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Titolo originale: Detroit: rejuvenation through urban farms, sustainable living and innovation – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Ero stato a Detroit l’ultima volta diciassette anni fa, e la mia prima impressione tornandoci è stato quello sconcertante silenzio. Quelle larghe vie verso il centro svuotate dalle macchine. In quelle zone un tempo trafficatissime e piene di enormi edifici, adesso si sentiva solo il suono dei miei passi. L’ex rombante Motor City, mi pareva ridotta a un sussurro. Ma è una prima impressione che nasconde quello che invece a Detroit sta accadendo realmente, coi suoi abitanti che lavorano non solo per sopravvivere, ma per rilanciare, far addirittura diventare ricca, la città. Con ostacoli da superare enormi. A Detroit ci saranno sempre le fabbriche di automobili, ma non più a fare da base economica e motore di occupazione come hanno fatto per un secolo. In una città che ha perso oltre un milione di abitanti dal 1950, si è deciso che la sopravvivenza sta nel demolire, nello smontare. Si prevede di smantellare 10.000 abitazioni nei prossimi anni.

Ma accade molto di più delle sole demolizioni, a Detroit. Famiglie che abitano qui da generazioni, o nuovi arrivati, si riprendono la città nelle proprie mani. Nella parte vecchia resiste una straordinaria serie di architetture art deco, c’è un museo d’arte con collezioni del valore di un miliardo di dollari, una solida rete di industrie. E adesso tutto questo sarà immerso in un ambiente che mescola l’urbano e il rurale. L’aspetto rurale, costruito grazie a quelle determinate braccia, potrebbe ribaltare del tutto la nostra idea di città. Detroit come modello per i centri che invecchiano e cercano una nuova via.

Oggi predominano ampi spazi aperti, che hanno dato agli abitanti l’occasione di recuperare un rapporto diretto con ciò che si mangia. Spariti quasi del tutto i supermercati, e coi drugstore che vendono soprattutto prodotti confezionati (o magari freschi ma importati dal Sudamerica), ci sono associazioni cittadine come Earthworks che insegnano come si fa a coltivare frutta e verdure, come si pianta, si raccoglie, si fertilizza, si conserva. “Non è solo sopravvivenza” spiega Shane Bernardo, coordinatrice del lavoro esterno di Earthworks, all’avanguardia del movimento per l’agricoltura urbana a Detroit dal 1997. “É anche giustizia economica, e sul lungo periodo resilienza economica”.

Contemporaneamente c’è la Hantz Farms di un imprenditore finanziario che mira a offrire prodotti alimentari con tecniche sostenibili e energie da fonti rinnovabili. Che Detroit diventi leader globale dell’agricoltura urbana? Beh, dopo tutto il Michigan è una delle aree a maggior biodiversità del Nord America, come si vede benissimo ogni giorno nel sempre affollato Eastern Market. Una resilienza manifestata da una creative class in crescita. In una città in cui si comprano per 300 dollari grossi lotti residenziali, e ci si accaparra una casa con poche migliaia, stanno arrivando giovani imprenditori, sistemano abitazioni, fanno partire iniziative. Case che non erano più da tempo attaccate alla rete elettrica adesso si alimentano con pannelli solari e turbine eoliche.

In alcuni casi si va anche agli estremi: i giornali parlano di abitanti che vivono senza alcun contatto coi normali circuiti economici, e diventano casi su Youtube. Con tante case disponibili, altre persone hanno fatto di ex quartieri come Bloomtown una specie di tela da ridipingere con arte. Alla Wayne State University sperano che saranno in molti, vecchi e nuovi residenti, a trovare lavoro nella TechTown. Parco scientifico di Detroit e incubatore di oltre 220 imprese alle prime armi, mentre ce ne sono tante altre il lista d’attesa. A regime, la superficie di 12 isolati urbani comprenderà un quartiere a funzioni miste fruibile a piedi da tutti quelli che lavorano nelle vari attività legate a energie rinnovabili, scienze della vita e engineering. Ci sarà da 2016 anche la metropolitana leggera per andare fino al fiume, agli impianti sportivi, alle zone per l’intrattenimento, o verso il suburbio esterno.

La nuova Detroit sarà un solido sistema economico e culturale innestato sulla Woodward Avenue dal centro attraverso Wayne State sino a Ferndale. Attorno ampi tratti di superfici coltivate, sino a Dearborn a ovest, a Grosse Point verso est e il Lago St. Clair. Ma la vera sfida per la cittadinanza e l’amministrazione è quella di convincere anche i più poveri soli e disincantati cittadini, che ci sia un futuro oltre l’incertezza, per Detroit.

Titolo originale: The 19 Building Types That Caused the Recession – scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Tra i suoi esempi preferiti di complesso edilizio replicato fino alla nausea in tutto il paese nell’ultimo mezzo secolo, Christopher Leinberger sceglie il polo servizi di zona a base alimentare. Si tratta si un intervento su circa 5-7 ettari di superficie, asfaltata all’80%. Si colloca sulla corsia di una grossa superstrada (4-8 corsie) percorsa nel ritorno dopo la giornata di lavoro verso le zone residenziali, pensata per il momento in cui con ogni probabilità si sta pensando a che fare per cena.

C’è un grosso supermercato, 5.000-6.000 metri quadrati a formarne un lato, e un altro grande complesso con servizio drive-in sull’altro, presenti importanti catene di distribuzione nazionali e regionali, magari anche qualche marchio come Hallmark o Starbucks. Nel parcheggio ci stanno quattro o cinque piazzole di sosta ogni cento metri quadri di superficie commerciale. In teoria c’è anche un marciapiede, anche se non si arriva a pensare che ci sia qualcuno che lo usa. Ciascun esercizio è concepito per allettare un potenziale cliente che passa a settanta allora. E – salvo gusti locali particolari di qualcuno di questi centri acquisto dell’ultimo, magari imbiancature art-deco o un tetto di coppi – gli shopping center a forma di “L” sono identici ovunque si vada, da Denver a Orlando.

“Tutto si concentra in quella frazione di secondo in cui si cerca lo sguardo di chi sta guidando” commenta Leinberger, “e che allora potrà pensare: ‘hey, ecco un supermarket! Accostiamo!’”. Leinberger, studioso di strategie insediative e professore all’Università del Michigan, ha inserito questa tipologia del polo servizi di zona a base alimentare in un elenco di 19 prodotti immobiliari standardizzati dominanti nell’America del secondo dopoguerra. Che comprende anche: le villette unifamiliari suburbane per giovani coppie, i grandi complessi di big-box, quelli a magazzini che ospitano molte ditte, quelli di self-storage. Sono tutti concepiti per un ambiente suburbano fruibile solo in auto. E rispecchiano ciò che è stato voluto quasi in esclusiva dagli investitori per oltre 50 anni. Oggi che l’edilizia pare in ripresa dopo la recessione, secondo Leinberger dobbiamo tenerci lontani da ciascuno di loro.

“Chi investe finanzia prodotti consolidati” spiega Leinberger. “Non certo cose uniche, pionieristiche, cose che non si sono mai sperimentate, che si tratti di immobili o di computer Apple”. Tutti quei modelli immobiliari si riassumono nel contesto suburbano, e il polo di zona alimentare ne rispecchia un effetto collaterale, l’accumulo di provviste dagli scaffali dei supermercati ai nostri congelatori e dispense nel sottoscala. “Di sicuro non c’è nessun complotto” continua Leinberger. “Alla gente piace il big box”, nel senso che si apprezza sia il negozio che quanto dal negozio ci si porta a casa. Però di quei 19 tipi di complessi edilizi ne abbiamo costruiti troppi.

“Il prodotto sbagliato nel posto sbagliato, e adesso nessuno lo vuole più. Ecco il motivo della crisi edilizia, poi di quella dei mutui, e infine della Grande Recessione”. La maggior parte delle persone ritiene che la crisi edilizia abbia accelerato la recessione. Ma Leinberger teme però che non si sia discusso a sufficienza di quale tipo di edilizia, di quale tipo di prodotto immobiliare. Oggi però la crisi – e la pausa che ne consegue – può fornire a costruttori e investitori tempo a sufficienza per rifletterci. “Fra le cose positive di una recessione – la cosa vale per qualunque recessione – c’è il fatto che le imprese possono ripensare le proprie strategie, anzi sono obbligate a ripensarle. É un fatto positivo, ma ce la faranno i nostri a imparare nuovi trucchi? Qualcuno l’ha già fatto, altri non ci riusciranno. E questi sono destinati a fallire nel moment in cui si esauriranno I sostegni federali per lo stimolo”.

A Washington, D.C., una delle grandi città americane uscite immuni dalla crisi del settore, si è continuato a costruire, ma Leinberger calcola che un 90% abbondante dei nuovi interventi sia per spazi ad alta densità fruibili a piedi (come la riqualificazione al Tyson’s Corner, o il complesso Navy Yard). É a questo tipo di prodotti immobiliari che, a parere di Leinberger, ci si dovrebbe orientare: piani terreni a negozi, e sopra appartamenti in affitto, magari alberghi o centri congressi con sopra dei condomini, nei pressi di un corridoio di mobilità collettiva. Una serie di modelli che possono diventare il nuovo standard.

“In linea di massima ci sono sempre stati dei prodotti standardizzati” continua Leinberger. “Pensiamo anche a uno spazio urbano di tipo pedonale degli anni ’20, sono tutti molto simili. La cosiddetta Main Street USA non pare tanto diversa se ci si sposta dalla California al New England”. Dobbiamo accettare una certa standardizzazione, perché in questo modo diventa più facile (ed economico) per il settore edilizio e gli investitori realizzare prodotti del genere su una scala adeguata a rispondere alla domanda. “Oggi idealmente” conclude Leinberger riferendosi agli aspetti architettonici particolari “ci si potrebbe orientare verso forme organiche”, ma forse sarebbe un ottimo segnale anche se solo iniziassero a diventare un fenomeno replicato a livello nazionale i “poli ad alta densità e funzioni miste legati al trasporto pubblico”.

Titolo originale: La ville grignote les campagnes – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

L’Istituto Centrale di Statistica: i francesi si stabiliscono sempre più nella periferia allargata

La Francia pare ormai invasa dalla città. Soltanto il 5% degli abitanti non fa riferimento a un centro urbano. Quei tre milioni di persone che vivono e lavorano in campagna o nelle aree montane. Ovunque, altrove, la città avanza. E a passi da gigante, secondo la ricerca pubblicata martedì dall’Insee. Sbocciano costruzioni nei campi, via via che nuove coppie con figli escono dal centro alla ricerca di più spazio, e se possibile diventare proprietari. A conferma di una tendenza di lungo periodo, «le fasce circostanti le grandi città non smettono di allargarsi, e diventano autonome», commenta Bernard Morel, responsabile della sezione regionale. Territori che trasformati in periferia della periferia si allargano a coprire una superficie che interessa il 28,6% del totale.

Si allungano gli spostamenti

La regione parigina, in cui si concentrano 12 milioni di abitanti, pare già tentacolare. Ma prosegue nel processo di ulteriore estensione. Sono spesso gli abitanti delle periferie, soprattutto dei quartieri più difficili, a cercare la tranquillità più all’esterno, specie nell’area Seine-et-Marne.

E le regioni urbane di Lione, Bordeaux, Nantes e Rennes si sono allargate del 50% in dieci anni! Le villette crescono attorno ad antiche tenute di campagna. Le circondano, poi si trasformano in veri e propri quartieri. La popolazione non smette di crescere su tutta la fascia atlantica e l’asse del Rodano. A Lille, dove le possibilità di crescita non sono infinite, la popolazione si concentra. E poi iniziano a crescere cerchi concentrici anche attorno a centri di 20.000 abitanti. Ormai i grandi centri urbani e le loro corone di periferie interessano la metà del territorio e quasi l’85% della popolazione e dei posti di lavoro.

Imprese e pubblica amministrazione restano nei nuclei centrali di queste agglomerazioni, e così gli spostamenti da casa al lavoro si allungano. In media, precisa l’Insee, si percorrono 15 chilometri dal luogo di residenza alla fabbrica o all’ufficio. Nelle grandi agglomerazioni si sono sviluppate infrastrutture di trasporto che ne indicano l’estensione territoriale, e i nuovi insediamenti si collocano lungo le strade. É l’automobile il mezzo principale, con costi non indifferenti che certo le famiglie non avevano messo nel conto decidendo di comprar casa nell’area allargata.

I desiderio della casa unifamiliare

C’è uno studio del Datar che mostra sino a che punto le giovani coppie abbiano sottovalutato tempo e denaro degli spostamenti pendolari. Non è affatto raro che poi la moglie lasci il lavoro per essere più presente e badare alla famiglia, man mano la città si estende sempre più lontano fra lottizzazioni e edifici isolati; «Seguiamo un modello di crescita all’americana che pone problemi di governo pubblico, lamenta l’urbanista Jean-Loup Msika, decisamente contrario a questo sviluppo in orizzontale. Perché costa molto di più realizzare servizi in queste zone tanto remote e popolate in modo non denso» Ma il processo anche dopo trent’anni non accenna ad attenuarsi, spinto dalle dinamiche immobiliari, dai ritmi di lavoro, dal desiderio sempre vivo della proprietà della casa. Sino a ridefinire completamente il tessuto sociale, come osserva il geografo Christophe Guilluy, con una parte della Francia nella grande città, e tutta la fascia periurbana sostanzialmente abitata dai ceti popolari.

Titolo originale: In Protest, the Power of Place – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Il movimento Occupy Wall Street in costante crescita, coi suoi campi di tende a Manhattan, e oggi anche a Washington, Londra e altre città, dimostra fra le altre cose quanto nonostante i nuovi mezzi di comunicazione siano diventati indispensabili per diffondere la protesta, nulla possa sostituire la presenza fisica nelle strade.

Ce lo siamo ricordato settimana scorsa quando la proprietà di Zuccotti Park, dove si svolgono le manifestazioni di New York City, ha prima richiesto e poi rinunciato alla presenza della polizia per ripulire il parco. Così, almeno per ora, ha evitato di mostrasi davanti a tutti nel mondo in quello che sembrava proprio un pretesto per liberarsi dei dimostranti.

Avevamo a lungo sottovalutato il valore politico degli spazi pubblici. Poi è arrivata piazza Tahrir. E poi Zuccotti Park, sino a un mese fa un’oscura piazza delle dimensioni di un solo isolato , con qualche albero e delle panchine di cemento, poco distante da ground zero e a due isolati a nord da Wall Street su Broadway. Grazie a qualche centinaio di persone in poncho e sacco a pelo abbiamo imparato che esiste.

La Kent State University [ quella degli studenti uccisi nel 1970 durante una manifestazione contro la Guerra in Vietnam, raccontata dalla canzone Ohio . n.d.t.], piazza Tienanmen, il muro di Berlino: è evidente il ruolo che assumono spazi, edifici, architetture nel serbare la nostra memoria e forza politica. La politica tocca le coscienze. Ma sono i luoghi che poi colgono la nostra immaginazione.

Certo ci ritroviamo su Facebook e Twitter, ma andiamo in pellegrinaggio a Antietam, Auschwitz o anche all’Acropoli, ad ammirare quello che resta del’epoca di Pericle e Aristotele.

Fra tutte le cose, pensavo proprio ad Aristotele guardando i dimostranti di Zuccotti Park tenere una delle loro “assemblee generali” qualche giorno fa. Nella sua Politica, Aristotele sostiene che le dimensioni della polis ideale sono quelle della distanza a cui si sente il grido di un araldo. Era convinto che la voce umana avesse un rapporto diretto con il buon ordine civile. Una sana convivenza in una città ben organizzata richiede dialogo diretto.

Ed è accaduto che proprio all’inizio delle proteste, quando la polizia ha proibito l’uso dei megafoni a Zuccotti Park, i dimostranti sono stati obbligati ad escogitare un’alternativa. Così il metodo per comunicare le varie decisioni è diventato quello delle “ prove audio”, ovvero ripetere frase per frase a chi si a attorno ciò che dice un oratore, in pratica parlare tutti insieme. Un po’ come nel vecchio gioco del telefono senza fili, e terribilmente lento.

“Ma è la democrazia” come mi spiega l’attore disoccupato quarantaseienne e falegname Jay Gaussoin. “Siamo così disorientati di questi tempi, ci si è scordati come fare il punto. Però con la “ prova audio” siamo obbligati ad ascoltare gli altri, non solo le opinioni, ma proprio parola per parola, esattamente, perché dobbiamo poi ripeterlo.

“É un’architettura di consapevolezza” per usare l’azzeccata definizione di Gaussoin.

Magari può anche sembrare una specie di campo profughi ad una prima occhiata la mattina presto, quando i contestatori sbucano dai loro sacchi a pelo, ma Zuccotti Park in realtà è diventato una polis in miniatura, una piccola città che cresce. Ma il parco è anche di proprietà private, e si tratta di uno degli aspetti collaterali più interesassanti della vicenda. Un tempo si chiamava Liberty Park, ma nel 2006 gli è stato dato un altro nome, da John E. Zuccotti, presidente della Brookfield Office Properties, che possiede l’area. Una norma urbanistica impone però che la Brookfield tenga aperto il parco giorno e notte, anche se non è uno spazio di proprietà pubblica.

Quest particolarità della norma di zoning getta luce inattesa sulle contraddizioni di quanto qui in America da un paio di generazioni chiamiamo spazio pubblico. Che invece in gran parte è solo gentile concessione di proprietà privata in cambio possibilità di costruire edifici più grossi e più alti. Basta pensare all’atrio dell’edificio a torre I.B.M. su Madison Avenue e a un’infinità di spazi simili: spazi “pubblici” che non sono affatto pubblici, ma semi-pubblici, controllati dalla proprietà. Lo Zuccotti in linea di principio dipende dalle regole fissate dalla Brookfield, che proibiscono teli, sacchi a pelo, e il deposito di effetti personali sul luogo. L’intera situazione spiega piuttosto bene quanto ci si sia allontanati dall’idea tradizionale di spazio pubblico, da luogo di espressione collettiva e assemblea (diciamo lo Speakers’ Corner di Hyde Park) a banalissimo luogo commerciale (come l’ingresso del Time Warner Center).

Avendo vissuto in Europa negli ultimi anni, ho spesso visitato piazze e parchi, a Barcellona e Madrid, Atene e Milano, Parigi e Roma, occupati dai campeggi delle proteste. Queste proteste e riunioni fanno parte della norma sociale d’Europa. Forse la differenza in America si deve a tutta la nostra mania delle automobili, dell’autosufficienza, di preferire l’isolamento, ci piace più guardare che partecipare.

In Europa, si protesta per il lavoro, contro i tagli del governo e per la questione del debito. Il fatto che ciò che emerge da Zuccotti Park sia un po’ fumoso non è la questione. Il punto centrale è proprio che esiste quel campo.

“Così riusciamo a sentirci parte di una comunità più ampia” racconta Brian Pickett, trentatreenne professore aggiunto di recitazione e dizione alla City University di New York. L’ho trovato settimana scorsa, seduto fra i teli e le file ordinate di sacchi a pelo in un angolo del parco. “È importante vedere queste cose, nella condizione alienata di oggi. Su Facebook siamo da soli. Ma qui no”.

E chi dimostra si rivela anche agli altri. L’hanno ben dimostrato gli egiziani a piazza Tahrir. E a loro modo anche quelli del Tea Party. Non ci si limita a mostrare al mondo il proprio numero. Ci si scopre anche vicendevolmente: persone con atteggiamenti non identici, ma simili. Come mi diceva un rappresentante della protesta, pensiamo a Zuccotti Park come se fosse in diagramma degli insiemi, che rappresenta varie delusioni politiche ed economiche. Lo spazio del parco è il luogo in cui esse riescono a sovrapporsi. Ed è anche uno spazio comune, letteralmente.

E mi pare evidente guardando quella folla compatta giorno dopo giorno che si tratta di coesione con un portato urbanistico, vale a dire che i dimostranti, dopo aver individuato una propria forma di organizzazione senza leader ma presidiando il luogo, trovano unità nello spazio. La loro forma prescelta di organizzazione è la base del loro messaggio.

Si costruiscono così i tratti fondamentali di una città, come ho già detto. Si è istituita una cucina per mangiare, un angolo legale e un settore sanitario, una biblioteca di libri regalati, un’area per l’assemblea generale, un ambulatorio, un media center dove si possono ricaricare i portatili usando un generatore, addirittura un emporio, si chiama comfort center, stipato di vestiti regalati, lenzuola, dentifricio e deodorante: come con le cose da mangiare, ci si può servire liberamente.

Qui trovo Sophie Theriault una mattina, che fruga tra pantaloni e camicie appena arrivati. Tranquilla ventunenne che fa la coltivatrice biologica in Vermont, è qui da parecchio e lavora come volontaria. “Forse non siamo venuti qui pensando proprio le stesse cose, ma condividere il parco un giorno dopo l’altro, una notte dopo l’altra, è anche un’occasione per scoprire interessi comuni”.

C’è un ragazzino in jeans leggeri e canottiera che curiosa dentro a cumuli di giacche. “Cerco qualcosa per stare al caldo” borbotta.

“Questo mi pare ottimo” dice la Theriault indicandone una invernale di sintetico col cappuccio di pelo finto che gli sta davanti.

“Beh, non così caldo” risponde, indicando un paio di calze, che la Theriault gli passa mentre riprende: “Ci incontriamo ogni sera a discutere come tener pulito e in ordine il posto, mantenerlo un ambiente sicuro, dal punto di vista materiale ed emotivo, per tutti. Il consenso di opinioni costruisce comunità”.

Patrick Metzger, ventitreenne compositore e ingegnere del suono, fa eco al medesimo pensiero: “Dai post sulla rete non si riescono certo ad avere informazioni vere sulla gente, classe, razza, età. Fox News parla magari di folle minacciose o spacciatori. E invece c’è una gran complicazione e mescolanza: studenti, anziani, intere famiglie, i muratori in pausa pranzo, dirigenti di Wall Street disoccupati”.

Si, si magari anche qualche tizio poco raccomandabile ci sarà, ci sono sempre nelle occasioni politiche. Ma l’ha detta giusta Metzger. É proprio la diversificazione dei contestatori, almeno di giorno, ad aggiungere resilienza alla protesta. É dall’11 settembre che non c’era tanta gente a chiedere “Ci sei stato?” “Hai visto?” a proposito di un posto di Manhattan. Occupare anche il mondo virtuale insieme a Zuccotti Park spinge il movimento Occupy Wall Street, l’uno aiuta l’altro e

Ma detto questo, è nello spazio fisico che si sta costruendo un’architettura della consapevolezza.

Nota: anche noi come forse qualcuno si ricorda abbiamo provato a ragionare un po' sul tema dello Spazio Pubblico; e alle prime avvisaglie della "primavera araba" sempre sulle colonne del New York Times l'economista urbano e un po' tuttologo Edward Glaeser aveva fatto un collegamento simile, anche se più rigido, fra spazio urbano e manifestazione di democrazia. Il testo tradotto è disponibile su Mall (f.b.)

Titolo originale: The Future Is Machine-Readable – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Quando si chiede a qualcuno di descrivere la città del futuro, ci si aspettano immagini di metropoli scintillanti magari di quelle che si intravedono in Giappone o in Corea, o i quei disegni tutti acciaio e cristallo e auto senza pilota che scivolano silenziose sull’autostrada .

E invece il vero modello di città del futuro è una minuscola cittadina medievale nella campagna toscana, Peccioli. Con oltre un quarto della popolazione residente che ha superato l’età della pensione, qui anche la gente appare un po’ antiquata. E invece Peccioli è all’avanguardia della rivoluzione tecnologica europea. Nel quadro di una collaborazione con la Scuola Sant'Anna di Pisa iniziata nel 1995, la cittadina si è trasformata nel campo di applicazione delle ricerche avanzate sull’invecchiamento, telesoccorso, energie alternative, tutela ambientale, e molto altro. Qui hanno iniziato ad lavorare per strada in mezzo alla gente i primi operai robot.

Dopo una breve sperimentazione nel 2009, due unità del tipo DustCart [più o meno letteralmente carretto delle pulizie n.d.t.] si sono fatti carico della raccolta rifiuti nel centro di Peccioli per due mesi del 2010. Gli abitanti richiedono un intervento, il supervisore dei robot (un’intelligenza artificiale che si chiama AmI) spedisce il DustCart più vicino all’interessato, a prelevare la spazzatura e portarla al centro smistamento. Li hanno soprannominati Oscar, quei robot (il riferimento è al signore che faceva prima quel lavoro, non al Muppet).

Può anche sorprendere che nel XXI secolo i robot più avanzati a contatto con l’uomo debbano solo raccogliere spazzatura, modelli Roomba o DustCart. Perché l’ascesa di queste macchine non è stata travolgente come ci si aspettava? Perché se è abbastanza facile sostituire al meglio gli esseri umani per lavori semplici e ripetitivi, trovano invece enormi difficoltà nell’operare in ambienti estranei. Limiti che li tengono incatenati a luoghi monotoni e lineari, come una catena di montaggio, e di solito lontano dagli sguardi della gente. Quando sono alla fine arrivate, le auto senza pilota hanno subito imboccato la via con meno ostacoli: quella dell’aria.

Se i robot vogliono diventare una presenza corrente quotidiana, si pensa di solito, dovranno adattarsi ad operare in un ambiente aperto del tutto non controllato. Credo invece che sia molto più probabile il contrario: in futuro, modificheremo lo spazio per renderlo più robot-centrico, per rispondere alle necessità delle macchine.

Per esempio le strade, oggi del tutto sconcertanti per un robot. Anche la famosa automobile a guida automatica di Google si sposta solo dopo che un essere umano l’ha programmata inserendo "segnali, semafori e tutto il resto" spiega il responsabile Jay Nanncarrow. L’auto della Google non può funzionare in un ambiente che non conosce già, e non è neppure chiaro se sia in grado di gestire eventi imprevisti come semafori aggiunti per lavori, o chiusura temporanea di corsie.

Se il futuro è anche delle auto automatiche, dovremo anche investire parecchio sulle infrastrutture, per adeguarle al robot. Ciò può voler dire segnali radio in corrispondenza degli attraversamenti pedonali, o guide elettroniche inserite nell’asfalto per capire dove fermarsi in caso di incroci complicati. Ci sarà anche bisogno di segnali che avvertano il passeggero che sta uscendo dalla rete delle strade attrezzate alla guida automatica.

Per le vie, negozi e altre attività aggiungeranno al tipo di visibilità attuale anche quella elettronica. Già oggi in Corea i pendolari possono fare la spesa in metropolitana scansendo immagini di alimentari sui muri delle pensiline. L’introduzione massiccia di sistemi robotizzati a basso costo potrebbe anche voler dire un grande ritorno del negozio tradizionale, dove i cliente arriva con una lista e si rivolge all’addetto.

É quanto già accaduto alla nuova biblioteca James B. Hunt della North Carolina State University costata 115 milioni di dollari. L’ateneo la presenta come il proprio "simbolo di una nuova era di sviluppo". Fra le novità di questa nuova era, c’è che agli studenti non è più consentito girare liberamente per gli scaffali, come si è fatto per generazioni. I due milioni di volumi saranno in sale climatizzate sotterranee, a cui ha accesso esclusivamente un impianto robotizzato. Queste scaffalature occupano solo una minima parte dello spazio che si prendevano prima, e la consegna è di gran lunga più rapida (con questo sistema dovrebbe anche finire il vecchio vizio di tenersi troppo libri che possono anche servire ad altri). Insomma invece di progettare un robot in grado di muoversi nella biblioteca, l’Università ha concepito l’intera biblioteca attorno al robot.

Ma cosa potrebbe accadere se si introducessero i robot anche in altri aspetti della nostra vita? Rendere le strade adatte alle auto che si guidano da sole può essere abbastanza facile, visto che si tratta di un ambiente già piuttosto controllato e standardizzato, dall’organizzazione planimetrica alla segnaletica. Le strade sono anche gestite da un’autorità centralizzata, il che rende relativamente semplice introdurre le modifiche necessarie, quindi non dovremmo sorprenderci troppo se diventasse normale progettare strade leggibili dalle macchine. A Peccioli, i ricercatori hanno introdotto parecchi accorgimenti per guidare DustCart. É stata contrassegnata una particolare "corsia per robot " dipinta di giallo, per separare la macchina dal traffico normale ed evitare ingorghi nelle vie più strette. C’è anche una segnaletica rivolta agli automobilisti per avvertirli della presenza di questo insolito collega. L’area è del tutto coperta da Wi-Fi ad alta velocità e telecamere a circuito chiuso, che garantiscono un contatto costante coi droni, e ci sono segnali dappertutto nella zona di raccolta della spazzatura per guidare DustCart.

Ma una maggior diffusione di robot non significa solo realizzare ambienti più controllati; vuol dire anche rendere i nostri spazi il più possibile leggibili alle macchine. I codici QR evoluzione mutante di quelli a barre non sono nulla di nuovo, ma si stanno oggi affermando grazie all’enorme diffusione degli smartphone. Anziché concepire sistemi di lettura ottica simili al nostro, diventa assai più facile sostituire al testo scritto qualcosa che è leggibile alla macchina, ma incomprensibile agli esseri umani. Improbabile che si possa rinunciare del tutto alle nostre normali informazioni, per passare a una scacchiera di icone, ma se vogliamo che degli androidi ci servano al banco della spesa o trasportino i pazienti in barella in ospedale, dovremo almeno accettare il diffondersi di questa forma di bilinguismo.

Stiamo vivendo una digitalizzazione di massa dei nostri dati. Si prevede che enormi proporzioni delle informazioni quotidiane, dal giornale alla corrispondenza, passino a un formato gestibile digitalmente. Mentre gli archivisti lavorano a mettere a disposizione interi cataloghi storici di materiali scritti. Il futuro ci riserba anche molto di più, portandoci verso un mondo tutto leggibile dalle macchine.

postilla

Comprensibile e in parte anche condivisibile, l’entusiasmo dell’adepto per un mondo che vede spuntare ogni giorno dappertutto i segni dell’ascesa trionfante del robot, nella forma poco inquietante e assai diversa dalle problematiche domande di Isaac Asimov (che paiono loro, fantascienza in negativo, per certi versi).

Però, se ripensiamo col senno di poi ad esempio a tutti i guai portati dall’automobile alla forma delle città e del territorio, o allo schematismo con cui certa cultura architettonica e urbanistica novecentesca ha inglobato l’entusiasmo per la macchina delle avanguardie artistiche, qualche problemino in effetti sorge. Certo non ci aspetta un futuro da rincoglionimento ameboide, tutti lì come un nerd da barzelletta a guardare ad occhi spalancati un apparecchio che vive in nostra vece.

Ma ci tocca, ragionevolmente, evitare sia il solito atteggiamento da diffidenza contadina (che poi sotto sotto ci fa accettare quasi tutto, se ce lo propongono nel modo giusto), sia appunto l’accettare tutto quanto come dono del cielo, fino alla santificazione dei suoi angeli vista dopo la morte di Steve Jobs.

L’urbanista consapevole dovrebbe saperlo: la differenza, nel bene e nel male, è un po’ come quella fra le utopie sociali ottocentesche e il sogno immerso nel verde alla Silvio Berlusconi e dintorni. Ci sono un sacco di vie di mezzo, o anche del tutto nuove, da inventarsi e/o esplorare (f.b.)

Titolo originale: Pakistan gated community sparks controversy – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Lungo curatissimi prati e casette marciapiedi in perfetto ordine scendono il pendio della collina artificiale di fianco a steccati bianchi, coi bambini che giocano e i vicini che si scambiano saluti.

Il grande quartiere si chiama Bahria — " Vieni nella tua casa esclusiva" recita la promozione — e gestisce in proprio raccolta rifiuti, scuole, pompieri, moschee, rete idrica, polizia di pronto intervento: una specie di stato perfettamente efficiente dentro a un altro stato che efficiente non lo è affatto. E tutto quanto è garantito senza neppure pagare le bustarelle indispensabili fuori, precisano gli abitanti.

"Mi piace abitare qui" racconta Abdul Rashid, ultrasessantenne ex impiegato governativo in pensione. "É come abitare in un piccolo paese tranquillo e garantito: pulizia, servizi che funzionano, la famiglia si può rilassare. Se si presenta qualunque problema, si dà un colpo di telefono alla sicurezza".

La stridente presenza di questo quartiere di ceto medio alto, in un paese tanto violento, ha avuto la strada spianata anche dai militari. Grazie alle leggi dell’epoca imperiale britannica, che assegnavano terre alle truppe amiche, l’esercito oggi controlla circa il 12% delle superfici di proprietà pubblica del Pakistan, secondo alcune stime. E nella propria posizione privilegiata è in grado di coinvolgere con vantaggi reciproci e facilitazioni grossi costruttori.

Bahria e il suo corrispettivo militare Defense Housing Authority insieme coprono una superficie doppia rispetto alla città di Rawalpindi, piazzaforte a circa 30 minuti dalla capitale Islamabad.

Nella zona elegante di Safari Villas, tra la Sunset Avenue e College Road, Mohammad Javed, 69 anni, dà un’occhiata al suo giardinetto prima di rientrare nella casa da tre stanze sull’angolo, e accomodarsi nell’angolo divano beige davanti all’ultrapiatto televisore Samsung. I prezzi vanno dai 25.000 ai 60.000 dollari, fuori portata per la maggior parte dei pachistani.

Ha avuto un gran successo, Bahria, non solo tra chi aveva dei soldi e stava qui, ma anche tra chi torna dall’estero. Come Javed, gestore di un distributore di benzina in Canada rima della pensione, spera di continuare anche qui il suo stile di vita nordamericano. Il muro di cinta protettivo attorno a Bahria dà sicurezza, spiega, anche se ancora non si fida a far venire qui i parenti, per timore che succeda qualcosa di brutto fuori. "Ci vediamo in Thailandia o in Canada".

Difficile criticare i pachistani che si proteggono dietro le mura private, quando sono in crescita attentati suicidi, imboscate a sfondo politico, irrequietezza diffusa, ovvio che si sia preoccupati. Ma si teme che questo progetto possa allargare la distanza fra ricchi e poveri, oltre ad essere dannoso per l’ambiente.

L’edificazione si espande e divora terreni agricoli, alimenta un traffico da incubo, distrugge i rapporti sociali, commenta l’architetto Jamshaid Khan, che progetta le case di Bahria e altrove. In tutta la gated community non ci sono campi da calcio né da cricket, neppure biblioteche: non sono cose da cui si guadagna.

"Mi sono offerto di progettarle gratis, le biblioteche, anche di regalare dei libri" ci racconta nel suo studio stipato di lucidi. "Non le hanno volute".

Questo tipo di quartieri sottolinea anche lo squilibrio economico.

"Non è bello" commenta il sarto trentenne Mohammad Ameen, che abita giusto fuori dal cancello di ingresso di Bahria, col metro appeso attorno al collo. "I pachistani ricchi fanno la bella vita, e noi soffriamo. É uno stato dentro lo stato. L’energia che consumano provoca a tutti gli altri cadute di tensione".

Il settore foreste di Rawalpindi accusa Bahria di essersi allargata troppo su aree non di propria competenza. Ci sono ricorsi in tribunale che sostengono un trattamento troppo di favore grazie ai contatti con polizia, politica locale, magistratura. La gestione non ha voluto rispondere alle nostre domande.

Questa settimana l’amministratore generale di Bahria, il colonnello in pensione Saeed Akhtar, è stato arrestato insieme al supervisore Muhammad Iqbal con l’accusa di aver acquisito circa 70 ettari di superficie con documentazione falsa. L’avvocato del gruppo, Malik Waheed Anjum, dichiara al giornale Express Tribune che Bahria è vittima di altri documenti falsi, quelli di proprietà prodotti dal fisco.

Tutto il progetto è partito dall’allora piccolo costruttore Malik Riaz negli anni ‘80. La concorrenza si rivolgeva ai super ricchi, lui ha cominciato a costruire per l’emergente ceto medio, diventando il più importante operatore di tutto il Pakistan.

Secondo i critici l’impero di Riaz a Bahria è troppo condizionato dai legami con gli ambienti militari. Ayesha Siddiqa, autrice di Military Inc: Inside Pakistan Military Economy, sostiene che è grazie a quei legami se si sono acquisiti i terreni, restituendo poi il favore ad alti ufficiali sotto forma di immobili.

"Anche i migliori, quelli che hanno fama di non essere corrotti, alla fine si sono ritrovati con due o tre immobili. Vantaggi per tutti".

Le cifre ufficiali affermano che i militari possiedono poco meno di cinque milioni di ettari di terreni, vale a dire il 12%, delle superfici statali del Pakistan, spiega la Siddiqa, di cui la metà direttamente controllata da ufficiali in servizio o in pensione, in un paese dove ci sono venti milioni di contadini senza terra.

"Nessuno salvo i militari ha un potere del genere". L’amministrazione di Bahria ha appena emesso un bando pubblico rivolto ad alti ufficiali in pensione, per importanti incarichi nel gruppo- prosegue la Siddiqa – e sta qui la chiave per avere altro potere”.

Ma per chi ci abita, come l’imprenditore alimentare Shaheryar Eqbal, sono tutte questioni marginali se si pensa a quanto vantaggi comporta Bahria.

"Il governo dovrebbe consideraci un modello, e realizzarne altre. L’esercito ha un accordo, che funziona a Bahria. Tutto funziona. Il Pakistan certo supererà la fase del terrorismo, ma la chiave del futuro è qui".

Titolo originale: Evicting tenants guilty of rioting – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini (al link del testo originale anche la serie completa delle lettere)

Vi scrivo per chiarire la nostra posizione riguardo agli sfratti degli inquilini di case comunali giudicati colpevoli nelle rivolte urbane. Si tratta di una scelta estrema, e non certo dell’unica opzione. Vengono attentamente valutati i singoli casi delle famiglie così da verificare dove e come offrire sostegno. Qualunque decisione viene presa caso per caso, e non si tratta affatto di decisioni "draconiane" come è stato detto. Esiste una gerarchia di interventi, e ci sono almeno cinque livelli di gravità dei casi e cinque relative forme di azione, prima che si inizi solo a valutare la possibilità di sfratto.

Siamo favorevoli alla richiesta di Ed Miliband perché un apposito organismo indipendente esamini in profondità i problemi sociali che possono aver pesato sulle recenti rivolte. E non si può considerare la questione come un fatto di semplice contrapposizione fra una prospettiva di destra e una di sinistra. Come ha già scritto il Guardian , ben il 75% degli arrestati ha precedenti, nel quasi 80% dei casi si tratta di persone maggiorenni. É un problema di legalità e di ordine pubblico. E se non sono le pubbliche amministrazioni ad applicare la legge, chi altri dovrebbe farlo? Gli inquilini delle nostre case sono responsabili delle proprie famiglie. Non siamo noi a inventare le leggi, né possiamo improvvisare, ma dobbiamo invece applicarle, come si aspettano da noi tutti gli altri inquilini.

Dobbiamo imparare tante cose, e siamo stati davvero colpiti in questo caso dalla risposta immediata e spontanea degli abitanti, degli esercenti, e in particolare dei giovani. Abbiamo organizzato una serie di “dialoghi di quartiere” in tutta la circoscrizione, per raccogliere informazioni e opinioni su da farsi. Spero che tutte le amministrazioni locali dove ci sono state rivolte possano sviluppare iniziative simili, così che si possa anche trar vantaggio da conoscenze collettive più ampie.

(Cllr Ian Wingfield è vicepresidente del consiglio municipale di Southwark, Londra)

postilla

Sembrerebbe tenersi tutto, nel linguaggio attento dell’amministratore pubblico di centrosinistra, se non fosse appunto per quella negazione di una prospettiva diversa fra destra e sinistra. La legge è legge, ma che legge è quella imposta dal governo di coalizione di centrodestra, per punire anche con lo sfratto gli inquilini di case popolari condannati per le rivolte e i saccheggi dell’agosto 2011? Senza tirare in ballo grandi categorie di giustizia, che c’entra la casa con la fedina penale? Certo gli elettori di ceto medio e operaio che abitano gli stessi quartieri potranno anche manifestare consenso, per chi li libera con questa specie di stratagemma di vicini indesiderabili e antisociali. Ma ripeto: che c’entra il diritto alla casa con la fedina penale? Per la destra c’entra eccome, perché nella nazione di proprietari, nella prospettiva del capitalismo compassionevole, la casa pubblica è una graziosa elemosina, giusto per mantenersi l’esercito di disgraziati da cui pescare per i lavori umili, la polizia, l’esercito da mandare in Afghanistan ecc. ecc. Ma la sinistra da queste leggi, anche se magari gli effetti piacciono ad alcuni loro elettori, dovrebbe tenersi a distanza di sicurezza (f.b.)

Titolo originale:This wrecking ball is Osborne's version of sustainable developmentScelto e tradotto da Fabrizio Bottini



Impassibili di fronte alla realtà, impenetrabili alle critiche: il ministro per le aree urbane, Eric Pickles e quello alle finanze George Osborne a quanto pare non hanno imparato proprio nulla dalla crisi economica. Sostengono che un meccanismo di autorizzazione urbanistica più semplice ed elastico sia “la chiave della ripresa economica”. Ma sono proprio i paesi dell’Europa più colpiti dalla crisi – Grecia, Italia, Spagna, Irlanda – ad avere meccanismi più deboli e subire dispersione insediativa. I paesi che si sono dimostrati più reattivi sono invece quelli con sistemi strutturati e insediamenti compatti.

Un sistema urbanistico solido rappresenta certo solo uno dei vari fattori in campo, ma è sintomatico di una cultura politica in grado di porre gli interessi nazionali sopra quelli egoistici di pochi, e la prospettiva di lungo periodo invece del denaro facile. Pickles e Osborne cercano di fare a pezzi il sistema urbanistico britannico con la stessa motivazione per cui vogliono abolire le norme sulle banche: libertà d’azione per le imprese, nepotismo, plutocrazia, esattamente le forze che ci hanno cacciato nel pasticcio attuale.

Meno pianificazione significa esasperare i problemi economici, perché si spostano capitali da funzioni produttive a speculative; le città si degradano svuotandosi; un localizzazione mal concepita delle attività economiche, insediamenti sparsi e lunghi tempi di spostamento frenano l’efficienza economica. Solo domenica il New York Times riferiva come al raddoppio delle densità urbane la produttività aumenti fra il 6% e il 28%.

Obiettivo di un sistema di pianificazione urbanistica non deve essere la crescita economica. Ma far sì che si risponda alle necessità umane tutelando al tempo stesso l’ambiente. Però, se abbiamo l’obiettivo di crescere, comunque un’urbanistica forte serve meglio allo scopo rispetto a una debole. L’attacco governativo alla pianificazione probabilmente potrebbe produrre gli effetti peggiori su entrambi i fronti: devastare l’ambiente e devastare l’economia.

Insieme al servizio sanitario nazionale e al resto del welfare state, le nostre leggi urbanistiche derivano dalla grande esperienza politica del dopoguerra, nella quale tanti cittadini di tutte le classi avevano perso la vita per il paese. L’idea di fondo era che la Gran Bretagna, salvata dal sacrificio collettivo, mai più sarebbe stata governata ad esclusivo vantaggio di ricchi e potenti. Una promessa rimangiata da partiti politici controllati da una ristretta elite.

Settimana scorsa sul Daily Telegraph Geoffrey Lean sosteneva che l’assalto al sistema di pianificazione sia spinto soprattutto dai compunti giovani metropolitani della coalizione governativa, che si sarebbero sostituiti ai “vecchi gentiluomini cacciatori di campagna”. Mentre in realtà sono proprio i vecchi cacciatori ad aver guidato l’attacco al’urbanistica, attraverso la loro Country Land and Business Association. Posti di fronte alla scelta tra abbastanza indefiniti “valori rurali” e un po’ di soldi facili, paiono non aver alcun dubbio sulla direzione in cui puntare il fucile. É il ritorno del vecchio potere, contro la democrazia.

Secondo il documento guida governativo sull’urbanistica in via di discussione, sarà quasi impossibile non autorizzare le trasformazioni, per quanto distruttive o dannose siano. Salvo nelle aree ufficiali di green belt, parchi nazionali, zone di riconosciuto alto valore paesaggistico, tutto è consentito purché non esistano enormi motivazioni contrarie, e anche su questo punto ci si è già mossi in anticipo. Recita il documento che le amministrazioni locali devono “approvare ovunque possibile tutte le proposte

Fine della politica di riuso delle aree dismesse (e di tutto ciò che è già in qualche modo urbanizzato) prima di pensare ad espandersi su spazi aperti. Greg Clark, il sottosegretario responsabile, ha ripetutamente reso poco chiare le cose su questo aspetto. Il nuovo documento parla chiaro: a pagina 51 dice che “ viene eliminata a livello nazionale la priorità nel riuso delle superfici già urbanizzate”. Fine dell’impegno a ridurre al minimo con la localizzazione degli insediamenti i tempi di pendolarismo e la congestione stradale, salvo nei casi in cui gli impatti siano “ gravi”, ma poi nel documento non si capisce cosa significhi esattamente questo “ gravi”. E fine dell’idea che la campagna, al di là di alcune aree specificamente tutelate, debba comunque essere difesa.

Sono le ruspe avanzanti, la vera idea governativa di sviluppo sostenibile. “ Edilizia vuol dire crescita”, recita il documento, e “ senza crescita non ci sarà alcun futuro sostenibile”. Quindi così diventa sostenibile qualunque trasformazione, da approvarsi senz’altro. “ Siamo preventivamente favorevoli allo sviluppo sostenibile”, ribadisce il documento, e questa deve essere “ la base di partenza per qualunque progetto, decisione … la risposta alle proposte di trasformazione è SI”.

C’è un elenco dei tipi di sviluppo sostenibile che le amministrazioni ora dovrebbero approvare. Stazioni di servizio sull’autostrada, grandi arterie verso un aeroporto, grandi cartelloni pubblicitari. E se non sono sostenibili loro, cosa lo sarà mai?

Per valutare le intenzioni reali del governo c’è un ottimo metodo. Se esiste un atteggiamento preventivamente favorevole alle trasformazioni sostenibili, dovrebbe anche essercene uno contrario a quelle insostenibili. Ma frugate tutto il documento e troverete al massimo in un caso una decisa diffidenza per le miniere di carbone. Il che va benissimo, ma non c’è altro. Qualunque altra trasformazione diventa, automaticamente, sostenibile.

C’è di peggio. Il documento afferma che le amministrazioni devono dare comunque l’autorizzazione nel caso in cui i loro “ strumenti di pianificazione non siano aggiornati”. Come osserva l’esperto di urbanistica Andrew Lainton nel suo utilissimo blog, è il 95% delle amministrazioni locali, che al momento dell’approvazione finale del documento non sarà dotata di strumenti aggiornati. A gennaio John Howells, segretario parlamentare di Greg Clark, spiegava alla Federazione Immobiliare Britannica che in questi casi si può costruire “ quello che si vuole, dove si vuole e quando si vuole”. Lainton sottolinea anche che quando un piano non è aggiornato, secondo il documento, non esistono salvaguardie per respingere progetti contrastanti. Così non significa solo indebolire il sistema urbanistico, ma accantonarlo totalmente.

L’arma che il governo usa per tutelare gli interessi degli speculatori è una minaccia emotiva: se non accettate il nostro piano diventeremo un paese di senzatetto. Molto interessante, notare in che modo gente che non ha mai e poi mai manifestato alcun interesse per i più poveri, improvvisamente sembri prendere le loro parti, quando c’è da far guadagnare i più avidi tra i ricchi.

Nessuna persona ragionevole può contestare il fatto che nel paese ci sia un grandissimo bisogno di case, specie di case economiche. E nessuno discute il fatto che le si debba adeguatamente autorizzare. Ma non è certo il sistema urbanistico ad aver impedito che negli ultimi anni di costruissero delle case, approvando l’80% dei progetti, sono i soldi. Nella revisione di bilancio dell’anno scorso il governo – senza dubbio motivato dalla sua ritrovata solidarietà verso i bisognosi – tagliava del 60% le disponibilità per le abitazioni economiche. Il sistema del credito si è prosciugato, la domanda solvibile ristretta, i costruttori falliscono. E non è certo indebolendo la pianificazione urbanistica che si risolvono questi problemi.

La plutocrazia ha i suoi eterni cicli. Spinge contro qualunque ostacolo alla propria distruttiva avidità. Ci riesce, e provoca un crollo. Viene salvata a costi enormi, dalle stesse forze che aveva avversato: regole, urbanistica, fisco, intervento pubblico. Si riprende, si scrolla la polvere di dosso, e subito si rivolta contro coloro che l’hanno salvata. L’assalto all’urbanistica fa parte del ciclo. Ma i danni dei plutocrati non saranno di sicuro reversibili.

Sintetizzando centinaia di qualificati (peer reviewed) studi a carattere più monografico o di caso su città, aree metropolitane, e regioni urbanizzate del globo, un articolo proposto dalla rivista online PLoS ONE ipotizza alcune fondate conclusioni:

Una consolazione e un monito per noi europei: il continente complessivamente è fra quelli dove si sprecano meno superfici per usi urbani. A maggior ragione, non solo occorrerebbe continuare in questa direzione, ma soprattutto si dovrebbe evitare di scimmiottare (con la solita scusa dello sviluppo) culture e impianti normativi che hanno già combinato tanti guai altrove. Di seguito è possibile scaricare il pdf dell’articolo, con link agli articoli della Bibliografia e per le immagini e tabelle al sito PLoS ONE (f.b.)

(traduzione di Fabrizio Bottini)

Una simulazione di città, grande come tutto il centro di San Diego, è stata costruita in un angolo solitario del deserto nella California meridionale, per allenare le forze armate al combattimento in ambiente urbano. Questo centro allenamenti del costo di 170 milioni di dollari è stato presentato ufficialmente martedì alla base militare di Twentynine Palms, circa 150 km a nord-est di San Diego. Complessivamente gli edifici sono 1.560, e consentiranno alle truppe di apprendere e perfezionare tecniche utili in molte parti del mondo, secondo i responsabili del Corpo dei Marines. Nel paese sono già stati costruiti finti villaggi afgani per preparare le truppe prima delle missioni. Il nuovo complesso è fra i più grandi e completi fra quelli realizzati. Ci possono operare in contemporanea oltre 15.000 uomini fra marines e marinai.

Nota: qui in una ventina di diapositive le travolgenti passeggiate urbane dei nostri eroi (f.b.)

Una città dove sarà possibile condurre uno stile di vita moderno nel contesto della tradizione. È questo slogan che ti accompagna quando ti avvicini ai cantieri di Rawabi, in arabo «le colline», la new town palestinese da 6mila appartamenti che, grazie un finanziamento da 800 milioni di dollari (in parte di provenienza qatariota), sta sorgendo tra Ramallah e Nablus e situata a metà strada tra Tel Aviv e Amman. Sino ad oggi hanno chiesto di viverci oltre 8 mila palestinesi, che si sono prenotati online.

Commercianti, impiegati pubblici, professionisti, ossia la piccola borghesia attirata dai centri commerciali, i boulevard e i caffè, dalla vicinanza all'università di Bir Zeit, dal verde, dai campi sportivi, dalle scuole pubbliche e private, dal cinema ma anche dalle moschee e dalla chiesa che promette la «Massar», l'impresa edile di Bashar Masri, parente di Munib Masri, l'uomo d'affari palestinese più ricco e influente. «Questo progetto è parte della costruzione nazionale - dice Masri - che non è solo politica ma vuol dire significa anche offrire una miglior qualità di vita alle persone e rilanciare l'economia creando migliaia di posti di lavoro».

All'inizio verranno venduti appartamenti per 25 mila palestinesi, in seguito per altri 15mila, grazie a prezzi abbordabili e a mutui che le banche offriranno a basso interesse oltre a quello finanziato dall'Overseas Private Investment Corporation che permetterà di acquistare un appartamento per 700 dollari al mese. Un debito mensile che Masri definisce «sopportabile» e che invece la maggior parte dei palestinesi non può permettersi.

Osservandola da lontano la new town, «fiore all'occhiello» per l'Anp e per il suo premier Salam Fayyad, assomiglia parecchio alle colonie israeliane che si incontrano nei paraggi. Stesso stile, stessi materiali, stessa luce accecante della pietra bianca e (troppi) tetti rossi. Insomma, è una sorta di colonia palestinese contrapposta a quelle ebraiche. Non sorprende perciò che il progetto sia stato accolto freddamente da quella parte di architetti e pianificatori palestinesi indipendenti che avrebbe preferito che la nuova città avesse un look più arabo, più vicina alle belle ed antiche costruzioni palestinesi. Senza dimenticare le critiche degli ambientalisti che sollevano dubbi sulla scelta di costruire Rawabi in una delle poche aree naturali che resistono agli assalti della colonizzazione israeliana della Cisgiordania. Altri hanno criticato il massiccio coinvolgimento d'Israele nel giro di affari ma le principali obiezioni sono venute dai quei contadini che si sono opposti alla cessione dei propri terreni: circa 1/5 di Rawabi viene costruito su terreni requisiti sbrigativamente dall'Anp.

A battersi con più accanimento contro Rawabi sono però i coloni e i loro sostenitori nel governo Netanyahu e alla Knesset. Insieme conducono una battaglia senza sosta contro la nuova città palestinese che, dicono, provoca danni all'ambiente e mette a rischio gli insediamenti israeliani. Accuse paradossali se si considera che i coloni sono i principali devastatori della natura in Cisgiordania dove vivono illegalmente in violazione delle risoluzioni internazionali. Lo scorso autunno Ghilad Erdan, il ministro israeliano dell'ambiente, ha chiesto una approfondita verifica delle ripercussioni della costruzione di Rawabi, in particolar modo per quanto riguarda la discarica dei rifiuti.

Erdan ha mai mostrato tanto rigore e interesse nei confronti delle colonie ebraiche edificate sulle colline palestinesi? Forse, non si sa. È certo invece che Rawabi si trova in buona parte in «area B», la zona della Cisgiordania sotto controllo civile dell'Anp e dove Israele ha il controllo di sicurezza. Le sue strade di accesso perciò si trovano sotto totale controllo dell'esercito di occupazione e dei coloni. La campagna anti-Rawabi si è intensificata da quando si è appreso che una dozzina di aziende israeliane avevano accettato di firmare contratti di forniture con la «Massar», sottoscrivendo, a quanto pare, una clausola che le impegna a non lavorare contemporaneamente negli insediamenti colonici.

Lo scorso anno l'Anp ha lanciato una campagna per il boicottaggio delle colonie e dei loro prodotti che, almeno nella sua fase iniziale, ha conseguito risultati significativi e mandato su tutte le furie i settler israeliani e il governo Netanyahu. Ora, a distanza di mesi, l'offensiva anti-colonie è scemata, sotto l'urto delle pressioni americane.

È stato lo stesso Bashar Masri a rivelare qualche settimana fa che oltre alle 12 società israeliane avevano firmato il contratto proposto dalla «Massar». Non solo. La sua impresa è stata contattata da un'altra ottantina di imprese israeliane che vogliono vendere i loro prodotti e materiali e si dicono disposte a rispettare la clausola sugli insediamenti. Rivelazioni che hanno scatenato un putiferio in Israele. Alcune decine di deputati di diversi partiti si sono prontamente attivati per lanciare una campagna di boicottaggio delle società che si rifiuteranno di avere rapporti commerciali con gli insediamenti colonici. Le imprese impegnate a Rawabi, a cominciare dalla Itung Blocks, per evitare guai, hanno dovuto recitare il mea culpa e la professione di fede agli ideali del sionismo e alla colonizzazione. «Siamo un'azienda israeliana al 100% e partecipiamo alle costruzioni in Eretz Israel (la biblica Terra di Israele)», ha comunicato l'amministratore delegato della Itung, Sasson Har-Sinai. Ma le sue assicurazioni non bastano ai coloni che vogliono mettere alla gogna tutte le imprese «traditrici».

Nota: il fatto che la città nuova sia una fotocopia del sogno americano non è sfuggito a suo tempo alla stampa internazionale, come spiega bene questo articolo dell'australiano The Age tradotto per Mall (f.b.)

La signora dell’architettura è già al lavoro sulla nuova Banca Centrale. E dal governo iracheno arrivano altre offerte

Hadid sogna di riprogettare la capitale del suo Paese

Il suo sogno sarebbe «ricostruire il piano urbanistico di Bagdad dall’inizio, pianificarlo dalle fondamenta». Ma per ora si limita a puntare tutto sulla progettazione dell’edificio della Banca Centrale nel cuore della capitale. In agosto ha vinto la gara aperta a tutti i più grandi studi di architettura mondiali. «È un primo passo. Ci sono altre offerte da parte del governo iracheno. Devo ancora valutarle con attenzione», spiega Zaha Hadid da Londra. Sarebbe la controrivoluzione architettonica nell’era della democrazia contro quella della dittatura. Come Saddam Hussein tra gli anni Settanta e Ottanta fece radere al suolo i quartieri storici della capitale per imporre la sua visione dell’impero in stile assiro-babilonese, così l’architetta cresciuta nella diaspora occidentale, proiettata allo zenit dei nuovi design più avveniristici, pensa di ridare alla città la sua antica dimensione umana.

Un nome che è garanzia d’eccellenza. Nata a Bagdad nel 1950 ed emigrata sin da bambina con la famiglia all’estero, Zaha Hadid ha studiato matematica a Beirut, prima di laurearsi a pieni voti alla Scuola di Architettura di Londra e quindi insegnare a lungo nelle migliori università americane. Lavoro, impegno e grandi successi internazionali sono poi arrivati a cascata. Da quando nel 2004 ricevette il «Pritzker Architecture Prize», il premio Nobel nel suo campo, viene definita la «donna architetto più famosa al mondo». Tra le realizzazioni più note: il trampolino da sci di Innsbruck, il ponte a farfalla di Saragozza, gli uffici centrali della Bmw a Lipsia, il centro acquatico per le Olimpiadi di Londra nel 2012. In Italia ha all’attivo almeno sei progetti maggiori, tra cui il Museo delle Arti Contemporanee di Roma inaugurato l’anno scorso e il complesso City Life a Milano.

Pure, non è strano che la figlia per eccellenza dei circoli più cosmopoliti dell’intellighenzia contemporanea guardi adesso alla «sua» Bagdad come a una grande sfida. «Non ci sono mai tornata dalla mia partenza da bambina. Spero di visitarla, presto. Ma ancora non ho fissato una data», confida. Un anno fa sembrava tutto più facile. Le grandi operazioni militari americane d e l 2007-8 avevano fatto diminuire sangue e massacri ai minimi storici dalla guerra del 2003. Si sperava che le elezioni parlamentari dello scorso marzo avrebbero dato una qualche stabilità. Non è stato così. Il prolungarsi del braccio di ferro tra sciiti, sunniti e curdi per la formazione del nuovo governo è terminato solo una settimana fa e con esiti ancora molto incerti. Nel frattempo gli attentati, specie contro cristiani e sciiti, hanno riacceso le vecchie paure. La Hadid cerca di non parlare di politica. Ma non nasconde che il Paese è ancora immerso sino al collo in un «sacco di gravissimi problemi». Memore dei disastri degli ultimi trent’anni e dello sfascio urbanistico, l’architetto parla da professionista: occorre pianificare tutto da capo. «La prova del nove sta nella volontà del governo centrale di lanciare una nuova pianificazione urbana. L’Iraq necessita di un onnicomprensivo progetto di opere pubbliche che ripensi il Paese dalle macerie in cui è affondato».

La sfida è aperta. Nel 1991 lo scrittore e architetto Kanan Makiya appena fuggito a Londra dall’Iraq pubblicò un v olume, « I l Monumento», con lo pseudonimo di Samir al-Khalil in cui illustrava la grandiosità aggressiva e militaresca dell’architettura imposta da Saddam. Era una durissima critica contro gli Albert Speer iracheni. Vi si riprendeva il tema sempre attuale della strumentalizzazione del paesaggio urbano al servizio della dittatura. Oggi la Hadid vorrebbe davvero cambiare le coordinate di quel periodo. L’Iraq è in ginocchio. Ma non è un Paese del terzo mondo. Le scuole di artisti e scultori hanno riaperto. Le università funzionano. L’embargo internazionale è terminato. Si può volare a Bagdad direttamente da Parigi, Istanbul, Amman, il Kuwait e altri scali sono in apertura. Ecco la speranza: «Il governo vorrà ricostruire musei, teatri e biblioteche. Noi potremo esserci».

Maledetti architetti. Sarà anche vero che i prosperosi abitanti di Abu Dhabi, sprofondati per decenni nelle poltrone di petrodollari, stanno scalando la classifica dell'obesità. Ma bisogna essere cattivi dentro per costringerli a inforcare le scale cancellando ogni traccia di ascensore. Dice: l'avete voluta la prima città completamente ecosostenibile? E in effetti l'argomentazione di Norman Foster, il maestro che ha progettato da zero la città futurista di Masdar, lì nel deserto, non fa una piega.

Però il particolare, che tecnicamente potrà pure essere piccolo, illustra alla grande la filosofia inevitabilmente dirigistica che si nasconde dietro alle planned city, le città su cui dovremmo modellare il nostro futuro ma che nella realtà si rivelano sempre più quello che Masdar riassume già nella sua collocazione geografica. Cattedrali nel deserto, appunto. Città concepite con le migliori intenzioni ma irrimediabilmente disconnesse dal tessuto sociale circostante. Città fantasma.

Prendete proprio Masdar. Maestro Foster, l'architetto inglese che ha ridisegnato Londra piantandoci nella skyline quel pisellone della Millennium Tower, aveva annunciato tre anni fa la commessa miliardaria degli sceicchi con dichiarazioni roboanti. «Le ambizioni ambientali, zero carbone e niente sprechi, sono uniche al mondo - aveva detto Foster - siamo di fronte a una sfida che mette in discussione dalle fondamenta la sapienza urbanistica tradizionale».

L'opera, ci mancherebbe, è da record. La prima delle otto sezioni in cui è articolato il progetto è stata appena completata e Masdar ha subito svelato le sue meraviglie. Il 90 per cento dell'energia arriva dagli impianti solari, le auto elettriche sono attivate da un computer di bordo e tutto il traffico scorre sotto terra - costringendo appunto gli abitanti a riemergere dal sottosuolo a piedi. L'impianto fotovoltaico, l'inceneritore, le riserve acquifere: tutto è finito fuori città. Disegnando una città ideale che il suo creatore non teme di paragonare a un parco giochi: bella e finta come Disneyland.

Peccato che la città ideale di Foster, dice Nicolai Ouroussoff, il critico d'architettura del New York Times che l'ha visitata, «rifletta anche la mentalità da comunità-rinchiusa che si è andata espandendo come un cancro in tutto il globo per decenni». Cioè? «La sua purezza utopica è ancorata nella convinzione che l'unico modo per creare una comunità davvero armoniosa, verde o di qualsiasi altro tipo, è di tagliare ogni legame con il resto del mondo». Una gabbia? Dice Saskia Sassen, che dalla cattedra di sociologia della Columbia di New York ha studiato La città globale, come recita il titolo di un suo famoso libro, che quella gabbia in realtà all'inizio era un giardino: «L'obiettivo era proprio quello di umanizzare l'ambiente. La città giardino nasce così. Ma diventa subito città-cancello».

Città giardino, purezza utopica. Tommaso Moro ci aveva avvisati cinque secoli fa. Foster, per esempio, ha voluto la sua Masdar su un altopiano - per sfruttare la tradizione araba delle gallerie del vento e favorire così una ventilazione naturale - e rigorosamente quadrata: simbolo di perfezione. Beh: ricordate la descrizione della città di Utopia? «Essa giace su un lato di una collina, anzi precisamente su un altopiano. Il suo aspetto è quasi quadrato. E ogni casa ha una porta sulla strada e una sul giardino...». Il problema è che utopia, si sa, non fa rima con democrazia.

Guardate Astana, la città nel bel mezzo di quel particolare deserto che è la steppa del Kazakistan - in un'area che per una tragica ironia della storia ospitava Akmolinskii, uno dei più temibili gulag di Stalin. Anche qui, come a Masdar, sono i soldi del petrolio ad aver richiamato le grandi firme dell'architettura. Ma da Kisho Kurokawa in giù, le sue opere finiscono per cantare le lodi del presidente Nursultan Nazarbayev. Perché poi più che alla vivibilità della gente comune è all'esibizione del potere che le città ideali sembrano improntate.

Per carità, il concetto è vecchio come il mondo. «Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo, e facciamoci un nome», recita Genesi 11, 1-9. È il mito della Torre di Babele, e non si può proprio dire che il concetto di città sia stato benedetto dal Signore Iddio, «che li disperse di là sulla terra, ed essi cessarono di costruire le città». Per poco.

La storia della civiltà negli ultimi cinquemila anni, diceva Lewis Mumford, è la storia della lotta «tra Necropolis e Utopia»: inseguendo il sogno di «un nuovo tipo di città, che ci arricchisca e ci spinga verso lo sviluppo dell'umanità».

Il grande storico scriveva così all'alba degli anni '60. Proprio quando Louis Kahn concepisce il più grande complesso legislativo nel mondo, Jatyo Sanshad Bhabn. Che se tecnicamente non è una vera planned city - è costruita in un sobborgo di Dhaka, nel cuore del Bangladesh - è inevitabilmente una città nella città, e naturalmente la parte più sicura di quella metropoli-mostro da 15 milioni di persone. E sicura appunto perché completamente isolata dal resto.

Insomma gli esperimenti sono andati troppo lontano dalla città ideale che nel quindicesimo secolo sognava Enea Silvio Piccolomini, l'umanista che diventato Papa Pio II - la legge è sempre quella: arte e potere - fondò in Toscana Pienza, il «prototipo» della planned city, la vivibilissima città umanista che ha alimentato per secoli le ambizioni degli architetti: giù giù fino al mitico Le Corbusier.

L'esponente più noto di «quel nuovo fenomeno senza precedenti: l'architetto che è già famoso senza aver costruito niente», secondo la velenosa definizione di Tom Wolfe, è anche quello che più di tutti ha creduto all'utopia delle cattedrali nel deserto. Ma in Maledetti architetti Wolfe è troppo severo. In fondo Chandigarh, la prima planned city indiana, disegnata proprio dal maestro svizzero, è un esperimento che funziona ancora oggi. L'unica città del subcontinente in cui il traffico non va in tilt di default, grazie ai boulevard con cui "Corbù" aveva schiacciato la tradizione indiana delle labirintiche cittadelle indiane. La città fantasma può popolarsi di umanità? «La città è un sistema complesso, che dà origine a reazioni inaspettate che nessun pianificatore può prevedere», dice ancora Sassen. Tra vent'anni, più di 5 miliardi di persone vivranno in agglomerati che assomiglieranno sempre più alle megacities spaventose come Lagos o Karaki - aggiunge il critico di Time, Bryan Walsh - piuttosto che nelle metropoli come le conosciamo: New York, Londra, la stessa Pechino.

Ma l'alternativa sognata non si vede. E chissà per quanto tempo ancora le cattedrali nel deserto continueranno ad assomigliare agli incubi di J. G. Ballard, il romanziere che nei ghetti di lusso stile Masdar ha immaginato così tanti orrori da farci accucciare per sempre nelle nostre casette, in queste nostre città eco-insostenibili e qualunque.

Titolo originale: The Geometry of Sprawl – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Nel suo romanzo L’incanto del lotto 49 (The Crying of Lot 49) Thomas Pynchon descrive un suburbio: “più che una città chiaramente identificabile era un agglomerato di concetti – padiglioni censimento, distretti cedole obbligazioni speciali straordinarie, centri commerciali, tutti attraversati da una rete di strade di accesso all’arteria principale”. La protagonista, Oedipa Maas, “guardò dall’alto di un pendio aggrottando gli occhi per il troppo sole, alla vasta distesa di fabbricati spuntati tutti insieme come un campo ben tenuto, dalla terra marrone e opaca” scrive Pynchon, “e pensò a quella volta che aveva aperto una radio a transistor per cambiare una pila e s’era incontrata col suo primo circuito stampato. L’ordinato vortice di strade e case, viste da quell’altezza, le saltava agli occhi con la stessa insospettata e stupefacente chiarezza del circuito stampato”. Questo sistema architettonico che le si dispiega davanti comunica, secondo Pynchon, un “senso e un geroglifico di significati riposti”.

Christoph Gielen, fotografo di origine tedesca, documenta geroglifici del genere da un elicottero — come le carceri o i suburbi — da cinque anni. Gli spazi che sceglie si distinguono per la chiarezza: scatole, nodi, labirinti, semicerchi, sottolineature della nuda topografia che li circonda.

Gli scatti fotografici di una prigione si devono fare in fretta, sottolinea Gielen, presi al volo durante l’equivalente aereo di un solo passaggio in auto: se no, la sigla di identificazione di un elicottero che sta fermo un po’ troppo potrebbe essere notata dalle guardie, e inevitabilmente susciterebbe domande. Così le sue visite sono calibrate un po’ come attacchi di guerriglia, anche se si tratta di cose formalmente legali, e sarebbero comunque facilmente disponibili al grande pubblico le vedute dal satellite dei medesimi luoghi.

Attraverso l’obiettivo di Gielen, il cortile dell’ora d’aria diventa solo un’altra gabbia, claustrofobica protesi dietro la prigione vera e propria; qualunque libertà o occasione fisica possa offrire, appare adeguatamente assurda da questa altezza.

Nelle spedizioni suburbane di Gielen, il metodo è di iniziare dalla ricerca via satellite, studiando il paesaggio dettagliatamente fin quando si individua una geometria adeguatamente e visivamente provocatoria. Poi ci si avvicina agli ambienti scelti con qualche sopraluogo in auto, fingendosi un potenziale acquirente di casa e facendo un giro insieme a un agente immobiliare, per capire le aspirazioni profonde dell’area: il suo modo di considerarsi, o quantomeno l’immagine che emerge dagli opuscoli promozionali e dagli annunci di vendita. Lungi dall’umanizzare un po’ l’argomento, tutto questo aggiunge un altro livello di astrazione, in cui l’estetica del paesaggio – o meglio la sua assenza - si fa calcolo economico. Infine la scelta di Gielen di mantenere anonimi i suoi spazi ne aumenta ancora di più ’s l’estraneità.

I suburbi dell’area Sun Belt (Arizona, Nevada ecc. n.d.t.) proposti da questi scatti sono “assolutamente compiuti” come spiega Gielen; in parecchi casi “non si trasformano più”. Statici, cristallini, inorganici. In realtà, le loro vie scorrono fra case di pensionati: luoghi in cui ci si trasferisce dopo essere stati ciò che si voleva essere. In senso proprio, non si tratta neppure di sprawl. Ma di luoghi a sé: terminali spaziali di un viaggio del destino.

Osservando il lavoro di Gielen, viene la tentazione di proporre una nuova branca delle scienze umane: la sociologia geometrica, studio di null’altro se non le forme degli spazi che non abitiamo. Il suo programma di ricerca sarebbe di chiedersi perché mai queste forme, angoli, geometrie, si ripropongano tanto coerentemente dagli insediamenti preistorici sino al suburbio estremo. Sono forse, spazi come questi, la ricerca di una estetica, una probabilità statistica, una consapevole manipolazione di confini di proprietà da parte della pianificazione urbanistica locale, o il risultato di un po’ di tutte queste componenti? Oppure ancora, si tratta dell’espressione di qualcosa di più profondo nella cultura e nell’inconscio umano, qualcosa che si riesce a vedere solo da grandi altezze?

QUI (sito del New York Times) le suggestive diapositive del lavoro di Gielen (f.b.)

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