e intolleranza. L’attacco vergognoso alle Ong che salvano migliaia di vite in mare in uno straordinario sforzo di supplenza rispetto all’assenza di chi, Europa in testa, dovrebbe garantire canali umanitari sicuri ne è una testimonianza evidente.

La Bossi-Fini ha messo un muro sui nostri confini e ha reso il Mediterraneo un cimitero. Il sistema di accoglienza è inceppato e farraginoso, basato più sulla discrezionalità di governo e prefetture, che su una piena consapevolezza e coinvolgimento delle comunità locali. Ma soprattutto resta legato ad una logica emergenziale. Che si riproduce e produce opacità, in un circolo vizioso che non si spezza mai, con le politiche di contrasto alla povertà e alle disuguaglianze ridotte a nulla.

Insieme per ribadire che nessuna persona è illegale. Bisogna chiudere con la stagione in cui scambiamo i sintomi della malattia con la sua cura: se anche per chi ha le sue radici politiche nella sinistra il tema della povertà viene affrontato con le armi del decoro, della presunta sicurezza, dei super poteri ai sindaci come previsto dai pessimi decreti Minniti-Orlando mi pare abbastanza evidente che continueranno a crescere i muri. E con loro continueranno a crescere la paura, il razzismo e la violenza.

Abbiamo bisogno dell’esatto contrario. Facciamolo.

«I “valori” ai quali i giudici fanno riferimento hanno un significato in effetti ideologico e passibile di essere considerato poco laico». la Repubblica,19 maggio 2017 (c.m.c.)

La decisione della Corte di Cassazione sull’obbligo degli stranieri di conformarsi ai nostri valori non è uno specchio di chiarezza. Non soltanto per l’oggetto della sentenza — che pertiene alla restrizione di un diritto fondamentale — ma per il linguaggio usato nella motivazione; un linguaggio che sovrappone piani diversi invece di adottare l’arte della distinzione: “valori” e “diritti”, “valori” e “diritto” sono termini che designano realtà diverse e vi è da chiedersi per quale motivo i giudici abbiano deciso di fare appello, per esempio, a supposti “valori occidentali”, un’espressione a sua volta etnocentrica e ben poco universalista.

Come sappiamo, la decisione è relativa al caso di un cittadino indiano che è stato fermato perché portava con sé il kirpan, il pugnale sacro dei Sikh, con l’imputazione di portare un’arma senza avere il porto d’armi. La persona fermata si è appellata alla libertà religiosa e all’articolo 19 della nostra Costituzione — il kirpan non è un “oggetto” ma “uno dei simboli della religione monoteista Sikh”.

La decisione della Corte sostiene che lo Stato italiano, pur riconoscendo il principio di eguaglianza e della libertá di culto, non riconosce il kirpan come simbolo religioso ma solo e semplicemente come un’arma; pertanto la persona che lo porta con sé deve conformarsi alle norme sulla sicurezza che vigono sul territorio nazionale. La dimensione della lama non lo rende accettabile come un coltellino da boyscout.

Non è la prima volta che la religione Sikh e la legge italiana collidono. Questa religione, fondata nel quindicesimo secolo e soggetta a molte persecuzioni, impone ai fedeli alcuni obblighi nel comportamento e nell’aspetto fisico: per esempio, i maschi non devono tagliarsi i capelli a partire dalla loro maggiore età e devono coprirli con un turbante; devono portare il pettine in segno di pulizia, pantaloni di foggia particolare in segno di castità, e oltre al bracciale d’acciaio anche il pugnale (con una lama fino a ventidue centimentri) alla cintola. Ciascuno di questi “oggetti” è un elemento essenziale per l’identità e la pratica religiosa. In passato anche il turbante aveva creato problemi; nel 1995 il ministero dell’Interno ne ha autorizzato l’uso nelle foto delle carte d’identità. Circa il kirpan, già a partire dal 2005 alcune sentenze lo avevano messo fuori legge provocando ricorsi della comunità Sikh che questa decisione della Suprema Corte dovrebbe risolvere.

La questione ripropone il rapporto tra religione e stato; nei paesi occidentali, fondati sui diritti e la separazione tra religione e autorità civile, ha ricevuto due tipi di risposta, che si riferiscono a due tradizioni genericamente associate a quella anglo-americana e a quella continentale (avvicinabile a quella francese). In India e in Gran Bretagna la legge riconosce il diritto dei Sikh a portare il kirpan in quanto parte della loro identità mentre il divieto violerebbe la libertà religiosa; negli Stati Uniti e in Canada i tribunali hanno stabilito che ogni divieto che impedisca ai Sikh di portare il kirpan viola i diritti ed è incostituzionale. Contrariamente a questo si è letto in questi giorni, non è necessario arrendersi al pluralismo giuridico per far posto ai diritti dei Sikh di portare il kirpan. L’Italia, viene detto, si è schierata con l’altra tradizione, secondo la quale lo Stato non può fare eccezioni alla sua normativa (in questo caso sulle armi) per motivi religiosi. Ma è proprio così?.

L’Italia non ha mai seguito in effetti la linea dello Stato laico, non solo perché la sua Costituzione ha l’articolo 7 che riconosce una religione sopra tutte le altre — una scelta di “valore” che la riforma del Concordato del 1984 non ha rimosso, anche se ne attenua le implicazioni giuridiche.

Alcune decisioni importanti, come quella del crocifisso esposto sui muri delle aule nelle scuole pubbliche, confermano che l’Italia non è proprio uno Stato laico su modello continentale, perché anche se ha cercato di attenuare il legame esclusivo con la chiesa di Roma lo ha fatto abbracciando un metodo che non è di neutralità rispetto alle religioni proprio perché non neutrale rispetto alla religione della larga maggioranza (che è nei fatti parte della cultura della nazione). La sovrapposizione di cultura giuridica e “valori” a cui questa recente sentenza si appella stride quindi con la presunta regola della laicità, alla quale evidentemente ci si appella di preferenza quando si tratta di rapporti con religioni minoritarie.

I “valori” ai quali i giudici fanno riferimento hanno un significato in effetti ideologico e passibile di essere considerato poco laico.In questa sentenza lo stato liberale cerca di essere laico ma lo fa appellandosi a “valori” intrisi di religione (quella maggioritaria). La prova è nella tensione tra l’appello agli articoli 2 e 19 della Costituzione (e poi l’affermazione del limite “costituito dal rispetto dei diritti umani e della civiltà giuridica della società ospitante”) e la giustificazione di questa restrizione con argomenti sia giuridici che etico- culturali.

Questi ultimi rendono purtroppo l’argomentazione altrettanto identitaria. È questo che si ricava leggendo, da un lato, che “l’integrazione non impone l’abbandono della cultura di origine” e, dall’altro, che “è quindi essenziale l’obbligo per l’immigrato di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale”.

Quale è il “mondo occidentale” non è detto (né potrebbe esserlo senza cadere in una panoplia di assunti ideologici) mentre vi è di che dubitare che tutti gli occidentali abbiano gli stessi valori dei giudici della Corte di Cassazione o che abbiano una visione etica dello stato come questa sentenza sottintende.

Presumibilmente la Corte ha pensato che appellandosi ai “valori” sarebbe riuscita a dare più forza argomentativa alla giustificazione della restrizione dei diritti costituzionali nel caso specifico di un gruppo religioso. Il fatto è che così facendo ha reso la “civiltà giuridica” di riferimento altrettanto “identitaria” della religione di minoranza con il rischio, evidente, di svelare che, in fin dei conti, qui come in altri ambiti relativi ai rapporti pubblici con le minoranze culturali, la questione sembra essere di forza, piuttosto che di diritto: la forza della cultura della maggioranza (e dei suoi valori), appunto.

«Le culture non sono come i semi o gli animali che vanno conservati in nome della biodiversità, se non si incrociano perdono la loro funzione antropologica».

il manifesto, 17 maggio 2017

E così anche la Cassazione ha detto la sua su come debbono comportarsi gli immigrati. Chissà a quale fra i nostri valori si è ispirata. A quelli francesi? a quelli inglesi? Alla «superiore» civiltà?

La Francia è generosa: a chi accetta di integrarsi totalmente, e dunque di rispettare principi e leggi del paese, consente il diritto di appartenere alla sua”superiore” civiltà. Ed è in base a tale principio che ha proibito di insegnare a donne che indossano l’innocuo chador ( che non è il burka). Che lederebbe – secondo un parere della Commissione diritti umani del Consiglio d’Europa – «le sensibilità religiose degli allievi». Per di più «il velo – è scritto – è imposto da una prescrizione del Corano, che è difficile conciliare con il principio di tolleranza proprio di una democrazia». E così, un atto di intolleranza – il licenziamento di un’insegnante che indossa il velo – è stato giustificato in nome del principio di tolleranza.

Diverso l’approccio del Regno Unito: gli inglesi, infatti, non hanno mai ritenuto possibile che neri o gialli potessero diventare come i britannici, per cui – come scrisse Stuart Hall, il grande maestro dei post colonial studies – «hanno garantito la coesistenza fra la Legge indiana e quella di Sua Maestà britannica», lasciando che ciascuno, almeno nel privato, facesse come gli pareva dentro le proprie comunità. Affari di loro selvaggi.

Difficile dire quale delle due posizioni sia più razzista e occidentalocentrica.

La complessità del problema non va sottovalutata, perché fra l’altro tratta del rapporto fra diritto al rispetto della diversità e libertà di scelta culturale (delicato soprattutto per le donne), che rischiano di restare imprigionate nel ghetto della loro identità originaria. Questione non semplice e infatti ha prodotto anche – aihmé – qualche invocazione in favore di crociate per andare a liberare dal burka le donne afgane, con l’aiuto dei bombardieri Nato. Con lo straordinario effetto di aver moltiplicato bombe e burka.

Peccato che quando, nel 2005, l’Unesco, dopo anni di travaglio, varò finalmente la Convenzione sulla Diversità Culturale (con 197 voti a favore e i soliti 2 contro, quelli degli Stati uniti e di Israele) del problema si discusse invece pochissimo, e tutti si sentirono autorizzati a definirsi buoni perché plaudirono alla decisione Unesco. Senza rendersi conto che quella Convenzione toccava questioni di fondo, imponeva di ripensare la logica omogeinizzatrice propria agli stati nazionali, il concetto stesso di cittadinanza. Così come imponeva un mutamento delle politiche culturali pubbliche.

I sindaci più democratici si impegnarono, divisi in due categorie: quelli che si sono rivolti agli immigrati dicendogli con generosità che anche se “di colore”, visto che sono esseri umani, possono ambire a diventare come noi; e quelli che, al contrario, più generosi, hanno allestito spazi – per moschee o altro – affinché ciascuno possa coltivare a fini di autoconsumo la propria cultura. Per facilitare è stata creata la figura del mediatore culturale. Che ha il compito di spiegare ai nuovi arrivati cosa è l’Europa, mai agli europei cosa siano le storie e le culture dei paesi di chi arriva. A buon diritto definitivamente etichettati, anziché come “nuovi europei”,come “extracomunitari”. Così facendo crescere un sistema di ghetti incomunicanti, che non possono che stimolare il peggior integralismo identitario.

Non è possibile suonare le trombe per salutare l’avvento della globalizzazione e poi coltivare le ossessioni securitarie di chi vorrebbe blindare le proprie comunità nel terrore che possano essere dissolte; bisogna prendere atto che il transculturale – che era proprio alle società prenazionali greche ebraiche ottomane, non è più il passato ma il nostro futuro. La «figura diasporica» – per citare ancora una volta Stuart Hall – «non è più minoritaria, sta diventando l’anticipazione della modernità avanzata », un processo facilitato dalle nuove tecnologie che rendono oggi ancor più difficile l’assimilazione degli immigrati.

Perché i telefonini gli consentono di conservare il rapporto persino con la nonna lasciata nel deserto; ognuno guarda, grazie al satellitare, la tv di casa propria e non quella della nazione d’arrivo; i voli low cost gli consentono di tornare nel villaggio natio non solo al momento della morte. E per di più, non avendo più lo stesso stato d’origine il prestigio del tempo della lotta anticoloniale, il legame è oggi più che altro con reti tribali, espressione di identità frammentate che si sincronizzano su una informalità globale che produce culture disinbedded dai sistemi sociali. Bisogna procedere dunque in modo nuovo, sapendo che le culture (e i comportamenti che queste ispirano) non sono come i semi o gli animali che vanno conservati come sono in nome della biodiversità, perdono la loro funzione antropologica se non sono dinamiche, se non si incrociano e innestano reciprocamente.

Ma perché questo avvenga bisogna innanzitutto smetterla di pretendere che la civiltà occidentale rappresenti “l’universale”, il punto più alto della civilizzazione, che i “selvaggi” debbono impegnarsi a raggiungere. L’universale è un bell’obiettivo, ma solo a condizione che si inneschi un lungo processo dialogico, cui tutti contribuiscano. Altrimenti avremo solo jihad. (Se tenete conto che l’85% delle informazioni che il mondo riceve provengono dall’occidente vi rendete conto quanto scarso sia il contributo degli altri).

La nostra civiltà è certo migliore di quella saudita. Per via delle rivoluzioni che abbiamo avuto la fortuna di poter partorire. Ma sarebbe ora di smetterla di rimproverare i popoli che non hanno avuto modo di farle. È accaduto perché noi con il colonialismo glielo abbiamo reso quasi impossibile. (Prima di invocare la rivoluzione francese ricordiamoci sempre che non toccò la schiavitù).

«La giunta regionale lombarda, senza nemmeno una discussione in Consiglio regionale, sta modificando totalmente l’assistenza sanitaria in Lombardia e cancellando alcuni dei pilastri fondativi della legge di riforma sanitaria».

il Fatto Quotidiano, 15 maggio 2017 (i.b.)

Il titolo, purtroppo, non è uno scherzo, ma è quello che sta avvenendo in Regione Lombardia.
Per ora riguarda una sola Regione ma, se dovesse realizzarsi, è probabile che in pochi anni troverà estimatori anche in molte altre parti d’Italia. E’ una vicenda (volutamente) complicata ma proverò a spiegarla nel modo più semplice possibile, convinto che ognuno abbia diritto di essere pienamente informato su quello che riguarda il presente e il futuro della sua salute.

Con due delibere, la n. 6164 del 3 gennaio e la n. 6551 del 4 maggio 2017, la giunta regionale lombarda, senza nemmeno una discussione in Consiglio regionale, sta modificando totalmente l’assistenza sanitaria in Lombardia e cancellando alcuni dei pilastri fondativi della legge di riforma sanitaria la n. 833 del ’78.

La non costituzionalità di tali delibere è stata sollevata attraverso un ricorso al Tar dall’Unione Medici Italiani ed un altro ricorso è in arrivo da Medicina Democratica. Gli Ordini dei medici di Milano e della Lombardia sono insorti: la giunta regionale si è limitata ad inserire qualche modifica di facciata proseguendo a vele spiegate verso una terza delibera attuativa attesa in questi giorni.

La vicenda riguarda, secondo le stime della Regione, circa 3.350.000 cittadini “pazienti cronici e fragili” che sono stati suddivisi in tre livelli a seconda della gravità della loro condizione clinica. Costoro riceveranno in autunno una lettera attraverso la quale la Regione li inviterà a scegliersi un “gestore” (la delibera usa proprio questo termine) al quale affidare, attraverso un “Patto di Cura”, un atto formale con validità giuridica, la gestione della propria salute. Il gestore potrà essere loro consigliato dal medico di base o scelto autonomamente da uno specifico elenco.

Il gestore, seguendo gli indirizzi dettati dalla Regione, predisporrà il Piano di Assistenza Individuale (Pai) prevedendo le visite, gli esami e gli interventi ritenuti da lui necessari; “il medico di medicina generale (Mmg) può eventualmente integrare il Pai, provvedendo a darne informativa al Gestore, ma non modificarlo essendo il Pai in capo al Gestore”.

La Regione ha individuato 65 malattie, per le quali ha stabilito un corrispettivo economico da attribuire al gestore a secondo della patologia presentata da ogni persona da lui gestita. Se il gestore riuscirà a spendere meno della cifra attribuitagli dalla Regione potrà mantenere per sé una quota dell’avanzo, eventualmente da condividere con il Mmg che ha creato il contatto. Il gestore non deve per forza essere un medico, può essere un ente anche privato e deve avere una precisa conformazione giuridica e societaria e può gestire fino a… 200.000 persone.

E’ facile immaginare che nelle scelte dei gestori conterà maggiormente il possibile guadagno piuttosto che la piena tutela della salute del paziente, il quale potrà cambiare gestore ma solo dopo un anno. Scomparirà ogni personalizzazione del percorso terapeutico e ogni rapporto personale tipico della relazione con il medico curante. Per una società che gestirà 100/200.000 Pai (Piani di Assistenza) ogni cittadino è un numero asettico potenziale produttore di guadagno.

Il Mmg viene quindi privato di qualunque ruolo, sostituito da un manager e da una società; ed è questa una delle ragioni che ha fatto scendere sul piede di guerra i camici bianchi. Se avesse potuto la Lombardia avrebbe cancellato la figura dei Mmg, ma per ora una Regione non può modificare i pilastri di una legge nazionale come la legge 833. Ma all’orizzonte c’è il referendum sull’autonomia regionale voluto dal presidente leghista, un referendum consultivo ma che verrà fortemente enfatizzato. Ci sentiremo dire che l’autonomia da Roma permetterà di rendere pienamente operativa questa “eccellente riforma regionale”. Di bufale sulla sanità ne abbiamo già sentite molte, da Renzi alla Lorenzin e questa non sarà l’ultima.

Una “legge eccezionale”, sosterrà la Regione, perché eviterà che cittadini malati, in maggioranza anziani, debbano impazzire con le ricette, le telefonate interminabili ai centralini regionali per fissare le visite, le code agli sportelli, le liste di attesa ecc. ecc.

La Regione Lombardia non dirà che tutti questi disagi sono stati costruiti ad arte, prima da Roberto Formigoni e poi da Roberto Maroni, per spingere i cittadini verso la sanità privata che li aspetta con gioia per lucrare ulteriormente sulla loro pelle. Se il Tar non cancellerà queste delibere e se le organizzazione della società civile non si ribelleranno è forte il rischio che molti nostri concittadini accetteranno quasi con riconoscenza il piano della Regione; salvo poi accorgersi che ad essere trascurata sarà proprio la loro salute. Ma allora sarà troppo tardi.

Scritto in collaborazione con Albarosa Raimondi, medico, esperta in organizzazione sanitaria

La grande regressione». la Repubblica, 11 maggio 2017 (c.m.c)

Essere uno stato, piccolo o grande non importa, vuole sempre dire una cosa molto semplice: avere sovranità territoriale, ossia la capacità di agire all’interno dei propri confini in base alla volontà di chi abita nel proprio territorio, senza rispondere agli ordini di qualcun altro. Dopo un’epoca in cui i vicinati si sono fusi o sono stati percepiti come destinati a fondersi in unità più grandi chiamate stati-nazione (con in agguato la prospettiva di un’unificazione e di un’omogeneizzazione della cultura, della legge, della politica e della vita umane in un futuro che, se non era immediato, sarebbe senza dubbio giunto), dopo la lunga guerra dichiarata dai grandi ai piccoli, dallo stato al locale e al “parrocchiale”, entriamo ora nell’epoca della “sussidiarizzazione”, in cui gli stati non vedono l’ora di scaricare i propri doveri, le proprie responsabilità e - grazie alla globalizzazione
e alla nascente situazione cosmopolitica - il compito ingrato di riportare il caos all’ordine, mentre le vecchie località e i vecchi comuni serrano i ranghi per assumersi queste responsabilità e battersi per qualcosa in più.

L’indicatore più vistoso, carico di conflitto e potenzialmente esplosivo del momento presente e la volontà di rinunciare alla visione kantiana di una futura Burgerliche Vereinigung der Menschheit, un’unificazione civile dell’umanità, che coincide con la realtà della globalizzazione avanzata e imperante della finanza, dell’industria, del commercio, dell’informazione e di ogni forma di violazione della legge.

A cio si associa il confronto di uno spirito e di un sentimento klein aber mein (“piccolo, ma mio”) con il dato di una condizione esistenziale sempre più cosmopolita. In seguito alla globalizzazione e alla divisione dei poteri politici che ne deriva, infatti, gli stati si stanno trasformando in vicinati piuttosto grandi, compressi all’interno di confini permeabili, tracciati in modo vago e difesi in modo inefficiente. Nel mentre, i vicinati di una volta - considerati sul punto di essere cestinati dalla storia, insieme a tutti gli altri pouvoirs intermediaires — lottano per assumere il ruolo di “piccoli stati”, sfruttando al meglio cio che rimane delle politiche quasi-locali e dell’inalienabile prerogativa monopolista, un tempo gelosamente custodita dallo stato, di dividere “noi” da “loro” (e viceversa). Il “progresso”, per questi piccoli stati, si riduce a un “ritorno alle tribù”.

In un territorio popolato da tribù, le parti in conflitto evitano e rinunciano senza esitazione a convincersi e a convertirsi a vicenda; l’inferiorità di un membro — di un membro qualsiasi — di una tribù straniera è e deve restare una debolezza predestinata, eterna e incurabile, o almeno deve essere vista e trattata come tale. L’inferiorità dell’altra tribù è la sua condizione permanente e irreparabile, il suo stigma indelebile destinato a vincere ogni tentativo di riabilitazione.

Una volta che la divisione tra “noi” e “loro” è stata istituita secondo queste regole, lo scopo di ogni incontro fra gli antagonisti non è più lo stemperamento, ma la ricerca o la creazione di ulteriori prove del fatto che qualsiasi stemperamento è irragionevole e fuori questione. Preoccupati di non svegliare il can che dorme e di evitare le sventure, i membri delle tribù bloccate nel circolo di superiorità/inferiorità non si parlano ma si ignorano. Per coloro che risiedono (o sono stati esiliati) nelle zone grigie di frontiera, la condizione di «essere sconosciuti e dunque minacciosi» e l’effetto della loro intrinseca o ipotetica resistenza o sottrazione alle categorie cognitive utilizzate come pilastri dell’“ordine” e della “stabilità”.

Il loro peccato capitale o il loro crimine imperdonabile consiste nell’essere la causa di una difficoltà mentale e pragmatica, derivata dalla confusione comportamentale che essi non possono non produrre (qui si può pensare a Ludwig Wittgenstein, che faceva consistere il comprendere nel sapere come andare avanti). Inoltre, questo peccato incontra ostacoli formidabili nella sua redenzione, per via del “nostro” testardo rifiuto di instaurare con “loro” un dialogo teso ad affrontare e a superare l’iniziale impossibilità della comprensione. L’assegnamento alle zone grigie è un processo autoalimentantesi messo in moto e intensificato dal venir meno o, meglio, dal rifiuto a priori della comunicazione.

Elevare la difficoltà della comprensione al rango di un’istanza o di un dovere morale imposto da Dio o dalla storia è, dopotutto, la prima causa e uno stimolo fondamentale alla definizione e al rafforzamento dei confini che “ci” separano da “loro”, anche se non su base esclusivamente etnica o religiosa, e della funzione fondamentale a cui devono assolvere. Come interfaccia tra i due contendenti, la zona grigia dell’ambiguità e dell’ambivalenza rappresenta inevitabilmente il territorio principale — e troppo spesso unico — su cui si proiettano le implacabili ostilità e si combattono le battaglie tra “noi” e “loro”.

Ritirando nel 2016 il premio Carlo Magno, papa Francesco — forse l’unica figura pubblica dotata di autorità planetaria ad aver avuto il coraggio e la determinazione di scavare le radici profonde del male, della confusione e dell’impotenza attuali e di metterle in mostra — ha dichiarato: «Se c’è una parola che dobbiamo ripetere fino a stancarci è questa: dialogo. Siamo invitati a promuovere una cultura del dialogo cercando con ogni mezzo di aprire istanze affinché questo sia possibile e ci permetta di ricostruire il tessuto sociale. La cultura del dialogo implica un autentico apprendistato, un’ascesi che ci aiuti a riconoscere l’altro come un interlocutore valido; che ci permetta di guardare lo straniero, il migrante, l’appartenente a un’altra cultura come un soggetto da ascoltare, considerato e apprezzato. È urgente per noi oggi coinvolgere tutti gli attori sociali nel promuovere “una cultura che privilegi il dialogo come forma di incontro”, portando avanti “la ricerca di consenso e di accordi, senza pero separarla dalla preoccupazione per una società giusta, capace di memoria e senza esclusioni” ( Evangelii gaudium, 239). La pace sarà duratura nella misura in cui armiamo i nostri figli con le armi del dialogo, insegniamo loro la buona battaglia dell’incontro e della negoziazione. In tal modo potremo lasciare loro in eredità una cultura che sappia delineare strategie non di morte ma di vita, non di esclusione ma di integrazione».

Subito dopo, papa Francesco aggiunge una frase che contiene un altro messaggio strettamente connesso alla cultura del dialogo, come sua autentica conditio sine qua non: «Questa cultura del dialogo, che dovrebbe essere inserita in tutti i percorsi scolastici come asse trasversale delle discipline, aiuterà a inculcare nelle giovani generazioni un modo di risolvere i conflitti diverso da quello a cui le stiamo abituando». Ponendo una cultura del dialogo come compito educativo e chiamando noi al ruolo di insegnanti, egli afferma senza ambiguità che i problemi che oggi ci affliggono sono destinati a durare ancora a lungo — problemi che cerchiamo invano di risolvere nei modi a cui siamo abituati, ma per i quali la cultura del dialogo ha una chance di trovare soluzioni più umane (e, auspicabilmente, più efficaci).

Un vecchio proverbio cinese, ancora molto attuale, invita chi di noi è preoccupato per l’anno a venire a seminare grano e chi invece si preoccupa per i prossimi cento anni a educare le persone. I problemi che abbiamo di fronte non ammettono bacchette magiche e scorciatoie, ma richiedono niente meno che un’altra rivoluzione culturale. In tal senso, essi impongono una riflessione e una pianificazione sul lungo periodo, due arti purtroppo dimenticate e raramente messe in pratica in questi tempi affrettati vissuti sotto la tirannia del momento. Abbiamo bisogno di recuperare e di riapprendere queste arti. Per farlo, serviranno menti lucide, nervi d’acciaio e molto coraggio. Soprattutto, servirà un’autentica visione globale a lungo termine — e tanta pazienza.

Traduzione di Pietro Terzi

A volte ci vengono in mente idee che ci sembrano tanto ovvie da non meritare d’essere dette, né tantomeno scritte e addirittura pubblicate. Poi ci accorgiamo che saranno pure ovvie secondo il nostro giudizio, ma sono talmente controcorrente che i casi sono due: o siamo fuori di testa noi, oppure lo sono tantissimi altri. Ecco due esempi, due eventi, che in questi giorni sono all’attenzione dei media: le ONG complici degli scafisti, l’ampliamento della legittima difesa.

1. Le ONG e gli scafisti.

Noi la vediamo così. Milioni di persone (uomini, donne, bambini, vecchi e giovani, soli o in famiglie o in gruppi di vicini) fuggono da carestie, miseria, oppressioni, catastrofi: tutte condizioni che i paesi del Primo mondo hanno contribuito a provocare, come è dimostrato da rapporti e documenti noti a chiunque voglia sapere. Questo fiume di persone, chiamiamoli “fuggitivi”, appartengono alla stessa razza cui apparteniamo Albert Einstein e tutti noi. Essi sono respinti alle frontiere dei paesi ove sono diretti: là dove c’è un maggior benessere (in gran parte pagato dal loro malessere). Trovano sul loro cammino barriere d’ogni tipo: muri, fili spinati, arnesi ancora più ingegnosi e devastanti, truppe armate, e via enumerando.

Ma i fuggitivi incontrano anche alcune persone, mosse non dalla carità ma dalla voglia di guadagnare (come del resto le nostre riverite banche), che si offrono di trasportare i fuggitivi, in carovane guidate dove è possibile, su camion sovraccarichi nei deserti, con scafi più o meno malandati quando si tratta di attraversare barriere d’acqua, come il nostro Mediterraneo. Chiamiamoli “trafficanti” in termini dispregiativi.

Dall’altro lato delle barriere c’è qualche gruppo di persone (chiamiamoli “volenterosi”) che, a differenza dei loro governi e dei loro giornalisti mainstream, si rendono conto che quei miserabili, parte della loro stessa razza sebbene spesso di diverso colore, hanno il pieno diritto di fuggire e di approdare su terre meno infernali di quelle da cui fuggono. Questi volenterosi, raccolti in organizzazioni non governative (poiché i governi sono impegnati a costruire barriere e recinti), raccolgono fondi, offrono gratis il loro lavoro e partono per incontrare i fuggitivi e portarli in salvo.

Dove possono raccoglierli? È evidente, lì dove i primi traghettatori, gli ignobili (come le banche) “trafficanti”, li hanno lasciati: in mare. Ma le persone non sono di sughero, quindi non galleggiano. Non sarebbe allora del tutto normale che i volenterosi si accordassero con i trafficanti per scambiarsi non la “merce”, ma i “beni “costituiti dai membri di quella umanità fuggiasca?

Non sappiamo se, nella realtà, i volenterosi delle Ong lo facciano oppure no. Ma ci sembrerebbe del tutto naturale che lo facessero. E se la legge non lo consente, allora pensiamo che andrebbe cambiata la legge, non la realtà. O meglio ancora, che andrebbero realizzati, da parte degli stati, corridoi protetti e attrezzati per consentire ai fuggitivi di raggiungere i loro obiettivi. Sono anni che alcuni saggi lo propongono, testardamente inascoltati.

2. Pena di morte e legittima difesa.

In molti paesi la pena di morte per delitti gravi è ancor oggi consentita. Eccone alcuni: USA, Grenada, Bielorussia, Cina, Giappone, Algeria, Marocco, Tunisia, Libia, Egitto, Arabia Saudita, India, Indonesia. In tutto sono una cinquantina. Tra essi nessun paese europeo, salvo la Bielorussia. In alcuni paesi dell’Europa (come l’Italia, la Germania, la Francia) era consentita fino agli ultimi decenni del secolo scorso, ma sempre soltanto per reati gravi e dopo regolare processo. Non ci risulta che in nessun paese d’Europa, e in quasi nessuna delle altre regioni del mondo, sia ammessa la pena di morte per i ladri, o presunti tali.

In Italia sì. Governo e parlamento stanno cincischiando e battibeccando sul “come” (non sul “se”) introdurre nei nostri codici una norma che consenta a chiunque di “difendersi” con le armi contro chiunque si introduca nella sua abitazione con atteggiamento minaccioso verso le persone o “le cose”.

A noi sembra che una decisione in questo senso altro non sia che decretare che è consentito a privati cittadini di esercitare la pena di morte senza un regolare processo, senza una causa grave, e senza subire alcuna punizione. Non sappiamo a quale età barbarica si debba risalire per trovare qualcosa di simile, e non ci sembra che la discussione che si sta svolgendo tra deputati e senatori abbia turbato l’opinione pubblica quanto il fatto richiederebbe. Tutti d’accordo gli italiani?

Forse l’impiego quotidiano della violenza delle “autorità”, nazionali e locali, nelle strade e nelle piazze (contro i migranti, contro i poveri, contro chi celebra riti diversi dai nostri, contro gli straccioni, contro i diversi), forse la dilagante ossessione per la “sicurezza” e la “decenza”, forse l’abitudine alla repressione preventiva di qualsiasi dissenso che non sia stato previamente “autorizzato” dalla questura ha talmente assuefatto i nostri connazionali che nessuno si rende conto dell’orrore di questa forma di “legittima difesa”. Oppure, ancora una volta, siamo noi fuori di testa, perché ci sembra stravagante ciò che per tutti è ovvio.

Venezia, 7 maggio 2017

Riferimenti
Sulle caratteristiche, le ragioni e le responsabilità della questione "migranti" invitiamo a leggere, su eddyburg, almeno i seguenti documenti: Eddytoriale n. 169, l'articolo di Ilaria Boniburini I dannati della terra, gli articoli di Guido Viale Perchè i migranti sono la soluzione e Il secolo dei rifugiati ambientali , Barbara Spinelli Il secolo deirifugiati ambientali?. Un'intera cartella abbiamo dedicato al tema Accoglienza Italia

«Una certa possibilità di giungere a un camminare lento nel mondo può provenirci oggi da un paradosso: la profondità dello spazio/tempo e quello che ci può insegnare». doppiozero, 6 maggio 2017 (c.m.c.)

«Nelle notti di maggio inoltrato nelle terre irpine si faceva il fieno. Voleva dire che le erbe per la fienagione, lasciate al sole perché si essiccassero, venivano raccolte in fasci legati in tre punti da liane fatte dello stesso fieno (i truocchi). Le liane si facevano a loro volta con un arnese agricolo, il manganiello, che non aveva nulla a che fare con il suo omonimo fascista o con quello in dotazione ancor oggi alle forze dell’ordine. Era un arnese fatto con legno torto di ulivo uncinato a un’estremità e canna, che ruotando immerso nel fieno, ne raccoglieva una parte e la trasformava in legaccio.

A fare compagnia ai lavoratori sotto la luna piena era il silenzio. Bisognava finire il lavoro prima del sorgere del sole che, asciugando la rugiada, avrebbe reso friabile il fieno. Solo le voci sommesse di chi lavorava si sentivano nella notte. Voci che facevano da sfondo al ritmo intenso della fatica e ne costituivano la colonna sonora, insieme al fruscio lento e musicale del fieno ammorbidito dalla rugiada della notte di quasi estate.

Il risveglio della natura sarebbe stato lento e silenzioso: con l’arrivo delle prime luci avrebbero iniziato gli altri uccelli coi loro canti a sostituire la melodia notturna dell’usignolo. A giorno fatto ormai era tempo di mangiare e voci capaci di ascolto avrebbero accompagnato la frugale colazione, seduti sui fasci di fieno a contemplare il lavoro appena finito e ad ascoltare storie che si ripetevano con qualche differenza che le rendeva ogni volta nuove.

Capitava che a quell’ora, dopo aver portato i piccoli greggi fuori dagli jazzi, passasse per i tratturi qualche pastore che veniva invitato a favorire, a fare una sosta per condividere un poco di cibo. Poteva succedere allora che, in cambio, tirasse fuori dal tascapane l’armonica e regalasse alla comitiva qualche tarantella o un veloce saltarello. Si dileguava in quel momento la stanchezza della notte e il silenzio del mattino si arricchiva di ulteriori possibilità di ascolto. Di fronte a quella sana allegria veniva da pensare che il silenzio non è andare via dal mondo per qualche tempo, ma uno dei tanti modi densi di sentirlo, il mondo, e di risuonare con le sue vibrazioni.»

Il silenzio non è assenza di presenza, di suoni o rumori. Il silenzio, anzi, è un particolare e generativo modo di vivere la presenza, riconoscendo che cosa implica un ascolto, quali trasformazioni di noi stessi richiede. Scrive lo scrittore Amitav Ghosh: «Il riconoscimento segna notoriamente il passaggio dall’ignoranza alla conoscenza. Riconoscere, pertanto, non è la stessa cosa che entrare in contatto per la prima volta, né abbisogna di parole: quasi sempre il riconoscimento è muto. L’aspetto più importante del termine riconoscimento sta dunque nella prima sillaba, che rimanda a una consapevolezza preesistente» (Robinson, 16 aprile 2017).

Il silenzio e l’ascolto sono condizioni essenziali per quel riconoscimento che può consentirci di ricongiungerci all’anima del mondo, al sistema vivente che ci precede e di cui siamo provvisoria espressione. Nel silenzio, come nell’ascolto, sono l’altro e il mondo, non la loro assenza, il campo di prova. L’ascolto e il silenzio assumono la connotazione di una conversazione con l’altro e il mondo, in cui la loro irriducibilità a noi è elaborata astenendosi dalla facile e frettolosa via d’uscita o di fuga che troppo spesso diventa la parola. Silenzio e ascolto possono diventare, allora, un particolare modo di accorgersi del mondo, un modo lento di sentirlo e, quindi, di sentirsi. Un modo in grado di cogliere l’unicità di ogni istante e della vita stessa: un thick feeling del mondo cui fa eco la thickdescription nella prospettiva antropologica di Clifford Geertz.

Alla maniera del monito poetico di Anna Achmatova:

Ma io vi prevengo che vivo
per l'ultima volta.
Né come rondine, né come acero,
né come giunco
né come stella,
né come acqua sorgiva,
né come suono di campane
turberò la gente,
e non visiterò i sogni altrui
con un gemito insaziato.

O secondo il ritmo del suono che il silenzio offre a chi sa ascoltarlo, viene da aggiungere non solo nel buio, secondo il canto di Simon & Garfunkel:

Hello darkness, my old friend
I've come to talk with you again
Because a vision softly creeping
Left its seed swhile I was sleeping
And the vision that was planted in my brain
Still remains
Within the sound of silence.
Lentezza, silenzio e ascolto costituiscono quello che nelle scienze del cervello e del comportamento è riconducibile all’approccio in prima persona, il cosiddetto first person approach, che secondo Francisco Varela è in grado di combinare neurofisiologia e fenomenologia, dando vita a quella peculiare view from within, o visione dall’interno, propria della scimmia che si parla, quale noi umani siamo.

Il gioco introiezione/proiezione ci caratterizza e ci distingue, non perché non riguardi altri animali, ma in quanto è, da noi umani, animali di parola, risolto troppo spesso, precocemente, appunto, nella parola. La sospensione provvisoria di senso e una certa distanza o “estraneità” sono condizione necessaria per l’ascolto: solo la lentezza e il silenzio possono creare in noi quello spazio necessario. Ascoltare non significa eliminare l’estraneità ma elaborarla senza negarla, farla lavorare in noi, dandosi tempo. È a partire da quella sospensione che possiamo riconoscere come non sia il mondo che emerge dal soggetto, ma il soggetto che emerge dal mondo. Se il mondo ci genera, insieme all’illusione di essere noi a generarlo, conviene attraversarlo lentamente, ascoltandolo, spesso e per quanto possibile in silenzio.

Vale la pena domandarsi perché sono, allora, così difficili, il silenzio, l’ascolto e la lentezza, quelle dimensioni così densamente descritte nella narrazione magistrale di Sten Nadolny, che con La scoperta della lentezza se ne era occupato come pochi, irridendo alla cieca convulsione del nostro vivere attuale, con la precisione e il piglio che sono nella migliore tradizione letteraria di lingua tedesca. Come ha scritto Oreste del Buono, «Nadolny è uno scrittore di finezza, capziosità e suggestioni poetiche rare. La sua prosa è una continua sorpresa e la lentezza diventa, di segmento in segmento vissuto, un’avventura coinvolgente».

Baruch Spinoza ci fornisce una risposta forse più impegnativa della domanda quando introduce la vertigine della “causa sui”. La constatazione del mondo così com’è, della sua autofondazione, o, per dirla con William James, che ciò che è, è, in quanto semplicemente è, incluso il pensiero, (“We must simply say that thought goes on” – Principles of Psychology, 1890, vol. 1, Dover, New York, 1950; pp. 224-225), ci inquieta e induce a produrre spiegazioni rumorose e frettolosamente succedanee per riempire un vuoto che viviamo intollerabile.

Giungiamo così a pensare di essere noi a venire prima delle relazioni; che la tecnica sia un’esperienza accessoria prodotta da noi, e perdiamo il senso profondo della realtà: sono le relazioni a generarci e meriterebbero silenzioso ascolto; lungi dall’essere un’esperienza accessoria, la tecnica è antropogenetica: in quanto la tecnica, allora l’uomo. La stessa scienza è una teoria della tecnica: come ha argomentato acutamente Rocco Ronchi in un libro svolta per la riflessione filosofica: “La scienza è una teoria della tecnica, nel senso soggettivo del genitivo” (R. Ronchi, Il canone minore. Verso una filosofia della natura, Feltrinelli, Milano 2017; p. 262).

Fino a che rimaniamo autocentrati al punto da ritenere di essere gli artefici di qualcosa che chiamiamo esperienza, ritenendola esito della nostra sperimentazione di un mondo che sta là fuori e di cui partecipiamo come osservatori a distanza e con uno sguardo superiore, aumenteremo la nostra velocità di attraversamento e selezioneremo solo i segnali conformi, fino ad operare una reductio ad unum–indipendentemente da quale sia l’unum– che pare uno dei tratti preponderanti della nostra contemporaneità.

Siamo invece una actual entity che si fa nel corso del processo – emerge – per poi costituirsi come fatto compiuto solo al termine del processo stesso come suo risultato, che tende però a viversi come separata dal processo. Una specie di meta senza cammino, a causa della velocità del procedere e della cattiva elaborazione dell’ansia che la lentezza necessaria per ascoltare richiederebbe. Ad andare in crisi e, spesso, sovente perduta, è l’esperienza, che diventa così “esperienza di qualcosa”, con tutta la coazione compulsiva a “fare esperienze” che ne deriva. Non senza ragione, quando capita di dire a qualcuno che siamo stati in un luogo o di parlare di un’esperienza, spesso la risposta è: già fatto. “L’esperienza non è semplicemente esperienza di qualcosa”, scrive Ronchi, “per noi l’esperienza è sempre qualcosa” (p. 176).

Nei luoghi, infatti, troviamo nulla di più che quello che siamo capaci di portarvi. Non è che portiamo con noi quel che vi troviamo, come si porta un fardello o un bagaglio. È che conosciamo riconoscendo e sentiamo ascoltando: pensiamo camminando. Allora sarà il nostro mondo interno che, portandosi in un luogo, si farà raggiungere da quel che il luogo ha da dire; si farà osservare e ne ricaverà senso e significato, tendenzialmente unici, tanti quanti sono gli osservatori e quante sono le occasioni.

Del resto la domanda potrebbe essere: ma come facciamo a intenderci con questo mondo, con la natura e con gli altri? O meglio come facciamo a fare i conti con quelli che forse sono i più urgenti problemi del nostro tempo: la vivibilità degli ecosistemi a partire dalla sopravvivenza della specie; la convivenza tra le culture; possibilmente senza autodistruggerci?

Una certa possibilità di giungere a un camminare lento nel mondo può provenirci oggi da un paradosso: la profondità dello spazio/tempo e quello che ci può insegnare. In fondo siamo di fronte alla prima possibilità. A pensarci bene, infatti, è solo in questo nostro tempo che veniamo ridefinendo la nostra collocazione e il significato di noi stessi nell’universo e negli spazi ravvicinati della nostra vita.

Quando scopriamo che in una lontana galassia, distante da noi 8 miliardi di anni luce, un gruppo di astronomi guidato dal ricercatore Marco Chiaberge e di cui fa parte anche Alessandro Capetti, dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), ha scoperto un buco nero supermassivo che sta letteralmente schizzando via dal centro galattico, a una velocità di 7,5 milioni di chilometri all’ora (per coprire la distanza tra la Terra e la Luna ci impiegherebbe appena 3 minuti) e che, secondo i ricercatori, questo buco nero “in fuga” è stato accelerato dalla enorme energia delle onde gravitazionali emesse durante la fusione dei due buchi neri che lo hanno generato; non solo, ma scopriamo anche che i ricercatori stimano che per spingere a una velocità così elevata un oggetto celeste della massa pari a un miliardo di volte quella del Sole, come il buco nero da loroindividuato, sia stata necessaria un’energia pari a quella rilasciata da 100 milioni di supernove, noi esseri umani come ci sentiamo?

Minuscoli è dir poco, persi forse nell’infinità dello spazio e nella profondità del tempo, ma forse proprio per questo presi da un’opportunità di guardarsi finalmente dal di fuori, di sorvolarsi e, accogliendo il limite e la finitudine come valori, incontrarsi con il mondo non dal di sopra ma dal di dentro: dal mondo interno e come parte del mondo. Non può trattarsi di un incontro automatico. Anzi. Richiede un autospiazzamento e una riflessione, nel senso di flettersi due volte su se stessi. Lo spaesamento e lo scompiglio per la sopravvenienza di un incontro con noi stessi, a lungo mancato e non atteso ma oggi necessario, richiede una sintonizzazione su una tonalità comune, per inventare un gesto di intesa.

Ci vuole garbo, però, e riflessione. Così come ci vuole la disposizione a considerare le nostre orme, voltandosi indietro a guardare: lo stesso gesto che immaginiamo possa essere stato alla base dell’imparare a tracciare segni e poi, alfine, a scrivere. Il garbo necessario ha le sembianze dello “shibboleth” ebraico: misurare le parole e lo stesso modo di pronunciarle; curare l’inflessione e essere attenti al linguaggio non verbale utilizzato.

E perciò, camminare con passo leggero, fermarsi ad ascoltare, soprattutto il vuoto interno, per consegnarsi ad un atteggiamento di apertura perché un’inedita sintonia con il mondo e gli altri si realizzi.

Voltandosi a guardare le orme, alfine emergerà, camminando nel silenzio interiore e nell’ascolto del mondo, una inedita armonia, quel thick feeling che non è fuggire dal mondo, ma partecipare del suo processo, come un seminatore che semina la terra ma da essa è seminato nel moment now in cui passo, gesto della mano, seme, terra e contesto coincidono.

». la Repubblica, 6 maggio 2017 (c.m.c)

La questione al centro del nuovo libro di Jonathan Sacks - “Non nel nome di Dio”, edito da Giuntina - ce la siamo posta tutti, ma, formulata da colui che fu per molti anni rabbino capo della “United Hebrew Congregations of the Commonwealth” e che è una delle voci più autorevoli dell’odierno dibattito teologico internazionale, assume una certa perentorietà. Eccola: «L’ebraismo, il cristianesimo e l’islam si definiscono come religioni di pace e tuttavia tutte e tre hanno dato origine alla violenza in alcuni momenti della loro storia».

Come mai? Come spiegare il paradosso di religioni che vogliono la pace e che però producono guerra e terrorismo? La questione interessa tutti, non solo i credenti, perché la religione è tornata sulla scena mondiale e tornerà sempre più; anzi, per Sacks il XXI secolo è «l’inizio di un processo di de-secolarizzazione di cui la prova principale si chiama demografia: «In tutto il mondo i gruppi più religiosi hanno il più alto tasso di natalità», mentre «dove le comunità religiose scompaiono segue prontamente il declino demografico».

La religione quindi sarà sempre più rilevante ed è per questo urgente scioglierne le ambiguità. E se alla violenza da essa prodotta si deve rispondere militarmente per arginarne l’effetto, per estirparne in radice la causa si deve rispondere teologicamente: «Non abbiamo altra scelta che riesaminare la teologia che porta al conflitto violento; se non facciamo questo lavoro teologico, ci troveremo di fronte al perdurare del terrore».

Naturalmente la religione non è la causa diretta della violenza, visto che nessun secolo è stato meno religioso, e al contempo più violento, del Novecento. La radice della violenza non è la religione, la questione è molto più complicata, ha a che fare con la nostra più profonda identità: noi siamo potenzialmente violenti in quanto animali sociali. È cioè la nostra tendenza a formare gruppi a essere al contempo all’origine della civiltà e all’origine della violenza: «L’altruismo ci porta a fare sacrifici a vantaggio del gruppo e allo stesso tempo ci porta a commettere atti di violenza contro quelle che vengono percepite come minacce al gruppo».

Quella volontà di relazione che positivamente genera coppie, famiglie, amicizie, comunità, altrove causa aggregazioni sotto forma di banda, branco, clan, brigata. Un’umanità senza gruppi è impossibile, ma un’umanità strutturata per gruppi è naturalmente violenta. E il punto è che la religione sostiene i gruppi in modo molto più efficace di qualsiasi altra forza: per questo appare come la maggiore generatrice di solidarietà e insieme di intolleranza.

Contro questa ambiguità strutturale della natura umana manifestata dalla religione in sommo grado, Sacks propone «una teologia dell’Altro» il cui fine è generare un desiderio di immedesimazione verso chi, per l’istinto naturale, è solo un nemico: «Per guarire dalla violenza potenziale verso l’Altro devo essere capace di immaginarmi come l’Altro». Questa teologia dell’Altro opera a livello metodologico spingendo a uscire dalla logica istintuale Noi-Loro per abbracciare la prospettiva spirituale che sa leggere la realtà dal punto di vista altrui. È ciò che le religioni chiamano conversione.

Il punto decisivo però è che le religioni capiscano che sono proprio loro, oggi, a doversi convertire per porre fine alla lotta reciproca simile a «rivalità tra fratelli ». Le tre religioni monoteistiche infatti sono «fratelli in competizione» per accaparrarsi il ruolo di vero depositario della rivelazione divina. Per questo la relazione tra ebraismo, cristianesimo e islam è stata finora all’insegna del superamento reciproco: «Il più piccolo crede di aver prevalso sul più grande: il cristianesimo ha fatto così con l’ebraismo, l’islam
Bonificare i testi sacri per neutralizzare l’odio lo ha fatto con entrambi». Il XXI secolo, però, «invita a una nuova lettura».

Sacks dà l’esempio proponendo una “controlettura” di alcuni testi decisivi della Bibbia ebraica, perché «i testi stessi che si trovano alla radice del problema, se giustamente interpretati, possono fornire la soluzione». Tramite questa rilettura Sacks mostra in modo magistrale che ciò che i testi realmente dicono non è quanto recepito nei secoli passati all’insegna della differenza Noi/Loro e ancora oggi alla base della rivalità tra le tre religioni abramitiche, ma è il superamento di questa logica istintuale in vista della pace e della concordia.

È decisivo notare però che il criterio di questa sua “contro-narrazione” è qualcosa di esterno al testo sacro. Non è la coerenza del testo in sé, né la tradizione interpretativa: è la pace il criterio decisivo. Per questo per Sacks il primato spetta all’etica, come nella migliore tradizione ebraica da Moses Mendelsohn a Hermann Cohen, da Martin Buber a Abraham Heschel, da Hans Jonas a Emmanuel Lévinas. Questa esigenza etica fa scoprire che «la Bibbia ebraica contiene non soltanto una narrazione ma anche una contro-narrazione» in base a cui «la nascita di Isacco non destituisce Ismaele » e «la scelta di Giacobbe non significa il rifiuto di Esaù».

Non c’è quindi alcun posto privilegiato da contendersi, c’è invece la riscoperta di un Dio universale e padre di tutti. Ecco perché «la Genesi descrive due patti: il primo con Noè e tutta l’umanità, il secondo con Abramo e i suoi figli». L’essenziale è comprendere che il secondo patto particolare è in funzione del primo patto universale, e non viceversa come le religioni hanno sempre pensato. Questo è il cambiamento di paradigma che il nostro tempo impone: prima la fede era finalizzata al Noi, ora va finalizzata al Tutti: al Noi + Loro.

Il problema è che i testi sacri delle tre religioni monoteiste contengono non pochi passi che, interpretati in modo letterale, producono violenza e odio. A tale riguardo scrive giustamente Sacks: «Possiamo e dobbiamo reinterpretarli ». Occorre quindi una grande, onesta, bonifica dei testi sacri, segnalando quei brani che incitano all’odio e alla violenza, magari stampandoli in corpo minore, di certo accompagnandoli con adeguati commenti. È un dovere da cui la teologia e le istituzioni religiose non possono più esimersi. Questo processo virtuoso nel linguaggio laico si chiama autocritica, nel linguaggio religioso conversione, in ebraico “teshuvà”.

Il nuovo libro di Jonathan Sacks ne è un bellissimo esempio e non poteva venire che da parte ebraica. Saranno capaci il cristianesimo e l’islam, che a differenza dell’ebraismo si considerano religioni universali valide per tutti, di raccogliere la sfida?

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