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Il Fatto Quotidiano, 7 maggio 2016 (p.d.)

Sarà forse la giustizia penale a far luce sull’ultimo tassello, o meglio il primo, della crisi dello spread che avvolse l’Italia nel 2011, causando la fine prematura del governo Berlusconi. E l’attore è sempre lo stesso: la Procura di Trani. Deutsche Bank è infatti indagata per manipolazione del mercato per la “massiccia” vendita “nel brevissimo termine”, di 7 degli 8 miliardi di euro di titoli di Stato italiani che deteneva all’inizio del 2011. Sotto inchiesta sono finiti gli ex vertici del primo istituto tedesco: l’ex presidente Josef Ackermann, gli ex co-ad Anshuman Jain e Jürgen Fitschen (quest’ultimo è co-amministratore delegato uscente della Banca), l’ex capo dell’ufficio rischi Hugo Banziger, e Stefan Krause, ex direttore finanziario ed ex membro del board.

Le indagini sono coordinate dal pm Michele Ruggiero, che nei giorni scorsi ha fatto perquisire, sequestrando atti e mail, la sede milanese della banca, ascoltando come testimone il responsabile per l’Italia, Flavio Valeri, estraneo alla vicenda. Poi toccherà a Romano Prodi e all’allora ministro dell’Economia Giulio Tremonti essere sentiti come testimoni. Fu Prodi, infatti, il primo ad avanzare l’ardita ipotesi che fu quell’operazione ad avviare la tempesta sull’Italia.

Secondo l’accusa, gli ex vertici, mentre a febbraio e marzo comunicavano ai mercati che il debito italiano era sostenibile, nascondevano, anche al Tesoro italiano, che si stavano liberando e in fretta dell’esposizione sui mercati non regolamentati. Per Ruggiero, la vendita fu poi “falsamente” giustificata a posteriori con la necessità di ridurre la sovraesposizione sull’Italia dopo l’acquisto di PostBank. In quel periodo Deutsche Bank acquistò anche 1,4 miliardi di Credit default swap (Cds), cioè assicurazioni sul rischio di perdite. Secondo Ruggiero, mentre la banca rassicurava i mercati, si copriva e vendeva a mani basse, e questo ha alterato la formazione del prezzo dei titoli sia prima - quando il mercato sarebbe stato all’oscuro - sia dopo, lanciando “un chiaro segnale di sfiducia del gruppo nei confronti della tenuta del debito italiano”. È l’ultimo atto della procura tranese che ha già trascinato a processo per manipolazione del mercato le agenzie di rating Fitch e Standard & Poor’s per il declassamento del rating dell’Italia tra il 2011 e il 2012.

Per la banca si tratta di “un’indagine priva di fondamento”, ma la notizia ha scatenato ovvie reazioni. Per Renato Brunetta (Fi) “avevamo ragione: fu un complotto. È assordante il silenzio di Renzi. Serve una commissione d’inchiesta”. Stessa tesi di Adusbef e Federconsumatori. Abbraccio e baci tra Renzi e Merkel mi hanno fatto schifo”, ha attaccato Matteo Salvini. Stando a quanto apprende il Fatto, la vicenda è connessa alle indagini - poi trasmesse a Roma - sui derivati di Stato, sottoscritti anche da Detusche Bank.

Vicenda complessa. Il 26 giugno 2011, la banca rivelò di essere passata in 6 mesi da 8 miliardi a 997 milioni di euro di titoli italiani (-87,5%). Krause spiegò agli analisti che questo era avvenuto perché l’istituto aveva consolidato a bilancio anche l’esposizione di Postbank, acquistata nel novembre 2010. Fece lo stesso anche con altri Paesi periferici ma in misura molto più ridotta. La cosa colpì il Tesoro perché la banca era una specialista di titoli di Stato italiani di cui contribuiva a farne il prezzo nelle aste. Stando ai bilanci, Postbank era esposta per 4,6 miliardi nel 2010, cifra che però rimane uguale nel 2011, per poi scendere a 3,4 miliardi nel 2012. DB, invece, passa nel 2011 da 8 a 1,7 miliardi. Fino al 2012, il valore teorico dell’esposizione è negativo (3,9 miliardi), ma viene compensato in parte da quello in “derivati” verso l’Italia che però cresce nel tempo (+2,3 e +3,2 miliardi) fino diventare positivo nel 2013 (3,8 miliardi nel 2014). Probabile che la copertura dei Cds abbia ben più che attutito l’urto, e forse la banca con una mano ha venduto e con l’altra ha acquistato, guadagnandoci.

In questo meccanismo l’Italia è finita stritolata. Da luglio lo spread inizierà la sua cavalcata da 183 agli oltre 500 punti di novembre 2011, quando cadde Berlusconi. Sono mesi in cui il premier - spalleggiato anche da Brunetta - litigava con Tremonti, contrario ad allentare il rigore, screditando l’Italia. Ma le turbolenze iniziarono al vertice di Deauville dell’ottobre 2010, dove Francia e Germania dichiararono che i debiti sovrani dell’Eurozona potevano fare default. La successiva rottura dell’asse franco-tedesco spinse le banche a vendere i titoli dei Paesi periferici. Deutsche Bank ci andò giù pesante. Chi visse quel periodo ai massimi vertici del Tesoro rivela: “Il problema era ed è sempre stato la Grecia. L’Italia si oppose a usare il fondo Salva Stati per salvare Atene in una modalità che avrebbe aiutato le banche tedesche e francesi, pesantemente esposte. In quel caso, i contributi al Fondo dovevano essere calcolati non sul Pil ma sul rischio delle banche. Lì inizio la fine del governo. E l’operazione Deustche fu forse solo uno dei sistemi di pressione, culminati con la lettera della Bce di Agosto. Poi arrivò Monti e diede l’ok”.

L'articolo di Piero Bevilacqua su sinistra e ambiente, e in particolare la sua osservazione sul carattere industrialista e "sviluppista" dell'Unione sovietica mi induce a una riflessione su un punto che mi sembra oggi particolarmente rilevante per comprendere "dove dirigere" le nostre energie e le nostre speranze.

Non sono un esperto della letteratura marxiana e marxista, ma mi sembra di poter affermare che nella pratica delle politiche d'ispirazione marxista si sia via via trascurata una delle componenti del pensiero del sociologo di Treviri: cioè l'esigenza di "uscire dal sistema capitalistico". Porsi l'obiettivo di soddisfare questa esigenza avrebbe significato impegnarsi a pensare e a costruire un sistema economico del tutto diverso da quello inventato, e poi via via trasformato, nel mondo occidentale.

La sinistra novecentesca ha dimenticato, questa esigenza, sia nei paesi occidentali sia ad Est (con pochissime eccezioni, tra cui l'Enrico Berlinguer del "compromesso storico"). Ad Occidente, e in particolare in Europa, le classi lavoratrici, a partire dal proletariato operaio, hanno lottato vigorosamente per ottenere una parte della ricchezza prodotta maggiore di quella che le classi dominanti erano disposte a concedere. Ne hanno beneficiato i popoli dei paesi in cui la sinistra sindacale o politica guadagnava posizioni di potere (e ne hanno sofferto i popoli delle regioni del mondo in cui i capitalisti "esportavano le contraddizioni" sostituendo lo sfruttamento delle risorse altrui al minor sfruttamento dei "loro" proletari.)

Là dove è andato al potere il "marxismo incarnato" - come osserva Bevilacqua - è stato "svilupppista": ha costruito forme del sistema capitalistico dell'economia diverse da quelle occidentali per un solo aspetto essenziale (la proprietà dei mezzi di produzione è passata dai privati allo Stato), ma non è uscito dalla logica di quel sistema.

Che ciò sia accaduto è stato certamente decisivo per le sorti del pianeta, poiché ha consentito di costruire l'Urss, e quindi quella realtà statuale senza la quale le democrazie liberali dell'Occidente non avrebbero vinto la mostruosa macchina totalitaria dell'Asse Berlino-Roma-Tokio e il mondo sarebbe stato dominato dal nazifascismo (ricordiamolo il prossimo 25 aprile).

Ma la tensione a immaginare e costruire un sistema economico non più basato sulla riduzione del lavoro a merce si era spenta, prima ancora di essere seppellita sotto le macerie del Muro di Berlino Riemerge oggi, al cospetto di una crisi del capitalismo che appare più grave delle altre. Speriamo che trovi le teste e le braccia per affermarsi. Senza dimenticare che Proteo ha grandi capacità di trasformarsi rimanendo uguale a se stesso, e che finché il sistema capitalistico sopravvive dovremo ricordare con Bertold Brecht che il ventre che generò il nazismo è ancora fertile.

la Repubblica e il Fatto Quotidiano, 4 aprile 2016 (m.p.r.)

La Repubblica

DA PUTIN A RE E POLITICI
ECCO I SEGRETI DI PANAMA PARADISO FISCALE PER I
di Paolo Biondani, Vittorio Malagutti e Leo Sisti
La più grande fuga di notizie finanziarie mai avvenuta. Milioni di pagine di documenti che raccontano quarant’anni di affari offshore per conto di capi di governo e politici di tutto il mondo, imprenditori, personaggi dello sport e star dello spettacolo. Tutto parte dallo studio legale Mossack Fonseca, con base a Panama city, nel cuore di uno dei più efficienti paradisi fiscali del mondo, finora impenetrabile. Grazie a un informatore, i giornalisti del quotidiano tedesco Suddeutsche Zeitung e poi dell’Icij (International consortium of investigative journalists) hanno avuto accesso a un enorme archivio di carte segrete.

Nei documenti, analizzati in esclusiva per l’Italia da l’Espresso, compare una cerchia di uomini molto vicini al presidente russo Vladimir Putin. E troviamo pure il padre, deceduto nel 2010, del primo ministro britannico David Cameron, proprio lui che è da anni impegnato in una crociata contro i paradisi fiscali. Poi c’è il presidente ucraino Petro Poroshenko. Lo staff del leader di Kiev ha precisato che le tre holding registrate tra le Isole Vergini e Cipro «non hanno nulla a che fare con l’attività politica». Nel caso di Putin, le carte di Panama documentano dozzine di transazioni riservate, riconducibili a persone o società legate al leader russo, per un totale di circa due miliardi di dollari.
L’attuale presidente dell’Argentina, l’imprenditore Mauricio Macri, risulta amministratore di una società alle Bahamas. Contattato dall’Icij, un suo portavoce ha risposto che quella offshore faceva capo alla famiglia di Macri, non a lui personalmente. Anche il calciatore Lionel Messi, già sotto inchiesta in Spagna per evasione fiscale, si è rivolto allo studio Mossack Fonseca per creare una offshore. E nelle carte spunta pure il nome dell’attore Jackie Chan, con sei società.
Nell’immenso archivio panamense, come rivela il sito de l’Espresso, compaiono circa 800 nominativi italiani, tra cui Luca Cordero di Montezemolo, l’ex pilota di formula Uno, Jarno Trulli e due grandi banche come Unicredit e Ubi. Del resto, l’archivio segreto evidenzia che alcuni colossi finanziari globali sono coinvolti nella creazione di offshore al servizio di migliaia di clienti: si tratta di oltre 15 mila società anonime, collegate a istituti di credito come la svizzera Ubs e la britannica Hsbc.
La banca dati svela anche patrimoni segreti di altri potenti del mondo. La famiglia del presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev, ha usato società di Panama per nascondere partecipazioni in miniere d’oro. I figli del premier pakistano, Nawaz Sharif, hanno comprato palazzi a Londra. E in Cina almeno otto tra ex e attuali componenti del comitato centrale del Partito comunista dispongono di società in paradisi fiscali: tra loro c’è il cognato del presidente Xi Jinping. Tramite lo studio Mossack Fonseca, sono state create anche le offshore a cui sono intestati gli yacht del re dell’Arabia Saudita, Salman bin Abdulaziz Al Saud, e del sovrano del Marocco, Mohammed VI. E c’è il cugino del dittatore siriano Bashar Assard, spesso indicato come “il cassiere del regime”.
L’inchiesta giornalistica è durata più di un anno, da quando 11,5 milioni di file panamensi sono stati recapitati alla Suddeutsche Zeitung, che tramite Icij li ha poi condivisi con 100 testate rappresentate da 378 giornalisti di un’ottantina di Paesi. Sullo stesso archivio sono già al lavoro anche le autorità fiscali della Germania, mentre il fisco Usa e inglese potrebbero presto acquisirli. I documenti riguardano oltre 200 mila società con sede in 21 paradisi fiscali, dai Caraibi a Cipro. Mai prima d’ora una simile mole di dati riservati era stata messa a disposizione della pubblica opinione e degli inquirenti.
I file descrivono operazioni che vanno dal 1977 alla fine del 2015. E illuminano per la prima volta la gestione di enormi flussi di denaro attraverso il sistema finanziario globale. Soldi legittimi se dichiarati all’Erario, ma che spesso vengono nascosti perché frutto di reati come evasione fiscale o corruzione.
In una risposta scritta alle domande dell’Icij, lo studio Mossack Fonseca ha affermato di «non aver mai agevolato o promosso operazioni illegali» Ramon Fonseca, uno dei due soci fondatori, intervistato da una tv panamense, ha precisato che lo studio «non ha responsabilità per ciò che i clienti fanno con le loro offshore», così come una casa automobilistica non ha colpe «se la macchina viene usata per fare una rapina».
Il Fatto Quotidiano
COSÌ I RICCHI DEL MONDO NASCONDONO I LORO MILIARDI
di Leonardo Coen

Altro che Spotlight, il film sullo scandalo dei preti pedofili di Boston. Siamo di fronte al Watergate dell’evasione mondiale. I giornalisti investigativi del consorzio americano Icij (cui aderisce, in Italia, l’Espresso), grazie ad una “gola profonda” - almeno, questa la versione ufficiale - hanno avuto la possibilità di consultare 11 milioni e mezzo di file su 200mila società offshore basate principalmente a Panama. Dove i potenti del mondo, i loro familiari e migliaia di vip hanno nascosto i loro soldi. Nomi come Putin. Come Cameron. Come i leader cinesi. Come Messi. Come l’attore di Hong-Kong, Jakie Chan. Come tanti italiani: per esempio, Luca Cordero di Montezemolo. L’ex pilota di Formula1, Jarno Trulli. O l’imprenditore Giuseppe Donaldo Nicosia, latitante, coinvolto in un’inchiesta per truffa con Marcello Dell’Utri: gli italiani coinvolti nel giro sarebbero circa 800.

I documenti riguardano operazioni effettuate dal 1977 alla fine del 2015. È probabilmente la fuga di notizie più clamorosa nella storia della finanza, o meglio dell’evasione, se, come pare, le banche e gli studi legali che hanno usufruito dei servizi offerti dall’offshore Panama “non avrebbero seguito le norme che permettono di individuare i clienti coinvolti in attività illegali”. Tutto nasce, sempre che questa sia la storia vera, da qualcuno che può accedere all’archivio dati dello studio legale Mossack Fonseca che ha base a Panama City, uno dei paradisi fiscali più efficienti e discreti del mondo, nonostante di recente ci siano state pressioni da parte Usa perché le cose cambino come è successo per la Svizzera.
Questo Mister X, un anno fa, decide di spedire al quotidiano tedesco Suddeutsche Zeitunguna la prima dose di file. Il giornale è nel circuito dell’Icij. Farne parte, significa condividerne gli scoop. Contemporaneamente, vengono avvisate le autorità fiscali di vari Paesi, a cominciare ovviamente da Germania e Usa, dove ha sede il consorzio dei giornalisti 007. Si decide di procedere, per il momento, in assoluto riserbo. Tant’è che i file sono aggiornati al mese di dicembre 2015, segno che Mister X non era stato ancora individuato. In realtà, Panama è il centro di smistamento dei miliardi imboscati: sinora, sono stati individuati 21 paradisi fiscali sparpagliati per mezzo globo, dai “classici”delle isole caraibiche, sino a Cipro - meta preferita dei russi - per arrivare in Nevada, spina nel fianco del moralismo a stelle e strisce.
I modi per celare i quattrini sono tra i più fantasiosi: trust e fondazioni (che a loro volta possono godere di altri vantaggi fiscali), più le solite società che rimandano ad altre società, in un gioco di scatole cinesi gestite con codici e password in continuo aggiornamento. Soldi, specie quelli infrattati dai politici, significano corruzione, furto, collusione col crimine organizzato. Sono 15.300 le sigle di comodo costituite dalle banche (colossi come la svizzera Ubs - amata da Gelli - e la britannica Hsbc). Ci sono società offshore che conducono al cerchio magico del Cremlino, agli uomini cioè di Putin, altre che portano al suo nemico, il presidente ucraino Petro Poroshenko (compreso il padre), a dimostrazione che pecunia non olet mai e non ha frontiere, quando si tratta di sottrarlo al fisco. Che dire allora di David Cameron, che a parole lancia una crociata politica contro l’evasione e poi nei fatti. Una nota meritano i fondatori dell’ineffabile studio legale Mossack-Fonseca, approdati a Panama alla fine del 1975. Juergen Mossack, origini tedesche, venne col padre, ex SS. Ramon Fonseca, invece, è divenuto famoso come scrittore e per anni è stato nel salotto buono del potere, in qualità di consigliere della presidenza. A marzo, quando l’Icij è uscita allo scoperto, ha capito che non poteva più mantenere quell’incarico e si è messo in aspettativa.


Corriere della sera, 27 febbraio 2016

«Ai miei popoli». Così iniziavano i manifesti dell’imperatore absburgico e così iniziava pure quello con cui Francesco Giuseppe annunciava lo scoppio della Prima guerra mondiale che avrebbe dissolto il suo Impero.L’immagine dei «miei popoli» suggerisce un’atmosfera di concordia armoniosa, di nazionalità diverse pacificamente conviventi grazie al sentimento di appartenere a una compagine plurinazionale, garante delle singole culture.

Alcuni ora si stupiscono di vedere che, nella chiusura di frontiere e nella costruzione di steccati e reticolati per respingere le ondate di migranti, si distinguano per particolare zelo gli Stati nati dalla dissoluzione dell’impero absburgico, dall’Austria all’Ungheria alla Repubblica Ceca e a vari Stati balcanici. Ciò è doloroso, ma non è tanto strano. Anzitutto lo stesso impero absburgico, ex patria comune di molti di quei Paesi, era minato da quegli odi nazionali che divampavano all’ombra della sua grande idea sovranazionale, certamente foriera di civiltà ma talora contraddetta dalla sua stessa politica e alla fine stravolta dalla distruttiva e autodistruttiva esplosione dei vari nazionalismi, sempre più scatenati all’interno dello stesso impero come pressoché dovunque in Europa.

Le relazioni fra austriaci e ungheresi, nella Duplice monarchia austroungarica, ad esempio, erano tutt’altro che rosee. Una guerra doganale tra l’impero d’Austria e il regno d’Ungheria aveva indotto quest’ultimo a considerare e a risarcire come vittime di guerra commercianti ungheresi gravemente danneggiati dai dazi austriaci. I rapporti tra ungheresi e slovacchi e croati, italiani e sloveni, ruteni e polacchi erano spesso duramente conflittuali. In alcuni reggimenti ungheresi si brindò alla notizia dell’assassinio a Sarajevo di Francesco Ferdinando, perché quest’ultimo era fautore del trialismo ossia voleva dare ai diversi popoli slavi, numerosi nella compagine absburgica, una dignità e un potere pari a quelli degli ungheresi e degli austriaci. La Storia è ricca di contraddizioni: l’Austria, culla di un grande pensiero sovranazionale, è stata un fecondo vivaio del nazismo.

Non c’è dunque solo da stupirsi se molti Paesi ex absburgici si rivelano non meno duramente chiusi di altri Paesi all’accoglienza dei dannati della terra che arrivano da ogni parte. Già molti decenni prima dell’immigrazione attuale molti di essi hanno avuto i loro sogni e progetti nazionalisti: il sogno della Grande Ungheria, della Grande Romania e altri ancora, ognuno dei quali presupponeva la sopraffazione del vicino. Inoltre la durata della Storia è lunga, affonda nei secoli, ma è anche breve, almeno alla mutevole e violenta superficie. Tito si stilizzava come un Francesco Giuseppe per la sua creazione di una Jugoslavia plurinazionale e unita in un senso di comune appartenenza e destino e tale essa per un certo periodo è stata, ad esempio nel periodo delle tensioni con l’Italia. Pochi decenni dopo, quell’unità si è infranta in una guerra atroce e fratricida, che ha reso i popoli balcanici ferocemente stranieri e nemici gli uni agli altri. Se serbi e croati si sono massacrati per qualche spostamento di frontiere, non è strano anche se è drammatico che ora chiudano le frontiere a genti lontane e indistinte.

Inoltre quasi tutti i Paesi ex absburgici hanno vissuto molti decenni di giogo sovietico, che ha pesantemente influito sulla loro realtà e sulla loro identità e forse sono ancora troppo occupati a leccarsi quelle proprie ferite per poter aprirsi agli altri. Del resto altri Stati europei, che non hanno avuto quegli sconquassi, non si dimostrano certo più sensibili alle tragedie che arrivano alle nostre porte. Quelle frontiere chiuse, quei reticolati non si spiegano tanto col passato di chi li innalza, ma con la crescente e paurosa instabilità che sta cambiando il mondo in una misura apparentemente inarginabile e che sarà sempre più difficile fronteggiare umanamente. Il problema non è costituito dalle barbariche predicazioni di odio e di paura che si sentono spesso. Il fenomeno delle migrazioni sta diventando un processo mondiale che il nostro sistema di vita non è capace di ordinare. Quelle fiumane di gente sventurata che chiede solo di poter vivere potrebbero diventare così grandi da rendere oggettivamente difficile dar loro la possibilità di vivere. Forse quelle migrazioni sono l’avanguardia oscura di un grande e non lontano cambiamento simile alla fine del mondo antico, un cambiamento che non riusciamo a immaginare. I nuovi, arroganti e beoti padroni della terra si illudono che il loro dominio, i loro bottoni che spostano a piacere uomini, cose, ricchezza e povertà, sia destinato a durare in eterno. Esso potrebbe crollare come è crollata Babilonia e i migranti di oggi o meglio i loro prossimi discendenti si aggireranno fra le rovine della ricchezza tracotante e volatilizzata come un tempo i barbari fra le colonne e i templi abbandonati.

Il manifesto, 21 febbraio 2016 (m.p.r.)

Nella classica ottica nazionale, che sempre meno spiega e sempre più mistifica, si potrebbe sostenere che il Regno unito l’ha spuntata sull’Europa continentale, almeno su quella sua parte che ancora sventola, ormai più a parole che a fatti, la bandiera dell’integrazione. Non è così.

Quella a cui abbiamo assistito è l’ennesima vittoria delle élites finanziarie nel loro complesso su tutti i cittadini del Vecchio continente. O, per dirla in termini ormai messi al bando, dell’accumulazione di capitale sulla libertà della forza lavoro. Non si è trattato, insomma, di un poker diplomatico, o di una pura e semplice esibizione a beneficio delle opinioni pubbliche nazionali, ma di un esempio da manuale della lotta di classe. Quella condotta dall’alto, naturalmente. Ma procediamo con ordine.

Già da diverso tempo è stata coniata, e circola con sempre maggiore insistenza, l’orribile espressione di «turisti del welfare». Si intende con questa insolente definizione il nomadismo dei lavoratori precari attraverso i paesi dell’Unione alla ricerca di contesti, occasioni, diritti e livelli di vita più soddisfacenti. L’intermittenza e il nomadismo sono, a ben vedere, le caratteristiche più peculiari di una parte crescente della forza lavoro contemporanea che nessuna pianificazione nazionale potrà mai riassorbire. Sono l’espressione di modelli produttivi ormai affermati.

La mobilità è infatti un requisito professionale e, al tempo stesso, una delle risorse principali attraverso le quali, in assenza di diritti comunitari omogenei, i singoli possono tentare di costruirsi un habitat, sia pure provvisorio, che corrisponda in qualche modo alle loro aspettative. La pretesa britannica di negare o ridurre le prestazioni sociali per 13 anni (ne hanno ottenuti poi «solo» 7) ai lavoratori in provenienza da altri paesi dell’Unione è un attacco diretto alle condizioni di vita di questo precariato in movimento e un deciso passo avanti nell’organizzazione gerarchica della vita sociale.

Vi sono pochi dubbi che questa voce di «risparmio» possa far gola ad altri paesi con welfare molto sviluppato e forse non solo a quelli. Anzi, è quasi inevitabile che la discriminazione diventi una regola. Si assisterebbe così a una nobile gara a rendersi il più inappetibili possibile per il «turista del welfare», il parassita intracomunitario per antonomasia. Sull’esempio di analoghe politiche di deterrenza, teorizzate e praticate da paesi come la Danimarca e la Svezia nei confronti dei richiedenti asilo, ai quali si prospettano e poi si impongono condizioni di accesso sempre più proibitive e vessatorie. Il rapporto con i migranti, è bene tenerlo a mente, ci riguarda tutti molto da vicino. Il risvolto politico è immediato. La non discriminazione, quanto a diritti e garanzie, dei cittadini europei che risiedono e lavorano in un paese diverso da quello di origine era forse l’unico ambito in cui la cittadinanza europea risultasse davvero effettiva.

Tanto che paradossalmente solo spostandosi si poteva avere la percezione di goderne i vantaggi. La limitazione imposta da Londra (con il solito pretesto di una inesistente emergenza a cui metter freno) e le emulazioni che certamente ne seguiranno, assestano così, assieme al continuo ripristino dei controlli di frontiera, un colpo mortale alla già fragile cittadinanza europea. C’è poco da stupirsene visto che il Regno unito vede da sempre l’Europa politica come il fumo negli occhi. Ma anche da altri paesi del continente si levano voci di ringraziamento a David Cameron per aver contribuito ad allontanare l’incubo di una maggiore integrazione politica in Europa.

A tutti è chiaro, anche se nessuno vuole ammetterlo esplicitamente, che lo statuto particolare concesso al Regno Unito comporta riflessi assai rilevanti per tutta l’Unione, ben oltre i contenuti effettivi del “compromesso” raggiunto a Bruxelles. Tutti si sentiranno meno vincolati, tutti autorizzati a issare la bandiera della «priorità nazionale». Ma, soprattutto, la permanenza della Gran Bretagna nell’Unione, paese ritenuto il più squisitamente liberista e devoto al libero mercato, viene apprezzata come un antidoto a qualsiasi rischio di «deriva» sociale o solidaristica dell’assetto comunitario.

C’è infatti un «turismo» che, a differenza di quello del welfare, è decisamente più gradito. È il turismo delle condizioni fiscali migliori, della deregulation più permissiva, del costo del lavoro più basso e dei lavoratori più indifesi. Il turismo del capitale non prevede né visti né dilazioni e pretende sempre accoglienza trionfale. La City non intende affatto «armonizzarsi» con le regole bancarie dell’eurozona, ma non rinuncia a operare in piena libertà e senza impedimenti di sorta nello spazio del mercato comune. Il protezionismo applicato alla circolazione delle persone non si applica a quella dei capitali.

Certo, non sono mancate preoccupazioni e proteste per la concorrenza che istituti finanziari senza vincoli possono esercitare nei confronti di istituti sottoposti a regole, né riguardo a quanta voce in capitolo, senza alcuna contropartita in termini di obblighi, avrà effettivamente Londra sulle decisioni e gli orientamenti dell’Unione europea. Ma il sistema della competitività e la fede nel mercato sembrano avere prevalso su questo ordine di preoccupazioni. Alla spregiudicata compagnia della City non si vuole comunque rinunciare. Se qualcuno immaginava uno scontro aspro tra l’ordoliberalismo tedesco e il liberalismo anglosassone sarà rimasto deluso.

Inoltre, tutta questa faticosa messa in scena potrebbe non servire a nulla. Il 23 giugno i britannici voteranno sulla permanenza del loro paese nell’Unione e, tra nostalgici dell’impero, filoatlantici e nazionalisti xenofobi, il bottino di Cameron rischia fortemente di non bastare a evitare il Brexit. Del resto possiamo essere certi che il referendum in Gran Bretagna non farà la fine di quello di Atene. Ma, visto il ruolo che vi svolge e che le élites finanziarie le assegnano, dovremmo davvero disperarci per il commiato della Gran Bretagna dall’Unione? Dalla quale, per quel che ci preme, si può dire che sia già fuori.

Con l'Italia è l'insieme del sistema capitalistico che è in crisi profonda.Si avverano le peggiori previsioni degli economisti: siamo entrati in una «una “stagnazione secolare” per il mondo intero, con il corollario dell’incremento a dismisura delle diseguaglianze». Il manifesto, 19 febbraio 2016

No, non ce la fa. L’economia mondiale non si riprende. Anzi. L’ultima botta all’ottimismo incosciente lo ha dato nientemeno che l’Ocse, dopo che già il Fmi, qualche settimana fa, aveva abbassato le stime della crescita. Secondo l’organizzazione di Parigi il Pil globale aumenterà del 3% nell’anno in corso e del 3,3% nel 2017. Si tratta in entrambi i casi di uno 0,3% rispetto alle precedenti previsioni. In questo modo l’espansione del Pil globale nel 2016 non risulterebbe diversa da quella del 2015, che “di per sé aveva segnato il ritmo di crescita più lento degli ultimi cinque anni”. Le economie emergenti rallentano in modo vistoso. C’è chi dice che l’India forse supererà la Cina, ma in una corsa al ribasso. Per quanto riguarda l’Eurozona, dice l’Ocse, i potenziali benefici della riduzione del prezzo del petrolio non si sono fatti sentire. I bassissimi tassi di interesse e l’euro debole non sono bastati per favorire uno sviluppo degli investimenti, mentre le sofferenze bancarie “restringono il canale creditizio della trasmissione della politica monetaria”. Per cui è prevedibile che gli effetti di una nuova espansione di quest’ultima, prevista dopo la riunione della Bce del prossimo 10 marzo, siano già alle spalle o rimangano strozzati dal mal funzionamento generale del sistema. Col “sindacalese” di una volta si sarebbe detto che il “cavallo non beve”.

L’Italia è in linea con queste pessime previsioni. Non c’è da stupirsi quindi se l’Ocse ci attribuisce un aumento del Pil del solo 1%, in netta retrocessione rispetto all’1,4% attribuitoci solo nel novembre scorso. Del resto anche la Corte dei Conti si fa sentire. Il Presidente Raffaele Squitieri all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2016 spegne ogni speranza sulla spending review renziana, che viene anzi considerata responsabile della riduzione dei servizi reali ai cittadini, in nessun modo considerabili superflui. Basta gettare un occhio alla sanità pubblica!

Lawrence Summers può quindi tornare sulla sua analisi preferita, quello che lo portò alla fine del 2013 a diagnosticare una “stagnazione secolare” per il mondo intero, con il corollario dell’incremento a dismisura delle diseguaglianze. Peraltro con il sostanziale accordo di Paul Krugman. L’altro giorno scriveva sul Financial Times che: “Il coordinamento globale dovrebbe smetterla di perdere tempo dietro ai luoghi comuni su riforme strutturali e risanamento dei conti pubblici e lavorare per garantire una domanda adeguata a livello globale.” Invece in Europa si fa l’esatto contrario. Mentre la prospettiva di una nuova fase recessiva dell’economia americana è tutt’altro che fantascientifica. Summers la prevede in termini molto pesanti già per l’anno in corso e soprattutto per i prossimi due. Janet Yellen, presidentessa della Fed, fa capire di temerla visto che ha bloccato il rialzo dei tassi e anzi non esclude persino di portarli in territorio negativo. Le minute dell’ultimo consiglio della Bce di gennaio non solo rivelano le divisioni al proprio interno, ma molto scetticismo sulla possibilità d’impedire o solo frenare l’avvitamento verso il basso dell’inflazione, malgrado l’ottimismo della volontà di Mario Draghi.

La definizione “stagnazione secolare” non è nuova. Venne coniata da Alvin Hansen, uno dei più importanti seguaci e propalatori delle teorie di Keynes. Secondo Hansen, apprezzato anche da Paul Samuelson e James Tobin e in parte ripreso in campo marxista da Paul Sweezy, la tendenza strutturale alla stagnazione sarebbe stata provocata da una asfittica dinamica dei consumi accompagnata dalla fine della mobilitazione bellica che aveva portato indubbiamente a un incremento della capacità produttiva. Si disse poi che la preoccupazione di Hansen si era dimostrata del tutto infondata di fronte ai trent’anni “gloriosi” dello sviluppo capitalistico postbellico. Ma non si fece tesoro del fatto che fu proprio l’incremento dell’intervento pubblico in economia e l’allargarsi dello stato sociale, grazie alle lotte del movimento operaio e democratico, a fornire le basi per quell’insuperato periodo di sviluppo economico. L’affermazione dei bisogni e dei diritti sul piano sociale, a partire dai luoghi della produzione, aveva costituito una leva formidabile per tutta l’economia. Ed era quello che mancava non solo in Hansen, ma per certi aspetti persino nel suo maestro Keynes. Ma nei lunghi decenni dell’egemonia neoliberista tuttora imperante, quello stato sociale è stato abbattuto per fare spazio ad una nuova fase di accumulazione e di scorribande per il capitale finanziario, mentre l’intervento pubblico ha assunto un carattere sempre più residuale e sempre meno innovativo. A quelle leve bisogna oggi guardare in termini innovativi per progettare una nuova società. A questo serve un nuovo soggetto di sinistra che ancora non c’è. Non basta abbattere il mito della crescita se ci si perde nella foresta pietrificata delle diseguaglianze.

Il manifesto, 12 febbraio 2016

La festa è già finita, anche se i gaudenti non raggiungevano neppure quel fatidico uno per cento che separa i ricchi dal restante 99 per cento della popolazione mondiale. Dopo la chiusura in risalita di ieri, le borse di tutto il mondo sono sprofondate di nuovo verso il basso. La peggiore performance è quella di Milano; Il più 5,03% dell’altro ieri è stato polverizzato da un meno 5,6%. Perdono Parigi, Londra, Francoforte, mentre alcune le borse asiatiche, Shanghai, Tokyo e Taipei sono state per ora salvate dalla chiusura per festività. Ma Hong Kong ha chiuso con meno 4 e Wall Street ha aperto in forte calo sulla scia negativa delle borse europee. Insomma un botta recessiva mondiale non da poco.

Milano è stata la peggiore di tutte anche perché pesa particolarmente la situazione disastrata del settore bancario, in un quadro europeo che comunque lo vede mal messo da tempo. L’indice paneuropeo FTSEuro first 300 a fine mattinata perdeva il 3,5%, rimangiandosi abbondantemente i rialzi del giorno prima. Dall’inizio di febbraio l’indice ha lasciato per le terre quasi l’11%. Ci avviamo con rapido passo verso una perdita mensile quale non si era vista dal 2008. In Italia il settore bancario, di cui tutti vantavano la straordinaria solidità, dal Presidente del Consiglio al Governatore di Bankitalia, è in sprofondo rosso. Mps è arretrata del 10,5%, Unicredit del 8,9%, Mediobanca del 9,96%.

Intanto il differenziale di rendimento, lo spread, fra Btp italiano e il Bund tedesco (quest’ultimo ormai con rendimenti negativi) viaggia sui 155 punti. Più o meno a metà strada fra il luglio 2011, quando era sopra i 200 punti, e il febbraio dello scorso anno quando varcava al ribasso la soglia dei 100 punti per la prima volta dopo cinque anni di crisi. Si torna indietro quindi e di parecchio. I timori di una nuova fase acuta recessiva sono tutt’altro che infondati. Anche perché il cane della crisi si morde la coda.

Alla base del tonfo di ieri vi sono varie cause, diverse e contemporanee. Alcune più contingenti, altre più strutturali. Solo che si sommano tra loro provocando effetti shock. Certamente ha pesato la decisione della Fed di rinunciare per il momento al rialzo, seppure modestissimo dei tassi. Il che indica – ed è questo che conta – che la Yellen ha percepito dagli ultimi dati che l’economia americana non è più in fase di sicura ripresa come sembrava fino a poco tempo fa e che l’occupazione, indicatore chiave per la Fed a differenza che per la Bce, segna il passo. Lo sanno bene coloro che sono corsi a votare nelle primarie democratiche per Bernie Sanders.

Tutto diventa così più incerto a livello globale. Il petrolio continua la sua corsa al ribasso. Ne soffrono i paesi produttori e al contempo dimostra che nei paesi importatori – vedi la Cina – l’economia non riprende quota. Siamo giunti a 27 dollari al barile e per converso l’oro – la “barbara reliquia” come la definì Keynes – rispolvera i fasti di bene rifugio, riportando l’oncia a quota 1.214 dollari. L’ottovolante delle Borse non può tuttavia essere spiegato solo con la fragilità psicologica degli investitori. Piuttosto con le contraddizioni intrinseche del mercato finanziario globale, che sono concatenate tra loro e quindi si alimentano a vicenda. Le Borse sono “vittime” di vendite forzate di titoli azionari. Ovvero non spinte da puri disegni speculativi - anche quelli intendiamoci - ma quasi obbligate dal concatenarsi di situazioni sfavorevoli. Chi ha preso denaro in prestito ponendo azioni in garanzia, ora che il mercato azionistico vacilla si trova costretto a reintegrare quelle garanzie. Lo fa con altro denaro o con altre azioni. Se non ne ha, le banche vendono le azioni in loro possesso. Visto il calo del prezzo del petrolio, molti fondi sovrani alimentati da petrodollari sono spinti a liquidare titoli in loro possesso. Si parla di 300 miliardi di dollari in pochi mesi. I fondi pensione e le assicurazioni a loro volta per erogare i tassi minimi che garantivano (tra l’1% e il 1,5%) si sono riempiti di Bund. Ma se il rendimento dei Bund trentennali è al di sotto, devono comprare le opportune “protezioni” sul mercato finanziario. Ad esempio futures sui Bund che ne deprimono ulteriormente i rendimenti.

Dal canto loro le banche, in primis quelle italiane, si sono riempite di denaro a basso costo elargito dalla Bce. Ma non l’hanno prestato, anche per aumentare il patrimonio e in vista dall’entrata in funzione del bail in. Che peraltro sarebbe stato molto meglio procrastinare, visto anche che non vi è alcuna garanzia europea sui depositi bancari per l’opposizione tedesca. L’aumento dello spread ora le penalizza. Infatti con quel denaro hanno ricomprato titoli di stato sul mercato e ne sono piene. Se questi sono considerati più rischiosi, la banca viene percepita come più insicura e più costoso diventa il suo finanziamento. Quindi stringono la cinghia. I mutui tornano a tassi più elevati; i prestiti a famiglie e imprese diminuiscono o si bloccano del tutto. La domanda di consumi e di investimenti si deprime ulteriormente. L’economia italiana sprofonda. E non è questione di decimali.

Il Fatto Quotidiano, 9 febbraio 2016 (m.p.r.)

«Mostri giuridici», le definì Giuliano Amato, con un cinismo non comune, se si pensa che fu lui, insieme al campione del liberismo Guido Carli, a firmare la legge 218 1990, che inaugurò, proprio con gli enti pubblici bancari, la folle stagione delle dismissioni del patrimonio pubblico italiano. Sono le Fondazioni di origine bancaria che Tremonti, vincolandone le erogazioni al territorio per il 90%, rese i più potenti soggetti politici locali.

Questi mostri benefici erogano annualmente centinaia di milioni di euro che determinano le politiche pubbliche locali in proporzione diretta all’impoverimento dei Comuni. Sfuggono qualsiasi controllo democratico e con i loro soldi condizionano i settori “ammessi” come famiglia e valori connessi; crescita e formazione giovanile; educazione, istruzione e formazione, volontariato, filantropia e beneficenza; religione e sviluppo spirituale; assistenza agli anziani; diritti civili; prevenzione della criminalità e sicurezza pubblica; sicurezza alimentare e agricoltura di qualità; sviluppo locale ed edilizia popolare locale; protezione dei consumatori; protezione civile; salute pubblica, medicina preventiva e riabilitativa; attività sportiva; prevenzione e recupero delle tossicodipendenze; patologie e disturbi psichici e mentali; ricerca scientifica e tecnologica; protezione e qualità ambientale; arte, attività e beni culturali... In agosto, con una lettera pubblicata dal Fatto denunciavo le dinamiche del tutto verticali e segrete con cui vengono scelti organi gestionali che il denaro rende ben più potenti di sindaci e giunte.
Ma di chi sono questi soldi che le Fondazioni generosamente erogano? Sono soldi appartenenti alle ex banche pubbliche e casse di risparmio, privatizzati con meccanismi giuridici solo apparentemente complessi nella stagione del neoliberismo. Sono soldi “nostri” fin dalla legge bancaria del 1936. Amato e Carli iniziarono separando le due funzioni principali delle banche che volevano privatizzare, quelle istituzionali pubbliche da quelle imprenditoriali private, collocando la vera attività creditizia in società per azioni e assegnando le azioni a “Enti pubblici conferenti”. Alla fine del decennio Amato e Ciampi, trasformarono gli “Enti conferenti” in Fondazioni di diritto privato, senza superare l’ambiguità creata dalla necessità di amministrare patrimoni miliardari (con logica privatistica) al fine di erogarne gli utili ad attività pubbliche.
La Corte costituzionale avrebbe potuto discutere della compatibilità di questa privatizzazione con l’articolo 47 della Costituzione, che attribuisce alla Repubblica la disciplina, il coordinamento e il controllo del credito, ma per mancanza di coraggio o di strumenti culturali essa si limitò a constatare l’avvenuto uno-due, capolavoro di privatizzazione (sentenza 300/2003). Poiché nel suo strumentario giuridico l’alternativa era solo fra privato o il pubblico, la Corte dichiarò che le Fondazioni sono soggetti privati che appartengono all’ordinamento civile.
Ma è possibile considerare davvero privati soggetti politici di questa rilevanza? Naturalmente no, ed ecco lo svilupparsi di oscure prassi parapolitiche nella scelta dei vertici. Giuridicamente, la novità più significativa a partire dal 2007 è stata l’elaborazione del concetto di beni comuni, con la sua logica di trasparenza e partecipazione diretta e diffusa, che scardina la vecchia distinzione fra pubblico e privato. È lecito sostenere che le fondazioni bancarie, vista l’origine pubblica del loro patrimonio, sono dei beni comuni né pubblici né privati? È possibile recuperare così un po’ di democrazia diversa dalla aberrata politicizzazione dei vertici? La discussione inizierà in un Convegno all’Università di Torino, con invito ai candidati sindaco, l’11 febbraio.

Il manifesto, 6 febbraio 2016 (m.p.r.)

La nuova frontiera della privatizzazione dei servizi pubblici locali si basa sul mantra dell’economia di scala: servono pochi grandi player nazionali per gestire acqua, rifiuti, energia e gas. In realtà, se si ragionasse logicamente e non per teoremi indiscutibili, si capirebbe come l’economia di scala abbia una sua motivazione, laddove la si interpreti nel suo reale significato: in un dato territorio e per una data attività, un certo dimensionamento geografico e territoriale della stessa consente, attraverso le sinergie intrecciabili, la riduzione degli sprechi.

L’economia di scala ha tuttavia dei limiti, legati alla particolarità dell’attività in oggetto, superati i quali si trasforma in diseconomia; solo per citarne alcuni, con importanti conseguenze sulla produttività complessiva: il costo della comunicazione, il peso (e gli stipendi) del management, il costo del controllo e dell’asimmetria informativa, il peso della diminuzione del senso di appartenenza dei lavoratori.

Ma, aldilà delle summenzionate cause di possibile diseconomia, in che senso la crescente dimensione aziendale consente una miglior gestione del servizio idrico, dell’igiene urbana e dei servizi energetici? Se guardiamo alla realtà, solo ed esclusivamente dal punto di vista economico-finanziario, relativo al fatto che la maggior dimensione aziendale rende più conveniente l’accesso al credito sul mercato bancario (e, anche questo, dovuto esclusivamente ai limiti volutamente posti dal patto di stabilità e dal pareggio di bilancio all’intervento pubblico).

Analizziamo la gestione dei rifiuti: in una logica di politiche basate sulle 4 R (Riduzione, Riciclo, Riuso e Recupero), la territorialità diventa un elemento dirimente, poiché necessita della partecipazione attiva e in prima persona di ogni abitante di un dato territorio.

In questo caso, la dimensione adeguata è esattamente quella comunale, e ogni aumento di dimensione serve unicamente ad anteporre la logica, ben più remunerativa per le lobby finanziarie, dello smaltimento a valle -attraverso discarica o incenerimento- di una risorsa, che invece può essere restituita, con vantaggi ambientali ed economici, alla collettività.

Anche per la gestione dell’acqua, la dimensione territoriale è dirimente: in questo caso, l’ideale è la dimensione integrata del bacino territoriale ottimale, da intendersi con criteri idrogeologici ed orografici e non come dimensione amministrativa o, peggio ancora, economico-finanziaria.

Il comparto dell’energia è oggi quello più riconducibile alla necessità di un’economia di scala: con un modello energetico ancora legato all’utilizzo prioritario dei combustibili fossili e, anche per quanto riguarda il settore delle energie rinnovabili, alla logica dei grandi impianti concentrati e delle grandi reti di distribuzione, la questione dell’economia di scala, legata all’approvvigionamento delle materie prime, è difficilmente aggirabile. Ma, anche in questo settore, tutto dipende dalle scelte politiche: il cambiamento climatico rende ormai dirimente, non solo l’abbandono immediato della politica energetica basata sui combustibili fossili per un nuovo modello basato sulle energie rinnovabili, ma anche l’avvio di una nuova produzione di energia decentrata e territorializzata, sino all’autoproduzione diffusa.

Se i ragionamenti sopra esposti hanno un significato, occorre dunque prendere atto di come la necessità di modelli di grande dimensione industriale per la gestione dei servizi pubblici locali risponda esclusivamente ad una logica finanziaria, che, d’altronde, è quella che sottende tutte le azioni dell’attuale governo.

La Repubblica, 5 febbraio 2016, con postilla

Il Guardian ha chiesto a nove economisti se sia o meno in vista una nuova crisi finanziaria globale e, ovviamente, gli interpellati hanno dato nove risposte diverse. Eppure continuiamo a rivolgerci agli economisti quasi fossero medici, capaci di prognosi scientifiche sul comportamento del corpo economico. Sia noi consumatori che loro dobbiamo essere più realistici riguardo alle possibilità dell’economia. Un approccio più misurato sia sul fronte dell’offerta che della domanda in economia produrrà risultati migliori.

A seguito della grave crisi iniziata quasi dieci anni fa si è riflettuto sugli errori commessi in campo economico. Probabilmente l’autocritica avrebbe dovuto essere più ampia, sia in ambiente accademico che bancario, ma c’è stata. Gli esperti economici indipendenti che ruotano attorno all’Istituto per il nuovo pensiero economico (Inet) di George Soros hanno fornito ad esempio un resoconto rivelatore su ciò che non ha funzionato.
Adair Turner, testimone di prima mano del processo decisionale economico ai massimi livelli in qualità di responsabile dell’Autorità britannica per i servizi finanziari (Fsa) e ora presidente dell’Inet, fornisce un’analisi equilibrata e convincente nel suo libro Between Debt and the Devil (Tra debito e demonio). È vero che i massimi economisti hanno messo in discussione i modelli matematici del mercato perfetto ed è altrettanto vero che i mercati finanziari possono aver seguito versioni troppo semplicistiche di tali modelli. Ciò nonostante, sostiene Turner, «l’economia accademica e l’ortodossia politica dominanti non hanno saputo prevedere la crisi e in realtà vi hanno contribuito».
I più gravi errori sono stati «la teoria del mercato efficiente» e la «teoria delle aspettative razionali». Troppo spesso gli economisti hanno postulato che gli attori del mercato non solo si comportassero razionalmente, ma addirittura in base agli schemi mentali sviluppati dagli economisti. (Soros stesso ha tentato per mezzo secolo di evidenziare questa stortura). La moderna macroeconomia inoltre «ha trascurato in larga misura le attività del sistema finanziario e in particolare il ruolo delle banche».
Il fondamentalismo del mercato si considerava diametralmente opposto all’economia pianificata comunista, ma in realtà ha compiuto lo stesso errore fondamentale, ossia credere che il modello razionale potesse comprendere, prevedere e potenziare la complessità dinamica del comportamento collettivo umano. Per dirla con Roman Frydman e Michael Goldberg: «L’economista, al pari di un pianificatore socialista, crede quindi di poter ottenere grandi risultati perché suppone di aver finalmente svelato il meccanismo inesorabile che determina gli esiti del mercato».
Gran parte dell’economia accademica è in passato caduta preda della cosiddetta «invidia della fisica», per analogia con il concetto freudiano di invidia del pene. Come alcune altre discipline dell’ambito delle scienze sociali, aspirava allo status, all’esattezza e alla prevedibilità della fisica. Ho pensato a lungo che ad alimentare questa hybris contribuisse il fatto che l’economia, unica tra le scienze sociali, ha un Premio Nobel. Per esattezza si tratta del Premio della Banca di Svezia per le scienze economiche in memoria di Alfred Nobel, attribuito dalla Banca centrale svedese per la prima volta nel 1969. Pur non rientrando tra i Nobel originari viene però universalmente definito premio Nobel per l’economia e gli economisti vengono nobilitati dalla speciale aura che tuttora il premio mantiene.
Inoltre politici e decision-maker danno retta agli economisti, mentre non ne danno ad esempio ai politologi della scuola della Scelta Razionale, che domina in molte facoltà universitarie americane. Forse perché se un politico avesse aderito alla teoria della scelta razionale sarebbe stato subito esonerato dal suo incarico, mentre la cittadinanza ha dovuto pagare i danni per conto di chi ha applicato la teoria della scelta razionale in ambito economico.
Questo non significa che non si debba dare retta agli economisti, né che l’economia non meriti un premio Nobel. Significa solo che non è una scienza esatta come la fisica. Per essere valida l’economia deve tenere in considerazione la cultura, la storia, la geografia, le istituzioni, la psicologia individuale e di gruppo. John Stuart Mill disse che non si può essere buoni economisti se non si è altro e John Maynard Keynes osservò che un economista dovrebbe essere «matematico, storico, statista e in qualche misura filosofo». Keynes diede dell’economia un’altra straordinaria definizione affermando che «è essenzialmente una scienza morale».
Si potrebbe in realtà sostenere che il premio Nobel per l’economia si colloca in un ambito intermedio tra quello per la fisica, la letteratura e la pace. L’economia è nel migliore dei casi una disciplina pluridimensionale, basata su dati concreti, attenta a tutti gli influssi esercitati sul comportamento umano, al contempo ambiziosa nei propositi e modesta nell’avanzare pretese su ciò che è possibile prevedere delle vicende umane.
A cosa dovrebbe portare questa visione riveduta e corretta del carattere e del ruolo dell’economia? Non conosco abbastanza i corsi universitari di questa disciplina per poter stabilire se necessitino o meno di una maggiore flessibilità, ma sono rimasto colpito dal manifesto pubblicato qualche anno fa dagli studenti di economia dell’Università di Manchester. Propugnava un approccio «che parta dai fenomeni economici per poi dare agli studenti gli strumenti per valutare se per spiegarli siano valide prospettive diverse» rispetto ai modelli matematici basati su postulati irrealistici. Un collega sostiene di aver sentito litigare due economisti in un’aula del Nuffield College a Oxford, e uno avrebbe esclamato: «Sai che ti dico, allora postula l’immortalità!». Se l’economia è come le altre discipline probabilmente il cambiamento è più lento di quanto dovrebbe perché i docenti anziani procedono per forza d’inerzia.
Poi bisogna tener conto del comportamento dei grandi protagonisti dell’economia, siano essi ministri, vertici delle banche centrali o dell’imprenditoria. Ho letto recentemente uno splendido discorso tenuto nel 2003, ben prima della crisi, da Charlie Munger, socio di Warren Buffett nella holding americana Berkshire Hathaway. «La Berkshire ha sempre agito senza tenere in minima considerazione la teoria dei mercati efficienti nella sua forma più rigida» - diceva, aggiungendo che i risultati dell’applicazione di tale dottrina nell’ambito della finanza d’impresa «erano ancor più ridicoli che in economia». Munger consigliava saggiamente di recuperare il carattere multidisciplinare proprio dell’economia, senza sopravvalutare il quantificabile rispetto al non quantificabile, né cedere alla smania di una falsa precisione, né privilegiare le teorie macroeconomiche rispetto alla microeconomia reale, che contribuiva a guidare le decisioni di investimento a lungo termine della Berkshire.
Noi comuni mortali dovremmo imparare la lezione. Dovremmo chiedere ai nostri economisti, come ai medici, solo quello che possono fare. La componente scientifica è maggiore in medicina che in economia, ma la stessa ricerca medica indica che la nostra salute dipende in gran parte da altri fattori, in particolare psicologici e che molto resta da scoprire. Gli economisti sono come i medici, ma non proprio allo stesso livello.
Traduzione di Emilia Benghi

postilla

Non è detto che - come sembra sostenere Garton Ash - una scienza, per essere tale, debba essere "esatta". E non è detto che gli economisti "classici" (se volete, da Adamo Smith a David Ricardo a Karl Marx, e discendenti) siano meno attendibili nelle loro previsioni di quelli che, patendo dell'"invidia della fisica", si ammantano di tecnologico scientismo.


«Inflazione. Il presidente della Bce ha messo in allarme il continente su una possibile "cospirazione", ma la risposta è semplice: a marciare contro sono gli stessi governi che perseguono le politiche di austerity». Il manifesto, 5 febbraio 2016

Non c’è dubbio che Mario Draghi sia uno di quegli uomini che quando parla è bene starlo a sentire. Sia che si concordi o meno. Celebre ed efficace è stato il «whatever it takes!» pronunciato nel luglio del 2012 che ha permesso di evitare – almeno finora – l’implosione dell’Eurozona e della moneta unica. Per questo non si può restare indifferenti di fronte alla denuncia nei confronti di «forze che cospirano per tenere bassa l’inflazione» che il Presidente della Bce ha elevato in una pubblica conferenza organizzata dalla Bundesbank a Francoforte.

Di solito era la sinistra a indulgere alle teorie del complotto. Al punto che uno dei più importanti dirigenti del Pci, Aldo Tortorella, intellettuale raffinato e dotato di senso dell’umorismo, è solito ironizzarci sopra, dicendo che la sinistra è spesso vittima delle sue stesse macchinazioni. Qui invece il “complottismo” viene agitato da ben altra sponda.

Da quando la dichiarazione è comparsa sulle agenzie di tutto il mondo si è aperta una caccia all’interpretazione autentica del pensiero draghiano. Cosa avrà voluto dire? Con chi ce l’ha questa volta? Non vogliamo ergerci a esegeti, ma forse se applichiamo lo schema “alla Tortorella”, cambiandone i protagonisti, ci avviciniamo alla verità: i cospiratori vanno ricercati tra i palesi responsabili della grande crisi.

La stessa Bce nel suo bollettino mensile prevede «che i tassi di inflazione rimangano estremamente contenuti o che passino in territorio negativo nei prossimi mesi». L’obiettivo della Bce, di raggiungere e stabilizzare il 2% di inflazione è quindi assai lontano. Per questo Draghi aveva assunto nuove misure e un potenziamento del Quantitative Easing. Ma l’esito, come non era difficile prevedere, è stato per ora una debacle. Al punto che le previsioni della stessa banca centrale su un innalzamento dei tassi inflazionistici alla fine del 2016 non appaiono fondate altro che sulla speranza che le nuove misure di politica monetaria abbiano una qualche influenza diretta sulla crescita dell’economia reale. Poiché questo non è avvenuto, malgrado i fiumi di denaro pompati dalla Bce, non vi è ragione di credere che possa avvenire domani a situazione dell’economia reale inalterata. Siamo nel campo assai aleatorio del pensiero desiderante, ovvero del wishful thinking.

Chi sono i cospiratori?


Chi sono dunque i «cospiratori»? Le forze che concorrono a tenere bassa l’inflazione? Non c’è bisogno della cassetta degli attrezzi del piccolo investigatore per scoprirlo. Basta guardarsi intorno. Sono in primo luogo le forze economiche e politiche che con particolare accanimento in Europa perseguono politiche di austerità e torsioni neoautoritarie, che impediscono lo sviluppo della domanda di consumi, non solo materiali, e di investimenti in settori innovativi capaci di rispondere ai bisogni di una società matura. Quelle che distruggono il welfare state per farne un campo di conquista della finanza. Quelle che aprono alle pretese del Regno Unito – vedi il nuovo progetto di Donald Tusk, presidente del Consiglio europeo, per impedire Brexit (considerato assai più pericoloso di Grexit) – di distinguere tra lavoratori nazionali e migranti in termini di accesso al welfare, mettendo in discussione così uno dei pilastri dello stesso mercato unico, ovvero la libertà di circolare e lavorare a parità di diritti sociali rispetto ai residenti locali.

Sono le forze che infieriscono brutalmente sul sistema pensionistico greco. Quelle che puntano tutto sulla speculazione finanziaria quale forma preferenziale se non esclusiva di massimizzazione dei profitti, facendo così levitare nuovamente la massa di titoli finanziari derivati sopra ai livelli antecrisi. Sono quelle che giocano sul prezzo del petrolio e delle materie prime, anche contro i loro interessi immediati in nome di mirabolanti disegni di riposizionamento su uno scacchiere mondiale in movimento, minacciato da guerre che si allargano. Quelle che si preparano a fare le barricate contro l’invasione dei prodotti cinesi, a seguito dell’accettazione della clausola di economia di mercato, mentre contemporaneamente spingono per la firma del Ttip, che renderebbe indifendibile lo spazio giuridico ed economico europeo dal dominio delle multinazionali a prevalenza statunitensi.

Quelle, come il “nostro” Renzi, che invocano la flessibilità per alcuni decimali contro le norme di trattati che essi stessi hanno contribuito a scrivere, e a costituzionalizzare, anziché proporsi di cambiarli da cima a fondo.

Il manifesto, 30 gennaio 2016 (m.p.r.)

«Assessore alle privatizzazioni. Di Forza Italia». Un assessore alle privatizzazioni? Del partito di Berlusconi? Sembra una cosa singolare. Se si aggiungesse «... diventa viceministro all’Economia del governo del Pd» saremmo quasi sicuri che si tratta o di un articolo satirico alla Stefano Benni o di un personaggio inventato stile Antonio Albanese (ci ricordiamo il «ministro della Paura»?). Invece è vero. Tutto vero. Anzi quasi peggio: Luigi Casero, viceministro del dicastero dell’Economia e delle Finanze di Renzi, è stato responsabile economico di Forza Italia ed è rimasto al ministero ininterrottamente dal 2008 come sottosegretario all’Economia con Berlusconi...

Analizzare i nomi della compagine governativa può sembrare roba da poco, da notisti politici, rispetto a quella dei processi economici. Ma il quadro diventa abbastanza chiaro. Il fatto è che, in tema di privatizzazioni, cercare aderenze interessi a esse favorevoli è caccia facile in quel ministero. Più che fatti singoli sembra che le connivenze coinvolgano tutti e molto apertamente.
Il sottosegretario Paolo Baretta (al Ministero dal 2013)? Nei tardi ’90 era in Cisl e ha seguito «i processi di privatizzazione di Telecom e di riorganizzazione di Poste italiane» (sito del Ministero). L’appena nominato viceministro Enrico Zanetti (già sottosegretario)? Socio di Eutekne Spa, società di consulenza tributaria che organizzava convegni come «Dalla privatizzazione dei servizi pubblici locali risorse utili per la crescita».
Pare proprio sia tornata l’epoca delle grandi privatizzazioni. «Grandi» nel senso che vengono date in pasto al mercato aziende di statura nazionale e controllate dal ministero dell’Economia. Si tratta di enti che già funzionano come imprese, in regime privatistico, ma controllate dallo Stato. Nel 2015 è stato il turno di quote Enel e Poste Italiane, di cui Padoan rivendica il successo. Pare imminente la collocazione sul mercato del 40% di Ferrovie e del 49% di Enav, settore di assistenza al volo aereo. E si parla anche di StMicroelectronics, Fondo Italiano di Investimento e Sace. La motivazione addotta è semplice: fare cassa per abbattere il debito pubblico.
La Commissione europea, nelle Raccomandazioni all’Italia del 2015, prescriveva di «attuare in modo rapido e accurato il programma di privatizzazioni e ricorrere alle entrate straordinarie per compiere ulteriori progressi al fine di assicurare un percorso adeguato di riduzione del rapporto debito pubblico/Pil». Lo dice a chiare lettere sia il Def che il ministro in audizione: «Tra il 2016 e il 2018 si prevede che l’insieme del programma di privatizzazioni potrà comportare per l’erario entrate pari allo 0,5 per cento del Pil all’anno». Non si capisce bene la base di tali previsioni dato che lo stesso ministro-economista, a domanda diretta risponde: «Mi è stato anche chiesto dall’onorevole Bordo quanto si pensa di incassare. La mia risposta è che non lo so».
Nonostante la retorica dell’azionariato popolare - l’utopia di far diventare i lavoratori piccoli proprietari di grandi conglomerati industriali - il processo delle grandi privatizzazioni è strettamente legato al mercato finanziario. «Le operazioni di privatizzazione che hanno smantellato il sistema delle partecipazioni statali si proponevano specificamente fra gli obiettivi quello di contribuire a una crescita del mercato azionario che va oltre i meri aspetti dimensionali». Lo raccontava Draghi nel 2008. Nonostante le bufere sulla ribalta della politica, i cambi di governi e maggioranze, questi processi vanno avanti, quasi nel silenzio.

«Un decreto che accelera le privatizzazioni e forzail controllo politico delle aziende. Come contrastare la politicadel governo con la battaglia dei referendum». Il manifesto, 30 gennaio 2016 (m.p.r.)


Annunciato in pompa magna, comeil decreto che farà scendere lesocietà partecipate da Enti pubblicida 8000 a 1000, è dunque stato approvatodal consiglio dei ministri il provvedimentopresentato dalla ministra Madia,che dovrebbe riordinare tutto il variegatomondo delle società dei servizi posseduteo partecipate dal pubblico.Appare già evidente che la finalità primadel provvedimento in questione nonsta solo nella "semplificazione"annunciata oin un'accelerazione delleprivatizzazioni, ostacolandola forma gestionaledelle aziendepubbliche, ma, ancorpiù, nell'idea di costruireun forte controllo politicosulle società partecipate.

D'ora in avanti, le societàpartecipate dalpubblico saranno governateda un numeromolto ristretto di amministratori,se non daun amministratore unico,e viene istituita un'Unità di controllo sullesocietà partecipatepresso il ministero delTesoro con il compitodi dare attuazione aldecreto, comprendendoanche la possibilitàdi effettuare ispezionipresso gli uffici delle societàstesse.Ci si muove in continuitàcon un'impostazioneper cui la gestionepubblica rispondedirettamente al potereesecutivo e si prova adabbattere le autonomiedegli altri poteri edelle altre articolazionistatuali: ciò che si tentadi realizzare, solo per fare qualche esempio,nel ridimensionare il ruolo del Parlamento,con l'abolizione delle Province,nel rendere la Rai subordinata alle sceltedel governo e persino con le ultime propostee nomine "eccellenti", da Carrai aCalenda.

E’ da almeno un anno e mezzo che vienerilanciata in modo molto forte unanuova strategia di privatizzazione e finanziarizzazionedei servizi pubblici, apartire da quelli locali. Su un impianto legislativomesso a punto con lo SbloccaItaliae con la legge di stabilità approvataalla fine del 2014, si prevede che le risorseincassate dagli Enti locali, in caso divendita di quote societarie di aziendepartecipate dagli stessi, possono essereutilizzate al di fuori dai vincoli del patto distabilità. E, in sintonia con quel quadro legislativo,promuovendo processi di acquisizionee fusione da parte delle grandiaziende multiservizio quotate in Borsa,sempre più privatizzate, Iren, A2A, Hera eAcea, nei confronti delle aziende di dimensionimedio-piccole, con l'intentoche, nel medio periodo, esse arrivino a gestirela gran parte dei servizi pubblici locali,in una logica orientata dalla quotazionein Borsa e dalla distribuzione dei dividendiai soci.

Quello che si sta delineando è, dunque,un "nuovo" intreccio tra economia e politica,per cui alla prima si consegnano lescelte di fondo del modello economico esociale e alla seconda, una volta ristabilitoun meccanismo di comando e controllosull'intervento pubblico, un ruolo, deltutto subalterno, di accompagnamento-condizionamentodella prima.

Il movimento per l'acqua ha contrastatoe continua a contrastare questo disegno;lo facciamo nei territori, con la mobilitazionein contrasto alle nuove privatizzazionicentrate sulle grandi aziendemultiservizio e per affermare la ripubblicizzazionedel servizio idrico, assieme alleazioni di tutela della risorsa acqua, anch'essasempre più insidiata dai fenomeniindotti dall'aggressione al territorio edal cambiamento climatico. Lo facciamoa livello nazionale, rilanciando la nostraproposta di legge di iniziativa popolareper la ripubblicizzazione del servizioidrico, che dovrebbe riprendere la discussionein Parlamento. E ora siamo intenzionatia farlo nella direzione di promuoveresia una proposta di legge di modificacostituzionale per affermare il dirittoall'acqua e, più in generale, tutti i dirittifondamentali, togliendoli dal giogo deivincoli di bilancio, sia una nuova iniziativareferendaria, che vuole abrogare proprioquel provvedimento che incentivagli Enti locali a dismettere le quote di proprietàpubblica delle aziende che gestisconoi servizi pubblici locali, cioè a privatizzarle.

La nostra iniziativa referendaria, peraltro,vuole esplicitamente costruire unaconnessione con gli altri movimenti esoggetti che stanno, a loro volta, ragionandosu quesiti referendariche aggredisconoquestioni di fondosu cui sono intervenutele scelte neoliberistee regressive del governoRenzi in quest'ultimoanno e mezzo. Ilmovimento per la scuolapubblica sta predisponendoun'iniziativareferendaria per abrogarele parti più inaccettabilidella controriformadella scuola; ilmovimento contro letrivellazioni petrolifereha deciso di percorrereuna strada analoga perchiedere il pronunciamentopopolare controtutte le trivellazioni,in mare così come interraferma, oltre gli sviluppidella vicenda referendariapromossa dadiverse Regioni; diversisoggetti sindacali, apartire dalla Cgil, sonoimpegnati in una discussioneper valutarel'opportunità di presentareuna proposta referendariasui temi del lavoroe contro il Jobsact.

Si stanno profilandole condizioni perché,nella prossima primavera,si possa sviluppare una vera e propriastagione di referendum sociali - e bisogneràlavorare alacremente e con intelligenzaper la sua effettiva realizzazione.Una stagione che coordinata ad unitaria.Fatta salva l'autonomia di movimenti,soggetti sociali, soggettività politicheche potranno eventualmente sostenerla,il punto di fondo e di forza delle iniziativereferendarie è mettere al centro i temidel modello sociale e della democrazia:l’uno piegato ad una logica per cui il mercatoè l'unico regolatore, l’altra svilita ecompressa per renderla funzionale aquell'obiettivo.Senza sovrapporre referendum socialie referendum costituzionale, è però evidenteche, se si vuol evitare di stare sulterreno plebiscitario che non casualmenteRenzi propugna per affrontare il referendumcostituzionale, né farsi schiacciareda una discussione tecnicista sulruolo del Senato, occorre, come suggeritoda Gaetano Azzariti qualche giorno fasu questo giornale, far emergere il nessotra l'idea del suo restringimento e l'abbattimentodi diritti sociali fondamentali.Ma di questo avremo modo di tornarea parlare.

Il manifesto, 19 gennaio 2016

Quando il movimento Occupy Wall Street lanciò lo slogan «siamo il 99%» probabilmente non immaginava che solamente pochi anni dopo quel 99% sarebbe realmente stato la parte più povera del pianeta. Eppure oggi l’1% più ricco della popolazione ha un patrimonio superiore a quello del rimanente 99%. Sono alcuni dati contenuti nell’ultimo rapporto di Oxfam sulle diseguaglianze, presentato in vista del Forum di Davos dei prossimi giorni.

Sempre secondo il rapporto An economy for the 1%, non solo le diseguaglianze stanno aumentando, ma stanno addirittura accelerando. Nel 2010 bisognava prendere i 388 miliardari più ricchi per arrivare al patrimonio della metà più povera del pianeta. Nel 2014 bastava fermarsi all’ottantesimo. Oggi sono 62. Sessantadue persone sono più ricche di 3,6 miliardi di esseri umani. Sessantadue persone che in cinque anni hanno visto la propria ricchezza crescere del 44%, oltre 500 miliardi, mentre la metà più povera del pianeta si impoveriva del 41%.

Ancora, dall’inizio del secolo alla metà più povera del mondo è andato l’1% dell’aumento di ricchezza, mentre l’1% più ricco se ne accaparrava la metà. È un fenomeno particolarmente drammatico nei Paesi più poveri, ma che accomuna tutto il mondo. Nel Sud, il 10% più povero ha visto il proprio salario aumentare di meno di 3 dollari l’anno nell’ultimo quarto di secolo. Se le diseguaglianze non fossero cresciute durante questo periodo, 200 milioni di persone sarebbero uscite dalla povertà estrema. Nello stesso arco di tempo, negli Usa lo stipendio medio è cresciuto del 10,9%, quello di un amministratore delegato del 997%.

In questo quadro, di quale ripresa, di quale crescita, di quale economia parliamo? Tralasciamo l’insostenibilità ambientale e persino l’ingiustizia sociale. Guardiamo unicamente le conseguenze economiche. In uno studio recente l’Ocse ricorda che le diseguaglianze hanno causato una perdita di oltre 8 punti di Pil in vent’anni. Un’enormità. Il motivo è semplice: se famiglie e lavoratori sono sempre più poveri, calano i consumi e quindi la domanda aggregata. Una “soluzione” è indebitare famiglie e imprese per drogare la crescita del Pil. È il modello subprime, un’economia del debito che può funzionare per qualche anno, finché inevitabilmente la bolla non scoppia.

L’altra soluzione è scaricare il problema sul vicino, puntando tutto sulle esportazioni. Tagliamo stipendi e diritti di lavoratrici e lavoratori, tagliamo le tasse alle imprese e il welfare. Ovviamente aumenteranno le diseguaglianze e crollerà la domanda interna, ma saremo più competitivi e quindi esporteremo di più.

È l’attuale modello italiano ed europeo, riassunto nel documento “dei cinque presidenti”, promosso da tutte le istituzioni europee per tracciare la linea dei prossimi anni. Nel capitolo dedicato alla “convergenza, prosperità e coesione sociale” si riesce nell’impresa di non menzionare mai parole quali “diritti”, “reddito” o “diseguaglianze”, mentre viene utilizzata per diciassette volte la parola “competitività” (17!).

Un modello in cui la crescita delle diseguaglianze non è quindi un fastidioso effetto collaterale, ma la base stessa di un gioco pensato e tagliato su misura per l’1%. Una gara verso il fondo in ambito sociale, ambientale, fiscale, monetario, per vincere la competizione internazionale. La semplice domanda è: se le diseguaglianze aumentano ovunque e la gara è globale, è possibile che tutti esportino più di tutti? In attesa che la Nasa scopra che c’è vita su Marte per potere esportare anche li, questa economia dell’1% non sembra particolarmente lungimirante, come mostrano le cronache di questi giorni.

A chi deve esportare una Ue che nel suo insieme ha già oggi il maggior surplus commerciale del pianeta? Si guarda all’Asia e alle economie emergenti come mercato di sbocco, ma ecco che un calo della Borsa di Shanghai rischia di diventare una tragedia per l’economia italiana. Siamo arrivati al paradosso che pur importando petrolio dobbiamo sperare che il prezzo del greggio non continui a scendere, altrimenti i Paesi esportatori non potranno acquistare il nostro made in Italy.

I dati divulgati da Oxfam sono un affronto e una vergogna dal punto di vista della giustizia sociale, ma sono disastrosi anche da quello meramente economico. Una ricetta per una nuova crisi. Il problema è che l’aumento delle diseguaglianze dal 2008 a oggi è anche un segnale fin troppo evidente di chi rimane con il cerino in mano quando questa crisi scoppia. Ed è allora difficile che il messaggio venga recepito a Davos, all’incontro annuale di quell’1% — anzi, di quel zero virgola — che continua a guardare dall’alto, sempre più dall’alto, oltre il 99% dell’umanità.

–> Firma la petizione di Oxfam contro i paradisi fiscali

Sbilanciamoci.info, newsletter n. 456 del 13 gennaio 2016



Il 2016 non si apre sotto i migliori auspici. Una situazione politica incerta su diversi fronti, i problemi dell’emigrazione in Europa, il terrorismo, le apparenti sbandate della Cina, un livello di indebitamento molto rilevante in diverse aree del mondo, sembrano essere alcuni dei fattori negativi che abbiamo davanti.

La crescita mondiale

Solo qualche mese fa l’FMI prevedeva per il 2016 una crescita del pil mondiale del 3,6%. Ora la Banca Mondiale stima per l’anno in corso un aumento del pil del 2,9%; ricordiamo, tra l’altro, che nel 2014 si era registrato il 3,4% e nel 2015 il 3,1%. Si tratta di un rilevante rallentamento, che dovrebbe lasciare il campo nel 2017 ad una ripresa minima (3,1%).
Bisogna comunque distinguere tra le varie aree del mondo (Guélaud, 2016, a), perché comunque lo sviluppo appare molto ineguale. Per gli Stati Uniti la stima di crescita è del 2,5% per il 2015 e del 2,7% per il 2016; per la zona euro il quadro appare meno positivo, indicando rispettivamente l’1,5% e l’1,7%.
Ma il peggioramento delle previsioni globali deve essere collegato soprattutto al rallentamento di una parte dei paesi emergenti. Ricordiamo che, sempre secondo le stime dell’FMI, il loro peso sul pil mondiale è stato nel 2015 del 58%: quindi i destini di tale area, in particolare del continente asiatico, sono ormai determinanti per il futuro economico del mondo, più di quelli dei paesi ricchi.
Le previsioni sono parecchio negative per il Brasile e per gli altri paesi dell’America Latina, anche se esse appaiono meno disarmanti che per il 2015. L’Africa del Nord e quella sub-sahariana cresceranno un po’ di più. Ma gran parte dell’Asia andrà decisamente bene: 7,3% per l’India, 6,3% per l’Asia dell’Est e il Pacifico, 7,3% per l’Asia del Sud, 6,7% per la Cina, in leggero rallentamento; in miglioramento, anche se ancora in territorio negativo, la Russia.

La Cina

La Cina rappresenta un caso a se e, anche per la sua importanza per la crescita mondiale, merita una trattazione a parte.
Ricordiamo intanto che un aumento del pil ormai intorno al 7% all’anno significa – se utilizziamo per le stime il criterio della parità di potere di acquisto-, che ogni anno si aggiunge a quello precedente un pil pari grosso modo a quello spagnolo, un dato enorme.
Come è noto, il paese sta effettuando il passaggio da un’economia centrata sull’industria ad una sui servizi, da una crescita basata su investimenti ed export ad una basata sui consumi interni, inoltre con gli assi dello sviluppo puntati verso un’economia pulita e l’acquisizione di un alto livello tecnologico.
Nel frattempo si deve governare una riduzione della capacità produttiva in alcuni settori (non si può produrre più del 50% dell’acciaio mondiale!), ridurre l’ingorgo del settore immobiliare, ristrutturare le imprese statali, controllare l’indebitamento, combattere la povertà. Compiti immani, ma la dirigenza cinese ha mostrato in tutti questi decenni di saper gestire problemi anche più rilevanti.
Mentre tutti sottolineano il rallentamento dell’industria, inevitabile nel perseguimento di tale strategia, molti censurano invece la forte crescita dei servizi; così, ad esempio, il turismo è in pieno boom e quello estero è aumentato del 16% nel 2015, le vendite di biglietti per il cinema sono cresciute del 50%, quelle dismartphone si riducono in quantità, ma aumentano fortemente in valore unitario (The Economist, 2015).
Nel 2015 dovrebbero essere stati creati intorno ai 14 milioni nuovi posti di lavoro, mentre i salari crescono in maniera sostenuta.

Le due crisi

Ma ora siamo di fronte alla crisi della borsa e a quella della moneta.
Per quanto riguarda la prima, bisogna ricordare che gli investimenti stranieri nel settore sono quasi inesistenti e che quindi non ci dovrebbero essere ripercussioni dirette delle difficoltà sul resto del mondo. La borsa cinese è un affare quasi solo spinto dalla speculazione e non ha alcun collegamento con l’economia reale (Authers, 2016). D’altro canto, i titoli erano saliti troppo in alto e ancora oggi essi sono grosso modo dove erano un anno fa. Peraltro i regolatori cinesi devono imparare a gestire meglio la questione.
Qualcuno ha scritto che la Cina dovrebbe semmai celebrare il collasso del suo mercato di borsa, che era molto gonfiato rispetto alla realtà (Zhang Joe, 2016).
Più importante appare la svalutazione della moneta. L’intento ufficiale non è certo quello di incoraggiare le esportazioni, dal momento che le priorità politiche sono diverse. L’obiettivo è quello di sganciare il cambio dello yuan da quello del dollaro ed ancorarlo invece ad un basket di monete, aiutando il passaggio ad una situazione maggiormente determinata dalle forze del mercato.
Ma l’operazione è stata portata avanti in maniera maldestra e poco chiara, insospettendo i mercati internazionali, che, più in generale, in questo momento non si fidano dei dati cinesi. Essi temono una forte svalutazione della moneta (per volontà cinese o per una fuga di capitali fuori controllo) e una rilevante riduzione del tasso di crescita del pil.
Ma il paese ha un bilancio forte, con entrate crescenti, con riserve di cambio molto elevate, alimentate da un considerevole surplus della bilancia dei pagamenti. D’altro canto, l’instabilità dei mercati appare anche un riflesso delle paure degli stessi per la situazione dell’economia occidentale.

Le novità non hanno effetti solo negativi sul resto del mondo

Nonostante il rallentamento, la Cina resta il paese che ha maggiore influenza sullo sviluppo mondiale; nei prossimi anni essa probabilmente peserà tra un terzo e la metà della crescita globale del reddito, del commercio e della domanda di materie prime e la sua importanza continuerà ad aumentare insieme alla sua quota dell’economia mondiale (Summers, 2015).
La modifica del suo modello di sviluppo non ha effetti solo negativi sugli altri paesi (Guélaud, 2016, b). Certo, la riduzione nei livelli di acquisto delle materie prime sta portando rilevanti danni all’America Latina, a diversi paesi africani e a qualcuno asiatico. Più in generale il rallentamento delle importazioni, generato, oltre che dalla riduzione nei tassi di crescita, anche dall’aumento della percentuale dei prodotti fabbricati in patria – tra l’altro, la componente di importazioni dei consumi è in genere di circa 11 punti inferiore a quella degli investimenti- e dalla maggiore qualificazione delle produzioni, danneggia diversi paesi nel mondo, tra cui anche Germania, Corea del Sud, Giappone; d’altro canto, la crescita degli investimenti esteri, lo sviluppo dei grandi progetti della “nuova via della seta”, il varo di diverse banche di investimento per i paesi emergenti, la spinta del turismo, dovrebbero servire a riequilibrare almeno in parte la partita. Così la forte crescita del turismo dovrebbe portare benefici a diversi paesi asiatici, Giappone, la Corea del Sud, Tailandia, Vietnam, Taiwan; in alcuni di tali paesi l’aumento della spesa dei viaggiatori cinesi negli ultimi anni ha compensato la riduzione delle esportazioni.
La crescita delle delocalizzazioni verso altri paesi, indotta dall’aumento del costo del lavoro, favorisce diverse realtà, dal Vietnam, all’Africa del Sud, alla Tailandia, alle Filippine.

Conclusioni

l’economia mondiale rallenta a causa di problemi economici, finanziari, politici, non risolti e la situazione non appare brillante sino a tutto il 2018. Sarebbero necessari, tra l’altro, maggiori stimoli alla domanda e agli investimenti (Ragot, 2016), frenati invece, tra l’altro, da interessi forti e da un alto livello di indebitamento.
Ma tale rallentamento appare distribuito in maniera non uniforme sulla superficie del globo. La volata dello sviluppo continua ad essere comunque tirata dai paesi asiatici. Al di la del fatto che le autorità cinesi devono imparare a gestire meglio la finanza e a mandare segnali più chiari al mercato, non sembrano esserci ragioni importanti che facciano temere che le cose in Cina si potrebbero deteriorare fortemente.
Il paese dovrebbe proseguire con i suoi programmi di ristrutturazione dell’economia, certo senza escludere qualche intoppo. Ma bisogna avere una visione realistica delle cose e considerare che la sua influenza sul resto del mondo appare, al momento, insostituibile. In particolare anche nel 2016 il paese sarà determinante nel fissare la strada dell’economia mondiale.

Appendice

Non molti anni fa i politologi anglosassoni si domandavano se la Cina, sviluppandosi, si sarebbe rivelata come una attrice “responsabile” del sistema economico e politico globale (Stephens, 2015). Ma appare sempre più chiaro che la crescita del paese è l’evento più importante della nostra epoca e che Pechino intende essere ormai un produttore di regole, non un allievo ubbidiente ai vecchi padroni, anche perché l’Occidente le ha offerto sino ad oggi appena uno strapuntino al tavolo del potere mondiale. Ma questa sarebbe un’altra storia da raccontare.

Testi citati nell’articolo

Authers J, A frail economy caught in China’s tumble, www.ft.com, 8 gennaio 2016
Guélaud C., A peine repartie, l’économie mondiale patine, Le Monde, 8 gennaio 2016, a
Guélaud C., Les deux faces de la décélération en Asie, Le Monde, 8 gennaio 2016, b
Ragot X., Le progrès technique n’est pas le problème, Alternatives Economiques, n. 353, gennaio 2016
Stephens P., Now China starts to make the rules, Financial Times, 29 maggio 2015
Summers L., Grasp the reality of China rise, www.ft.com, 8 novembre 2015
The Economist, Doughty but not superhuman, 26 settembre 2015
Zhang Joe, Deflate stock market and allow China’s fortunes to swell, www.ft.com, 4 gennaio 2016

La città conquistatrice, rivista online, 24 dicembre 2015


The Guardian, 23 dicembre 2015, titolo originale: A monster crawls into the city – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini per La città conquistatrice
C’era una volta, tanto tanto tempo fa, un villaggio lungo il fiume, dal nome impronunciabile. Quando ci arrivarono gli antichi romani, per risolvere almeno la questione del nome, lo chiamarono Londinium. Poi divenne una città, e ci arrivavano dal fiume re, regine, duchi e tanti altri potenti. Passavano gli anni, i secoli, e tutti i re, regine, duchi, grandi imprese industriali, banche, concentrazioni finanziarie, si affermavano e poi decadevano. Oggi nessuno se li ricorda più. Ma la città sopravvisse fino ad oggi, duemila anni di storia dopo, e con tanta voglia di continuare a esistere. Diceva una leggenda, che a mantenerla viva nella buona e nella cattiva sorte non erano tanto i palazzi del potere, ma i suoi quartieri, o rioni come li chiamava qualcuno. Gran parte degli abitanti non era né ricca né potente, ma era bravissima a farli prosperare quei quartieri, con tutte le botteghe, le chiese, i teatri, artigiani che lavoravano metalli, legno, e tanti altri materiali.

In ciascuno di questi quartieri c’era anche una piazza del mercato, niente di particolare in fondo, ma c’era proprio di tutto, i negozietti, i locali, la gente che andava e veniva. Quartieri tutti diversi uno dall’altro, ma che insieme componevano una trama, una specie di barriera corallina. Un bel giorno arrivò un visitatore da molto lontano, da una città della Cina che si chiamava Shanghai, sul fiume Yangtze. Doveva stare a spiegare a tutti quanti come si pronunciasse quella strana parola, Yangtze, ma appariva comunque molto imponente. Con quella sua voce autorevole, raccontava alla gente di Londra delle strane cose avvenute là a Shanghai. Cose che in un primo tempo apparivano magiche e incantate: una vera e propria esplosione di architetture come fuochi artificiali, edifici diversissimi ma tutti alti e imponenti. Ma poi il racconto si faceva un po’ tetro: «Avevamo abitato sempre in quartieri densi e brulicanti. Poveri, ma in fondo ci si viveva bene, a Shanghai».

Proseguiva, quel visitatore: «Poi tutto cambiò, con le demolizioni. I nostri quartieri Scomparivano sotto le ruspe». E perché, chiedevamo noi. Come avremmo scoperto presto, era per far spazio ai nuovi grandi edifici, scacciando la gente dalle proprie case e quartieri: spinti via verso le più lontane periferie, a milioni.

«Da lontano – proseguiva il racconto del visitatore – non sapendo cosa succedeva Shanghai poteva apparire magnifica e grandiosa con tutte le sue torri svettanti. Ma da dentro i quartieri si viveva l’altra faccia della medaglia». Anche gli abitanti di Londra ci vedevano qualcosa di familiare in quella storia. Era stato spettacolare in un primo tempo guardare la costruzione di nuovi grandi edifici, anche se si spianavano vecchi quartieri, ma poi quelle demolizioni erano diventate davvero troppe, e la città diventava un posto estraneo.

Si sentiva anche di altri posti dove succedevano le medesime cose, città che diventavano tutte identiche una all’altra, con quegli edifici alti. Era come se un mostro gli strisciasse dentro nelle viscere divorandola dall’interno: Gnam-gnam-gnam. «Non si può vivere in una città se non è fatta di quartieri – diceva tutta la gente – perché è lì dove abitiamo, facciamo la spesa, andiamo a scuola». Ma il mostro continuava a divorarli, i quartieri, per far spazio alle sue torri, in un enorme posto senza forma a cui non si sapeva più che nome dare. Il mostro lo chiamava «urbano», ma non c’era più nessuna trama come nei vecchi quartieri, e neppure nel centro della città. Si cancellavano le case, i negozi, le vie, le piazze. Tempi grami, dove sparivano tutti i posti per vivere, sepolti dalle torri che il mostro continuava a eruttare: non c’era ormai nient’altro che quel nulla.

Si capiva che il mostro veniva alimentato dall’esterno, arrivava ovunque per metterci una nuova torre, anche nel cuore di vecchi quartieri dove nessuno si sarebbe mai sognato di invitarlo. Lo si temeva in ogni luogo, quel mostro vorace, ma la città non si sarebbe certo lasciata divorare così, senza combattere. In fondo, era sopravvissuta a tanti momenti oscuri nei secoli, uscendone sempre viva, a differenza di tutti quei re, regine e tanti potenti di un tempo. I quartieri si unirono nella battaglia contro il mostro.

… Poi una notte, una bambina ebbe un sogno. Si chiamava Copernica, e la sua famiglia era stata sfrattata dal quartiere dove abitavano. O forse non era un sogno, magari una visione, o magari una notizia in televisione chissà. Comunque sia, Copernica sognò che quanto il mostro aveva fatto a Londra, lo aveva fatto anche in altre città che aveva studiato a scuola: New York, Istanbul, Rio de Janeiro, Tokyo, San Francisco. Quel sogno assomigliava sempre più a un incubo. Il mostro adesso era lì aggrappato al davanzale della finestra della camera. Ma, sorpresa, parlava adesso con voce infantile e lamentosa, era quasi divertente: «Ciao, non so più dove andare. Quel che mi alimenta continua a crescere sempre più, ma so che dovrebbe vivere al sole, non certo in quella fosca ombra sotto le torri». La bambina aveva smesso di essere spaventata, perché chi piagnucola così non può essere pericoloso, l’aveva imparato in cortile a scuola. Il mostro proseguiva: «Hai qualche consiglio da darmi? Me ne danno tanti, ma poi hanno paura anche a guardarmi, non vogliono avere a che fare con me, quei consulenti».

La bambina non capiva molto bene, soprattutto chi diavolo fossero quei cosi, quei «consulenti», ma intuiva che ci fosse la possibilità di cambiare in qualche modo le cose. Doveva farlo, e farlo subito, prima che il mostro potesse ridiventare all’improvviso cattivo e pericoloso un’altra volta. Non le veniva nessuna idea, finché alla fine si ricordò di una lezione di geografia a scuola, quella sui deserti e le tecniche per le energie solari.«Forse posso suggerirti una cosa: di riversare tutte le tue energie nel Sahara!» disse al mostro. «Ne hai abbastanza per ricoprire chilometri e chilometri quadrati di deserto con celle solari. E poi metterci sotto quartieri giardino con le case per tutta la gente che ne ha un gran bisogno».

Era davvero tutto molto eccitante, pensava, bellissimo anche se a farlo era il mostro. Che però pareva perplesso: «Ma come faccio – piagnucolava – a distendermi così sopra il deserto?». Gli rispose Copernica: «Pensa che per ogni singola cella, guadagni una monetina di quelle di cui ti nutri». E alla fine il mostro uscì dalle tenebre dove si annidava, tra le torri, dirigendosi verso il deserto del Sahara. La gente era entusiasta all’idea di tutti quei pannelli solari per la vita, delle nuova generazione di «città-oasi» a ospitare tutti, non solo turisti, uomini d’affari e ricconi.

Ma poi la bambina si svegliò di colpo, con un brivido di terrore: quel mostro non avrebbe mai e poi mai usato il suo potere per la gente, lui pensava solo a sé stesso: «Andrà a finire che costruirà l’ennesima selva di torri smisurate anche in mezzo al Sahara – gridò – chiamandola smart city …»

La Città Conquistatrice

La Repubblica, 15 dicembre 2015

Il presidente Xi Jinping ama gli animali. Nel suo ultimo viaggio in Africa, accompagnato dalla moglie Peng Liyuan, in una settimana ha visitato due zoo e fatto tre safari. Tra Zimbabwe e Sud Africa si è fatto fotografare mentre accarezza giraffe ed elefanti, o mentre segue un branco di leonesse a caccia.

L’ossessione della propaganda del partito-Stato per «l’amore di Papà Xi verso l’Africa», rivela al mondo una realtà ben più matura di un’infantile passione per le bestie esotiche: dopo un corteggiamento durato decenni, la Cina sta completando la conquista economica e politica dell’Africa. Europa e Usa sono impegnate a respingere le ondate migratorie e a combattere contro il contagio del terrorismo islamista nella fascia mediterranea del continente, scontando le colpe storiche di colonialismo e schiavismo.

La Cina invece, non appesantita nemmeno da tradizioni religiose missionarie, avanza silenziosamente a suon di prestiti e contratti miliardari, rispettando la regola diplomatica numero uno di Pechino: la «non ingerenza negli affari interni». Significa che il Dragone paga, costruisce, acquista e commercia senza porre problemi politici o chiedere il rispetto dei valori universali, condivisi dalle grandi democrazie. Risultato: solo 9 Paesi africani economicamente minori, Gambia, Guinea- Bissau, Burkina Faso, Lesotho, Swaziland, Repubblica Centrafricana, Somalia e Somaliland, non possono vantare oggi investimenti cinesi. Per tutti gli altri la Cina è ormai il primo partner commerciale, il primo banchiere, il primo finanziatore di infrastrutture, ma soprattutto il primo sponsor nelle istituzioni internazionali.

Lo scorso anno Pechino ha riservato allo sviluppo africano 222 miliardi di dollari. A inizio dicembre a Johannesburg Xi Jinping ha presieduto il secondo Forum in 15 anni della Cooperazione Cina-Africa, annunciando progetti sostenuti da altri 60 miliardi. Erano assenti solo i leader di Sao Tomè, Burkina Faso e Swaziland, auto-esclusi dal riconoscimento diplomatico di Taiwan.

Il «safari africano» di Pechino, pronto a colmare il vuoto lasciato dalla fine della Guerra Fredda tra Washington e Mosca, presenta oggi un bilancio impressionante: oltre 2.500 progetti avviati e finanziati in 51 nazioni, per un valore superiore a 94 miliardi di dollari. Senza l’appoggio cinese la metà dei bilanci pubblici dei Paesi africani rischierebbe il fallimento, con conseguenze prevedibili per la stabilità interna.

L’ultima missione di Xi Jinping, a inizio dicembre, ha impresso però al grande patto sino- africano un cruciale salto di qualità: dall’intesa economica all’alleanza strategica, politica e militare. All’assemblea generale dell’Onu, in settembre, il presidente cinese aveva annunciato l’invio di un «contingente di pace » di 8mila soldati e lo stanziamento di un miliardo di dollari per sostenere la prima missione internazionale di Pechino, inaugurata tre anni fa contro la pirateria al largo del Corno d’Africa.

Nei giorni scorsi il ministero degli Esteri ha confermato invece che la Cina costruirà la sua prima base navale in Africa, a Gibuti. Si tratta della prima base militare cinese all’estero, dell’esordio ufficiale della Cina tra le super- potenze belliche globali. La scelta è chiara: Gibuti ospita già basi di Usa, Francia e Giappone, la stabilità politica dal 1990 lo ha trasformato nell’avamposto straniero contro il terrorismo islamista in Somalia e nel presidio internazionale a difesa delle rotte commerciali tra Oriente e Mediterraneo, attraverso Suez.

Gibuti in Africa vanta però anche un’esperienza unica in approvvigionamento e forniture logistiche per eserciti e sistemi di difesa: costruire una base navale sullo stretto di Bab el-Mandeb, tra Mar Rosso e Oceano Indiano, consentirà a Pechino di blindare i suoi scambi commerciali con l’Africa, diventandone anche il primo alleato militare. Washington, Tokyo e Parigi fino all’ultimo hanno tentato di far naufragare l’avanzata cinese, per mantenere almeno la leadership della pace nel Golfo di Aden, affacciato sulle aree più sensibili del Medio Oriente. Il fatto che la stessa Unione Africana si sia infine schierata a favore della base cinese a Gibuti conferma quanto in profondità si sia ormai spinta l’influenza di Pechino nel continente. Una relazione a prova di crisi. Reduce da Parigi, dove aveva incontrato Barack Obama, Xi Jinping è infatti atterrato ad Harare nel momento peggiore del rapporto Cina-Africa. La frenata della crescita cinese quest’anno ha posto fine al boom delle materie prime, affossando ferro, uranio, rame, legname, petrolio, ma pure quelle necessarie per l’hi-tech.

L’export africano è crollato e i «metodi cinesi» nella conduzione delle imprese e nel rispetto dei lavoratori locali ha scatenato più di una rivolta sindacale, sollevando per la prima volta l’accusa di «neo-colonialismo» anche nei confronti di Pechino. Con Zuma e Mugabe, Xi Jinping ha così messo a punto 10 nuovi progetti di cooperazione, presentati poi al trionfale Forum con gli altri presidenti del continente: dalla prima ferrovia ad alta velocità, tra Dar es Salam in Tanzania e Lobite in Angola, allo sviluppo dei porti di Abidjan in Costa d’Avorio e Maputo in Mozambico; dall’oleodotto tra Gibuti e Ogaden in Etiopia a quello tra Juba in Sud Sudan e Mombasa in Kenya; dagli investimenti agricoli a quelli minerari, dalla costruzione di centrali atomiche e a carbone, dalla finanza al turismo, dall’hi-techall’industria farmaceutica.

Xi Jinping questa volta non ha però estratto solo il libretto degli assegni: agli alleati delle nazioni in via di sviluppo ha proposto un accordo che punta alla «costruzione di un nuovo sistema mondiale multipolare, sostenibile e giusto», alternativo a quello dominato dagli Usa e sostenuto dalla Ue. In cambio l’erede di Mao Zedong non ha offerto tassi agevolati sui prestiti, ma ha chiesto l’appoggio politico alla Cina nelle istituzioni mondiali, dall’Onu all’Fmi, dalla Wto alle federazioni che gestiscono il globalizzato business dello sport. Lo scambio con l’Africa non è dunque più materie prime-infrastrutture, ma l’esportazione cinese di un modello organizzativo, sociale, economico e militare alternativo a quello dell’Occidente.

Xi Jinping ha detto che la Cina continuerà ad avere bisogno di materie prime e di cibo, ma che la sua priorità oggi sono «nuovi mercati, alleanze strategiche e nuovi centri di produzione energetica ». Proprio Pechino, superando l’India, ha strappato a Parigi i finanziamenti per rendere sostenibile l’eco-compatibilità africana: e proprio Xi Jinping, esibendo la «negoziazione alla pari», ha ottenuto dai capi di Stato dell’Africa la promessa che appena lo yuan sarà pienamente convertibile, la casse del continente si svuoteranno di dollari e di euro per adottare il renminbi come valuta di riserva, se non addirittura come valuta di Stato. Le 5 colonne del nuovo «partenariato strategico globale» Cina-Africa sono «fiducia politica, cooperazione economica, influenza culturale reciproca, sicurezza e coordinamento internazionale».

L’immagine del nuovo imperatore cinese Xi Jinping che abbraccia un rinoceronte, circondato da pastori zulu che ballano, può far sorridere. I leader di Europa e Usa, nelle stesse ore, stavano però fronteggiando gli attacchi terroristi a Parigi e in California. Il Quotidiano del Popolo ha sintetizzato la coincidenza con l’editoriale: “La Cina lavora, l’Occidente combatte”. L’Africa “cinese” non è più lo specchio, forse irreversibile, del fallimento occidentale: sancisce che il secolo di Pechino, per tutti, è già cominciato.

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Possiamo anche comprendere, dopo la tragedia di Parigi, la campagna di enfasi sui valori dell'Occidente scatenata dai media della vecchia Europa. Possiamo anche essere indulgenti, dopo lo shock del 13 novembre, nel leggere l'infedele lista di virtù e primati che la parte del mondo dove tramonta il sole vanterebbe sul resto di popoli della terra. Partecipiamo dello stesso dolore e risentimento per l'aggressione subita, e conosciamo anche l'insuperabile superficialità dei nostri media, la propaganda politica camuffata di informazione ed analisi. Ma la lista dei nostri valori è infedele e incompleta non solo perché si limita a ricordare la libertà individuale, lo stile di vita, il rispetto della donna e pochissime altre cose.

Manca dall'elenco la retorica da primato, la capacità di autoassolversi, l'incapacità congenita di comprendere le ragioni dell'altro. E latitano di fatto anche conquiste positive che effettivamente possediamo: lo spirito critico, la capacità di analisi storica. Queste ultime dovrebbero rammentarci che dentro l'Occidente è fiorita e prospera da secoli la malapianta del razzismo, che anzi l'Occidente stesso nasce come colonialismo, distinzione e sopraffazione dell'altro. Noi datiamo l'inizio dell'Età moderna e dunque la fondazione dell' Occidente con la scoperta delle Americhe, col completamento, a Ovest, della conoscenza del globo.Ma dimentichiamo che quell'avvio dell'occidentalizzazione del mondo coincide con lo sterminio delle popolazioni native: «il più grande genocidio dell'umanità», come lo ha definito Tzevtan Todorov.

Certo, non è questo il momento di andare così indietro nel tempo. Del resto, basterebbe rammentare le vicende recenti, a partire dalla prima Guerra del Golfo, come hanno fatto pochi onesti commentatori, capaci di pensare prima di scrivere. E tuttavia oggi bisogna rinserrare i ranghi e predisporre le difese per evitare che la tragedia si ripeta. Ma è in questi momenti che la mancanza di analisi critica, di lucidità, di onestà storica può indurre a compiere errori fatali. E allora, chiediamo: qual'è il senso dell'espressione “scontro di civiltà”, aggiornato a “guerra di civiltà”? Guerra di civiltà? Ma l'Occidente non ha mai smesso un istante di fare guerra agli altri da quando è sorto e si autodefinito come tale. L'espressione non è solo un capovolgimento clamoroso della realtà storica, è una rappresentazione del presente infondata sino al ridicolo. E' come se due entità alla pari, per l'appunto due civiltà, si fronteggiassero per conseguire un primato assoluto.

Ma non è così. In realtà quello che un tempo era Oriente – ricordate Edward Said? – e ora chiamiamo Islam, non è che un mondo sconfitto, culturalmente annichilito dal dominio dell'Occidente. L'immaginario che noi abbiamo costruito si è ormai imposto come l'unico orizzonte di possibilità a tutti i popoli della terra. Le grandi masse di religione islamica non hanno altra prospettiva che di essere assorbiti dai valori e dagli idoli scintillanti della nostra società. Sono li, condannati a diventare come noi. Ma non è solo da tale immenso accampamento di sconfitti che partono le imprese disperate dei terroristi. Al suo interno le élites musulmane non disdegnano, com'è noto, di assaporare le ebbrezze delle nostre Ferrari. Perché anche l'Islam è diviso in classi, lacerato dalle disuguaglianze.

Tale realtà è vera e nota da tempo. Quel che cambia, quel che oggi appare più esemplarmente visibile, è l'intimo nichilismo del nostro messaggio. Un nichilismo che ha lo stesso volto per i giovani europei, bianchi e cattolici come per i ragazzi musulmani della banlieue parigina. Al di sotto delle fantasmagorie del consumismo, le società capitalistiche del nostro tempo svelano la desertificazione di senso a cui sono approdate. Non hanno nessun progetto di futuro da proporre, nessun nuovo assetto di civiltà con cui attrarre e sedurre culture altre. Tanto meno i giovani musulmani di seconda generazione, senza lavoro e senza opportunità. Qualcuno si ricorda più dell'American dream, del sogno americano?

Oggi negli USA come in Europa le nuove generazioni hanno la certezza che non potranno contare sulle stesse opportunità e i vantaggi dei loro padri. Di quale protezione sociale godranno una volta anziani? Quale certezza di occupazione e di reddito, di stabilità nel lavoro, nelle relazioni umane? Quale messaggio di solidarietà, di superiore assetto del vivere in comune, di felicità collettiva lanciano ad esse le élites dell'odierno capitalismo? Tutto ciò che la sua parte più avanzata può offrire di seducente alle nuove generazioni è un nuovo prodotto tecnologico da godere in consumistica solitudine. Perfino il nostro avvenire sul pianeta, a causa dell'esaurimento delle risorse e del riscaldamento globale, appare minacciato. Per il resto, l'intero tessuto della società cosi come l'abbiamo conosciuta viene frantumato, risucchiato negli scambi di mercato. Ci ricordiamo ancora della nota esclamazione di Barbara Thatcher,”non c'è alternativa”? Non era solo un invito a desistere dalla lotta rivolto al movimento operaio e alle sinistre. Era, ed è ancora, uno sbarramento degli orizzonti dello stesso capitalismo, che non ha più nulla da offrire, se non il mondo così com'è.

Eppure l' Occidente per qualche secolo, mentre schiacciava altri popoli, ha tenuta alta la bandiera del progresso, almeno per i propri. Oggi non accade più, non si va avanti, si torna indietro. Perciò nel senso in cui si utilizza oggi il termine, Occidente è una moneta scaduta, non ha più corso. Dovremmo essere onesti e dire la verità. Il messaggio di morte dei terroristi è figlio legittimo di questo capitalismo predatore e senza speranza.

Per l'ignoranza dei più, la follia dei governanti, la complicità dei mass media rischiamo l'approvazione un trattato che può «vio­lare i diritti umani, comportando disoc­cu­pa­zione, danni all'agri­col­tura, frodi ali­men­tari, deva­sta­zione dell’ambiente, inqui­na­mento delle acque, con­ta­mi­na­zione radioat­tiva, defor­ma­zioni genetiche». Il manifesto, 17 ottobre 2015

In molti paesi civili, di là e di qua dall’Atlantico, dagli stessi Stati uniti alla Ger­ma­nia, il Ttip è oggetto di cri­ti­che severe e ben fondate.

Nel nostro paese (“Ahi serva Ita­lia!” era l’invettiva di Paolo Sylos Labini) le cri­ti­che sono rare e mino­ri­ta­rie. Molti, invece, i giu­dizi entu­sia­stici; dalla Con­fin­du­stria al Pre­si­dente del Con­si­glio. Mat­teo Renzi ha defi­nito «vitale» il Trat­tato e soste­nuto che «la sua man­cata con­clu­sione sarebbe un gigan­te­sco auto­gol per il nostro continente».

Sia ai cri­tici sia ai soste­ni­tori del Ttip, e soprat­tutto a que­sti, sarebbe utile la let­tura di un docu­mento delle Nazioni Unite: Fourth report of the Inde­pen­dent Expert on the pro­mo­tion of a demo­cra­tic and equi­ta­ble inter­na­tio­nal order. È un docu­mento circa le con­se­guenze giu­ri­di­che del Ttip, con­se­guenze non meno gravi — la pri­va­tiz­za­zione del diritto — di quelle imme­dia­ta­mente economiche. Ne riprendo qui alcuni passi.

«È forse ammis­si­bile che a un inve­sti­tore che spe­cula o a una banca che con­cede pre­stiti senza garan­zie sia comun­que assi­cu­rato un pro­fitto? No: qual­che volta gli inve­sti­tori vin­cono, qual­che volta per­dono. Ciò che è anor­male è che un inve­sti­tore pre­tenda la garan­zia di un pro­fitto, e che si crei un sistema paral­lelo di riso­lu­zione stra­giu­di­ziale delle con­tro­ver­sie, un sistema che nor­mal­mente non è indi­pen­dente, tra­spa­rente, affi­da­bile o almeno impu­gna­bile, e soprat­tutto che si cer­chi di usur­pare le fun­zioni dello Stato. Si trat­te­rebbe di una pri­va­tiz­za­zione dei pro­fitti e di una socia­liz­za­zione delle per­dite (all’Onu si ricor­dano di Erne­sto Rossi!)».

Nono­stante le ana­lisi dell’Unctad, di J. Sti­glitz, P. Krug­man e J. Capaldo, le società trans­na­zio­nali con­ti­nuano a spin­gere i governi verso nuovi accordi di inve­sti­menti inter­na­zio­nali con clau­sole di Riso­lu­zione delle con­tro­ver­sie tra inve­sti­tore e Stato (Investor-state dispute set­tle­ment: Isds), clau­sole che potreb­bero por­tare a gravi crisi inter­na­zio­nali. La ragione addotta è che gli inve­sti­tori non si fidano dei sistemi giu­di­ziari nazio­nali, e pre­fe­ri­scono creare una giu­ri­sdi­zione sepa­rata per le con­tro­ver­sie com­mer­ciali; tut­ta­via è dif­fi­cile capire per­ché mai uno Stato dovrebbe accet­tare l’implicita squa­li­fi­ca­zione dei suoi tri­bu­nali nazio­nali e con­sen­tire la crea­zione di un sistema pri­va­tiz­zato di riso­lu­zione delle con­tro­ver­sie: piut­to­sto che andare in causa davanti ai tri­bu­nali nazio­nali, gli inve­sti­tori si affi­dano a tre arbi­tri che deci­de­ranno se i loro diritti sono stati vio­lati da uno Stato.

Ciò è tanto più grave quando si tratta di atti­vità eco­no­mi­che e finan­zia­rie che pos­sono vio­lare i diritti umani, in quanto com­por­tino disoc­cu­pa­zione, danni alla agri­col­tura e frodi ali­men­tari, deva­sta­zione dell’ambiente, inqui­na­mento delle acque, con­ta­mi­na­zione radioat­tiva, defor­ma­zioni genetiche.

Di qui una prima rac­co­man­da­zione: «Gli Stati dovreb­bero abo­lire il sistema di riso­lu­zione delle con­tro­ver­sie tra inve­sti­tori e Stato, e sosti­tuirlo con una Corte degli inve­sti­menti internazionali».
Il docu­mento dell’Onu si può tro­vare a que­sto indi­rizzo inter­net: http:// www .ref world .org/ p d f i d / 5 5 f 2 8 f 2 e 4 . pdf. Un cenno, tut­ta­via, a que­sti «inve­sti­tori» inter­na­zio­nali, tanto cor­teg­giati dal governo ita­liano e che sono grandi imprese mul­ti­na­zio­nali e grandi spe­cu­la­tori finan­ziari quali Blac­kRock e Gold­man Sachs — ben cono­sciuti e ben intro­dotti in Italia.

Ora un inve­sti­mento è dav­vero tale se aumenta lo stock di capi­tale di un paese, per esem­pio se si costrui­sce una nuova fab­brica, si impie­gano nuove mac­chine e si assu­mono nuovi lavo­ra­tori. Se un «inve­sti­tore» di un altro paese com­pera una impresa ita­liana, si tratta sol­tanto di un pas­sag­gio di pro­prietà e di poteri, con con­se­guenze ovvie e aggra­vate dalla pri­va­tiz­za­zione del diritto di cui si è detto.

Mentre i negoziatori e i ministri degli Stati Uniti e degli altri undici paesi del Pacifico si incontrano ad Atlanta per definire i dettagli del nuovo Accordo Trans-Pacifico (TPP), un'analisi più seria è fondamentale. Il più grande accordo della storia sul commercio e gli investimenti non è come sembra.
Si sentirà parlare molto dell'importanza del TPP per il "libero scambio". La realtà è che si tratta di un accordo che vuole gestire i rapporti commerciali e di investimento tra i suoi membri ­- e farlo per conto delle più potenti lobby di ciascun paese. Fate attenzione: è evidente dalle principali questioni, sulle quali i negoziatori stanno ancora contrattando, che il TPP non ha niente a che fare con il "libero" scambio.
La Nuova Zelanda ha minacciato di uscire dall'accordo a causa del modo in cui il Canada e gli Stati Uniti gestiscono il commercio di prodotti lattiero-caseari. L'Australia non è contenta del modo in cui gli Stati Uniti e il Messico gestiscono il commercio di zucchero. E gli Stati Uniti non sono soddisfatti del modo in cui il Giappone gestisce il commercio di riso. Questi settori sono sostenuti da ampi blocchi di elettori nei loro rispettivi paesi. E rappresentano solo la punta dell'iceberg del modo in cui il TPP potrebbe portare avanti un'agenda che in realtà contrasta con il libero scambio.
Per iniziare, si consideri quello che l'accordo farebbe per estendere i diritti di proprietà intellettuale delle grandi compagnie farmaceutiche, come è emerso dalle versioni trapelate dal testo oggetto dei negoziati. La ricerca economica mostra chiaramente che tali diritti di proprietà intellettuale promuovono una ricerca che nella migliore delle ipotesi risulta debole. In realtà, è evidente il contrario. Quando la Corte Suprema ha annullato il brevetto di Myriad sul gene BRCA, questo ha portato molte innovazioni che hanno prodotto test migliori e a costi più bassi. Le disposizioni contenute nel TPP invece limiterebbero la competizione aperta e aumenterebbero i prezzi per i consumatori negli Stati Uniti e in tutto il mondo – un anatema per il libero scambio.
Il TPP gestirà il commercio di prodotti farmaceutici attraverso una varietà di modifiche di norme apparentemente arcane su questioni come "patent linkage1", "l'esclusività di dati", e i "biofarmaci". Il risultato è che alle compagnie farmaceutiche sarebbe di fatto consentito estendere -­ a volte quasi indefinitamente ­- i loro monopoli sui medicinali brevettati, tenere i generici più economici fuori dal mercato, e impedire ai concorrenti biosimilari di introdurre nuovi farmaci per anni. Questo è il modo in cui il TTP gestirà il commercio del settore farmaceutico se gli Stati Uniti riusciranno nel loro intento.
In modo analogo, si consideri come gli Stati Uniti sperano di usare i TPP per gestire il commercio nell'industria del tabacco. Per decenni, le società statunitensi di tabacco hanno utilizzato meccanismi di aggiudicazione di investitori esteri creati da accordi come il TPP per combattere le normative volte a contenere la piaga sociale del fumo. In base a questi sistemi di regolazione delle controversie tra stato e investitore (ISDS), gli investitori stranieri acquisis

cono nuovi diritti per far causa ai governi nazionali, ricorrendo ad arbitrati privati vincolanti sulle normative che, secondo loro, diminuiscono la redditività attesa dei loro investimenti.

Gli interessi delle aziende internazionali promuovono l'ISDS come un sistema necessario per proteggere i diritti di proprietà laddove manca lo stato di diritto e dei tribunali attendibili. Ma questo argomento non ha senso. Gli Stati Uniti stanno cercando lo stesso meccanismo in un mega-accordo simile con l'Unione Europea, l'Accordo Transatlantico per il commercio e gli investimenti, anche se ci sono pochi dubbi sulla qualità degli ordinamenti giuridici e dei sistemi giudiziari europei.

Gli investitori meritano tutela contro l'espropriazione o norme discriminatorie. Ma l'ISDS va ben oltre. L'obbligo di risarcire gli investitori per le perdite di profitti attesi può ed è stato applicato persino laddove le regole non sono discriminatorie e i profitti sono realizzati causando un danno sociale.

La Philip Morris International è attualmente in causa contro l'Australia e l'Uruguay (che non è partner del TPP) che richiedono di apporre sui pacchetti di sigarette delle etichette di avvertenza. Il Canada, minacciato da una simile querela, qualche anno fa ha fatto marcia indietro sull'introduzione di un'etichetta analoga.

Dato il velo di segretezza intorno alle trattative del TPP, non è chiaro se il tabacco verrà escluso da alcuni aspetti dell'ISDS. In entrambi i casi, la questione principale rimane: tali disposizioni rendono difficile ai governi svolgere le loro funzioni basilari ­- proteggere la salute e la sicurezza dei loro cittadini, assicurare la stabilità economica, e salvaguardare l'ambiente.

Si immagini cosa sarebbe accaduto se queste disposizioni fossero state messe in atto quando gli effetti letali dell'amianto furono scoperti. Anziché chiudere le aziende e costringerle a risarcire coloro che sono stati danneggiati, in base all'ISDS, i governi avrebbero dovuto pagare i produttori per non uccidere i loro cittadini. I contribuenti sarebbero stati colpiti due volte - la prima pagando per i danni alla salute causati dall'amianto, e poi risarcendo i produttori per la perdita dei loro profitti nel momento in cui il governo fosse intervenuto per regolamentare un prodotto dannoso.

Non dovrebbe sorprendere che gli accordi internazionali dell'America producano un commercio gestito anziché libero. Questo è ciò che succede quando il processo di policymaking è chiuso agli stakeholder non commerciali ­- per non parlare dei rappresentanti eletti dal popolo al Congresso.

1Con questo termine comunemente si definisce la pratica con cui le autorità regolatorie farmaceutiche condizionano il rilascio di autorizzazioni all'immissione in commercio dei farmaci generici all'esistenza o meno di brevetti sui principi attivi.

Articolo pubblicato da project-syndicate.org

Traduzione di Victor Murrugarra

Il manifesto, 15 ottobre 2015 (m.p.r.)

È par­tita lunedì la pri­va­tiz­za­zione di Poste Ita­liane, che verrà rea­liz­zata con la col­lo­ca­zione sul mer­cato di azioni della società cor­ri­spon­denti a poco meno del 40% del capi­tale sociale. L’obiettivo dichia­rato dal governo è l’incasso di circa 4 miliardi da desti­nare alla ridu­zione del debito pub­blico. Già da que­sta pre­messa emerge il carat­tere ideo­lo­gico dell’operazione: l’incasso di 4 miliardi di euro com­por­terà, infatti, un dra­stico calo del nostro debito pub­blico dall’attuale ver­ti­gi­nosa cifra di 2.199 miliardi (dati Ban­ki­ta­lia) alla cifra di 2.195 miliardi (!). Senza con­tare il fatto di come l’attuale utile annuale di Poste Ita­liane, 1 miliardo di euro, andrà cal­co­lato, come entrate per lo Stato, in 600 milioni di euro/anno a par­tire dal 2016.

Si tratta di un evi­dente rove­scia­mento ideo­lo­gico della realtà: non è infatti la pri­va­tiz­za­zione di Poste Ita­liane ad essere neces­sa­ria per la ridu­zione del debito pub­blico, quanto è invece la nar­ra­zione shock del debito pub­blico ad essere la pre­messa per poter pri­va­tiz­zare Poste Italiane.

Occorre poi aggiun­gere come anche il prezzo di ven­dita del 40% di Poste Ita­liane sia stato ipo­tiz­zato al mas­simo ribasso, pre­fi­gu­rando, ancora una volta, la sven­dita di un patri­mo­nio col­let­tivo. Infatti, men­tre Banca Imi, filiale di Intesa San­paolo, attri­buiva, non più tardi di una set­ti­mana fa, un valore a Poste Ita­liane com­preso fra gli 8,95 e gli 11,42 miliardi di euro, e men­tre Gold­man Sachs par­lava di una cifra com­presa i 7,9 e i 10,5 miliardi, ai bloc­chi di par­tenza della ven­dita delle azioni la società risulta valo­riz­zata fra i 7,8 e i 9, 79 miliardi.

A que­sto, vanno aggiunti tutti i fat­tori di rischio insiti nell’operazione, legati al fatto che men­tre si decide di pri­va­tiz­zare un ser­vi­zio pub­blico uni­ver­sale, con­se­gnan­dolo di fatto alle leggi del mer­cato, se ne raf­forza al con­tempo, per ren­dere più appe­ti­bile l’offerta, il carat­tere mono­po­li­stico nel campo dei ser­vizi oggi offerti, per i quali non v’è invece alcuna cer­tezza rispetto al domani: par­liamo dell’accordo vigente con Cassa depo­siti e pre­stiti per la gestione del rispar­mio postale (1,6 miliardi di com­mis­sione), così come dei cre­diti van­tati da Poste nei con­fronti della pub­blica ammi­ni­stra­zione (2,8 miliardi). Senza con­tare come la società abbia in pan­cia stru­menti di finanza deri­vata, il cui fair value, al 30 giu­gno 2015, risulta nega­tivo per 976 milioni.

Ma aldilà di que­ste con­si­de­ra­zioni eco­no­mi­ci­sti­che, è a tutti evi­dente come, con il col­lo­ca­mento in Borsa del 40% di Poste Ita­liane, muti defi­ni­ti­va­mente la natura di un ser­vi­zio, la cui uni­ver­sa­lità era sinora garan­tita dal suo con­te­sto di garan­zia pub­blica, che per­met­teva, attra­verso i ricavi rea­liz­zati dagli uffici postali delle grandi aree den­sa­mente urba­niz­zate, di poter man­te­nere l’apertura di uffici, spesso con fun­zioni di pre­si­dio sociale ter­ri­to­riale, in tutto il ter­ri­to­rio ita­liano, a par­tire dai pic­coli paesi. E’ evi­dente come la pri­va­tiz­za­zione in atto inci­derà soprat­tutto su que­sto dato: per i divi­dendi in Borsa diverrà asso­lu­ta­mente neces­sa­rio il taglio dei rami eco­no­mi­ca­mente sec­chi, ovvero la dra­stica ridu­zione degli spor­telli nelle aree poco popolate.

E, infatti, il piano indu­striale già pre­vede - ma sarà solo l’assaggio - la diver­si­fi­ca­zione dei modelli di reca­pito, che da otto­bre 2015 rimarrà quo­ti­diano per nove città defi­nite ad «alta den­sità postale», men­tre diverrà a giorni alterni per 5267 comuni. Quasi tau­to­lo­gico sot­to­li­neare l’impatto sul mondo del lavoro, che vedrà una dra­stica ridu­zione - si parla nel tempo di 12–15.000 posti in meno - oltre al sovrac­ca­rico di ritmi per quelli che avranno la for­tuna di essere sfug­giti alla man­naia.

Di fatto, con la pri­va­tiz­za­zione di Poste Ita­liane si cerca di ren­dere espli­citi pro­cessi che già con la pre­ce­dente tra­sfor­ma­zione in SpA erano rima­sti sotto trac­cia: un’attenzione sem­pre più resi­duale al ser­vi­zio di reca­pito postale (anche per motivi legati all’innovazione tec­no­lo­gica) e un accento sem­pre più mar­cato sul ruolo finan­zia­rio di Poste Ita­liane, che, oggi, gra­zie alla capil­la­rità dei suoi pre­sidi ter­ri­to­riali (13.000 spor­telli), costruiti negli anni con i soldi della col­let­ti­vità, può tran­quil­la­mente lan­ciarsi in Borsa sfrut­tando la fide­liz­za­zione dei cit­ta­dini accu­mu­lata in decenni di ruolo pub­blico, per met­terla a valore in pro­dotti assi­cu­ra­tivi, finan­ziari e in sem­pre più spre­giu­di­cate spe­cu­la­zioni di mer­cato. Stu­pi­sce, ma fino a un certo punto, la totale con­di­scen­denza dei prin­ci­pali sin­da­cati. E non vale la foglia di fico dell’azionariato popo­lare, che in realtà rende la truffa ancor più com­piuta: con le azioni per i dipen­denti e gli utenti si fa un ulte­riore favore ai grandi inve­sti­tori, che potranno con­trol­lare la società senza nep­pure fare lo sforzo di met­tere soldi per acquistarla.

*Attac Ita­lia

La Repubblica, 9 ottobre 2015 (m.p.r.)

Con le antenne sensibili di chi fa campagna elettorale, Hillary Clinton ha capito che la globalizzazione perde colpi. Suo marito Bill da presidente firmò il “padre” di tutti gli accordi libero scambio, il Nafta che creò un mercato unico tra Usa, Canada e Messico. Oggi Hillary boccia l’analogo trattato che Barack Obama ha concordato coi paesi dell’Asia-Pacifico: «Non va ratificato», dice la candidata aprendo la prima seria frattura con l’attuale presidente. Lo stesso dice Donald Trump, in testa ai sondaggi tra i repubblicani. In campagna elettorale, è vero, il populismo piace e il protezionismo porta voti. Ma stavolta c’è dietro un cambiamento profondo che investe l’intera economia mondiale. La globalizzazione si è inceppata.

Lo si capisce mettendo insieme questi tre fenomeni. Primo, il Fondo monetario al vertice di Lima annuncia che il mondo è in una recessione analoga al 2009, se misuriamo tutti i Pil in dollari anziché in monete nazionali (cosa che ha un senso, soprattutto per i paesi emergenti che vivono di esportazioni in dollari). Secondo: lo stesso Fmi rileva che il commercio mondiale non cresce più; ed era proprio l’espansione degli scambi il tratto distintivo della globalizzazione. In passato il commercio estero cresceva più dei Pil nazionali, ora è il contrario.
Il terzo segnale viene dalla Rete, uno spazio decisivo visto che ci scambiamo sempre meno merci fisiche e sempre più servizi online, comunicazione e informazioni; l’ultima sentenza della Corte di Giustizia europea che blocca il trasferimento di dati dall’Europa all’America, conferma una tendenza già in atto: il web è sempre meno universale, Internet si sta lentamente trasformando in tanti Intra-Net suddivisi tra aree geografiche. Cominciarono regimi autoritari come Cina, Russia e Iran, ma anche tra Europa e Usa adesso aumentano gli ostacoli. L’involuzione è stata accelerata dalle rivelazioni di Edward Snowden sullo spionaggio americano, certo, ma di fatto sta cambiando la natura aperta della Rete.
Dunque, la globalizzazione non è irreversibile. Di questo si è convinto anche il più grande pensatore politico americano del nostro tempo, Francis Fukuyama. Proprio lui che aveva teorizzato “la fine della Storia” dopo la caduta del Muro di Berlino: cioè il trionfo di un modello unico, la liberal democrazia e l’economia di mercato, un mix brevettato in Occidente. Un quarto di secolo dopo Fukuyama fa un’autocritica clamorosa, ammettendo che «né la Cina né la Russia vogliono diventare come noi». L’omologazione sembrava un trend inarrestabile, invece dei poderosi venti contrari hanno invertito la tendenza, un leader come Xi Jinping teorizza orgogliosamente non solo l’autonomia ma la superiorità del suo modello autoritario.
La globalizzazione inverte il senso di marcia perfino sul terreno dove sembrava non avere avversari: l’economia. Quando Bill Clinton firmava il Nafta, il commercio tra le nazioni cresceva più veloce dei rispettivi Pil. Allora l’abbattimento delle barriere, l’apertura delle frontiere, l’intensificarsi degli scambi e degli investimenti internazionali, erano un motore di crescita. L’inizio del nuovo millennio, segnato dall’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) portò perfino ad accentuare il fenomeno: dal 2003 al 2006 in poi il commercio estero crebbe a una velocità addirittura doppiarispetto ai Pil. La globalizzazione trainava tutto.
Adesso, rivela il Fondo monetario, siamo nella situazione inversa: le maggiori economie mondiali hanno una crescita interna superiore agli scambi con gli altri. Il commercio mondiale langue. Porti e navi da container soffrono di sovraccapacità. Le due maggiori economie mondiali, America e Cina, sono di colpo più “introverse”. L’America sta quasi smettendo di comprare petrolio dal resto del mondo perché ne ha abbastanza in casa sua. La Cina decurta brutalmente i suoi acquisti di materie prime facendone precipitare le quotazioni e innescando recessioni nelle economie emergenti dal Brasile alla Russia.
Si chiude un quarto di secolo di crescita mondiale che aveva visto i Brics (Brasile Russia India Cina Sudafrica) e altre tigri dell’emisfero Sud nel ruolo delle locomotive. Anche i paesi più avanzati ne soffrono le ripercussioni. Negli Usa rallenta la creazione di posti di lavoro (il mese scorso 142.000 contro i 250.000 di media nel 2014). La Germania, potenza esportatrice per eccellenza, può sopravvivere al grande gelo della globalizzazione? La risposta dagli ultimi dati è negativa: l’export tedesco ha iniziato a calare già quest’estate, molto prima dello scandalo Volkswagen. Se la globalizzazione è in ritirata, le conseguenze si risentono in tutte le economie “estroverse”, cioè che basavano la propria crescita soprattutto sui mercati stranieri.
Qualcosa di strutturale sta cambiando, e la Cina è un osservatorio- chiave per capirlo. Parlare solo di rallentamento della crescita cinese, è una spiegazione riduttiva. Certo la velocità di crescita del Pil nella Repubblica Popolare era stata del 10% annuo nel periodo del boom, mentre quest’anno secondo il Fmi è solo del 6,5%. Ma un altro dato fa riflettere, il consumo di energia elettrica in Cina è quasi fermo, la sua crescita è dell’1 o 2%. Cosa c’è dietro? Non solo la Repubblica Popolare subisce una frenata, ma sta cambiando anche il suo modello di sviluppo. Sta diventando una società del ceto medio, con i consumi tipici di una transizione post-industriale. A Pechino e Shanghai l’automobile ormai ce l’hanno tutti, aumentano invece i consumi di servizi: dall’istruzione alla sanità, dalla finanza al turismo. I servizi consumano meno materie prime, meno importazioni.
A queste trasformazioni strutturali si accompagna un mutamento nel clima ideologico. Ai tempi in cui Bill Clinton firmava il Nafta, il pensiero economico era dominato dal “paradigma” neoliberista. Dal mercato unico nordamericano, promise Clinton riecheggiando i suoi economisti Robert Rubin e Larry Summers, sarebbero nati milioni di posti di lavoro. Oggi a quelle favole non crede più neanche il Financial Times, che di fronte al trattato Tpp America-Asia-Pacifico prevede “al massimo” un beneficio di +0,5% nel Pil spalmato su molti anni.
Obama, che ha lavorato per anni alla costruzione dei due trattati gemelli (il Tpp con il Pacifico e il Ttip con l’Europa) è a sua volta figlio di un’epoca nuova. È stato osservato infatti che questi accordi di libero scambio sono parziali. Uniscono e dividono. Sono disegnati su misura per essere “contro” qualcuno. Nel caso del Tpp il grande escluso è ovviamente la Cina. Negli anni Novanta e all’inizio di questo millennio, con la creazione del Wto, si perseguiva una globalizzazione universale, aperta a tutti. Adesso sono di moda gli accordi “regionali”, che sono spesso conventio ad excludendum , club a cui si accede dietro invito. Obama ne ha spiegato la logica: cominciando da un accordo con paesi simili, come Giappone e Australia, ha inserito nelle clausole del trattato i diritti sindacali e la protezione dell’ambiente. Spera che questo un giorno possa forzare la mano ai cinesi costringendoli a concessioni. Ma Pechino ha già imboccato una strada diversa, si confeziona i suoi trattati commerciali, con chi è disposto a firmarli. Dal “mondo piatto” che teorizzava Thomas Friedman, scivoliamo in un mondo dove infinite barriere invisibili si stanno ricostituendo.

Il manifesto, 8 ottobre 2015 (m.p.r.)

La truffa dei Die­sel ammessa dalla Vw disvela il carat­tere della com­pe­ti­zione e della sele­zione che è in corso tra i grandi pro­dut­tori dell’autoveicolo. Una com­pe­ti­zione for­te­mente con­di­zio­nata dalla finanza e dai suoi favori. E non dai limiti ener­ge­tici e ambien­tali del pia­neta e dalla mobilità.

Una com­pe­ti­zione senza esclu­sioni di colpi con il fine di rag­giun­gere la posi­zione di Big dove gli Stati e le dimen­sioni con­ti­nen­tali ven­gono pie­gate alle neces­sità imme­diate delle mul­ti­na­zio­nali. Tutte le ristrut­tu­ra­zioni, gli inse­dia­menti e le acqui­si­zioni tra i gruppi dell’auto di que­sti hanno visto il ruolo dei governi e l’intervento pub­blico per favo­rirli e soste­nerli, unica ecce­zione l’Italia che ha asse­con­dato il ripo­si­zio­na­mento inter­na­zio­nale di Fiat attra­verso FCA a sca­pito del nostro paese con un carico enorme sui lavo­ra­tori Ita­liani che vedono un peg­gio­ra­mento delle con­di­zioni di lavoro e dei gradi di libertà nei luo­ghi di lavoro.

Ora il Diesel-Gate deve farci discu­tere sicu­ra­mente delle con­se­guenze ancora tutte da con­ta­bi­liz­zare, dai costi dei richiami a quelli delle class action.

Volk­swa­gen vende vei­coli per oltre 200 miliardi di euro l’anno, è il più grande inve­sti­tore al mondo in ricerca e svi­luppo, assi­cura in Ger­ma­nia 600 mila posti di lavoro diretti (più milioni di posti indi­retti nel mondo). Il set­tore auto pesa per 300 miliardi di euro di espor­ta­zioni, la prima voce del made in Ger­many. E non è per nulla escluso che il governo tede­sco non inter­venga per salvarla.

Quindi dando per certo un effetto sulle ven­dite, del gruppo VW e su quelle dell’intero set­tore die­sel, il ral­len­ta­mento degli inve­sti­menti già annun­ciato sui nuovi pro­dotti con le con­se­guenti rica­dute occu­pa­zio­nali sull' indotto (c’è già chi sus­surra di un calo di com­messe intorno al 20%) anche nel nostro paese dove VW ha fatto in que­sti anni un note­vole shop­ping nella nostra com­po­nen­ti­stica orfana dei volumi Fiat. Ma dopo il fal­li­mento della com­pe­ti­zione «truc­cata» del die­sel, va ria­perto il con­fronto su quale mobi­lità si deve pro­durre in Europa, con quali pro­dotti e quale soste­ni­bi­lità, con quale ruolo pub­blico e con quali diritti, tur­na­zioni e salari. Rico­struendo non solo attra­verso i test su strada della auto un con­trollo pub­blico a tutela dei cit­ta­dini lavo­ra­tori e con­su­ma­tori ma recu­pe­rando lo squi­li­brio fra i rego­la­tori pub­blici e le aziende regolate.

Nelle ban­che come nell’auto, i gua­da­gni dei mana­ger sono un mul­ti­plo di quelli dei fun­zio­nari che dovreb­bero con­trol­larli e spesso quei fun­zio­nari spe­rano solo di essere assunti da loro. E per Wall Street come per Volk­swa­gen, la cono­scenza di tec­no­lo­gie molto com­plesse gioca a favore delle imprese su chi dovrebbe con­trol­larle: le aziende sanno tutto per­ché hanno creato loro quei pro­dotti, titoli strut­tu­rati o motori die­sel, i con­trol­lori invece devono deco­struirli e inter­pre­tarli da zero.

Infine que­sta vicenda non può essere iso­lata da ciò che accade in que­sti giorni in Usa tra Fca/Fiat e sin­da­cato dove i lavo­ra­tori boc­ciando l’accordo, potendo a dif­fe­renza che da noi votare libe­ra­mente, hanno por­tato la Uaw a dichia­rare lo scio­pero che ha le sue ori­gine nei diversi trat­ta­menti sala­riali a parità di lavoro tra Vete­rans retri­buiti 28$ e i Wor­ker in pro­gres­sion a 15$ l’ora e nella inu­ma­nità di turni di lavoro di 10 ore al giorno per quat­tro giorni alla set­ti­mana con varia­zioni di turni che porta in pochi giorni da un turno di notte ad un turno che ini­zia prima del alba, ora­rio che ricorda la ribat­tuta di Melfi e le pro­po­ste Fiat in Italia.

Il manifesto, 6 ottobre 2015 (m.p.r.)

Alla vigilia di ogni legge di stabilità il dibattito sulla pressione fiscale ritrova un suo asfittico momento di vita. Difficilmente si spinge però oltre una materia buona per demagoghi e commercialisti. Un pensiero forte sulla fiscalità sembra fermo da decenni e, soprattutto, saldamente ancorato a una destra che sa bene quello che vuole. Gli si oppone da sinistra, con spirito egualitario e scarso ascolto politico, la denuncia della «regressività» del sistema fiscale e la proposta di un suo rivoluzionamento portate avanti da Landais, Piketty e Saez (Per una rivoluzione fiscale, La scuola, 2014).

Sul fronte opposto, per quanto detestabili, i nipotini di Hayek, hanno saputo dimostrare un certo rigore e insediarsi stabilmente nell’orientamento di politiche governative impegnate nella competizione per la migliore offerta di vantaggi fiscali. Il loro totem, la celebre «curva di Laffer» nella quale si dimostra che oltre un certo limite di imposizione fiscale il gettito decresce perché decrescerebbe l’imponibile più rapidamente dell’aumento dell’imposta, sta ancora in piedi, sia pure in virtù di brutali rapporti di forza. Anche se l’ipotesi paradossale da cui muove, secondo cui una imposizione del 100% corrisponderebbe alla disincentivazione di qualsiasi attività è banalmente incontrovertibile, almeno in una economia di mercato.
Da qui discende, per vie non proprio limpide, l’avversione per qualsivoglia progressività fiscale, la difesa dei patrimoni e delle rendite, il dirottamento dell’imposizione verso i consumi, il concetto che il welfare se lo devono pagare soprattutto quelli che ne usufruiscono (e dunque non i più ricchi). Insomma la destra, sul fisco, ha le idee assai chiare. Del resto non pochi governi di sinistra hanno fatto ricorso, in forma più o meno mitigata, a queste stesse ricette. Circostanza che acuisce la necessità delle sinistre di governo, quando non integralmente convertite al liberismo, di distinguersi in qualche modo dalle politiche fiscali della destra, sostenendo il valore, per l’evoluzione della società in generale, di un’alta imposizione fiscale. Almeno fin dove il consenso non ne risulti troppo minacciato.
Su la Repubblica l’ex ministro Vincenzo Visco tentava qualche tempo fa di elencare gli elementi discriminanti: la promozione del welfare e la sua gestione statale che garantirebbe attraverso la riduzione dei rischi individuali maggiore efficienza e produttività, oltre alla riduzione delle diseguaglianze. Alla quale dovrebbe provvedere anche una politica di progressività fiscale. A questo insomma «servono le tasse». Fatto sta che né della progressività fiscale e men che meno della riduzione delle diseguaglianze, che al contrario sono cresciute a dismisura, si è vista traccia alcuna nel crepuscolo «migliorista» delle socialdemocrazie. Sulle colonne di questo giornale, il 29 settembre, Roberto Romano sottolineava la relazione diretta tra diritti e prelievo fiscale: «Dove esiste un’adeguata pressione fiscale si osserva un adeguato stato sociale e tassi di crescita mediamente più alti». E, certamente, per buona parte del Novecento in diverse economie avanzate questo nesso è stato ben visibile (lo è ancora in alcune economie forti del nord) e il rapporto tra welfare e prelievo fiscale effettivo.
Ma le tasse servono ancora così prioritariamente a questo scopo? A giudicare dalla vicenda greca e dalle prescrizioni fiscali della Troika, fondate sull’assunto che i cittadini greci avevano vissuto «al di sopra dei propri mezzi», converrebbe dubitarne. Dopo i processi di finanziarizzazione che hanno ridisegnato l’economia globale e assegnato nuovi compiti agli stati nazionali si può ancora descrivere la fiscalità in questi termini? La faccenda è tutt’altro che semplice. Ma intanto ci si deve porre una domanda: perché mai l’aumento della pressione fiscale non è stato accompagnato da un rafforzamento del welfare, ma, al contrario, dal suo ridimensionamento, da una raffica di privatizzazioni e spending review, da una riduzione costante dei diritti del lavoro?
Per attenerci alla sola serie storica italiana, la pressione fiscale è passata dal 30 al 45% tra il 1980 e il 2014 e certo non si può dire che le diseguaglianze siano diminuite e i diritti aumentati in questa stessa misura. Piuttosto, all’aumento delle imposte si è accompagnato negli ultimi anni l’impoverimento dei ceti medio-bassi. Se si mettesse a confronto la storia del welfare e quella della fiscalità in diversi paesi europei c’è da scommettere che il nesso tra questi due elementi risulterebbe tutt’altro che lineare. Perché, come è apparso evidente con la crisi dei debiti sovrani e con l’enorme flusso di denaro destinato a ricapitalizzare sistemi bancari dediti al gioco d’azzardo, la fiscalità è diventata uno strumento decisivo di garanzia e continuità della rendita finanziaria.
Il fabbisogno degli stati non è certo riducibile al mantenimento del welfare. Corruzione, clientele, caste, sprechi , evasione, certamente incidono, ma non costituiscono affatto una spiegazione esauriente. Il fisco, e soprattutto la tassazione indiretta, è infatti anche un tramite, sempre più importante, nel trasferire parte della ricchezza socialmente prodotta (fuori dai rapporti salariali, dai mercati controllabili e spesso da ogni forma di retribuzione) nel circuito finanziario e nei canali di una redistribuzione delle risorse indirizzata verso l’alto: la «regressività fiscale» di cui scrive Piketty, ossia la protezione degli alti redditi e dei grandi patrimoni.
I difensori dei profitti e delle rendite, ricondotti alla categoria del «risparmio», supposto disponibile a trasformarsi in «investimento», giustificano la loro avversità alla tassazione progressiva con l’argomento dell’occupazione: se il tornaconto dei datori di lavoro dovesse peggiorare, la domanda di lavoro ne soffrirebbe. Ma il costo del lavoro è decisamente sopravvalutato, per ragioni in parte ideologiche, tra i fattori di quella riduzione dell’occupazione strutturalmente incardinata nelle trasformazioni del modo di produzione stesso. Nessun imprenditore, se il mercato non «tira», sarà disposto a impiegare lavoro, sia pure fortemente «detassato». E se lo sconto non finirà anche, significativamente (altro che 80 euro), nelle tasche dei lavoratori, i consumi, già bersaglio prediletto dell’ideologia fiscale liberista, languiranno e il mercato in conseguenza.
Il problema non sembra preoccupare le sinistre di governo, impegnate nel festeggiare rumorosamente modesti quanto effimeri incrementi del tasso di occupazione a fronte di vantaggi e poteri sempre maggiori concessi agli imprenditori. Inoltre, se il bacino del lavoro salariato si contrae, bisognerà trovare altre fonti di introito fiscale. La persecuzione del lavoro autonomo e precario di massa, privo di ogni tutela, è una di queste. L’altra è quella piccola proprietà (abitazioni, auto), in larga parte ipotecata da banche e finanziarie che, non essendo fonte di rendita (quella catastale è una pura espressione metafisica) è di fatto indistinguibile dal consumo, puro e semplice valore d’uso. Con il che ritorniamo al principio ultraliberista secondo cui non il possesso o il risparmio (valore di scambio) devono essere tassati ma, appunto, l’uso.
Per dirla con una formula è probabilmente la «tassazione della vita», nel suo svolgersi individuale e collettivo, una nuova importante leva dell’estrazione di valore. Cosicché la disputa se debba essere detassata la prima casa o il lavoro è di assai scarso interesse. Le domande decisive sono tutt’altre. Che cosa davvero alimentiamo con le nostre tasse? Che ruolo svolge oggi il prelievo fiscale nel processo di accumulazione? Si deve continuare a ritenere lo stato il protagonista principale della spesa pubblica o conquistare spazi crescenti di autogestione delle risorse? E, infine, esiste ancora, e in quali forme, una possibilità di controllo democratico sull’imposizione e la spesa? Ha senso continuare a ignorare, magari nell’illusione di poterli contrapporre, il rapporto tra capitale finanziario e sovranità statali?
Per come stanno oggi le cose, le ragioni di Masaniello e di tutte le classi popolari che per secoli si sono rivoltate contro dazi e gabelle, destinati a ripianare i debiti contratti dalle corti con i banchieri dell’epoca per finanziare i propri sfarzi e le proprie guerre, non sembrano affatto superate. Le forme cambiano, ma l’espropriazione resta.
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