loader
menu
© 2024 Eddyburg

La pianura padana, con le sue fertili terre, rappresentava il luogo dove si produceva gran parte del nostro cibo. Ora invece il cibo lo importiamo e le terre agricole le stiamo abbandonando. Ogni giorno che passa in Veneto e in Lombardia perdiamo terreno coltivabile equivalente a 7 volte piazza del Duomo. Per farne cosa? Cementarlo o asfaltarlo. Ormai coltivare non conviene più. E i nostri agricoltori vanno a produrre all’estero, dove costa meno.

Ma la concorrenza per accaparrarsi la terra è spietata. Perché? Che c'entra per esempio il fallimento di Lehman Brothers con la sorte di qualche centinaio di contadini di un villaggio sperduto del Mali? O ancora, cosa lega la direttiva europea sui biocarburanti con la morte di tre pastori nel nord del Senegal? In un viaggio che va dagli uffici di Washington della Banca Mondiale fino a una rivolta contadina nel cuore dell'Africa Occidentale, la puntata di domenica 18 dicembre cerca di percorrere i fili intrecciati di finanza, politica e modelli di sviluppo economico che stanno muovendo una corsa globale all'accaparramento di terra.

Il termine inglese è land grabbing e i principali “accaparratori” sono europei, cinesi, indiani, americani. Il terreno di conquista più propizio è l'Africa dove governi compiacenti aprono le porte a investitori intenzionati a fare profitto nel più breve tempo possibile. Poco importa se milioni di contadini verranno espropriati delle loro terre come lo furono gli indiani d'America ai tempi del conquista del West. Per la Banca Mondiale, così come per molti investitori, si tratta del prezzo da pagare per ottenere il tanto agognato sviluppo. Ma per altri autorevoli osservatori questo è soltanto il preludio di una nuova strategia di conquista della risorsa più preziosa: l'acqua.

Qui il testo integrale del servizio. E qui .

E’ passato solo un mese dalla pubblicazione dello studio dell’Osservatorio sulle Politiche Abitative della Provincia di Pordenone che ha pubblicato senz’ombra di dubbio uno studio di grande valore oggettivo sul problema abitativo del territorio. E oggi, 10 dicembre, ci troviamo di fronte alla notizia che anche nel nostro Ambito si deve registrare un aumento degli sfratti. Un grave e amaro paradosso: da un lato 1650 abitazioni libere a Sacile e dall’altro, famiglie che l’abitazione la devono abbandonare. SPS intende facilitare ai cittadini la lettura dello studio (il link alla fine) e ha estrapolato in questo articolo le parti riguardanti nello specifico il nostro Comune.

Ad oggi comunque non è apparso nessun commento da parte della nostra Amministrazione. In quale misura intendono tenere conto di questo studio? Nessun apprezzamento per un lavoro finalmente di rigore scientifico che dovrebbe, in quanto tale, essere alla base delle future scelte urbanistiche in provincia? Eppure proprio la nostra città, proprio Sacile, emerge nello studio in modo significativo per svariati aspetti – purtroppo tutti negativi – cosa che dunque a maggior ragione dovrebbe essere oggetto di attenta analisi da parte di chi questo territorio lo deve amministrare nell’ottica del bene comune.

Il documento pubblicato nell’ottobre 2011 dall’Osservatorio sulle Politiche Abitative della Provincia di Pordenone ha preso in considerazione il periodo intercorso tra il 2001 e il 2009.

Si parte dal dato inequivocabile che il patrimonio abitativo in questi 8 anni è considerevolmente cresciuto: a livello provinciale si registra un +18,4% delle abitazioni, equivalenti a 25.400 abitazioni e 8,4 milioni di metri cubi. Gli ambiti socio – economici che presentano livelli di crescita più accentuata, maggiore della stessa Pordenone, sono quelli del Sacilese e del Sanvitese: infatti, se PN registra un tasso di crescita del 10,14%, proprio il Sacilese si piazza al primo posto con un aumento di volumetria del +25,0% ed un aumento di abitazioni di +24,8% (che ha portato alle attuali 44.485 abitazioni – delle quali 1650 non utilizzate).

Nel suo complesso in provincia la quota maggioritaria di abitazioni, cioè il 65%, ha un patrimonio edilizio superiore a 30 anni.

Anche questo deve farci riflettere: se la nostra città possiede un patrimonio edilizio già superiore in media a 30 anni e una considerevole parte di questo patrimonio attualmente è, e probabilmente continuerà ad esserlo, non utilizzato, sarà un patrimonio in decadimento perché inutilizzato. E più passerà il tempo, più aumenteranno i danni e i costi per riqualificarlo. Andremo verso una città Dr. Jekill e Mr. Hyde, da un lato nuove edificazioni (non dimentichiamo che si vuol cambiare la visuale panoramica di Sacile con le prime due torri a dieci piani), dall’altro condomini datati mezzi vuoti e casette unifamiliari abbandonate – una visione che già oggi si coglie.

Lo studio sentenzia poi molto chiaramente che l’intensa attività edilizia tuttavia non ha prodotto alla fine alcuna facilitazione in termini di buona politica abitativa: ad oggi nell’intera provincia esiste un eccesso di offerta pari a 7.300 nuove abitazioni che, non avendo trovato riscontro nella domanda abitativa, ha aggravato il patrimonio sfitto/sottoutilizzato.

In tutta la provincia si sono costruite in media negli ultimi dieci anni 1,4 abitazioni per ogni nuova famiglia, nel Comune di Sacile per ogni nuova famiglia ci sarebbero teoricamente a disposizione 1,34 abitazioni.

Questo fervore nel costruire può aver fatto la felicità della speculazione edilizia anni fa, ma ora torna indietro come un boomerang. Nemmeno al mercato immobiliare questo surplus di cementificazione sta portando bene: l’ambito che attesta il maggior calo di intensità del mercato immobiliare, oltre alla Montagna, e alla pedemontana Maniaghese, è ancora una volta il Sacilese, nonostante il suo record di aumento del cemento. Le tre realtà complessivamente attestano un calo immobiliare notevole, del 23% - 30%.

Il dato più eclatante dello studio è la conclusione che il patrimonio esistente sul territorio e non occupato nel 2009, pari a 30.000 abitazioni, sarebbe in grado di coprire l’intera domanda aggiuntiva espressa dalle famiglie fino al 2020!!!

In questo ritaglio di grafico vedete in blu la quota di case sfitte al 2009 e in azzurro il previsto incremento delle famiglie al 2020. Si vede chiaramente che nemmeno per quella data Sacile avrebbe ancora occupato tutto l’attuale patrimonio già oggi esistente! Figurarsi aggiungendo le nuove previsioni! Fino al 2020 dunque, l’intera domanda delle nuove famiglie (incremento previsto dall’ISTAT) sarebbe soddisfatta semplicemente attraverso il riutilizzo dell’attuale eccesso di patrimonio.

Ma le speranze che i nostri politici e amministratori riescano a cambiare prospettiva e trovare una nuova modalità di governare in modo virtuoso, lungimirante ed efficace questo fenomeno ci paiono deboli. Sul fronte della capacità di gestire il fabbisogno abitativo, sempre secondo lo studio, si evince che:

- le politiche pubbliche sono residuali ed in costante diminuzione sia per quanto concerne l’offerta di alloggi che sotto il profilo dei finanziamenti erogati;

- il contesto sociale è in progressiva precarietà economica, tanto che le richieste di sfratti, soprattutto quelle per morosità, sono aumentate in provincia di +99%.

Ovvio che il diritto alla casa è ancor più in pericolo dove i prezzi al metro quadro sono maggiori.

In riferimento al valore sul mercato la provincia di Pordenone presenta una netta prevalenza di comuni i cui immobili hanno un valore di mercato medio compreso tra 600 e 900 €/mq.

Oltre al capoluogo, dove i valori superano i 2.600 euro/mq, tra le città di maggiori dimensioni si individuano due livelli di mercato:

1) livello medio caratterizzato da valori tra 1.300 – 1.500 (Casarsa e Spilimbergo)

2) livello alto con valori oltre 2.000 (Porcia e, guarda caso, Sacile).

Ma lo studio adotta anche un descrittore ancor più avanzato: incrociando i valori del reddito con quelli degli alloggi, lo studio rivela che il Comune di Sacile vanta il triste primato del tempo più lungo (10 anni) per l’acquisto di una casa. E con le attuali condizioni economiche questo lasso di tempo aumenterà. Calma piatta dunque sul mercato immobiliare a Sacile e, per le stesse ragioni contenute in questo studio, nel resto del territorio.

Ora, la speculazione edilizia è stata per decenni impietosa con i cittadini, in particolare con i giovani, quindi non proviamo certo compassione per questa stasi, ma l’aspetto che emerge in tutta la sua gravità è il fallimento della politica che, legata a doppio filo con gli interessi della cementificazione, non ha voluto arginare questo fenomeno che adesso travolge tutti.

Qui è possibile scaricare il documento Le dinamiche insediative del comparto residenziale

Il commento è pubblicato sul sito Sacile partecipata e sostenibile curato da Rossana Casadio che ha fatto proprie le parole dell'antropologa Margaret Mead: "Mai dubitare che un gruppo seppur piccolo di cittadini attenti e risoluti possa cambiare il mondo. Anzi, è la sola cosa che avviene sempre."

La critica, a volte anche giustificata, a certe idee di sviluppo sostenibile locale, è quella di essere passatiste, reazionarie, e pure un po’ stupidotte. Stupidotte perché negano l’evidenza: ve ne state lì nel vostro paesello a vantarvi di non consumare suolo agricolo per case e capannoni, ma poi da lì prima o poi dovete e volete uscire, magari anche in macchina, a consumare quello altrui: quando entrate nei capannoni a lavorare, a fare shopping, a divertirvi ecc. Il che, pur detto spessissimo in malafede, è abbastanza difficile da negare, visto che “agire globalmente” non è proprio cosa alla portata della casalinga o dello studente comune. Chissà se, messi concretamente di fronte al modello di vita in spartano stile Transition Town coerente con questi presupposti, gli elettori oggi favorevoli a certe politiche non cambierebbero completamente idea. La debolezza implicita delle petizioni di principio, si sa.

Se lo chiedono da tempo ad esempio gli operatori delle trasformazioni edilizie e urbanistiche su larga scala, ovviamente legate a filo doppio sia agli stili di vita che al modello di sviluppo che li affianca. O almeno alcuni di questi operatori, quelli che cercano nuovi percorsi di mercato coerenti con gli orizzonti delineati dalla scienza, quelli sì e per forza identici ai presupposti di Transition Town: il riscaldamento globale, l’esaurimento delle scorte petrolifere, non sono una profezia di Nostradamus, e anche se dovesse arrivare la bacchetta magica di qualche rivoluzionaria scoperta tecnologica, di sicuro dovremo rivedere la nostra vita, o meglio riorganizzarla completamente. Gli spazi delle attività economiche, ad esempio. Ovvero proprio quelli verso cui si dirigono ogni giorno, incoerenti e peccaminosi, gli abitanti dei comuni a crescita zero.

Una risposta interessante ci arriva in questi giorni dalla California. Lo stesso posto in cui un secolo fa scoccava la scintilla del modello di sviluppo socioeconomico territoriale a base automobilistica, con l’edilizia da un lato, le autostrade pubbliche dall’altro, e sul versante produttivo l’agricoltura industrializzata e le imprese più innovative, come quelle informatiche. Ancora oggi quel modello sembra trionfare vistosamente con l’eredità urbanistica di Steve Jobs via Norman Foster: la nuova sede centrale della Apple a Cupertino, office park suburbano del tutto autonomo, astronave atterrata in un bosco raggiungibile solo in auto, dove tutti i quadri dirigenti della multinazionale convergono ogni mattina dalle villette sparse, a raccogliersi attorno alla direzione di impresa. Pare un film anni ’50, e probabilmente lo è, ma pone un problema: se lo fanno loro, a maggior ragione non c’è via d’uscita? L’unico modo per sopravvivere è segare il ramo su cui stiamo seduti (perché questo, ci dicono, stiamo facendo)? Ecco, dalla California uno studio Urban Land Institute ci risponde forse no.

Firmato dall’urbanista Arthur Nelson per conto di quella che tutto sommato è una associazione di costruttori edilizi, il rapporto The New California Dream vuole in tutto e per tutto inserirsi nel mercato, ma farlo individuando una nuova potenziale domanda da parte delle famiglie e delle imprese più innovative, ovvero quelle che hanno colto davvero le prospettive indicate dalle leggi statali. Quelle leggi che, prendendo piuttosto sul serio i temi energetici e climatici, stanno iniziando a definire il modello di sviluppo caratteristico della prossima generazione. Gli spazi produttivi per esempio: conti alla mano, le destinazioni d’uso già deliberate a livello delle principali aree metropolitane (che pesano per l’80% e oltre del totale), insieme agli ambiti già materialmente occupati da manufatti e servizi industriai, commerciali ecc. SONO ABBONDANTEMENTE SUFFICIENTI A COPRIRE LA DOMANDA PER MEZZO SECOLO.

Non si tratta, è il caso di ricordarlo, delle proiezioni di un’associazione ambientalista, o di un accademico interessato soprattutto a pubblicare e farsi notare, ma di uno studio che mette al centro gli interessi dei costruttori, e dice quanto ci sia da lavorare, per un paio di generazioni, esclusivamente per il cosiddetto retrofit edilizio, ambientale, urbanistico delle zone industriali in senso lato. Ovvero inserendo sia l’adeguamento dei fabbricati in quanto tali, sia la ricostruzione e cambio di destinazione, sia infine i grandi interventi integrati e compartecipati, dal parco scientifico su area dismessa alla riconversione multifunzionale interi di settori urbani. Come si intuisce, sta proprio qui la chiave per il contenimento del consumo di suolo: nel recepire e indicare un modello progressivo e progressista, in cui alla quantità si sostituisce la qualità.

Con osservazioni apparentemente banali ma che non lo sono affatto se osservate in termini strategici, come la miniaturizzazione di tante apparecchiature, o la pura riduzione dei volumi corrispondenti a ciascun posto di lavoro grazie all’innovazione tecnologica, per non parlare di altre varie forme di innovazione organizzativa, come il telelavoro che trasforma spazi fissi in zone a rotazione. C’era qualcosa di intuitivamente profetico, nelle immagini patinate della creative class sempre intenta a digitare su portatili dai tavolini di un bar vista mare. Mancava però del tutto il contesto in cui quel piccolo gruppo elitario potesse fare filiera, ovvero un territorio socialmente sostenibile abitato anche da impiegati, studenti, immigrati, e abitato a basso impatto ambientale senza che questo significasse sottosviluppo. L’immagine dello zero consumo di suolo dell’Urban Land Institute, accoppiata alla montagna di lavoro per la trasformazione dell’esistente, pare davvero una quadratura del cerchio.

Però si dimentica apparentemente un aspetto, quello della pura speculazione che sta a sostenere ormai tutti i modelli divoratori di territorio a vanvera. Lo stesso che con la scusa dei posti di lavoro fa spuntare in tutta la pianura padana (e in tante altre parti del mondo) selve di capannoni qui, mentre se ne svuotano in contemporanea altri già esistenti a pochi chilometri di distanza. E il medesimo discorso si potrebbe fare per gli insediamenti commerciali e assimilati. La creazione di posti di lavoro non ha nulla a che vedere con l’occupazione di nuovo spazio. Almeno su quello, si dovrebbe essere d’accordo, invece purtroppo, complice una politica confusa e conformista, si finisce per subire ricatti squallidi e di corto respiro. Corto respiro sempre nostro, ahimè. Qualcuno ci aiuta a tirare il fiato?

(sul rapporto ULI, ho fatto altre considerazioni a proposito della parte residenziale, nonché allegato l’originale; leggibile in Mall)

Si è fermato il sogno americano

di Federico Rampini

Addio sogno di rifarsi una vita lasciando il gelo del Nord per approdare qui sulla West Coast. Basta con l’illusione che tutto sia possibile giù nella Sun Belt ("Cintura del Sole"), nell’Arizona o nel Nevada dalle mille opportunità. Gli americani hanno smesso di migrare, nel loro stesso paese. La mitica mobilità interna di questo popolo è crollata. «Siamo una nazione congelata», è la definizione che coniano gli esperti, sulla base degli ultimi dati del censimento. Eccoli qua, quei dati rielaborati dai ricercatori del Carsey Institute, per i tre Stati più tipici. Arizona, Florida, Nevada: per decenni furono le destinazioni di tanti americani decisi a "ripartire": nuovo lavoro, nuova casa, nuovi progetti.

Ebbene, l’Arizona che prima della crisi aveva un afflusso medio di centomila immigrati "domestici" (cioè americani) ogni anno, ora ne accoglie meno di cinquemila. La Florida è passata da oltre duecentomila arrivi annui, ad un saldo netto negativo: meno trentamila residenti. Il Nevada vedeva entrare in media cinquantamila nuovi abitanti all’anno, ora non arriva più nessuno.

Ci sono delle micro-eccezioni, come la Silicon Valley qui attorno a San Francisco, beneficiata dai buoni risultati di Apple, Google, Facebook, nonché dal recente boom di una nuova generazione di start-up legate a Internet, alle tecnologie verdi, alla biogenetica. Qui vicino, a Mountain View o a Cupertino, continuano ad arrivare giovani superlaureati in ingegneria, matematica, medicina. Ma sono piccoli numeri in un’oasi, forse anche una "bolla". La California nel suo insieme, invece, ha smesso di guadagnare popolazione da tempo. In parallelo, gli Stati del Nord-Est da dove si partiva in cerca di un futuro migliore, hanno visto crollare del 90% le loro uscite.

È la fine di un mito americano: le migrazioni interne hanno raggiunto il minimo storico da quando le autorità federali iniziarono a misurarle, cioè dalla seconda guerra mondiale. È uno degli effetti sconvolgenti della Grande Contrazione, la crisi eccezionalmente prolungata in cui ci troviamo dal 2008. Fino a quell’anno, l’America poteva vantare una superiorità su tutte le nazioni europee: la mobilità. Geografica e sociale. Perché le due cose sono strettamente connesse. Bisogna ricordarsi (o immaginarsi) un mondo in cui è facile "chiudere bottega" lì dove non hai avuto il successo sperato, vendere la casa con tutti i mobili, partire a qualche migliaio di chilometri e trapiantarti in un altro angolo del paese dove l’economia tira, ricominciare da zero: questa era l’America fino al 2007, l’ultimo anno prima del disastro. Era un mondo davvero diverso dall’Europa, grazie a tanti ingredienti.

Ricordiamoli. La flessibilità sul mercato del lavoro, dove non esiste differenza tra "precari e non": facile essere licenziati, facile ritrovare un posto. La fluidità del mercato immobiliare, dove si comprava e vendeva casa come si fa con l’automobile. Ovviamente, anche il fatto che gli Stati Uniti sono davvero "uniti": stessa lingua, stesse leggi (più o meno), pochissime barriere per inserirsi. Tutto questo era valido fino all’anno di grazia 2007. E faceva un oceano di differenza tra l’America e l’Europa: il Vecchio continente era per antonomasia il luogo di tutte le rigidità, i localismi, le barriere.

Ora quell’idea dell’America è stata spazzata via, sotto la pressione delle due principali manifestazioni della crisi. Da un lato si è paralizzato il mercato immobiliare: con cadute fino al 40% nel valore delle case, vendere significa impoverirsi, veder sfumare un bel pezzo dei propri risparmi. «Se nessuno può permettersi di vendere o comprare casa – osserva il demografo William Frey della Brookings Institution – la stagnazione è inevitabile». D’altro lato, ed è ancora più grave, c’è una disoccupazione stabilmente elevata, a livelli europei: è il 9% della forza lavoro in media negli Stati Uniti, se si contano solo i disoccupati ufficiali, ma sale fino al 15% effettivo se si includono gli "scoraggiati" che hanno smesso di cercare e quindi non figurano nelle statistiche, oppure hanno accettato lavori part-time insufficienti per mantenersi. Ancora più nuovo, rispetto alla tradizione americana, è il dato della disoccupazione giovanile salita ben oltre il 20%: un altro sintomo di "europeizzazione".

Questo ha effetti deprimenti sulla mobilità geografica, perché tipicamente i giovani erano i più disponibili a traversare l’America in cerca di una terra promessa, un Eldorado economico dove realizzare i propri sogni. Oggi, al contrario, fanno qualcosa di impensabile: restano, o tornano, in casa dei genitori. È il fenomeno dei "bamboccioni in America", recentissimo e sconvolgente. Sabato scorso il New York Times lo ha sbattuto in prima pagina, tanto è clamoroso – e traumatizzante – in una società dove l’addio dei giovani al focolaio dei genitori era un rito d’iniziazione molto precoce. Fino al 2007, in media ogni anno si formavano 1,3 milioni di nuovi nuclei familiari: giovani single, o giovani coppie che andavano ad abitare "altrove", quindi diventavano autonomi. L’anno scorso questo numero è sceso a 950.000, con una perdita netta del 30%. Ben 350.000 giovani americani hanno dovuto rinunciare all’indipendenza, e rassegnarsi a rimanere in casa dei genitori. Qui non li chiamano "bamboccioni", bensì "generazione boomerang": avevano lasciato casa per andare al college, ora tornano indietro.

E per forza: nella fascia di età fra i 25 e i 34 anni solo il 74% ha un lavoro, un altro minimo storico. Il 14,2% dei giovani adulti è costretto a vivere in casa di mamma e papà, un fenomeno mai visto prima in America (ed è ancora più elevato tra i maschi: il 19%). Questo crea a sua volta una spirale perversa. Quando l’economia tirava, e i giovani uscivano di casa presto, per ogni nuovo nucleo familiare che si formava l’economia guadagnava 145.000 dollari: tutte le spese legate all’acquisto dei mobili ed elettrodomestici per la casa, l’automobile, ecc. Ora che quei giovani restano in casa dei genitori, la loro spesa è minima e contribuisce alla depressione dei consumi.

La fine della mobilità americana ci colpisce anzitutto per la sua dimensione geografica: abbiamo sempre associato questo paese a una grande libertà di movimento, spostamenti continui da una costa all’altra, dal Sud al Nord (nella prima industrializzazione) o viceversa (dagli anni Settanta in poi). Ma l’aspetto geografico ha il suo corollario sociale. Gli americani si "spostano" meno anche sulla piramide dei ceti e dei redditi. La mobilità da uno Stato Usa all’altro coincideva con una forte ascesa nella scala sociale: i figli degli immigrati più poveri arrivati dal Messico, avevano una fondata speranza di guadagnare molto più dei genitori. Ora anche questa mobilità si è fortemente ridotta. Il che dà ragione al movimento di Occupy Wall Street, ovvero del "99%".

Per la prima volta nella storia, l’America di oggi comincia ad assomigliare alle società europee sclerotizzate, oligarchiche. Lo conferma una fonte autorevole e indipendente, il bipartisan Congressional Budget Office: il famigerato "un per cento" della popolazione americana ha visto i suoi redditi aumentare del 275% negli ultimi trent’anni. Il fenomeno della dilatazione nelle diseguaglianze sociali quindi è più antico dell’ultima crisi, in una certa misura ne è la causa. Ma con esso si è progressivamente svuotato il contratto sociale che era all’origine di questa nazione. L’idea che puoi sempre ripartire, perché c’è sempre un "altrove migliore" che ti aspetta, in questa crisi sta diventando un’illusione.

Quella lunga corsa a Ovest di un Paese fatto di speranza

di Vittorio Zucconi

La sua traduzione pratica e industriale era stata non soltanto l’automobile e, ancor di più, il "pick-up", il camioncino che fino dagli anni della Grande Depressione e della siccità aveva trasformato stati come l’Oklahoma in immense conche di polvere. Su di esso, famiglie intere ritratte dai grandi fotografi e raccontate dai narratori della disperazione come Steinbeck, aveva caricato le miserabili masserizie e i rottami del proprio fallimento, per andare verso l’Oceano Pacifico e la frontiera dell’ultima speranza, oltre la quale c’erano soltanto migliaia di chilometri di acqua.

Quando, negli Anni ‘50 e sotto il pungolo della Guerra Fredda e del timore di un’invasione, il generale presidente Dwight Eisenhower aveva lanciato la costruzione delle autostrade interstatali, secondo i criteri strategici delle strade consolari romane, il continente si era trasformato in un piano inclinato sul quale tutto ciò che non fosse saldamente inchiodato o radicato ruzzolava verso Ovest.

Furono inventati i "caravan", furgoni per passeggeri e persone, eredi dei carri coperti che il signor Studebaker aveva costruito per i Pionieri del XIX secolo e i magnifici Winnebago di alluminio lucido come gli aerei, roulotte leggere da agganciare alle Chevy, alle Ford, alle Chrysler per trascinare vite oltre le Montagne Rocciose.

Fino agli Anni ‘80 e ai primi Anni ‘90, in coincidenza con la vittoria - forse pirrica - sul nemico "rosso", le statistiche dicevano che un americano medio cambiava 20 lavori, non soltanto "posti", ma proprio attività, e 25 indirizzi nella propria vita, a cominciare dai 17 anni quando figli e figlie dovevano lasciare il nido materno, i più fortunati per il "college", gli altri per un lavoro e dunque un proprio indirizzo. Potevano piangere agitando i fazzoletti, i genitori, ma erano loro per prima a sapere che quello di andarsene, di volare via, di rispondere al "destino manifesto" di muoversi e conquistarsi spazi e territori propri, era la condizione dell’essere americani.

Il vero carburante, ancora più della benzina a poco prezzo che alimentava la migrazione perenne dei "tumbleweed", dei cespugli rotolanti, era lo stesso che aveva mosso i padri, i nonni, i bisnonni generazioni prima: la speranza. Meglio, la certezza che oltre il profilo delle colline e delle montagna, prima dei bassi e facili Appalachi poi le durissime Rocciose seguite da deserti micidiali dove morivano pionieri a migliaia, c’era il futuro migliore al quale tutti aspiravano. Era stata una continua corsa all’oro, anche quando l’oro non c’era più, e al suo posto sorgevano gli stabilimenti aereospaziali, i fertilissimi campi della California, i giacimenti e le miniere che costruirono città come Denver. E non importava - perché quello era il diritto storico, il lascito del destino - se nel rotolare da Est a Ovest la migrazione che portò un’Italia intera dall’Atlantico al Pacifico nel dopoguerra, 60 milioni, e che prima aveva guidato i pionieri scortati dalle giubbe blu, avrebbe travolto i popoli che già abitavano quelle terre, niente affatto vuote.

Se oggi la lava si sta raffreddando è perché la speranza, la certezza del futuro migliore alla fine dei grandi cieli sono diventate merce più rara, mentre è cresciuta, con il prezzo della benzina, la paura di perdere quello che si ha, più che la libidine di conquistare quello che non si ha. Tornano sempre più al nido dei genitori i non più giovanissimi, i trentenni e qualcosa, che dopo il college, o il primo matrimonio fallito o i licenziamenti multipli divengono la "boomerang generation", la generazione che va e poi ritorna.

Soltanto un americano su tre pensa che i propri figli staranno meglio di loro e persino la California, la Terra Promessa che già nel 1849 spinse i disperati a morire nella Valle del Morte in Nevada pur di raggiungerla, è in crisi demografica, oltre che finanziaria. Se un flusso umano continua è quello che viene da Sud, dall’oltre "Frontera" quella del Messico.

Si vedono ancora, sulla autostrade, i "caravan", i pick-up, le mega roulotte e le case mobili che portano sulle rastrelliere le biciclette dei bambini o l’auto di famiglia, con il papà al volante della motrice, la mamma al fianco e i marmocchi sballottati dietro, ma sono quasi sempre i lavorati migranti, i carpentieri, gli elettrici, gli idraulici, i muratori che seguono come procellarie il corso degli uragani e dei tornado per andare dove c’è da ricostruire e da guadagnare per qualche settimana o mese. Il grido del «Go West young man», va a Ovest giovanotto è sempre più lo stai fermo dove sei, aggrappato a quello che oggi hai. Domani non è più necessariamente il primo giorno del resto della tua vita, come voleva il proverbio ottimista, ma potrebbe essere l’ultimo della vita che ora hai.

postilla

Richard Florida ieri, a proposito dei medesimi dati censuari commentati da Rampini e Zucconi, scriveva sull'Atlantic che "La proprietà della casa, un tempo segno di ricchezza, in molti casi è oggi un ostacolo. Si discute fra economisti su quanto esattamente essere bloccati da un immobile che non si riesce a vendere impedisca di cogliere nuove occasioni di vita e lavoro: i dati indicano che l'ostacolo è notevole".

Florida coglie forse di più, oltre le immagini se mi si consente un pochino retoriche dei nostri inviati speciali, un aspetto della faccenda che dovrebbe stare a cuore di chi si occupa di territorio, sviluppo, ambiente. Perché il portato di questa storica mobilità, legata a quadruplo nodo alla crescita economica, si chiama suburban sprawl, consumo di suolo, spreco energetico. Quello che tramonta non è tanto un sogno più o meno americano, o un mito della frontiera, quanto l'idea di un mondo vacca da mungere senza criterio.

Naturalmente ci sono tanti altri aspetti della questione, come quello dello stravolgimento sociale degli spazi della dispersione, di cui ho provato a trattare qualche giorno fa in un pezzo su Mall, ma avremo modo di tornarci in seguito (f.b.)

la Repubblica ed. Milano

"Salviamo il territorio" appello del forum verde per una legge sul suolo

di Anna Cirillo

Sono arrivati da 17 regioni per riunirsi sotto gli alberi del parco dai colori autunnali di Cassinetta di Lugagnano e ascoltare, tra gli altri, Carlo Petrini, patron di Slow Food, e Giulia Maria Crespi, fondatrice e presidente onorario del Fondo per l’Ambiente Italiano. Nella cornice romantica di uno dei più bei borghi dell’area milanese c’è stato il primo forum nazionale «Salviamo il paesaggio - Difendiamo i territori», che riunisce i movimenti per la salvaguardia della terra. E non a caso la riunione è avvenuta nel primo comune italiano a crescita zero, già con il piano regolatore del 2007: il suo sindaco, Domenico Finiguerra, è stato tre anni fa il promotore della campagna «Stop al consumo di territorio». Ovvero, basta con il cemento e con il meccanismo perverso per cui i comuni si finanziano con gli oneri di urbanizzazione delle nuove costruzioni e sì, invece, alla riqualificazione del patrimonio edilizio esistente.

Il forum ha un obiettivo molto concreto, fermare il consumo dei suoli fertili e la rovina del paesaggio con l’elaborazione di una proposta di legge di iniziativa popolare da portare in Parlamento. La legge al primo articolo recita: «Nuove occupazioni di suolo sono consentite qualora non sussistano alternative di riuso e riorganizzazione degli insediamenti e delle infrastrutture esistenti». Ma si propongono anche un censimento in tutti i comuni degli immobili vuoti e non utilizzati, e una campagna di comunicazione e sensibilizzazione.

Il dibattito è stato in alcuni momenti molto acceso. Applausi hanno accolto l’intervento di Giulia Maria Crespi. Si è appellata alla società civile, «in cui ho molta fiducia», e ha criticato il piano territoriale della Provincia che rinuncia a fissare vincoli su 47 mila ettari di zone agricole nel Parco Sud. «Podestà - ha detto - è venuto meno alle grandi speranze che il Fai aveva in lui. Io continuerò a battermi».

Per l’assessore alla Cultura di Milano Stefano Boeri «quella di Cassinetta è una rivoluzione culturale che dobbiamo introdurre nella politica italiana e del Pd». Per Carlo Petrini «con pazienza questo movimento si può radicare in tutto il territorio nazionale, il referendum sull’acqua è stato la dimostrazione tangibile di quanto si possa diventare incisivi, e la proposta di legge che vogliamo lanciare deve essere formulata in maniera chiara e precisa». Petrini ha poi spiegato che l’Expo «aveva l’obbligo di parlare di alcune cose», del consumo di territorio, dell’agricoltura, dello spreco di cibo, della fame e delle logiche di consumo, della distruzione del paesaggio. «Doveva parlare di queste enormi contraddizioni. E invece tutti si sono concentrati sul terreno strapagato per costruire padiglioni. Manca l’anima, e dovrebbero dire "lasciamo perdere". Capisco le difficoltà del sindaco Pisapia, alle prese con questa patata bollente».

Il sindaco di Cassinetta "Noi pionieri del consumo zero"

Domenico Finiguerra, sindaco di Cassinetta di Lugagnano, lei è stato portato come esempio da imitare da Maria Giulia Crespi per il suo impegno contro il consumo di suolo. Che effetto le fa?

«Mi fa molto piacere, è il riconoscimento da parte della presidente onoraria del Fai di un lavoro fatto con estrema fatica, nel mio comune e in Italia, con le campagne «Stop al consumo di territorio», partite tre anni fa, nel gennaio 2009».

Come le è venuta l’idea?

«Nel 2007 qui a Cassinetta abbiamo adottato un piano regolatore senza espansione urbanistica. Dal nostro caso è partito un tam tam sulla rete e ho visto che l’idea del fermare il consumo di suolo la condividevano in tanti. Così siamo arrivati alla campagna nazionale».

È difficile non consumare suolo?

«È difficile se non si ha il coraggio di uscire da un modo di pensare dato per scontato dai comuni che utilizzano gli oneri di urbanizzazione delle costruzioni per fare utili e pareggiare i bilanci».

Voi, che non avete voluto costruzioni nuove, che cosa vi siete inventati per pareggiare il bilancio?

«Abbiamo lavorato di fantasia, i matrimoni a mezzanotte, per esempio. Poi usato il buon senso, utilizzando le energie rinnovabili e i pannelli fotovoltaici sui tetti, tagliando le consulenze e alzando un po’ le tasse, dal 6 al 7 per mille, sulle seconde case e le attività produttive».

Siete riusciti a pareggiare?

«Da cinque anni abbiamo il bilancio che sta in piedi senza oneri di urbanizzazione. E vorrei chiarire che noi abbiamo detto stop al consumo di territorio, non all’edilizia. Abbiamo avuto decine di cantieri in questi anni, ma per riqualificare il patrimonio esistente, creando nuove abitazioni in case, comprese ville del ‘700, che già esistevano. E tutelando anche il paesaggio».

Qual è l’obiettivo della vostra proposta di legge?

«La terra come l’acqua è un bene comune e va tutelato. Chi ci sta a tutelarlo attraverso una legge? O si vuole il grana padano o i capannoni, e con questa legge si dice se si sta da una parte o dall’altra. La politica dovrà prendere una posizione e manifestare il suo vero pensiero».

Corriere della Sera

Il patto di 350 gruppi per conservare i paesaggi d'Italia

di Paola D’Amico

MILANO — Alla fine il «Messia», come qualche oppositore politico ha pensato bene di soprannominare il sindaco di Cassinetta di Lugagnano, Domenico Finiguerra, ce l'ha fatta e ha messo d'accordo tutti. Lasciati sfogare in mattinata gli animi degli oppositori più accesi all'Expo, i partecipanti al forum «Salviamo il Paesaggio» arrivati da tutta Italia ieri pomeriggio si sono seduti a scrivere il progetto di legge di iniziativa popolare a tutela del suolo e del paesaggio, che si prefigge di bissare il risultato ottenuto dai comitati referendari per l'acqua pubblica. Un progetto che, innanzi tutto, promuove un censimento a tappeto di ogni edificio e capannone vuoto presente nel Paese e una moratoria dei piani regolatori. La crociata contro la cementificazione selvaggia passa da qui. E la raccolta di firme (50 mila) è già cominciata.

Finiguerra da un palco singolare, ricavato nel parco pubblico, perché i partecipanti alla convention avevano superato ogni aspettativa e lo spazio comunale non era in grado di ospitarli, ha lanciato un messaggio politico: «Chiediamo ai partiti e alla politica di assumersi le loro responsabilità. Bersani si levi dalla testa di arrivare agli ultimi 100 metri per raccogliere i frutti della maratona del lavoro degli altri, come ha fatto per l'acqua. Bisogna scegliere. Non si può andare al mattino al convegno di Slow Food e al pomeriggio a quello di Confindustria a parlare di grandi opere. Questo è il territorio che l'Expo 2015 lo vive sulla propria pelle e sarebbe una vera rivoluzione avere almeno una parte di Expo a cemento zero».

A Cassinetta, ieri, c'erano oltre seicento rappresentanti di 350 associazioni ambientaliste, Italia Nostra, Legambiente, Fai, Europa Nostra, Wwf e Lipu, sindaci di destra e di sinistra. C'erano l'assessore all'Urbanistica di Napoli Luigi De Falco, che ha aderito al Forum invocando l'«obiezione di coscienza al piano casa», e l'assessore alla Cultura e all'Expo del capoluogo lombardo, Stefano Boeri, che ha chiarito cos'è per la giunta di cui fa parte l'Expo, cioè «un modo di trasformare Milano in una grande metropoli agricola». Costruire in città sarà ancora possibile «solo rigenerando gli spazi vuoti». Tra i testimonial della battaglia ambientalista è arrivato anche Roberto Ronco, assessore all'Ambiente della provincia di Torino, che ha vinto la battaglia con la catena Ikea, intenzionata a raddoppiare gli spazi a sud della città del Lingotto.

Un tema, quello della salvaguardia del suolo, che più attuale non si può: è da tempo all'ordine del giorno della Commissione europea, dai cui studi emerge che ogni anno, in Europa, una superficie equivalente a un'area più estesa di Berlino cede il passo all'espansione urbana e a infrastrutture di trasporto. Per chi preferisce raccontarlo con i numeri ciò equivale a 275 ettari di terreno erosi ogni giorno, per mille chilometri quadrati all'anno. La metà di questa superficie è irrimediabilmente impermeabilizzata da edifici, strade e parcheggi.

La parola d'ordine è «usare meno, vivere meglio», ha detto Giulia Maria Crespi, presidente onoraria del Fai, invitando le diverse anime del mondo ambientalista e della società civile a non a farsi la guerra e, invece, a unirsi: «Se c'è una speranza di salvare questo Paese è la società civile. Dall'altra parte c'è moltissima gente che non capisce, che ignora. Quelli che hanno fabbricato le loro case nel greto dei fiumi — ha aggiunto Crespi — secondo me non erano coscienti del pericolo. La gente deve essere informata, deve conoscere». Sacrosanto, ha concluso, chiedere il censimento degli stabili vuoti. «Ma per procedere dobbiamo prendere degli esempi. Uno lo abbiamo in Cassinetta e in questo sindaco che ha dato il là, è riuscito a guadagnare la fiducia dei suoi cittadini e adesso ci proverà ad Abbiategrasso».

Salvare il paesaggio, difendere i territori equivale «a conservare né più né meno una civiltà», aveva scritto nel suo messaggio al Forum il giurista Stefano Rodotà. Mentre Carlo Petrini, presidente di Slow Food, (contestato da una frangia più estremista) ha confessato di «vivere un sentimento di impotenza. La parte più debole del Paese sono i contadini, quelli veri. Non si esce dalla crisi tornando a consumare. Dobbiamo, invece, tornare alla terra».

Si chiama «progetto di piantagioni di nuova generazione», ma il nome è ingannevole. Si tratta del progetto promosso dagli enti forestali di alcuni governi (Cina, Svezia e Regno unito), un pool di aziende internazionali del settore (Forestal Mininco/Cmpc, Masisa, Fibria, Mondi, Portucel, Sabah Forestal Industries, Veracel, Stora Enso, Upm-Kymmene), e sostenuto anche dal Wwf, una delle più note organizzazioni ambientaliste internazionali. Il Ngpp (acronimo di «new generation plantation project») consiste nel definire «pratiche sostenibili» per la gestione di piantagioni, e promuoverle presso le aziende forestali, le autorità governative, gli investitori per «promuovere l'adozione delle migliori pratiche nelle piantagioni forestali»: così si legge sul sito del Wwf. Che argomenta: le piantagioni intensive sono controverse perché distruggono le foreste originarie e altri ecosistemi naturali, oltre ad avere impatti sociali, calpestare i diritti delle comunità locali, e così via, ma non è necessario che sia così, se si adottano pratiche di «foresteria sostenibile».

Il progetto però è contestato da alcune grandi reti ambientali e sociali latinoamericane. Con il progetto delle nuove piantagioni «credono o fanno credere che per magia si risolveranno le contraddizioni intrinseche alla foresteria industriale: accaparramento e concentrazione di terre, espropriazioni delle comunità locali ed esclusione di altre forme produttive già esistenti, dell'esaurimento delle acque e del suolo», si legge in un comunicato della Rete latinoamericana contro la monocultura degli alberi (Recoma), creata durante il Forum sociale mondiale del 2003 (ha rappresentanti in Argentina, Brasile, Colombia, Costa Rica, Ecuador, Messico, Paraguay e Uruguay). Questa rete si batte per limitare l'espansione delle monocolture a favore di specie locali adattate al clima e al terreno, di multiuso e a beneficio delle popolazioni locali, con sistema produttivi agroforestali regionali. Insomma: non si coltivino alberi solo per produrre legna e cellulosa per le grandi aziende, olio di palma, biodiesel - o per essere monetizzati sul nascente «mercato del carbonio». Le grandi corporations, conclude il Recoma, «hanno sempre cercato di ridipingere di verde le loro attività commerciali».

Con una conferenza stampa tenuta di recente a Buenos Aires, altre tre reti latinoamericane - la Federazione argentina degli Amigos de la Tierra, il Foro Boliviano Ambiental e la Red de Alerta Contra el Desierto Verde brasiliana - hanno criticato il progetto Ngpp. Sostengono che punta ad aprire le porte del settore forestale al mercato energetico e del carbonio, permettendo così che ancora più terre fertili vengano accaparrate dai grandi gruppi agroindustriali. Fanno notare ad esempio che il sito web del Ngpp cita nove esempi di piantagioni forestali industriali sostenibili che avrebbero «aiutato a proteggere e ampliare la biodiversità»: peccato che cinque di questi casi corrispondano a zone dove le comunità locali e indigene hanno presentato denunce per espropriazioni indebite, distruzioni ambientali e assenza di studi preventivi di impatto ambientale: si tratta delle monocolture «verdi» dell'impresa Upm in Uruguay, della Vercael/Stora Enso in Brasile, della Masisa in Argentina e delle Cmpc/Forestal Mininco in Cile. Il Wwf si sforza di sostenere i «benefici economici e eco-sostenibili» di queste monocolture arboree, che giustifica perché parte del mercato delle commodities (materie prime) - ribattono le tre reti latinoameticane - è proprio questo sistema di produzione industriale che perpetua modelli insostenibili per gli ecosistemi, per le biodiversità, e per gli umani che di queste risorse vivono. Dimenticando che una piantagione forestale non è ne sarà mai un bosco.

Il lettore rilegge il titolo, tre volte, incredulo, fino a dovere riconoscere che quanto legge non è illusione. La cover story dell’ultimo numero di Agricoltura, il mensile dell’Assessorato regionale dell’agricoltura titola, esattamente, Il consumo del suolo è una minaccia inarrestabile. I dati con cui il solerte redattore dimostra la drammaticità del fenomeno sono obiettivamente inquietanti: conquistando un ambito primato nazionale, la regione Emilia Romagna avrebbe coperto di cemento, nell’arco temporale compreso tra il 2003 e il 2008, dieci ettari di suoli agricoli ogni giorno. E’ sufficiente una semplice moltiplicazione per verificare che il dato corrisponde alla sottrazione, alla sola agricoltura emiliana e romagnola, ogni quattro anni, della potenzialità produttiva di un milione di quintali di frumento. Siccome il pane quotidiano degli italiani corrisponde al fabbisogno di 70 milioni di quintali annui, e la sottrazione del suolo agricolo ha privato l’agricoltura nazionale, negli ultimi venti anni, della superficie equivalente a 60 milioni di quintali (che, per non rinunciare a colture diverse, l’Italia sarà per sempre costretta a importare), il contributo emiliano romagnolo alla distruzione della risorsa necessaria alla prima esigenza di qualunque società umana è palese e inquietante. Se consideriamo la travolgente rivoluzione imposta ai mercati mondiali delle derrate dalla nuova domanda asiatica, e dalla decisione americana di convertire in carburante un quarto della propria produzione cerealicola, dobbiamo riconoscere di essere di fronte a un autentico delitto contro le generazioni future.

Misurata l’entità della minaccia incombente sugli italiani di domani, il lettore del foglio regionale torna al titolo e l’incredulità si converte in un sentimento diverso. Il periodico ufficiale dell’Assessorato all’agricoltura della Regione proclama che la conversione dei campi sarebbe una minaccia inarrestabile, che significa tale che nessuno potrebbe arrestarla. Rilegge il titolo, verifica, in prima pagina chi diriga la pubblicazione, constata che è lo stesso autorevole assessore all’agricoltura. L’incredulità si converte in sconcerto, lo sconcerto assume le connotazioni dello sgomento. L’assessore, erede di una lunga successione di “ministri” che da un trentennio assicurano gli elettori che il “modello di sviluppo” cui conformano la politica regionale dell’ambiente sarebbe “sostenibile”, sottoscrive l’allarme per un processo che condannerebbe alla fame gli italiani di domani, definendolo inarrestabile, cioè fuori da ogni possibilità di controllo da parte di chi governa la società e l’economia regionale. Ma allora ci si domanda: lo sviluppo regionale è processo di cui è possibile il controllo, ed è legittimo che vi sia chi proclama di indirizzarlo secondo i criteri della “sostenibilità”? O invece è fenomeno che si sottrae ad ogni umano potere, soggetto alle influenze di astri malevoli? Si dica però agli elettori che non esiste assessorato regionale in grado di controllare il divenire dell’ambiente, e si riconosca, per coerenza, che chi si proclama tutore dello sviluppo “sostenibile” gioca sul soddisfacimento dei bisogni essenziali delle generazioni future.

Ma è mai possibile che l’assessore di oggi, e, prima di lui, i predecessori nella pratica dello “sviluppo sostenibile”, non abbiano percepito che l’entità della progressiva sottrazione dei suoli agricoli in Emilia Romagna costituisce un autentico delitto verso la sicurezza delle generazioni future? Che la minaccia inarrestabile fosse ignota non sembra credibile. Nel 2003 il presidente dell’Associazione regionale delle bonifiche spiegava alla stampa che negli ultimi tredici anni nella nostra regione erano stati sottratti all’agricoltura 157.000 ettari, l’equivalente dell’intera provincia di Ravenna (la più piccola della Regione, ma è una consolazione?). Poteva forse essere forse ignorato il dato proclamato urbi et orbi da uno degli organismi più autorevoli che condividono con la Regione la gestione del territorio dell’Emilia Romagna? Pubblicato questo dato, chi governa l’agricoltura regionale ha il dovere di farsi promotore della revisione di tutti i piani comunali di sviluppo edilizio. Potrà allora a buon diritto proclamarsi paladino della “sostenibilità”!

Una postilla è d’obbligo sulla tessera della agricoltura regionale costituita dalla provincia di Modena, la cui Giunta ha proclamato, in circostanze diverse, la propria ferma determinazione a arrestare la conversione in cemento dei suoli agrari, pubblicando che quella conversione si misura, sul territorio provinciale, in 350 ettari all’anno (2005), entità enorme per un territorio in parte rilevante montagnoso, nel quale i suoli di reale valore agrario costituiscono peculio tanto minore, e tanto più prezioso. Se sono lodevoli i proclami, attraversare le campagne modenesi su una qualsiasi delle strade che le solcano impone la domanda sulla coerenza di chi li emana. Percorriamo la Fondovalle Panaro: un piccolo borgo quale Marano ha sepolto, con una sola operazione edilizia, i meravigliosi terreni su cui fiorivano orti e frutteti e così ha raddoppiato il proprio insediamento urbano. Come è stata possibile una simile impresa dopo il solenne impegno degli amministratori provinciali a frenare la distruzione del territorio agricolo? O coloro che governano quel paese sul Panaro hanno violato regole che lo vincolavano, o chi, a Modena, ha proclamato l’arresto dell’urbanizzazione selvaggia non diceva sul serio.

Come tutti gli anni, il 16 ottobre, la Fao ci chiama a riflettere con la Giornata Mondiale dell´Alimentazione. Ciclicamente, purtroppo solo per un attimo, torniamo a prendere atto che fame a malnutrizione non spariscono dalla faccia della Terra neanche per sbaglio. Tra i tanti, è questo il vero, più serio e potente motivo per sentirsi indignati oggi.

Anche se grazie alla ricorrenza si spendono fiumi di parole, purtroppo soltanto quelli, si spendono. Gli Stati e gli organismi internazionali non mantengono le promesse che fanno in tema di aiuti allo sviluppo e quasi sempre, quando ci provano davvero, finiscono con il far "costare più la salsa che il pesce". Nel 2000, con la Dichiarazione del Millennio dell´Onu, ogni Stato ricco promise di aumentare gli aiuti pubblici allo sviluppo per lo 0,7% del proprio Pil entro il 2015. Pochissimi Stati hanno già superato la soglia, la maggioranza no: la media oggi è poco più alta dello 0,3%. L´Italia, per non farsi mancare niente, si distingue tra quelli in fondo alla classifica: siamo allo 0,1% e negli ultimi anni abbiamo continuato a tagliare in maniera importante questi aiuti, nel nome della crisi. Leggere il nuovo rapporto di Action Aid Italia uscito a settembre, dovrebbe farci vergognare per come siamo indietro su tutti i fronti. Intanto, nonostante la crisi, non smettiamo di costruire caccia bombardieri e partecipare a missioni di guerra costosissime: quei soldi basterebbero e avanzerebbero di molto per fare la nostra parte negli aiuti promessi.

Le notizie che quest´anno sono arrivate dal Corno d´Africa (con una carestia che ha coinvolto 13 milioni di persone soprattutto in Somalia, Kenya, Etiopia, delle quali decine di migliaia sono già morte e 750.000 a rischio di morte nei prossimi mesi) non sono di nuovo state sufficienti a smuovere le coscienze in maniera generalizzata. La cosa sconvolgente è che il problema del miliardo circa di persone che soffrono di malnutrizione e fame è, tra tutti i problemi che ha oggi la comunità mondiale, uno di quelli di più facile soluzione: sarebbe sufficiente averne la volontà. Al limite, basterebbe anche soltanto qualche rinuncia, meno avidità, meno colonialismo economico e culturale. Invece, per citare Ghandi a pochi giorni dall´anniversario della sua nascita, «nel mondo c´è abbastanza per i bisogni dell´uomo, ma non per la sua avidità».

Forse l´unica soluzione è cominciare a fare propria questa battaglia a livello personale, ognuno di noi. Ma come possiamo fare, pur carichi di sana e giusta indignazione? Intanto, iniziamo dallo spreco. Secondo i dati di Last Minute Market sprechiamo 20 milioni di tonnellate di cibo ogni anno, soltanto nel nostro Paese. Sarebbero sufficienti a sfamare 40 milioni di persone: siamo distratti, non siamo sensibili, è un po´ colpa nostra ma in un certo senso siamo vittime di un sistema che per così com´è strutturato non diventerà mai virtuoso, nemmeno sotto i colpi della crisi. È un sistema economico iniquo, che fa dei rifiuti la sua stessa ragione di esistenza. Quei 20 milioni di tonnellate di cibo buttate via ogni anno in Italia lo alimentano: un consumismo spietato dove tutto si brucia e va sostituito al più presto, anche il nutrimento. Allora dobbiamo cominciare a rivoluzionare in casa nostra, se vogliamo coltivare la speranza che anche in Africa le cose si rivoluzionino.

Cambiare qui per cambiare l´Africa: ecco uno slogan, se ce n´era bisogno. Mai nella storia dell´uomo abbiamo avuto così tanta quantità di cibo a disposizione per l´umanità e mai nella storia abbiamo sprecato così tanto. Oltretutto, come spiega una recente ricerca storiografica che sta per essere pubblicata in Usa, nonostante le guerre in corso il mondo non è mai stato in pace come in questa epoca. Lo spreco di fronte alla fame è la vera anomalia dei nostri tempi.

Il sistema avido in cui siamo immersi ha trasformato il cibo in una merce, l´ha spogliato dei suoi valori mentre l´unico valore che resta è il prezzo. Siamo tutti obbligati a comprare, a consumare, a un determinato prezzo. Non coltiviamo più, abbandoniamo l´agricoltura e intanto chi non ha soldi non può mangiare perché non può acquistare cibo: è il sistema che sta condannando milioni di africani. È ciò che va scardinato con le nostre azioni quotidiane: non sprecando e rieducandoci al cibo e ai suoi valori, anche quelli dell´agricoltura. È ciò che più immediatamente possiamo fare, formando nuove generazioni che non vogliano più stare a questo gioco al massacro.

Lasciatemi dire che con Slow Food stiamo raccogliendo fondi da dare alle comunità per realizzare mille orti in Africa nel corso del prossimo anno. È una goccia nel mare, perché ce ne vorrebbero un milione, ma è pur qualcosa. Un orto per una comunità è un ritorno alla terra, alla dignità del coltivare il proprio cibo, una garanzia di autosostentamento, attraverso le tecniche e le sementi locali: da parte nostra c´è solo aiuto a distanza, in risorse e in semplici migliorie tecniche non invasive. Per fortuna non siamo gli unici.

L´auspicio è che la politica ponga tutti questi problemi tra le sue priorità, ma se non si rinuncia a quel sistema economico-finanziario che in realtà la foraggia e che lei sostiene; se non si guarda a nuove vie e nuovi paradigmi per il futuro, a una vera rinascita dell´agricoltura (ovunque), allora sarà molto più dura. Noi iniziamo con la reciprocità, a donare e a far girare i doni in quest´economia malata, partendo anche dal sostegno ai nostri stessi contadini, con acquisti diretti di cibo locale, perché pure loro iniziano a subire gli effetti disastrosi di un sistema incompatibile con la natura, che li sta schiacciando. I contadini, insieme alle associazioni della società civile, uniti nel Cisa (Comitato Italiano per Sicurezza Alimentare), in questi giorni stanno facendo sentire la loro voce a Roma, proprio davanti alla Fao: ascoltiamoli, appoggiamoli. Io credo veramente che non sprecando, aiutando le economie agricole locali in ogni angolo della terra, regalando qualcosa per far rinascere le singole comunità africane nel nome della loro produzione alimentare, potremo dare il via a un nostro cambiamento profondo, che infine cambierà anche l´Africa. Ma sempre e solo grazie agli africani: bisognerà pur dargliene la possibilità, smettendola di far pagare soprattutto a loro le nostre condotte scellerate e ormai decisamente impazzite.

postilla

Il suolo non serve solo per costruire. Dal suo uso dipende anche la fame nel mondo: oggi nel Terzo, domani forse anche nel Primo. Non sono soltanto lo sprawl e l’urbanizzazione immotivata le cause del consumo di suolo destinato all’alimentazione: anche la riduzione del terreno utilizzato dall’agricoltura e – nell’ambito di quello che rimane coltivato – la sostituzione di colture industriali a quelle desinate all’alimentazione delle popolazioni che nel territorio abitano. C’è una catena causale che lega i diversi mondi nella corsa comune verso la distruzione. Lo sprawl e il "land grabbing" sono parti del medesimo meccanismo economico. Il primo, battezzato nei paesi della civiltà nordatlantica, esprime il primato della rendita sul lavoro e sul profitto, il secondo è la forma neocolonialista dello sfruttamento dei paesi appartenenti alle altre civiltà: sottrarre terreno alle comunità locali, sostituire l'agricoltura di sostentamento con le grandi colture industriale, esporre alle crisi sistemiche della globalizzazione dei mercati le economie locali e distruggerle.

L’articolo di Carlo Petrini induce a ricordare le parole di Enrico Berlinguer sull’austerità come leva dello sviluppo. Parole dense di verità; oggi più attuali che mai, ove si sappiano scorgere in esse significati dversi da quelli che hanno assunto sia l’una (“austerità”) che l’altra (“sviluppo”) nel linguaggio e nell’ideologia divenuti egemonici.

Ogni giorno in Italia vengono cementificati 130 ettari di terreno fertile. Sviluppo necessario? Non sempre, visto il gran numero di aree dismesse destinate a restare inutilizzate. Ma allora perché le misure a salvaguardia del suolo continuano a incontrare tante ostilità?

La Provincia di Torino ha appena approvato un piano di governo del territorio che introduce per la prima volta, all’articolo 1 e come principio cogente per i Comuni, «il contenimento del consumo di suolo». E dunque: stop alle edificazioni indiscriminate su aree libere, riuso di quelle già compromesse. Una rivoluzione, in un territorio in cui le nuove costruzioni in quindici anni hanno occupato un’area vasta quasi quanto Torino, mentre la popolazione rimaneva invariata. La frantumazione dei nuclei familiari (il 53% ha meno di tre componenti), che aumenta la domanda di nuovi alloggi, giustifica solo in parte il fenomeno. Infatti nell’ultimo decennio in Italia sono state costruite 4 milioni di case, ma ce ne sono 5,2 milioni vuote solo nelle grandi città.

«Il consumo di suolo è la grande emergenza del nostro Paese», spiega il presidente della Provincia di Torino Antonio Saitta. «Io non sono un talebano, ma non si può più consumare il futuro». In Italia si cementificano ogni giorno circa 130 ettari di suoli fertili. Si tratta di una stima, perché lo Stato non si è mai occupato del problema e ogni Regione fa a modo suo (solo cinque hanno banche dati), quindi ci si affida ai dossier di associazioni ambientaliste e professionali o a studiosi appassionati tra cui Andrea Arcidiacono, Paolo Berdini, Vezio De Lucia, Georg Josef Frisch, Luca Mercalli, Paolo Pileri, Edoardo Salzano, Salvatore Settis, Tiziano Tempesta.

Dal 2000, con la possibilità di spendere gli oneri urbanistici liberamente, è stata data ai Comuni la licenza di svendere il territorio: con gli incassi si tamponano le falle nei bilanci. Altri Paesi hanno preso sul serio la faccenda. La Germania si è ripromessa di dimezzare i 60 ettari consumati ogni giorno. La prima legge in tal senso fu promossa negli Anni 80 da Angela Merkel, all’epoca ministro dell’Ambiente. Inoltre ha stanziato 22 milioni di euro per ricerche, mentre in Italia l’ultima finanziata con denaro pubblico risale agli anni ‘80. In Gran Bretagna, ogni anno il premier stila un documento sul suolo consumato: quanto, come e perché, ettaro per ettaro, considerando che la legge obbliga a costruire per il 60 per cento su «brownfield sites» (aree già edificate).

In Italia il ministero dell’Ambiente non ha nemmeno un osservatorio. Il suolo è prezioso per diverse ragioni: garanzia di sovranità alimentare, come dimostra l’accaparramento delle terre a opera delle economie emergenti; antidoto al dissesto idrogeologico, in un Paese a rischio per due terzi; serbatoio di anidride carbonica; formidabile riciclatore di rifiuti. «Insomma il suolo è il fegato dell’ecosistema terra», sintetizza l’agronomo Antonio Di Gennaro, autore del libretto «La terra lasciata» (Clean Edizioni). Non solo. La pellicola di suolo formatasi in processi millenari si distrugge facilmente e in modo irreversibile.

A metà del secolo scorso, l’Italia aveva il massimo della superficie coltivata. Poi è cominciata l’edificazione di massa, che negli ultimi decenni si è concentrata sul 20 per cento di territorio pianeggiante, cioè più fertile e delicato. Contemporaneamente, l’abbandono della montagna causava un aumento dei boschi per 80 mila ettari. Notizia solo apparentemente positiva: la montagna senza manutenzione rovescia acqua sulla pianura inflazionata. Seguono disastri. Che fare? Negli ultimi anni, qualcosa si è mosso: dal piano regolatore di Napoli, elaborato ai tempi della prima giunta Bassolino dai «Ragazzi del piano» (titolo di un libro dell’urbanista Vezio De Lucia, Donzelli) a quello della Provincia di Foggia, firmato da Edoardo Salzano, fondatore del sito web eddyburg.

In Lombardia, che ha il record di 15 ettari consumati ogni giorno, Domenico Finiguerra, giovane sindaco della minuscola Cassinetta di Lugagnano, è diventato portabandiera dell’urbanistica a consumo zero di suolo. Per ovviare agli incassi ridotti, ha creato un business dei matrimoni attirando turisti fin dalla Russia: dopo i primi contrasti, è stato rieletto a furor di popolo e ora gira l’Italia a raccontare la sua esperienza. Successo inaspettato ha ottenuto Nicola Dall’Olio, autore del documentario fai-da-te «Il suolo minacciato» sulla pianura padana sepolta dai capannoni vuoti. A Milano la ricerca «Spazi aperti», promossa dalla Fondazione Cariplo e realizzata dal Politecnico, ha monitorato la corona di comuni intorno all’area dell’Expo: in soli otto anni più di mille ettari di campi, prati e boschi sono stati persi «con il rischio che gli appetiti sollecitati dal grande evento spazzino via gli ultimi spazi liberi».

Due anni di lavoro e settemila fotografie sono diventati una mostra alla Triennale con 5 mila visitatori in due settimane. Movimenti e comitati si moltiplicano in tutta Italia e due mesi fa Slow Food ha lanciato un appello con il network «Stop al consumo di suolo», proponendo una moratoria per legge sulle aree non edificate. Proprio quello che ha deciso di fare la Provincia di Torino. Per lunghi anni (e in molte parti d’Italia ancora oggi) questi piani provinciali sono serviti solo a elargire laute consulenze, producendo libroni di vaghi e inattuati precetti. In realtà, possono essere importanti.

La Provincia di Torino lo ha elaborato proprio nel pieno della polemica sul nuovo megastore Ikea. Lo stesso Saitta aveva bocciato il progetto della multinazionale del mobile low cost: un nuovo megastore su una zona agricola nell’hinterland torinese. Saitta aveva obiettato: con tante zone industriali dismesse, non è il caso di compromettere un’area libera. L’azienda aveva già da tempo opzionato i suoli, il cui valore nel frattempo si era moltiplicato da 4 a 16 milioni di euro, impuntandosi: o lì o niente investimento. E così è nato un braccio di ferro. Lo scontro ideologico sull’Ikea avrebbe potuto mandare all’aria il piano del territorio, che negli stessi giorni giungeva a conclusione di un lungo iter.

Invece è accaduto il contrario: è stato approvato rapidamente sia in Provincia (maggioranza di centrosinistra) che in Regione (centrodestra) e condiviso con gran parte dei 315 sindaci del territorio. Ora Ikea sta trattando con le istituzioni una diversa collocazione del megastore, su un’area industriale dismessa. Se l’accordo andasse in porto, un capannone abbandonato sarebbe riutilizzato e oltre 150 mila metri quadri di terreno agricolo (un’area pari a venti campi di calcio) sarebbero salvi.

Nota: per chi volesse saperne di più, di seguito le Norme Tecniche del Piano Territoriale della Provincia di Torino citato nell'articolo

Alcuni articoli pubblicati da Il Sole 24 Ore del 24 Agosto scorso ripropongono in evidenza una situazione agghiacciante: il recente decreto legge n. 70 del 13 maggio 2011 (cosiddetto "Sviluppo") sancisce al comma 3 del suo articolo 5 una modifica dell'articolo 2643 del codice civile con cui si intende «garantire certezza nella circolazione dei diritti edificatori». Questo comma è stato, forse, in queste settimane uno dei punti meno valutati nelle nostre osservazioni critiche all'impianto complessivo del dl Sviluppo, ma dobbiamo ora farvi grande attenzione, perchè il nuovo panorama che delinea è davvero grave: infatti sancisce che sono ora trascrivibili nei registri immobiliari «i contratti che trasferiscono i diritti edificatori comunque denominati nelle normative regionali e nei conseguenti strumenti di pianificazione territoriale, nonché nelle convenzioni urbanistiche a essi relative». La perequazione trionferà ...

Come spiegano Angelo Busani ed Emanuele Lucchini Guastalla sempre sul quotidiano di Confindustria, per effetto del dl 70/2011 «se Tizio e Caio sono proprietari di due terreni (anche non confinanti) e su quello di Caio sono edificabili 900 metri cubi, Caio può ad esempio limitare la propria costruzione a 700 metri cubi e vendere o donare i 200 metri cubi residui a Tizio il quale, con il permesso del Comune, potrà sfruttarli sul proprio fondo. Chiunque comprerà il lotto dal quale la volumetria è stata "prelevata" sarà quindi reso avvertito, dalla lettura dei registri immobiliari, che si tratta di un fondo a capacità edificatoria nulla o ridotta».

Siamo, dunque, nel pieno di quella idea di pianificazione urbanistica basata sulla "perequazione" (letteralmente " rendere uguale una cosa fra più persone"), che consiste nell'affermazione che tutti i terreni esprimono la stessa capacità edificatoria e sottintende che, da ora in poi, non ci saranno più equivoci possibili: la cubatura di competenza dei terreni non edificabili potrebbe, quindi, essere venduta a quelli edificabili.

Nell'articolo di Busani e Lucchini Guastalla viene spiegato ancora meglio la questione: « con questo sistema, in sintesi, viene impresso a ogni metro quadrato di territorio comunale, senza distinzioni, un indice volumetrico standard, di modo che il proprietario del fondo che sia destinato a non essere edificato (perché ad esempio è un'area di uso pubblico o a verde) possa cedere la sua virtuale edificabilità a quel proprietario cui invece la pianificazione comunale consente di costruire. Realizzando in tal modo una completa equiparazione tra cittadini beneficiati dai "retini" del pianificatore comunale e cittadini invece titolari di fondi privi di capacità edificatoria. In concreto, però, l'acquirente potrà usare la volumetria se gli strumenti urbanistici comunali lo consentono: dove ci sono vincoli legati, per esempio, all'altezza degli edifici, una sopraelevazione potrebbe essere impossibile».

Il Decreto approvato pare, così, confermare la criticata impostazione fatta dal Comune di Milano per il proprio nuovo Pgt, che stabilisce per ogni terreno della città una capacità edificatoria e quindi un diritto di costruzione pari a 0,5 mq/mq.

L'Istituto Nazionale di Urbanistica era prontamente intervenuto pubblicamente, rilanciando la propria proposta basata su indici differenziati in base alle caratteristiche del territorio e sostenendo che tematiche come perequazione e compensazione andrebbero disciplinate da una legge nazionale in grado di rinnovare la legge urbanistica del 1942 e raccordarla con le disposizioni regionali.

Anche il Cnappc (Consiglio Nazionale degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori) aveva sostenuto la posizione dll'INU suggerendo che il trasferimento delle cubature dovesse essere integrato da un piano nazionale in grado di impedire il consumo di ulteriore suolo e dalla previsione di alti standard di eco-compatibilità degli edifici e qualificazione degli spazi pubblici.

Ora il DL Sviluppo mette chiarezza e certezze ... E, come sempre Il Sole 24 Ore ricorda negli articoli del 24 agosto ("Libera cubatura e tutela del territorio", pagina 22): «si potrà aprire un vero mercato di questi diritti, che di fatto consentono ai nuovi proprietari di allargare le cubature a loro già assegnate, sfruttando quelle cedute da chi le ha solo teoricamente perché l'area è sotto vincolo. Può sembrar strano che l'idea di una casetta rustica alla periferia estrema di una grande città si trasformi in un paio di appartamenti in più in un palazzone di nuova edificazione o una sopraelevazione di un edificio già esistente. Ma la perequazione è proprio questa: dare a tutti il vantaggio di possedere qualcosa da sfruttare in termini commerciali, anche per chi ha la sfortuna di possedere un terreno inedificabile. Così, in nome della giustizia economica, si riusciranno ad aggiungere altri mattoni da qualche altra parte. Come a Milano: sui terreni agricoli piomberanno d'incanto milioni di euro di nuove cubature».

Capito tutto ? Ci vengono idee intelligenti (ed immediate) per fare in modo che chi ha la "sfortuna di possedere un terreno inedificabile" NON possa fare un po' di sano business sui suoi presunti diritti edificatori ?

Sarà forse il caso di preoccuparci (subito ...) di fare qualcosa per lasciare le cubature al loro posto e non sui terreni agricoli di Milano e di ognuno degli oltre ottomila Comuni d'Italia (o seimila e passa, se il taglio dei piccoli comuni andrà in porto. Ma noi non crediamo che le soppressioni verranno fatte: solo fumo per i nostri occhi).

Il dl 70/2011 è stato approvato il 13 maggio 2011 e pubblicato nella G.U. 160 del 12 luglio 2011. Non c'è molto tempo, dunque …

Spesso ci indigniamo (e giustamente) quando nei campi fra un centro urbano e l’altro iniziano a sorgere fabbricati, strade, capannoni, che poi non vengono terminati, restano lì per anni coi cartelli VENDESI o AFFITTASI a scolorirsi al sole di troppe stagioni. Mentre la campagna e il paesaggio sono cancellati per sempre.

Beh, non siamo i soli, in Cina riescono a fare di molto peggio, almeno in quanto a dimensioni delle scatole vuote e dei territori inopinatamente occupati: appartamenti, uffici, commercio, c’è di tutto, in una surreale serie di immagini Google Earth raccolte dal sito Business Insider

Il paesaggio è il grande malato d’Italia, come scrive Salvatore Settis? Dovunque ci si volti, si trova che il cemento cresce e diminuiscono l’erba, la terra, l’acqua in libertà. La volontà di dominio degli uomini sulla natura non conosce misura. Le lezioni tipo Fukushima non spaventano gli esaltati del cemento, i quali, nella convinzione che ogni filo d’erba costituisca un impedimento al guadagno, non riescono mai a rivolgere uno sguardo verso il futuro. Eppure il futuro dovrebbe esserci caro, poiché è sul futuro che possiamo piantare le nostre speranze, i nostri progetti. Ma lo stiamo inondando di rifiuti. Segno, come dicono gli studiosi del comportamento animale, che ci stiamo disamorando del nostro stare al mondo.

Secondo l’Istat, fra il 1990 e il 2005 la superficie agricola utilizzata (Sau) in Italia si è ridotta di 3 milioni e 663 mila ettari, un’area grande quanto il Lazio e l’Abruzzo messi insieme: «Abbiamo così convertito, cementificato o degradato in quindici anni, senza alcuna pianificazione, il 17%del nostro suolo agricolo» . Cito dal bel libro di Salvatore Settis: Paesaggio Costituzione Cemento. Gli effetti sono: «La riduzione dei terreni agrari, boschivi e il dissesto idrogeologico, che creano una terra di nessuno disponibile ad affrettate urbanizzazioni» . Secondo l’Istat, «l’espansione dell’urbanizzazione ha conosciuto negli ultimi decenni un’accelerazione senza precedenti» . Eppure c’è la crisi, le case costano sempre piu care, gli affitti si fanno improponibili, e i giovani sono affamati di abitazioni. Ma le gettate di cemento non risolvono la questione, anzi l’aggravano. È questo il punto.

Come scrive Franco La Cecla ( Per un’antropologia dell’abitare): «L’equilibrio storico fra popolazione e territorio è già compromesso o sul punto di collassare» . Insomma: a cosa serve tutto questo cemento se non a soddisfare l’ingordigia di guadagno e l’induzione di nuovi inutili bisogni? E non si tratta, come dicono alcuni, di ubbie ambientaliste: la devastazione del territorio costa alla comunità un mucchio di denaro. Secondo il rapporto Ispra del 2009, l’uso irrispettoso «delle vocazioni naturali del territorio ha generato negli ultimi 7 anni danni per almeno 5 miliardi di euro» . Per non parlare degli incendi che ogni anno distruggono in media 45.000 ettari di aree boschive (dati del Corpo forestale), di cui oltre il 90%provocati dall’uomo. Questo non impedisce a molti amministratori di essere vittime di quello che Settis chiama «la retorica dello sviluppo» , parola d’ordine che incanta sia le destre che le sinistre. Il motivo è nobile: creare posti di lavoro.

Ma è chiaro che si tratta di un vecchio modo di guardare alle cose. Se non si cambiano i criteri di valutazione sui rapporti dell’uomo con la natura, ne usciremo sempre più poveri e malati. Il rimedio? Meno pretesa di dominio, meno speculazione, meno voracità. Più attenzione, più ascolto, più rispetto, più pianificazione. Non ci sono alternative. Pena la dipendenza sempre più drammatica dalle reazioni di una natura che si rivolta furibonda e senza pietà.

È allo studio un progetto per creare il terzo polo autostradale italiano con una forte connotazione lombarda e, nella prima fase, pubblica. Nascerebbe intorno a una holding da creare ex novo. Battezziamola «Autonord» . È un piano in cinque fasi. In Autonord confluirebbero, in una prima fase, le partecipazioni degli enti pubblici, a partire dal 52%della Provincia di Milano e il 18%del Comune meneghino, nella Milano Serravalle, pezzo forte del nuovo polo. Ma gli apporti riguarderebbero anche le altre partecipazioni della Provincia (Pedemontana, Tangenziali Esterne, ecc.) oltre a uno stock di debiti compreso fra 150 e 200 milioni.

In una seconda fase sarebbe coinvolto il gruppo Intesa Sanpaolo. E su questo vi sarebbero stati già contatti ai massimi livelli tra i soggetti coinvolti nel progetto, in particolare il presidente della Provincia, Guido Podestà, e l’amministratore delegato di Intesa, Corrado Passera. Intesa ha infatti svariati interessi nel sistema autostradale, sia con partecipazioni azionarie dirette (l’Autostrada Brescia-Padova di cui è da poco azionista di riferimento, la Pedemontana, Autostrade Lombarde) sia come finanziatrice dei lavori. Gli incroci sono innumerevoli, un guazzabuglio di partecipazioni che la nuova holding potrebbe razionalizzare (il grafico in pagina illustra solo i principali collegamenti).

E i soggetti coinvolti potrebbero essere anche altri, come la banca Ubi o il gruppo autostradale Gavio, anch’essi incastonati nel labirinto di partecipazioni, o altre banche finanziatrici del «sistema» . Dunque Autonord funzionerebbe da polo aggregante con due soci forti come Provincia di Milano e Intesa (per via dei loro apporti). In sostanza è su quest’asse che si decide la fattibilità del piano. Per ora il livello della discussione è molto «politico» ma tra i molti soggetti interessati qualche carteggio è già circolato.

E da qui filtra lo schema della fase tre: apertura del capitale di Autonord a nuovi investitori, anche stranieri, i fondi sovrani per esempio, che vogliano scommettere sulle infrastrutture di un’area tra le più ricche d’Europa. La partecipazione pubblica potrebbe essere ridotta sotto il 50%ma con patti parasociali che garantiscano il controllo sulle opere infrastrutturali. Il nodo dei patti parasociali, che essenzialmente dovrebbe riguardare Provincia Milano e Intesa, è un tema allo studio. Una volta riunite le partecipazioni in Autonord e raccolto denaro con l’ingresso di nuovo soci, scatta la fase quattro, fondamentale: portare a compimento le principali opere infrastrutturali avviate.

A quel punto non più è solo una questione d’interesse pubblico ma anche privato, cioè degli investitori che pretendono un ritorno (e che magari hanno in mano un’opzione put da far valere). È evidente che il progetto è concepito soprattutto per attirare nuove risorse, al di fuori del canale bancario, essenziali ai lavori infrastrutturali. Risorse che la Provincia dai bilanci asfittici non ha. La fase quattro si dovrebbe concludere con l’Expo del 2015, tempo limite per chiudere i lavori dei collegamenti stradali e autostradali già progettati per l’evento. Poi la fase cinque: la quotazione in Borsa di Autonord. È un progetto, si vedrà se e quanto realizzabile.

Nel rapporto Ambiente Italia 2011, l'associazione del cigno lancia l'allarme. Periferie sempre più estese, arterie stradali, maxi-parcheggi e capannoni. E' come se ogni quattro mesi nascesse una nuova Milano

Il cemento si sta mangiando l’Italia, al ritmo di 10.000 ettari di territorio all’anno: ogni 4 mesi è come se nascesse una nuova Milano. Periferie sempre più estese, arterie stradali, maxi-parcheggi e capannoni.

Grappoli disordinati di sobborghi residenziali e centri commerciali sorti in mezzo alle campagne. È l’ambiente nel quale vivono 6 italiani su 10.

Lombardia, Veneto e Campania guidano la classifica: cresce l’asfalto, la terra soffre, va in crisi il sistema idrogeologico. Mancano regole a tutela del suolo, aumentano i danni ambientali e i costi sociali. È il nuovo allarme lanciato dal rapporto Ambiente Italia 2011, promosso da Legambiente: insieme agli spazi verdi, spariscono ettari preziosi per l’agricoltura, che vanta un export da 26 miliardi di euro. A farla da padrone sono i palazzi: negli ultimi 15 anni si sono costruiti 4 milioni di nuove case. Ma oltre un milione di alloggi resta vuoto. E almeno 200.000 famiglie non riescono a pagare l’affitto o la rata del mutuo.

Urbanizzazione selvaggia, sempre più insostenibile. Lo rivela il rapporto realizzato in collaborazione con l’INU, l’Istituto Nazionale di Urbanistica, presentato in questi giorni a Milano. Un quadro inquietante del consumo di territorio, che oltre all’ambiente mette in pericolo anche la produzione agroalimentare. Il cemento invade già 2 milioni e 350.000 ettari.

Un’estensione equivalente a quella di Puglia e Molise messe insieme: il 7,6% del territorio nazionale, con 415 metri quadri per abitante. Risultato: crescono le superfici impermeabili. Già nel 2007, in città come Napoli e Milano era isolato dall’acqua il 62% del suolo. Il primato è della Lombardia, con il 14% di superfici artificiali. Seguono Veneto (11%), Campania (10,7%), Lazio ed Emilia (9%). A rischio la Sardegna, dove la cementificazione minaccia patrimoni naturali di inestimabile valore.

“Il territorio italiano si sta rapidamente metropolizzando”, afferma il presidente INU, Federico Oliva. “Alla città tradizionale si sta sostituendo una nuova città, in cui vive oltre il 60% dell’intera popolazione italiana”. Si vive in condizioni insostenibili: cementificazione, traffico congestionato, nuovi squilibri e fame di spazio pubblico. Principale imputato: la crescita incontrollata delle periferie metropolitane, che divorano ogni anno 500 chilometri quadrati di aree verdi. Un esempio? Roma, il più grande comune agricolo in Europa. Nella città eterna, i complessi residenziali in periferia hanno “mangiato” 4.384 ettari agricoli, il 13% del totale, e 416 ettari di bosco. E il peggio deve ancora arrivare: i piani regolatori di Roma e Fiumicino prevedono di consumare altri 9.700 ettari, più di quanto sia stato urbanizzato dal 1993 al 2008.

Per Paolo Pileri del Politecnico di Milano, uno dei curatori del documento, “ad essere erose sono le risorse agricole e di biodiversità, che costituiscono uno dei beni comuni più importanti”. L’Italia è in controtendenza rispetto ai paesi europei dove “sono in atto da tempo politiche ambientali ed urbanistiche incisive contro il consumo di suolo e i suoi costi sociali”. Lo sfruttamento del suolo italiano non produce “solo ferite al paesaggio”, ma “una vera e propria patologia del territorio”. Per questo Legambiente e INU hanno deciso di creare un Centro di Ricerca sui Consumi di Suolo (CRCS). Nella legislazione italiana “mancano ancora regole efficaci sulle facoltà di trasformazione dei suoli”, afferma il presidente di Legambiente Lombardia, Damiano Di Simine: “Qualunque sia la politica che una Regione attua per il governo del territorio, riteniamo irrinunciabile che essa sia confortata da un’attività di verifica e monitoraggio, oggi estremamente lacunosa”.

Molti comuni piemontesi, stanchi di vedere il proprio territorio invaso da capannoni sfitti, hanno dato vita alla Campagna nazionale Stop al consumo di territorio. “Il consumo di suolo - dichiara il presidente di Legambiente Vittorio Cogliati Dezza – è oggi un indicatore dei problemi del Paese. La crescita di questi anni, senza criteri o regole, è tra le ragioni dei periodici problemi di dissesto idrogeologico e tra le cause di congestione e inquinamento delle città, dell’eccessiva emissione di CO2 e della perdita di valore di tanti paesaggi italiani e ha inciso sulla qualità dei territori producendo dispersione e disgregazione sociale. Occorre fare come negli altri Paesi europei, dove lo si contrasta attraverso precise normative di tutela e con limiti alla crescita urbana, ma anche con la realizzazione di edilizia pubblica per chi ne ha veramente bisogno”. Tra le abitazioni sfitte, 245.142 sono a Roma, 165.398 a Cosenza, 149.894 a Palermo, 144.894 a Torino e 109.573 a Catania. Ma il fenomeno sfugge, perché non ci sono banche dati aggiornate. E la piaga dell’abusivismo si aggiunge alle carenze di pianificazione.

Gira molto di questi tempi una favoletta apparentemente semplice, ma nella sostanza fasulla, che viene ampiamente propagandata e indirizzata - quasi come un manifesto, uno slogan, un credo ideologico-politico-urbanistico da imporre - ad un pubblico di menti candide, distratte o impreparate, che poco o nulla sanno o capiscono di questioni urbanistiche e ambientali e di pratiche di gestione del territorio, disposto a credere che “più grattacieli si costruiscono più si risparmia suolo” e che “grattacielo è bello” anzi “dovuto” per potere “risparmiare suolo” (questa è la parte del messaggio indirizzata agli ambientalisti ingenui).

In molti, a volte anche persone studiate dalle quali non te lo aspetteresti, ci cascano. Perché?

Questa favoletta risulta infatti, nel suo messaggio, anche non poco scorretta - un po’ come coloro che la sostengono e la propagandano - perché mischia artatamente al suo interno, in un ragionamento che si presta facilmente ad essere aggrovigliato e confuso, sia una parte vera che una parte falsa. E dove la parte vera sembra essere talmente evidente e indiscutibile da indurre a pensare che lo sia anche la parte falsa.

Vera è la parte stereometrica del ragionamento contenuto, che dimostra come il tipo edilizio del grattacielo, può, in termini fisici (la stereometria è infatti quella parte della geometria solida che studia i diversi modi coi quali si può configurare un volume nello spazio) consumare meno suolo rispetto ad altri tipi edilizi bassi o orizzontali che forniscano la stessa volumetria. Falsa è la parte del ragionamento che vuole far intendere che trasferire automaticamente nelle pratiche e nei metodi dell’urbanistica e dei suoi piani l’uso diffuso del ricorso alla tipologia del grattacielo provochi l’effetto virtuoso di fare risparmiare, sempre e comunque, suolo.

La verità stereometrica

Si prendano due dadi e li si posino su un tavolo. Si supponga che ogni dado rappresenti una casa o un edificio (per residenze, uffici, ecc.) di volume e di altezza pari a quella del dado. La superficie di tavolo occupata – o “consumata”, perché inibisce altri usi possibili della superficie complessiva del tavolo - da questi due edifici è equivalente alla superficie delle due facce sulle quali si posano i due dadi.

Sovrapponiamo ora i due dadi: otteniamo un edificio alto due dadi e dello stesso identico volume dei due. Abbiamo fatto un “grattacielo” (l’esempio vale anche per più dadi, per chi desiderasse giocare con un grattacielo più alto) che altro non è, nel senso più banale, che una certa quantità di metri cubi impilati in altezza. Ora però possiamo osservare che la superficie coperta, consumata dai due dadi impilati si è ridotta ad una sola faccia di dado: pari volume complessivo e superficie coperta ridotta della metà: magnifico! Ma allora è proprio vero e dimostrato che il grattacielo fa risparmiare suolo!

Fine dell’unica parte veritiera della favoletta.

La falsità urbanistica

Si consideri innanzitutto che il suolo, meglio pensarlo come territorio, nel quale e sul quale noi viviamo e operiamo, non è proprio equivalente al piano del tavolo di cui all’esempio e nemmeno è paragonabile a un foglio di carta bianca (come spesso se lo immaginano certi architetti) sul quale poter disegnare e collocare tutto ciò che passa per la testa. E non è neppure una sommatoria di “mappali” come lo pensa una concezione meramente proprietaria dei suoli.

Sul suolo si posano gli ambienti umani, si posa la natura, si posa l’ambiente naturale, si posa il paesaggio, vivono aree naturali sensibili e rare e sono presenti aree e ambienti preziosi o delicati che debbono assolutamente essere conservati e protetti per la vita. Il suolo stesso è natura e materia vivente e non è piatto e indifferenziato come un tavolo.

Il suolo è dunque risorsa scarsa e limitata, riproducibile dove può essere riprodotta, se non in tempi lunghissimi, che non può essere utilizzato e sfruttato nella sua totalità (come un tavolo). E che non può essere reso tutto edificato o edificabile (come pensano gli ossessi del metro-cubo, dello “sviluppo” e della “crescita”).

L’urbanistica, quella vera e consapevole, si pone, nell’organizzare e pianificare gli sviluppi insediativi urbani, prima ancora del problema delle tipologie edilizie da utilizzare o da non utilizzare, quello di quanti volumi (e funzioni) e per chi e per quali bisogni, programmare e autorizzare nei propri piani o programmi.

Tornando all’esempio dei dadi, cioè dei volumi “necessari” per un corretto e ben dimensionato piano urbanistico, la domanda è: sono necessari due dadi? ne basta uno? ne basta mezzo?

Prima domanda: servono due dadi o ne basta uno?



Prima di tutto viene il problema del “dimensionamento del piano” anche in termini di metri cubi programmabili che non possono essere infiniti o indeterminati (problema oggi completamente dimenticato e volutamente cancellato) e della loro rispondenza ai reali fabbisogni della comunità.

Ma non bisogna dimenticare che spesso si pone anche, a monte di ogni altra decisione, il problema della valutazione dell’accettabilità o della compatibilità dell’uso della tipologia del grattacielo in determinati siti o ambienti, urbani o anche non urbani, dove potrebbe, per mille evidenti ragioni immaginabili, rivelarsi inaccettabile o incongrua.

Il ricorso al tipo edilizio del grattacielo può funzionare ed essere accettato in urbanistica, ma sempre se compatibile con l’ambito dell’intervento, solo al verificarsi, contemporaneo, di due condizioni: la prima che il grattacielo venga a concentrare e ad assorbire in sé volumi già correttamente programmati e autorizzati, in una data area definita da corretti indici territoriali; la seconda, ancora più importante, che richiede che sui suoli così sottratti all’edificazione (il cosiddetto risparmio raggiunto) venga posto un vincolo che vieti ogni ulteriore edificabilità. Il suolo, per essere considerato effettivamente risparmiato deve essere identificato e sottratto ad ulteriori edificazioni. Il meccanismo del “risparmio” deve essere identificato, produrre un effetto tangibile, verificato e verificabile, ed essere conservato nel tempo come prodotto di un risparmio.

Se invece il sorgere di grattacieli fosse il prodotto, voluto e cercato, di nuove norme e scelte urbanistiche, generato da aumentati indici di edificabilità (territoriali o fondiari e di rapporti di copertura) non si andrebbe certamente in direzione di un risparmio di suolo. Ci si dovrebbe piuttosto preoccupare dei rischi (urbanistici, ambientali e paesistici) derivanti inevitabilmente dall’aumento dei nuovi carichi insediativi e ambientali o di congestione urbana apportati dalla nuova densificazione.

Ah, se le Valutazioni Ambientali Strategiche fossero una cosa seria!!

Ogni giorno l´Emilia-Romagna consuma una quantità di suolo pari a dodici volte Piazza Maggiore - Dal 1950 abbiamo perso il 40 per cento della superficie libera del Paese. La Liguria si è dimezzata - Anche il diffondersi delle energie alternative corre il pericolo di alimentare la speculazione e fare danni all´ambiente - In Veneto le aree urbanizzate sono cresciute in 60 anni del 324 per cento ma la popolazione solo del 32

I dati certi su cui fare affidamento sono pochi, non sempre concordanti per via dei diversi metodi di misurazione utilizzati, ma tutti ci parlano in maniera univoca di un consumo impressionante del territorio italiano. Stiamo compromettendo per sempre un bene comune, perché anche la proprietà privata del terreno non dà automaticamente diritto di poterlo distruggere e sottrarlo così alle generazioni future. Circa due anni fa su queste pagine riportavamo che l´equivalente della superficie di Lazio e Abruzzo messi insieme, più di 3 milioni di ettari liberi da costruzioni e infrastrutture, era sparita in soli 15 anni, dal 1990 al 2005. Dal 1950 abbiamo perso il 40% della superficie libera, con picchi regionali che ci parlano, secondo i dati del Centro di Ricerca sul Consumo di Suolo, di una Liguria ridotta della metà, di una Lombardia che ha visto ogni giorno, dal 1999 al 2007, costruire un´area equivalente sei volte a Piazza Duomo a Milano. E non finisce qui: in Emilia Romagna dal 1976 al 2003 ogni giorno si è consumato suolo per una quantità di dodici volte piazza Maggiore a Bologna; in Friuli Venezia Giulia dal 1980 al 2000 tre Piazze Unità d´Italia a Trieste al giorno. E la maggior parte di questi terreni erano destinati all´agricoltura. Per tornare ai dati complessivi, dal 1990 al 2005 si sono superati i due milioni di ettari di terreni agricoli morti o coperti di cemento.

Come si vede, le cifre disponibili non tengono conto degli ultimi anni, ma è sufficiente viaggiare un po´ per l´Italia e prendere atto delle iniziative di questo Governo (il Piano Casa, per esempio) e delle amministrazioni locali per rendersene conto: sembra che non ci sia territorio, Comune, Provincia o Regione che non sia alle prese con una selvaggia e incontrollata occupazione del suolo libero. Purtroppo, nonostante il paesaggio sia un diritto costituzionale (unico caso in Europa) garantito dall´articolo 9, la legislazione in materia è in gran parte affidata a Regioni ed Enti locali, con il risultato che si creano grande confusione, infiniti dibattiti, nonché ampi margini di azione per gli speculatori. Per esempio la recente legge regionale approvata in Toscana che vieta l´installazione d´impianti fotovoltaici a terra sembra valida, ma è già contestata da alcune forze politiche. In Piemonte è stata invece approvata una legge analoga, ma meno efficace, suscitando forti perplessità dal "Movimento Stop al Consumo del Territorio". In realtà, in barba alle linee guida nazionali per gli impianti fotovoltaici - quelli mangia-agricoltura - essi continuano a spuntare come funghi alla stregua dei centri commerciali e delle shopville, di aree residenziali in campagna, di nuovi quartieri periferici, di un abusivismo che ha devastato interi territori del nostro Meridione anche grazie a condoni edilizi scellerati.

Ci sono esempi clamorosi: Il Veneto, che dal 1950 ha fatto crescere la sua superficie urbanizzata del 324% mentre la sua popolazione è cresciuta nello stesso periodo solo per il 32%, non ha imparato nulla dall´alluvione che l´ha colpito a fine novembre. Un paio di settimane dopo, mentre ancora si faceva la conta dei danni, il Consiglio Regionale ha approvato una leggina che consente di ampliare gli edifici su terreni agricoli fino a 800 metri cubi, l´equivalente di tre alloggi di 90 metri quadri.

Guardandoci attorno ci sentiamo assediati: il cemento avanza, la terra fa gola a potentati edilizi, che nonostante siano sempre più oggetto d´importanti inchieste giornalistiche, e in alcuni casi anche giudiziarie, non mollano l´osso e sembrano passare indenni qualsiasi ostacolo, in un´indifferenza che non si sa più se sia colpevole, disinformata o semplicemente frutto di un´impotenza sconsolata. Del resto, costruire fa crescere il Pil, ma a che prezzo. Fa davvero male: l´Italia è piena di ferite violente e i cittadini finiscono con il diventare complici se non s´impegnano nel dire no quotidianamente, nel piccolo, a livello locale. Questa è una battaglia di tutti, nessuno escluso.

Ora si sono aggiunte le multinazionali che producono impianti per energia rinnovabile, insieme a imprenditori che non hanno mai avuto a cuore l´ambiente e, fiutato il profitto, si sono messi dall´oggi al domani a impiantare fotovoltaico su terra fertile, ovunque capita: sono riusciti a trasformare la speranza, il sogno di un´energia pulita anche da noi nell´ennesimo modo di lucrare a danno della Terra. Anche del fotovoltaico su suoli agricoli abbiamo già scritto su queste pagine, prendendo come spunto la delicatissima situazione in Puglia. I pannelli fotovoltaici a terra inaridiscono completamente i suoli in poco tempo, provocano il soil sealing, cioè l´impermeabilizzazione dei terreni, ed è profondamente stupido dedicargli immense distese di terreni coltivabili in nome di lauti incentivi, quando si potrebbero installare su capannoni, aree industriali dismesse o in funzione, cave abbandonate, lungo le autostrade. La Germania, che è veramente avanti anni luce rispetto al resto d´Europa sulle energie rinnovabili, per esempio non concede incentivi a chi mette a terra pannelli fotovoltaici, da sempre. Dell´eolico selvaggio, sovradimensionato, sovente in odore di mafia e sprecone, se siete lettori medi di quotidiani e spettatori fedeli di Report su Rai Tre già saprete: non passa settimana che se ne parli su qualche testata, soprattutto locale, perché qualche comitato di cittadini insorge. È sufficiente spulciare su internet il sito del movimento "Stop al Consumo del Territorio", tra i più attivi, e subito salta agli occhi l´elenco delle comunità locali che si stanno ribellando, in ogni Regione, per i più disparati motivi.

Intendiamoci, questo non è un articolo contro il fotovoltaico o l´eolico: è contro il loro uso scellerato e speculativo. Il solito modo di rovinare le cose, tipicamente italiano. Anche perché l´obiettivo del 20% di energie rinnovabili entro il 2020 si può raggiungere benissimo senza fare danni, e noi siamo per raggiungerlo ed eventualmente superarlo. Questo vuole essere un grido di dolore contro il consumo di territorio e di suolo agricolo in tutte le sue forme, la più grande catastrofe ambientale e culturale cui l´Italia abbia assistito, inerme, negli ultimi decenni. Perché se la terra agricola sparisce il disastro è alimentare, idrogeologico, ambientale, paesaggistico. E´ come indebitarsi a vita e indebitare i propri figli e nipoti per comprarsi un televisore più grosso: niente di più stupido.

Il problema poi s´incastra alla perfezione con la crisi generale che sta vivendo l´agricoltura da un po´ di anni, visto che tutti i suoi settori sono in sofferenza. Sono recenti i dati dell´Eurostat che danno ulteriore conferma del trend: "I redditi pro-capite degli agricoltori nel 2010 sono diminuiti del 3,3% e sono del 17% circa inferiori a quelli di cinque anni fa". Così è più facile convincere gli agricoltori demotivati a cedere le armi, e i propri terreni, per speculazioni edilizie o legate alle energie rinnovabili. Ricordiamoci che difendendo l´agricoltura non difendiamo un bel (o rude) mondo antico, ma difendiamo il nostro Paese, le nostre possibilità di fare comunità a livello locale, un futuro che possa ancora sperare di contemplare reale benessere e tanta bellezza.

Per questo è giunto il momento di dire basta, perché rendiamoci conto che siamo arrivati a un punto di non ritorno: vorrei proporre, e sperare che venga emanata, una moratoria nazionale contro il consumo di suolo libero. Non un blocco totale dell´edilizia, che può benissimo orientarsi verso edifici vuoti o abbandonati, nella ristrutturazione di edifici lasciati a se stessi o nella demolizione dei fatiscenti per far posto a nuovi. Serve qualcosa di forte, una raccolta di firme, una ferma dichiarazione che arresti per sempre la scomparsa di suoli agricoli nel nostro Paese, le costruzioni brutte e inutili, i centri commerciali che ci sviliscono come uomini e donne, riducendoci a consumatori-automi, soli e abbruttiti.

Una moratoria che poi, se si uscirà dalla tremenda situazione politica attuale, dovrebbero rendere ufficiale congiuntamente il Ministero dell´Agricoltura, quello dell´Ambiente e anche quello dei Beni Culturali, perché il nostro territorio è il primo bene culturale di questa Nazione che sta per compiere 150 anni. Sono sicuro che le tante organizzazioni che lavorano in questa direzione, come la mia Slow Food, o per esempio la già citata rete di Stop al Consumo del Territorio, il Fondo Ambientale Italiano, le associazioni ambientaliste, quelle di categoria degli agricoltori e le miriadi di comitati civici sparsi ovunque saranno tutti d´accordo e disposti a unire le forze. È il momento di fare una campagna comune, di presidiare il territorio in maniera capillare a livello locale, di amplificare l´urlo di milioni d´italiani che sono stufi di vedersi distruggere paesaggi e luoghi del cuore, un´ulteriore forma di vessazione, tra le tante che subiamo, anche su ciò che è gratis e non ha prezzo: la bellezza. Perché guardatevi attorno: c´è in ogni luogo, soprattutto nelle cose piccole che stanno sotto i nostri occhi. È una forma di poesia disponibile ovunque, che non dobbiamo farci togliere, che merita devozione e rispetto, che ci salva l´anima, tutti i giorni.

Nuovi progetti infrastrutturali per la base aerea di Aviano (Pordenone), sede del principale comando dell’Us Air Force in Europa e trampolino di lancio dei cacciabombardieri a capacità nucleare F-16 nei Balcani e in Medio oriente. “Priorità strategica per i piani di lavoro 2011”, come ha spiegato Jeff Borowey, responsabile del Comando d’ingegneria navale Usa per l’Europa, l’Africa e l’Asia sud occidentale, Aviano assorbirà da sola più del 27% degli investimenti destinati per il nuovo anno al potenziamento delle basi aeree Usa nel vecchio continente. Si tratta di 29 milioni e duecentomila dollari, 10 milioni e duecentomila destinati alla costruzione di una “Air Support Operations Squadron (ASOS) Facility” e 19 milioni per 144 alloggi per il personale del 31° Stormo dell’Us Air Force.

“La nuova facility di Aviano deve rispondere adeguatamente alle necessità amministrative, operative, addestrative e di manutenzione e stoccaggio veicoli ed attrezzature dell’8° Squadrone per le Operazioni di Supporto Aereo (8th ASOS)”, scrive il comando dell’Us Air Force nella richiesta di finanziamento per il 2011 presentata al Congresso. Giunto nella base friulana a fine 2006 dalla caserma Ederle di Vicenza, l’8° Squadrone è composto da una quarantina di uomini che forniscono il supporto al “Comando e Controllo Tattico delle componenti congiunte delle forze aeree e terrestri statunitensi per le operazioni di guerra”. “Questo progetto - aggiunge il comando dell’Us Air Force - consentirà di sostenere l’iniziativa di trasformazione voluta dall’aeronautica militare per consentire il collegamento diretto dell’ASOS con le unità aeree e dell’US Army di stanza ad Aviano”. Dallo scorso anno è infatti operativa nella base, accanto ai reparti aeronautici, la 56th Quartermaster Company, letteralmente 56^ Compagnia Timonieri, unità dipendente dalla 173^ Brigata trasportata dell’Us Army di Vicenza, specializzata nelle tecniche di aviolancio. “Secondo le linee guida progettuali”, spiega il Pentagono, “le aree destinate ad uffici ASOC cresceranno in superficie del 30% (2.414 mq), mentre quelle riservate a deposito veicoli di un 25% circa (550 mq). È prevista l’installazione di condizionatori d’aria, sistemi antincendio e distribuzione di energia, collegamenti internet e telefonici, apparecchiature di protezione luminosa e attenuazione dei rumori. Questo progetto risponderà alle richieste del Dipartimento della difesa in materia di protezione da attacchi terroristici e richiederà l’approvazione da parte di una commissione mista USA-Italia”.

La seconda importante tranche finanziaria ottenuta dall’Air Force è riservata alla realizzazione di nuovi dormitori multipli per gli avieri, dotati di saloni, servizi, lavanderia e ampi parcheggi. “Saranno demoliti i tre dormitori attualmente utilizzati nell’Area A2 di Aviano in vista della sua restituzione al governo italiano (rimozione dalla lista delle infrastrutture di proprietà Usa)”, scrive il comando Us Air Force nella richiesta di finanziamento al Congresso. Il nuovo complesso abitativo sorgerà accanto alle sei palazzine esistenti nella cosiddetta Area 1 (distante circa 5 chilometri dall’Area 2), dove sono concentrate le unità abitative, l’ospedale e le scuole per i figli del personale militare. Secondo il comando del 31st Civil Engineer Squadron, le modalità per la restituzione dei circa 13 acri (52.611 mq) dell’Area 2 sono in via di definizione con le autorità militari italiane e la decisione di “ricongiungimento” dei dormitori sarebbe stata dettata dai “rischi per i militari” e dalle difficoltà di protezione dei veicoli in transito sulla strada statale che collega i due siti. “A causa della gravità delle violazioni ai sistemi di sicurezza nell’Area A2, un dormitorio è già stato chiuso del tutto e solo il 50% di un secondo dormitorio è usato ancora oggi”, spiegano ad Aviano. “La costruzione di una struttura con 144 alloggi nel principale campus della base secondo le prescrizioni dell’Air Force 2008 Dormitory Master Plan, consente a tutti i residenti di non essere più “facile obiettivo” in caso di evento terroristico; la chiusura dell’Area A2 elimina inoltre il grande blocco stradale esistente”.

Aviano si conferma dunque come una delle principali basi-cantiere delle forze armate Usa in Europa. Nell’ottobre 2009 è entrato in funzione l’“Airborne Equipment/Parachute Shop”, costo 12 milioni e 100 mila dollari, un megadeposito di 4.000 mq che ospita i materiali necessari per le operazioni di aviolancio e altre attrezzature pesanti dei reparti Us Army di Vicenza. Recentemente è stata pure completata la costruzione di una infrastruttura di 5.000 mq atta ad ospitare sino a un migliaio di paracadutisti della 173^ Brigata in attesa di imbarco (“PAHA - Personnel Alert Holding Area”). Accanto ad essa sorge pure una piattaforma per le soste operative dei grandi velivoli da trasporto delle forze armate Usa, in grado di ospitare simultaneamente sino a dodici C-130 o cinque C-17. A fine 2009 sono stati completati infine i lavori di riparazione della rete stradale e del sistema d’illuminazione del parcheggio della base per una spesa complessiva di 750 mila dollari.

Attualmente il distretto europeo dell’Us Army Corps of Engineers sta eseguendo una serie di lavori di manutenzione per circa 4 milioni di dollari, che includono la riparazione di alloggi, scuole, piste aeree e di una facility per l’addestramento anti-incendio. Il 31st Civil Engineer Squadron ha inoltre dato il via ad un piano biennale con un investimento di 5 milioni di dollari che prevede la realizzazione di 16 progetti di “risparmio energetico”, tra cui l’installazione di un impianto geotermico nel Fitness Center, pannelli solari per la piscina e i dormitori destinati ai militari e un sistema d’irrigazione con acqua piovana dei campi sportivi e del campo da golf realizzato nel 2006 su 3 ettari e mezzo di superficie dell’aeroporto “Pagliano e Gori”. Per la rizollatura dell’“Alpine Golf Corse” di Aviano, l’Us Air Force ha pubblicato a fine settembre un bando di gara e i lavori dovrebbero iniziare a giorni. Altro bando per un milione di dollari è stato pubblicato a fine luglio per la ristrutturazione dei fabbricati Command Post Facility n. 1360 e Alternate Command Post n. 1135, ubicati entrambi nell’Area F della base. Tutti questi impianti rientrano nel piano di ammodernamento e potenziamento infrastrutturale per il valore di 610 milioni di dollari denominato “Aviano 2000”: si tratta complessivamente di 99 grandi progetti (33 gestiti dall’Aeronautica militare italiana e 66 dalle forze armate statunitensi), a cui si aggiungono 186 interventi di dimensioni minori. Obiettivo strategico è quello di trasformare Aviano nella maggiore installazione dell’Us Air Force per “condurre la guerra aerea e nello spazio e le operazioni di supporto al combattimento nella Regione europea meridionale”. Come specificato dal Comando dell’aeronautica nel suo report finanziario 2011 “ad Aviano si mantengono operativi due squadroni di cacciabombardieri F-16 fighter per operare regionalmente ed extra-area su richiesta della NATO, di SACEUR o della nazione con munizioni convenzionali e non-convenzionali. La base mantiene operativo anche uno squadrone di controllo aereo per le attività di sorveglianza, controllo e comunicazioni”. Le schede allegate al nuovo piano forniscono il censimento aggiornato del patrimonio immobiliare Usa ad Aviano: si tratta di una lunga lista di infrastrutture, alloggi, depositi, ecc. presenti in 1.192 acri di terreno, valore complessivo 740 milioni e 700 mila dollari. Lo scorso anno, l’Us Air Force ha pure pubblicato uno studio sul cosiddetto “impatto economico” generato delle basi estere, il quale prende in considerazione i “beni e i servizi acquistati localmente” dal personale militare, gli stipendi versati al personale civile locale, gli affitti degli alloggi e i lavori appaltati a ditte e imprese delle nazioni ospitanti. Stando ai militari Usa, nell’ultimo anno “il valore totale del denaro immesso nell’economia locale di Aviano raggiunge i 427 milioni di dollari”. Di questi, 199 milioni corrisponderebbero alle spese sostenute fuori dalla base dal personale militare e civile statunitense e dai dipendenti civili italiani; 47,3 milioni sono stati generati dalle attività di costruzione, 16 milioni dalle spese “per servizi”, 104,9 dall’acquisto di materiali ed attrezzature. L’Us Air Force si spinge nel quantificare in 1.743 i posti di lavori “secondari” generati dalla base aerea friulana, con un apporto di 59, 8 milioni di dollari in retribuzioni e contributi salariali. Anche se restano misteriose le modalità e i parametri con cui sono stati stimati i presunti “benefici” economici dell’installazione, una prima incongruenza traspare dal computo degli appartenenti alle forze armate e dei dipendenti civili in forza ad Aviano. Lo studio “sull’impatto economico” calcola infatti una presenza di 348 ufficiali, 3.409 militari semplici, 594 civili Usa e 934 lavoratori civili italiani. Nella scheda presentata al Congresso, sempre dall’Us Air Force, per i fondi infrastrutturali del 2011, il personale Usa ad Aviano è invece leggermente inferiore (303 ufficiali, 3.196 militari semplici e 764 civili). Nelle stime manca poi qualsivoglia riferimento agli impatti “negativi” sull’economia e la società locale, non certo indifferenti in termini di contaminazioni ambientali, traffico veicolare, inquinamento acustico, consumo di territorio, depauperamento risorse idriche e naturali, rischi di dispersione di materiali radioattivi, accumulazione rifiuti solidi e speciali, ecc.. I comandi Usa, che lo scorso anno hanno pubblicamente enfatizzato il “business” generato dal mercato degli affitti degli immobili destinati al personale statunitense (“36 milioni e 600 mila euro all’anno”), preferiscono glissare sul fatto che la stramaggioranza dei contratti sottoscritti direttamente dal Dipartimento della difesa riguardano immobili di proprietà di quattro grandi società immobiliari che hanno sede fuori dalla provincia di Pordenone. A ciò si aggiunge il piano di drastico ridimensionamento delle spese recentemente varato dal Pentagono il quale prevede entro la fine del 2011 una riduzione degli alloggi locati ad Aviano da 726 a 531 unità e del canone medio mensile da 8.712 dollari a 6.372, con una spesa finale di 16.078.000 dollari contro i 20.734.000 del 2009.

A rendere ancora più asimmetrica la relazione costi-benefici per la popolazione locale l’ammontare delle risorse pubbliche dirottate dalle amministrazioni locali per interventi infrastrutturali pro-base. Nel gennaio 2009, ad esempio, sono state consegnate due rotatorie e una serie di bretelle intermedie sul confine meridionale dell’aeroporto “Pagliano e Gori”, sulla strada provinciale Aviano-Pordenone e la circonvallazione nord di Roveredo. Gli interventi si sono resi necessari per regolarizzare i voluminosi flussi veicolari verso lo scalo aereo (oltre 5.000 mezzi al giorno), e hanno comportato una spesa di oltre tre milioni di euro da parte dell’amministrazione provinciale di Pordenone e della Regione Friuli Venezia Giulia.

Brutto mese novembre: era novembre quando il Po, nel 1951, ha allagato il Polesine, la prima grande tragedia nazionale, che riuscì a mobilitare emozione e solidarietà in tutto il Paese, appena uscito dalla guerra, e impegni perché non succedesse più; era il 4 novembre 1966, in pieno boom economico, quando le acque dell'Arno e le fogne di Firenze hanno invaso quella straordinaria città, e le acque dell'Adige hanno invaso Trento e il mare ha allagato Venezia; anche allora emozione e solidarietà e anche allora impegni perché non succedesse più. Era novembre quando ci sono state le grandi alluvioni del Piemonte nel 1994; ormai sempre meno emozione e qualche soldo agli alluvionati in modo che ricostruissero proprio dove le loro case e fabbriche erano state spazzate via. E' novembre ancora adesso che stiamo soffrendo per il dolore di tante famiglie nel Veneto e in Toscana e in Calabria e in Sicilia.

Se il mese di novembre è brutto perché i meteorologi dicono che le piogge intense si formano dallo scontro di masse di aria fredda e calda sulla nostra penisola, stesa là nel Mediterraneo fra Europa e Africa, anche tutti gli altri mesi dell'anno sono cattivi per frane e allagamenti: giugno Versilia (1996); luglio Ofanto e Manfredonia (1972), Valtellina(1987); settembre Soverato in Calabria (2000); ottobre Salerno (1954) e Genova (1970), e così via.

"Calamità naturali", le chiamano, ma la natura non è né buona né cattiva: fa il suo mestiere che è quello di far circolare aria e acqua sugli oceani e sui continenti, così come il "mestiere" dell'acqua piovana consiste nello scendere dalle montagne e dalle colline al mare lungo le strade di minore resistenza, i torrenti, i fiumi i fossi, con maggiore o minore velocità a seconda di quello che incontra sul terreno, cose ben note e prevedibili.

I guasti vengono dal fatto che noi umani ci comportiamo sul territorio come se queste leggi non esistessero, costruendo strade e case, ponti e fabbriche e campi dove ci torna comodo, secondo piani che dovrebbero essere "regolatori", cioè adatti a regolare le scelte sulla base delle leggi della natura, ma che invece non tengono conto di tali leggi, anzi spesso operano contro di loro. L'unico sistema per evitare allagamenti e frane consiste nel predisporre sistemi per rallentare il moto delle acque con la vegetazione e i boschi e nel lasciare libero lo spazio di scorrimento delle acque nel loro cammino verso il mare. Purtroppo le valli sono spesso le zone più desiderabili per le costruzioni; i fondovalle sono stati occupati da strade e città a spese della vegetazione; sono state interrotte le strade naturali predisposte dalle acque per la loro discesa.

E' uscito di recente un libro scritto dall'economista Giovanna Ricoveri, intitolato "I beni comuni" (Jacabook, 2010) in cui viene ricostruito il processo con cui si è formata la proprietà del suolo; in tempi medievali la terra era "del principe", cioè dello Stato, che stabiliva dove dovevano o non dovevano essere costruite le città e i villaggi, come dovevano essere protetti o rinnovati i boschi, con leggi che sono arrivate spesso abbastanza intatte fino allo stato unitario, addirittura fino alla metà del Novecento. Queste leggi stabilivano che non si doveva costruire sulle rive dei fiumi e dei laghi perché si doveva lasciare spazio alle acque di muoversi nei periodi di piena che si manifestano in maniera abbastanza regolare e prevedibile, m,a soprattutto perché erano di proprietà del principe cioè, dello Stato (in termini più moderni erano "demanio statale").

Rive, boschi, fiumi possono essere usati come beni comuni dal "popolo" ma sotto il controllo dello Stato che ne è l'unico padrone nel nome del popolo stesso.

Le opere di salvaguardia del territorio, di pulizia e controllo dei fiumi, sono venute meno; lo stato, ormai ridotto con la lettera minuscola, per far soldi ha venduto e ceduto i beni collettivi cioè la base per la salvaguardia dei cittadini da alluvioni e frane, ha lasciato costruire secondo gli interessi dei proprietari privati dei suoli. Sorprende che in nessuno dei molti programmi dei vari "partiti" che si formano e disfano nell'attuale momento politico, figuri mai la parola "riassetto del territorio", che significa, in primo luogo, difesa del suolo contro l'erosione, almeno dove è ancora possibile farlo, regolazione e sistemazione e pulizia dei corsi di acqua, dai torrenti di montagna ai fianchi delle colline, ai grandi e piccoli fiumi, ai fossi di pianura, con l'unico imperativo di assicurare che l'acqua scorra senza violenza e senza ostacoli verso il mare, suo unico destino finale.

Ciò significa opere di rimboschimento, edificazione secondo criteri che lascino libere le acque di muoversi, dalle valli fino agli scarichi dei tombini urbani i cui intasamenti riescono a paralizzare per ore molte città (e ne sappiamo qualcosa anche da noi in Puglia). Purtroppo queste opere sono "competenza" si fa per dire, di innumerevoli enti, dai piccoli comuni, alle metropoli, alle Regioni, ai Ministeri, ciascuno dei quali opera per suo conto. Eppure una politica del territorio e di "prevenzione civile", ben diversa dalla protezione civile che appalta opere per riparare guasti già avvenuti ma che si sarebbero potuti prevenire, creerebbe posti di lavoro, contribuirebbe alla soluzione di problemi dell'energia e del traffico, offrirebbe occasioni produttive secondo i progetti "ecologici" e sostenibili. Soprattutto stimolerebbe una ripresa della moralità perché la moralità verso la natura è premessa per la moralità privata e pubblica. Sembra che l'uomo abbia perso la capacità di prevedere e prevenire: per questo finiamo così spesso sott'acqua.


Giovedì sera al Tg3 il presidente del Veneto, l’ex ministro Luca Zaja, è stato molto tranciante: l’ennesima disastrosa alluvione veneta è soltanto frutto di “calamità naturali”, la cementificazione della collina e il dissesto idrogeologico non c’entrano nulla. Ieri però una nota della la Società Italiana di Geologia Ambientale, dopo aver descritto i disastri verificatisi dal Lombardo-Veneto alla Calabria, dice fra l’altro: “Dal punto di vista scientifico, i fenomeni naturali sopradescritti rientrano nella normalità. E’ normale che in autunno si registrino piogge di tali intensità e durata”. Non è invece per niente normale che un territorio geologicamente “giovane” come il nostro sia diventato “strutturalmente fragile” perché si costruisce in zone “pericolose”.

Di recente l’Istat collocato il Veneto fra le tre regioni italiane con la massima concentrazione edilizia, case e capannoni, tanti capannoni da far esclamare nel 2003 all’allora presidente Renzo Galan “Basta capannoni!” Un grido senza alcun seguito pratico. Sempre l’Istat definiva la pedemontana veneto-lombarda – in termini meno tecnici, la un tempo splendida collina di Piovene e di Parise – una delle zone più cementificate e asfaltate d’Italia. Basta scendere in aereo su Venezia: il continuum edilizio è agghiacciante senza uno spicchio di verde in mezzo, per centinaia di chilometri da Venezia-Mestre.-Padova, ormai saldate, alla Lombardia. Ed è, per lo più, edilizia “legale”, eretta in base a piani urbanistici sforacchiati da continue varianti. Perché un territorio collinare così maltrattato dovrebbe “tenere” con le piogge autunnali o primaverili? Difatti le alluvioni, qui e altrove, sono ormai permanenti.

Cosa fa il governo Berlusconi, il “governo del fare”? Concorre potentemente a disfare il Belpaese riducendo nell’ultimo triennio del 60 % (così il Wwf) i fondi destinati alla difesa del suolo e al restauro di un territorio massacrato. Eppure ci eravamo dati una buona legge – la n. 183 del 1989, nella deprecata Prima Repubblica – creando, sul modello dell’Authority del Tamigi, le Autorità di bacino. Solo che nel Regno Unito le competenze forti sono tutte andate alla Themes Autority, mentre qui si è fatto l’opposto togliendo alle Autorità (specie se interregionali, orrore) soldi e competenze. Un anticipo di federalismo all’italiana che smantella i poteri pubblici, li regionalizza, poi magari li municipalizza e infine lascia fare ai privati quello che vogliono. Case e capannoni, capannoni e case. Nel decennio 1991-2001 in provincia di Vicenza la popolazione è aumentata del 32 %, ma la superficie urbanizzata è esplosa: + 342 %. In tutta Italia nel periodo 1995-2006 – secondo un calcolo attento (e su dati Istat) dell’urbanista Paolo Berdini – sono stati mangiati dall’edilizia di tutti i tipi ben 750.000 ettari di suoli liberi, una regione grande come l’Umbria. Da una parte stiamo rendendo impermeabile ogni anno circa 70.000 ettari, dall’altra lo spopolamento agricolo (ripreso con forza visto che sui campi si guadagna sempre meno) abbandona a se stesse montagna e alta collina. Coi risultati che sono sotto gli occhi di tutti alla prima pioggia un po’ più forte.

A questo consumo di suolo sfrenato si comincia a dare uno stop dal basso. Un buon esempio viene proprio dal Milanese, dal sindaco, Domenico Finiguerra, di Cassinetta di Lugagnano (sul bellissimo Naviglio), premiato come il più “virtuoso” poiché ha varato un piano territoriale a “consumo zero” di suoli liberi. Una sacrosanta battaglia che nel Regno Unito, pensate un po’, ha prodotto una legge severa negli anni ’30 e poi una ancor più rigorosa con Tony Blair. In Germania vige dagli anni ’90 una legge Merkel che punta ridurre il consumo di buona terra, anche se quello di partenza era un terzo del nostro. E da noi? Si rincorrono i guasti di frane e alluvioni spendendo infinitamente di più in rattoppi di quanto si spenderebbe in prevenzione. E si contano tristemente i morti: dal Polesine ad oggi, o a ieri, 3.255 includendo il Vajont che qualcuno cercò allora di spacciare per “calamità naturale”.

Qui di seguito è riportato il testo senza le note, le tabelle e la bibliografia. La versione completa, in formato .pdf, è scaricabile in calce.

1. L’obiettivo 30 ettari

Il contenimento dell’occupazione di suolo per fini urbani e il rafforzamento delle strategie di riqualificazione della città esistente sono da tempo entrati fra gli obiettivi della legislazione urbanistica e dei documenti di pianificazione a livello europeo e dei singoli stati membri. Come è noto, nella lotta all’inarrestabile espansione delle città, si è distinta soprattutto la Germania con una vasta gamma di strumenti diversi: oltre a quelli di esclusiva natura legislativa si sono messi a punto strumenti di carattere fiscale ed economico, di comunicazione e di ricerca . Il carattere distintivo delle politiche tedesche è però la definizione di un obiettivo quantitativo rispetto al quale misurare l’efficacia delle strategie adottate. Questo approccio ha portato ad alcune innovazioni rilevanti nelle pratiche di pianificazione, arricchendo il discorso tradizionale con concetti nuovi di management e di comunicazione.

La necessità di invertire, o almeno mitigare, la tendenza all’espansione urbana è stata riconosciuta, per la prima volta, dal governo tedesco nel 1985 nell’ambito della formulazione dei principi di tutela del suolo. Solo tredici anni dopo l’allora ministro per l’ambiente Angela Merkel (CDU) si era però posto l’obbiettivo di disgiungere in modo duraturo lo sviluppo economico dall’occupazione di suolo. Fu allora fissata la soglia di 30 ettari al giorno (pari a un quarto della tendenza allora in atto), alla quale limitare l’aumento di aree per insediamenti e mobilità entro il 2020.

Successivamente, l’obiettivo 30 ettari è stato ripreso dai governi rosso-verdi all’interno della strategia per uno sviluppo sostenibile (Bundesregierung, 2002) e da tutti gli altri governi che si sono succeduti . Nonostante si tratti di un obiettivo piuttosto impegnativo, da subito molte voci autorevoli lo hanno considerato soltanto una meta intermedia e si sono espressi a favore di una crescita zero nel lungo periodo (Consiglio degli esperti per le problematiche ambientali, Consiglio per lo sviluppo sostenibile, Enquete-Kommission).

Ancora più rigorose erano le richieste delle associazioni ambientaliste BUND, DNR e NABU. Le associazioni chiedevano già dieci anni fa una progressiva riduzione delle aree fino a zero ettari nel 2010 (NABU, 2002). L’alleanza per la tutela dell’ambiente e della natura, invece, reclamava la necessità di trovare strumenti per realizzare “un’economia di rotazione”: per ogni nuova occupazione di suolo si sarebbe dovuta naturalizzare una superficie equivalente da un’altra parte (BUND, 2004).

Anche a livello dei singoli Länder è stato riconosciuto il problema della progressiva occupazione di suolo e sono state prese misure per la sua riduzione. Hanno funzionato come battistrada la Baviera con il “patto per il risparmio delle aree” e il Baden-Württemberg attraverso la tutela degli spazi aperti e dei suoli agricoli.

Come è dunque evidente, in Germania lo sforzo sul piano legislativo e programmatico, a tutti i livelli di governo, è stato notevole e va ben oltre lo slogan dei 30 ettari al giorno. I dati pubblicati nel marzo 2010 da parte dall’ufficio statistico federale inchiodano però le politiche alla loro efficacia: assolutamente deludente.

2. Le politiche sono efficaci?

Nel quadriennio dal 2005 al 2008 l’occupazione di suolo per fini urbani in Germania è aumentata del 3,3% circa, per una superficie pari a 1.516 kmq. Questo incremento equivale a una crescita di 104 ettari al giorno. Nei quattro anni precedenti (2001 – 2004) si attestava ancora a 115 ha. Se si può dunque registrare una flessione nella dinamica di occupazione di suolo, altrettanto evidente risulta la distanza dall’obiettivo 30 ettari.

L’analisi della serie storica dei dati dimostra chiaramente le tendenze in atto: il territorio urbano è in continua crescita e ha ormai superato la soglia del 13% della superficie nazionale. Si espande anche il territorio naturale che ormai occupa un terzo esatto del territorio complessivo. Il perdente risulta essere, invece, il territorio agricolo, orientato a finire sotto la soglia del 50%. Il suolo occupato per fini urbani non può, però, essere equiparato al suolo impermeabilizzato. Il “suolo urbano” include, infatti, anche una notevole quantità di superficie non edificata e non impermeabilizzata. Si tratta, ovviamente, delle aree di pertinenza degli edifici non sempre e non necessariamente lastricate. Ma si tratta soprattutto delle superfici per usi ricreativi, parchi urbani e impianti sportivi che, secondo gli ultimi dati disponibili, ammontano all’8% della superficie urbana in Germania. Nell’arco temporale dal 2005 al 2008 hanno contribuito in maniera decisiva all’aumento dell’occupazione di suolo: 45 ettari al giorno sul totale di 104.

Nell’insieme, la dinamica che sta alla base delle trasformazioni degli usi del suolo può essere letta studiando gli incrementi percentuali dei tre territori, quello urbano, quello agricolo e quello naturale. Dai tassi di crescita risulta chiaramente come essi siano sempre positivi, per quanto riguarda il territorio urbano, ma decrescenti negli ultimi tre quadrienni. Nel territorio agricolo sono costantemente negativi e di grandezza variabile, soprattutto in funzione dell’avanzamento del territorio naturale. Oltre che da parte dagli usi urbani, il territorio agricolo sembra dunque subire una pressione anche da parte del territorio naturale. Anche in Germania si avvertono dunque fenomeni di abbandono degli spazi dell’agricoltura, a partire da quelli meno accessibili e meno redditizi, e un conseguente avanzamento della superficie arbustiva e boscata.

Ciò che qui ci interessa di più sono però i fenomeni legati al consumo di suolo urbano. Come si è visto, la progressiva urbanizzazione continua con tassi molto elevati anche se, lentamente calanti. È difficile capire se ciò sia dovuto a una progressiva presa di conoscenza del problema, alle politiche messe in campo finora oppure se sia semplicemente riconducibile alle fasi del ciclo economico. Certo è che la tendenza in atto non basta a raggiungere l’obiettivo dei 30 ettari al giorno entro il 2020 .

È opinione diffusa che la difficoltà a contenere l’espansione urbana sia legata soprattutto alla tipologia insediativa della casetta unifamiliare, parte essenziale del sogno tedesco di progresso, che si vedrebbe minacciato da politiche di contenimento urbano. I dati recenti sembrano però smentire quest’ipotesi.Nel quadriennio dal 2005 al 2008, la crescita del suolo edificato per usi civili ammonta ad appena il 29% dell’incremento complessivo della superficie urbana (437 km2 su 1.516 km2) mentre risultano determinanti gli incrementi delle superfici per la ricreazione (656 km2) e per la mobilità (328 km2). Se nel quadriennio precedente (2001-2004) la superficie edificata, sia residenziale che produttiva, costituisce ancora più della metà dell’incremento complessivo e un ulteriore 20% deriva dalla costruzione di strade, dal 2005 al 2008 prevalgono gli usi di verde urbano (35%), di verde sportivo (7,8%), di superfici per la mobilità diverse dalle strade (interporti, porti, scali ferroviari, eccetera, pari al 16,1%). Insomma, nell’ultimo quadriennio il nuovo impegno di suolo per edifici e strade pesa appena il 38% sulla crescita complessiva delle superfici urbane, mentre aumenta notevolmente il fabbisogno di spazio per aree a verde attrezzato e per le funzioni della mobilità diverse dalle strade, raggruppabili nel termine di logistica. Ne emerge così una nuova e diversa struttura della crescita urbana.

3. Cooperare, gestire, comunicare

Da tempo la comunità scientifica è consapevole della necessità di sperimentare nuove strade di fronte ai cambiamenti strutturali in atto. In Germania, le linee di ricerca più fertili nel campo delle politiche urbanistiche di contenimento del consumo di suolo sono riconducibili ai concetti di cooperazione, management e comunicazione.

Alla cooperazione nei processi di piano spetta un ruolo particolare nella ricerca di maggiore efficacia delle politiche di riduzione del consumo di suolo. La cooperazione può riguardare ambiti istituzionalmente definiti (per esempio le regioni) oppure può essere limitata a insiemi di comuni, riuniti ad hoc, per affrontare problemi specifici. In Germania, la cooperazione intercomunale non è nuova e avviene, di norma, nella forma di associazioni fra comuni. Come anche in Italia, le associazioni vertono generalmente sulla fornitura di servizi di base ma possono essere investite anche dalle competenze di pianificazione urbanistica. La differenza fra cooperazione intercomunale e cooperazione regionale sta nel fatto che la prima è volontaria ed è limitata ad attori accomunati soltanto da fattori di vicinanza, mentre la seconda è istituzionalizzata e riguarda attori legati anche da aspetti funzionali (Fürst e Knieling in ARL, 2005). Essa trova la sua principale applicazione nella formazione del piano regionale. Il sistema di pianificazione assegna, in Germania, al piano regionale il ruolo di indirizzo della struttura insediativa che viene poi concretamente disegnata al livello locale (comunale o intercomunale) attraverso gli strumenti urbanistici di destinazione d’uso dei suoli. In questo quadro, la pianificazione regionale detiene un ruolo centrale nella promozione dello sviluppo insediativo sostenibile (BFN, 2006). Questa sua funzione è definita nella legge urbanistica federale (Par. 7, comma 2 e seguenti ROG) e nelle leggi dei singoli Länder. Al di là degli aspetti gerarchici formali, la formazione dei piani regionali è però basata, ogni volta con modalità differenti, sulla cooperazione fra regione e comuni. In tempi recenti, nel concreto svolgere dei giochi di piano, il ruolo degli enti si è inoltre arricchito di funzioni inedite di consulenza e mediazione (RSO, 2008). Il progressivo affermarsi di ruoli e competenze non codificati dalla legge ha dato un forte impulso alla cooperazione intercomunale informale. In molti casi, dove questa è orientata specificamente verso i problemi di contenimento del consumo di suolo, le politiche di sviluppo urbano sostenibile dimostrano un deciso miglioramento di performance . Come è però noto, ogni cooperazione comporta necessariamente dei costi transazionali che, a meno di incentivi specifici, sono accettabili soltanto in contesti di particolare pressione (Bleher, 2006). Ne consegue che la cooperazione intercomunale, in quanto volontaria, avviene solo laddove il problema del consumo di suolo è particolarmente sentito, vuoi per fattori esogeni, vuoi per fattori endogeni.

Nel caso della Germania, i principali fattori di pressione esogena sono la globalizzazione dell’economia che necessita azioni a livello regionale, l’orientamento sovracomunale delle politiche strutturali europee e i cambiamenti nella struttura socio-economica dei singoli Länder, soprattutto nella Germania dell’Est. Il primo fattore di pressione endogena che spinge alla cooperazione intercomunale è, invece, la difficile situazione finanziaria dei comuni; un secondo fattore è rappresentato dalla scarsità di aree disponibili nelle città capoluogo e l’indiscutibile appartenenza della maggior parte delle città ad aree metropolitane vaste (Fürst, 1999). Come ulteriore fattore endogeno possono essere citate le politiche di attrattività che vengono spesso promosse, a livello regionale, per attirare investimenti privati importanti. Se l’ambito di applicazione delle politiche sperimentali di contenimento urbano è quello intercomunale, gli strumenti si basano generalmente sui metodi di management dei suoli. Nella letteratura tedesca, con questo termine si intende la combinazione di strumenti giuridici e consensuali per la promozione di uno sviluppo insediativo rispettoso della risorsa suolo (Löhr e Wichmann, 2005). L’approccio prevede una maggiore sensibilità rispetto al patrimonio edilizio e urbanistico esistente, misure specifiche per l’attivazione di potenziali di spazio all’interno del perimetro urbanizzato e strumenti di tutela degli spazi aperti. Come nelle scienze di gestione aziendale, anche il management dei suoli è strutturato in fasi diverse (Einig, 2007):

- - analisi e valutazione delle riserve e dei potenziali edificatori;

stima dei fabbisogni futuri;

- concertazione di obiettivi ed elaborazione di scenari di sviluppo condivisi;

- valutazione dei diversi scenari;

- messa a punto di strumenti di attuazione;

- monitoraggio dello sviluppo insediativo.

Numerosi casi di studio hanno dimostrato che, generalmente, il potenziale edificatorio rilevabile nel patrimonio urbanistico esistente supera il fabbisogno di spazi programmabile nell’arco temporale della pianificazione urbanistica (10-15 anni). Gli studi hanno però anche messo in evidenza che lo “sviluppo urbano interno” (densificazione, riabilitazione, in generale trasformazione) non avviene spontaneamente e non si autoalimenta. La distribuzione spaziale, la frammentazione e la disponibilità dei potenziali edificatori, ma anche la moltitudine di attori da coinvolgere oppure le specifiche tendenze sociali sono altrettanti ostacoli alla trasformazione del patrimonio urbanistico esistente (RSO, 2008). Oltre a un nuovo strumentario tecnico è dunque necessaria la messa in rete degli attori e degli stake-holder dell’arena decisionale.

Fin dal 2004, nell’ambito dell’obiettivo 30 ettari è stato istituito il fondo di ricerca REFINA (Forschung für die Reduzierung der Flächeninanspruchnahme und ein nachhaltiges Flächenmanagement), dotato di 22 Mio. di Euro, con il quale sono stati finanziati progetti di ricerca nell’ambito della comunicazione ambientale: comunicazione fra istituzioni diverse, fra interessi confliggenti, fra linguaggi disciplinari distinti. Forme nuove di comunicazione per sensibilizzare l’opinione pubblica rispetto alle strategie di uso sostenibile della risorsa suolo, ma anche forme di coinvolgimento diretto dei proprietari, di discussione con le famiglie in procinto di trasloco, di inclusione di investitori privati.

Come componenti delle politiche di sviluppo sostenibile gli strumenti di comunicazione vanno ben oltre a un ruolo soft di mero affiancamento degli strumenti giuridici e di incentivazione economica. Come si è visto, non basta modificare le leggi o introdurre nuove tasse per garantire l’efficacia di politiche così strettamente intrecciate con interessi economici e stili di vita come quelle di riduzione del consumo di suolo. Appropriate strategie comunicative sono indubbiamente di enorme importanza nell’implementazione e nell’accettazione della strumentazione hard, soprattutto se possono essere intese come processi di apprendimento sociale.

Il ricorso alla comunicazione è stato affrontato da due punti di vista diversi: elemento di processi partecipativi di agenda 21 locale da un lato, quadro di riferimento di strategie di marketing dell’abitare in città dall’altro. Da un lato, dunque, la comunicazione è servita per sensibilizzare l’opinione pubblica e per incentivare scelte e stili di vita responsabili. Dall’altra parte, invece, le strategia di comunicazione erano funzionali al marketing dell’abitare in città, promuovendo l’incremento di qualità della vita e delle localizzazioni urbane. Infatti, la tematica dell’abitazione include un importante potenziale di marketing (BMVBS/BBR 2007; in particolare sul tema del marketing dell’abitare in città Urban Task Force, 1999). Per attingere a questo potenziale è però necessario riconoscere e valorizzare le caratteristiche architettoniche e urbanistiche delle città, ma anche le loro risorse culturali, economiche e sociali. Solo successivamente è possibile individuare attori e partner per una nuova strategia di sviluppo insediativo sostenibile basato sulla sinergia fra utenti e investitori (Kriese 2009).

4. Conclusione

La ricerca e la sperimentazione di strumenti e politiche per la riduzione della crescita urbana si presenta, in Germania, come un campo scientifico particolarmente fertile. Ne sono testimoni le numerose pubblicazioni di istituti di ricerca e di istituzioni a tutti i livelli. Le dinamiche delle strutture insediative sembrano però non del tutto rispondenti agli sforzi normativi e agli obiettivi di governance: il rallentamento della crescita urbana è sensibile, ma come dimostrano i dati statistici non è ancora sufficiente per centrare l’obiettivo 30 ettari entro il 2020. In buona misura ciò è riconducibile a un’insufficiente sensibilizzazione della classe dirigente e dell’opinione pubblica.

C’è però un altro aspetto, finora non sufficientemente considerato dalla comunità scientifica. Nel caso di un’effettiva limitazione di nuovo suolo edificabile, quali sarebbero le conseguenze sui bilanci famigliari e sui costi collettivi? Quali sarebbero le implicazioni su sviluppo e occupazione? Che effetto avrebbe sugli squilibri territoriali fra comuni, fra regioni, fra Meridione e Settentrione? Quale effetto avrebbe sull’assetto istituzionale una necessaria limitazione delle autonomie locali? Si tratta di interrogativi ai quali la ricerca finora non è riuscita a rispondere con sufficiente chiarezza. Insieme alla sperimentazione di nuovi strumenti e all’elaborazione di nuovi modelli, forse è necessario partire proprio da qui: immaginare risposte semplici alle domande più difficili.

Quasi 53 milioni di metri quadrati di aree agricole saranno cancellati dalle grandi opere previste sul territorio lombardo. L’allarme è di Coldiretti, nel mirino Pedemontana, Tangenziale esterna di Milano, Brebemi, terza corsia della A9. «Le grandi opere disegneranno un fiume d’asfalto lungo 303 chilometri, pari quasi alla metà del fiume Po, che toccherà 214 comuni, ‘speronando’ centinaia di aziende agricole» spiega il presidente lombardo Nino Andena.

Una ferita di 53 milioni di metri quadrati: questo, secondo i calcoli della Coldiretti regionale, sarà il prezzo che l’agricoltura lombarda dovrà pagare per il completamento delle grandi opere infrastrutturali già in cantiere o in attesa di partire, dal collegamento autostradale tra Brescia, Bergamo e Milano (Brebemi) alla Pedemontana, dalla tangenziale est esterna di Milano (Tem) alla tratta ferroviaria ad alta velocità Milano - Verona. Senza dimenticare la strada statale 38 tra Como, Lecco e Sondrio con la tangenziale di Morbegno e l’ampliamento dell’autostrada dei Laghi.

«È un fiume d’asfalto lungo 303 chilometri, che tocca 214 comuni e "sperona" centinaia di aziende agricole - sottolinea Nino Andena, presidente di Coldiretti Lombardia - E a questi dati vanno aggiunti i 400mila ettari già cementificati dal 1990 a oggi, pari al 15 per cento del suolo agricolo lombardo. Negli ultimi vent’anni abbiamo perso un’area grande due volte le province di Milano e Monza Brianza».

Moltissime realtà imprenditoriali da sempre radicate sul territorio rischiano di essere spazzate via a suon di espropri. È il caso dell’azienda agricola di Ivana Regazzetti, che alleva mucche da latte a Paullo: «La Tem passerà a pochi metri da casa nostra - racconta - Già 30 anni fa la mia famiglia si è dovuta spostare in campagna per fare posto alla speculazione edilizia, ma ora ci hanno raggiunto anche qui. Dove andiamo se non possiamo ricominciare da un’altra parte?».

Per pianificare il futuro, gli agricoltori avrebbero bisogno degli indennizzi garantiti negli accordi di cessione volontaria delle terre che molti di loro hanno già stipulato, senza però vederne i frutti. «Le quasi 1500 imprese toccate dalla Brebemi hanno rinunciato ai terreni necessari all’autostrada a luglio dello scorso anno - sottolinea Rossana Cozzolino, responsabile dell’area legislativa e dei rapporti istituzionali di Coldiretti Lombardia - ma ad oggi non hanno ancora ricevuto gli indennizzi previsti dal protocollo d’intesa che abbiamo siglato a ottobre 2009 con Brebemi per ragioni burocratiche. Manca la firma del Cal, Concessioni autostradali lombarde, uno dei troppi enti coinvolti».

Coldiretti chiede al Pirellone uno snellimento della burocrazia per rendere più diretto il rapporto tra esproprianti ed espropriati, oltre a «un piano regionale di salvaguardia dei suoli agricoli - come sottolinea Andena - Noi vogliamo le grandi opere e pensiamo che possano trasformarsi in vetrine per le aziende locali, ad esempio dando la possibilità agli agricoltori di vendere i loro prodotti nelle aree di servizio o di occuparsi della manutenzione delle aree verdi a margine delle autostrade».

Richieste che appaiono in sintonia con quanto recentemente dichiarato da Giulio De Capitani, assessore regionale all’Agricoltura: «Le infrastrutture sono necessarie, ma serve un’adeguata compensazione che consenta al settore primario di mantenere i propri standard di produzione»

Un'emergenza continua che ci è costata 213 miliardi di euro. Questo è il conto – attualizzato ai valori 2009 – che abbiamo pagato dal dopoguerra a oggi per tamponare e rincorrere le mille fragilità del suolo italiano, dai terremoti alle frane, dalle alluvioni alle esondazioni.

A fare i conti con una fotografia dei costi del dissesto stavolta sono i geologi, addetti per mestiere alla valutazione (e alla prevenzione) del rischio. Il nuovo centro studi dell'Ordine, guidato da Pietro De Paola, ha aggiornato la mappa delle emergenze in Italia, ha incrociato per la prima volta i dati statistici sulle presenze sul territorio con le carte del rischio sismico e idrogeologico, ha rastrellato e attualizzato i mille rivoli in cui dal dopoguerra a oggi si sono incanalati gli stanziamenti pubblici per fronteggiare le emergenze, dall'alluvione di Firenze del 1966 al terremoto in Abruzzo.

Il dato più significativo è proprio quel conto finale: 213 miliardi per la ricostruzione e il risanamento dopo le emergenze, spesi dal 1944 al 2009. Di questi, 161 a coprire i danni da terremoti (il 48% pari a 48 miliardi solo per l'Irpinia) e 52 a riparare quelli per il dissesto.

Una cifra enorme se si pensa che, sempre secondo le stime dei geologi e le richieste dei Piani delle Autorità di bacino, per mettere in sicurezza tutto il territorio dal rischio idrogeologico di miliardi ne basterebbero (si fa per dire) 40, il 68% dei quali dovrebbe andare al centro Nord.

Già perché il dossier «Terra e Sviluppo – Decalogo del territorio 2010 – messo a punto con la collaborazione scientifica del Cresme - che i geologi presenteranno a Roma mercoledì (primo di quello che sarà un appuntamento annuale sul uso e sul consumo di suolo e sui costi anche economici delle emergenze) contiene alcune preziose informazioni.

Si scopre ad esempio che il nostro Paese ha speso per la protezione dell'ambiente (difesa del suolo, riduzione dell'inquinamento e assetto idrogeologico) 58 miliardi nel decennio dal 1999 al 2008, una cifra inferiore alle attese, ma non trascurabile. Ma il problema è che ben 31 di questi (il 54%) è stata assorbita dalle spese di parte corrente (stipendi soprattutto) e solo 26 miliardi sono veramente andati alla prevenzione dei rischi.

«Per cinquant'anni non abbiamo fatto pianificazione – ricorda amaro De Paola – dal 1998, dopo la tragedia di Sarno qualcosa lentamente si sta muovendo e siamo ormai arrivati, anche con il contributo dei geologi, ad avere una mappatura dettagliata del rischio».

«Ma ora – aggiunge – occorre intervenire e frenare il consumo di suolo». Come? De Paola è diretto: «I sindaci hanno in mano tutto il potere di controllo, sorveglianza e gestione del territorio, spetta a loro, ad esempio, reprimere l'abusivismo». Ma avverte: «Sembriamo non ricordarci quanto sia importante la manutenzione del territorio: non più tardi di una settimana fa tre donne sono morte a Prato in un sottopassaggio allagato per una banale fognatura ostruita».

Il rapporto lo dice chiaro: l'89% dei nostri Comuni è a rischio idrogeolico. Vivono con questa minaccia 5,8 milioni di italiani che abitano dentro 1,3 milioni di edifici in zone pericolose. E invece 2,4 milioni di italiani e 6,3 milioni di edifici si trovano in zone ad alto rischio sismico, con il record di Napoli in cui il 92% della popolazione corre pericoli. «I nostri numeri confermano una realtà a tutti nota – lamenta Lorenzo Bellicini, direttore del Cresme – spendiamo male le nostre risorse con interi capitoli di spesa dirottati dalla prevenzione all'emergenza».

Un'emergenza che può arrivare a durare anche cinquant'anni. Il rapporto dei geologi ci ricorda che ancora oggi dopo 42 anni paghiamo (e pagheremo fino al 2018) un obolo di 168 milioni all'anno (8,4 miliardi in tutto) per il sisma che rase al suolo la valle del Belice, nel lontano 1968.

Era già emerso da un paio d’anni quanto larghe fossero diventate le maglie dell’ancora mitico sistema di decisione britannico per le trasformazioni urbane e territoriali: aree classificate ufficialmente come industriali o militari dismesse che si rivelavano di fatto parchi naturali, o progetti virtuosi di densificazione urbana trasformati in palestra per archistar con emarginazione sociale. Anche il più recente e ambizioso tentativo di Gordon Brown di rilanciare il settore edilizio e la connessa ricerca climatico-energetica con le cosiddette eco-town non aveva mancato di sollevare forti contrasti, al punto che ben prima della vittoria della coalizione Tories-Libdem gran parte dei progetti era stata accantonata, fra le rivendicazioni di coerenza scientifica della TCPA e l’esultanza a singhiozzo della CPRE.

Ma nonostante qualche promettente buona intenzione del programma dei Conservatori, così come esposto in campagna elettorale, pare che alla verifica pratica le prime scelte politiche in campo urbanistico del nuovo governo stiano per peggiorare i rischi di consumo di suolo e degrado ambientale. Non ultima quella di delegare le decisioni sulla realizzazione di nuove case (la situazione abitativa del paese è piuttosto grave) alle amministrazioni locali, saltando la programmazione di scala regionale accusata di burocratismo e centralismo. Come facilmente immaginabile, le scelte locali vengono determinate da contingenze e particolarismi che spesso nulla hanno a che fare con la risposta ai bisogni abitativi, e/o con la tutela del territorio, salvo in reazione ad atteggiamenti di tipo nimby e alla sola ricerca di consensi elettorali.

Da questa emergenza nasce l’iniziativa del quotidiano, di fungere da sistematico deposito-amplificatore a scala nazionale, e raccogliere dati che spesso sfuggono ai grandi enti e associazioni (oppure che da questi non sono sufficientemente divulgati). Il meccanismo è relativamente semplice: il singolo lettore, comitato o associazione locale compila un modulo online, e quasi automaticamente la scheda si aggiunge alla banca dati pubblica, in una sorta di rapporto territoriale in continua evoluzione consultabile da tutti, senza alcun filtro se non quello redazionale. Nessuna pretesa scientifica naturalmente, ma come verificato nel caso delle eco-town solo l’osservazione puntuale e locale dei contesti è in grado di cogliere l’entità dei fenomeni, e solo una panoramica comprensiva nazionale riesce a evidenziare l’entità del problema, e stimolare consapevolezza.

Il modulo da compilare online:

nome del progetto; menu a tendina con la scelta della regione geografica in cui si localizza (Scozia, Galles, Yorkshire ecc.); tipo di progetto che si vuole realizzare; descrizione particolareggiata con particolare riguardo ai valori naturali minacciati e al tipo di tutela e riconoscimento dell’area; cosa possono fare altri lettori per collaborare; localizzazione geografica esatta della località (latitudine, per aggiungersi alla mappa in costruzione sul sito); nome del proponente il progetto di trasformazione; nome dell’amministrazione locale responsabile per il rilascio della concessione; elementi utili a contattare il compilatore della scheda.

Un impegno bi-partisan

Significativamente, all’iniziativa del Guardian aderiscono sia la responsabile Conservatrice del ministero dell’Ambiente che il suo collega Labour del governo ombra. Altrettanto significativamente, per ora tacciono dal ministero delle Aree Urbane, da cui è partita l’iniziativa delle “decisioni locali” sulla trasformazione urbanistica. Per noi, resta da chiedersi se mai sarà possibile qualcosa del genere, in un territorio dove forse più che in Gran Bretagna colpisce l’erosione determinata da dispersione insediativa e infrastrutture utili solo a chi le fa. E dove sono sicuramente più significativi gli intrecci fra ambiente, paesaggio, sedimentazioni storiche.

Sul versante bi-partisan poi, tocca accontentarsi della comune cultura con pochissime eccezioni da destra al centro a sinistra, che vede sempre e comunque in ogni mucchio di mattoni un simbolo di ricchezza e modernità. Al punto che, rimanendo in campo ambientale, suscita compiaciuto stupore anche la pietà della pur antipaticissima ministra Vittoria Brambilla per i bistrattati i cavalli del Palio di Siena. Ma lì forse c’è solo un po’ di nostalgia per certi stallieri eroi.

Una cosa è certa: visto il tipo di proprietà delle nostre testate giornalistiche, è improbabile che un’iniziativa del genere prenda piede anche da noi, almeno col respiro proposto dal quotidiano britannico. Conviene quindi seguirne direttamente l’evoluzione al sito

Piece By Piece

(su Mall anche l’articolo di Julette Jowit che raccoglie alcuni pareri sull’iniziativa)

Quattro milioni di abitazioni, 3 miliardi di metri cubi di cemento, 21 mila 500 chilometri quadrati di suolo consumato. Sono i numeri dell'aggressione all'ambiente e al paesaggio italiano realizzata negli ultimi quindici anni, dal 1995 al 2009, documentata dal dossier di Legambiente “Un'altra casa?”, presentato a Roma giovedi 15 luglio nella sede del Senato di Palazzo Bologna.

Un lavoro di grande spessore informativo che oltre ad utilizzare dati Arpa, Ispra e Istat si avvale di quelli raccolti dalle Regioni, rielaborati attraverso l'attività condotta dal Centro per le Ricerche sul Consumo di Suolo. Il risultato è un importante contributo alla conoscenza dei processi di trasformazione del territorio nazionale e dei problemi generati da un incontrollato e inarrestato sviluppo urbano ed edilizio.

Una dinamica quest'ultima per un verso assecondata da una politica di esasperata deregulation - la misura più recente è la Scia (segnalazione certificata di inizio attività) - che ha abbassato controlli, abolito programmazione e consentito uno sfrenato abusivismo; per l'altro sostenuta da una forte speculazione in grado di determinare un'impennata del valore degli immobili e dei canoni di affitto.

A tale riguardo, nelle principali aree urbane e nei Comuni limitrofi, secondo Legambiente, si è continuato ad edificare in un quadro di rialzo dei prezzi che “prescinde totalmente dai costi di costruzione (nell'ordine di 4 a 1)”. Per Giovanni Caudo, docente all'Università di Roma TRE e uno tra i relatori del convegno, in questi anni le case sono “diventate di carta”, attratte nell'orbita del mercato finanziario per alimentare più la redditività delle imprese che non i bisogni effettivi delle famiglie.

Investire sul mattone è stato infatti vantaggioso per le aziende ma non per una parte importante della cittadinanza come giovani, immigrati, lavoratori precari e anziani, obbligati a pagare affitti più cari o a sobbarcarsi, a fronte di un reddito familiare in continua diminuzione, il peso di un mutuo per una casa acquistata sempre più fuori dal perimetro cittadino. D'altro canto, il boom delle costruzioni che ha contrassegnato il periodo passato ha visto paradossalmente emergere il fenomeno dell'aumento di case vuote nella città, stimate ad un milione, e il concomitante riaffacciarsi del disagio abitativo, testimoniato da un preoccupante incremento degli sfratti per morosità (110 mila in due anni, dal 2008 al 2009).

Un “disaccoppiamento tra il costruire e l'abitare” dunque, come lo definisce Vittorio Cogliati Dezza Presidente di Legambiente, che rende evidenti le contraddizioni del modello di cementificazione, giunto ormai alla fine di un ciclo espansivo. Mentre crollano le compravendite, chiudono le imprese (15 mila), cala l'occupazione del settore (200 mila senza lavoro), cresce l'invenduto si mostrano in modo palese i limiti e gli effetti deleteri di uno sviluppo centrato sul mattone che ha deteriorato la qualità della vita delle persone e accresciuto i rischi sul piano della sicurezza idrogeologica e sismica. Periferie urbane allargate in maniera disordinata senza servizi e trasporti, dispersione insediativa con edilizia di basso livello, proliferazione delle seconde case nelle zone costiere rappresentano i capitoli fondamentali dello scempio perpetrato ai danni dell'ambiente del Belpaese che non risparmia nessuna regione, dal Veneto alla Sardegna, assumendo forme fra le più disparate e innovative.

Stadi, centri termali, gran premi, sono, secondo Andrea Garibaldi, coautore del libro “La colata”, chiamato ad intervenire nell'incontro romano, i nuovi cavalli di Troia della cementificazione selvaggia e moderna, autorizzata da molti Comuni in cambio degli oneri di urbanizzazione.;Davanti a questa arrendevolezza del potere locale nei confronti del partito del mattone, sostiene Legambiente, va richiamata la funzione di indirizzo dell'autorità centrale su temi come governo del territorio, tutela dell'ambiente e del paesaggio, diritto alla casa e accesso ai servizi essenziali.

Diverse le proposte avanzate dall'associazione ecologista per cercare di frenare la deriva e mutare il corso degli avvenimenti. Prima fra tutte la creazione di un Ministero unico che si occupi nell'insieme della questione urbana e abitativa come succede in Europa, negli Stati Uniti, Russia, Cina e India. Poi, come in Germania, per fermare il consumo di suolo, è necessario stabilire “un numero massimo di ettari di territorio trasformabile ogni anno per usi urbani”. Infine, fare case efficienti ed innovative energeticamente, per chi ne ha realmente bisogno e a prezzi accessibili, anche rilanciando l'offerta di edilizia residenziale pubblica. “Si può uscire dalla crisi solo cambiando modo di vedere”, riassume Edoardo Zanchini, responsabile urbanistica Legambiente.

© 2024 Eddyburg