Pare davvero surreale che proprio nei giorni in cui la padania va sott'acqua esattamente per gli eccessi dell'urbanizzazione speculativa a vanvera, il partito dei palazzinari non arretri di un millimetro. La Repubblica Milano, 10 luglio 2014 (f.b.)
Forza Italia e Ncd pronti a stravolgere la legge sul consumo del suolo dell’assessore Viviana Beccalossi. Norme non più retroattive e vincoli solo sui terreni agricoli. Tre anni di tempo per comuni e costruttori per adattarsi alle nuove regole e approvare i progetti attuativi. Una vittoria per il partito dei costruttori. Dopo la nuova legge sui boschi, che aumenta il periodo di tempo in cui è possibile abbattere gli alberi sia in montagna che in pianura senza autorizzazione e il pagamento di compensazioni, il centrodestra che governa la Lombardia è pronto ad abolire le restrizioni previste dal progetto di legge sul consumo del suolo dell’assessore regionale all’Urbanistica e al Territorio Viviana Beccalossi di Fratelli d’Italia approvato dalla giunta lo scorso febbraio. Ora in stallo, ancora in attesa del voto del Consiglio regionale dopo il no di Forza Italia e Nuovo centrodestra a un testo ritenuto eccessivamente penalizzante per la categoria dei costruttori. Dopo una serie di rinvii, un vertice di maggioranza con il governatore Roberto Maroni e una riunione del tavolo di lavoro ristretta solo ai partiti della maggioranza la scorsa settimana, torna riunirsi oggi il tavolo allargato anche agli esponenti dell’opposizione.
Il compromesso proposto da forzisti e alfaniani agli alleati prevede la non retroattività della legge. L’eliminazione dei limiti volumetrici previsti dal testo della giunta per sostituirli con «criteri» per definire di volta in volta il concetto consumo del suolo. Inoltre, i comuni avranno fino a tre anni di tempo per adeguarsi alle nuove regole. Adeguandosi al nuovo piano regionale. Lo stesso limite di tempo concesso ai costruttori per verificare l’attualità dei progetti per le aree di espansione lottizzate a destinazione residenziale e produttiva dove tutto resterà come prima. Il vincolo dello stop al consumo del suolo, di fatto, si applicherà solo ai terreni agricoli. Mentre tutti i progetti già approvati relativi ai centri urbani saranno considerati diritti acquisiti. Novità che di fatto smantellano la rivoluzione promessa dall’assessore Beccalossi, quando aveva illustrato la legge in giunta. Un testo poi rimasto nel cassetto a causa delle divisioni interne nella maggioranza. A cominciare da Forza Italia, preoccupata, secondo alcuni maligni, di non irritare troppo la lobby dei costruttori e in particolare Paolo Berlusconi, fratello di Silvio. Tanto che il provvedimento era stato messo in calendario per la scorsa seduta del Consiglio regionale di martedì, per poi essere rinviato alla prossima del 15. Anche se ormai con ogni probabilità il voto finale slitterà a dopo l’estate. Negli scorsi giorni, però, Ncd e Forza Italia avrebbero incontrato sia Maroni che l’assessore Beccalossi proponendo una mediazione. Il tavolo di lavoro oggi dirà se la quadra è stata trovata realmente. Il capogruppo di Forza Italia Claudio Pedrazzini è fiducioso.
Nel frattempo, l’opposizione di centrosinistra alza il tiro. Il presidente del tavolo di lavoro Agostino Alloni del Pd ha già minacciato di dimettersi se oggi non arriverà un testo. Il movimento Cinque stelle, al contrario, fa sapere che resterà. «Sul consumo del suolo basta melina — dichiara il grillino Gianmarco Corbetta — l’esondazione del Seveso è solo l’ultimo esempio dei danni ai quali ha portato la totale anarchia nella cementificazione in Lombardia».
Secondo lo studio “Food appropriation through large scale land acquisitions” pubblicato su Environmental Research Letters da un team italo-americano di ricercatori del Politecnico di Milano e dell’Università della Virginia, «La coltivazione delle terre coinvolte nel fenomeno del “land grabbing” nei paesi in via di sviluppo ha il potenziale di nutrire 100 milioni di persone, in aggiunta a quelle sfamabili nelle stesse terre con le attuali tecnologie. Il potenziamento delle infrastrutture derivante dagli investimenti in agricoltura potrebbe infatti incrementare la produttività dei terreni agricoli di sussistenza in paesi come la Papua Nuova Guinea, il Sudan, l’Indonesia etc. Gli investimenti alla scala globale riuscirebbero così a sfamare almeno 300 milioni di persone in tutto il mondo, paragonati ai circa 190 milioni che potrebbero essere nutriti da tali terre nelle condizioni attuali».
L'accaparramento dei beni comuni essenziali, dall'acqua alla terra, è una terribile realtà in tutto il mondo. Un'analisi e la proposta dei principi essenziali da assumere al più presto. Pressenza, International Press agency, 17 maggio 2014 (i.b.)
Intervento di Maude Barlow, presidente di Council of Canadians e Food & Water Watch nella sessione “A caccia di risorse. Gli effetti dell’accaparramento e il ruolo dell’Europa”, nell’ambito del Convegno Internazionale “Un futuro giusto o giusto un futuro? Ambiente, consumo e sviluppo: istruzioni per l’uso” avvenuto a Milano il 9 e 10 maggio 2014. Evento organizzato da Mani Tese in occasione del loro 50 esimo anniversario. Pubblicato su: http://www.pressenza.com/
L’accaparramento dell’acqua
La paura della scarsità di cibo per il futuro ha portato paesi ricchi, investitori internazionali e operatori di commodities ad accaparrarsi grandi quantità di terra nel sud del mondo per sfamare le loro popolazioni o come investimenti speculativi. Un’area pari a quasi tre volte la dimensione del Regno Unito è stata “accaparrata” a prezzi stracciati. Gli investitori stanno facendo affari incredibili: alcuni affittano enormi pezzi di terreno per 99 anni pagando non più di 40 centesimi all’acro all’anno.
Oltre un quinto dell’area della Cambogia è stato concesso a interessi privati, spostando quasi mezzo milione di persone. L’Etiopia è uno dei paesi con il più alto livello di fame al mondo, eppure il suo governo sta offrendo enormi distese dei suoi terreni più fertili a speculatori per coltivare cibo da esportare.
Chi si accaparra terreni si appropria anche dell’acqua, poiché gli investitori hanno bisogno di garantirsi l’accesso all’acqua per quelle che sono essenzialmente colture da esportazione, devastando i bacini idrici locali. Non solo questi grandi agro-investitori scelgono il terreno migliore per le loro colture, ma bloccano anche il diritto di accesso a ruscelli, fiumi e falde idriche locali. Un numero allarmante di paesi sta cedendo i propri diritti all’acqua per i decenni a venire, la maggior parte a prezzi stracciati.
La quantità d’acqua necessaria in Africa per coltivare un terreno acquisito nel 2009 è da sola due volte il volume d’acqua usato per l’agricoltura in tutta l’Africa appena quattro anni prima. Se l’accaparramento delle terre continua al ritmo attuale, in cinque anni la richiesta di acqua fresca supererà le scorte di acqua rinnovabile in Africa. Alcuni lo definiscono “suicidio idrologico”.
L’acqua è anche la causa di altri spostamenti forzati. Alta tecnologia ad alta intensità di capitale e “zone economiche libere” su larga scala costringono ogni anno 15 milioni di persone a spostarsi. Inoltre terreni agricoli, zone di pesca, foreste e villaggi vengono convertiti in serbatoi, sistemi di irrigazione, miniere, piantagioni, autostrade, insediamenti urbani, complessi industriali e resort turistici. In questo modo e con l’autorizzazione dei governi, gli interessi privati assumono il controllo dell’acqua che un tempo sosteneva intere popolazioni.
L’acqua viene “accaparrata” e mercificata anche in altri modi. L’interesse delle aziende per le fonti mondiali di acqua pulita, ormai in via di esaurimento, è andato crescendo per tre decenni, ma è aumentato in modo vertiginoso negli ultimi anni. Le multinazionali considerano l’acqua un prodotto vendibile e negoziabile, non un patrimonio comune o un bene pubblico e sono decise a creare un cartello somigliante a quello che oggi controlla ogni aspetto dell’energia, dalla ricerca, alla produzione fino alla distribuzione.
Molti paesi poveri sono stati costretti a stipulare contratti sui servizi idrici con utenze private a scopo di lucro, una pratica che ha generato un’accanita resistenza da parte dei milioni di persone escluse a causa della povertà. Ora sotto la maschera dell’austerity anche l’Unione Europea sta promuovendo servizi per l’acqua privata e di scarico.
Altre lotte sono dirette contro le compagnie dell’acqua in bottiglia, che prosciugano grandi quantità di acqua dai bacini idrici locali per venderla. Alcuni paesi, come il Cile, vendono all’asta l’acqua non purificata di laghi e fiumi a interessi globali come le società minerarie, che oggi posseggono letteralmente l’acqua che prima apparteneva a tutti. Le aziende private controllano enormi quantità di acqua usata nell’agricoltura industriale, nell’industria mineraria e nella produzione di energia e possiedono la maggior parte delle dighe, dei canali, degli impianti di dissalazione e delle infrastrutture urbane del mondo.
Molti paesi, tra cui l’Australia, il Cile, gli Stati Uniti e la Spagna, hanno introdotto i mercati idrici e il commercio d’acqua; una licenza diventa così una proprietà privata e investitori privati e imprese del settore agro- industriale accumulano, comprano, vendono e commerciano acqua non purificata nel mercato, destinandolo a chi può permettersi di comprarla. In ognuno di questi casi, l’acqua diventa proprietà privata di chi ha i mezzi per comprarla e viene negata a chi non li ha.
Neanche i governi possono competere con il mercato. Quando il commercio dell’acqua è stato introdotto in Australia, gli investitori privati e i broker hanno portato il suo prezzo alle stelle. Quando il governo australiano ha provato a ricomprare l’acqua che aveva dato via gratis per salvare dal prosciugamento il fiume Murray-Darling non ha più potuto permetterselo.
Impatti sulle comunità locali e sull’ambiente
L’impatto di questo saccheggio d’acqua sulle comunità locali e sul loro ambiente è stato devastante. Piccoli agricoltori e popolazioni indigene sono stati scacciati a milioni per far spazio all’accaparramento delle terre, ora usate per coltivazioni destinate all’esportazione; le comunità locali si ritrovano così sempre più affamate e prive d’acqua.
Inoltre l’agricoltura locale, sostenibile e basata sulla biodiversità, viene ormai sostituita dai peggiori esempi di imprese agro-industriali, complete di inquinamento idrico per l’uso di prodotti chimici, sovra-estrazione di acqua sotterranea e irrigazione superficiale. Coloro che vengono scacciati dalle terre sono proprio quelli che sanno praticare l’aridocoltura e la rotazione delle colture per proteggere le fonti d’acqua e convivere con le oscillazioni di siccità e inondazioni che caratterizzano la maggior parte del mondo.
Questi contadini si uniscono ad altri sfollati climatici e comunità costrette ad abbandonare la loro terra per fare spazio a zone di libero scambio, mega-dighe, mega-progetti e siti industriali ed emigrano nelle baraccopoli che circondano le città dei paesi in via di sviluppo. Là molti di loro non hanno accesso all’acqua pulita o ai servizi igienici, perché questi slum non sono formalmente riconosciuti, o perché il prezzo dell’acqua, spesso privatizzata, è fuori dalla loro portata.
Conoscete le tremende statistiche: le malattie dovute all’acqua uccidono più bambini di tutte le forme di violenza messe insieme, inclusa la guerra. L’ONU ci assicura che sta chiudendo il divario dell’accesso all’acqua, ma io ho i miei dubbi. Per valutare gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio riguardo all’acqua, calcola il numero di nuove condutture installate in un paese, ma non è detto che da una tubatura esca acqua pulita. Una conduttura potrebbe anche essere molto lontana o misurata, mettendola fuori dalla portata dei poveri.
Personalmente credo che la diminuzione dei rifornimenti mondiali d’acqua a causa dell’inquinamento, della cattiva amministrazione e dello spostamento dell’acqua dai bacini idrici stia portando a una crisi di enormi proporzioni. Secondo UN Habitat entro il 2030 più della metà della popolazione dei grandi centri urbani abiterà in baraccopoli senza accesso all’acqua o ai servizi igienici.
Non bisogna credere che questi abusi siano relegati al sud del mondo; è importante sapere che si profilano anche per il nord. Oltre 90.000 poveri di Detroit (Michigan) si sono visti tagliare l’acqua perché non potevano pagarla e molte altre migliaia subiranno presto la stessa sorte. In Bulgaria, Grecia, Spagna e Portogallo altre migliaia di persone hanno perso l’accesso all’acqua e sono state sfrattate.
Chi sta guidando l’accaparramento dell’acqua?
Nessuna di queste violazioni dei diritti umani e ambientali doveva accadere. Una buona politica pubblica e una vera cooperazione internazionale poteva evitare tutto questo. Ma negli ultimi decenni la maggior parte dei governi e delle istituzioni internazionali ha adottato un modello economico che favorisce la crescita illimitata del mercato, riducendo in modo drammatico i poteri del governo, la de-regulation delle finanze e delle risorse, il cosiddetto “libero” scambio al di là dei confini e il crescente potere delle imprese.
Sostenuta dall’Unione Europea e dalle banche europee, la Banca Mondiale continua a promuovere la privatizzazione dei servizi idrici nel sud del mondo, nonostante molti di questi accordi siano stati un completo fallimento. Inoltre il finanziamento di questi servizi va ormai direttamente a imprese come Suez e Veolia, aggirando i governi e adesso la Banca Mondiale sta investendo nelle compagnie stesse.
La Società finanziaria internazionale, un’agenzia della Banca Mondiale, inoltre finanzia in modo cospicuo il settore agro-alimentare nel sud del mondo e asserisce che l’alto costo del cibo offre ai paesi poveri opportunità uniche per giovarsi dello stesso accaparramento delle terre che li sta distruggendo. La Banca Mondiale lavora addirittura con i governi dei paesi poveri per cambiare la legislazione in modo da aumentare la quantità di terra che uno straniero può possedere e ha persino una “classifica del business” che favorisce i governi che rendono la vita più facile agli investitori decisi ad accaparrarsi le terre.
Un’altra tendenza inquietante è la privatizzazione degli aiuti esteri. Un ammontare crescente di aiuti pubblici viene trasferito non ai governi, ma al settore privato, dando alle aziende maggiore potere per determinare le politiche locali. Un rapporto dell’European Network of Debt and Development ha scoperto che nell’ultimo decennio la maggior parte degli aiuti della Banca Mondiale e della Banca europea degli investimenti sono finiti in paradisi fiscali e aziende con sede nel nord del mondo, soprattutto banche commerciali, fondi speculativi e fondi di private equity.
Alcuni governi – come quello del mio paese, il Canada – finanziano solo agenzie umanitarie disposte a collaborare con gli obiettivi delle imprese che fanno affari con il paese designato. In America Latina gli attivisti dell’acqua che si oppongono alla distruzione delle risorse idriche locali per mano delle compagnie minerarie canadesi non possono più chiedere aiuto alle agenzie umanitarie del paese.
Come gli aiuti sono privatizzati, così i gruppi umanitari locali sono politicizzati. Gli attivisti africani per la giustizia dell’acqua segnalano che solo i gruppi a favore della privatizzazione e delle appropriazioni dei terreni sono finanziati per il loro lavoro.
La nuova generazione di accordi commerciali e sugli investimenti è un altro enorme ostacolo al diritto umano all’acqua. Questi accordi non hanno niente a che fare con la riduzione delle tariffe e l’apertura dei commerci e riguardano invece la totale limitazione del potere dei governi di proteggere i diritti della popolazione, le loro risorse e il loro ambiente.
Questa nuova generazione di accordi commerciali, come il Comprehensive Economic and Trade Agreement (Accordo economico e commerciale globale – CETA) tra Canada e Unione Europea e il Transatlantic and Investment Partnership (Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti – TTIP) tra Unione Europea e USA, stabiliscono clausole investitore-stato che danno alle aziende straniere il diritto di citare in giudizio i governi se ritengono che il loro “diritto al profitto” sia colpito da leggi e regolamentazioni interne.
In Canada abbiamo convissuto con questo orribile potere corporativo per vent’anni e questo ha avuto un impatto assolutamente negativo sulla capacità di proteggere in modo reale la nostra acqua dalle società americane. Con il CETA, sarà più difficile mantenere l’acqua pubblica. Suez e Veolia non vedono l’ora.
Esistono oggi quasi 3.000 accordi bilaterali nel mondo, molti dei quali prevedono il diritto delle aziende a far causa direttamente ai governi per un risarcimento se i loro profitti sono influenzati da leggi e pratiche nazionali. Immaginate l’impatto di questi accordi sui paesi poveri che cercano di proteggere i loro rifornimenti d’acqua dal saccheggio straniero.
È importante sottolineare che i trattati investitori-stato danno diritto agli accaparratori stranieri di terre e acqua non solo al raccolto che stanno coltivando, ma anche alla terra e all’acqua usate per produrlo.
Qui non si tratta solo di speculazione. Nel 2010 il governo canadese ha pagato 130 milioni di dollari a una compagnia americana di cellulosa e carta che aveva abbandonato il suo stabilimento di Terranova, lasciando i dipendenti senza lavoro e pensione. La compagnia ha fatto causa al governo grazie alla disposizione investitore-stato del North American Free Trade Agreement, sostenendo che l’acqua che aveva usato per decenni le apparteneva. E’stato così stabilito un pericoloso precedente, che si potrebbe ripetere altrove.
Con queste regole, se un paese che oggi permette l’accaparramento di terre e acqua decidesse di riprendere il controllo di queste risorse, dovrà prepararsi all’eventualità di pagare enormi risarcimenti per il basilare diritto di auto-governarsi.
Il rapporto investitore-stato ha suscitato di recente una grande preoccupazione in Europa, ma purtroppo, nonostante sia in corso una consultazione pubblica al riguardo, il Parlamento Europeo ha concordato un inquadramento per la gestione delle conseguenze finanziarie di questo regalo alle imprese, invece di respingerlo in modo definitivo.
Cosa possiamo fare per impedire l’accaparramento dell’acqua e realizzare il diritto all’acqua?
La globalizzazione economica, con la sua enfasi sulla crescita ad ogni costo, il suo servilismo verso l’1%, la sua sistematica riduzione dei beni comuni, il suo rafforzamento dei diritti aziendali nella legislazione internazionale e la cacciata dei custodi locali di terra e acqua costituisce una ricetta infallibile per arrivare a una crisi idrica.
Se si vuole avere qualche speranza di successo, la soluzione alla crisi idrica globale deve includere una rinuncia a questo modello di crescita. I paradisi fiscali vanno chiusi e lo stato di diritto deve prevalere sul capitale transnazionale.
Il commercio deve essere riformato radicalmente per servire un diverso insieme di obiettivi e giungere a un controllo democratico. Le aziende devono perdere il diritto di fare causa ai governi. Gli accordi investitore-stato vanno vietati dovunque, come è successo in Australia, Brasile e Bolivia. Inoltre ogni riferimento all’acqua come bene negoziabile, servizio o investimento va rimosso dagli accordi commerciali. Gli interessi delle aziende e del mercato non devono essere in alcun modo usati per ostacolare la protezione locale e internazionale dell’acqua.
L’accaparramento delle terre e dell’acqua deve finire. Abbiamo bisogno di una moratoria internazionale sulle acquisizioni su larga scala e le terre razziate devono essere restituite. La vera sicurezza alimentare in Africa e in ogni altro luogo verrà da una genuina riforma agraria e idrica e dall’orientamento degli investimenti pubblici verso l’agricoltura di comunità o familiare.
Una nuova etica dell’acqua
Entro il 2030 la nostra domanda globale di acqua supererà le risorse del 40%, una ricetta infallibile per produrre una grande sofferenza. Cinquecento scienziati hanno di recente informato il Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon che l’abuso collettivo di acqua ha fatto sì che il pianeta entrasse in “una nuova era geologica” . La maggior parte della popolazione del pianeta vive in un raggio di 50 chilometri da una fonte di acqua di scarsa qualità.
Se il pianeta e noi stessi vogliamo sopravvivere, abbiamo bisogno di una nuova etica, che ponga l’acqua e la sua tutela al centro di tutte le politiche e pratiche.
Questa nuova etica dell’acqua dovrebbe basarsi su quattro principi.
Il primo è che l’acqua è un diritto umano e deve essere divisa equamente. Nel 2010 l’Assemblea Generale dell’ONU ha formalmente riconosciuto il diritto umano all’acqua e ai servizi igienici. Poco dopo il Consiglio per i Diritti Umani ne ha precisato il significato. Mentre la risoluzione taceva sulla questione della proprietà dell’acqua, il Consiglio ha chiarito che questo nuovo diritto è vincolante per i governi e stabilisce i loro obblighi e responsabilità nel metterlo in pratica.
Non solo adesso tutti i governi hanno la responsabilità di impostare un piano per distribuire acqua sicura, conveniente e pulita ai propri cittadini, ma devono anche impedire a terzi di interferire con questo nuovo diritto. Aziende come le imprese agro-alimentari che si appropriano di terreni e acqua e inquinano o prosciugano fonti idriche locali possono essere accusate di violare il diritto umano all’acqua. Questo fornisce un importante strumento alle comunità locali di tutto il mondo nelle lotte contro le miniere, le dighe e l’estrazione dell’energia.
Il secondo principio sostiene che l’acqua è un patrimonio comune dell’umanità e delle generazioni future e va protetta come un bene pubblico dalla legge e nella pratica. L’acqua non deve mai essere comprata, venduta, tesaurizzata o scambiata come merce sul libero mercato e i governi devono mantenerla come bene comune, non per il profitto privato. Le imprese possono aiutare a trovare soluzioni alla crisi idrica, ma non dovrebbero avere la possibilità di decidere l’accesso a questo essenziale servizio di base, poiché la loro ricerca di profitto prevarrà sempre sul bene pubblico.
Secondo il terzo principio, l’acqua ha dei diritti anche al di fuori della sua utilità per gli esseri umani. Appartiene alla Terra e alle altre specie. La nostra credenza nella “crescita illimitata” e il nostro modo di trattarla come uno strumento per lo sviluppo industriale ha messo in pericolo i bacini idrografici della Terra. L’acqua non è una risorsa per la nostra convenienza e il nostro profitto, ma costituisce l’elemento essenziale di un ecosistema vivente. Dobbiamo adattare le nostre leggi e pratiche per assicurare la protezione dell’acqua e il ripristino dei bacini idrici – un antidoto cruciale al riscaldamento globale.
Infine credo fortemente che l’acqua ci possa insegnare come vivere insieme, se solo glielo permettiamo. Possono scoppiare guerre per l’acqua in un mondo con una domanda crescente e forniture sempre più scarse, ma così come può essere fonte di dispute, conflitti e violenze, l’acqua può anche unire persone, comunità e nazioni in una ricerca comune di soluzioni.
La tutela dell’acqua richiederà vie più collaborative e sostenibili per l’agricoltura, per la produzione d’energia e per i commerci internazionali e avrà anche bisogno di un potente controllo democratico. La mia più profonda speranza è che l’acqua possa diventare un dono della natura all’umanità e insegnarci come vivere più leggermente sulla terra, in pace e nel reciproco rispetto.
Come ha detto Eleanor Roosevelt: “Il futuro appartiene a coloro che credono nella bellezza dei loro sogni”. Bene, io credo nella bellezza di questo sogno: credo che la crisi idrica globale diventerà la spinta per la pace nel mondo, che tutta l’umanità capirà che l’acqua è la fonte della vita e si inchinerà alla necessità di proteggere e di ripristinare i bacini idrici e che grazie al nostro lavoro comune i popoli del mondo dichiareranno che le sacre acque della vita sono un diritto umano e una proprietà comune della Terra e di tutte le specie, da preservare per le generazioni a venire.
il Primo mondo piange o addirittura protesta perché i disperati del Terzo mondo vogliono "invadere le ricche metropoli costruite con le ricchezze rapinate dal vecchio e dal nuovo colonialismo. Il land grabbing non è solo un delitto contro la Terra: lo è anche contro i popoli che l'abitano. Greenreport online, 29 aprile 2014
Il rapporto “Le projet Jatropha de Nuove Iniziative Industriali in République de Guinée – Production industrielle d’agrocarburants et cohérence des politiques européennes”, appena pubblicato, rappresenta una forte denuncia contro la politica energetica dell’Ue sui biocarburanti, che ha fissato un obbiettivo del 10% entro il 2020 di carburanti di origine vegetale. «Questa legislazione, una manna per l’agro-industria – si legge nel dossier – ha come conseguenza quella di incoraggiare delle acquisizioni massicce di terre che minacciano la sicurezza alimentare di numerose popolazioni».
Lo studio – pubblicato da Comité Français pour la Solidarité Internationale (Cfsi), una coalizione di 23 organizzazioni di solidarietà internazionale che lavora con Ong dei Paesi del Sud del mondo, SOS Faim e la Coalition pour la protection du patrimoine géné-tique africain (Copagen), una rete di 9 coalizioni di Paesi dell’Africa occidentale che favoriscono la partecipazione civica e comunitaria sulle questioni delle sementi Ogm, del lang grabbing e dell’agricoltura familiare – si basa su un caso di land grabbing in Guinea «negoziato nella più grande opacità, il protocollo d’intesa firmato tra il governo e l’investitore italiano lascia i contadini senza indennizzazione e senza protezione giuridica».
In Guinea l’80% dei redditi deriva dall’agricoltura e le terre cedute a Guinée Énergie S.A sono in maggioranza comunitarie, utilizzate come pascoli o per le coltivazioni alimentari. «Se sono detenute abitualmente dalle comunità e dalle famiglie – sottolinea il rapporto - non esistono prove legali. I primi interessati non dispongono né di informazioni né dei documenti necessari per far valere i loro diritti in caso di litigio. Nessuna delle comunità incontrate sa per quale durata sono state cedute le terre. Il protocollo d’intesa non menziona nessun indennizzo monetario».
Nel suo sito, la Nii parla dello «sviluppo di un progetto più ampio che prevede l’acquisizione di terreni per la produzione ecosostenibile di olio vegetale combustibile no-food “progetto Jatropha”. Tale progetto,che impegna fortemente Nuove Iniziative Industriali srl e in corso in diverse zone dell’Africa (Senegal, Kenya, Etiopia e Guinea), prevede la coltivazione della jatropha (pianta tropicale oleaginosa non alimentare), da cui si estrae un olio da utilizzare come combustibile in alcuni impianti Nuove Iniziative Industriali srl; mentre il residuo della spremitura può essere utilizzato nei digestori per la produzione di biogas da bruciare nei motori e ricavare così ulteriore energia elettrica. Rilevante è inoltre il risvolto sociale di questo progetto che comporta la creazione di numerosi posti di lavoro per le popolazioni coinvolte nell’iniziativa. La creazione di una propria filiera ci permetterà di essere autosufficienti per le forniture dei nostri impianti e di non essere soggetti alle intemperanze dei prezzi del mercato degli oli».
Ma le Ong europee e africane dicono che l’esito del progetto italiano è incerto: «Nel 2010, tutto sembrava pronto ad iniziare, ma nessuna attività significativa di Guinée Énergie è stata più segnalata da fine fin 2012 (anche se nel 2014 l’ufficio guineano dell’Ong Acord ha segnalato il ritorno degli investitori a Beyla e Faranah, ndr) . Le ragioni di questo improvviso stop del processo di investimento restano indeterminate.Ma resta il fatto che, localmente, le terre sono sempre assegnate a Guinée Énergie».
Per Cfsi, SOS Faim e Copagen «questo progetto accumula tutte le caratteristiche del land grabbing:
1. E’ necessariamente condannato a violare il diritto all’alimentazione, dato la sua ampiezza, la sua natura, la sua destinazione.
2. la cessione delle terre si basa sul il consenso preliminare, libero ma non chiaro degli utenti, come denunciano delle personalità locali (il sous-préfet di Tiro, insegnante i Bèlèya).
3. Nessuna valutazione minuziosa degli impatti sociali, economici ed ambientali è stata condotta e resa pubblica.
4. la procedura di investimento non è trasparenti gli impegni non sono chiari ed il risultato del progetto resta, ad oggi, incerto. 5. la pianificazione democratica, la partecipazione significativa e la supervisione indipendente sono assenti dal progetto. Di fronte ad una tale situazione, le organizzazioni europee della società civile chiedono coerenza della politica energetica dell’Ue con i suoi obiettivi di sviluppo e la società guineana reclama più trasparenza».
La Nuove Iniziative Industriali, fondata nel 1999 da Luciano Orlandi, è specializzata in risparmio energetico e agro-energie, prodotte in particolare con olio di palma importato dall’Asia e dall’Africa. Guinée Energie S.A. è stata creata dalla Nii con un capitale iniziale di 15.000 euro. In un’intervista (Biocarburanti per le luci Ikea) concessa a Marco Magrini e pubblicata su il Sole 24 Ore nel marzo 2010, Luciano Orlandi assicurava che «l’olio di jatropha è praticamente a impatto zero di anidride carbonica» e il giornalista scriveva che «il risvolto sostenibile di questo promettente business è chiaro. Non a caso, usare questo biofuel dà il diritto a ricevere certificati verdi, rivendibili sul mercato». Ma i biocarburanti non sono senza impatto, visto che – come dimostra il caso del Brasile e dell’Indonesia – le foreste primarie, cioè grandi pozzi di carbonio, vengono abbattuti per coltivare canna da zucchero e olio di palma per fabbricare biocarburanti.
La Nii in Africa ha interessi anche in Senegal (Senergie, partecipata al 60%), Etiopia (Ethio Renewable Energie – 70%) e Kenya Jatropha Energy (100%), proprio quest’ultimo progetto era finito nel mirinmo di ActionAid, preoccupata per un progetto di piantagioni per biocarburanti nelle foreste di Dakatcha, in Kenya, che «viola i diritti di una comunità autoctone di più di 20.000 personnes. Secondo i piani sottoposti da Nuove Iniziative Industriali, una società di biocarburanti italiana, la produzione di agriocarburanti metterà in pericolo i diritti alla terra ed all’alimentazione di questa comunità».
Invece il già citato articolo del Sole 24 Ore presentava i progetti italiani per le bioenergie in Africa sotto un altro aspetto: «Anche Adriano Ghirardello faceva l’imprenditore. L’imprenditore tessile, per l’esattezza. Davanti alla concorrenza cinese – racconta – qualche anno fa mi sono visto costretto a chiudere i battenti e, con mia moglie, mi sono trasferito in Kenya». Peccato che, anche lui, non avesse nessuna voglia di restare con le mani in mano. Così, dopo qualche iniziativa umanitaria in favore delle popolazioni locali, si è imbattuto nella jatropha e nel suo olio combustibile che – non essendo edibile – non fa concorrenza alle coltivazioni per fini alimentari. «Dopo una lunga trattativa con il governo kenyota e dopo un corposo studio di fattibilità e di impatto ambientale – spiega Ghirardello – abbiamo avuto in concessione 50mila ettari da coltivare, che porteranno lavoro a 8mila persone che non ce l’hanno».
Così, in partenership con la Nii, è nata la Kenya Jatropha Energy che, a regime, produrrà 150mila tonnellate di biofuel all’anno: secondo gli accordi col governo, il 20% resterà in Kenya e il restante 80 sarà esportato in Italia, per illuminare, riscaldare e raffreddare i giganteschi negozi di Ikea e gli stabilimenti industriali degli altri clienti della Nuove Iniziative Industriali. «In questo business – osserva – il lato che mi piace di più è la possibilità di coltivare un’area gigantesca, oggi incoltivabile, e di portare lavoro e benessere ai villaggi locali».
Ma secondo ActionAid «Questi combustibili “verdi” – molti dei quali sono destinati ai Paesi dell’Ue – hanno delle qualità ambientali contestabili. La distruzione di grandi zone di foreste e la potenziale espulsione delle comunità indigene che vivono nelle foreste sarebbe un fallimento totale per le autorità kenyane locali e nazionali nel far rispettare la Costituzione del Paese e gli obblighi internazionali sui diritti dell’uomo. Questo affare dimostra anche l’impatto allarmante delle politiche energetiche europee irresponsabili che favoriscono l’utilizzo e la produzione di biocarburanti senza alcuna considerazione per l’impatto che possono avere al di fuori dell’Europa. Il caso di Dakatcha illustra un problema più vasto che si svolge in tutta Africa e in altre parti del mondo in via di sviluppo, dove i diritti al cibo ed alla terra sono già una questione sensibile. La contraddizione con gli obiettivi di sviluppo dell’Ue è totale».
Kenya Jatropha Energy, aveva ottenuto una concessione di 33 anni su 50.000 ettari nella regione di Matidi, senza le consultazioni pubbliche previste dalla legge e le Ong kenyane hanno appoggiato ActionAid denunciando che il progetto della filiale della Nii «non solo minaccia le risorse idriche, avrebbe potuto sparire alcune specie animali e vegetali rare, ma si sarebbe verosimilmente tradotto nello spostamento forzato di circa 20.000 persone».
Sotto la pressione della società civile, il governo di Nairobi ha chiuso il progetto e ha vietato la produzione di biocarburanti nella regione costiera del Kenya. La Nii allora si è rivolta alla Guinea, ma anche lì le voci contro il land grabbing all’italiana cominciano ad alzarsi sempre più forti.
Per combattere il consumo di suolo è indispensabile eliminare gli equivoci sull’edificabilità e ribadire legislativamente, come suggerì la Corte costituzionale, che lo jus aedificandi non è tra i contenuti della proprietà privata dei suoli, come invece vorrebbe la proposta di legge Realacci
1. – Il consumo di suolo e le lacune legislative.
La cementificazione, l’impermeabilizzazione e l’edificazione hanno stravolto il nostro territorio, esponendolo a frane, smottamenti e distruzioni di ogni tipo. Di fronte ad un simile disastro da più parti si sono levate voci allarmate e sono piovute in Parlamento numerose proposte di legge, che promettono di “limitare” il consumo dei suoli agricoli, ammettendolo soltanto se non sia possibile trovare soluzioni all’interno di aree urbanizzate.
Si parla, ovviamente, di “suolo”, cioè di quella parte della superficie terrestre che è a diretto contatto con l’atmosfera e che, attraverso l’azione combinata di acqua, minerali e batteri, condiziona la vita dell’intero pianeta. Sennonché, dal punto di vista giuridico, non è possibile parlare di “suolo” senza parlare anche di “sottosuolo” e di “soprassuolo”. Infatti, queste tre entità sono tra loro strettamente connesse e costituiscono nel loro insieme una entità complessa, molto spesso presa in considerazione dal diritto, che si chiama “territorio”. Si vuol dire, in altri termini, che “suolo” e “territorio” sono tra loro entità inscindibili, per cui un discorso sul suolo non può prescindere da un discorso sul territorio.
E, a questo proposito, non si può fare a meno di ricordare che il “territorio” è oggi attaccato da tre temibilissimi nemici: la crisi finanziaria, che produce la sua “svendita”, e quindi, anche la svendita dei suoli; la “privatizzazione”, che trasforma la proprietà collettiva del territorio e dei suoli, in proprietà privata, sottraendo risorse a tutti, a vantaggio di pochi; ed infine, la “cementificazione e impermeabilizzazione dei suoli” con gli evidentissimi e gravissimi danni che produce.
Comunque, concentrando l’attenzione sulla tutela di quella parte del territorio definita “suolo”, è da avvertire che effettivamente il discorso deve concentrarsi sulle “cementificazioni e sulle impermeabilizzazioni”, che sono la causa prima del suo “consumo”.
Al riguardo, si deve, tuttavia, rilevare che le proposte che sono state depositate in Parlamento, ed in primis quella dell’on.le Realacci, non tengono presente un dato di fondamentale importanza: il fatto cioè che ormai il costruito prevale sul non costruito e sono stati ampiamente superati, e di molto, tutti i limiti per assicurare la “sostenibilità” ambientale di nuove costruzioni.[1]
Ne consegue che oggi non è più possibile interpretare il problema in termini di “limitazione”, ma è diventato ineluttabile parlare della cosiddetta “opzione zero nel consumo di suolo”. Lo impone, a tacer d’altro, il fatto che è stato turbato in modo gravissimo l’equilibrio idrogeologico del nostro Paese, sicché è assurdo continuare a ragionare come se fossimo agli inizi degli anni sessanta del secolo scorso, e non oggi, quando si è già distrutto inesorabilmente tutto il territorio. Si è costruito sui terreni agricoli, sulle aree golenali, sugli argini dei fiumi, sulle pendici dei vulcani, sulle spiagge, ecc. E, di fronte a tale immane disastro non è più immaginabile parlare di consumi ulteriori di terreni agricoli, forestali, o addirittura di orti urbani, ricorrendo al subdolo concetto di “compensazione ambientale”, che non serve ad altro se non a spostare il consumo di suolo da un luogo ad un altro. In parole povere un “artificio” per mettere a tacere, ingannandole, le coscienze dei più attenti ai problemi ambientali. Ma v’è ancora di più. Vi sono proposte, come quella già indicata, che parlano della elargizione, da parte dell’amministrazione pubblica, del ius aedificandi, su terreni agricoli, quasi fosse moneta sonante, per coloro che si impegnano a risanare zone urbanizzate. Siamo arrivati ad uno stato confusionario generale.
Occorre, dunque, rimeditare ab imis il problema e scoprire quali siano, sia pur limitando il discorso all’aspetto puramente giuridico, le cause di questo immane disastro.
Ponendosi in questa prospettiva, salta immediatamente agli occhi che causa principale del disastro è il convincimento, diffusissimo nell’immaginario collettivo, secondo il quale il “terreno” serve soprattutto per edificarvi sopra. In altri termini, nel “contenuto” del diritto di proprietà privata sarebbe incluso il ius aedificandi, il cui esercizio ha bisogno soltanto di un “permesso” dell’autorità comunale, quello che una volta si chiamava “licenza”, ed oggi “permesso di costruire”, e che solo per breve tempo, grazie alla legge n. 10 del 1977, fu chiamata “concessione edilizia”.
In realtà questo presunto “diritto di costruire”, inteso come insito nel diritto di proprietà fondiaria, non è previsto da nessuna norma del codice civile. Un tentativo per dare un riconoscimento legislativo al ius aedificandi fu fatto dall’On.le Maurizio Lupi, il quale, a nome del partito “Forza Italia”, presentò nel 2003 una proposta di riforma del governo del territorio, che, benché approvata dal Senato, fu poi bocciata dalla Camera dei deputati[2].
Né è possibile attribuire il valore di una disposizione di legge alla sentenza della Corte costituzionale n. 5 del 1980, che ha concepito il diritto ad edificare come “insito” nel diritto di proprietà, facendo sì che il DPR 6 giugno 2001, n. 380, introducesse poi la dizione “permesso di costruire”. Infatti, la Corte costituzionale ha il potere di “annullare” le leggi e non quello di “sostituirsi” al legislatore. E’ pertanto estremamente importante che le recenti proposte di legge sul consumo dei suoli facciano chiarezza su questo punto, ponendo in rilievo che il ius aedificandi non rientra tra i contenuti del diritto di proprietà privata.
Ed è da sottolineare che i Comuni di rado hanno agito nell’interesse effettivo delle collettività amministrate, ed a ciò sono stati indotti da riprovevoli leggi statali, che hanno favorito gli interessi dei singoli, spingendo i Comuni a concedere il massimo possibile di “permessi di costruire”. Si tratta, innanzitutto, come puntualmente nota Salvatore Settis[3], del Testo unico per l’edilizia, approvato con DPR 6 giugno 2001, n. 380, il quale, all’art. 136, comma 2, lett. c), ha abrogato il sano principio della legge Bucalossi (art. 12, della legge n. 10 del 1977), secondo cui “i proventi da oneri di urbanizzazione dovevano essere obbligatoriamente utilizzati dai Comuni per le opere di urbanizzazione primaria e secondaria, il risanamento dei complessi edilizi compresi nei centri storici, le spese di manutenzione ordinaria del patrimonio comunale”. Di conseguenza, a seguito di tale disposizione legislativa, i Comuni si sono sentiti liberi di impiegare i cosiddetti oneri di urbanizzazione anche per le spese correnti e, essendo queste ultime sempre crescenti, hanno cominciato ad ”allentare la guardia sulle autorizzazioni a costruire, o peggio a stimolare l’invasione del territorio modificando piani regolatori, concedendo eccezioni e deroghe, chiudendo un occhio e più spesso entrambi” , ed il fatto peggiore è stato che, essendo diventati gli oneri di urbanizzazione un introito del quale si aveva bisogno anno per anno, i Comuni hanno “accresciuto il numero delle costruzioni, allentando i controlli, cannibalizzando il territorio”[4].
Né è da dimenticare l’effetto perverso provocato in proposito dall’art. 3, comma 3, del decreto legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito nella legge 14 settembre 2011, n. 148, secondo il quale “sono soppresse le disposizioni normative statali incompatibili con il principio per il quale l’iniziativa e l’attività economica privata sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge ”. Si tratta di una legge palesemente incostituzionale, poiché fonda il suo disposto solo sulle prime cinque parole dell’art. 41 della Costituzione, dimenticando che questo articolo, dopo aver affermato che « l’iniziativa economica privata è libera », prosegue dicendo che essa: «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana ». Dunque una disposizione di legge assurda, che, tuttavia, ha dato maggior forza agli speculatori edilizi nel chiedere alle amministrazioni comunali di far presto a concedere loro i richiesti permessi di costruire.
2. – Il capovolgimento di una diffusa ed erronea convinzione.
E’ da porre in evidenza, a questo punto, che costruire, come sopra si accennava, significa “modificare il territorio” e che, di conseguenza, questo può esser fatto soltanto da chi è il “proprietario” del “territorio” medesimo, considerato, peraltro, nella sua interezza, tenendo conto, cioè, anche del paesaggio, dei beni artistici e storici e degli altri beni costruiti dall’uomo. Si deve cioè affermare con forza che il cosiddetto ius aedificandi appartiene al popolo, che è proprietario del territorio a titolo originario di sovranità e non al singolo cittadino proprietario di un appezzamento di terreno. E si deve subito avvertire che l’interesse del popolo deve esser fatto valore dal Comune, come ente esponenziale dalla comunità comunale, ma anche dai singoli cittadini, come vedremo in seguito, con l’esperimento dell’azione popolare.
Si oppone a questa indiscutibile verità, come poco sopra si osservava, la cultura borghese e quella ben più invasiva del neoliberismo economico, le quali hanno diffuso l’errato convincimento “dell’assolutezza e della illimitatezza” della proprietà privata, che perciò avrebbe come contenuto anche il diritto di costruire, nonché una prevalenza della “proprietà privata” del singolo, sulla “proprietà collettiva” di tutti sul territorio, con la conseguenza che la “tutela dell’interesse generale” viene vista come una “limitazione” della proprietà privata. E tutto questo a prescindere dalle chiarissime disposizioni della Costituzione, che vengono del tutto ignorate, come se fosse possibile leggere le disposizioni del codice civile indipendentemente dalle norme costituzionali.
E’ indispensabile “capovolgere” questa prospettiva, mettendo a confronto i due citati istituti, confronto che porrà in evidenza la “precedenza storica” della proprietà collettiva del territorio sulla proprietà privata, ed una “prevalenza giuridica” del primo diritto sul secondo.
3. – La precedenza storica della proprietà collettiva su quella privata.
Il punto di partenza di tutto il discorso è che il territorio, alle origini, è sempre appartenuto al popolo a titolo di sovranità. E’ sufficiente pensare come nasce la “Comunità politica”, per rendersene conto. Tra i vari esempi, il più pertinente sembra quello relativo alla nascita della Civitas Quiritium. Quando Romolo, o chi per lui, tracciò il solco dell’Urbs (che non ancora si chiamava Roma, poiché questo nome, dall’etrusco rumen, fu dato per l’appunto dai re etruschi), distinse il terreno su cui doveva nascere la Città dai terreni circostanti e dette luogo a tre fenomeni giuridici concomitanti: la nascita del Populus (nel senso che l’aggregato umano che si stanziava nella Città, diveniva una unità giuridica complessa, nella quale si distingueva il “civis”, il singolo cittadino, come “parte costitutiva” del tutto, ed il Populus, cioè l’intera cittadinanza); la nascita del “territorium” (da terrae torus, letto di terra), sul quale si stanziava il popolo, e infine, la “sovranità”, il potere sommo, riconosciuto al popolo stesso, di porre confini, non solo ai terreni, ma anche ai singoli cittadini, in modo che le loro libertà venissero limitate al fine di assicurare la convivenza civile.
In sostanza vennero in evidenza due concetti chiave: quello di “confine” e quello “della parte e del tutto”, nel senso che la “confinazione” dei terreni e delle libertà individuali fu essenziale per la nascita della Comunità politica, mentre lo stesso concetto di popolo, non si risolse nella concezione individualistica di una sola entità giuridica, ma implicò la rilevanza giuridica, sia del tutto, sia dei singoli cittadini, in quanto parti strutturali dell’insieme costituito dal popolo. Insomma una concezione “collettivistica” e non, come si è a lungo ritenuto, una concezione “individualistica”[5].
In sostanza, quello che è necessario porre in evidenza è che la nascita di una Comunità politica implica che, originariamente, il territorio appartiene al popolo a titolo di sovranità, nel senso che tra i poteri sovrani del popolo rientra anche la “proprietà collettiva” del territorio.
Lo dimostra a tacer d’altro, che per “cedere” a singoli soggetti parti del territorio è stata sempre ritenuta necessaria un atto solenne la divisio, preceduta da una manifestazione di volontà del titolare della sovranità. La prima “divisio” fu operata, secondo le testimonianze letterarie, dallo stesso Romolo, ma il Niebhur ha ritenuto che si trattasse di Numa Pompilio, il quale, evidentemente dopo una deliberazione dei Patres familiarum, divise il territorio dell’Urbe tra una parte assegnata ai singoli Patres, due iugeri a testa, cioè mezzo ettaro (quanto è appena sufficiente per soddisfare le elementari necessità familiari), ed una parte riservata all’uso comune della cittadinanza, il cosiddetto “ager compascuus”. Da notare che non si trattò affatto della cessione in proprietà privata, poiché sulla parte divisa i singoli assegnatari ebbero un potere indefinito, detto “mancipium”, e non un diritto reale come il diritto di proprietà privata. Ed è ancora da notare che anche le successive assegnazioni ai veterani delle terre conquistate avvenne mediante la solenne cerimonia, di origine etrusca, detta “divisio et adsignatio agrorum”, sempre preceduta da una lex centuraiata o da un plebiscitum, cioè da una manifestazione di volontà del popolo sovrano. D’altro canto, anche in questa seconda ipotesi, trattandosi di res nec mancipi, veniva trasferita soltanto la possessio (da potis sedeo, siedo da signore), cioè una res facti e non un vero e proprio diritto. Per parlare di un vero e proprio diritto reale, corrispondente più o meno alla nostra proprietà privata, fu necessario attendere l’inizio del I secolo a. C., quando, dopo una tormentata evoluzione giurisprudenziale, si cominciò a parlare di ”dominium ex iure Quiritium”, che comunque, fu oggetto di controllo pubblico, e comportò soltanto il ius utendi et fruendi, ma non il ius abutendi, del quale si parlò solo durante il medio evo.
Nel medio evo, peraltro, lo schema rimase lo stesso. Infatti, se si pensa che la sovranità, dal popolo era passata all’Imperatore, si capisce pienamente perché si parlò di un dominium eminens dell’Imperatore e di un dominium utile di chi lavorava la terra. Il territorio, insomma, apparteneva a chi era titolare della sovranità. L’appartenenza del territorio, in altri termini, rientrava nella somma dei poteri sovrani e questa appartenenza continuava ad esistere (Carl Schmitt parla di “superproprietà”) anche se in concreto la proprietà risultava assegnata ad un singolo cittadino.
La rottura dello schema romanistico si è avuta con la restaurazione napoleonica, la quale è stata realizzata in base al principio “Il potere al Governo, la proprietà ai privati”. Si è staccato così il diritto dall’economia e si sono poste le premesse per l’affermarsi delle teorie neoliberiste, che si disinteressano della persona umana e mirano soltanto al “massimo profitto”, dando origine al dannosissimo fenomeno della “finanziarizzazione dei mercati”, alla “svendita del territorio” ed alle perniciose “privatizzazioni”, che tolgono a tutti per dare a pochi.
4. – La prevalenza giuridica della proprietà collettiva su quella privata.
La salvezza sta nell’applicazione della vigente Costituzione repubblicana, la quale ha accolto in pieno l’insegnamento dei giureconsulti romani. La Costituzione, infatti, non solo ha sostituito lo Stato persona di stampo borghese con lo Stato comunità, qual era la Respublica Romanorum, ma ha riportato in primo piano la “proprietà collettiva” del territorio, ponendo in luce che la “proprietà privata” è semplicemente “ceduta” ai singoli con un atto di volontà del popolo sovrano, e cioè mediante legge. Alla “precedenza storica” della proprietà collettiva su quella privata si accompagna oggi la “prevalenza giuridica” della prima sulla seconda.
Lo chiarisce l’art. 42 della Costituzione, secondo il quale “la proprietà privata è riconosciuta dalla legge….allo scopo di assicurarne la funzione sociale”, sancendo cioè che tale diritto è giuridicamente tutelato soltanto se ed in quanto “assicura” “lo scopo” della “funzione sociale”, rende cioè tutti partecipi dei benefici che provengono dalle attività produttive.
Il principio della prevalenza dell’interesse pubblico sull’interesse privato è ribadito, inoltre, dall’art. 41 della Costituzione, riguardante “l’iniziativa economica privata” e cioè l’attività negoziale che il proprietario pone in essere per disporre della proprietà privata, e cioè per acquisire o vendere la proprietà dei beni economici.
Si legge in detto articolo che “L’iniziativa economica privata è libera”. “Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo di recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Come si nota, alla “funzione sociale” dell’art. 42 Cost., fa riscontro “l’utilità sociale”, di cui al precedente art. 41 Cost.
Ma non è tutto. Questa “prevalenza” dell’interesse pubblico sull’interesse privato, va coniugata con la “distinzione” tra “proprietà pubblica” e “proprietà privata”, di cui al primo alinea del citato art. 42 Cost., secondo il quale “la proprietà è pubblica e privata”.
In sostanza, dal combinato disposto delle citate disposizioni emerge con estrema chiarezza che la nostra Costituzione, non prevede affatto un solo tipo di proprietà, ma due tipi: quella pubblica e quella privata, sancendo, nello stesso tempo, la “prevalenza della prima sulla seconda”. Insomma, i “limiti” alla proprietà di cui pure parla l’art. 42 della Costituzione, affermando che “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento ed i limiti”, riguardano soltanto la proprietà privata, come è espressamente detto, e non la proprietà pubblica, la quale, in questo contesto, si identifica con la “proprietà collettiva demaniale”, che spetta al popolo a titolo di sovranità, come da tempo affermato da Massimo Severo Giannini[6].
Questa distinzione, inoltre, è stata chiarita da tempo dal Regolamento di contabilità generale dello Stato, approvato con R.D. 4 maggio 1885, n. 3074, il quale affermava testualmente: “I beni dello Stato si distinguono in demanio pubblico e beni patrimoniali. Costituiscono il demanio pubblico i beni che sono in potere dello Stato a titolo di sovranità, e formano il patrimonio quelli che allo Stato appartengono a titolo di proprietà privata” [7].
Insomma, la “dinamica giuridica” che segue la Costituzione ripete puntualmente la stessa dinamica che si è svolta storicamente. All’inizio, l’intero territorio appartiene al popolo a titolo di “sovranità”. In seguito, parte del territorio viene, con “legge”, “riservato” all’uso diretto della popolazione, restando “proprietà collettiva demaniale” come res extra commercium, e cioè come beni “inalienabili, inusucapibili ed in espropriabili”, e parte viene “ceduta” a privati, diventando oggetto di “proprietà privata”.
E questa parte “ceduta” in proprietà privata, sia ben chiaro, deve comunque perseguire una “funzione sociale”, poiché ciò che conta, prima della tutela individuale, è l’”utilità sociale”, di cui parla l’art. 41 della Costituzione.
Insomma, sia la storia degli istituti giuridici, sia, direttamente, la nostra Costituzione confermano quanto sopra si diceva: si deve parlare di un “capovolgimento” delle tradizionali concezioni borghesi, rinverdite e rafforzate dalle teorie neocapitalistiche, e ritenere che non è il pubblico che “limita” il privato del suo uso del bene comune, ma è il privato che sottrae alla collettività la possibilità di utilizzarlo per il bene comune.
5. – Il ius aedificandi.
Se si tiene presente, come sopra si è tentato di dimostrare, che la “proprietà privata” deriva da una “cessione” di parti del territorio a singoli individui da parte del popolo, il quale, non solo ha la “proprietà collettiva” dell’intero territorio, ma conserva, come ricorda Carl Schmitt,[8] anche una “superproprietà” o, se si preferisce un dominium eminens sulle parti “cedute”, diventa davvero inconcepibile ritenere che, oltre al diritto di appartenenza di un appezzamento di terreno, sia stato “ceduto” anche il diritto di “modificare il territorio” nella sua interezza, potere che è ovviamente rimasto nei “poteri sovrani del popolo”.
Quando ci lamentiamo degli scempi paesaggistici, della cementificazione, delle distruzioni della natura non possiamo limitarci alla “denuncia”: è un nostro “diritto di proprietà collettiva” che è stato leso, e questo diritto è ben più grande e più tutelato del diritto di proprietà privata. E, comunque, come si è detto, il ius aedificandi non ha nulla a che vedere con il diritto di proprietà privata. Non c’è nessuna disposizione del codice civile che lo preveda, mentre, come è noto, lo stesso codice ha cura di precisare che questo diritto deve fare i conti con i “limiti posti dall’ordinamento giuridico”. Nel caso poi della costituzione a favore di un terzo da parte del proprietario privato del diritto di costruire e mantenere su suolo proprio una costruzione (art. 952 del codice civile), è evidente che tale costituzione di un diritto reale limitato è condizionata al riconoscimento da parte dell’Autorità competente, di quel particolare terreno come rientrante in una zona urbanizzata. Si vuol dire che è “l’urbanizzazione” del territorio, è in ultima analisi la “cessione” ai singoli di questo potere rientrante nella proprietà collettiva del territorio stesso, a far nascere in capo ai singoli proprietari di terreni il diritto di costruire. Fuori di questa “cessione”, il proprietario privato non può assolutamente vantare un ius aedificandi come insito nel suo diritto di proprietà.
Ed è per questo che è corretto parlare di “concessione” del diritto di costruire, come prevedeva la legge Bucalosi, n. 10 del 1977, ed è fortemente in contrasto con tutti i principi del nostro ordinamento parlare di “licenza di costruzione”, com’era una volta, o di “permesso di costruire”, com’è oggi.
Come si è sopra chiarito, tutto ciò dipende dal fatto che la cultura borghese e neoliberista si è tenacemente opposta all’idea stessa della “proprietà collettiva del territorio”, che è invece viva e presente nel nostro ordinamento costituzionale e contiene anche questo supposto “diritto di costruire”, che, per sua natura non può appartenere a singoli soggetti, ma a tutti i consociati.
6. – La dinamica costituzionale per lo sviluppo economico. La partecipazione dei cittadini.
Il problema dell’attuazione del ius aedificandi, rende necessario qualche cenno sulle linee direttrici che la nostra Costituzione pone a proposito dello sviluppo economico.
Come è noto, la nostra Costituzione parte dall’idea di comune esperienza secondo cui la ricchezza proviene da “due fattori”: “le risorse della terra” ed “il lavoro dell’uomo”. Infatti “due sono gli obiettivi” che la stessa si propone di raggiungere: a) “tutelare il territorio”; b) “proteggere il lavoro”. Ed è molto significativo, in proposito, il fatto che il Titolo III, Parte prima, della Costituzione, dedicato ai “Rapporti economici”, è in pratica dedicato, sia alla tutela del territorio, sia alla tutela del lavoro.
In particolare parlano del territorio l’art. 42, primo comma, secondo il quale “la proprietà è pubblica e privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti e a privati”, nonché l’art. 44, primo alinea, secondo il quale occorre “conseguire il razionale sfruttamento del suolo”. Parlano invece di lavoro, l’art. 35, secondo il quale “la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”, l’art. 36, secondo il quale “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro ed in ogni caso sufficiente a assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”, nonché l’art. 38, importante per l’affermazione di principio secondo cui tutti devono lavorare, ed è esentato da questo dovere soltanto “il cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere”, per il quale è previsto il “diritto al mantenimento ed all’assistenza sociale”.
Il quadro costituzionale, relativo ai due essenziali fattori della produzione, tuttavia, non si ferma qui. Basti pensare, quanto alla difesa del territorio, al riferimento dell’art. 9 alla tutela del paesaggio e dei beni artistici e storici[9], nonché alla disposizione dell’art. 52 Cost., secondo il quale “la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”. E, per quanto riguarda il fattore lavoro[10], al primo alinea dell’art. 1 della Costituzione, secondo il quale “l’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”, nonché all’art. 4, primo comma Cost., secondo il quale “la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”.
Tutela del territorio, e cioè delle risorse della terra[11], e tutela del lavoro, e cioè della piena occupazione, sono, dunque, obiettivi fondamentali della nostra Carta costituzionale.
Come perseguire questi due obiettivi è specificato nel citato Titolo III, della Parte prima, Cost.
In questo titolo si prevede, innanzitutto, all’art. 43 Cost., un intervento pubblico nell’economia principalmente in relazione alle “imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazione di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale”, precisandosi che “a fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese categorie di imprese”.
Insomma, il principio è che le imprese strategiche debbono essere in mano pubblica e che non è accettabile rimettere alla speculazione privata la produzione di beni e servizi primari per la vita del Paese. Questo punto essenziale è stato travolto dalle numerose e dannosissime “privatizzazioni”, che hanno privato l’Italia, in breve periodo, del 50 per cento delle imprese, sospingendola verso una irrimediabile miseria, propedeutica ad un finale ed irreparabile disastro economico e sociale.
Altro punto strategico proprio della nostra “dinamica costituzionale” consiste nell’aver “separato” la piccola e media proprietà, come la proprietà coltivatrice diretta e la proprietà della prima casa (artt. 44 e 47 Cost.), dalla proprietà la cui produzione eccede le strette esigenze di vita e sono in grado di far crescere la “produzione nazionale”.
Per questo tipo di proprietà, come si è già accennato, la stessa tutela giuridica è condizionata all’assolvimento della “funzione sociale”, cioè all’obbligo di dar spazio all’ “occupazione” ed alla “produzione” di beni che possano soddisfare i bisogni di tutti.
Quest’obbligo è sancito in modo espresso e con piena “precettività” dal citato art. 42 Cost., in base al quale, si ripete, “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge… allo scopo di assicurarne la funzione sociale”. E’ una norma universalmente riconosciuta in dottrina come “norma precettiva di ordine pubblico economico”, la quale, tuttavia, anche a causa di talune discutibili sentenze della Corte costituzionale, è rimasta del tutto “inapplicata”. Lo dimostrano il continuo e dannosissimo ricorso alle “chiusure e delocalizzazioni” di “imprese” desiderose solo di maggiori profitti, nonché la massa enorme di “immobili” e soprattutto di “terreni” “abbandonati” dai loro proprietari.
Al riguardo, è la stessa Costituzione che ci offre il rimedio. Se è vero, come è vero, che la “tutela giuridica” della proprietà privata è condizionala alla “funzione sociale”, il venir meno di quest’ultima, fa venir meno anche la tutela giuridica e, di conseguenza, vien meno il “diritto di proprietà privata” ed anche, e necessariamente, qualsiasi diritto di “indennizzo”, visto che non esiste più il diritto da indennizzare.
Si verifica, insomma, un “effetto automatico”, per il quale, il bene originariamente appartenente a tutti, e da tutti “ceduto”, mediante legge, ad un singolo individuo, torna con tutta evidenza nella proprietà collettiva di tutti.
Dunque, nel caso dell’abbandono, di terreni ed immobili, che ha un suo precedente storico “nell’ager desertus” della tarda Roma imperiale, implica il dovere, meglio si direbbe il “munus”, dell’autorità pubblica di iscrivere formalmente nella proprietà pubblica e collettiva dalla stessa amministrata il bene di cui si discute, a ciò provvedendo, dopo la necessaria “diffida” ad adempiere al proprietario. Si tratta, in sostanza, di rileggere attraverso una “interpretazione costituzionalmente orientata”, quanto è già scritto nell’art. 838 del codice civile in relazione ai terreni abbandonati, tenendo conto, come poco sopra si accennava, che il “meccanismo giuridico” previsto dalle sopra ricordate “disposizioni costituzionali” di ordine pubblico economico” implica il venir meno, insieme con il diritto di proprietà, anche del conseguente diritto all’indennizzo.
C’è poi un ultimo punto molto importante da tener presente nell’analisi di questa “dinamica costituzionale”: è la “partecipazione” del cittadino alla “funzione legislativa”, alla “funzione amministrativa”, ed alla “funzione giudiziaria”. Ed è da sottolineare che, la partecipazione alla funzione legislativa e a quella giudiziaria riguarda soltanto un potere di iniziativa o di abrogazione, mentre quella concernente la funzione amministrativa implica un effettivo esercizio della funzione stessa. Infatti, come è noto, la funzione legislativa è riservata al Parlamento e quella giudiziaria è riservata all’Autorità giudiziaria, ed invece la funzione amministrativa è condivisa da questa, con enti e con soggetti privati.
E’ noto che la partecipazione alla funzione legislativa si concreta nel referendum abrogativo (art. 75 Cost.) e nella proposta di leggi di iniziativa popolare (art. 71, comma secondo Cost.).
Più complesse sono le disposizioni costituzionali che riguardano l’effettivo esercizio della funzione amministrativa da parte dei cittadini. La disposizione principe in proposito è quella dell’art. 3, comma secondo, Cost., secondo il quale è compito della Repubblica assicurare “l’effettiva partecipazione di tutti i cittadini all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. E “partecipare” alla ”organizzazione”, in termini giuridici, vuol dire proprio partecipare all’azione amministrativa dei pubblici poteri. E parlare di “lavoratori” vuol dire parlare di tutti i cittadini, poiché, come si è visto, per la Costituzione non esistono i “fannulloni”: o si ha la capacità di lavorare e si “deve” lavorare, o si è “inabili al lavoro” ed allora si ha diritto al mantenimento ed all’assistenza sociale.
Accanto a questo principio a carattere generale, la Costituzione fa ricorso alla “partecipazione” anche nel citato art. 43, nel quale, come si è detto, si affida la gestione di imprese o di categorie di imprese “di preminente interesse generale” anche a “comunità di lavoratori o di utenti”, e cioè ad entità giuridiche diverse dalla pubblica amministrazione.
Di “partecipazione” infine parla diffusamente e con precisione l’ultimo comma dell’art. 118 del rinnovato Titolo V della Costituzione, nel quale si legge che ”Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e “comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli o associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”. Qui addirittura si afferma che l’iniziativa dei cittadini in tema di funzioni amministrative dovrebbe precedere, in casi di estrema vicinanza agli interessi del popolo, l’azione dei pubblici poteri: questo e non altro significa il ricorso al concetto di “sussidiarietà”.
Quanto alla partecipazione alla funzione giudiziaria, occorre ricordare che, in base alla costruzione che abbiamo descritto della “Comunità politica”, il “cittadino è parte costitutiva” del popolo, e come tale può e deve agire, con un’azione popolare, nell’interesse proprio e di tutti i consociati. Si tratta di un potere di iniziativa che è insito nel sistema costituzionale, con la conseguenza che una previsione di legge ordinaria in proposito avrebbe valore puramente dichiarativo.
Questo principio sembra sia stato accolto dalle Sezioni unite della Corte di cassazione[12] e dalla Corte costituzionale[13] nel noto caso dell’azione promossa da un semplice cittadino per ottenere la cancellazione della legge elettorale, cosiddetta “porcellum”. In detta sentenza si legge, infatti, che la “questione” sottoposta all’esame della Corte costituzionale, “ha ad oggetto un diritto fondamentale tutelato dalla Costituzione, il diritto di voto, che ha come connotato essenziale il collegamento ad un interesse del corpo sociale nel suo insieme”. Pare proprio che la Corte costituzionale abbia utilizzato il concetto, poco sopra esposto, del rapporto tutto-parte, considerando il cittadino come “parte strutturale” della collettività, per cui la sua azione giudiziaria concerne il proprio interesse individuale e, nel contempo, quello di tutti gli altri consociati. E se è così, si può agevolmente affermare che oggi, ad opera della giurisprudenza di legittimità e della giurisprudenza costituzione, l’azione popolare, è diventata una sicura realtà[14].
8. – Cosa fare?
Il discorso fin qui condotto ha spianato la strada per combattere, sul piano giuridico, contro il principale responsabile della cementificazione e della impermeabilizzazione del suolo, il cosiddetto ius edificandi. Dovrebbe esser chiaro, infatti, che non è affatto configurabile un diritto di costruire “insito” nel diritto di proprietà privata, mentre si deve necessariamente affermare che questo potere di trasformazione del territorio costituisce una “potestà” insita nella proprietà collettiva che spetta al popolo sul suo territorio a titolo di sovranità.
Vengono in evidenza, a questo punto, due concetti importanti: la tutela del territorio e la fruizione dello stesso. In sostanza, emerge la necessità di “norme di tutela” e di “norme del governo” del territorio.
Le prime, che sono di competenza legislativa esclusiva dello Stato, ai sensi dell’art. 117, comma secondo, lett. s), Cost., pongono i “limiti invalicabili” di tutela[15], oltre i quali, superate le soglie della sostenibilità ambientale, si provocano seri danni ambientali; le seconde, che rientrano nella competenza concorrente delle Regioni, ai sensi dell’art. 117, comma terzo, Cost., pongono la “normativa d’uso” del territorio, sanciscono, cioè, in quali zone del territorio e con quali modalità, è possibile costruire. In questo secondo caso, è bene sottolinearlo, lo Stato ha l’obbligo di stabilire, con una legge quadro, i “principi fondamentali” aventi la funzione di indirizzare o porre dei limiti alle manifestazioni legislative[16] della Regione. E non può sfuggire che l’attuale legge quadro per l’edilizia appovata con DPR n. 380 del 2001 è tutta da rifare.
E’ di questa nuova legge quadro che oggi c’è urgente, indilazionabile bisogno. Infatti, è solo in una legge di tal genere, infatti, è possibile stabilire, Nella visone di un quadro generale del problema, , norme fondamentali applicabili in tutto il territorio nazionale, concernenti il consumo di suolo agricolo e di verde urbano.
Ed a questo proposito, considerato che il punto dolente è quello del cosiddetto ius aedificandi, causa efficiente di notevolissimi danni al territorio, si potrebbe prevedere che la concessione edilizia possa essere rilasciata solo su terreni esistenti in zona urbanizzata e preventivamente acquisiti al patrimonio comunale, o perché si tratta di terreni o immobili abbandonati, che, come si è visto, sono automaticamente rientrati nel patrimonio della Comunità comunale, o perché, per eccezionali esigenze pubbliche, tali terreni o immobili siano stati preventivamente espropriati prima dell’urbanizzazione ed al costo previsto per i terreni agricoli.
Detta concessione dovrebbe inoltre consistere, non in un’autorizzazione a costruire, ma nella costituzione di un diritto di superficie da concedere a seguito dell’esperimento di una gara ad evidenza pubblica e dietro pagamento di un equo canone annuo rivalutabile secondo le stime di mercato. Si eviterebbe così la piaga delle dannosissime “rendite fondiarie”, causate dalle cosiddette “urbanizzazioni di favore”, che arricchiscono indebitamente pochi speculatori, a danno di tutti, nonché delle frequenti collusioni tra costruttori e amministratori pubblici. D’altro lato si assicurerebbe alle casse comunali un altro introito sicuro, dovendosi, peraltro, anche prevedere che gli oneri di urbanizzazione siano effettivamente destinati alle opere di urbanizzazione, evitando che detti introiti siano utilizzati per le spese correnti, come prevede la citata legge destinati alle spese correnti, come oggi avviene, seguendo le disposizioni del citato art. 136, comma secondo, lett. c) del vigente T.U per l’edilizia, approvato con DPR 6 giugno 2001, n. 380.
E’ poi tra questi principi fondamentali che andrebbe previsto anche la necessità di istituire una cintura verde intorno alla zona cittadina urbanizzata, nonché la previsione di notevoli Parchi urbani. Indispensabile sarebbe poi prevedere delle norme penali che considerano delitto punibile con la reclusione da uno a cinque anni, il fatto di chi leda detti principi ed arrechi, comunque, danni ambientali.
La legge quadro di cui si discute dovrebbe ancora prevedere una attenta manutenzione[17] del territorio comunale e, nell’immediato, una grande opera pubblica statale di ristabilimento dell’equilibrio idrogeologico d’Italia.
Non è chi non veda come un’opera pubblica di tal genere possa simultaneamente perseguire due finalità: la ricostituzione del territorio e contribuire efficacemente all’uscita dalla presente cosiddetta crisi economico finanziaria, poiché la distribuzione di risorse finanziarie ad un considerevole numero di lavoratori agirebbe da volano dell’economia e permetterebbe anche di diminuire notevolmente il debito pubblico. E’ da considerare d’altro canto che gli stessi costruttori, se invogliati a concorrere agli appalti per l’esecuzione di una grandiosa opera pubblica di ristabilimento dell’equilibrio idrogeologico, certamente non avrebbero nessuna difficoltà a lavorare per un fine diverso da quello sin qui seguito. Ora la parola passa al Governo, il quale ha l’obbligo inderogabile di convincere l’Europa che è inutile accantonare contabilmente 50 miliardi all’anno per 20 anni, come ci impone il fiscal compact e che sarebbe molto più ragionevole investire dette somme in un’opera che ristabilisca gli equilibri ambientali, senza produrre merci da collocare sul mercato.
Un robusto contributo alla riflessione sui beni comuni e sulla loro legittimità del vicepresidente onorario della Corte costituzionale e coautore della Legge Galasso. Testo inviato dall'Autore
Relazione al Convegno di studi sul tema “Regole per il buon governo. La riforma della legge regionale toscana sul governo del territorio, Firenze, 20 novembre 2013; Relazione al Convegno di studi sul tema “Il governo del territorio nelle Marche: quali cambiamenti?”, Fermo, 6 dicembre 2013. In corso di pubblicazione sulla rivista cartacea Diritto e Società.
1. – La cosiddetta “crisi economico finanziaria”
Si parla impropriamente di “crisi economico finanziaria”, come una delle crisi cicliche dell’economia, dopo le quali torna il sereno. E’ questa la prima grande “falsità” che il “pensiero unico dominante del neoliberismo economico” fa credere al popolo italiano come una “verità” indiscutibile. Questa non è assolutamente una solita crisi economica ricorrente, è una “crisi economica finanziaria di sistema”, nella quale sono venuti a trovarsi in una situazione fortemente svantaggiata l’Italia, la Grecia, la Spagna, il Portogallo e l’Irlanda, specialmente dopo l’attacco del novembre 2011, sferrato dalla speculazione finanziaria contro il loro debito pubblico.
I Paesi del sud Europa si trovano ora stretti da una tenaglia, che vede da un lato la corrosione continua della propria economia da parte della speculazione finanziaria e dall’altro la politica di austerity imposta dalla Germania. E’ una tenaglia che toglie liquidità alle imprese e causa di chiusure e delocalizzazioni, licenziamenti, disoccupazione, recessione, aumento del debito pubblico, miseria.. Non è difficile prevedere che l’esito finale di questo stato di cose sarà la svendita agli stranieri del territorio con tutte le conseguenze che ciò comporta, anche in termini di indipendenza nazionale.
Il dato fondamentale[1] consiste nel fatto che la “speculazione finanziaria”, la principale artefice di questo immane disastro mondiale, ha cessato di finanziare opere di investimento produttivo, che danno luogo a occupazione, ed ha preferito, per brama di guadagno immediato, comprare debiti, giocando in borsa con questi, quasi fossero valori economici positivi, ed investendo nei medesimi, dando così luogo, non a produzione di beni reali, ma a “raschiamento” della ricchezza esistente, ponendo in essere, per giunta, anche operazioni ad alto rischio, foriere di default,. E ben presto sono improvvisamente precipitate in una situazione fallimentare numerose banche americane ed europee, con la conseguenza, davvero insolita, che, essendo state giudicate “troppo grandi per fallire”[2] sono state poi salvate con interventi statali, quasi fossero banche in proprietà statale e non banche private, riversandosi così gli effetti del fallimento su ignari cittadini. E’ il caso della Goldman Sachs e della Morghen Stanley americane, dell’Ubi svizzera e del Monte dei paschi italiana. Raramente, ed invero anche inspiegabilmente, qualche banca è stata lasciata fallire, come nel caso della Lehman Brothers americana[3].
Detto in una sola parola, la speculazione finanziaria ha creato una enorme “ricchezza fittizia”, facendo valere come “diritti di credito reali”, “debiti non garantiti” (si pensi ai “derivati” ed ai “derivati dal credito”), con vari artifici giuridici e prevalentemente, “creando danaro dal nulla”, il cosiddetto “danaro dall’aria fina”, e sostituendo così al “mercato reale” dell’economia, il “mercato finanziario fittizio”. Un mercato nel quale si parla di “crediti” ai quali non corrispondono “beni reali”. Il dato di fatto è che, comunque, manovrando questa ricchezza fittizia, la speculazione finanziaria introduce negli scambi uno stato di assoluta incertezza, agendo a proprio esclusivo vantaggio indipendentemente dalla situazione economica reale e, addirittura, “determinando” a proprio piacimento i tassi di interesse che i vari Paesi devono pagare sul loro debito pubblico, il cosiddetto “spread”.
Alla radice di tutto c’è un incredibile salto logico: quello di far credere che il “debito” è un “diritto di credito” sicuro, mentre, in realtà, il debito, per ragioni soggettive del debitore, ovvero per il dato oggettivo di un mutamento dei prezzi dei beni dati in garanzia (come è avvenuto per subprime americani, parametrati sul valore delle costruzioni per civili abitazioni, i cui prezzi sono crollati precipitosamente per l’eccesso di offerta), non è affatto “un bene sicuro”, ma un bene, se così lo si vuole chiamare, fortemente “aleatorio”.
E vediamo come le banche “creano danaro dal nulla”. Sin dal medio evo[4], come è noto, le banche prestavano danaro senza intaccare i depositi di beni reali, quali gioielli, monete d’oro, arredi preziosi, e per un valore nettamente superiore all’insieme di questi beni avuti in custodia, nella certezza che i creditori non accorressero tutti nello stesso momento per ritirare i loro depositi. Questo antico principio è stato sempre seguito fino a non molto tempo fa dalle nostre “banche commerciali”, la cui funzione era quella di raccogliere i risparmi e concedere prestiti per produrre beni reali. Un sistema, come si nota, positivo, poiché permette a chi intende intraprendere un’attività produttiva di creare beni e servizi, e quindi maggiore ricchezza, e di restituire regolarmente la somma avuta in prestito.
Sennonché, a cominciare dagli anni ottanta del novecento gli speculatori finanziari hanno avuto un colpo di genio: quello di trasformare i “crediti”, che poi vuol dire i “debiti”, in “titoli commerciabili”, soggetti a valutazione di borsa, e quindi a “creare danaro dal nulla”, come si diceva “danaro dall’aria fina”.
Ben presto questa prassi ha invaso l’intero occidente. Ma, in Italia, essa è venuta a trovarsi in contrasto con la disciplina codicistica dei titoli di credito (di cui agli artt. 2008, 2011 e 2021 del codice civile), la quale, come si legge nella Relazione al Re del Ministro guardasigilli per l’approvazione del testo del codice civile del 1942[5], evitò con cura che i “titoli al portatore” potessero “usurpare la funzione della carta moneta, la cui emissione non può essere lasciata all’arbitrio dei singoli”.
Sta di fatto, comunque, che questo fondamentale potere dello Stato di coniare moneta è presto finito nelle mani di banche private. “Per l’Unione Europea si stima oggi che oltre il 90 per cento della massa monetaria presente nell’economia sia stato creato dalle banche. Meno del 10 per cento è creato dalla BCE, di cui una frazione non superiore al 2-3 per cento sotto forma di monete e banconote. Il resto viene largamente impiegato al fine di sostenere con il danaro legale da essa emesso la creazione di danaro bancario o danaro-credito da parte di enti privati, cioè da banche commerciali”[6].
L’Italia, allora non ha saputo far di meglio che adeguarsi a questa prassi, propria degli ordinamenti di common law, legittimando la violazione palese di un principio fondamentale del nostro codice civile, con le disposizioni della legge 30 aprile 1999, n. 130, sulle “cartolarizzazioni”. Questa legge legittima “le operazioni di cartolarizzazione realizzate mediante cessione a titolo oneroso di crediti pecuniari, sia esistenti, sia futuri, individuabili in blocco se si tratta di una pluralità di crediti”.
Dunque, derivati, derivati dal credito ed altri simili “prodotti finanziari”, hanno avuto diritto di cittadinanza nel nostro ordinamento positivo. Il fatto poi che l’art. 3 di detta legge n. 130 del 1999, confermato dalle disposizioni della legge n. 410 del 2001 sulle privatizzazioni degli immobili dello Stato, sancisca che “i crediti relativi a ciascuna operazione costituiscono patrimonio separato a tutti gli effetti da quello della società (cioè della banca) e da quello relativo ad altre operazioni”, costituisce un “limite” di pura facciata, poiché quello che conta, ai fini del mantenimento di un sano sistema economico, non è certo la costituzione di patrimoni separati, ma il divieto assoluto (come fecero i redattori del codice civile del 1942) che le banche private “creino danaro dal nulla”, senza alcuna corrispondenza con la creazione di beni reali..
Oggi nessuno sa quanto danaro creato dal nulla sia in circolazione[7]. Una stima relativa al periodo 2000-2008 calcola che le banche europee soltanto in quel periodo avevano immesso sul mercato un volume di cartolarizzazioni pari a 3,7 trilioni di euro[8].
Occorre poi tener presente, si ripete, che gli speculatori finanziari manipolano spregiudicatamente questo “danaro fittizio”, facendo investimenti per acquisire nuovi titoli di questo genere e aumentando con la loro azione “l’instabilità della moneta” ed i “rischi” di default.
Ma non è tutto. Oltre al danaro creato dal nulla, c’è il “sistema bancario ombra”[9] degli enti finanziari diversi dalle banche, i quali, essendo privi di “regolazione” e di “sorveglianza”, possono agevolmente, con la libera creazione di “società di scopo”, evadere gli obblighi imposti dagli Accordi di Basilea, e cioè l’obbligo di avere una “riserva”, oggi del 2 per cento del prestito concesso, e, a partire dal 2019, dell’8 per cento del prestito stesso[10].
Questa complessa articolazione del sistema bancario mondiale, come agevolmente si nota, ha aumentato oltre il “sostenibile” il “rischio” di insolvenza, scaricando, però i relativi danni, non sulle banche, ma sulla collettività. Occorrerebbe, dunque, una riforma a livello internazionale, globale, o almeno europeo, ma vi si oppone un nemico pressoché invincibile, e cioè l’imperversare delle citate teorie “neoliberiste”, che, non ostante gli evidentissimi danni prodotti, oscura tuttora le menti di molti economisti (per l’ovvio motivo che questi si pongono come fine “il massimo profitto” e non il “benessere” materiale e spirituale della società) ed è fortemente radicata nell’immaginario collettivo. Il postulato, mai pienamente dimostrato in sede teorica (posto per la prima volta negli anni 40 del secolo scorso da due docenti dell’Università di Chicago, Milton Friedman e Greorge Stigler), consiste nell’affermazione, clamorosamente smentita dai fatti, conseguiti alle politiche reganiane e tacheriane, secondo la quale il “mercato” è il “grande ordinatore” della vita civile e prevale su tutti i campi: da quello del diritto, a quello della filosofia, fino a quello della morale[11]. Ciò che conta è ottenere il “massimo profitto”. E’ da questo che scaturirebbe il benessere di tutti. Sennonché si tratta di un drammatico errore, poiché, come afferma il Bauman[12], “tutto questo è falso”.
Il disastro, come si vede, è immane e richiede un nuovo “sistema economico mondiale, o almeno europeo” da costruire a livello internazionale, ma, limitando l’esame a livello italiano, è ben possibile correre ad alcuni ripari, che, a tacer d’altro, sono già previsti dalla nostra Costituzione.
Prima di passare all’analisi giuridica del problema, tuttavia, non si possono non citare le seguenti illuminanti parole di Papa Francesco, pronunciate il 16 maggio 2013 in occasione della presentazione delle lettere credenziali di alcuni ambasciatori[13]. “La crisi finanziaria che stiamo attraversando”, dice il Papa, “ci fa dimenticare la sua prima origine, situata in una profonda crisi antropologica. Nella negazione del primato dell’uomo! Abbiamo creato nuovi idoli. L’adorazione dell’antico vitello d’oro (cfr. Es. 32, 15-34) ha trovato una nuova e spietata immagine nel feticismo del danaro e nella dittatura dell’economia senza volto né scopo realmente umano…..Mentre il reddito di una minoranza cresce in maniera esponenziale, quello della maggioranza si indebolisce. Questo squilibrio deriva da ideologie che promuovono l’autonomia assoluta dei mercati e la speculazione finanziaria, negando così il diritto di controllo agli Stati pur incaricati di provvedere al bene comune. Si instaura una nuova tirannia invisibile, a volte virtuale, che impone unilateralmente e senza rimedio possibile le sue leggi e le sue regole. Inoltre, l’indebitamento ed il credito allontanano i Paesi dalla loro economia reale ed i cittadini dal loro potere d’acquisto reale. A ciò si aggiungono, oltretutto, una corruzione tentacolare e un’evasione fiscale egoista che hanno assunto dimensioni mondiali. La volontà di potenza e di possesso è diventata senza limiti”.
Mai analisi fu più acuta e più scientificamente fondata di questa. C’è la condanna espressa della ideologia neoliberista che vede nel mercato la soluzione di tutti i problemi. E’ posto in evidenza come il mercato arricchisce i ricchi ed impoverisce i poveri, e come da “mercato reale” sia diventato un mercato essenzialmente finanziario. Non si ha timore di porre chiaramente in evidenza che causa prima ed efficiente di questa tragica situazione è “la assoluta autonomia dei mercati e speculazione finanziaria”, definite “una nuova tirannia invisibile”. Si sottolinea come nel sottofondo di tutto questo ci sia una gravissima malattia di carattere morale, individuale e sociale, la “corruzione”, “la volontà di potenza e di possesso”.
2. – “L’antisovrano”.
Ed è proprio in questo preciso ordine di idee che si inserisce, sul piano del diritto, il fondamentale contributo scientifico di un laico, Massimo Luciani, il quale, per sussumere in un solo concetto i fenomeni di cui parliamo, si è riferito alla figura “dell’antisovrano”, e cioè di “un quid che in tutto e per tutto si contrappone al sovrano da noi tradizionalmente conosciuto. “Non è un soggetto (ma semmai una pluralità di soggetti); non dichiara la propria aspirazione all’assoluta discrezionalità nell’esercizio del proprio potere (cerca anzi di presentare le proprie decisioni come logiche deduzioni da leggi generali oggettive, quali pretendono di essere quelle dell’economia e dello sviluppo); non reclama una legittimazione trascendente (che sia la volontà di Dio oppure l’idea dell’eguaglianza degli uomini), ma immanente (gli interessi dell’economia e dello sviluppo, appunto); non pretende di ordinare un gruppo sociale dotato almeno di un minimum di omogeneità (il popolo di una nazione), ma una pluralità indistinta, anzi la totalità dei gruppi sociali (tutti i popoli di tutto il mondo che ritiene meritevole di interesse); non vuole essere l’espressione di una volontà di eguali formata dal basso (si tratta infatti di un insieme di strutture sostanzialmente e talora formalmente organizzata su base timocratica)…. L’antisovrano si arroga un potere senza averne il legittimo titolo…. è detentore di un potere che aspira ad essere universale, ed è l’agente che determina la crisi del mondo come l’abbiamo fino ad oggi conosciuto. Un antisovrano, dunque, dal punto di vista concettuale, ma inevitabilmente anche dal punto di vista pratico, perché l’affermazione del suo potere presuppone proprio che l’antico sovrano nazionale sia annichilito”[14].
Essenziale è l’affermazione secondo la quale l’antisovrano “si arroga un potere senza avere un legittimo titolo….e che aspira ad essere universale”.
Dunque, il problema che ci si pone è se si vuole restare soggetti ad un potere che non ha titolo giuridico per esistere, ovvero si vuol fare valere la forza del diritto contro la sopraffazione bruta del danaro. E la nostra Costituzione, come si diceva, offre dei capisaldi importantissimi per far valere il diritto e l’equità.
Limitandoci a ciò che può fare l’Italia, appare evidente che è da eliminare innanzitutto l’estrema anomalia di sistema prodotta dalla citata legge n. 130 del 1999.
Si tratta di una legge palesemente incostituzionale sotto vari profili. Innanzitutto essa contrasta con il principio della “stabilità dell’economia”, di cui è espressione il riferimento “all’unità ed alla indivisibilità della Repubblica” (art. 5 Cost.), nonché il riferimento “all’unità giuridica ed economica” della Nazione, di cui all’art. 120 Cost.
Ma soprattutto si tratta di una legge che incredibilmente tende a “deprimere” la salvaguardia del “valore costituzionale del lavoro”, considerato che, come si è visto, l’instabilità economica si riflette ineluttabilmente sul lavoro delle imprese e, quindi, “sull’occupazione”. In questa prospettiva, le violazioni costituzionali sono davvero enormi. Lo stesso art. 1 della Costituzione, secondo il quale l’Italia è “una Repubblica democratica fondata sul lavoro” ne viene fortemente colpito. Di pari violazione è inoltre vittima l’art. 4 comma 1, Cost., secondo il quale “la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto”. Altrettanto plateale è la violazione dell’art. 35 Cost., secondo il quale “la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”. E, lo si creda, l’elenco potrebbe continuare, citando, ad esempio, l’effetto negativo che le cartolarizzazioni producono sulla “proprietà pubblica e privata”, di cui all’art. 42 Cost. Detto in una parola, si tratta di una legge in pieno contrasto con i principi fondanti della nostra Costituzione, poiché essa pone come “valore”, non lo sviluppo della “persona umana” e quindi “il lavoro dell’uomo”, ma il concetto capitalistico del “massimo profitto” individuale.
3. – Illegittimità della speculazione finanziaria.
Superata questa prima difficoltà, resta da dimostrare quanto l’azione dell’antisovrano contrasti con la nostra Costituzione repubblicana e con i Trattati europei.
A ben vedere, in contrasto con la Costituzione sono, non solo il regime delle “cartolarizzazioni”, ma l’insieme delle “transazioni finanziarie speculative”, che, mirando, non a produrre, ma a raschiare la ricchezza esistente in proprietà collettiva della Comunità nazionale, hanno certamente una finalità illecita e sono dunque “nulle per illiceità della causa”. E tutto questo a prescindere dalle eventuali illiceità penali scaturenti dagli accordi tra più speculatori finanziari, come prevede l’art. 501 del vigente codice penale.
Ne consegue che da negoziazioni prive di valore giuridico non possono scaturire validi “giudizi di mercato”, in base ai quali si stabiliscono i “prezzi di mercato”.
E, date queste premesse, appare del tutto evidente che anche i cosiddetti “spread” non sono affatto attendibili. Come poco sopra si accennava, gli speculatori finanziari agiscono nel loro personale interesse, indipendentemente da qualsiasi riferimento all’economia reale di un Paese, e la loro “determinazione” dei tassi di interesse che ciascun Paese deve pagare sul proprio debito pubblico, non deriva da valutazioni puramente economiche, cioè dall’applicazione della legge naturale della domanda e dell’offerta, ma da una arbitraria, e spesso concordata, scelta degli stessi speculatori finanziari. D’altro canto, in un mercato finanziario, che ha definitivamente perduto la finalità di investire in attività produttive di beni reali, ed investe invece in operazioni finanziarie per scopi soltanto speculativi, che hanno come risultato l’instabilità dei prezzi e l’aumento della disoccupazione, quale valore di misurazione dell’economia reale possono avere gli “spread”?
E si deve ricordare in proposito che la speculazione finanziaria, agisce sì sulle quotazioni del mercato secondario, ma finisce per influenzare anche il mercato primario, essendo stato dimostrato che le quotazioni del primo si trasferiscono, nello spazio di tre o sei mesi, anche sul secondo.
Allo stato attuale, non dovrebbero esserci dubbi sulla necessità di “disconoscere” la validità giuridica delle transazioni speculative, dei cosiddetti giudizi di mercato e, in particolare, degli spread.
Riguardo a quest’ultimo sarebbe forse opportuno prevedere una “determinazione” da parte di una Autorità indipendente, che offra la visione di un “differenziale” tra i tassi di interesse sul nostro debito pubblico e quelli della Germania, depurata dal “carico” della speculazione e sia dunque più vicina alla realtà dei fatti. Un documento del genere, periodicamente aggiornato, potrebbe servire a sminuire l’attendibilità degli spread finanziari.
Come si è accennato, problema gravissimo è quello relativo alla “posizione dominante” nella quale, ad opera degli speculatori finanziari (la cui azione, come si è visto, è del tutto inattendibile) è venuta a trovarsi la Germania, la quale insiste nella sua politica di austerity.
Anche qui la situazione che si è creata è del tutto in contrasto con quanto dispongono i Trattati, la nostra Costituzione, le Costituzioni degli Stati europei ed il diritto internazionale consuetudinario e pattizio (Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, divenuto esecutivo nel 1976)[15].
A ben vedere l’insistenza della Germania nella politica di austerity configura una palese violazione dell’art. 82 del Trattato, il quale sancisce l’incompatibilità con il mercato comune dello “sfruttamento abusivo della posizione dominante”. Si tratta di una “incompatibilità” che persegue l’obiettivo enunciato dall’art. 3 del Trattato di garantire che la “concorrenza” non venga falsata. Ed è proprio quello che sta facendo la Germania. Se ciò è vietato per le singole imprese, a maggior ragione deve essere vietato per il comportamento dello Stato tedesco, il quale, così facendo, finisce con il “legittimare” la violazione dei Trattati da parte di tutte le imprese.
A ciò si deve aggiungere che i mercati finanziari, nella loro avidità di guadagno, sono pronti ad aggredire una impresa (agendo sui titoli azionari o obbligazionari) o un intero Paese (agendo sui tassi di interesse sul debito pubblico) al primo sintomo di debolezza imponendo loro maggiori tassi di interesse e rendendo così impossibile qualsiasi possibilità di ripresa.
La politica dell’austerity va proprio in questa direzione. L’Europa, imponendo ai Paesi fortemente indebitati una diminuzione del debito con operazioni puramente contabili, senza tener conto degli effetti recessivi, persegue un fine opposto a quello che proclama: fa aumentare le tassazioni, fa diminuire la liquidità, provoca chiusura di imprese, licenziamenti, disoccupazione, recessione, conseguendo come ultimo risultato l’impossibilità assoluta di diminuire il debito. Insomma, il Paese sotto attacco è senza scampo, è costretto a non investire e ad aumentare la disoccupazione, e, infine, a svendere il proprio territorio.
Ed è da sottolineare che tutto questo, non solo lede quanto prescrive il citato art. 82 del Trattato in ordine “all’abuso della posizione dominante”, ma è altresì in contrasto con il principio fondamentale europeo, ribadito dalla carta di Nizza, della “coesione economica e sociale”[16]. E, a questo punto, il dilemma è insuperabile: o l’Europa recede da questo atteggiamento, oppure saremo costretti ad uscire dall’euro. Come ricorda Vladimiro Giacché[17], “l’uscita dall’euro potrebbe presto essere considerata come la vecchiaia per Maurice Chevalier: una gran brutta cosa, ma sempre migliore dalle alternative”. Soffriremmo del protezionismo da parte degli altri Paesi e dell’inflazione, ma potremmo esercitare la nostra “sovranità monetaria”, agendo su un piano di parità con tutti gli altri Stati del mondo, ed in particolare con gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e il Giappone, i quali, come è noto, hanno risolto i loro problemi stampando moneta.
A questo punto, restringendo l’analisi all’aspetto puramente giuridico riguardante il nostro Paese, balzano in primo piano due fondamentali “errori”, diffusi tra gli studiosi, ma anche nell’immaginario collettivo, dalla cultura borghese e dall’imperante teoria neoliberista. Si tratta, da un lato della nozione dello Stato, come “Persona giuridica” e dall’altro della proclamata esistenza di un solo tipo di “proprietà”, là dove esistono due tipi di proprietà: quella “collettiva”, fondata sulla “sovranità popolare”, e quella “privata”, la quale ha per fondamento la “legge”, cioè una manifestazione di volontà del popolo. E la proprietà collettiva, sia ben chiaro, ha una “precedenza storica”, come dimostra la storia del diritto, ed una “prevalenza giuridica”, come dimostra la nostra Costituzione, specialmente a proposito della disciplina della proprietà privata. Infatti, talune disposizioni costituzionali, come meglio vedremo in seguito, “subordinano” la tutela giuridica della proprietà privata all’interesse pubblico e allo “scopo della funzione sociale”.
E veniamo innanzitutto al concetto di “Stato”, che da più parti si ritiene superato ed in via di estinzione, là dove una indagine sulle fonti del diritto dimostra invece che la fonte principale di questo risiede sempre nella “sovranità” degli Stati, come dimostra a tacer d’altro, proprio l’organizzazione dell‘Unione Europea, che nasce dai “trattati” stipulati dagli Stati membri e vede la sua più alta Istituzione nel “Consiglio”, che ha il più ampio potere normativo, e che ha la natura di un “Organo di Stati”. I quali, fondando tutto sulla propria “sovranità”, stabiliscono quale sia la decisione da prendere nell’interesse della Comunità stessa.
D’altro canto, se si guarda alla nostra Costituzione, si scopre agevolmente che il nostro non è affatto uno “Stato persona giuridica”, come affermava lo Statuto albertino, ma uno “Stato comunità”, che è costituito dai “cittadini sovrani”. In questa visuale, che tarda ad affermarsi persino tra gli studiosi di diritto, lo “Stato persona” è solo la “Pubblica Amministrazione”, la quale, come da tempo ha dimostrato il Sandulli[18], è semplicemente un “organo” dello Stato comunità.
E, per capire l’essenza dello “Stato comunità”, ed in genere della “Comunità politica”, è indispensabile rivolgersi alla storia. Ed, in particolare, alla storia della Costituzione romana[19].
Infatti, fu la Respublica romana, che era costituita dal “Senatus Populusque Romanus”, il primo chiaro esempio di “Stato comunità”, o, se si preferisce, di “Comunità politica”. Ed il dato più importante che emerge dall’analisi storica è che la nascita di questo tipo di Stato si fonda su due concetti chiave (dei quali forse si è persa memoria): quello di “confine” e quello del “rapporto tutto parte”.
E’ innegabile, infatti, che la nascita della “Civitas romana”, e cioè della “Comunità politica di Roma” coincise con la “confinazione”, il fines regere della tradizione[20], con la quale Romolo, o chi per lui, distinse il terreno sul quale doveva sorgere l’urbs dai terreni circostanti, trasformando il terreno confinato in un “territorio”, dal latino “terrae torus”, “letto di terra”, il cui fine fu quello di ospitare l’aggregato umano che su di esso si insediava, prendendo il nome di “populus” (che significa “cittadini in armi”). Nello stesso momento, sorse anche la necessità di “confinare”, e cioè limitare la libertà dei singoli per rendere possibile la convivenza civile, attribuendo al popolo la “sovranità”, cioè la somma dei poteri necessari a perseguire questo fine. Insomma, tracciando il solco di Roma, Romolo dette luogo al nascere di tre elementi: il “territorio”, il “popolo” e la “sovranità”, dalla quale scaturì l’ordinamento giuridico. Ed è da sottolineare che, attraverso la “confinazione”, si dette luogo anche alla nascita del “primordiale rapporto giuridico di appartenenza”, quello della “proprietà collettiva del territorio”. Un rapporto che, come dimostra la stessa indagine filologica del termine (terrae torus), non fu affatto un rapporto di “dominio pieno ed esclusivo”, ma un rapporto quasi personale di appartenenza, come quello che normalmente si instaura tra un individuo ed il proprio letto
Ma non basta. Occorre porre in evidenza, come si accennava, che caratteristica fondamentale di quell’aggregato umano (detto in un primo momento “Civitas Quiritium”, ed in un secondo momento, e cioè dopo l’avvento dei re etruschi, “Urbs Roma”, dall’etrusco “rumen”, che vuol dire “fiume”), fu il forte senso di “solidarietà”[21] che legava gli uni agli altri, per cui, mutuando un concetto derivato dalla filosofia ellenistica di Empedocle di Agrigento e di Pitagora di Siracusa[22], secondo il quale “l’uomo è parte del Cosmo”, ogni cittadino fu considerato “parte strutturale” della Comunità politica[23], al punto di poter agire in giudizio per tutelare non solo gli intessi propri, ma anche, e nello stesso momento, gli interessi di tutti gli altri cittadini, senza ricorrere al concetto di “rappresentanza”. E fu proprio questa idea, questo profondo senso di solidarietà, che, come pose in evidenza Cicerone, fece grande Roma.
7. – La “precedenza storica” della proprietà collettiva sulla proprietà privata.
Venendo al tema della “proprietà”, il dato più importante è costituito dal fatto che a Roma la “proprietà collettiva”, che spettava al popolo a titolo di “sovranità”, “precedette” di ben sette secoli la proprietà privata, individuabile nel concetto di “dominium ex iure Quiritium”, nato, dopo una tormentata elaborazione della giurisprudenza, alla fine del II secolo a. C.[24], o addirittura agli albori del primo secolo a.C.
E’ da tener presente, comunque, che, per il trasferimento a singoli privati di “parti” del territorio comune, fu sempre necessario un “atto sovrano” di disposizione, che, in un primo momento si concreò nella “divisio” dell’ “ager publicus”, operata da Numa Pompilio tra i patres familiarum, a titolo di “mancipium” (che fu cosa ben diversa dall’attuale proprietà privata), lasciando peraltro buona parte del territorio in uso comune di tutti, l’ager compascuus, ed in un secondo momento nella lex centuriata o nel plebiscitum, che sempre precedettero il noto cerimoniale di origine etrusca della “divisio et adsignatio agrorum” ai veterani dell’esercito, a titolo di “possessio”.
Dunque, come si diceva, la proprietà privata derivò dalla proprietà comune e collettiva del popolo, fu una “cessione” a privati di parti del territorio in proprietà al popolo, mentre taluni beni, come l’ager compascuus, venivano “riservati” all’uso comune di tutti, mantenendo il carattere di “appartenenza sovrana al popolo”. Ed è da sottolineare in proposito che la giurisprudenza classica trovò un sistema ineguagliabile per tutelare l’uso comune dei beni riservati al popolo: li definì “res extra commercium” (ciò che è di tutti non può essere dato ad alcuno), a differenza dei beni privati, definiti “in commercio”[25].
8. – La “prevalenza giuridico costituzionale” della proprietà collettiva sulla proprietà privata.
Alla “precedenza storica” della proprietà collettiva sulla proprietà privata, si accompagna, sul piano della vigente Costituzione repubblicana” la “prevalenza costituzionale e giuridica” della prima sulla seconda.
Lo chiarisce l’art. 42 della Costituzione, secondo il quale “la proprietà privata è riconosciuta dalla legge….allo scopo di assicurarne la funzione sociale”, sancendo la “prevalenza” dell’interesse pubblico sull’interesse privato, e prevedendo che quest’ultimo è giuridicamente tutelato soltanto se ed in quanto “assicura” “lo scopo” della “funzione sociale”, rende cioè tutti partecipi dei benefici che provengono dalle attività produttive.
Il principio della prevalenza dell’interesse pubblico sull’interesse privato è ribadito, inoltre, dall’art. 41 della Costituzione, riguardante “l’iniziativa economica privata” e cioè l’attività negoziale che il proprietario pone in essere per disporre della proprietà privata, e cioè per acquisire o vendere la proprietà dei beni economici.
Si legge in detto articolo che “L’iniziativa economica privata è libera”. “Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo di recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Come si nota, alla “funzione sociale” dell’art. 42 Cost., fa riscontro “l’utilità sociale”, di cui al precedente art. 41 Cost.
Ma non è tutto. Questa “prevalenza” dell’interesse pubblico sull’interesse privato, va coniugata con la “distinzione” tra “proprietà pubblica” e “proprietà privata”, di cui al primo alinea del citato art. 42 Cost., secondo il quale “la proprietà è pubblica e privata”.
In sostanza, dal combinato disposto delle citate disposizioni emerge con estrema chiarezza che la nostra Costituzione, non prevede affatto un solo tipo di proprietà, ma due tipi: quella pubblica e quella privata, sancendo, nello stesso tempo, la “prevalenza della prima sulla seconda”. Insomma, i “limiti” alla proprietà di cui pure parla l’art. 42 della Costituzione, affermando che “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento ed i limiti”, riguardano soltanto la proprietà privata, come è espressamente detto, e non la proprietà pubblica, la quale, in questo contesto, si identifica con la “proprietà collettiva demaniale”, che spetta al popolo a titolo di sovranità, come da tempo affermato da Massimo Severo Giannini[26].
Questa distinzione, inoltre, è stata chiarita da tempo dal Regolamento di contabilità generale dello Stato, approvato con R.D. 4 maggio 1885, n. 3074, il quale affermava testualmente: “I beni dello Stato si distinguono in demanio pubblico e beni patrimoniali. Costituiscono il demanio pubblico i beni che sono in potere dello Stato a titolo di sovranità, e formano il patrimonio quelli che allo Stato appartengono a titolo di proprietà privata” [27].
Insomma, la “dinamica giuridica” che segue la Costituzione ripete puntualmente la stessa dinamica che si è svolta storicamente. All’inizio, l’intero territorio appartiene al popolo a titolo di “sovranità”. In seguito, parte del territorio viene, con “legge”, “riservato” all’uso diretto della popolazione, restando “proprietà collettiva demaniale” come res extra commercium, e cioè come beni “inalienabili, inusucapibili ed in espropriabili” e parte viene “ceduta” a privati, diventando oggetto di “proprietà privata”.
Alla fine di questo discorso emerge un’indiscutibile verità. Se è vero, come è vero, che la “proprietà collettiva” “prevale” su quella privata e quest’ultima è storicamente “derivata” dalla prima, si deve necessariamente ammettere che la Costituzione ha operato un “capovolgimento” delle tradizionali concezioni borghesi e neocapitalistiche sulla proprietà. E’ questa che costituisce un “limite alla proprietà collettiva” ed all’interesse pubblico e non viceversa. Continuare a parlare di “limiti alla proprietà privata” è, dunque, un anacronismo: occorrerebbe parlare soltanto di “disciplina giuridica” della proprietà privata, avendo questa perso, nella visuale costituzionale, quel carattere di “inviolabilità”, e quindi di “preesistenza” rispetto all’ordinamento giuridico, che le assicurava lo Statuto albertino. Inviolabile è la “proprietà collettiva demaniale”, in quanto fondata sulla “sovranità”, non la “proprietà privata”, che in tanto esiste, in quanto è garantita e disciplinata dalla “legge”.
9. – Il cosiddetto “ius aedificandi”.
Sul piano pratico, c’è una importantisima conseguenza da sottolineare. Se la “proprietà collettiva” “prevale” su quella privata, ed il contenuto della proprietà privata è soltanto quello previsto dalla “legge”, davvero non c’è più alcuna possibilità di riconoscere il “ius aedificandi”, come insito nel diritto di proprietà privata. Il diritto di edificare è rimasto nei “poteri sovrani del popolo”, rientra cioè nei contenuti della proprietà collettiva del territorio e non risulta affatto “ceduto” a privati con la “cessione” di parti del territorio a singoli cittadini.
Quando ci lamentiamo degli scempi paesaggistici, della cementificazione, delle distruzioni della natura non possiamo limitarci alla “denuncia”: è un nostro “diritto di proprietà collettiva” che è stato leso, e questo diritto è ben più grande e più tutelato del diritto di proprietà privata. E, comunque, come si è detto, il ius aedificandi non ha nulla a che vedere con il diritto di proprietà privata. Non c’è nessuna disposizione del codice civile che lo preveda e lo si è fatto discendere dal semplice convincimento che la proprietà si estenda “usque ad coelum et usque ad inferos”. Questo poteva valere per il “dominium ex iure Quiritium”, non certo per il moderno concetto di “proprietà privata”, che, da sempre ha dovuto fare i conti con i “limiti posti dall’ordinamento giuridico”. Il diritto di superficie è distinto dal diritto di proprietà e, d’altronde, le leggi urbanistiche consentono l’edificazione solo a seguito di una “concessione”, malamente ridenominata, anche a seguito di una discutibile sentenza della Corte costituzionale sulla cosiddetta legge Bucalossi, “permesso di costruire”. Tutto questo perché la cultura borghese e neoliberista si è tenacemente opposta all’idea stessa della “proprietà collettiva del territorio”, che è invece viva e presente nel nostro ordinamento costituzionale e costituisce la sede propria di questo supposto “diritto di costruire”, che, per sua natura non può appartenere a singoli soggetti, ma a tutta la società.
10. - Il concetto di “territorio”.
Abbiamo sinora parlato più volte di “territorio” ed è evidente che, a questo punto si rende necessaria, prima di procedere oltre, ad una sua definizione.
Come si è visto, per i Romani, e da un punto di vista puramente materiale, il territorio è una “porzione di terra”, confinata dai terreni circostanti. L’idea si è puntualmente trasferita in epoca moderna, sennonché i diffusi inquinamenti dell’aria, delle acque e del suolo consigliano di considerare la terra in una visuale più completa e cioè come “ambiente”, meglio si direbbe, come ha affermato la Corte costituzionale, come “biosfera”[28], in modo da far rientrare in questo concetto, oltre il suolo ed il sottosuolo, tutto ciò che esiste sul soprassuolo, e cioè l’atmosfera, le acque, la vegetazione e le stesse opere ed attività dell’uomo.
Ciò che deve essere innanzitutto sottolineato è che il territorio è un “bene comune unitario”, formato da “più beni comuni”, in “appartenenza” comune e collettiva. Ed è da precisare, inoltre, che, appartenendo al popolo, ed essendo il popolo una entità in continuo mutamento per l’alternarsi della vita e della morte dei singoli individui, anche il “territorio”, come il popolo, deve essere considerato nel suo aspetto dinamico, e cioè tenendo conto dei mutamenti che si realizzano nel tempo, e soprattutto del fatto che esso deve necessariamente appartenere, non solo alla presente, ma anche alle future generazioni. Del resto, come è noto, popolo e territorio, insieme con la sovranità, sono “parti costitutive” della medesima “Comunità politica”.
D’altro canto, occorre tener presente che oggi esistono tutte le premesse per considerare il territorio, non solo come una entità materiale comprendente il suolo, il sottosuolo e tutto ciò che è sul soprassuolo, compreso i beni artistici e storici creati dall’uomo, come diffusamente, e giustamente, si ritiene, ma ci si può spingere più avanti facendo rientrare nel concetto di territorio anche entità immateriali e le stesse attività umane che sul territorio si svolgono. In ultima analisi, tutti quegli elementi che determinano il modo di vivere, ed in ultima analisi il tenore di vita, del popolo che quel territorio abita.
Si pensi alle opere dell’ingegno: alle invenzioni, tutelate con i brevetti, o alle opere letterarie, tutelate dal diritto di autore; o alle conoscenze ed ai saperi rinvenibili sul web. E si pensi, in estrema sintesi, alla “cultura”[29], non solo quella degli intellettuali, ma anche quella popolare[30], e, quindi, al complesso di idee che guidano le azioni degli individui e delle Nazioni nella vita di tutti i giorni.
E si pensi soprattutto all’influenza che hanno sul territorio le istituzioni della comunità politica, e cioè alla forma di Stato ed al relativo “ordinamento giuridico”, nonché alla forza spesso sconvolgente che esercitano sul territorio l’economia, la finanza, i mercati.
Il “territorio”, in altri termini, appare come uno “spazio di libertà” entro il quale trovano possibilità di svolgimento le capacità ed i caratteri dei singoli e della collettività considerata nel suo insieme, considerata soprattutto in quelle specificità culturali che caratterizzano un popolo, e che si estrinsecano, come si diceva, nella cultura e in ciò che da questa deriva.
Ne consegue che l’odierna cosiddetta “globalizzazione” non può e non deve prescindere dalla distinzione dell’intera superficie terrestre in vari “territori”, intesi come luoghi nei quali si esplicano le specifiche caratteristiche dei diversi “popoli”. La globalizzazione implica la “transitabilità” dei confini, non la soppressione dei singoli territori in vista di un unico territorio costituito da tutta la terra. A parte la considerazione che una cosa del genere è solo immaginabile, ma, almeno al momento, assolutamente irrealizzabile, resta il fatto che la perdita delle caratteristiche proprie dei vari territori e, quindi, dei vari popoli, sarebbe solo una perdita immensa di ricchezze naturali e culturali. Occorre, dunque, “difendere i territori”, poiché, è bene ripeterlo, essi costituiscono “spazi di libertà” per il pieno sviluppo delle singole persone e per il progresso materiale e spirituale della società.
11. – Lo sviluppo economico nella “dinamica costituzionale”.
E veniamo a quella che abbiamo denominato la “dinamica costituzionale”, e cioè all’insieme delle disposizioni che la nostra vigente Costituzione repubblicana prevede per lo “sviluppo economico” della nostra società.
Ed al riguardo è importante precisare che la nostra Costituzione parte dall’idea di comune esperienza secondo cui la ricchezza proviene da “due fattori”: “le risorse della terra” ed “il lavoro dell’uomo”. Infatti “due sono gli obiettivi” che la stessa si propone di raggiungere: a) “tutelare il territorio”; b) “proteggere il lavoro”. Ed è molto significativo, in proposito, il fatto che il Titolo III, Parte prima, della Costituzione, dedicato ai “Rapporti economici”, è in pratica dedicato, sia alla tutela del territorio, sia alla tutela del lavoro.
In particolare parlano del territorio l’art. 42, primo comma, secondo il quale “la proprietà è pubblica e privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti e a privati”, nonché l’art. 44, primo alinea, secondo il quale occorre “conseguire il razionale sfruttamento del suolo”. Parlano invece di lavoro, l’art. 35, secondo il quale “la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”, l’art. 36, secondo il quale “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro ed in ogni caso sufficiente a assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”, nonché l’art. 38, importante per l’affermazione di principio secondo cui tutti devono lavorare, ed è esentato da questo dovere soltanto “il cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere”, per il quale è previsto il “diritto al mantenimento ed all’assistenza sociale”.
Il quadro costituzionale, relativo ai due essenziali fattori della produzione, tuttavia, non si ferma qui. Basti pensare, quanto alla difesa del territorio, al riferimento dell’art. 9 alla tutela del paesaggio e dei beni artistici e storici[31], nonché alla disposizione dell’art. 52 Cost., secondo il quale “la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”. E, per quanto riguarda il fattore lavoro[32], al primo alinea dell’art. 1 della Costituzione, secondo il quale “l’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”, nonché all’art. 4, primo comma Cost., secondo il quale “la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”.
Tutela del territorio, e cioè delle risorse della terra[33], e tutela del lavoro, e cioè della piena occupazione, sono, dunque, obiettivi fondamentali della nostra Carta costituzionale.
Come perseguire questi due obiettivi è specificato nel citato Titolo III, della Parte prima, Cost.
In questo titolo si prevede, innanzitutto, all’art. 43 Cost., un intervento pubblico nell’economia principalmente in relazione alle “imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazione di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale”, precisandosi che “a fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese categorie di imprese”.
Insomma, il principio è che le imprese strategiche debbono essere in mano pubblica e che non è accettabile rimettere alla speculazione privata la produzione di beni e servizi primari per la vita del Paese.
Questo punto essenziale è stato travolto dalle numerose e dannosissime “privatizzazioni”, che hanno privato l’Italia, in breve periodo, del 50 per cento delle imprese, sospingendola verso una irrimediabile miseria, propedeutica ad un finale ed irreparabile disastro economico e sociale.
Altro punto strategico proprio della nostra “dinamica costituzionale” consiste nell’aver “separato” la piccola e media proprietà, come la proprietà coltivatrice diretta e la proprietà della prima casa (artt. 44 e 47 Cost.), dalla proprietà la cui produzione eccede le strette esigenze di vita e sono in grado di far crescere la “produzione nazionale”.
Per questo tipo di proprietà, come si è già accennato, la stessa tutela giuridica è condizionata all’assolvimento della “funzione sociale”, cioè all’obbligo di dar spazio all’ “occupazione” ed alla “produzione” di beni che possano soddisfare i bisogni di tutti.
Quest’obbligo è sancito in modo espresso e con piena “precettività” dal citato art. 42 Cost., in base al quale, si ripete, “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge… allo scopo di assicurarne la funzione sociale”. E’ una norma universalmente riconosciuta in dottrina come “norma precettiva di ordine pubblico economico”, la quale, tuttavia, anche a causa di talune discutibili sentenze della Corte costituzionale, è rimasta del tutto “inapplicata”. Lo dimostrano il continuo e dannosissimo ricorso alle “chiusure e delocalizzazioni” di “imprese” desiderose solo di maggiori profitti, nonché la massa enorme di “immobili” e soprattutto di “terreni” “abbandonati” dai loro proprietari.
Al riguardo, è la stessa Costituzione che ci offre il rimedio. Se è vero, come è vero, che la “tutela giuridica” della proprietà privata è condizionala alla “funzione sociale”, il venir meno di quest’ultima, fa venir meno anche la tutela giuridica e, di conseguenza, vien meno il “diritto di proprietà privata” ed anche, e necessariamente, qualsiasi diritto di “indennizzo”, visto che non esiste più il diritto da indennizzare.
Si verifica, insomma, un “effetto automatico”, per il quale, il bene originariamente appartenente a tutti, e da tutti “ceduto”, mediante legge, ad un singolo individuo, torna con tutta evidenza nella proprietà collettiva di tutti.
Dunque, nel caso dell’abbandono, di terreni ed immobili, che ha un suo precedente storico “nell’ager desertus” della tarda Roma imperiale, implica il dovere, meglio si direbbe il “munus”, dell’autorità pubblica di riscrivere contabilmente nella proprietà pubblica e collettiva dalla stessa amministrata il bene di cui si discute, a ciò provvedendo, dopo la necessaria “diffida” ad adempiere al proprietario. Si tratta, in sostanza, di rileggere attraverso una “interpretazione costituzionalmente orientata”, quanto è già scritto nell’art. 838 del codice civile in relazione ai terreni abbandonati, tenendo conto, come poco sopra si accennava, che il “meccanismo giuridico” previsto dalle sopra ricordate “disposizioni costituzionali” di ordine pubblico economico” implica il venir meno, insieme con il diritto di proprietà, anche del conseguente diritto all’indennizzo.
C’è poi un ultimo punto molto importante da tener presente nell’analisi di questa “dinamica costituzionale”: è la “partecipazione” del cittadino alla “funzione amministrativa” normalmente affidata alla pubblica amministrazione. Infatti, come è noto, mentre la funzione legislativa è riservata al Parlamento e quella giudiziaria è riservata all’Autorità giudiziaria, la funzione amministrativa non è riservata alla P. A., ma condivisa da questa, con enti e con soggetti privati.
La disposizione principe in proposito è quella dell’art. 3, comma secondo, Cost., secondo il quale è compito della Repubblica assicurare “l’effettiva partecipazione di tutti i cittadini all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. E “partecipare” alla ”organizzazione”, in termini giuridici, vuol dire proprio partecipare all’azione amministrativa dei pubblici poteri. E parlare di “lavoratori” vuol dire parlare di tutti i cittadini, poiché, come si è visto, per la Costituzione non esistono i “fannulloni”: o si ha la capacità di lavorare e si “deve” lavorare, o si è “inabili al lavoro” ed allora si ha diritto al mantenimento ed all’assistenza sociale.
Accanto a questo principio a carattere generale, la Costituzione fa ricorso alla “partecipazione” anche nel citato art. 43, nel quale, come si è detto, si affida la gestione di imprese o di categorie di imprese “di preminente interesse generale” anche a “comunità di lavoratori o di utenti”, e cioè ad entità giuridiche diverse dalla pubblica amministrazione.
Di “partecipazione” infine parla diffusamente e con precisione l’ultimo comma dell’art. 118 del rinnovato Titolo V della Costituzione, nel quale si legge che ”Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e “comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli o associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”. Qui addirittura si afferma che l’iniziativa dei cittadini in tema di funzioni amministrative dovrebbe precedere, in casi di estrema vicinanza agli interessi del popolo, l’azione dei pubblici poteri: questo e non altro significa il ricorso al concetto di “sussidiarietà”.
In tema di “partecipazione”, occorre ricordare che, in base alla costruzione che abbiamo descritto della “Comunità politica”, il “cittadino è parte costitutiva” del popolo, e come tale può e deve agire, con un’azione popolare, nell’interesse proprio e di tutti gli altri.
Questo principio sembra sia stato accolto dalle Sezioni unite della Corte di cassazione e dalla Corte costituzionale (delle quali non disponiamo ancora delle relative sentenze), nel noto caso dell’azione promossa da un semplice cittadino per ottenere la cancellazione della legge elettorale, cosiddetta “porcellum”. Se così fosse, l’azione popolare, sarebbe diventata oggi una sicura realtà[34].
12. - Conclusione.
Salvare il territorio e salvare il lavoro di tutti, in ultima analisi, richiede, secondo la Costituzione, l’intervento di tutti. Ed è evidente che è in nostro potere salvare innanzitutto il nostro “territorio”, e cioè “le risorse” che la Terra, la “iustissima tellus”, abbondantemente ci offre.
Uno, dunque, è l’imperativo categorico che si impone per vincere la cosiddetta crisi finanziaria: “tornare alla terra”. Alla “nostra terra”, che è ricchissima di caratteristiche particolari, come la bellezza del paesaggio e la feracità dei suoi terreni coltivabili. Tornare alla Terra, tra l’altro, significa anche far rivivere le caratteristiche proprie del nostro popolo, universalmente riconosciute nella “creatività” e nel “culto della bellezza”, vuol dire anche impegnarsi nella ricerca, nella cultura e nelle attività produttive di beni reali.
Dunque, una volta assicurate in mano nostra le cosiddette “industrie strategiche”, occorre dedicarsi all’agricoltura, all’artigianato (protetto dal comma secondo dell’art. 45 Cost.), al turismo, e, come si diceva, cominciare da una grande opera pubblica di ristabilimento dell’equilibrio idrogeologico della nostra Italia.
In tal modo potremo vincere anche la pervicace speculazione finanziaria internazionale, e saremo in grado di tornare al “mercato reale”, rendendo produttivo il nostro impareggiabile territorio nazionale.
«Il disegno di legge Che Contiene il consumo di Suolo e Stato approvato. Ma Contiene Tutte le trappole Tecniche per rallentarne l'Efficacia MENTRE continua la corsa del cemento ». Il Manifesto, 10 gennaio 2014
E Di QUESTI giorni il sì al disegno di legge sul "Contenimento del consumo del Suolo e riuso del Suolo edificato", Proposto dal Ministero delle Politiche agricole alimentari e Forestali. Epoca La Proposta Già approdata in Consiglio dei Ministri a giugno (2013), ora has been approvata Dalla Conferenza unificata, COMPOSTA da soggetti dell'Apparato statale e da Quelli appartenenti alle autonomie locali, e Dallo Stesso Consiglio.
L'Atto Poteva costituire un passo Importanti, Perché Finalmente il Governo non solista Discute ma cerca di trattare operativamente il Problema del consumo di suolo.Tuttavia la stesura finale del Provvedimento risulta largamente Insufficiente, in Quanto conserva TUTTI GLI Elementi contraddittori Già Presenti Nella bozza originaria e Oggetto di svariate Critiche da Più parti Perchè Tali da indebolire, fino a Bon Voyage vanificarne le Migliori Opzioni, l'Efficacia del Provvedimento.
Accanto a quest'ordine di rilevamenti emergono clamorosamente i Dati Informazioni relative alle stanze Vuote ed ai Volumi Commerciali ed industriali inutilizzati: per le prime siamo un circa venti Milioni, MENTRE I Secondi Ormai superano il miliardo di metri cubi (TRA Qualche settimana Saranno i Dati ufficiali dell'ultimo censimento). Di fronte un racconto Situazione, si invocava Una legge sul Blocco del consumo di Suolo Che Fosse veramente racconto: escludendo Qualsiasi nuova edificazione, un Meno di Casi particolarissimi; fornendo ai Piani urbanistici Chiare Strumentazioni per ridurre o azzerare i DIRITTI edificatori Già acquisiti, specie in Contesti Già segnati da forte sovrabbondanza di offerta; cancellando la possibilita Che le leggi "di emergenza" berlusconiane (la Legge Obiettivo per le Infrastrutture, Quelle speciali per energia, Rifiuti, depurazione, ecc.) potessero aggirare la STESSA Pianificazione, Anche paesaggistica, determinando con forza Il Recupero - Anziché Le Nuove costruzioni - Nella Direzione delle Nuove Politiche urbane e territoriali.
Il Provvedimento invece ha tralasciato di dettagliare QUESTI avvertimento, mantenendo TUTTI GLI Elementi di confusione e Contraddizione denunciati. Nel paese un venire l'Italia colomba, venire sosteneva un giugno di quest'anno la STESSA ministra Nunzia De Girolamo «Ogni Giorno impermeabilizziamo Più o Meno l'Equivalente di 150 campi da calcio» e Dove c'è Stato un «Aumento del 166 % del territorio edificato in Italia NEGLI Ultimi 50 anni ».
Nella Normativa infatti emergono Chiaramente i Punti controversi. In fondo al comma 1 dell'art.3 del Ddl sul contenimento del consumo di Suolo: «e determinata l'Estensione Massima di superficie agricola consumabile sul territorio nazionale, nell'obiettivo di Una progressiva RIDUZIONE del consumo di Suolo di superficie agricola». This Principio rientra nell'ottica europea del «traguardo di un Incremento dell'occupazione netta di terreno pari a da Raggiungere Entro il 2050 pari a zero». Ma Se da un lato l'Europa SEMBRA essersi accorta del Problema, dall'altro lato SEMBRA non Aver Ancora capito l'Entità dell'emergenza. «Dal rapporto Panoramica su di buone pratiche per limitare l'impermeabilizzazione del suolo e mitigatin suoi effetti, Presentato per la prima volta in Italia Dalla Commissione Europea Durante il convegno ISPRA» del 5 febbraio 2013, «circa il 2,3% del territorio continentale E ricoperto da cemento . Dai 1.000 kmq stimati nel 2011 Dalla Commissione Europea - Estensione Che Supera la superficie della città di Berlino - circa 275 al giorno (1990 e il 2000), Si e Passati: ai 920 kmq l'anno (252 ettari al giorno) in soli 6 anni (2000-2006) ».
Chi si profes di territorio e di urbanistica in Italia sa, e non C'è Dubbio alcuno, Che un orizzonte del Genere, cioè Quello del 2050, potrebbe rivelarsi inefficace per avviare Una vera alternativa allo Spreco del territorio agricolo e non. Tempi troppo lunghi per un'attuazione Che dovrebbe avvenire, se non immediatamente, al massimo in Uno spazio di Qualche anno.
Sostiene l'Ispra Che «il consumo di Suolo in Italia e cresciuto at a supporto di 8 mq al Secondo e la serie storica Dimostra che sì Tratta di un Processo Che dal 1956 non CONOSCE battute d'Arresto. Si e Passati dal 2,8% del 1956 al 6,9% del 2010, con un Incremento di 4 Punti percentuali. In Altre parole, have been Consumati, nei media, più di 7 mq al Secondo per Oltre 50 anni »(Comunicato Stampa Ispra - L'Italia Perde terreno Consumati 8 mq al Secondo di Suolo).
E Ancora «Il Fenomeno e Stato Più rapido NEGLI anni '90, in cui si Periodo Sono sfiorati i 10 mq al secondo, ma il ritmo degli Ultimi 5 anni si Conferma sempre accelerato, con Una Velocità superiore Agli 8 mq al Secondo» (Comunicato Stampa Ispra - L'Italia Perde terreno Consumati 8 mq al Secondo di Suolo).
Ci si porta Dietro tutto il peso degli Errori Passati venire Si Può Facilmente Capire all'art. 9 del Ddl: «(...) A decorrere Dalla dati di entrata in Vigore della presente Nome legge (...), e comunque non Oltre il Termine di tre anni, non E Consentito il consumo di superficie agricola TRANNE Che per la Realizzazione di Interventi Già autorizzati e Previsti Dagli Strumenti urbanistici vigenti, nonche per i Lavori e le opere Già inseriti NEGLI Strumenti di Programmazione delle Stazioni appaltanti e nel Programma di cui all'articolo 1 della legge 21 dicembre 2001, n. 443 ». E la legge n.443 altro Non E Che la cosiddetta "Legge Obiettivo". Come a dire, sollecitare change Le nostre azioni, ma con calma Non C'è poi Così fretta. Un pericoloso controsenso.
Difendiamo una legge che impedisce lo spreco assurdo del consumo di suolo. Il "blocco edilizio" vorrebbe rinviarla, moderarla, mitigarla, svuotarla. In una parola, proseguire la devastazione del patrimonio comune. Le prime adesioni a un appello promosso da eddyburg, aggiornate al 17dicembre
Perché sia rapidamente approvata
la proposta di legge urbanistica della Toscana
Siamo venuti a Firenze da altre città e altre regioni. Analizzando e discutendo la proposta di legge in materia di urbanistica e di governo del territorio abbiamo imparato molto su come si può fare per combattere davvero il consumo di suolo, cioè l’espansione dell’urbanizzazione (la “repellente crosta di cemento e asfalto”) sull’intero territorio nazionale. Il blocco dell’espansione è un obiettivo che molti dicono di voler raggiungere ma le intenzioni diventano efficaci solo se ad esse seguono i fatti. Quando si tratta del territorio i primi fatti sono le regole.
Le regole per il buon governo proposte dalla Giunta della Regione Toscana ci sembrano esemplari. Vorremmo che fossero presto approvate, per almeno due ragioni: perché consentono di bloccare subito la dilapidazione di una risorsa – lo spazio aperto – indispensabile per il futuro della Toscana e prezioso per tutta l’umanità presente e futura; perché sono un esempio per le altre istituzioni elettive che hanno responsabilità in proposito: dal Parlamento nazionale ai Comuni. È un percorso che può contribuire far uscire l’Italia dalla crisi soddisfacendo l’esigenza della sicurezza del territorio e dei suoi abitanti, della tutela dei patrimoni comuni, e quella di uno sviluppo fondato sul lavoro e sul benessere degli abitanti.
Marco Cammelli, Giovanni Caudo, Vezio De Lucia, Salvatore Lo Balbo, Paolo Maddalena, Giampiero Maracchi, Edoardo Salzano
Firenze, 20 novembre 2013
Condividendo le valutazioni dei promotori dell’appello e la loro sollecitazione a una tempestiva approvazione del disegno di legge approvato dalla Giunta regionale aderiscono all’appello:
Alberto Asor Rosa, Paolo Baldeschi, Piero Bevilacqua, Roberto Camagni, Vittorio Emiliani, Domenico Finiguerra, Roberto Gambino, Maria Cristina Gibelli, Maria Pia Guermandi, Alberto Magnaghi, Oscar Mancini, Giorgio Nebbia, Tomaso Montanari, Massimo Quaini, Salvatore Settis, Renato Soru, Carlo Petrini
Aderiscono inoltre (aggiornamento 16 dicembre): Piero Ferretti (architetto), Daniela Borrati (architetto) Paolo Celebre (Comitato cittadini area fiorentina), Dario Predonzan ( responsabile energia e trasporti WWF regione F-VG), Rita Paris (Direttore Archeologo SSBAR), Pierluigi Cervellati, Paolo Ceccarelli, Paolo Cacciari, Gabriele Bollini (professore di Pianificazione Territoriale Universita degli Studi di Modena e Reggio Emilia), Georg Joseph Frisch (architetto), Alfredo Drufuca (ingegnere), Moreno Chinellato (esodato in attesa di pensione, Sandro Roggio (urbanista), Cristiana Mancinelli Scotti (attrice), Rossano Pazzagli (storico, Università del Molise, Società dei Territorialisti), Sergio Lironi (Presidente onorario Legambiente Padova), Leonardo Filesi (professore associato in Botanica ambientale e applicata, Università IUAV di Venezia), Sara Parca (storica dell'arte), Denise La Monica (PatrimonioSOS), Diego Accardo (architetto), Mirella Belvisi (architetto), Ruggero Lenci (Università la Sapienza, Roma), Marisa Dalai Emiliani, Sergio Brenna (professore ordinario di urbanistica, Politecnico di Milano), Edoardo Zanchini (vicepresidente nazionale Legambiente), Fausto Ferruzza (presidente Legambiente Toscana), Nicola Dall’Olio (geologo), Roberto Scognamillo, Donato Belloni (urbanista), Rodolfo Bracci (architetto), Stefano Fatarella (funzionario urbanista, Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia), Chiara Sebastiani (professore associato di Governo locale e Politiche delle Città), Università degli studi di Bologna), Cesare Allegretti (architetto), Claudio Greppi (professore ordinario di Geografia, Università di Siena), Salvatore Gioitta(architetto), Maria Teresa Roli (architetto), Alessandro Ammann( (Rete europea Ecoturismo), Concetta Flore (artista naturalista), Gino Paolo Sulis (funzionario Regione autonoma Sardegna), Lorenzo Frattini (presidente Legambiente Emilia Romagna, Alessio Rivola(Perito Agrario), Vera Marchetti (architetta), Claudio Saragosa (Università di Firenze), Maria Tinacci Mossello (professore ordinario di Politica dell'ambiente Università di Firenze), Rodolfo Bosi (architetto, associazione Verdi Ambiente Società), Valeria Scavone (ricercatore di Urbanistica, Università degli Studi di Palermo), Giancarlo Storto, Anna Guerzoni (architetto), Barbara Grandi (ginecologa), Francesco Mezzatesta (ambientalista già Segretario generale della Lipu), Massimo Parrini (vice presidente WWF Firenze), Enrico Pugliese (professore di Sociologi del lavoro Università Roma La sapienza), Francesco Romano Natali (studente), Marcello Cervini (architetto), Emanuele Sorace (ricercatore Istituto Nazionale di Fisica Nucleare Firenze), Lodovico Meneghetti,(architettourbanista), Renzo Moschini (Gruppo di San Rossore), Alessandra Tanzi. ValentinoPodestà (urbanista), Andrea Carosi (pianificatore territoriale), Umberto Sani(WWFParma), Francesco Romano Natali (studente), Anna Pacilli (giornalista), MauroBaioni (urbanista), TeresaCilona ( ricercatore in urbanistica, università degli studi di Palermo), MimmoFontana (presidente Legambiente Sicilia), Rosalia Varoli-Piazza, (storico dell'arte), Luca Simoncini (dipartimentodi ingegneria dell'informazione Università di Pisa), Francesco Andreini (pensionato), Roberto Gianni (prof. associato università di Roma la Sapienza), Giovanna Davitti, Helen Ampt (traduttrice),
Rete dei Comitati per la difesa del territorio, Associazione Bianchi Bandinelli, Associazione VAS Verde Ambiente Società, Associazione Ampugnano per la Salvaguardia del Territorio, Cittadini area fiorentina, Accademia Kronos onlus,
Invitiamo chi ha letto la proposta di legge e condivide l’appello ad aderire inviando l’adesione (nome, cognome, qualifica) a eddyburg@tin.it
La lotta al consumo di suolo provocata dall'urbanizzazione sregolata (meglio: regolata dalle regole della privatizzazione della rendita) si combatte insieme alla lotta per un'agricoltura sana e legata al territorio. Il manifesto, 5 dicembre 2013
Cosa pensi di quello che è avvenuto ieri al Brennero?
I prodotti agricoli italiani vanno senz’altro tutelati, ma non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca. Bisogna decidere se il sistema Italia vuole puntare sulla quantità e vuole rincorrere una domanda soprattutto estera in continua crescita, oppure vuole puntare sulla qualità. Se vogliamo essere i più grandi produttori e distributori di prosciutto nel mondo è ovvio che c’è il rischio che si finisca per ricorrere anche a materia prima a basso costo e di dubbia qualità che proviene dall’estero per poi rivenderla indebitamente come made in Italy. A rimetterci sono i contadini e le produzioni locali che in questa gara a chi vende di più e fa prezzi più bassi non possono essere competitivi. In tutto il mondo, e a maggior ragione da noi, la dignità dei contadini, il rispetto dei territori e la qualità del cibo inevitabilmente impone di mettere in campo ampie deroghe alle leggi di mercato. Faccio solo l’esempio dei contadini messicani che custodiscono un territorio dove è nata la cultura del mais e del suo consumo e che invece devono importare il 3% del mais dagli Usa dove costa meno perché è transgenico e prodotto intensivamente. E’ una questione di tutela della produzione locale e di sovranità alimentare. Chi rimane fregato non è l’intermediario ma il coltivatore vittima di dumping a cui vengono imposti i prezzi di vendita.
Se questo è il quadro globale non c’è il rischio che il blocco dimostrativo di Coldiretti e la richiesta di norme stringenti per l’etichettatura si riducano ad una lotta contro i mulini a vento?
Si tratta di un grido di allarme giusto e necessario. L’etichettatura è sacrosanta. Per lo meno si deve sapere da dove viene la merce e come viene prodotta. La corretta informazione è l’unico modo che hanno per difendersi sia le popolazioni contadine che i consumatori cittadini, i quali sono i primi e più forti alleati dei produttori locali. Ma le etichetta non bastano. Mancano anche i controlli. E’ veramente significativo e paradossale che i contadini ieri abbiano dovuto fare quello che regolarmente e costantemente dovrebbe essere fatto dalle autorità.
Perché questo non avviene? Eppure a parole tutte le forze politiche si schierano accanto ai contadini italiani e ieri con loro c’era anche il ministro De Girolamo.E’ troppo facile adesso dire che hanno ragione. Il ministro deve fare azioni concrete. Invece sia i governi italiani che si sono succeduti, sia l’Ue, hanno molte difficoltà ad attuare quello che dicono a parole o in disegni di legge quadro mai tradotti in decreti attuativi.
Perché non agiscono?
E’ semplice. Le lobby della produzione e della distribuzione agroalimentare non hanno interesse a promuovere la tracciabilità e a informare sull’origine delle materie prime.
Anche le imprese italiane del settore?
Le imprese italiane lo fanno a macchia di leopardo, alcuni virtuosi ne fanno una strategia di marketing, altri preferiscono nuotare in questo limbo di interessata ambiguità.
Nonostante tutto l’alimentazione di qualità è uno dei pochi mercati che in Italia non risente della crisi e c’è un ritorno dei giovani nelle campagne dove si registrano dati in controtendenza anche rispetto alla disoccupazione. E’ possibile agganciare la riprese a partire dai campi?
Tutti sono consapevoli che questo è un settore strategico per il nostro paese, ma dobbiamo deciderci. Il cibo ha perso valore da quando è diventato derrata da produrre in serie a prezzi bassi. Bisogna invece privilegiare il valore sui volumi, la qualità sulla quantità. Che mi importa se i francesi producono meno vino ma hanno più resa economica? La rincorsa alla produzione a tutti i costi produce sprechi, distrugge l’ambiente e non risolve il problema della malnutrizione. Genera una crisi antropica insostenibile per l’ambiente, i territori, le persone, le culture e anche per la finanza.
Il cibo è il tema dell’Expo 2015 di Milano, ai tempi del sindaco Moratti hai avuto qualche delusione a questo proposito, adesso Slow food come si pone rispetto a questo evento?
Proprio domani a Milano con il sindaco Pisapia e con il commissario Sala presenteremo la nostra collaborazione all’evento, ma lo facciamo per portare dentro Expo le nostre tematiche. Non si può vedere Expò solo come opportunità di sviluppo economico per Milano e per l’Italia. Che importa se vengono tanti visitatori se poi c’è la fame nel mondo.
A proposito delle spinte perché la nova legge urbanistica della Toscana venga “ammorbidita”, eviti di tradurre in regole quello che deve – seconda una qualificata lobby - rimanere una chiacchiera Greenreport, 3 dicembre 2013, con postilla
Qualunque gruppo di pressione si ingegna come meglio può in attività di lobbying. Gli ordini professionali non fanno eccezione. Tra i servizi che erogano ai loro affiliati contemplano la capacità di esercitare la pressione più efficace sulle autorità competenti per orientare la formazione e la messa in opera delle politiche pubbliche nella direzione più confacente ai timori, alle aspettative e alle opportunità dei loro affiliati così come alle loro concezioni o visioni del mondo e delle questioni oggetto di intervento pubblico. In ciò, nulla di illegittimo: al contrario, è il sale di un sistema politico-amministrativo sanamente pluralistico che non viva nel dogma illusorio di una rappresentanza politica autosufficiente.
Non c’è dunque da stupirsi, se anche gli ordini professionali intendono esercitare la loro pressione dentro e fuori le procedure di concertazione previste dall’ordinamento regionale, senza limitare la loro fatica a fasi predeterminate del procedimento legislativo bensì spaziando sull’intero arco temporale del suo svolgersi. Una consapevole e ben studiata azione di lobbying è un flusso di interventi di pressione, non una loro semplice sommatoria: per cui anche se alla fine di una faticosa riunione di concertazione, all’amministratore pubblico di turno potrà apparire di aver acquisito una qualche risultato finalmente pacifico, chi fa lobbying riterrà del tutto naturale continuare a proporre le proprie tesi e le proprie soluzioni fino quando il processo decisionale non abbia dato evidente riconoscimento di un qualche apprezzabile successo dell’azione pressoria esercitata.
E’ tuttavia evidente come il lobbying, per quanto legittimo e fisiologico nel processo legislativo, nulla abbia a che vedere con la democrazia partecipativa. Da un lato il lobbying punta al risultato specifico e puntuale, e soprattutto predefinito (l’emendamento a una legge, la delegittimazione parziale o totale di un progetto legislativo, il rinvio di una decisione politica). Non mira certo ad aprire una qualche discussione pubblica in vista di una definizione condivisa di interesse pubblico: vuole conseguire un risultato predefinito e preme allo scopo. Dall’altro, per essere efficace, l’azione di lobbying formula giudizi di valore proponendoli come giudizi di fatto. Qualunque innovazione modifichi un assetto di relazioni, competenze e poteri preesistenti alimenterà sempre un movimento contrario che ne dichiarerà il destino fallimentare pur in assenza di qualunque argomento e prova a conforto. Ma il lobbying sa anche bene che solo “sparando alto e nel mucchio” si ottiene attenzione dai media e che solo in questo modo si può tentare di influire su una classe politica quando questa sta ancora decidendo se e quali orientamenti assumere su una data tematica conflittuale e, a monte, se e come definire in proposito una qualche “visione politica”.
Un simile scenario si va profilando attorno alla legge toscana di aggiornamento delle norme sul governo del territorio. I comunicati stampa e gli articoli a corredo che capita di leggere in questi giorni sulla protesta degli ordini professionali versus la proposta di legge regionale ne sono una specifica ma palmare conferma. E’ vero che le pratiche legittimate di concertazione costituiscono ormai una costruzione tanto barocca da tollerare ulteriori inclusioni e coinvolgere anche gli ordini professionali competenti e non solo enti locali e categorie economiche e sociali. Ma, delle regole ancora vigenti, non se ne può far colpa a chi ha dovuto applicare una normativa preesistente al procedimento legislativo in questione.
In ogni caso, anche quando la “concertazione” (esperita o auspicata) è garantita essa si configura semplicemente come la legittimazione delle attività di lobbying, nel tentativo di farle uscire dai corridoi e di renderle palesi nelle aule della decisione politico-amministrativa. Ma con un vizio intrinseco: l’obbligo implicito di postulare che le posizioni delle organizzazioni concertanti siano sempre e comunque quelle dei loro formali mandatari, una coincidenza che empiricamente richiederebbe verifiche specifiche ma raramente possibili e tanto meno tollerate dalle organizzazioni in parola (anche se la questione della rappresentatività effettiva e dunque della legittimazione ad agire non può riguardare solo il mondo e le istituzioni della politica: specie quando si indicano numeri di partecipanti, di sottoscrittori di petizioni e di assemblee tanto importanti quanto inaccertabili).
Orbene, ciò che si può adesso auspicare è che il parlamento regionale assuma la propria piena centralità rappresentativa generale e non si lasci invischiare nel gioco delle pressioni contrapposte e dei loro riflessi mediatici. E che valuti con piena e coerente consapevolezza le ragioni che hanno indotto il governo della Toscana a por mano a una legge di sistema sulle regole non negoziabili che debbono disciplinare i destini e l’uso collettivo del comune patrimonio territoriale. Sono le ragioni che, tra tanti, ho cercato di riassumere su queste colonne nei mesi scorsi e che i Comuni toscani hanno contribuito in misura determinante a scrivere con l’ausilio della loro Associazione proprio in nome della loro responsabilità di rappresentanti generali della comunità toscana condividendo il disegno del governo regionale.
Ragioni che si chiamano – tra le altre – contrasto al consumo di suolo; correttezza delle procedure ed efficacia delle norme di legge; informazione e partecipazione delle popolazioni che abitano e vivono le diverse realtà territoriali; monitoraggio dell’esperienza applicativa della legge e valutazione della sua efficacia; assunzione definitoria e operativa della nozione i patrimonio territoriale come fondamento normativo e strategico delle strumentazioni di governo; pianificazione di area vasta per garantire una progettazione unitaria e multisettoriale delle trasformazioni a scala translocale; raccordo funzionale tra pianificazione territoriale e urbanistica e politiche per la casa incentrate su una nuova dotazione di alloggi sociali; prevenzione e mitigazione dei rischi idrogeologico e sismico. Ciascuno di questi lemmi trova nella nuova legge una declinazione normativa che fa tesoro dell’esperienza compiuta dalla legge 1, in parte consolidando e rafforzando, in parte innovando per garantire effettività ai suoi principi e al perseguimento dei suoi obiettivi.
Troppo spesso la legge vigente è apparsa, per l’appunto, un manifesto accademico, non capace di intercettare, proprio sul piano della cultura amministrativa, i rudi interrogativi di chi premeva sugli uffici tecnici dei Comuni per sapere se e quanto “murare”. Massimo Severo Giannini e i suoi allievi parlavano, oltre mezzo secolo fa, di copertura amministrativa delle leggi. Ebbene la legge 1 quella copertura se l’è dovuta conquistare sul campo, più che nella sua stessa strumentazione normativa. E ha fatto fatica. Molta fatica nel perseguire tale obiettivo.
Al di là dell’insano connubio tra oneri di urbanizzazione e ordinaria finanza locale; al di là delle difficoltà municipali di prospettazione strategica; al di là dell’incultura e della fragilità di un ceto edilizio-imprenditoriale sovente inconsapevole, quando non rapace, dell’irriproducibile materia prima con cui ha a che fare; al di là di una nozione di sviluppo non solo alternativa alla “decrescita felice” ma anche, e più semplicemente, a caccia di occasioni congiunturali di occupazione territorialmente… pur che sia (quante aree artigianali-industriali sono divenute concessionarie di automobili?); al di là di un mercato immobiliare che ha a lungo perseverato nelle pratiche espulsive dagli insediamenti urbani più antichi verso nuove consunzioni del territorio rurale, trasformando i centri storici in meri luoghi di loisir commerciale da fine settimana; al di là di un’affannosa ricerca di aree produttive tutte le volte che un (raro) investitore straniero si affaccia sullo scenario toscano, quasi che la pianificazione territoriale dei Comuni debba certificare la propria insussistenza; al di là delle pulsioni sui territori costieri e insulari e del loro impervio contenimento; al di là dei tantissimi sindaci virtuosi che si sono misurati con una legge complicata, che richiedeva loro una visione del territorio, del paesaggio e dei valori comuni quanto mai difficile a scala municipale; ebbene, al di là di tutto questo universo di temi, vicende e problemi, la legge 1 non ha fallito, semplicemente non è uscita dal rodaggio. Una sorta di adolescente che rinvia le responsabilità dell’età adulta.
A cominciare da un quesito cruciale per il territorio toscano e per il suo paesaggio, che rozzamente possiamo riassumere così: dove comincia e finisce la “città”? Dove comincia la “campagna”? C’è una linea che abbia il coraggio culturale e strategico di una simile demarcazione per stabilire nuove e ordinate connessioni? Dove e come tracciarla? E’ una scelta normativa essenziale, perché senza quella linea non c’è “Toscana” e non c’è paesaggio e non c’è sviluppo. C’è un’ibridazione con altri paesaggi sociali tra i quali quello toscano deve poter non trascolorare e mantenere la piena riconoscibilità delle proprie città e delle proprie campagne. E’ questo il genere di sfide che il legislatore toscano è chiamato a non rimuovere né ad affidare a frammentarie transazioni, se vuole ribadire il senso stesso della sua autorità istituzionale.
E’ un compito grave ma urgente, anche perché la proposta toscana fa da apripista a una di quelle riforme strutturali che l’Italia da troppi decenni rinvia lasciandone l’intero gravame sulle spalle delle regioni. Per cui il Consiglio regionale ha l’occasione per aprire un nuovo orizzonte normativo di rilievo nazionale, in sintonia con la più evoluta legislazione.
«Entro il 2020 le politiche comunitarie dovranno tenere conto dei loro impatti diretti e indiretti sull’uso del territorio, a scala europea e globale, e il trend del consumo di suolo dovrà essere sulla strada per raggiungere l’obiettivo del consumo netto di suolo zero nel 2050». Ma cominciare domani è già troppo tardi. Con postilla
La necessità dilimitare il consumo di suolo e in particolare di suolo agricolo (8 metriquadrati al secondo, secondo i dati di ISPRA) è ormai entrata a tutti glieffetti nell’agenda politica nazionale. Dopo il DDL Catania, presentatodall’omonimo Ministro del governo Monti e arrivato fino all’approvazione dellaConferenza Stato-Regioni, nell’attuale legislatura sono stati depositati tredisegni di legge di iniziativa parlamentare che hanno come obiettivo dichiaratola limitazione del consumo di suolo, a cui va aggiunto un ulteriore disegno dilegge promosso direttamente dal governo Letta.
postilla
Mi domando quale sarebbe il risultato di questa compensazione in Italia, dove l'unica legge rispettata dai forti è l'elusione della legge, deve la rendita e i "diritti edificatori"imperano, e dove la pubblica amministrazione è sempre meno motivata, autorevole, competente e attrezzata.
Una efficace ricomposizione delle principali documentate denunce sui motivi dei disastri, del responsabile della Protezione Civile e delle associazioni ambientaliste. Corriere della Sera, 21 novembre 2013
ROMA — «Centri funzionali decentrati»: con questo nome astruso si chiamano le strutture regionali che dovrebbero essere i pilastri del sistema di allerta in caso di alluvioni. Ieri si è scoperto che nella Sardegna funestata dal ciclone Cleopatra quel «Centro» non era attivo. Anche se non è stata proprio una scoperta. Si sapeva dal 9 ottobre scorso, quando il capo della Protezione civile Franco Gabrielli aveva denunciato, in un’audizione alla Camera dei deputati, che a dieci anni di distanza dal provvedimento che le ha istituite, il 24 febbraio 2004, soltanto in dieci Regioni quelle strutture funzionano a pieno regime. Quali sono? «Piemonte, Liguria, Valle D’Aosta, Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Toscana, Marche, Campania e le Province autonome di Trento e Bolzano. Le Regioni non ancora attive sono sei: Friuli Venezia Giulia, Abruzzo, Basilicata, Puglia, Sicilia e Sardegna. Umbria, Lazio, Molise e Calabria hanno invece attiva solo la parte idro e hanno il supporto del Dipartimento per la parte meteo». Parole del medesimo Gabrielli.
Il Friuli Venezia Giulia potrà rivendicare di avere una struttura regionale di Protezione civile assolutamente eccellente, mentre la Puglia ha già rispedito l’accusa al mittente, sostenendo che la colpa dei ritardi è tutta dell’apparato nazionale. Replica non incassata a sua volta da Gabrielli, che ha invitato le autorità pugliesi a non girare la frittata. Episodio, a prescindere dalle ragioni di ciascuno, che fa ben capire come il nostro federalismo pasticcione non abbia risparmiato nemmeno la Protezione civile: vittima di quella che il suo capo ha bollato come «una Babele di competenze» capace di frenare la prevenzione dei disastri ambientali. «Sul dissesto idrogeologico hanno competenze Autorità di bacino, Province, Regioni e Comuni», ha spiegato Gabrielli, aggiungendo che davanti a un alluvione come quella del 1966 a Firenze saremmo indifesi come allora.
Si è forse dimenticato qualcuno, il capo della Protezione civile: i consorzi di bonifica, per esempio. Ma il quadro è ugualmente disarmante. Tanto più che in questa Babele chi ha il compito di prevenire i dissesti fa esattamente il contrario. Dal febbraio del 2004 a oggi, quando sono stati formalmente istituiti i «Centri funzionali», i Comuni e le Regioni hanno continuato nell’opera di selvaggio e scriteriato consumo di suolo, ponendo le basi per future catastrofi più gravi. Se i cambiamenti climatici producono con sempre maggiore frequenza eventi estremi, i loro effetti «sono stati esacerbati», denuncia anche Gabrielli, «dagli ormai ben noti caratteri di elevata antropizzazione del territorio, dall’aumento del consumo di suolo alla conseguente notevole impermeabilizzazione delle superfici». Un allarme simile a quello lanciato nel rapporto 2012 perfino dall’Istat, che mai si era spinto prima di allora in valutazioni tanto critiche sulle questioni ambientali. E qui l’abusivismo c’entra ben poco. C’entrano invece i piani regolatori sfornati con leggerezza dai Comuni e vidimati con altrettanta leggerezza dalle Regioni. C’entrano programmi territoriali e piani paesistici regionali spesso insensati. C’entrano le sconsiderate variazioni di destinazione d’uso delle superfici che hanno fatto perdere all’Italia negli ultimi quarant’anni qualcosa come 5 milioni di ettari di terreni agricoli. E qui le responsabilità sono tutte delle classi dirigenti locali, spesso coinvolte nel torbido intreccio di interessi affaristici e speculativi.
Dice una indagine di Legambiente che «negli ultimi quindici anni il consumo di suolo è cresciuto in modo abnorme e incontrollato», con il risultato che nel 2011 il 7,6% del territorio italiano non era più naturale: parliamo di una superficie superiore a quella dell’intera Toscana. Si tratta di una percentuale nettamente superiore a quella della media europea (4,3%) e della stessa Germania (6,8%), Paese pressoché interamente pianeggiante (mentre un terzo del territorio italiano è montuoso) e con una densità abitativa superiore di circa il 15 per cento alla nostra.
Ancora. Nel 2007 a Napoli e Milano il 62% del suolo comunale era impermeabilizzato. A Roma, nei 15 anni fra il 1993 e il 2008, ben 4.800 ettari di terreno agricolo sono stati resi edificabili e occupati da abitazioni inutili. Nel 2009 si contavano nella capitale 245.142 abitazioni vuote: record nazionale assoluto. Ma al secondo posto c’era Cosenza con 165.398 case vuote, numero superiore di quasi due volte e mezzo a quello degli abitanti della città.
E mentre si prosegue a tirare su dappertutto palazzine e centri commerciali al ritmo (stime del ministero dell’Agricoltura) di cento ettari al giorno, un anno fa il Dipartimento della Protezione civile informava che ben quindici Regioni non avevano presentato l’elenco dei Comuni con i piani d’emergenza aggiornati: questo in un Paese come l’Italia che ha ben 6.600 enti locali su poco più di 8 mila sui quali incombe il rischio idrogeologico. Per non parlare poi delle scaramucce fra il centro e la periferia che vanno avanti dal 2001, anche a colpi di ricorsi alla Corte costituzionale.
Al verificarsi di tragedie come quelle di Sardegna 2013, Maremma 2012 e Liguria e Toscana 2011, contribuisce certo la cronica mancanza di denari da destinare alla prevenzione. Trenta milioni l’anno, quanti ne sono stanziati dalla legge di stabilità, in effetti sono pochini per un Paese che avrebbe bisogno di un miliardo e mezzo l’anno per almeno un decennio. Ma siamo sicuri che la carenza di risorse non sia in qualche caso una scusa per pietose autoassoluzioni? Ha fatto scalpore in Liguria una denuncia del gruppo regionale del Popolo della Libertà, spalleggiato dall’allora capogruppo del partito all’europarlamento, l’attuale ministro della Difesa Mario Mauro, secondo cui appena il 7 per cento dei fondi europei venivano impiegati per prevenire il dissesto, in una delle Regioni più a rischio. Argomentazioni «pretestuose», per l’assessore regionale Enzo Guccinelli.
E ricordate invece la tragedia di Messina del 2009, quando un alluvione provocò la morte di 37 persone? Mentre infuriavano «pretestuose» polemiche la Regione siciliana, punta sul vivo, diramò un comunicato nel quale sosteneva che in dieci anni aveva speso 200 milioni di euro allo scopo di prevenire il dissesto idrogeologico nel solo messinese. Ma qualcuno dei solerti dirigenti regionali si era forse accorto delle palazzine spuntate come funghi nell’alveo dei torrenti?
L'autore appartiene ai pochi che non contrastano il consumo di suolo solocon le parole, ma anche con i fatti. Lo ha fatto come sindaco di un piccolo comune alle porte di Milano e lo ha fatto come fondatore dell'associazione Stop al consumo di suolo.
Quante volte, partecipando ad un dibattito sul territorio, su una grande opera, su un piano regolatore, vi è capitato di essere etichettati come dei radicali ambientalisti, degli estremisti, dei sovversivi annidati nei comitati? A me è capitato moltissime volte.
La cosa mi ha sempre dato anche un certo godimento. Aumentava la mia autostima. Essere accusato di essere un sovversivo dai dirigenti del partito del calcestruzzo (sia da quelli di matrice neoliberista che da quelli di matrice progressista) era motivo di grande orgoglio. Cose da raccontare ai nipotini. «Ma smettila di opporti alle autostrade e al Tav! Vuoi farci tornare all'età della pietra? Vuoi muoverti con i cavalli! Estremista e ambientalista del c...!», «Si, adesso siete anche contro l'expo 2015! Ma vergognatevi. Siete dei talebani del verde! Volete farci perdere occasioni di sviluppo, di crescita, di competitività! Irresponsabili», «Ma che problemi vi da questo outlet? Ci sistemano anche tutta la viabilità e ci fanno 7 rotonde. Ah certo! Voi volete andare nei campi a caccia di farfalle, oppure volete tornare a coltivare la terra! Bravo! Oltre ad essere ambientalista sei pure terrone!»(questa me la sono beccata da parte dei dirigenti del partito del cemento della corrente leghista).
Ma poi, con il passare del tempo, questa etichetta ha cominciato a starmi stretta e con mia grande sorpresa mi sono reso conto che in realtà, io e direi anche tutti gli ambientalisti, siamo dei veri ed autentici moderati. Nel senso che siamo impegnati nel moderare il peso dell'uomo sulla terra. Vorremmo mantenere, difendere o ripristinare i delicati equilibri esistenti tra il genere umano, gli altri esseri viventi e la terra. Terra intesa sia come pianeta che come terra che abbiamo sotto i piedi.
Di converso, quelli che ad ogni assemblea pubblica, consiglio comunale o talkshow televisivo, non perdono occasione per sbeffeggiarci, disegnarci su un albero intenti ad abbracciare un panda oppure additarci all'opinione pubblica come i nemici della patria, hanno perduto la natura e lo smalto di moderati. Approvando e finanziando grandi opere, speculazioni edilizie, saccheggi vari del territorio, distruggendo biodiversità e suoli agricoli, con lo scorrere dei cronoprogrammi dei loro cantieri promessi alla lavagna di Porta a Porta, i rispettabili politici e lobbisti in doppiopetto hanno subito una metamorfosi che li ha trasformati in veri estremisti sovversivi, quasi sempre polemici e pronti ad alzare i toni della discussione. Se necessario anche usando il manganello...
Esagero? Mi pare proprio di no. Anzi possiamo affermare con pochi dati certi, che i veri nemici del benessere del paese e dei cittadini che lo abitano siano proprio loro. Loro che in un quarantennio hanno compromesso il futuro delle presenti e delle future generazioni. Vediamo perché.
Che cosa è fondamentale per un popolo, per le persone che vivono su un determinato territorio? Che cosa è indispensabile alla sopravvivenza dei cittadini? Il cibo. E che cosa è accaduto al nostro paese? È accaduto che dal 1971 al 2010 ha perso 5 milioni di ettari di Superficie Agricola Utilizzata (SAU). Questo dato è dovuto a due fenomeni: l'abbandono delle terre e la cementificazione.
Per la risoluzione del primo, la politica è completamente assente e non riesce, anzi non prova neanche, ad arginare la perdita di terreno del settore primario rispetto al mattone. Coltivare la terra rende sempre meno in termini di reddito ed è molto faticoso, nonostante la meccanizzazione. Una crisi che richiederebbe anche un cambio di modello di produzione, avviando una riconversione che emancipi il settore stesso dalla monocoltura intensiva aprendo nuove prospettive. Non solo in termini di produzione ma anche di occasioni per riprodurre comunità e socialità.
Per il secondo fenomeno, la cementificazione, la politica dominante, non solo non ha arginato il fenomeno irreversibile della impermeabilizzazione dei suoli, ma lo ha facilitato e promosso: approvando normative che hanno spinto i comuni a fare cassa con la monetizzazione del territorio, progettando e realizzando opere infrastrutturali che hanno accompagnato l'espansione urbanistica (lo sprawl), favorendo la rendita urbana ai danni della tutela del territorio, del paesaggio e dell'agricoltura, coltivando il consenso facile con gli oneri di urbanizzazione che arrivano grazie alle colate di cemento.
A questi dati, tenuti nascosti sapientemente all'opinione pubblica (ne avete mai sentito parlare al TG1, al TG3, a Ballarò, a Otto e mezzo?) se ne aggiunge un altro ancor più preoccupante: l'Italia è il terzo paese in Europa ed il quinto nel mondo nella classifica del deficit di suolo. In sostanza ci mancano 49 milioni di ettari per coprire il nostro intero fabbisogno che è pari a 61 milioni di ettari. Siamo destinati ad essere sempre più dipendenti dalla produzione di terreni di altri paesi. Il buon senso del buon padre o madre di famiglia dovrebbe portarci a fermare per decreto ed immediatamente la cementificazione ed il consumo di suolo, a bonificare le aree compromesse dal cemento e dai veleni, ad incentivare seriamente il ritorno alla coltivazione delle terre abbandonate. Ma purtroppo il buon senso e l'interesse collettivo sono spesso in contraddizione con gli interessi dei pochi e soliti noti...
Ma oltre che della perduta sovranità alimentare, gli estremisti dirigenti del partito del cemento si sono resi protagonisti dell'alterazione e della sovversione di delicati equilibri ecosistemici. Alterazione condotta grazie alle loro azioni irriducibili, condotte talvolta nottetempo: mitici i consigli comunali alle 3 di notte per approvare varianti ai piani regolatori (Nei quindici anni dal 1995 al 2009, i comuni italiani hanno rilasciato complessivamente permessi di costruire per 3,8 miliardi di mc). Le scelte di questi estremisti sono concausa certificata del dissesto idrogeologico e dello sprofondamento quotidiano del paese nel fango. Ma essi si ostinano quotidianamente a tenere la posizione, si oppongono in maniera davvero ideologica e radicale alle decine di proposte veramente moderate che presentiamo tutti i giorni.
Noi (ambientalisti, comitati, cittadini) chiediamo di investire le scarse risorse nella messa in sicurezza del territorio; loro ci rispondono arroganti che sono prioritari i buchi nelle montagne per portare merci a 300 km all'ora da Torino a Lione. Noi proponiamo di incentivare il recupero degli immobili esistenti, rendendoli più efficienti dal punto di vista energetico, di puntare sul risanamento/ricostruzione dei centri storici abbandonati (a partire da L'Aquila, dove recentemente si sono recati 22 sindaci moderati della Val di Susa per chiedere di impiegare in quella città le risorse destinate al Tav); loro si impuntano con le newtown in aperta campagna, le cittadelle dello sport, della moda, del design. Noi proponiamo di restaurare il paesaggio, di elaborare un grande piano nazionale di piccole opere, che aiuterebbe l'edilizia ad uscire dalla crisi (dall'abbattimento delle barriere architettoniche alla realizzazione di fognature, marciapiedi e piste ciclabili); loro ci rispondono polemicamente e strumentalmente con nuovi piani casa, nuovi grattacieli, nuovi grandi eventi e relative nuove grandi autostrade e nuovi grandi padiglioni. Insomma, noi chiediamo di andare più piano; loro accelerano con sprezzo del pericolo, spingendo il vapore a tutta velocità verso le estreme conseguenze, verso il baratro. Degli irresponsabili.
Risultato di queste scelte scellerate portate avanti con tanta veemenza bipartisan? Secondo l'ISPRA (Istituto Superiore per Protezione e la Ricerca Ambientale) ogni giorno vengono impermeabilizzati 100 ettari di terreni naturali. 10 mq al secondo. Quindi cosa facciamo?
Dobbiamo fermarli. Non c'è alternativa. Perché sono dei veri sovversivi. I veri estremisti di questo paese.
Ottime intenzioni, scarsissima efficacia. Che cosa invece si potrebbe fare se davvero si volesse arrestare il consumo di suolo, scritto per eddyburg il 10 ottobre 2013
Il disegno di legge sul contenimento del consumo di suolo agricolo, trasmesso alla conferenza unificata Stato Regioni, è del tutto condivisibile nelle sue finalità. Tuttavia, destano alcune perplessità gli strumenti indicati dalla legge per perseguire l’obiettivo di riduzione del consumo di suolo.
In alternativa, molto più semplicemente, la legge potrebbe stabilire che la pianificazione comunale, salvo motivate eccezioni, non può prevedere espansioni dei centri abitati, se non nell’ambito del coordinamento di area vasta, previa approvazione (o parere vincolante) della Regione. Il divieto potrebbe essere pressoché assoluto per gli usi residenziali (è noto a tutti che i fabbisogni possono essere soddisfatti all’interno del territorio urbanizzato) e temperato per le funzioni produttive, di servizio e infrastrutturali, con particolare riferimento a esigenze di area vasta.
A proposito di un aspetto rilevantissimo del consumo di suolo a livello planetario, che incide pesantemente anche sulle condizioni di vita della piccola provincia Italia. dalla risorta rivista Ecologia politica, 9 luglio 2013
Nel Rapporto di analisi di OXFAM del 22 settembre 2011 è stato accertato che, soltanto nei paesi in via di sviluppo, dal 2001 circa 227 milioni di ettari di terra (un’area grande quanto l’Europa occidentale) sono stati venduti o affittati a investitori internazionali e la maggior parte di queste acquisizioni è avvenuta negli ultimi due anni.
Questa “caccia alla terra” oltre confine, ad una terra che dati incontrovertibili denunciano come sempre più scarsa ed a breve insufficiente a soddisfare la domanda crescente di cibo, è stata interpretata come una nuova fase della crisi alimentare del 2008 ed è stata anche rappresentata come la terza onda della delocalizzazione, che ha riguardato prima il settore manifatturiero nel 1980 e poi quello dell’informazione tecnologica nel 1990.
Il fenomeno è, senz’altro, l’espressione più manifesta del nuovo (o rinnovato) interesse del mondo finanziario nei confronti dell’agricoltura, che ha contribuito, secondo la FAO, a causare l’impennata dei prezzi di grano, riso e soia, che tra il 2006 e il 2008 hanno toccato livelli molto elevati; tale evento di portata mondiale , e cioè la crisi economica-agricola-ambientale-energetica, ha spinto poi alcuni paesi importatori di prodotti alimentari ad assicurarsi la terra dove costa poco o nulla, al fine di coltivare il necessario a nutrire la propria popolazione. Come è stato efficacemente sintetizzato, governi nazionali e investitori privati di paesi “finance-rich, resource-poor” guardano ai paesi “finance-poor, resource-rich” per assicurarsi cibo ed energia per i bisogni interni futuri.
Tuttavia, la concentrazione della terra coltivabile nelle mani di pochi soggetti, accompagnata dal cambiamento di destinazione d’uso, sta colpendo anche i paesi sviluppati con conseguenze rilevanti per l’agricoltura locale e tipica e, più in generale, per il diritto a produrre degli agricoltori estromessi dai processi produttivi tradizionali per consentire un utilizzo “diverso” delle aree agricole. Le stesse aree agricole dell’Europa, come risulta da una recente ed approfondita analisi di “Hands off the land”, sono oggetto di interesse da parte di privati speculatori internazionali.
Si parla, al riguardo, di Land Grabbing, un fenomeno recente ed ormai diffuso su scala planetaria che contraddistingue forme di accaparramento, appropriazione e concentrazione della terra coltivabile sita in territori extra-nazionali, operate da soggetti privati e pubblici, al fine principale (ma non esclusivo) di produrre cibo destinato all’esportazione. Detto fenomeno è altresì descritto come una forma di usurpazione o di vero e proprio saccheggio delle terre e, segnatamente, della rendita discendente dal profitto che si trae dal fatto di acquisire o controllare per un lungo periodo superfici agricole straniere.
Il Land Grabbing assume, così, i connotati di una nuova ed inedita forma di colonialismo, non necessariamente plasmata sull’archetipo “paesi ricchi contro paesi poveri” essendo presente anche un asse sud-sud, composto da aziende di paesi emergenti (India, Cina, Brasile, Sud Africa) verso paesi in via di sviluppo. Si evidenzia, cioè, un conflitto inedito ed al contempo drammatico tra due esigenze fondamentali per i popoli del pianeta: il diritto al cibo dei paesi ospiti e la ricerca della sicurezza alimentare (ma anche energetica) dei paesi stranieri.
Jacques Diouf, quando rivestiva il ruolo di Direttore generale della FAO, aveva già affermato profeticamente, all’epoca di uno dei primi tentativi di Land Grabbing (il caso Daewoo, in Madagascar) : “Il rischio è che si crei un patto neocolonialista per la fornitura di materie prime senza valore aggiunto da parte dei paesi produttori, a condizioni inaccettabili per i lavoratori agricoli”. Lo scenario che si propone non è nuovo di per sé; ciò che cambia è la crescente pressione su una risorsa naturale dalla quale dipende la sicurezza alimentare di milioni di persone povere.
Il fenomeno in esame viene, tuttavia, interpretato dagli osservatori internazionali anche sotto una luce diversa. Per la World Bank, così come anche per alcuni settori interni alla FAO, le sopradette modalità di appropriazione della terra sono considerate alla stregua di proficue forme di investimento nei paesi in via di sviluppo, in grado di apportare risorse finanziarie in realtà geografiche deprivate economicamente ma ricche di risorse naturali, quali la terra, l’acqua, le foreste, etc. In linea con tale orientamento, si trovano anche diversi paesi poveri che rifiutano il concetto di accaparramento della terra e sostengono la necessità di attirare valuta straniera per sostenere gli sforzi per lo sviluppo interno.
Secondo questa prospettiva, la cessione delle terre nelle mani di investitori stranieri agevolerebbe il processo di crescita e modernizzazione del paese beneficiario . Si è infatti sostenuto che gli investimenti sulla terra possono sì colpire il diritto al cibo ed altri diritti umani fondamentali nei paesi in via di sviluppo sotto capitalizzati ma essi possono, altresì, risultare vantaggiosi se gli investitori si impegnano a creare delle utilità per le popolazioni interessate quali: programmi di educazione, servizi sociali per la cura della salute e la costruzione di alloggi, realizzazione di infrastrutture (strade, ponti, elettricità e reti di acqua potabile). Detti investimenti, collaterali a quello principale sulla terra, possono direttamente ed indirettamente generare lavoro e contribuire all’economia del paese ed alle sue infrastrutture.
Tale visione che induce a giustificare, per alcuni aspetti, l’attività di sottrazione delle aree coltivabili ai detentori locali, può essere, in realtà, facilmente smentita guardando ad alcune esperienze di Land Grabbing che si stanno realizzando in paesi altamente industrializzati, quali il Canada, ove la richiesta di superfici coltivabili è molto aumentata in questi ultimi anni soprattutto da parte della Cina. I vasti territori della regione canadese sono assai appetibili per molti paesi esteri in quanto poco costosi ed abbondanti di risorse naturali (terre disabitate, acqua, foreste, ect.) così che essi vengono ceduti a società private oppure vengono inclusi nei fondi pensione, una forma di investimento che guarda con crescente interesse alle commodities e, tra queste, in modo privilegiato alle aree agricole. Tali fondi sono gestiti prevalentemente da grandi imprese finanziarie ben liete di inserire nel loro portafoglio degli investimenti sia la terra che le imprese agricole.
Anche lo speciale Rapporteur presso l’ONU per il diritto al cibo, Olivier De Shutter – e con lui molti settori dei movimenti sociali e delle organizzazioni della società civile – ha criticato il tentativo, sostenuto in particolare dalla World Bank, di rendere più “responsabili” (RAI ovvero Responsible Agricultural Investment) questi investimenti di vasta scala sulle aree agricole produttive perché una volta che la terra viene venduta o concessa in affitto agli investitori stranieri, costoro punteranno ad uno sfruttamento di tipo intensivo giungendo, così, a sottrarre alle comunità locali di agricoltori non solo le terre ma anche il loro potere di scegliere quale tipo di coltivazioni realizzare e, conseguentemente, in che modo affrontare il problema della fame.
In conclusione, secondo il panorama delle opinioni dominanti, l’appropriazione di terreni agricoli al di fuori dei confini domestici, può rientrare per un verso nel noto paradigma win-win ovvero in una forma virtuosa di investimento che, alla fine, non scontenta o danneggia alcuno dei soggetti coinvolti in quanto risulterebbero tutti vincitori: le nazioni insicure, in termini di approvvigionamento alimentare, possono accrescere il loro accesso alle risorse agricole beneficiando, nello stesso tempo, le nazioni ospiti con investimenti in capitale umano e infrastrutture agricole e accrescendone le opportunità di accesso ai mercati, occupazionali e di sviluppo delle conoscenze.
Per altro verso si stigmatizzano gli effetti deleteri di questa pratica di sottrazione delle terre, diffusa generalmente ma non esclusivamente nei paesi poveri come si diceva poc’anzi, che assume i connotati del neo-colonialismo.
In entrambi i casi ciò che viene a mancare è proprio il presupposto fondamentale del riconoscimento del bene terra come risorsa comune appartenente anche alle collettività locali che non sono poste nella condizione di esprimere il loro consenso libero, preventivo ed informato, rispetto agli interventi stranieri sulle loro terre e di partecipare ai processi di utilizzazione delle stesse.
Da edilportale 14 luglio un comunicato-stampa. Ma non era proprio il blocco delle abnormi previsioni di ampliamento delle aree edificabili dei piani vigenti l'obiettivo che si voleva raggiungere nell'immediato, in attesa di definire «principi fondamentali di governo del territorio» condivisi?
Lo schema di legge affronta il tema del consumo di territorio determinando i limiti di superficie occupabile per frenare la cementificazione del territorio, sviluppare l’agricoltura e salvaguardare la bellezza e la sicurezza del paesaggiAttraverso il forte coinvolgimento delle Regioni e degli enti locali, la norma promuove anche la politica del riuso del suolo e strategie per monitorarne il consumo.
Il testo approvato dal Governo ricalca l’impostazione iniziale del precedente “ddl Catania” in materia di valorizzazione delle aree agricole sul quale le Regioni avevano già espresso parere favorevole, ma condizionato all’accoglimento di alcune osservazioni.
Secondo i tecnici regionali, il nuovo testo non ha tenuto conto dell’intensa attività tecnica e politica svolta dalle Regioni nel 2012, vanificando di fatto il lavoro emendativo al ddl Catania. Le regioni hanno espresso una posizione (doc. allegato) piuttosto critica ritenendo lo schema del ddl inemendabile poiché affronta il tema del consumo di suolo, di per sé complesso e strategico, in un’ottica settoriale e senza una visione integrata del territorio.In particolare, il ddl risulterebbe lesivo delle competenze legislative regionali sul governo del territorio in previsione del divieto di consumo di superficie agricola per un periodo di tre anni; secondo i tecnici, ciò equivale ad un indifferenziato e sostanziale blocco degli strumenti urbanistici vigenti. Analizzando l’articolato della norma i tecnici hanno ribadito la necessità di definire dei principi fondamentali in materia di governo del territorio che fungano da cornice all’azione programmatica e legislativa per le regioni.
«La recente conclusione a Bruxelles dei negoziati sulla nuova PAC, delude chi ha a cuore l’ambiente e l’agricoltura sostenibile di piccola scala. L’Europa sembra rimanere ancorata ai vecchi schemi del liberismo e delle lobbies multinazionali ». La Repubblica, 28 giugno 2013
Siamo uniti nella diversità o diversi nell’unità? La recente conclusione a Bruxelles dei negoziati sulla nuova Politica Agricola Comune, la Pac, pur con qualche interessante novità delude chi ha a cuore l’ambiente e l’agricoltura sostenibile di piccola scala, ma più di tutto ci pone domande sull’Europa. Ci interroga sulle prospettive future, su che cosa è comune e su che cosa non lo è.
La riforma che dovrebbe orientare la qualità del nostro cibo, un possibile e auspicabile ritorno alla terra delle nuove generazioni, la cura dell’ambiente e dei territori, ha perso un’occasione storica. È stata dibattuta come non mai, partecipata dalla società civile e dalle associazioni che hanno fatto sentire forti e chiare le loro istanze, ha coinvolto per la prima volta il Parlamento europeo per dar voce ai cittadini. Ma gli obiettivi di una politica agricola più verde, equa e in grado di destinare fondi pubblici (il 40% del budget europeo) in favore di beni pubblici come il paesaggio, la qualità dei suoli e la salute, sono stati in gran parte non raggiunti oppure demandati a decisioni degli Stati membri.
Ecco, al di là delle considerazioni su che cosa è stato deciso, è importante vedere che cosa invece non è stato deciso, lasciando libertà di scelta ai singoli Stati: la questione sul supporto ai piccoli agricoltori; la riduzione dei pagamenti più corposi (il 20% delle aziende prendeva l’80% dei sussidi) o del tetto massimo percepibile in un anno; la facoltà di dedicare buona parte delle risorse destinate allo sviluppo rurale – cioè a pratiche ecologiche, sociali e produttive all’avanguardia – in favore delle rendite fondiarie (i pagamenti diretti in funzione di quanta terra si possiede) o per forme assicurative private che possono diventare deleterie.
Ora ai cittadini toccherà fare pressione sui loro Governi, il lavoro non è finito. Ma a cosa serve una Politica Agricola così importante in termini di budget e di argomenti, che dovrebbe sin dal nome essere Comune, se comune non lo è? Se non è in grado di proporre idee forti, che paghino con i nostri soldi qualcosa per cui tutti potremo avvantaggiarci? Qualcosa che ha a che fare con i beni comuni? C’è chi ha fatto notare che s’intravede nella mancanza di certe decisioni una sorta di “de-europeizzazione”.
È questione non da poco, perché ci sono diversi “fronti” che la Pac dovrebbe avvicinare, su cui dovrebbe mediare o essere dirimente in favore dei cittadini. Il primo lo potremmo chiamare “agroindustria contro piccola agricoltura”. Ci si può accapigliare all’infinito se era meglio o no obbligare tutte le aziende a destinare una piccola percentuale dei loro terreni al mantenimento di aree con funzione ecologica (3, 5 o 7%? Per la cronaca ha “vinto” il 5), ma di cosa stiamo parlando di fronte al fatto che da un lato abbiamo aziende che percepiscono 300.000 euro all’anno di sussidi mentre per i piccoli agricoltori gli Stati possono scegliere di dare un contributo annuo fino a 1.250 euro? Cosa cambiano queste cifre nell’economia di un’azienda? Lecentinaia di migliaia di euro mantengono in piedi un sistema monoculturale e non sostenibile; il migliaio sembra invece un “regalino” che certo non cambia il lavoro e la vita di una piccola azienda. È vero, ai piccoli agricoltori sono stati tolti molti obblighi burocratici, ma un aiuto concreto è un’altra cosa. In proporzione il contributo che loro restituiscono in cibo sano e buono, in cura del territorio e in beni di tutti è infinitamente più prezioso di mille euro all’anno. Da questo punto di vista la riforma Pac sembra abbia “cambiato affinché nulla cambiasse”: il grosso della torta continua ad andare ai grossi.
Un altro fronte sono le agricolture degli Stati membri di lungo corso contro quelle degli ultimi arrivati, i Paesi dell’Est. Queste ultime sono agricolture fragili, meno moderne e per questo ancora ricche di diversità naturale e produttiva: hanno diritto di crescere, ma anche di essere in qualche modo tutelate. Si parlava di “convergenza interna” per equiparare i sussidi, ma anche in questo caso alla fine decideranno i singoli Stati.
Poi c’è la questione “Europa contro Paesi in via di sviluppo”. In questo caso, se si guarda fuori dai confini continentali, ecco che magicamente torna l’unione: non è stato previsto nessun meccanismo di monitoraggio sugli effetti delle politiche commerciali della Pac – come i sussidi alle esportazioni o prezzi artificiosamente bassi – nei confronti dei piccoli agricoltori in Asia e in Africa.
Sono rimasti tutti uniti anche per annacquare le misure di “inverdimento” o “greening” delle pratiche agricole. È importante che il concetto sia stato introdotto, ma sono state anche previste così tante eccezioni nei regolamenti attuativi che il 60% delle terre coltivate europee alla fine potrebbe esserne esentato. Un buon indirizzo, ma un obbligo soltanto sulla carta.
Anche se si registrano alcuni aspetti positivi, come il già citato snellimento burocratico o l’aumento di risorse per i giovani agricoltori, questa è una Pac che lascia l’amaro in bocca. L’Europa sembra rimanere ancorata ai vecchi schemi del liberismo e delle lobbies multinazionali, senza il coraggio di proporre veri cambiamenti legati a prospettive nuove, mondiali, moderne. Quest’Europa ha generato una Politica Agricola Comune che ha poco di comune, che sembra nascondersi dietro le frammentazioni invece di imporre a tutti un indirizzo alto e nobile, severo e nell’interesse pubblico.
In tema di cibo e agricoltura, questa stessa Europa ci spinge a ripartire dalle nostre diversità per raggiungere un’unità che evidentemente è ancora tutta da definire. Mentre i piccoli agricoltori lottano da soli, i giovani hanno difficoltà a tornare alla terra, l’agroindustria continua a dominare e lo sviluppo di nuovi paradigmi sociali, economici, culturali, agricoli e alimentari, è lasciato tutto in mano a quei cittadini e contadini europei (loro sì!) dotati di tanta buona volontà e di copiose fresche idee. A ben pensarci, forse, sono proprio loro gli unici che ci fanno intravedere come sarà la vera «unione europea » del futuro.
Ciò che tutti prevedevano (salvo gli accecati dallo "sviluppismo"): lo spreco delle risorse e la devastazione del patrimonio sono stati inutili a tutti i fini, anche a quelli della "crescita" del sistema capitalisico. greenreport, 20 giugno 2013
Il Presidente dell’Aitec, Alvise Zillo Monte Xillo, ha detto: «Invochiamo misure di rilancio dell’edilizia e dei progetti infrastrutturali: il Paese necessita di un piano di riqualificazione urbana in chiave di efficienza e sostenibilità». Parole nuove, ma bisogna capire a cosa pensano Zillo ed i suoi soci quando parlano di infrastrutture perché quelle che ha in testa ancora Confindustria sono quelle pesantissime e contestatissime che ben poco hanno a che fare con l’efficienza e la sostenibilità.L’Aitec sottolinea quello che da tempo diciamo anche qui a greenreport.it: «La crisi economica ha avuto impatto sull’industria del cemento più che su qualunque altro comparto: nel 2012 il decremento della produzione è stato di oltre un quinto ed ha portato così a dimezzare complessivamente i volumi nell’arco degli ultimi sette anni, in linea con l’andamento fortemente negativo del comparto delle costruzioni».
Uno scenario drammatico, soprattutto in un Paese che per lunghi anni ha avuto il record di consumo pro-capite di cemento ed il record della cementificazione del territorio e dell’abusivismo edilizio. Di fronte a questa crisi che è frutto di scelte sbagliate e della speranza che tutto continuasse come prima e più di prima in un settore più che maturo, «La filiera del cemento e del calcestruzzo lancia alle istituzioni un appello per l’adozione di politiche industriali strutturali in grado di far ripartire gli investimenti in edilizia e infrastrutture».
L’assemblea Aitec è stata l’occasione per il convegno “Edilizia e infrastrutture: opportunità di rilancio per il Paese” che ha messo a confronto ’imprenditoria, istituzioni ed esperti. Dai dati della Relazione Annuale di Aitec emerge che «Nel 2012 la produzione di cemento in Italia si è ridotta drasticamente, con un calo pari al 20,8% rispetto al 2011, attestandosi a 26,2 milioni di tonnellate. Anche i consumi di cemento hanno registrato una riduzione del 22,1% nell’anno, arrivando a perdere il 45% circa rispetto al massimo raggiunto nel 2006. Le prospettive per il 2013 permangono critiche, con l’attesa di un ulteriore forte calo dei consumi intorno al 20-25%, dopo che nel primo trimestre 2013 si è già registrato un decremento del 22,4%, e con una situazione di capacità produttiva in eccesso al momento stimata al 40-50%».
La filiera del cemento è comunque praticamente ferma in gran parte dell’Unione europea a 27, dove però il calo medio di domanda e produzione, anche se alto, si è attestato intorno al 19%, La Germania mantiene il ruolo di primo produttore e l’Italia in crisi nera si conferma comunque al secondo posto. Il rapporto sottolinea che «Tra i Paesi più importanti, proprio la Germania e la Francia sono riuscite a contenere più di altri la crisi, con un calo della produzione pari rispettivamente al 3,6% e al 7,3%» e questi due grandi Paesi non hanno certo il nostro tasso di consumo di suolo ed hanno ben atre politiche urbanistiche e/o infrastrutturali ed un’edilizia meno intossicata dalla rendita.
Ritornando al rapporto Aitec, «Il peso dell’export è aumentato nel 2012, arrivando a rappresentare una quota del 6,6% delle destinazioni del cemento, ma permane per ragioni strutturali, legate soprattutto all’elevata incidenza del trasporto sul costo finale del prodotto, l’impossibilità di considerarlo uno sbocco per compensare la carenza di domanda interna». Il settore del calcestruzzo preconfezionato, assorbendo circa il 49% della produzione, continua ad essere il comparto più rilevante tra quelli di destinazione del cemento, ma «Ha vissuto un anno molto negativo, facendo registrare un calo dei volumi di produzione pari al 22,5%, in linea con gli effetti della crisi sull’intera filiera».
Secondo il presidente dell’Aitec «Il rilancio di edilizia e infrastrutture rappresenterebbe un’opportunità di sviluppo per l’intero Paese, con effetti moltiplicativi su occupazione ed investimenti. Non è più rinviabile la decisione di avviare un piano di riqualificazione urbana, ispirato all’efficienza energetica e alla sostenibilità ambientale, in linea con quanto fatto nel resto d’Europa e che possa mettere al centro dell’attenzione il recupero di un patrimonio edilizio italiano, uno dei più vetusti in assoluto».
Qui si osserva veramente un cambio di passo, come i cementieri che cominciano a dire cose che fino solo a qualche mese fa bollavano come ubbie ambientaliste: «Proprio il tema del recupero del patrimonio abitativo italiano è oggi al centro delle proposte di Aitec. Il 60% degli edifici, pari a 1,5 milioni di unità, è stato costruito prima del 1974, anno di entrata in vigore della prima normativa antisismica e necessita pertanto di messa in sicurezza. Tale intervento di demolizione e ricostruzione, ad impatto zero pertanto in termini di consumo di suolo, consentirebbe circa 10 anni di piena occupazione per il mondo delle costruzioni e il riassorbimento di 600.000 addetti della filiera».
La proposta di Aitec è simile a quella che da anni fanno associazioni come Itala Nostra, Legambiente, Inu e gli urbanisti più avveduti: «Concentrare gli interventi sulle aree industriali dismesse e sui quartieri residenziali caratterizzati da una scarsa qualità architettonica e inadeguati rispetto alle attuali normative sismiche, idrogeologiche e di risparmio energetico. Il passaggio dalla demolizione alla ricostruzione può inoltre prevedere forme di reimpiego degli scarti provenienti dalla demolizione, ad esempio ricavando dal calcestruzzo armato gli aggregati per i nuovi conglomerati cementizi, limitando in tal modo sia il consumo di materie prime che il ricorso alle discariche».
Si potrebbe chiosare che dai diamanti non nasce niente, ma che dalla crisi del cemento italiano potrebbe anche nascere una nuova politica urbanistica che faccia tesoro dell’ingordo assalto al territorio che ci ha portato alla attuale crisi verticale della rendita diventata improvvisamente un insostenibile fardello, non solo per il paesaggio e la bellezza dell’Italia “assassinata dal catrame e dal cemento”, ma anche per le tasche di chi sul consumo di territorio ha investito.
Alcune brevi considerazioni, dopo la lettura dei due disegni di legge:
1. Innanzitutto, c’è un problema di corrispondenza tra etichetta e contenuto, tra gli obiettivi dichiarati e quelli realmente perseguiti. Il ddl Realacci dedica al consumo di suolo meno di un terzo del testo dell’articolato. Il 70% del ddl è funzionale all’introduzione, con legge nazionale, degli istituti classici dell’urbanistica contrattata (perequazione, compensazione, trasferimento di diritti edificatori connaturati alla proprietà delle aree). Il consumo di suolo c’entra poco, lo scopo è quello di superare la 1150/42 e di mettere la mordacchia all’articolo 42 della Costituzione.
2. Il ddl governativo, invece, opera effettivamente entro il quadro del problema che si intende affrontare. La scelta è per il modello tedesco, basato sulla quantificazione di obiettivi quantitativi di consumo di suolo a scala nazionale e regionale. Gli obiettivi sono definiti e gestiti, con meccanismi co-decisionali contingentati, dal Governo e dalla Conferenza Stato-Regioni.
3. Il ddl Realacci simula un dispositivo in apparenza simile, declassandolo prudentemente però al rango di intese strategiche Stato-Regioni, su obiettivi generici di contenimento del consumo di suolo. Si tratta di fuffa allo stato puro.
4. Al posto degli obiettivi quantitativi stringenti proposti dal ddl governativo, il ddl Realacci punta tutto sui disincentivi economici: gli oneri di urbanizzazione triplicano nel caso di urbanizzazione di suoli forestali o a elevata naturalità, duplicano nel caso di suoli agricoli. E’ una scelta singolare nel panorama europeo, nel quale la leva economica è sempre complementare a quella regolativa, sia nel modello tedesco, sia in quello inglese, basato su obiettivi vincolanti di riuso di brownfields.
5. La maggiorazione degli oneri di urbanizzazione - misura di apparente concretezza -, finisce per avere in realtà un’effettività tutta simbolica, rispetto all’entità del plusvalore generato dalla trasformazione edilizia di suoli agorforestali.
6. C’è pure da osservare che le dinamiche di uso delle terre in Italia, con le formazioni forestali in fase di impetuosa espansione, e le aree agricole consumate al ritmo di 35.000 ettari l’anno (quattro volte la città di Napoli, i tre quarti nelle pianure fertili del Paese). non giustificano il maggior peso attribuito al naturale rispetto all’agricolo. Paradossalmente dovrebbe essere il contrario.
7. Il ddl Realacci prevede anche la possibilità, al posto del pagamento monetario, della cessione di aree verdi con funzioni di compensazione ecologica. In Germania queste cose si fanno, sulla base di procedure molto rigorose, e sempre come estrema ratio. Come introdotte dal ddl Realacci, di opzione percorribile in prima battuta, un simile istituto prefigura un doppio danno, con il consumo consentito di paesaggio rurale di qualità, in cambio di spazi banali, la cui gestione e destino futuri sono tutta un’incognita.
8. In conclusione: il ddl Realacci con il consumo di suolo e con la tutela delle aree agroforestali c’entra veramente poco: è una strana legge urbanistica camuffata. Il ddl governativo costituisce invece un’ottima base di discussione, per dare al Paese uno strumento efficace, del quale c’è assolutamente bisogno.
Un utile confronto tra alcuni testi di legge sul consumo di suolo (Realacci-Catania, Causi, Lanzillotta, Stefano, Catania-Realacci) :cercando di fare chiarezza in un panorama confuso, dove buone intenzione pronunciate e perverse intenzioni praticate ambiguamente s'intrecciano. 16.6.2013
Tra le poche decisioni positive del governo, l'approvazione di un ddl sul consumo di suolo che riprende i contenuti del ddl Catania, con l'effetto di sparigliare il gioco dei lupacchiotti e mettere ai margini la "minaccia Realacci". In calce il testo del provvedimento.
Testo del provvedimento
Disegno di legge - Contenimento del consumo del suolo eriuso del suolo edificato
Art. 1.
(Finalità e ambito della legge)
1. La presente legge detta princìpi fondamentali dell'ordinamento ai sensidegli articoli 9 e 117 della Costituzione per la valorizzazione e la tutela delsuolo non edificato, con particolare riguardo alle aree e agli immobilisottoposti a tutela paesaggistica e ai terreni agricoli, al fine di promuoveree tutelare l'attività agricola, il paesaggio e l'ambiente, nonché di contenereil consumo di suolo quale bene comune e risorsa non rinnovabile che esplicafunzioni e produce servizi ecosistemici e che va tutelato anche in funzionedella prevenzione e mitigazione degli eventi di dissesto idrogeologico.
2. La priorità del riuso e della rigenerazione edilizia del suolo edificatoesistente, rispetto all'ulteriore consumo di suolo inedificato, costituisceprincipio fondamentale della materia del governo del territorio. Salve leprevisioni di maggiore tutela delle aree inedificate introdotte dallalegislazione regionale attuativa, il principio della priorità del riusocomporta almeno l'obbligo di adeguata e documentata motivazione, in tutti gliatti progettuali, autorizzativi, approvativi e di assenso comunque denominatirelativi a interventi pubblici e privati di trasformazione del territorio,circa l'impossibilità o l'eccessiva onerosità di localizzazioni alternative suaree già interessate da processi di edificazione, ma inutilizzate o comunquesuscettibili di rigenerazione, recupero, riqualificazione o più efficientesfruttamento.
3. Le politiche di tutela e di valorizzazione del paesaggio, di contenimento del consumo del suolo e di sviluppo territorialesostenibile sono coordinate con la pianificazione territoriale e paesaggistica.
Art. 2.
(Definizioni)
1. Ai fini della presente legge, si intende:
a) per «superficie agricola»: i terreni qualificati tali dagli strumentiurbanistici nonché le aree di fatto utilizzate a scopi agricoliindipendentemente dalla destinazione urbanistica e le aree, comunque libere daedificazioni e infrastrutture, suscettibili di utilizzazione agricola;
b) per «consumo di suolo»: la riduzione di superficie agricola per effetto diinterventi di impermeabilizzazione, urbanizzazione ed edificazione non connessiall'attività agricola.
7. Con decreto del Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali,d'intesa con il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del maree con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, e acquisita altresìl'intesa della Conferenza unificata, è istituito, senza nuovi o maggiori oneriper il bilancio dello Stato, un Comitato con la funzione di monitorare ilconsumo di superficie agricola sul territorio nazionale e l'attuazione dellapresente legge. Il Comitato opera presso la Direzione generale per lapromozione della qualità agroalimentare del Dipartimento delle politichecompetitive, della qualità agroalimentare e della pesca del Ministero dellepolitiche agricole alimentari e forestali e le funzioni di segreteria sonosvolte dalla Direzione medesima nell'ambito delle ordinarie competenze. Allespese di funzionamento del Comitato si fa fronte nei limiti delle risorsefinanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente. La partecipazioneal Comitato è a titolo gratuito e non comporta l'attribuzione di alcunaindennità neanche a titolo di rimborso spese. Il Comitato redige, entro il 31dicembre di ogni anno, un rapporto sul consumo di suolo in ambito nazionale,che il Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali presenta, entroil 31 marzo successivo, al Parlamento.
8. Il decreto di cui al comma 7 è adottato entro sei mesi dalla data di entratain vigore della presente legge.
9. Il Comitato di cui al comma 7 è composto da:
a) due rappresentanti del Ministero delle politiche agricole alimentari eforestali;
b) due rappresentanti del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorioe del mare;
c) due rappresentanti del Ministero per i beni e le attività culturali;
d) due rappresentanti del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti;
e) un rappresentante del Dipartimento della protezione civile della Presidenzadel Consiglio dei Ministri;
f) un rappresentante dell'Istituto nazionale di statistica;
g) sette rappresentanti designati dalla Conferenza unificata, di cui duerappresentanti dell'Unione delle province italiane (UPI) e due rappresentantidell'Associazione nazionale dei comuni italiani (ANCI).
10. Le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano stabiliscono,entro il limite di cui al comma 1 e con la cadenza temporale decennale di cuial comma 4, l'estensione della superficie agricola consumabile a livelloprovinciale e determinano i criteri e le modalità per la definizione dei limitid'uso del suolo agricolo nella pianificazione territoriale degli enti locali,fatti salvi i diversi sistemi di pianificazione territoriale regionale. Illimite stabilito con il decreto di cui al comma l rappresenta, per ciascunambito regionale, il tetto massimo delle trasformazioni edificatorie di areeagricole che possono essere consentite nel quadro del piano paesaggistico,ferma restando la possibilità che tale strumento, nella definizione diprescrizioni e previsioni ai sensi dell'articolo 135, comma 4, del codice deibeni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004,n. 42, e successive modificazioni, e in attuazione, in particolare, di quantoprevisto dalla lettera c) del medesimo comma 4 dell'articolo 135, determinipossibilità di consumo del suolo complessivamente inferiori.
Art. 4.
(Priorità del riuso)
1. Al fine di attuare il principio di cui all'art. 1, comma 2, i Comuni,nell'ambito dell'espletamento delle proprie ordinarie competenze e senza nuovio maggiori oneri a carico della finanza pubblica, procedono al censimento dellearee del territorio comunale già interessate da processi di edificazione, mainutilizzate o suscettibili di rigenerazione, recupero, riqualificazione;procedono altresì, all'interno delle aree censite, alla costituzione e allatenuta di un elenco delle aree suscettibili di prioritaria utilizzazione a finiedificatori di rigenerazione urbana e di localizzazione di nuovi investimentiproduttivi e infrastrutturali.
2. Il censimento e la formazione dell'elenco di cui al comma 1 sono effettuatientro il termine di un anno dalla data di entrata in vigore della presentelegge e l'elenco è aggiornato annualmente. I Comuni vi provvedono ancheattraverso gli sportelli unici per le attività produttive e gli sportelli uniciper l'edilizia, avvalendosi della collaborazione delle Camere di commercio edei Consorzi delle aree di sviluppo industriale e stipulando appositi accordidi collaborazione con le associazioni imprenditoriali del territorio.
3. Decorso il termine di cui al comma 2 senza che il censimento sia statoconcluso o senza che l'elenco sia stato redatto, è vietata la realizzazione,nel territorio del Comune inadempiente, di interventi edificatori, sia pubbliciche privati, sia residenziali, sia di servizi che di attività produttive,comportanti, anche solo parzialmente, consumo di suolo inedificato.
Art. 5
(Divieto di mutamento di uso delle superfici agricole)
1. Ferme restando le vigenti disposizioni di legge in materia di urbanistica epianificazione del territorio, le superfici agricole in favore delle quali sonostati erogati aiuti di Stato o aiuti europei non possono essere utilizzate peruno scopo diverso da quello agricolo per almeno cinque anni dall'ultimaerogazione. Sono comunque consentiti, nel rispetto degli strumenti urbanisticivigenti, gli interventi strumentali all'esercizio delle attività di cuiall'articolo 2135 del codice civile, ivi compreso l'agriturismo, fatte salve ledisposizioni contenute nell'articolo 10 della legge 21 novembre 2000, n. 353, esuccessive modificazioni.
2. Negli atti di compravendita dei terreni di cui al comma 1 deve essereespressamente richiamato il vincolo indicato nel comma 1 pena la nullitàdell'atto.
3. Fatto salvo quanto previsto dalle disposizioni previste dal testo unico dicui al decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, nel casodi violazione del divieto di cui al comma 1 si applica al trasgressore lasanzione amministrativa non inferiore a 5.000 euro e non superiore a 50.000 euroe la sanzione accessoria della demolizione delle opere eventualmente costruitee del ripristino dello stato dei luoghi.
Art. 6.
(Misure di incentivazione)
1. Ai comuni e alle province che avviano azioni concrete per localizzare leprevisioni insediative prioritariamente nelle aree urbane dismesse e cheprocedono al recupero dei nuclei abitati rurali mediante manutenzione,ristrutturazione, restauro, risanamento conservativo di edifici esistenti edella viabilità rurale e conservazione ambientale del territorio, è attribuitapriorità nella concessione di finanziamenti statali e regionali eventualmenteprevisti in materia edilizia.
2. Il medesimo ordine di priorità di cui al comma 1 è attribuito ai privati,singoli o associati, che intendono realizzare il recupero di edifici e delleinfrastrutture rurali nei nuclei abitati rurali, mediante gli interventi di cuial comma 1.
3. Le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, per le finalità dicui all'articolo 1, possono individuare misure di semplificazione, e misure diincentivazione, anche di natura fiscale, per il recupero del patrimonioedilizio esistente.
Art. 8.
(Destinazione dei proventi dei titoli abilitativi edilizi)
1. I proventi dei titoli abilitativi edilizi e delle sanzioni di cuiall'articolo 5, nonché delle sanzioni di cui al citato testo unico di cui aldecreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, sono destinatiesclusivamente alla realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria esecondaria, al risanamento di complessi edilizi compresi nei centri storici, ainterventi di qualificazione dell'ambiente e del paesaggio, anche ai fini dellamessa in sicurezza delle aree esposte a rischio idrogeologico.
Art. 9
(Disposizioni transitorie e finali)
1. A decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge e fino allaadozione del decreto di cui all'articolo 3, comma 1, e comunque non oltre iltermine di tre anni, non è consentito il consumo di superficie agricola tranneche per la realizzazione di interventi già autorizzati e previsti daglistrumenti urbanistici vigenti, nonché per i lavori e le opere già inseritinegli strumenti di programmazione delle stazioni appaltanti e nel programma dicui all'articolo 1 della legge 21 dicembre 2001, n. 443.
2. Sono fatte salve le competenze attribuite in maniera esclusiva alle regionia statuto speciale ed alle province autonome di Trento e di Bolzano.
3. La presente legge costituisce legge di riforma economica-sociale ed èattuata dalle regioni a statuto speciale e dalle province autonome di Trento edi Bolzano nel rispetto dei relativi statuti e delle disposizioni diattuazione.
E il catalogo delle sciagure cucinate dai saccheggiatori “pacificati” non è finito: vedi la sintesi del "pacchetto semplificazioni", tratto da Edilportale, in calce. Qualcuno finalmente si opporrà? Il Fatto Quotidiano, 13 giugno 2013. Con postilla
Se il Ddl semplificazione, ancora in bozza, non verrà cambiato il paesaggio subirà un altro schiaffo. Iniziamo dalla riduzione dei tempi da 90 a 45 giorni per l'autorizzazione paesaggistica. Ecco cosa ne pensa Salvatore Settis, docente alla Normale di Pisa, uno dei più autorevoli e appassionati difensori della tutela del paesaggio e dell'ambiente, e vincitore del prestigioso premio letterario Gambrinus "Giuseppe Mazzotti": “È completamento sbagliato. Già i tempi sono stretti e le sovraintendenze non sono in condizione di lavorare visto il massiccio ridimensionamento del personale dovuto a pensionamenti che non vengono sostituiti”.
In cantiere c'è una procedura semplificata per ottenere l'autorizzazione edilizia e anche un decreto del Presidente della Repubblica sulle autorizzazioni paesaggistiche.Come si può “semplificare” d'ufficio anche nelle aeree soggette a vincolo individuale? Le cosiddette semplificazioni non debbono mai essere fatte a discapito della tutela del paesaggio, proprio come recita il principio sancito dall'art. 9 della Costituzione. Sarebbe un altro modo per mortificare il compito della sovraintendenza che negli ultimi anni ha subito tagli. Prima dal governo Berlusconi, poi da quello Monti. Semplificare non equivale ad andare contro la Costituzione.
No. Realacci può rispondere ciò che vuole: è una legge sbagliata che non è contro il consumo di suolo ma lo incrementa. Ripeto: è un bel titolo, peccato che il testo abbia invece l’aspetto di un patto scellerato fra guardie e ladri di territorio. Alcuni firmatari della proposta Realacci mi hanno confessato di aver firmato sulla fiducia, senza capirne il senso. Mi chiedo: per quanto “larghe” siano le intese su cui si regge il governo, come possono passare inosservate queste norme-inciucio? Sono attentati al paesaggio e all’ambiente nonostante il ministro dell'Ambiente Orlando abbia definito prioritario il rischio idrogeologico, la tutela degli ecosistemi, la riduzione del consumo di territorio, la panificazione delle risorse idriche. La domanda è: nel buio delle “larghe intese”, come lavora questo Parlamento eletto con il Porcellum? Come può essere legittimato non dico a varare, ma anche solo sognare una qualsiasi riforma della Costituzione?”.
L’ulteriore provvedimento sulle “semplificazioni” delle autorizzazioni edilizie, cui si fa cenno nell’articolo, (ne riportiamo qui sotto la sintesi da Edilportale) sono tutte volte a ridurre i controlli sulla legittimità e gli effetti delle procedure tecnico-amministrative. Sarebbe bene che i cittadini (almeno quelli che sono stati eletti – diciamo così – eletti per governare sapessero che quelle procedure sono una garanzia dei vari aspetti dell’interesse pubblico coinvolto nelle trasformazioni del territorio. L’esperienza insegna che quelle procedure corrispondono a tempi più o meno lunghi a seconda del modo in cui gli uffici pubblici funzionano: dove i comuni, le province e le regioni funzionano bene la procedura per l’approvazione di un piano urbanistico o di un progetto edilizio conforme alle regole può durare dieci o cento volte meno in un ufficio quailficato e attrezzato bene di quanto ne impiega un’analogo ufficio peggio qualificato e attrezzato. Da un trentennio circa contro gli uffici pubblici è in atto una campagna accanita di parole e fatti tendenti a indebolirne il ruolo, la responsabilità, l’autorevolezza, le capacità operative. Con le “semplificazioni” la campagna giunge alla sua logica conclusione: non “meno stato più mercato, ma “via lo stato, basta il mercato” E poi questi coccodrilli piangono sul consumo di suolo e la distruzione del paesaggio…Mais allez chier, direbbero Oltralpe (e.s.)
Ecco una sintesi del “pacchetto semplificazioni”, tratta da Edilportale
«12/06/2013 - Le ristrutturazioni con demolizione e ricostruzione non dovranno più rispettare il vincolo della sagoma dell’edificio preesistente. È una delle proposte contenute nel pacchetto per le semplificazioni all’esame del Governo. Nel testo spiccano anche l’obbligo di adottare un provvedimento espresso per il rilascio del permesso di costruire per lavori su beni vincolati e la proroga di due anni dei titoli abilitativi.
«Permesso di costruire
«In caso di interventi sui beni vincolati, la normativa attuale prevede che se uno degli atti di assenso dell’autorità preposta alla tutela del vincolo non è favorevole, dopo 30 giorni dalla proposta di provvedimento scatta il silenzio-rifiuto.
Il Pacchetto Semplificazioni propone invece che, dopo il rilascio dell’atto di assenso da parte dell’autorità preposta alla tutela del vincolo, il Comune concluda il procedimento per il rilascio del permesso di costruire con un provvedimento espresso e motivato. Nel caso in cui l’atto di assenso venga negato, scaduto il termine per il rilascio del permesso di costruire, questo si intende respinto. Come si legge nella relazione illustrativa, il cittadino risulta maggiormente tutelato da questa soluzione perché può subito impugnare il silenzio rifiuto.
Per quanto riguarda gli immobili vincolati, il testo del Pacchetto Semplificazioni specifica che, in caso di inerzia da parte della Soprintendenza, il Comune può pronunciarsi a prescindere dal parere.
Proroga dei titoli abilitativi
Per agevolare la prosecuzione delle attività edilizie, la bozza propone la proroga di due anni per Permesso di costruire, Dia e Scia. Se la misura dovesse passare, i lavori non dovranno più iniziare entro un anno dal rilascio del titolo abilitativo e concludersi entro tre anni dall’avvio dei lavori, ma avranno a disposizione un tempo maggiore. In questa direzione si stanno muovendo già alcune Regioni, come le Marche.»
«Scia e Sportello unico per l’edilizia
«Secondo la normativa attuale, lo Sportello Unico per l’Edilizia (SUE), deve acquisire direttamente o tramite conferenza di servizi gli atti di assenso necessari per il rilascio del permesso di costruire. Il Pacchetto Semplificazioni prevede che l’interessato, anche prima di presentare la Scia o la comunicazione di inizio lavori, possa richiedere al SUE di acquisire gli atti di assenso necessari per l’intervento edilizio. In questo caso i termini sono dimezzati perché se entro 30 giorni gli atti di assenso non vengono rilasciati il SUE indice la conferenza di servizi.»
«Attività di edilizia libera
«Il testo della bozza propone di eliminare l’obbligo di allegare alla comunicazione di inizio lavori la relazione asseverata dal tecnico abilitato che dichiara di non avere rapporti di dipendenza né con l’impresa né con il committente.»
Da un gruppo di amici di eddyburg, Vezio De Lucia, Paolo Berdini, Luca De Lucia, Antonio di Gennaro, Edoardo Salzano, Giancarlo Storto, una proposta di legge statale, essenziale e rigorosa, per contrastare nell’immediato il consumo di suolo da dissennata espansione dell’urbanizzato. 3 giugno 2013
Relazione
Ricerche convergenti evidenziano come ogni anno, in Italia, si urbanizzano 35.000 ettari di suolo agricolo e forestale, una superficie pari a 4 volte quella di una città come Napoli (MIRAF, 2012). I tre quarti della crescita urbana interessano le pianure fertili del paese: si tratta di aree strategiche per la sicurezza alimentare della nazione (il tasso di auto approvvigionamento alimentare dell’Italia è attualmente, secondo i dati forniti dal MIRAF, intorno all’80-85%), a più elevata capacità produttiva, sovente caratterizzate da aspetti rilevanti di rischio idraulico e di fragilità ambientale. Un aspetto preoccupante del fenomeno, quando analizzato alla scala geografica nazionale, è che se da un lato la crescita urbana tende a concentrarsi, in termini di valori assoluti, nelle regioni a più elevato tasso di urbanizzazione (Lombardia, Emilia Romagna, Campania, dove si è prossimi o si è superato il valore del 10% della superficie territoriale), i tassi più alti di crescita urbana si riscontrano invece in regioni “insospettabili”, nelle quali il territorio e il paesaggio rurale si presentano più integri, come per esempio la Basilicata e il Molise (ISTAT, 2012), dove appaiono particolarmente attive le dinamiche di dispersione insediativa.
Il ritmo vertiginoso della nuova edificazione in territorio agricolo e nello spazio aperto è stato determinato in particolare da due fattori: da una parte, l’abbandono di un patrimonio sempre più vasto di immobili (privati e pubblici) dismessi, sottoutilizzati, variamente degradati; dall’altra, la realizzazione di nuovi insediamenti a bassa e bassissima densità. Basta citare alcuni dati relativi al comune di Roma, dove ammonta a circa 15 mila ettari, un quarto della città costruita, la stima della superficie urbanizzata da rigenerare (G. Caudo, 2013), e dove sono state realizzate nuove espansioni con densità insediative irrisorie (13 abitanti ad ettaro, W. Tocci, 2008), da borgo rurale e non da città europea.
La presente proposta intende contrastare questa drammatica situazione attraverso rigorose norme statali, immediatamente efficaci, che consentano di bloccare il consumo del suolo, avviando contemporaneamente un’azione a vasta scala di recupero e rigenerazione del patrimonio immobiliare abbandonato e di miglior uso delle aree edificate a bassa densità. È appena il caso di chiarire che la strategia proposta non va confusa con il cosiddetto sviluppo zero. Siamo pienamente consapevoli che i bisogni da soddisfare in Italia sono ancora enormi, anche se diversi da luogo a luogo, e sarebbe insensato pensare di limitarli: le disponibilità di spazio all’interno del territorio urbanizzato consentono di far fronte tranquillamente a ogni necessità.
È apparso invece opportuno e convincente indicare – all’art. 1 della proposta – che la salvaguardia del territorio non urbanizzato, in considerazione della sua valenza ambientale e della sua diretta connessione con la qualità di vita dei singoli e delle collettività, costituisce parte integrante della tutela dell’ambiente e del paesaggio. In quanto tale, la relativa disciplina rientra nella competenza legislativa esclusiva dello Stato, ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. s) della Costituzione. Questo cambio di prospettiva, che si traduce in una significativa compressione delle competenze legislative delle regioni, è giustificato dal valore collettivo che tali porzioni di territorio hanno assunto non solo per i singoli e le collettività di oggi ma, in una logica di solidarietà intergenerazionale, anche per quelli di domani.
L’art. 2 fornisce – al comma 1 – un’essenziale definizione del territorio urbanizzato formato da centri storici ed espansioni recenti. Mentre – al comma 2 – il territorio non urbanizzato è articolato in tre segmenti: aree naturali, aree agricole, aree incolte. Il comma 3 rappresenta il nucleo centrale della proposta consentendo interventi di nuova edificazione esclusivamente nell’ambito delle aree urbanizzate. L’eccezionalità di eventuali deroghe – al comma 4 – è resa evidente dall’aver subordinato il loro assentimento ad appositi provvedimenti, caso per caso, dei consigli regionali.
L’art. 3 – al comma 1 – fissa in 120 giorni il termine entro il quale i comuni provvedono con deliberazione consiliare a perimetrare il territorio urbanizzato e stabilisce – al comma 2 – termini e procedure per l’esercizio dei poteri sostitutivi regionali in caso di inadempimento.
Infine, l’art. 4 abroga l’infelice norma del 2007 che aveva consentito di utilizzare gli oneri di urbanizzazione della legge Bucalossi anche per la spesa corrente, norma che ha operato come un formidabile impulso all’indiscriminata incentivazione dell’attività edilizia.
Articolato
Art. 1 (Tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali)
1. La salvaguardia del territorio non urbanizzato è parte della tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali, ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. s) della Costituzione.
Art. 2 (Territorio urbanizzato)
1. Il territorio urbanizzato di ciascun comune è costituito da:
- centri storici, comprendenti anche l’edilizia circostante realizzata fino alla caduta del fascismo;
- espansioni recenti edificate con continuità a fini residenziali, produttivi, commerciali, direzionali, infrastrutturali, di servizio, ivi compresi i lotti interclusi dotati di urbanizzazione primaria.
2. Non rientrano nel territorio urbanizzato:
- le aree naturali o in condizioni di prevalente naturalità;
- le aree ad uso agricolo, forestale, pascolativo;
- le aree incolte o in abbandono.
Dette tipologie di aree non rientrano nel territorio urbanizzato ancorché site all’interno di esso, o quando includenti edificato sparso o discontinuo, o borghi e piccoli insediamenti presenti nel territorio rurale.
3. A seguito della perimetrazione di cui all’art. 3, le trasformazioni insediative o infrastrutturali che comportano impegno di suolo non edificato sono consentite esclusivamente nell’ambito delle espansioni recenti come definite al comma 1.
4. Eventuali deroghe sono singolarmente autorizzate con provvedimento del consiglio regionale.
Art. 3 (Perimetrazione)
1. Entro 120 giorni dalla pubblicazione della presente legge, i comuni provvedono con deliberazione del consiglio a perimetrare il territorio urbanizzato.
2. In caso di mancato adempimento, le regioni interessate provvedono, previa diffida, nel termine dei successivi 120 giorni.
Art. 4 (Abrogazione di norme)
1. Il comma 8 dell’articolo 2 della legge 24 dicembre 2007, n. 244 è abrogato.