loader
menu
© 2025 Eddyburg

La battaglia dell'acqua sfida italiana in Patagonia

di Paolo Hutter

Da una parte le promesse di indipendenza energetica, tutta in fonti rinnovabili. Dall'altra l'accusa di devastazione ambientale in una delle ultime macro-aree intatte del pianeta. Il progetto di cinque grandi dighe nel cuore della Patagonia cilena, nei fiumi Baker e Pascua, duemilatrecento chilometri a sud di , ha suscitato il più vasto e colto movimento di protesta nella storia dei conflitti ambientali in Cile. Non solo manifestazioni e petizioni locali, ma documentari, libri di fotografie, manifesti appesi in tutto il Cile, concerti, canzoni, omelie, studi, controinchieste. Una vicenda che, sorprendentemente, ha anche un forte risvolto italiano. Da una parte c'è Enel, proprietaria di Endesa e quindi azionista di maggioranza dell'impresa Hidroaysèn, proprietaria dei diritti dell'acqua e promotrice dell'iniziativa. Dall'altra ci sono le forze locali e i gruppi ambientalisti uniti nel Consiglio di Difesa della Patagonia che hanno deciso di farsi rappresentare dal vescovo di Aysèn, Luigi Infanti, nato a Udine, e di contare sulla sua prossima "missione diplomatica" in Italia.

Ma ovviamente la controversia è soprattutto un grosso nodo da sciogliere per il governo del primo presidente di destra appena eletto, Sebastian Piñera, il cui cuore batte per dighe e tralicci, ma il cui cervello suggerisce estrema prudenza per non passare fin da subito da uomo che preferisce gli affari all'ambiente. In campagna elettorale il tema è stato abbastanza rimosso, soprattutto nel ballottaggio. I candidati minori di sinistra - Marco Enriquez Ominami e Jorge Arrate - hanno sposato la causa di Patagonia "sin represas" (senza dighe) ma non l'hanno enfatizzata. Sia Piñera che Frei (il candidato del centrosinistra che ha perso le elezioni, ndr) erano e sono invece comunque favorevoli allo sfruttamento idroelettrico dei fiumi, ma non potevano rischiare di perdere voti preziosi. Soprattutto dopo che tre differenti sondaggi hanno mostrato una percentuale di contrari alle dighe in Patagonia oscillante tra il 52 e il 58 per cento. Nei programmi elettorali dei due principali candidati si è parlato genericamente di energie rinnovabili e le poche volte che sono stati interrogati sul progetto Hidroaysen hanno risposto che «gli organi preposti faranno le valutazioni di impatto ambientale, e le decisioni saranno tecniche».

Il duello di carte bollate ha raggiunto livelli altissimi. L'impresa Hidroaysèn deve rispondere a 1.114 osservazioni presentate dalla Conama, e ha chiesto più tempo, fino al 30 giugno. Aveva presentato la sua prima Valutazione d'impatto ambientale nel 2008. Il Consiglio di difesa della Patagonia aveva riversato sugli uffici della Conama migliaia di osservazioni di cittadini. Gli uffici avevano quindi presentato 2.698 obiezioni. Hidroaysen aveva chiesto nove mesi di proroga, poi altri due, consegnando le sue risposte il 20 ottobre 2009. Le attuali 1.114 osservazioni sono la risposta alla risposta dell'impresa.

Le contestazioni riguardano innanzitutto l'impatto delle cinque grandi dighe sul corso dei fiumi, sul paesaggio circostante, sulla biodiversità e sulle specie in via di estinzione. Per i cinque bacini verranno inondati oltre quattromila ettari adiacenti ai fiumi Baker e Pascua. Poca roba, ribatte Hidroaysen, rispetto alle dimensioni della regione e a quanto inondano le nuove dighe in genere nel mondo. Qualche anno fa vi fu un forte conflitto con alcune decine di famiglie di mapuches - l'etnia indigena del Cile - che vivono in quello che doveva diventare il bacino della centrale idroelettrica Ralco, sempre di Endesa (allora non ancora Enel) nel centro sud del Cile.

L'immagine della donna mapuche che, furente, sputa in faccia a un dirigente di Endesa fece il giro del paese. Ma questa volta non c'è un problema di indigeni da delocalizzare. E forse per questo Endesa, all'inizio, pensava che il progetto avrebbe avuto la strada spianata. Dopo tutti i problemi che ci sono stati con l'approvvigionamento di gas dall'Argentina puntavano sull'argomento "energia pulita prodotta al di qua delle Ande". Ma gli ambientalisti sostengono che i bacini, soprattutto quelli più alti, altereranno la temperatura favorendo lo scioglimento dei ghiacciai.

Gli operatori turistici della Patagonia sono contrari. Lucio Cuenca della Ocla - dell'Osservatorio Conflitti Ambientali - sostiene che le cinque grandi dighe provocherebbero più emissioni perché danneggerebbero le capacità di assorbimento della CO2 da parte della flora acquatica che verrebbe stravolta. Apparentemente sono argomenti tecnici raffinati e opinabili. Ma nelle corde di Patagonia sin Represas c'è molto di più.

Il vescovo di Aysen, Luis (in origine Luigi) Infanti, rappresenta bene il mix di argomenti ideali, sentimentali e scientifici che hanno reso così popolare la causa del "no alle dighe", anche a migliaia di chilometri di distanza. L'ho incontrato qualche giorno fa, in un assolato pomeriggio estivo, nella canonica di una parrocchia di Santiago del Cile. Appuntamento non facile, poiché Infante rifiuta di possedere un cellulare. Mi sono trovato di fronte un cinquantasettenne alto e dinamico, che veste come un parroco in clergyman e il cui principale motivo d'orgoglio è quello di aver portato nella sperduta Coyhaique dal Brasile il teologo della liberazione Leonardo Boff. Persona affabile e appassionata, ha tagliato una fetta d'anguria e me l'ha offerta. Ma ad emozionarmi è stato altro. Infante mi ha raccontato di essere arrivato in Cile, sbarcando a Valparaiso dall'Italia, il 12 agosto del 1973, per terminare il seminario e laurearsi in teologia. È lo stesso giorno, mese e anno in cui io, studente di Lotta Continua, entravo in Cile in pullman dal Perù, per andare a conoscere da vicino l'esperienza di Unidad Popular. Poi, lui, in Cile ci è rimasto, fino a diventare vescovo. E ora ci incontriamo, trentasei anni dopo, per parlare delle dighe dell'Enel.

Nelle interviste, come nella sua Lettera pastorale - "Dacci oggi la nostra acqua quotidiana" - Infante evoca significati simbolici, teologici, antropologici in difesa del corso naturale dei fiumi della Patagonia: acqua fonte di vita, sorella acqua. Tra le citazioni c'è il discorso del capo indiano Seattle, della tribù Squamish, che nel 1865 ammoniva il governatore bianco: «I fiumi sono nostri fratelli. Dovreste trattare i fiumi con la stessa delicatezza con cui trattereste un fratello». Su un filone analogo del resto troviamo buona parte dei testi delle canzoni del disco Voci per la Patagonia, brani realizzati per Patagonia sin Represas da quattordici autori pop e folk di successo, Inti Illimani compresi (hanno composto per la causa la Cueca de los Rios ).

Il vescovo sa bene che questi argomenti non bastano e altrettanto bene ha imparato, dagli ambientalisti di Ecosistemas, Chile Sustentable, Ocla a declinare il tema generale dell'energia. «Non c'è bisogno di ferire la Patagonia quando ci sono immense potenzialità di energia grazie al sole, al vento, alla geotermia». Del resto la lunghezza e l'impatto dell'elettrodotto che si dovrebbe realizzare, quella striscia di duemilatrecento chilometri di tralicci per portare l'energia da Aysèn a Santiago, sono forse il punto più debole del progetto. Per l'opinione pubblica c'è poi un aspetto che travalica le questioni ambientali: la proprietà delle acque. Luis Infanti partecipa anche alla campagna per la rinazionalizzazione dell'acqua. Il regime di Pinochet ne aveva avviato la privatizzazione con il Codice delle acque del 1981, attribuendo in concessione interi bacini fluviali. Stiamo parlando di tutta l'acqua, non solo - come in Italia - della gestione degli acquedotti. «Comprando Endesa, Enel ha acquisito automaticamente la proprietà delle acque dei fiumi» dice il vescovo, e preannuncia così uno dei temi delle conferenze che farà a Roma a fine aprile: «È legale, ma eticamente è una situazione insostenibile. Chiederemo a Enel di trovare il modo di restituire questa concessione al popolo cileno». Il vescovo: "Verrò molto presto a Roma per chiedere un ripensamento"

L'oro blu, ricchezza contesa che spacca l'America Latina

di Omero Ciai

La più famosa guerra dell'acqua in America Latina scoppiò a Cochabamba nel gennaio 2000. Il governo boliviano - alla presidenza c'era l'ex dittatore Hugo Banzer - aveva ceduto ad un gruppo americano, Bechtel, il compito di distribuire l'acqua potabile ai 600mila abitanti della città. Il primo effetto fu un sostanzioso aumento delle tariffe che scatenò una rivolta popolare e la revoca della concessione. Dai tumulti per l'acqua a Cochabamba nacque anche il movimento che, sei anni dopo, portò alla presidenza un indio aymara, l'ex "cocalero" Evo Morales, affidandogli l'obiettivo di "rinazionalizzare" le risorse (acqua, gas, petrolio, litio) e difenderle dalle multinazionali straniere.

Episodi analoghi avvennero in quegli anni anche in Uruguay, Argentina, Ecuador: tanto che a partire dal 2003 le grandi compagnie internazionali si sono ritirate dall'area scoraggiate da perdite finanziarie, regole poche chiare e clima politico ostile. Riguardo all'oro blu l'America Latina ha un situazione singolare. Tutto il subcontinente (compresa l'America Centrale) rappresenta il 12 per cento della superficie terrestre, il 6 per cento della popolazione mondiale, ma possiede il 28 per cento delle riserve di acqua dolce del pianeta. Non solo: secondo i dati Fao appena il 19 per cento dell'acqua viene usata per il consumo domestico, il 9 dall'industria e il 73 per l'agricoltura. Ma quasi cento milioni di persone non hanno accesso diretto all'acqua potabile e diventeranno 130 milioni nel 2015. Scenario perfetto per le "guerre dell'acqua" dei prossimi decenni.

Al Bid (Banca interamericana di sviluppo) e al Fondo monetario sono ancora convinti che una soluzione si possa trovare attraverso la privatizzazione dell'acqua come proposero all'inizio degli anni Novanta quando, dopo le crisi del debito, il reinserimento del Sudamerica nel mercato globale venne trainato dall'esportazione delle materie prime e dalla svendita delle risorse naturali. Conservarne la proprietà pubblica - sottolineano - non ha risolto i problemi infrastrutturali, per esempio, né a Cochabamba, dove almeno il 30 per cento delle case è, dieci anni dopo, ancora senz'acqua; né a Lima dove, nei sobborghi,i più poveri si forniscono coni camion cisterna e pagano il servizio quattro o cinque volte di più che nei quartieri borghesi di Miraflores. Due emergenze, estreme e recenti, sono quelle rappresentate da Città del Messico, con il 40 per cento delle risorse idriche che si perdono per assenza di manutenzione; e da Caracas, dove Hugo Chavez ha inventato la "doccia del buon socialista", mai oltre i tre minuti.

Tra i fiumi dell'Amazzonia, il tesoro sotterraneo dell'Acquifero Guaranì, le Ande o la Patagonia, l'acqua è distribuita malissimo ma ce n'è in abbondanza. Però il tema dell'acqua si lega a quello dell'energia (le contestate dighe da costruire in Amazzonia) e all'agricoltura (il polemico intervento sul Rio Sao Francisco per irrigare il desertico NordEst). Così, "sviluppo o ambiente" finirà per essere l'altro bivio foriero di conflitti.

1. Motivi di carattere generale

alla base della scelta del ricorso all’istituto referendario

ex art. 75 Cost.

Il 18 novembre, alla camera dei deputati si approvava, con ricorso alla fiducia, il decreto Ronchi, che all’art. 15 avviava un processo di dismissione della proprietà pubblica e delle relative infrastrutture, ovvero un percorso di smantellamento del ruolo del soggetto pubblico che non sembra avere eguali in Europa[1]. Contemporaneamente nella sala Nassirya di Palazzo Madama, Stefano Rodotà, presidente della commissione per la riforma dei beni pubblici, insieme a Giovanni Conso, presidente onoraro dell’ accademia dei lincei, e a una nutrita delegazione di consiglieri regionali piemontesi, presentava alla stampa il disegno di legge delega di riforma della disciplina codicistica dei beni comuni depositato in Senato per iniziativa unanime del consiglio regionale piemontese.

A render ancor piu’ grave nel merito e nel metodo l’approvazione del decreto Ronchi vi e’ il fatto che esso e’ stato approvato ignorando il consenso popolare che soltanto due anni fa si era raccolto intorno alla legge d’iniziativa popolare per l’acqua pubblica (raccolte oltre 400.000 firme), oggi in discussione in parlamento. Nel frattempo cinque regioni hanno impugnato il decreto Ronchi di fronte alla corte costituzionale lamentando la violazione di proprie prerogative costituzionali esclusive.

Ad un indirizzo politico chiaro si contrappongono dunque segnali di resistenza verso un governo che ha in mente un progetto rozzo, ma chiaro: la svendita del patrimonio pubblico, la volontà di fare affari attraverso lo sfruttamento dei beni comuni, ovvero quei beni di appartenenza collettiva, tra i quali ovviamente spicca l’acqua. L’ultimo grande bottino, l’ultimo grande saccheggio.

Mentre il testo della commissione Rodotà finalmente inizia il suo percorso legislativo, pur fra mille ostacoli e trabocchetti, con il chiaro e trasparente obiettivo di valorizzare le ricchezze pubbliche essenziali quali le risorse naturali, l’acqua, le grandi infrastrutture, i beni funzionali all’erogazione del welfare e la proprietà pubblica immateriale, il decreto Ronchi diventa legge (l. n. 166 del 2009), collocando tutti i servizi pubblici essenziali locali sul mercato, sottoponendoli alle regole della concorrenza e del profitto, espropriando il soggetto pubblico e quindi i cittadini dei propri beni faticosamente realizzati negli anni sulla base della fiscalità generale.

Mentre in maniera più o meno diffusa ci si sta rendendo conto come negli ultimi anni la gestione privata dell’acqua abbia determinato un aumento delle bollette del 61% ed una riduzione drastica degli investimenti per la modernizzazione degli acquedotti, della rete fognaria, degli impianti di depurazione, il governo e la sua maggioranza approva una legge che, imponendo la svendita forzata del patrimonio pubblico e l’ingresso dei privati, alimenterà anche sacche di malaffare e fenomeni malavitosi facilmente riconducibili alla camorra, alla ndrangheta, alla mafia.

La malavita già da tempo ha compreso il grande business dei sevizi pubblici locali, si pensi alla gestione dei rifiuti, e la grande possibilità di gestirli in regime di monopolio. La criminalità organizzata dispone di liquidità che come è noto ambiscono ad essere “ripulite” attraverso attività d’impresa.

Per chi conquisterà fette di mercato, l’affare è garantito. Infatti, trattandosi di monopoli naturali, l’esito della legge sarà quello di passare da monopoli-oligopoli pubblici a monopoli-oligopoli privati, assoggettando il servizio non più alle clausole di certezza dei servizi delineati dall’Unione Europea, ma alla copertura dei costi ed al raggiungimento del massimo dei profitti nel minor tempo possibile.

Le due grandi multinazionali Suez e Veolia, anche attraverso il supporto logistico di compiacenti imprese locali, sono pronte al grande ultimo assalto, ma anche per le utility di derivazione comunale oggi quotate a piazza affari, il decreto Ronchi potrà rappresentare a danno dei cittadini, dell’ambiente, della salute e non da ultimo dell’occupazione, una grande occasione da non perdere.

Come giuristi viene da sorridere quando si leggono alcune affermazioni quali quelle espresse da Roberto Passino, attuale presidente del Co.N.Vi.R.I. (Commissione Nazionale di Vigilanza sulle Risorse Idriche) il quale, in merito all’acqua, al Sole 24 ore di giovedì 19 novembre, ha dichiarato che poca conta se il gestore sia una S.p.A. controllata dal pubblico o dal privato, conta che tutte le leggi confermino da anni l’acqua come bene pubblico, che gli impianti idrici sono tutti di proprietà pubblica, che l’organismo di controllo è pubblico e che la formazione delle tariffe è in mano pubbliche.

Purtroppo le cose non stanno cosi’. Anche studenti del primo anno di economia o di diritto sanno bene che tra proprietà formale del bene e delle infrastrutture e gestione effettiva del servizio vi è una tale asimmetria d’informazioni, al punto da far parlare di proprietà formale e proprietà sostanziale, ovvero il proprietario reale è colui che gestisce il bene ed eroga il servizio.

Sappiamo bene quale é la debolezza dei controlli e la loro pressoché totale incapacita’ di incidere sulla governance della società, sappiamo bene quanto è debole e ricattabile politicamente, e non solo, tutta la dimensione tecnocratica delle autorità di regolazione. Ma soprattutto sappiamo bene che il governo e il controllo pubblico diventano pressoché nulli nel momento in cui ci si trova dinanzi a forme giuridiche di diritto privato, regolate dal diritto societario.

Si abbandonino dunque una volta per tutte queste ipocrisie che ruotano intorno alle false dicotomie pubblico-privato, proprietà-gestione e si affermi finalmente che un bene è pubblico se è gestito da un soggetto formalmente e sostanzialmente pubblico, nell’interesse esclusivo della collettività, e che gli eventuali utili devono essere rinvestiti nel servizio pubblico o eventualmente in altre attività dal forte impatto sociale, ricadenti nel territorio. Altrimenti diverra’ difficile far comprendere ai cittadini che le false liberalizzazioni non sono che nuovi trasferimenti di risorse comuni dal pubblico al privato, che determinano una crescita dei prezzi delle commodities e dei beni e servizi annessi, così come un aumento dei prezzi finali dei servizi di pubblica utilità. Si configurerà cosi’ un governo iniquo dei servizi pubblici essenziali, che inibirà la sua fruizione proprio a quella parte dei cittadini che ne avrebbe più bisogno. Una legislazione che colpisce al cuore dunque la nostra Costituzione ed in particolare i principi di eguaglianza, solidarietà e di coesione economico-sociale e territoriale.

Questa legge, attraverso la svendita di proprietà pubbliche, serve al governo “per far cassa”, o al piu’ per compensare i comuni dei tagli di risorse delineati in finanziaria.

È veramente triste pensare che i grandi principi ispiratori della nostra Carta costituzionale, che avevano negli anni posto le basi e legittimato il governo pubblico dell’economia, secondo una logica ed una prospettiva di tutela effettiva dei diritti fondamentali, finiscano mortificati al fine di favorire qualche gruppo industriale straniero ed italiano: una maggioranza trasversale proclama principi liberisti ma introduce al contrario posizioni di rendita privata che saranno poi impossibili da sradicare.

Si riparta dunque dalla legge di iniziativa popolare, dal testo della commissione Rodotà e dal suo preciso obiettivo di governare i beni pubblici e i beni comuni nell’interesse dei diritti fondamentali della persona e soprattutto nel rispetto dei principi costituzionali.

2. Oggetto dei quesiti referendari:

ripristinare la gestione pubblica di tutta l’ acqua

concepita come bene comune.

Al fine di recidere le basi culturali e tecnico-gestionali della privatizzazione dei servizi pubblici essenziali, attraverso il decreto Ronchi, si è pensato con la redazione dei seguenti tre quesiti di concentrarsi in questa fase referendaria sul bene comune pubblico per eccellenza: l’acqua.

Una battaglia di più ampie proporzioni che investe beni comuni, beni sociali e beni sovrani ad appartenenza pubblica necessaria va invece portata avanti in parlamento attraverso lo schema di disegno-legge delega per la riforma di quelle parti del codice civile (proprietà pubblica) “mercantili” e disarmoniche rispetto al quadro costituzionale (lavori commissione Rodotà).

Così come parallelamente continua a fare il suo corso il progetto di legge ad iniziativa popolare sulla ripubblicizzazione dell’acqua che, se approvato, introdurrebbe in Italia, una disciplina omogenea ed efficace su tutto il territorio nazionale e sistematica di settore, sia dal punto di vista dei principi, che delle regole e degli aspetti gestionali.

I quesiti referendari dunque che si vanno a presentare sono tre:

1. Abrogazione dell’art. 23 bis (12 commi) della l. n. 133 del 2008 relativo alla privatizzazione dei servizi pubblici di rilevanza economica;

2. abrogazione dell’art. 150 (quattro commi) del d. lgs. n. 152 del 2006 (c.d. codice dell’ambiente), relativo alla scelta della forma di gestione e procedure di affidamento, segnatamente al servizio idrico integrato;

3. abrogazione dell’art. 154 del d. lgs n. 152 del 2006 (c.d. codice dell’ambiente), limitatamente a quella parte del comma 1 che dispone che la tariffa costituisce il corrispettivo del servizio idrico integrato ed è determinata tenendo conto della remunerazione del capitale investito.

3. Argomentazioni a supporto del quesito referendario n. 1.

In via preliminare, va osservato che la giurisprudenza della Corte costituzionale nei giudizi di ammissibilità è estremamente ondivaga e di difficile interpretazione, utilizzando la stessa parametri elastici e principi eterogenei per giudicare di volta in volta i quesiti referendari.

Detto ciò, in merito al quesito n. 1, va rilevato che trattasi di una norma collocata all’interno di un provvedimento relativo allo sviluppo economico, alla semplificazione, alla competitività, alla stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria. Dunque, si è in presenza di una norma che da un punto di vista formale non presenterebbe limiti espliciti ed impliciti di ammissibilità referendaria. Tuttavia, l’ambiguo, strumentale e pretestuoso incipit dell’art. 23 bis così recita: “..le disposizioni del presente articolo disciplinano l’affidamento e la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica in applicazione della disciplina comunitaria”.

Pertanto, tale disposizione, pur nella sua genericità - non sono infatti esplicitate le fonti comunitarie di riferimento che dovrebbe “applicare” - si “auto-proclamerebbe” norme di attuazione di obblighi comunitari. Come è noto, vi è un orientamento della Corte che tende a ritenere inammissibili i quesiti se violativi di obblighi comunitari, se relativi alla controversa figura delle c.d. “leggi comunitariamente necessarie”. In sostanza la Corte costituzionale, partendo dal limite degli obblighi internazionali sancito dall’art. 75 Cost., ha elaborato una giurisprudenza che ad essa riconduce il limite delle “leggi comunitariamente necessarie”.

Con le sentenze nn. 31, 41 e 45 del 2000 la Consulta non ha ritenuto ammissibile il referendum su quelle leggi che sono indispensabili affinché lo Stato italiano non risulti inadempiente rispetto agli obblighi comunitari, dal momento che l’eliminazione di tali norme è possibile solo con la contemporanea introduzione di disposizioni conformi al diritto dell’Unione Europea.

Queste precisazioni inducono alla dovuta prudenza, anche se da un punto di vista formale potrebbero essere superate evidenziando la natura diversa, non comunitaria, del provvedimento nel quale è inserita la disposizione, e da un punto di vista sostanziale si potrebbe sostenere che la norma in oggetto, al di là del generico richiamo alla disciplina comunitaria, non è direttamente attuativa di obblighi comunitari, e dunque non dovrebbe essere interpretata dalla Corte come “norma comunitariamente necessaria”.

Il regime concorrenziale ed il ricorso alle regole competitive del mercato, volute dal diritto comunitario, infatti sono già presenti nei modelli espressi dalla normativa vigente, tanto è che, al di là delle alchimie dell’ in house e del relativo controllo analogo, non pongono lo Stato italiano in posizione inadempiente nei confronti del diritto comunitario.

Se è vera, come è vera, la pretestuosità del richiamo al diritto comunitario, il testo oggetto del quesito referendario, nell’ambito dell’attuale assetto normativo, esprime una scelta politica, rafforzando due dei tre vigenti modelli: il regime privatistico tout court ed il regime misto (pubblico-privato). Invece, il modello dell’affidamento diretto in house viene posto come deroga ed eccezione. Si tratta di una scelta politica che più che incidere sul regime della concorrenza incide sugli assetti proprietari (pacchetti azionari e infrastrutture), ponendosi in contrasto con il principio comunitario della neutralità rispetto agli assetti proprietari.

Pertanto, l’abrogazione di tale norma non dovrebbe porre lo Stato italiano in una posizione di inadempienza rispetto agli obblighi comunitari, la norma in oggetto non andrebbe intesa quale “legge comunitariamente necessaria” ed il quesito referendario dovrebbe essere tendenzialmente ritenuto ammissibile dalla Corte Costituzionale.

Oltre alla problematica legata alle c.d.” leggi comunitariamente necessarie” va evidenziato che il referendum sull’art. art. 23 bis “aggredisce” una norma che ha per oggetto tutti servizi pubblici locali di rilevanza economica, dunque oltre all’acqua molto altro. La Corte dunque in sede di ammissibilità potrebbe sollevare obiezioni circa la congruità del fine perseguito rispetto al quesito proposto che appunto inciderebbe su tutti i servizi pubblici locali a rilevanza economica. La Corte potrebbe dichiarare che la richiesta referendaria non sarebbe idonea a conseguire lo scopo dichiarato andando ultra petita.

Anche queste possibili osservazioni, che potrebbero provenire dalla Corte, se da una parte ci inducono a procedere con la giusta prudenza e consapevolezza di un percorso incerto, dall’altra potrebbero essere superate, laddove ben evidenziata la coerenza e l’omogeneità del quesito in sé, ancor più se letto in collegamento sistematico con gli altri due quesiti. Infatti, i quesiti contengono, come espressamente voluto dalla Corte, una matrice razionalmente unitaria, dal carattere dell’omogeneità, che permetterebbe all’elettore il voto consapevole su una domanda strutturata in maniera inequivocabile[2]. L’obiettivo, nella sua unitarietà ed omogeneità, si propone in maniera netta di ripubblicizzare il servizio idrico integrato, ponendolo al di fuori delle regole del mercato ed affidando ad un soggetto “realmente” pubblico la gestione. Il quesito, come vuole la Corte, incorpora “ l’evidenza del fine intrinseco all’atto abrogativo”, esprime una netta e chiara alternativa al modello di cui all’art. 23 bis, che dovrebbe contribuire al giudizio di ammissibilità[3]. Per completezza, va anche detto che la varietà di qualificazioni che la giurisprudenza della Corte tende a conferire al criterio dell’omogeneità del quesito ha spinto parte della dottrina (Cariola) ad intravedere in tale categoria diversi segni di affinità con il giudizio sulla ragionevolezza delle leggi.

Ma la preoccupazione dei giudici costituzionali risiede oltre che nella valutazione in sé della struttura formale del quesito, finalizzata a consentire la consapevole manifestazione del voto popolare, anche nel tipo di effetti che potrebbero scaturire sulla normativa risultante dall’abrogazione a mezzo di referendum (Pizzolato-Satta). La Corte s’impone di verificare che l’abrogazione popolare lasci indenne “una coerente normativa residua immediatamente applicabile”[4]. Tale impostazione non va erroneamente intesa come una forma per legittimare referendum propositivi, ottenute dalla manipolazione del testo legislativo. Sul punto, è la Corte stessa che rigetta la categoria dei referendum propositivi quale risultanza della manipolazione normativo-abrogativa, affermando che sarebbe la legge stessa o singole disposizioni di essa a contenere una capacità operativa[5]. In sostanza, da parte della Corte vi sarebbe una netta accettazione dei referendum manipolativi, non intendendoli quali referendum dal carattere propositivo.

Comunque, nel caso di specie, l’abrogazione totale dell’art. 23 bis, non soltanto è al di fuori dalle ipotesi del referendum manipolativo, ma altresì non genererebbe un vuoto normativo, infatti la gestione del servizio idrico potrebbe essere affidata, anche nel caso di abrogazione referendaria dell’art. 150 del d.lgs. n. 152 del 2006, in conformità a quanto previsto dal vigente ’art. 114 TUEL del 2000, ovvero in affidamento diretto all’azienda speciale, eventualmente anche organizzata in forma consortile.

Tali aziende, gestendo servizi privi di rilevanza economica, estranei alla logica tariffaria della prestazione e della controprestazione (principio del corrispettivo), quanto meno per quanto attiene all’erogazione del minimo vitale, così come determinato dall’Organizzazione mondiale della sanità, non sarebbero sottoposte all’obbligo di cui al comma 8 dell’art. 35 della legge finanziaria 448 del 2001, ovvero all’obbligo di trasformarsi in s.p.a. Si introdurrebbe, in attesa dell’approvazione della legge di iniziativa popolare, tale da sistematizzare gli aspetti organizzativi e funzionali, un modello di gestione “realmente” pubblico.

Detto questo, va evidenziato che la sola abrogazione dell’art. 23 bis determinerebbe di fatto la reviviscenza dei modelli di gestione di cui all’art. 113 del testo unico degli enti locali di cui al d.lgs. n. 267 del 2000. Quindi non si reintrodurrebbe una vera ripubblicizzazione del servizio idrico integrato e i soggetti aggiudicatari sarebbero ancora liberi di scegliere tra modello privato, modello misto (cfr. sentenze Corte di giustizia nelle cause C-29/04, C-410/04) e modello in house.

Ma, in particolare, ciò che svilirebbe l’esito referendario, laddove incentrato soltanto sull’art. 23 bis è che tale abrogazione lascerebbe del tutto inalterate le gestione miste, private e in house affidate e tuttora operanti, sulla base dell’art. 113 TUEL, sul territorio nazionale. Proprio quelle gestioni che hanno generato un peggioramento del servizio, un aumento delle tariffe ed una netta riduzione degli investimenti di natura infrastrutturale.

Si riproporrebbe la problematica inerente agli affidamenti in house, più volte evidenziata dalla Corte di Giustizia (sentenze della Corte di giustizia nelle cause C-26/03[6], C-84/03, C-29/04[7], C-231/03, C- 340/04[8], C-573/07[9]) e dal Consiglio di Stato (Cons. St., Ad. Pl. 3 marzo 2008 n. 1; parere Sez. II n. 456/2007; Cons. St., sezione V, decisione 9 marzo 2009, n. 1365[10]; Cons. St. Sez. Vdecisione 28 novembre 2007 – 23 gennaio 2008, n. 136[11]; Cons. St. Sez. V sentenza 23 ottobre 2007, n. 5587[12]; Cons. St.Sez. Vdecisione 18 settembre 2007, n. 4862[13]; Cons. St.Sez. VIsentenza 1 giugno 2007, n. 2932[14]; Cons. St. Sez. VI sentenza 3 aprile 2007, n. 1514[15]; Cons. St. Sez. VI, n. 1514 del 3 marzo 2007[16]) e l’obiettiva difficoltà da parte dell’ente locale ad esercitare sulla società pubblica quel controllo analogo, così come formulato e richiesto dalla giurisprudenza comunitaria (sentenze della Corte di giustizia nelle cause C-26/03, C-458/03[17]).

Rimarrebbe inalterato, in tutta la sua drammatica intensità, il problema della gestione diretta attraverso società pubbliche che fisiologicamente esprimono forme giuridiche inidonee, per la fonte normativa che le regolamenta (diritto societario), a svolgere realmente una funzione sociale e di preminente ed assoluto interesse generale. Infatti, alcuna norma, ancor meno di livello statutario, può garantire che una volta affidato il servizio, tali società non tendano anche attraverso gli artifizi delle scatole cinesi, alla diversificazione delle funzioni (fenomeno delle multiutilties) e alla delocalizzazione dell’attività con buona pace dei livelli occupazionali (sentenze della Corte di giustizia nelle cause C-26/03, C-458/03).

In estrema sintesi, presentarsi dinanzi al corpo elettorale, attraverso il referendum abrogativo, per chiedere la ripubblicizzazione dell’acqua, senza chiedere l’abrogazione dei modelli di gestione privatistica, sarebbe una truffa nei confronti dei cittadini. Quindi l’abrogazione dell’art. 23 bis, in merito alla gestione delle risorse idriche, avrebbe quale unico obiettivo di riequilibrare il rapporto tra i tre modelli di gestione, lasciando inalterato il processo di privatizzazione in corso. La presentazione del solo quesito referendario relativo all’art. 23 bis, risulterebbe dunque necessaria, ma non sufficiente a ripristinare in Italia il governo pubblico dell’acqua, non vi sarebbe un’assoluta congruità del mezzo al fine, tra l’intento chiaramente percepibile dalla formulazione del quesito e l’idoneità dell’abrogazione referendaria alla sua realizzazione[18].

4. Argomentazioni a supporto del

quesito referendario n. 2

Il ragionamento di cui al paragrafo 3, ci ha indotto a non fermarci appunto all’art. 23 bis ma a presentare altresì il quesito referendario per abrogare anche l’art. 150 del d.lgs. n. 152 del 2006. Articolo (seppur norma di carattere speciale) al momento abrogato implicitamente dall’art. 23 bis, ma che rivivrebbe dal momento della sola abrogazione dell’art. 23 bis.

Tale articolo, ai commi 1, 2 e 3 richiama espressamente l’art. 113 del d.lgs. n. 267 del 2000, rinviando a tale norma per i modelli di gestione. In sostanza, l’abrogazione di tale disposizione, limitatamente al servizio idrico integrato, non consentirebbe più il ricorso ai suddetti tre modelli di gestione. È evidente che per i servizi pubblici locali, diversi da quello idrico, tali modelli continuerebbero ad essere vigenti.

Come si è anticipato, in questo scenario abrogativo rimane ovviamente vigente l’art. 114 del d.lgs n. 267 del 2000 relativo all’azienda speciale. Ciò significa che, limitatamente al servizio idrico integrato, gli enti aggiudicatari potranno legittimamente affidare il servizio ad un’azienda speciale, estranea agli obblighi di cui all’art. 35 della l. n. 448 del 2001, ciò in assoluta coerenza con il vero spirito pubblicistico contenuto nel progetto di legge ad iniziativa popolare e in assoluta armonia con lo spirito di fondo del progetto formulato dalla Commissione Rodotà.

A seguito dell’abrogazione di tale disposizione, la gestione del servizio idrico, in attesa dell’approvazione della legge-quadro nazionale ad iniziativa popolare, potrebbe dunque essere affidata ad un ente sostanzialmente e formalmente pubblico, scongiurando ipotesi di vuoti normativi.

Il servizio diverra’ cosi’ strutturalmente e funzionalmente “privo di rilevanza economica” - la cui qualificazione, anche alla luce del protocollo n. 26 del Trattato di Lisbona può essere determinata dai livelli di governo più vicino ai cittadini - sarà nuovamente di interesse generale e il diritto all’acqua, quanto meno per i cinquanta litri giornalieri (igiene, salute, alimentazione), sarà assolutamente estraneo a logiche tariffarie, ponendo i relativi costi a carico della fiscalità generale.

In questo modo il diritto all’acqua riacquisterebbe a pieno titolo il suo status di diritto umano e diritto fondamentale dei cittadini, assolutamente, nella sua quantità vitale, non subordinabile a qualsiasi logica mercantile ed economica di profitto, da gestirsi anche “nell’ interesse delle generazioni future” secondo la definizione del progetto Rodota’.

5. Argomentazioni a supporto del

quesito referendario n. 3

Si ritiene poi che il terzo quesito sia necessario per incidere e quindi abrogare la logica del profitto contenuta in una parte del comma 1 dell’art. 154 del d.lgs. n. 152 del 2006. In particolare, s’intende abrogare quella parte che afferma che “la tariffa costituisce il corrispettivo del servizio idrico ed è determinata tenendo conto…..dell’adeguatezza della remunerazione del capitale investito”.

Si tratta di un’abrogazione parziale, ovvero soltanto di alcune parti del complesso normativo, ma il quesito possiede una sua integrità semantica che dovrebbe difenderlo dinanzi ad eventuali obiezioni della Corte che lo tendessero a qualificare come referendum manipolativo. Tra l’altro, come si è detto, la stessa Corte, rigettando la tesi del ritaglio e della manipolazione come strumenti di mistificazione tesi ad affermare forme di referendum propositivo, ha affermato che sarebbe la legge o singole disposizioni di essa a contenere intrinsecamente una propria capacità operativa, in grado di resistere ad eventuali ablazioni relative a formule grammaticali o linguistiche, dalle quali scaturirebbe una nuova disciplina già presente in potenza nell’originaria versione[19]. In linea dunque con la Corte scaturisce una nuova disciplina, che tende a rendere estraneo alle logiche del profitto il governo e la gestione dell’acqua, ancora una volta dunque un tassello che va inquadrato nel complesso sistematico dei quesiti referendari.

In sostanza per rafforzare il modello pubblicistico estraneo alle logiche mercantili occorre abrogare tale inciso in quanto allo stato consente al gestore di fare profitti sulla tariffa e quindi sulla bolletta. In particolare con tale norma il gestore, al fine di massimizzare i profitti (remunerazione del capitale) carica sulla bolletta dell’acqua un 7%. Tale percentuale costituisce un margine di profitto, assolutamente scollegato da qualsiasi logica di reinvestimento per il miglioramento qualitativo del servizio. La sola logica accettabile per l’ acqua come bene comune e’ viceversa quella del “no profit”.

I cittadini dunque con la vigenza di tale norme sono doppiamente vessati, in quanto da una parte il bene acqua è commercializzato e inteso alla stregua di qualsiasi altre bene economico e dall’altra sono obbligati, per consentire ulteriori proifitti al gestore, di pagare in bolletta un surplus del 7%.

Attraverso la presentazione di questi tre quesiti, letti ed interpretati secondo un collegamento sistematico, può effettivamente partire una grande battaglia di civiltà e di tutela per i diritti fondamentali, che potrebbe successivamente essere estesa a tutti i beni comuni. Si tratta di iniziare operativamente ad invertire la rotta per ripristinare il governo pubblico dell’acqua al di fuori e contro qualsiasi logica mercantile, di saccheggio e di profitto.

Roma, 5.2.2010Gaetano Azzariti, Gianni Ferrara, Alberto Lucarelli, Ugo Mattei, Stefano Rodotà

[1] A fine 2009 il processo affaristico di dismissione e svendita del patrimonio pubblico continuava, nascondendosi dietro il federalismo demaniale

[2] Corte costituzionale n. 16 del 1978.

[3] Corte costituzionale n. 29 del 1987.

[4] Corte costituzionale n. 32 del 1993, n. 47 del 1991, 13 del 1999.

[5] Corte costituzionale n. 33 del 2000.

[6] Un'autorità pubblica, che sia un'amministrazione aggiudicatrice, ha la possibilità di adempiere ai compiti di interesse pubblico ad essa incombenti mediante propri strumenti, amministrativi, tecnici e di altro tipo, senza essere obbligata a far ricorso ad entità esterne non appartenenti ai propri servizi. In tal caso, non si può parlare di contratto a titolo oneroso concluso con un entità giuridicamente distinta dall'amministrazione aggiudicatrice. Non sussistono dunque i presupposti per applicare le norme comunitarie in materia di appalti pubblici.

La partecipazione, anche minoritaria, di un'impresa privata al capitale di una società alla quale partecipi anche l'amministrazione aggiudicatrice, esclude in ogni caso che tale amministrazione possa esercitare sulla detta società un controllo analogo a quello che essa esercita sui propri servizi.

Pertanto, nell'ipotesi in cui un'amministrazione aggiudicatrice intenda concludere un contratto a titolo oneroso relativo a servizi rientranti nell'ambito di applicazione ratione materiae della direttiva 92/50, come modificata dalla direttiva 97/52, con una società da essa giuridicamente distinta, nella quale la detta amministrazione detiene una partecipazione insieme con una o più imprese private, le procedure di affidamento degli appalti pubblici previste dalla citata direttiva debbono sempre essere applicate.

[7] qualora un’autorità aggiudicatrice sia intenzionata a concludere un contratto a titolo oneroso, riguardante servizi che rientrano nell’ambito di applicazione materiale della suddetta direttiva, con una società giuridicamente distinta da essa, nel capitale della quale detiene una partecipazione con una o più imprese private, devono essere in ogni caso applicate le procedure di appalto pubblico previste da tale direttiva.

[8] Qualora l’eventuale influenza dell’amministrazione aggiudicatrice venga esercitata mediante una società holding, l’intervento di un siffatto tramite può indebolire il controllo eventualmente esercitato dall’amministrazione aggiudicatrice su una società per azioni in forza della mera partecipazione al suo capitale.

[9] Nel caso in cui il capitale della società aggiudicataria è interamente pubblico e in cui non vi è alcun indizio concreto di una futura apertura del capitale di tale società ad investitori privati, la mera possibilità per i privati di partecipare al capitale di detta società non è sufficiente per concludere che la condizione relativa al controllo dell'autorità pubblica non è soddisfatta. L'apertura del capitale rileva solo vi è un'effettiva prospettiva di ingresso di soggetti privati nella compagine sociale, altrimenti, il principio di certezza del diritto esige di valutare la legittimità dell'affidamento in house sulla base della situazione vigente al momento della deliberazione dell'Ente locale affidante.

L'attività della società in house deve essere limitata allo svolgimento dei servizi pubblici nel territorio degli enti soci, ed è esercitata fondamentalmente a beneficio di questi ultimi.

Nel caso di specie, anche se il potere riconosciuto alla società aggiudicataria, di fornire servizi ad operatori economici privati è meramente accessorio alla sua attività principale, l'esistenza di tale potere non impedisce che l'obiettivo principale di detta società rimanga la gestione di servizi pubblici. Pertanto, l'esistenza di un potere siffatto non è sufficiente per ritenere che detta società abbia una vocazione commerciale che rende precario il controllo di enti che la detengono.

[10] «Il requisito del controllo analogo non sottende una logica “dominicale”, rivelando piuttosto una dimensione “funzionale”: affinché il controllo sussista anche nel caso di una pluralità di soggetti pubblici partecipanti al capitale della società affidataria non è dunque indispensabile che ad esso corrisponda simmetricamente un “controllo” della governance societaria.»

[11] E’ illegittimo l’affidamento senza gara di un servizio pubblico, quando manca il requisito del controllo analogo: nel caso di specie, infatti, l’ente affidatario, presentava lo statuto di una normale società per azioni, senza alcun raccordo tra gli enti pubblici territoriali e la costituzione degli organi sociali.

[12] In tema di appalto, la possibilità di ingresso nella società di nuovi soggetti pubblici potrebbe essere ammessa, legittimamente, nel solo caso di in house providing (con partecipazione totalitaria pubblica).

[13] Nel caso di costituzione di società miste per l’affidamento diretto di servizi pubblici locali non occorre che la società sia costituita al solo scopo di gestire proprio quel determinato servizio pubblico oggetto dell’affidamento, ben potendo lo statuto della società comprendere finalità più ampie, ed ottenere per esse, l’affidamento diretto di servizi pubblici.

[14] Non è obbligatorio l’avvio del procedimento ad evidenza pubblica quando: - l’amministrazione esercita sul soggetto affidatario un "controllo analogo" a quello esercitato sui propri servizi; - il soggetto affidatario svolge la maggior parte della propria attività in favore dell’ente pubblico di appartenenza. La partecipazione pubblica totalitaria è elemento necessario, ma non sufficiente, per integrare il requisito del controllo analogo; sono necessari maggiori strumenti di controllo da parte dell’ente pubblico rispetto a quelli previsti dal diritto civile: - il consiglio di amministrazione della s.p.a. in house non deve avere rilevanti poteri gestionali e l’ente pubblico deve poter esercitare maggiori poteri rispetto a quelli che il diritto societario riconosce alla maggioranza sociale; - l’impresa non deve aver «acquisito una vocazione commerciale che rende precario il controllo» dell’ente pubblico e che può risultare, tra l’altro, dall’ampliamento dell’oggetto sociale; dall’apertura obbligatoria della società ad altri capitali; dall’espansione territoriale dell’attività della società a tutta il territorio nazionale e all’estero; - le decisioni più importanti devono essere sottoposte al vaglio preventivo dell’ente affidante.

[15] La delibera di affidamento in house di lavori di restauro di beni culturali è illegittima: tale procedimento di assegnazione deve essere espressamente ammesso dalla normativa di settore, trattandosi di eccezione al principio generale dell’evidenza pubblica; ne segue l’obbligo di risarcimento dei danni in favore dei lavoratori coinvolti, sub specie di perdita di chance subita da questi ultimi perchè sono stati ingiustamente privati della possibilità di partecipare alla gare pubbliche che il Comune avrebbe indetto se avesse operato correttamente.

[16] «in ragione del “controllo analogo” e della “destinazione prevalente dell’attività”, l’ente in house non può ritenersi terzo rispetto all’amministrazione controllante ma deve considerarsi come uno dei servizi propri dell’amministrazione stessa»

[17] Gli artt. 43 CE e 49 CE nonché i principi di parità di trattamento, di non discriminazione e di trasparenza devono essere interpretati nel senso che ostano a che un’autorità pubblica attribuisca, senza svolgimento di pubblica gara, una concessione di pubblici servizi a una società per azioni nata dalla trasformazione di un’azienda speciale della detta autorità pubblica, società il cui oggetto sociale è stato esteso a nuovi importanti settori, il cui capitale deve essere a breve termine obbligatoriamente aperto ad altri capitali, il cui ambito territoriale di attività è stato ampliato a tutto il paese e all’estero, e il cui Consiglio di amministrazione possiede amplissimi poteri di gestione che può esercitare autonomamente.

[18] Corte costituzionale n. 35 del 2000, n. 36 del 2000, n. 43 del 2000, n. 48 del 2000.

[19] Corte cost. n. 33 del 2000.

COPENAGHEN - Doveva essere un blitz. L´intesa tra i potenti del pianeta che dettano i tempi della politica e, aprendo il portafoglio, costruiscono le basi per un accordo globale sul clima a misura di chi è arrivato per ultimo. Ma la conferenza di Copenaghen, che sembrava chiusa dopo il patto al ribasso tra Stati Uniti e Cina, si è riaperta a sorpresa in nottata. L´assemblea Onu ha deciso di non fermarsi di fronte al fatto compiuto continuando fino all´alba a macinare proteste contro la cancellazione dei target per il taglio dei gas serra. Poi, quando tutto sembrava finito e il presidente danese si era convinto di aver sedato la protesta, il dibattito si è riaperto proseguendo a oltranza fino al primo pomeriggio.

A guidare la rivolta di un fronte composto da paesi dell´America latina e dell´Africa e dalle piccole isole sono stati sette irriducibili che hanno resistito alle pressioni rinunciando ai benefici economici derivanti all´accordo: Venezuela, Nicaragua, Cuba, Bolivia, Costarica, Sudan, Tuvalu. Il dissenso è stato messo agli atti e ha bloccato l´accordo che, in base al meccanismo Onu, prevede il consenso unanime.

Alla fine l´intesa è stata trovata con un espediente tecnico. L´assemblea delle Nazioni Unite «ha preso nota» di un documento chiamato Accordo di Copenaghen. Sono due pagine e mezzo, 12 punti che contengono solo due numeri. Il primo è la soglia di crescita della temperatura da non sfondare a fine secolo: 2 gradi. Il secondo riguarda i fondi da mettere a disposizione per il trasferimento di tecnologie pulite ai paesi meno industrializzati: 10 miliardi di dollari l´anno subito, che verranno progressivamente aumentati fino a diventare 100 miliardi l´anno nel 2020.

L´Accordo di Copenaghen, proposto dagli Stati Uniti e dal Basic (Brasile, Sudafrica, India e Cina) è stato appoggiato con una certa sofferenza dall´Unione europea. «Non nascondo la mia delusione», ha detto Josè Barroso, presidente della Commissione europea, «ma questo è stato il primo di molti altri passi». «Il nostro futuro non è in vendita, non accettiamo i 30 denari», ha dichiarato invece Apisai Ielemia, il presidente di Tuvalu, riferendosi ai 30 miliardi di dollari in tre anni messi a disposizione dai paesi ricchi.

E anche sul fronte italiano si registrano malumori. Per il ministro dell´Ambiente Stefania Prestigiacomo si tratta di un «accordo al ribasso: la presenza di Obama, che doveva rappresentare la svolta di questa conferenza, non ha sbloccato la situazione». Per i senatori del Pd Roberto Della Seta e Francesco Ferrante l´accordo «non definisce alcun criterio sostanziale per verificare le azioni e i risultati dei singoli paesi: è una battuta d´arresto nella lotta al global warming».

Ma la partita non è chiusa. Il segretario generale dell´Onu Ban Ki-moon ha annunciato che si andrà avanti per cercare l´accordo vincolante e l´assemblea delle Nazioni Unite ha votato due documenti che impegnano a proseguire le trattative. Entro gennaio i paesi industrializzati dovranno stabilire i target di riduzione di gas serra. E a dicembre, alla conferenza sul clima di Città del Messico, con gli Stati Uniti che probabilmente avranno adottato una legge nazionale per il taglio della CO2, Onu ed Europa torneranno alla carica per ottenere target legalmente vincolanti. Il mini accordo di Copenaghen potrebbe crescere. Ma l´attesa non è gratis: il debito climatico aumenta giorno per giorno.

Vedi l'appello promosso da Riccardo Petrella e Carla Ravaioli.

Il bene strappato

Guglielmo Ragozzino

Come l'Idriz di un tempo - l'acqua pizzichina, dicevano le mamme ai bambini - anche l'acqua che da domani sgorgherà dal fontanone di Montecitorio conterrà una polverina magica: un pizzico di capitale. Senza tema di cadere nell'ideologia, è proprio il capitale che fa la differenza. Per il pensiero unico che guida l'economia, è insopportabile l'esistenza di un bene pubblico, comune a tutte le persone. Deve essere strappato, venduto, messo a frutto. Non è un problema di maggiore efficienza, di eliminazione degli sprechi, di lotta alla corruzione. Tutto quello che esiste deve essere messo a valore, deve rendere, non in termini di quantità prodotte, ma di ricavi e dividendi.

Così l'acqua. Il primo risultato, del resto ammesso anche dai fautori di destra del nuovo provvedimento - e dagli ambigui sostenitori della privatizzazione idrica, attualmente nella minoranza - è che l'acqua al rubinetto costerà di più. La spiegazione sarà la solita. L'acqua è vita, diranno a chi si oppone, non vorrete avere la vita gratis: non sarebbe morale. Il secondo risultato sarà la selezione tra i consumatori. E' intuitivo che tra una bidonville e un campo di golf sarà quest'ultimo ad avere la meglio. Soprattutto durante la siccità. Non si può giocare a golf con un'erba ingiallita. Invece si può fare a meno di lavarsi nelle baraccopoli; quelli del golf ne sono sicuri.

Nella lotta di classe che ogni tanto si riapre, sono i pochi, capitalisti, finanzieri, che fanno i guai, pur se si vantano di essere i portatori di ogni innovazione. E sono i tanti, gli altri, che pagano i prezzi e sono costretti a comprare l'acqua in bottiglia.

Se l'acqua diventa merce, quella in bottiglia è una merce che vale di più; e la «minerale» che sgorga da qualche buco della terra o da qualche altissimo, purissimo, freddissimo ghiacciaio ancora di più: per l'acqua c'è una prima, seconda e terza classe di consumatori. Il prezzo finale è in buona parte pubblicità.

L'acqua è di tutti. Tra 2007 e 2008 il Forum dei movimenti dell'acqua ha raccolto firme per una legge: quattrocentomila firme. Era uno straordinario coinvolgimento di milioni di persone. Così, per l'Italia quanto è lunga, è oggi convinzione diffusa che l'acqua sia un bene comune e che chi l'ha rubata, prima o poi dovrà restituirla. La cultura dei beni comuni non si limita poi a rimpiangere l'acqua perduta, a chiederla indietro e basta, ma si allarga ad altri campi, ad altri beni.

Forse quelli del pensiero unico ricorderanno domani il furto dell'acqua come una sconfitta disastrosa.

Su tariffe e profitti, e a pagare è lo Stato

Andrea Palladino

Il decreto Ronchi ha aperto la porta alla privatizzazione massiccia dei servizi idrici. Era un esito politicamente scontato, ma con conseguenze pesantissime. Mai come in questo caso l'affidamento ai privati è la peggior soluzione per la gestione di un servizio pubblico. Dietro i bilanci milionari della multiutilities - pronte ora a prendere in mano il poco rimasto allo stato - c'è un sistema che permette alti profitti, bassi investimenti e tariffe alte. Cosa che altri paesi - come la Svizzera, il Belgio, gli Usa e parte dei comuni francesi - hanno capito molto bene, tanto da difendere con forza la gestione pubblica. Occorre, prima di tutto, fare chiarezza sul punto centrale della vicenda: è la forma societaria della Spa a suggellare la privatizzazione di un servizio. Poco importa, in realtà, se si tratti di un gruppo a capitale misto pubblico-privato o interamente privato. La mission, in questi casi, è il profitto e la speculazione, spesso finanziaria, e non di certo il miglioramento della rete e del servizio idrico.

Il caso più importante è sicuramente la romana Acea, la principale società di gestione dei servizi idrici in Italia e tra le prime dodici nel mondo, che già oggi controlla i rubinetti del Lazio, della Toscana, di parte dell'Umbria e della Campania. È stata trasformata da Rutelli, alla fine degli anni '90, da azienda municipale - la sua forma storica dal momento della creazione nel 1907, quando sindaco di Roma era Nathan - in società quotata in borsa. Oggi tra i principali soci privati - che detengono il 49% del pacchetto azionario - ci sono la Suez e Caltagirone, oltre agli speculatori che scambiano giornalmente le azioni in Borsa.

Il maggior bacino idrico gestito da Acea è l'Ato 2, che comprende l'intera provincia di Roma. Un ambito territoriale composto da più di cento comuni, dove ogni sindaco - escluso quello di Roma - possiede appena lo 0,00003% delle quote societarie. Nulla, quindi. Non solo: i patti parasociali obbligano i cento e più primi cittadini della provincia di Roma ad esprimersi univocamente, bloccando sul nascere ogni possibile dissenso. Eppure all'epoca dell'affidamento del servizio idrico ad Acea il centrodestra (attraverso l'ex presidente della provincia Silvano Moffa, An) e il centrosinistra (con la voce dell'ex sindaco di Roma, Walter Veltroni) presentarono la nuova società come «a prevalente capitale pubblico locale».

La scelta della Spa ha avuto immediate conseguenze proprio sugli investimenti, sulla qualità dell'acqua e sulla tariffa. Secondo quanto era stato calcolato al momento dell'affidamento il territorio della provincia di Roma avrebbe avuto bisogno di almeno 3,6 miliardi di euro di opere idrauliche nei trentanni della concessione. Nel piano degli investimenti, però, la cifra scese drasticamente a poco più di due miliardi. Inserire, infatti, l'intero budget nel piano finanziario avrebbe comportato una tariffa talmente alta da rendere politicamente e socialmente ingestibile la situazione. Il resto? Le soluzioni sono due: o lo mette lo stato o le opere necessarie non verranno fatte.

Chi ieri in parlamento sosteneva, dunque, che la privatizzazione è necessaria per poter intervenire sulle reti idriche mentiva apertamente. Tutti gli investimenti dovranno essere fatti basandosi esclusivamente sulla tariffa: ovvero il conto lo pagano interamente i cittadini, mentre i lavori verranno gestiti dalle multinazionali. Non solo. La legge quadro sulle risorse idriche - che il decreto Ronchi non ha abolito - prevede che al gestore venga assicurato un ricavo garantito pari al 7% del capitale investito. Nel caso di Acea - primo operatore del servizio idrico in Italia - solo per la provincia di Roma la "remunerazione del capitale" supera abbondantemente i 73 milioni di euro all'anno (dati 2008 tratti dalla relazione della segreteria tecnica operativa), interamente pagati con le bollette dell'acqua. Soldi che non finiscono in opere o nel risanamento delle reti idriche, ma nelle tasche degli azionisti. Al momento dell'affidamento, infatti, Acea ha valutato il valore del suo apporto (posizionamento sul mercato, management, conoscenze accumulate) in quasi un miliardo di euro. Un "capitale investito" che va remunerato, anche ad investimento zero. Dal 2003 al 2008 questo meccanismo ha portato nelle casse di Acea - e quindi nelle tasche degli azionisti - 404 milioni di euro. Soldi che se fossero stati gestiti dai consorzi pubblici avrebbero potuto finanziare il rifacimento dell'intera rete idrica della provincia di Roma.

La mancanza degli investimenti che caratterizzano la gestione privata delle Spa ha un impatto immediato sulla qualità dell'acqua e sulla salute dei cittadini. La zona a sud di Roma avrebbe bisogno di interventi immediati sugli acquedotti. Qui, come in molte parti d'Italia, l'acqua ha tassi di arsenico oltre la norma. Per ora Acea ha chiesto la deroga ai limiti di legge - che il governo e la Regione Lazio hanno concesso - promettendo lavori nei prossimi anni. Se gli investimenti si pagano a caro prezzo - quando vengono fatti - è la tariffa a colpire subito i cittadini. Nel giro di un anno l'incremento delle bollette ha sfiorato il 5%, mentre l'amministratore delegato di Acea ha già chiesto un aumento a due cifre. Per fare cosa? «Servono tanti investimenti», ha spiegato, dimenticando che gli utili distribuiti negli ultimi anni erano più di 100 milioni. Un affare troppo ghiotto per lasciarlo nelle mani dei comuni.

Tutte le mosse per bloccare la legge

Marco Bersani*

Avevano studiato tutto per bene. La privatizzazione dell'acqua inserita in un decreto legge che nulla aveva a che fare con la stessa, il provvedimento tenuto sotto silenzio, le veline dei grandi mass media amici dei poteri forti e il consueto immobilismo delle opposizioni parlamentari. Ma improvvisamente il giocattolo si è rotto: migliaia di e-mail hanno inceppato i computer di deputati e senatori, oltre 50 mila firme raccolte in pochi giorni sono state consegnate alla Presidenza della Camera, un presidio numeroso e colorato ha inondato Montecitorio e diverse decine di iniziative sono state organizzate in tutto il Paese. La campagna "Salva l'Acqua" promossa dal Forum italiano ha fatto precipitare il castello di carte: tutti hanno dovuto prendere atto della gravità della norma che si andava approvando e hanno dovuto prendere posizione (perfino le opposizioni sono uscite dal letargo).

Ed eccoli, governo e presidente del Consiglio, costretti a chiedere la fiducia perchè consapevoli di non averla. Hanno deciso di consegnare l'acqua ai privati e alle multinazionali, hanno consapevolmente ignorato una legge d'iniziativa popolare, firmata da oltre 400.000 cittadini, che giace nei loro cassetti dal luglio 2007, hanno ascoltato le sirene di Confindustria, ignorando la forte sensibilità sociale e la diffusa consapevolezza popolare sull'acqua come bene comune e diritto umano universale. Ma la battaglia per l'acqua pubblica è appena cominciata. Chiederemo a tutte le Regioni di seguire l'esempio della Puglia e di impugnare per incostituzionalità la nuova legge.

Promuoveremo in tutti i Comuni delibere d'iniziativa popolare per inserire negli Statuti il principio dell'acqua bene comune e diritto umano universale e la definizione del servizio idrico come "privo di rilevanza economica", sottraendolo così alla legislazione nazionale. Chiederemo ai 64 Ato, oggi affidati a Spa a totale capitale pubblico e dunque a rischio di finire nelle mani dei privati, di scegliere la loro trasformazione in enti di diritto pubblico, gestiti con la partecipazione dei cittadini e delle comunità locali, così come si appresta a fare l'Acquedotto pugliese. E chiameremo tutte e tutti a una grande manifestazione nazionale per la ripubblicizzazione dell'acqua e la difesa dei beni comuni per il 20 marzo, giornata mondiale dell'acqua, e a una settimana dalle elezioni regionali. E valuteremo l'ipotesi di indire un referendum. Perchè si scrive acqua, ma si legge democrazia.

* Forum italiano dei movimenti per l'acqua

La legge passa, le regioni pensano alla Consulta

Carlo Lania

Come annunciato la Lega ha presentato il suo ordine del giorno per chiedere al governo di valutare se siano possibili deroghe, in modo da lasciare ai comuni «virtuosi» la possibilità di continuare ad affidare la gestioni dei servizi pubblici senza effettuare gare. Una volta fatto il suo dovere, buono solo per addolcire un po' la pillola ai suoi sindaci, il Carroccio è però immediatamente rientrato nei ranghi e ha votato come tutti la fiducia al decreto Ronchi che privatizza l'acqua, decreto che passa così con 320 voti a favore e 270 contrari. «Non si muore per una legge, si muore se salta il governo», spiega ai suoi Umberto Bossi . Voto blindato a parte, anche ieri però il governo ha mostrato tutte le difficoltà del momento. Neanche il tempo di gustarsi il risultato dell'ennesimo voto di fiducia, ed ecco che l'esecutivo va sotto su una serie di ordini del giorno dell'opposizione: sei bocciature secche di fila - cinque delle quali su odg dell'Italia dei valori - rese possibili dal vuoto che domina i banchi della maggioranza. Un risultato che fa tornare di corsa in aula tre ministri - La Russa, Ronchi e Vito - e che obbliga il leghista Matteo Brigandi a parlare a lungo per dar modo ai suoi di richiamare i colleghi ormai già sulla strada di casa. Uno sforzo inutile, tanto che alla fine lo stesso Ronchi annuncia di accettare tutti gli odg. «Oggi la maggioranza parlamentare non c'è e vive un travaglio profondo», dice il deputato dell'Idv Massimo Donati, mentre per l'Udc Marco Vietti il governo «ha preso atto che non c'è più la sua maggioranza».

Ma nonostante il via libera ottenuto dalla Camera, non è detto che per la nuova legge la strada sia tutta in discesa. Il governatore della Puglia Nichi Vendola ha già annunciato di voler ricorrere alla Corte costituzionale contro la legge che apre la strada alla privatizzazione dell'acqua. Le ragioni del ricorso sarebbero nel conflitto di attribuzioni aperto dalla nuova normativa, e in particolare con l'articolo 117 della Costituzione che affida al legislatore nazionale competenze per quanto riguarda la tutela della concorrenza. «L'acqua però non è una merce, ma un bene e non è quindi assoggettata ai criteri della concorrenza», spiega l'assessore ai lavori pubblici della regione Fabiano Amati.

E la Puglia potrebbe non essere l'unica Regione a decidere per il ricorso. La settimana prossima la Conferenza delle regioni deciderà che fare, ma nel frattempo il presidente Vasco Errani non nasconde il suo malumore e parla chiaramente di «forzatura» da parte del governo : «Ancora una volta viene meno la collaborazione e il rispetto delle competenze», spiega. Ancora più esplicito Errani lo diventa quando parla come presidente della sua Regione, l'Emilia Romagna: «Per quel che mi riguarda, personalmente, penso che questo provvedimento che va oltre l'applicazione delle norme comunitarie, ponga questioni serissime sia sui rifiuti che sulla risorsa acqua, che non può che essere pubblica».

Ieri il governo ha tentato di smorzare le polemiche negando che il decreto Ronchi apra la strada alla privatizzazioni. «Si vogliono combattere i monopoli, le distorsioni e le inefficienze», ha detto il ministro per le Politiche comunitarie, mentre il collega Brunetta si è addirittura detto convinto che la riforma «aprirà alla concorrenza e abbasserà i prezzi». Rassicurazioni che però lasciano il tempo che trovano tra i consumatori, sempre più preoccupati per le conseguenze che la privatizzazione dell'acqua porterà all'economia delle famiglie. Al punto che più di un'associazione ha già fatto i conti. Per il Codacons una volta a regime, cioè tra tre anni, la riforma comporterà rispetto a oggi un aumento medio del 30% sulle tariffe dell'acqua. Previsioni ancora peggiori arrivano invece dal responsabile dei servizi a rete del Movimento difesa del cittadino (Mdc) , secondo il quale gli aumenti in bolletta saranno del 40%» visto che «si aggiungerà la necessità dei profitti delle Spa con inevitabile conseguenze sulle tariffe». Cittadinanzattiva, infine, ha annunciato l'inizio di una raccolta di forme per promuovere un referendum che cancelli la legge.

Cina e Stati uniti, insieme, producono il 40% di tutte le emissioni umane di anidride carbonica. Gli scienziati hanno mostrato che le emissioni sono responsabili del riscaldamento climatico e dei disastri ambientali conseguenti. La Conferenza delle nazioni unite che si aprirà il 7 dicembre a Copenhagen, dopo una lunga preparazione, caricata di tutte le speranze, ha il compito di decidere forme comuni di mitigazione e adattamento - o per dirla tutta, di sopravvivenza. Cina e Stati uniti hanno però deciso, insieme, di non accettare vincoli di sorta. Sono disponibili a una dichiarazione d'intenti, politica e forte, ma non a un impegno preciso. A questo punto, la Conferenza danese potrebbe anche non cominciare. Il suo esito deludente è scontato. Il 40% si è chiamato fuori.

I due paesi del nuovissimo G2 si equivalgono per le emissioni, ma mentre quelle cinesi crescono anno dopo anno, quelle della potenza rivale si stanno, lentamente, riducendo. Pechino esige un risarcimento preventivo per l'inquinamento americano del passato; non vuole dollari, visto che ne ha già troppi, ma tecnologie appropriate. Washington, dal canto suo, afferma la propria disponibilità a tagliare le proprie emissioni all'unisono con gli altri grandi inquinatori, ma non prima degli altri. Da sempre l'America pretende di decidere in modo autonomo; e oggi il problema del presidente Barack Obama è quello di strappare al suo Senato un voto accettabile sulla sanità. A questo fine è disposto a ogni compromesso, per quanto devastante sia sul piano ambientale.

Nel frattempo, a Roma, la Conferenza della Fao (Organizzazione del cibo e dell'alimentazione) si è aperta con queste parole del segretario generale dell'Onu Ban Ki Moon: «Oggi moriranno 17mila bambini. Di fame». La scarsità di cibo, in forma grave, tocca ormai un miliardo di persone.

I problemi sono noti: l'aridità crescente, forma crudele e inevitabile dei cambiamenti climatici, la rapina di terreni fertili alle popolazioni poverissime, denunciata da Manitese, la produzione agricola indirizzata all'esportazione verso i consumi dei ricchi, il potere delle multinazionali dei semi. Le promesse del Millennio di dimezzare la fame entro il 2015 resta lettera morta. Agli affamati solo buoni consigli, cinque in tutto e anche assai complicati. Solo per capire di che si tratta occorre un dottorato in scienze alimentari e politiche. Cinque consigli e niente soldi. I 44 miliardi di dollari promessi dai paesi ricchi sono aria fritta.

Sempre a Roma, sempre oggi, per rendere onore alla fame e all'aridità crescente, all'inquinamento dell'aria, si sta vendendo l'acqua ai privati. Alla Camera dei deputati si decide di privatizzare. Un frammento dell'opposizione si oppone; tutti gli altri stanno a guardare. Per qualche modesto intrigo politico la Lega ha cambiato posizione e grandi gruppi, italiani e multinazionali stanno vincendo la partita dell'acqua. Stanno vincendo non vuol dire che abbiano già vinto. I movimenti dell'acqua - il Forum, il Contratto mondiale - sono ancora in campo.

Le tre questioni - aria, pane, acqua - sono beni comuni, inalienabili. Nessuna persona dovrebbe esserne privata; nessuna costretta a mendicare. Il capitale che vuole impadronirsi di tutto non è in gran forma. Ha quasi portato alla rovina il pianeta. Si dovrebbe metterlo in condizione di non nuocere, non uccidere, non inquinare. Non rubare la nostra acqua.

Ripubblicizzazione dell’Acquedotto pugliese.

Un importante risultato dei movimenti per l'acqua!

Mentre il Governo, attraverso l'art.15 del D.L. 135/09, vuole mettere definitivamente l'acqua nelle mani del mercato, un importantissimo segnale di controtendenza arriva dalla Regione Puglia, che, nella giornata di martedì 20 ottobre, con una delibera di Giunta Regionale, ha sancito l'avvio della ripubblicizzazione dell'Acquedotto Pugliese, definendo l'acqua un "bene comune e un diritto umano universale" e il servizio idrico come "servizio di interesse regionale privo di rilevanza economica" e nel contempo decidendo di impugnare presso la Corte Costituzionale il provvedimento legislativo in quanto lesivo delle prerogative assegnate dalla Costituzione alle Regioni.

Grazie alle mobilitazioni messe in campo dal Comitato Pugliese "Acqua Bene Comune" e dal Forum Italiano dei Movimenti per l'Acqua, la Regione si è inoltre impegnata ad approvare a breve una legge regionale che sancisca la trasformazione dell'Acquedotto Pugliese da S.p.A. ad ente di diritto pubblico, definendo così la totale fuoriuscita dell'acqua dalle leggi del mercato.

Consideriamo questa delibera un risultato straordinario, frutto di anni di lavoro dei movimenti per l'acqua, che hanno saputo costruire una forte resistenza popolare alla privatizzazione dell'acqua, attraverso l'esperienza di centinaia di comitati territoriali, la costituzione del Coordinamento degli Enti Locali per la Ripubblicizzazione dei Servizi Idrici, in sintonia con le proposte contenute nella legge nazionale d'iniziativa popolare per la ripubblicizzazione dell'acqua, che ha raccolto oltre 400.000 firme di cui 30.000 solo in Puglia, giacente in Parlamento dal 2007.

Certamente siamo di fronte ad un primo passo importante, cui dovrà seguire entro la fine dell'anno la prima azione concreta da parte della Giunta Regionale attraverso la presentazione di un testo di legge.

Per questo ci riteniamo sin da subito mobilitati perchè la strada intrapresa prosegua nella direzione indicata. Proprio in queste settimane, infatti, il Forum Italiano dei Movimenti ha lanciato la Campagna nazionale "Salva l'acqua" ( www.acquabenecomune.org ) che mira a mobilitare la società civile, cittadini ed Enti Locali contro la mercificazione dell'acqua imposta dal Governo con l'art. 15 del D.l. 135/09 e i principi contenuti nella delibera approvata stanno a dimostrare che la ripubblicizzazione dei servizi idrici è una strada percorribile qui ed ora.

Alle diverse forze politiche regionali e nazionali, vogliamo da subito far sapere che, per quanto riguarda i movimenti per l'acqua, indietro non si torna. L'acqua è un diritto umano essenziale alla vita. Sottrarla alle leggi del mercato significa difendere la vita di tutte e tutti. Restituirla ad una gestione pubblica e partecipata dalle comunità locali

Titolo originale: Wish you weren't here: The devastating effects of the new colonialists – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Sono migliaia i contestatori che scendono in piazza sventolando le bandiere arancio dell’opposizione. Poco dopo, comincia il saccheggio. Si appicca il fuoco agli edifici. Il punto si svolta arriva però quando la folla si sposta dalla piazza principale verso il palazzo presidenziale. Nella confusione, qualcuno preso dal panico dà ordine alle truppe schierate a guardia del palazzo di aprire il fuoco. Parecchi morti. I leaders della protesta decidono di farla finita: si assale il palazzo e il presidente fugge.

Un tipico colpo di stato africano? Non proprio. Di sicuro c’erano accuse di corruzione nelle alte sfere. Il presidente aveva comprato un jet privato – da un componente della famiglia Disney – per uso personale. Era accusato di stravaganze eccessive, di uso improprio delle risorse pubbliche e di mescolare gli interessi dello stato coi propri. Ma era qualcosa d’altro ad aver fatto montare la protesta a Antananarivo, la capitale del Madagascar, qualche mese fa, e a far abbattere il governo di Marc Ravalomanana nell’ex colonia francese.

I poveri della città erano infuriati per il prezzo degli alimentari, aumentati da quando l’anno precedente c’era stato un forte aumento di quelli globali di grano e riso. I poveri sono più colpiti di quanto avviene nel nostro caso, perché spendono due terzi del proprio reddito per l’alimentazione. Ma quello che li aveva spinti all’azione era la notizia di un accordo siglato di recente dal governo con la multinazionale coreana Daewoo, e che concedeva 1,3 milioni di ettari di superficie agricola – quasi le dimensioni di un paese come il Belgio, circa metà dell’arativo dell’isola – in uso alla compagnia straniera per 99 anni. La Daewoo intendeva coltivarci granturco e palme da olio: ed esportare tutto il raccolto in Corea del Sud.

Originariamente non erano stati resi pubblici i termini dell’accordo. Ma poi erano filtrate notizie, attraverso il Financial Times di Londra, secondo le quali non era stato pagato nulla in cambio. La Daewoo aveva promesso di intervenire sulle infrastrutture dell’isola in cambio del proprio investimento. “Daremo posti di lavoro in cambio della possibilità di coltivare, il che conviene al Madagascar” diceva un portavoce Daewoo. Ma il vantaggio diretto in denaro per il Madagascar era pari a zero: in un paese dove si riesce a malapena a produrre alimentari per il consumo interno: quasi la metà dei bambini dell’isola con meno di cinque anni risulta malnutrita.

Il governo del presidente President Ravalomanana è stat oil primo al mondo ad essere rovesciato a causa di quello che la FAO/ONU definisce “ landgrabbing” accaparramento di terreni. L’accordo Daewoo è solo uno dei cento e più siglati negli ultimi dodici mesi, che hanno visto enormi distese di superfici coltivabili in tutto il globo acquisite da paesi ricchi o multinazionali. Il fenomeno sta subendo una allarmante accelerazione, che ha coinvolto solo negli ultimi sei mesi una superficie pari a tutta quella agricola europea.

Per meglio comprendere la furia impotente che ciò può provocare nei contadini impoveriti, pensiamo alla reazione che potrebbe provocare qualcosa del genere in Gran Bretagna. Il consulente internazionale Mark Weston prova con questa vivida immagine: “Diciamo, se la Cina, dopo una breve negoziazione con un governo britannico disposto a tutto per avere un po’ di valuta estera dopo un crollo economico, si comprasse tutto il Galles, sostituisse gli abitanti con lavoratori cinesi, trasformasse l’intero territorio in una enorme risaia, e spedisse per 99 anni tutta la produzione in Cina”.

“Immaginiamoci che né i gallesi deportati, né il resto degli abitanti sapesse cos’ha avuto in cambio da tutto questo, e si debba contentare di vaghe promesse secondo le quali i nuovi padroni interverranno su qualche porto, o strade, creando dei posti di lavoro.

“E poi immaginiamoci che dopo qualche anno – teniamo sempre presente che recessione e crollo della sterlina hanno già resi difficoltoso per il paese comprare alimenti all’estero – il picco petrolifero o un disastro ambientale in uno dei grandi produttori mondiali di cereali spinga ad impennarsi di colpo i prezzi alimentari mondiali, oltre le possibilità di moltissimi britannici. Nel frattempo i cinesi dal Galles continuano a spedire riso in Cina, e gli affamati guardano senza poter far nulla, stramaledendo il giorno in cui il loro governo ha svenduto metà delle superfici arabili. Qualcuno inizierà a preparare la ripresa con la violenza delle valli gallesi”.

Se cambiamo i nomi e ci mettiamo Africa, lo scenario diventa assai meno ipotetico. Anzi sta già iniziando a succedere, ed ecco perché sono in molti, come Jacques Diouf, che dirige la FAO/ONU, ad avvertire che si sta scivolando verso un sistema di “neo-colonialismo” mondiale. Anche quei grandi sostenitori del libero mercato che scrivono sul FT, definiscono l’accordo della Daewoo come “rapace” e avvertono come si tratti di un “esempio particolarmente sfacciato di un fenomeno molto più ampio” in cui nazioni ricche cercano di acquisire le risorse naturali di quelle povere.

Questo nuovo colonialismo ha caratteri molto ampi. Chi compra sono nazioni ricche le quali non riescono a coltivare ciò che serve per mangiare. Sono gli Stati del Golfo all’avanguardia del nuovo investimento. Arabia Saudita, Bahrain, Kuwait, Oman, Qatar – che complessivamente controllano il 45% del petrolio mondiale – si stanno aggiudicando fertili terreni agricoli fra Brasile, Russia, Kazakhstan, Ucraina, Egitto. Ma si rivolgono anche a paesi molto più poveri, come l’Etiopia, il Camerun, l’Uganda, lo Zambia e la Cambogia.

Incredibili le suerfici di terreni coinvolte. Compagnie sud-coreane si sono comprate 690.000 ettari di Sudan, e ci sono almeno sei altri paesi che hanno acquisito grosse proprietà terriere o le controllano: là dove l’alimentazione per le popolazioni locali ha la più elevata precarietà del mondo. I sauditi stanno trattando per 500.000 ettari in Tanzania. Alcune imprese degli Emirati Arabi Uniti hanno concluso per 324.000 ettari in Pakistan.

Non sono i soli. Paesi con grandi popolazioni, come Cina, Corea del Sud, anche l’India, stanno acquisendo ampie superfici di territorio africano per produrre alimenti destinati all’esportazione. Il governo indiano ha concesso prestiti a 80 compagnie per l’acquisto di 350.000 ettari in Africa e ha recentemente abbassato i dazi di importazione per i prodotti agricoli dall’Etiopia. Uno dei più grossi conglomerati agricoli del mondo è una compagnia di Bangalore, Karuturi Global, che ha acquisito di recente alcune aree fra Etiopia e Kenya.

E non è solo all’alimentazione che guardano i nuovi colonialisti. Circa un quinto di questi accordi riguarda terreni per la coltivazione di prodotti da biocarburanti. Compagnie britanniche, Usa e tedesche, con nomi come Flora Ecopower, hanno comprato terreni in Tanzania o Etiopia. Il paese diventato famoso per il problema della fame ai tempi dei concerti Live Aid, oggi vede oltre 50 investitori che siglano accordi definitivi o dichiarazioni preliminari di interesse per coltivare biofuel sul suo territorio.

Dal punto di vista dell’Etiopia, la logica economica sembrerebbe impeccabile: il paese importa petrolio e quindi è esposto alle fluttuazioni dei prezzi nel mercato mondiale; producendo biocarburanti si diminuisce la dipendenza. Ma è una cosa che si paga. Per far contenti gli investitori, il paese non deve chiedere alcuna valutazione di impatto ambientale. Attivisti locali affermano che il 75% dei terreni destinati a queste colture sono oggi coperti di boschi destinati ad essere tagliati.

Più preoccupanti i progetti di una compagnia norvegese, per realizzare “la più grande piantagione di jatropha del mondo” deforestando enormi superfici del Ghana settentrionale. La jatropha, che cresce anche su terreni molto poveri, dà semi oleosi che si usano per i biocombustibili. Un attivista locale, Bakari Nyari, dell’African Biodiversity Network, accusa la compagnia di “usare metodi che ci fanno tornare ai tempi più bui del colonialismo ... a ingannare qualche capotribù analfabeta convincendolo a siglare con l’impronta del pollice la cessione di 38.000 ettari”. La compagnia sostiene che il piano creerà posti di lavoro, ma con l’enorme deforestazione si toglierà agli abitanti la fonte di reddito tradizionale da raccolta dei suoi prodotti, come la noce della Vitellaria Paradoxa.

Il mancato accordo Daewoo in Madagascar sarebbe stato quello per la superficie più grande siglato sinora, ma non è certo l’unico.

Quali sono le cause di questa improvvisa esplosione negli acquisti di terreni in tutto il mondo? le radici affondano nella crisi alimentare del 2007/8, quando i prezzi di riso, grano e altri cereali sono schizzati alle stelle in tutto il mondo, accendendo rivolte da Haiti al Senegal. Il picco dei prezzi ha anche spinto i paesi produttori a intervenire sui dazi di esportazione delle colture essenziali per ridurre le quantità che uscivano dai confini. Restringendo ulteriormente l’offerta, e facendo crescere ancora i prezzi per via di una situazione determinata da scelte politiche, anziché dai meccanismi di domanda e offerta.

Si è anche iniziato a chiedersi in molti paesi ricchi che dipendono da massicce importazioni, se avesse ancora senso seguire quello che pareva un elemento fondamentale dell’economia globalizzata: l’idea che ciascun paese dovesse concentrarsi sui propri prodotti migliori, e per il resto affidarsi al mercato. Improvvisamente, anche avere somme inimmaginabili derivanti ad esempio dal petrolio, non era più sufficiente a garantire tutti gli alimenti necessari. Gli sceicchi del petrolio negli stati del Golfo scoprivano che nel giro di cinque anni le importazioni alimentari avevano raddoppiato il prezzo. E il futuro riserbava anche di peggio. Non ci si poteva più basare solo su mercati regionali, né globali. Iniziava l’accaparramento delle terre.

La logica era evidente. La popolosissima Corea del Sud è il quarto importatore mondiale di granturco; l’accordo del Madagascar avrebbe tagliato di metà queste importazioni, come vantava un portavoce Daewoo. Anche per gli stati del Golfo la cosa era simile: il controllo su terreni all’estero non assicurava solo forniture di cibo, avrebbe anche eliminato la quota degli intermediari, riducendo di un ulteriore 20% la bolletta delle importazioni.

I vantaggi potevano solo aumentare. Le condizioni fondamentali che avevano condotto alla crisi alimentare globale restavano identiche, col rischio di probabile ulteriore peggioramento. L’ONU prevede che entro il 2050 la popolazione mondiale sarà aumentata del 50%. Coltivare per dar da mangiare a nove miliardi di persone significa una pressione enorme sul pianeta, erosione dei suoli, deforestazione, prosciugamento de fiumi. Col cambiamento climatico le cose si fanno anche peggiori. Continueranno ad aumentare i prezzi del petrolio, e insieme quelli dei fertilizzanti e dei carburanti per i trattori. La domanda di biocarburanti restringerà ancora le superfici disponibili alle colture alimentari. La stretta sui prezzi del 2007/8 potrebbe essere solo un assaggio di qualcosa di molto peggio. I tempi dell’abbondanza sono già finiti. Ci aspettano tempi in cui non ci sarà da mangiare a sufficienza, anche per chi ha tanti soldi.

Qui non ce ne siamo ancora accorti, perché nel Regno Unito, un po’ come negli Usa, sembra si abbia una istintiva e illimitata fiducia nella capacità del mercato di risolvere tutto. Altri paesi però hanno già cominciato a studiare risposte strategiche di lungo periodo.

Il segnale più chiaro è emerso in giugno, quando appena prima del G8 in Italia il primo ministro giapponese Taro Aso ha chiesto: “L’attuale crisi alimentare è solo un’altra piccola deviazione momentanea del mercato?” Ma si è subito risposto da solo: “Sembra proprio di no: siamo in una fase di transizione verso un nuovo equilibrio, che rispecchi la nuova realtà economica, climatica, demografica ed ecologica”.

Anche il mercato ha da dire la sua: il costo dei terreni è in aumento. I prezzi sono balzati del 16% in Brasile, del 31% in Polonia, del 15% negli Stati Uniti medio-occidentali. Ci sono veterani della speculazione come George Soros, Jim Rogers o Lord Jacob Rothschild che si stanno accaparrando terreni agricoli anche in questo stesso momento. Rogers – che fra il 1970 e il 1980 ha aumentato il valore del suo portfolio titoli del 4.200%, e che si è fatto una ulteriore fortuna prevedendo le incursioni nelle merci del 1999 – lo scorso mese ha dichiarato: “Sono convinto che i terreni agricoli rappresentino uno degli investimenti migliori della nostra epoca”.

Dopo il disastroso coinvolgimento degli speculatori finanziari nel settore della casa – la recessione globale affonda le sue radici nello sviluppo di derivati dai mutui – non appare certo rassicurante che siano i medesimi prestigiatori a trasformare le terre in nuova fonte di profitti. “La crisi finanziaria e quella alimentare si combinano” commenta il gruppo di pressione filippino sulle questioni alimentari Grain, “e hanno trasformato la terra agricola in un nuovo cespite strategico”.

Da un certo punto di vista, si tratta di un’ottima cosa per i paesi poveri. La terra è una cosa di cui c’è abbondanza da loro. E il settore agricolo nelle nazioni in via di sviluppo ha bisogno urgente di capitale. Un tempo proveniva dagli aiuti, ma la quota di questi destinata all’agricoltura è caduta dai 20 miliardi di dollari l’anno del 1980 a soli 5 miliardi nel 2007, secondo Oxfam. É solo il 5% degli aiuti che va all’agricoltura e allo sviluppo rurale, nonostante nelle zone più povere come l’Africa, sia oltre il 70% della popolazione a basarsi su questa attività per il proprio reddito. Decenni di scarsi investimenti significano ristagno di produzione e produttività.

Gli accordi per lo sfruttamento delle terre agricole dovrebbero se non altro risolvere questo aspetto, riversando investimenti molto necessari nell’agricoltura di questi paesi. Ciò dovrebbe creare nuovi posti di lavoro e un reddito costante ai poveri delle zone rurali. E poi nuove tecnologie e conoscenze agli operatori locali. Sviluppare le infrastrutture rurali, strade, sistemi di immagazinaggio dei cereali, a vantaggio dell’intera comunità. Contribuire alla costruzione di nuove scuole, strutture sanitarie utili a tutti. Dare ai governi africani il gettito fiscale di cui c’è tanto bisogno, da investire nello sviluppo dei propri paesi. Tutto questo dovrebbe diminuire la dipendenza dagli aiuti per l’alimentazione. Insomma il landgrab come situazione in cui guadagnano tutti.

È questa l’interpretazione del tutto positiva data dal governo del Kenya all’accordo siglato recentemente con lo stato del Qatar. Nell’emirato arabo solo l’1% della terra è coltivabile, e dunque il Qatar è fortemente dipendente dalle importazioni alimentari. L’accordo prevede che il Qatar acquisisca 40.000 ettari di terreni per coltivare alimenti in cambio della costruzione di un porto container del valore di 2,5 miliardi di dollari a Lamu in Kenya.

Purtroppo, nel corso dell’avanzamento delle negoziazioni col Qatar, il governo africano è stato costretto a dichiarare lo stato di emergenza: un terzo della popolazione del paese (in tutto 34 milioni di persone) aveva carenze alimentari. Il presidente Mwai Kibaki ha chiesto l’aiuto internazionale. Gli elettori se sono affamati non riescono a capire bene i vantaggi economici di lungo termine che possono arrivare al Kenya dalla creazione del proprio secondo porto container, in cambio della cessione di un terzo del paese – nell’arido è dimenticato nord-est – allo sviluppo agricolo. Dopo tutto, questo è un paese dove per la terra si uccide, come dimostrato dopo le pasticciate elezioni del 2007.

Se peggiora la crisi alimentare mondiale, come tutti sembrano prevedere, diventerà anche meno politicamente appetibile per un governo come quello del Kenya incoraggiare enormi esportazioni di cibo in momenti di carenza. Cosa tanto più vera in un continente politicamente instabile come l’Africa.

Esiste comunque già, una forte opposizione da parte di molti a progetti di questo tipo. Le terre offerte al Qatar si trovano nel delta del fiume Tana. Terre fertili con acqua dolce in abbondanza, ma abitate da 150.000 famiglie di agricoltori e pastori che le considerano di uso comune, e dove pascolano 60.000 capi. Hanno minacciato resistenza armata. Sono sostenuti da attivisti di opposizione, i quali non sono tanto contrari alla trasformazione delle terre, ma vorrebbero che fossero usate per dar da magiare agli affamati kenyani. Poi ci sono gli ambientalisti, contrari alla distruzione di un ecosistema di acquitrini di mangrovie, boschi e savana.

Perché è l’ambiente, una delle grosse preoccupazioni di questa corsa agli accordi per la terra. Le grandi piantagioni significano di norma monocoltura intensiva con grosse quantità di pesticidi e fertilizzanti. Con risultati produttivi spettacolari in un primo tempo, in grado di soddisfare il portafoglio degli investitori esterni in cerca di profitti di breve termine. Ma si rischia di danneggiare la sostenibilità a lungo termine, perché i terreni tropicali non sono adatti alle colture intensive, e con gravi ripercussioni sul sistema idrico locale. Si riduce la varietà delle piante, degli animali, degli insetti, la fertilità di lungo periodo dei terreni attraverso l’erosione del suolo, saturazione d’acqua o incremento di salinità. L’uso intensive di prodotti chimici per l’agricoltura può condurre a problemi di qualità dell’acqua, e l’irrigazione delle terre per gli investitori stranieri può avvenire a scapito di altri usi.

L’acqua è una questione fondamentale. In un certo senso, più che sottrarre terre qui ci si prende l’acqua, osserva il responsabile esecutivo della Nestlé, Peter Brabeck-Letmathe. Insieme al terreno c’è il diritto di usare l’acqua che ci sta sotto, che può dimostrarsi l’aspetto più vantaggioso dell’accordo. “Il prelievo di acqua per l’agricoltura continua a crescere rapidamente. In alcune delle regioni più fertili del mondo (America, Europa meridionale, India settentrionale, Cina nord-orientale), il suo uso eccessivo, principalmente per l’agricoltura, sta portando a uno sprofondamento delle falde. Si preleva acqua dal sottosuolo, e non più sul’arco dell’anno come complemento, ma in modo costante, principalmente perché l’acqua è considerata un bene liberamente disponibile”.

Il mondo deve urgentemente iniziare a riflettere sul tema dell’acqua. Mediamente una persona usa fra i 3.000 e i 6.000 litri al giorno. A malapena un decimo viene usato per l’igiene o la produzione industriale. Tutto il resto va per l’agricoltura. E il tipo di vita che si conduce, con cose come l’incremento nel consumo di carne, sta esasperando il problema. Per la carne sono necessarie quantità d’acqua di 10 volte superiori a quelle delle piante per ogni caloria. E i biocarburanti sono fra le colture più assetate del pianeta: servono 9.100 litri d’acqua per far crescere la soia necessaria a un litro di biodiesel, e 4.000 litri per il granturco che diventerà bioetanolo. Alle condizioni attuali, così come viene gestita l’acqua, continua il responsabile capo della Nestlé, “la finiremo molto prima dei carburanti”.

E già in molte situazioni la falda sotterranea precipita di parecchi metri l’anno. Fiumi si prosciugano per eccesso di sfruttamento. I problemi peggiori sono in alcune delle più importanti aree agricole del mondo. Se continua la tendenza attuale, avvere Frank Rijsberman dell’International Water Management Institute, presto “potremmo avere perdite annuali equivalenti all’intero raccolto di cereali dell’India e degli Usa insieme”. Che fra tutti e due producono un terzo dei cereali del mondo.

C’è un futuro? L’International Food Policy Research Institute di Washington crede di si. Ha recentemente pubblicato un rapporto con raccomandazioni per un rigido codice di condotta, a promuovere quello che il Giappone, principale importatore di alimenti al mondo, chiedeva al G8 in Italia: investimenti stranieri responsabili nel settore agricolo, in relazione all’attuale distorta pandemia degli accaparramenti di terre.

Ci vogliono regole “con gli artigli” ad assicurare che i piccoli operatori che vengono sfrattati dalle proprie terre possano concordare vantaggi mutui con governi stranieri e multinazionali. Ci vogliono regole per far sì che in qualunque accordo, se si promettono posti di lavoro, poi si rispettino livelli retributivi e si realizzino le strutture. Ci vuole trasparenza, e azioni legali negli stati delle imprese che utilizzano la corruzione, anziché cause intentate e processi nei paesi del terzo mondo. Ci vuole rispetto per i diritti vigenti sulle terre: non solo quelli scritti, ma anche quelli consuetudinari e derivanti dalle pratiche. Occorre una condivisione regolamentata dei vantaggi, in modo che si realizzino scuole e ospedali, e chi abita nelle aree circostanti a quelle cedute abbia abbastanza da mangiare. Si indicano tempi più brevi per la durata dei contratti, perché ci sia un reddito regolare ai contadini a cui è stata sottratta la terra per altri usi. Meglio ancora sarebbe avere contratti che consentono ai piccoli operatori di continuare a gestire le terre anche se a certe condizioni concordate con l’investitore straniero. Si chiedono valutazioni di impatto ambientale adeguate. E che gli investitori esteri non abbiano il diritto di esportare durante le gravi crisi alimentari interne.

Nessuno certo può credere che questo sia facile. Le elites locali dei paesi in via di sviluppo hanno certo forti e ovvi interessi nei vantaggiosi accordi che si offrono. Il governo della Cambogia promuove ampiamente questa pratica del landgrab, avvantaggiandosi del fatto che molti certificati di proprietà dei terreni sono stati distrutti nel periodo del terrore dei Khmer Rouge. Il Mozambico ha siglato un accordo da due miliardi di dollari che comporta 10.000 “coloni” cinesi sul suo territorio, in cambio di 3 miliardi di dollari in aiuti militari da Pechino. Chiarissime le considerazioni strategiche. “In questo mondo il cibo può essere un’arma” per usare le parole di Hong Jong-wan, dirigente della Daewoo.

Ma si stanno raccogliendo le forze anche nell’altro campo. Gli accparramenti di terra sono “una grave violazione del diritto umano al cibo”, secondo Constanze von Oppeln dell’importante agenzia di sviluppo tedesca Welthungerhilfe, una delle più importanti del settore. Parla a nome dei molti che non hanno voce a livello internazionale, anche se fanno sentire sempre più forte la propria presenza nei loro paesi. É esplosa una fortissima reazione pubblica in Uganda quando il governo ha iniziato gli incontri col ministero egiziano dell’agricoltura, per la concessione di quasi un milione di ettari a imprese egiziane destinati a produrre grano e mais per il Cairo. Anche in Mozambico c’è stata una resistenza simile all’insediamento delle migliaia di coloni cinesi nelle terre concesse. All’inizio di quest’anno, i filippini infuriati sono riusciti a bloccare un accordo del proprio governo con la Cina per la strabiliante superficie di 1.240.000 ettari. Il mese scorso gli stessi attivisti hanno reso pubblico quello che definiscono un “patto agricolo segreto” fra il governo filippino e quello del Bahrain. In presenza di un 80% dei 90 milioni di abitanti privo di terre, l’accordo è “illegale e immorale”, hanno dichiarato.

Ciò che si mangia tocca qualcosa di assai profondo nella psiche umana. C’è da credere che nessuna delle due parti cederà senza lottare.

here English version

La macchina è un mastodonte largo 20 metri che incede centimetro per centimetro lungo i filari di lattuga piantati fino l’orizzonte. Si tratta di una Vegcraftmatic della Ramsey Highlander, una fabbrica semovente su cui lavora una cuadrilla di 50 persone. 25 raccoglitori precedono l’avanzata inesorabile della macchina, tagliando man mano le verdure con i coltelli affilatissimi che portano alla cintura. Con un movimento fluido e veloce staccano di netto il gambo poi con un altro lampo della lama tolgono le fogli esterne e passano l’insalata sul ripiano delle impacchettatrici, queste tolgono altre eventuali foglie appassite e organizzano le verdure in ordinate file all’interno delle scatole incerate che hanno davanti. Quando cinquanta pezzi si trovano all’interno, la scatola viene spinta sui tapis-roulant che scorrono sulla pedana appena al di sopra dei lavoratori, dalle estremità della macchina verso il centro, dove opera la squadra dei magazzinieri che sigillano le scatole e le organizzano in grandi pile sulla piattaforma del retro. Da qui vengono prelevate 150 alla volta dal trattore che periodicamente rimorchia un trailer verso i camion refrigerati che aspettano all’estremità del campo.

Ogni ora circa uno di questi chiude i portelli e parte verso magazzini e punti vendita. Il raccolto al tempo dell’agribusiness è un lavoro del tutto industriale, la Vegcraft un portento di orologeria fordista ben oliata, calibrata al millimetro. La squadra ha attaccato alle 6:30 e l’intricato balletto del raccolto procederà senza sosta fino alle tre sotto il sole di una primavera avanzata che preannuncia già la ferocia implacabile dell’estate in questo deserto infuocato.

Siamo a Yuma county, nei pressi di Gadsden – ultimo lembo meridionale di Arizona prima del confine col Messico, 10kmpiù giù verso San Luis. I campi di questo paniere di inverno sono i più produttivi del paese. Irrigato a partire dall’inizio del secolo scorso con le acque del Colorado River, il deserto meridionale di California e Arizona è stato convertito in una macchina per la produzione intensiva di frutta e verdura grazie ad un clima che permette in alcuni casi due e tre raccolti all’anno; come amano ripetere gli agricoltori da queste parti «just add water» – basta aggiungere acqua. È l’apoteosi del plusvalore agricolo mediante l’applicazione tecnologica e l’organizzazione industriale del lavoro dei campi.

Dietro la cuadrilla, la squadra di lavoratori, si muovono i caporali, due, e un mayordomo, il caporeparto che tiene d’occhio l’operazione impartendo ordini per mantenere il ritmo della squadra. Con in testa il sombrero de palma d’ordinanza e sul volto la mascherina igienica, è in costante collegamento via telefonino con i trattoristi, i conducenti dei camion e i superiori della società agricola proprietaria del campo da cui riceve indicazioni sul tipo e sulla grandezza delle lattughe da raccogliere, impartendole a sua volta ai braccianti.

L’agricoltura è un’ industria che vale miliardi, il primo comparto economico in California che esporta ortaggi all’intero paese e all’estero, perfino in Giappone (noci, mandorle e frutta secca in tutto il mondo), ed ha una commensurata sete di mandopera. I lavoratori della cuadrilla sono pendolari internazionali, arrivati stamattina come ogni giorno dal Messico. Molti hanno lasciato le proprie case a mezzanotte, si sono incolonnati alla frontiera dove hanno fatto la fila per un paio di ore per il controllo dei documenti e la verifica del loro visto H2A. Si tratta di quello concesso ai frontalieri stagionali che da ogni anno a circa 20000 braccianti il permesso di lavorare nei campi Usa fino all’esaurimento del raccolto. A notte fonda a sono arrivati a S. Luis Colorado, il paese del lato americano che ogni giorno si converte prima dell’alba in un bazaar di braccianti. Migliaia di lavoratori affollano i marcaipiedi aspettando sotto i lampioni di venire caricati sui vecchi pullman scolastici dipinti di bianco incolonnati lungo lo stradone principale e in ogni concepibile parcheggio della cittadina.

Una volta riempiti, partono alla volta dei campi di tutta la regione, alcuni fino a una o due ore di distanza nelle contee di Imperial e Coachella nella vicina California, un rito che dura immutato da mezzo secolo.

L’importazione di braccia comincia su larga scala in America negli anni ’40, quando per supplire alla penuria di manodopera agricola determinata dalla guerra, il governo americano inizia a offrire visti stagionali validi per la durata dei raccolti. Ben presto 50000 braceros messicani, caricati su convogli ferroviari al confine, vengono impiegati nei campi del paniere californiano. Mentre proseguono tuttoggi le cause intentate dai molti che non ricevettero mai gli stipendi allora pattuiti, le dinamiche di mercato e dell’outsourcing globale del lavoro assicurano, oltre al fenomeno dell’immigrazione clandestina, che siano tuttora attivi programmi di guest worker. Ogni anno il department of labor rilascia 30000 visti H2A che autorizzano l’impiego stagionale di lavoratori non residenti, una forza lavoro assolutamente essenziale per l’agro-industria americana – questa almeno è la versione ufficiale delle aziende, promotrici di un intenso lobbying per mantenere in vita il programma.

In realtà parlando con le associazioni di settore del luogo ci si rende conto che lavoratori residenti (comunque ispanici al 100%) non mancherebbero, ma che le aziende preferiscono i frontalieri, spesso provenienti dalla povertà dell’interno «profondo» del Messico, i quali per legge percepiscono si la stessa paga minima prevista per legge, ma che sono del tutto dipendenti per il lavoro, il trasporto, spesso il vitto e l’alloggio dalle imprese agricole che li impiegano e quindi assai più controllabili dei lavoratori «autonomi». Un rapporto di dipendenza totale che porta spesso ad abusi e che ha contribuito all’estinguersi dei sindacati faticosamente introdotti dalle lotte sociali, scioperi e boicottaggi del movimento campesino guidato da Cesar Chavez negli anni 60 e 70.

All’entrata di San Luis Colorado c’è un piccolo monumento, una statua in bronzo raffigurante l’uomo che si fece carico di una delle lotte più impari nella storia operaia d’America, quella dei campesinos, spesso irregolari, quasi sempre senza conoscenza dell’inglese, contro le grandi aziende agricole abituate ad abusarne impunemente sin dai tempi della grande depressione. Poco più in la c’è la piccola casa dove Chavez nacque e dove, malgrado che il grosso delle sue lotte avvenne nelle fertili valli californiane, tornò nel 1993 amorire. Il suo nome oggi è sinonimo non solo delle battaglie sindacali dei campesinos ma di movimento ispanico per i diritti civili, e diversi stati, particolarmente nel Southwest, osservano festività ufficiali in suo nome; qui nei paesi di Yuma county quasi tutti lo ricordano. Chi ha più di 40 anni ha marciato con lui o ricorda le manifestazioni, i cortei dietro ai camion con gli altoparlanti e le bandiere rosse dell Ufw, la United Farm Workers. I più giovani rammentano le visite di Chavez alle mense scolastiche o quelle alle case dei loro genitori per organizzare fino a tarda sera i picchetti e la resistenza nonviolenta agli arresti.

Una di queste è Flor Redondo, attuale direttrice di Campesinos sin Fronteras una delle associazioni di supporto ai frontalieri che oggi come ogni giorno lavorano ricurvi sui filari di questa valle. Redondo e molti altri proseguono il lavoro di Chavez anche se con un punta di amarezza: «Non è possibile avere un sindacato con un serbatoio di manodopera così sconfinato appena oltre quel muro» mi spiega indicandomi la barriera di ferro alta quattro metri che attraversa la campagna, tagliando campi e scavalcando canali di irrigazione lungo la linea di confine col Messico.

E la Ufw di fatto oggi mantiene un funzione di lobby politica più che di effettivo sindacato. I risultati ottenuti da Chavez sono tangibili tuttoggi: durata dei turni, minima sindacale, numero di pause, norme di tutela della salute, ma le realtà di una globalizzazione avanzata impongono la continua vigilanza.

All’alba i volontari di Campesinos Sin Fronteras parlano coi lavoratori che prendono un caffè o un crema d’avena prima di salire sui pullman al valico di frontiera. Li informano sui propri diritti, sulle norme di sicurezza nell’applicazione dei pesticidi e nell’operazione dei macchinari. Una volta che il sole si alza, spesso sono nei campi per verificare che le norme vengano rispettate dai caporali. «Sulla carta tutti lo fanno -mi dice Lorena Figueroa , che sulla scrivania tiene una foto di entrambe i genitori quando organizzavano con Chavez -ma nella realtà è difficile da verificare». Specialmente quando gli stagionali come abbiamo detto non parlano la lingua, non hanno mezzi di trasporto propri, e dipendono quindi in tutto e per tutto dai datori di lavoro. Una popolazione che per mesi alla volta, vive alloggiata in roulotte o motel, versione odierna della tradizionale forza lavoro itinerante, i migrant workers, da sempre parte integrante dell’agricoltura industriale.

Le aziende che impiegano i braccianti hanno nomi come Growers Company, Tanimura & Antle, Salyer, Hilltwon, Foodhill Packing; sono divisioni di multinazionali, colossi agroalimentari come la Dole Foods e United Fruit che controllano un settore che risponde fedelmente alle fluttuazioni del mercato. Così accade che il caporale che guida la cuadrilla riceva a mezza mattinata una telefonata che modifica il ritmo del lavoro. La macchina non accelera e non rallenta ma ora i coltelli dei raccoglitori tagliano solo una lattuga su due e metà dell’insalata rimane sul campo – troppo piccola per raggiungere oggi la soglia del profitto. Un rapido calcolo effettuato in direzione in base alla flessione di un prezzo che lampeggia su un monitor e si traduce in un ordine comunicato in tempo reale alla squadra: : «si raccolgono solo i diametri oltre i 25cm». Un annuncio che determina uno spreco gigantesco; decine di migliaia di piante seminate, irrigate e cresciute che invece di finire in tavola rimarranno a marcire nei filari – è il mercato, bellezza. Il caporale si accorge della mia sorpresa emi spiega, «l’agricoltura è fatta così – è sempre un terno al lotto», impossibile sapere al tempo della semina quali saranno le condizioni di offerta e domanda ora del raccolto, d’altra parte, aggiunge filosofico «è sempre stato così». Una volta non si sapeva se sarebbe piovuto o grandinato, oggi la sorte la decidono i traders della compagnia seduti in un ufficio climatizzato davanti ai loro computer». La verdura abbandonata oggi sui campi - e solo su questo ce n’è, si direbbe, abbastanza per migliaia di persone – racconta la crisi che ha determinato una contrazione anche dei consumi alimentari. Un effetto a cascata che finisce per abbattersi sulle spalle di questi lavoratori. Fra i braceros della cuadrilla è una litania: meno lavoro, meno paga, una stagione accorciata. «Qui abbiamo finito » taglia corto il caposquadra passandosi un fazzoletto sulla fronte, molti dei ragazzi (ma almeno un terzo sono donne) domani all’alba cercheranno impiego su qualche altro campo. Quanto a lui con altri quattro o cinque si trasferirà a Fresno, trecento chilometri a Nord, nella valle San Joaquin, dove si stanno per raccogliere i peperoni.

La prossima fermata sul circuito senza fine dei raccolti.

C’è Frank Lloyd Wright, avvolto in un mantello scuro, che scruta pensoso un orizzonte molto più ravvicinato di quello del suo deserto dell’Arizona: un basso tavolo al centro del quale campeggia inconfondibile la bottiglia dell’acqua San Pellegrino. La foto compare su un vecchio numero del mensile Urbanistica, negli articoli dedicati alla visita in Italia del padre dell’architettura “organica”: chissà cosa ne penserebbe, il progettista di Fallingwater, della montagna artificiale con cui un architetto dei nostri giorni, il francese Dominique Perrault ha imbottigliato le acque termali di San Pellegrino direttamente nella loro roccia, “ creando grandi blocchi in pietra, disordinati come i detriti di un ghiacciaio caduti a valle[1].

Immagine quanto mai significativa, quella dei grandi blocchi di pietra disordinati, soprattutto quando si guardano i disegni del progetto, letteralmente “caduto a valle” dall’iperuranio degli investimenti internazionali, su un centro termale della Valle del Brembo già famoso nel primo ‘900. Forse virtualmente ancor più famoso poi per l’acqua frizzante imbottigliata che circolava in tutto il mondo, fino a diventare negli opulenti anni ’80 oggetto di una indimenticabile discussione tra gli elegantoni newyorkesi devianti di Brett Easton Ellis in American Psycho. Insomma l’acqua strappata al territorio, non solo per metterla in bottiglia con un po’ di gas e rivenderla a caro prezzo sui tavolini della creative class globale, ma anche e sempre più per sublimarla in un ancora più lucroso e immateriale brand di rilevanza tanto ampia quanto più si allargano le onde della comunicazione. Spinte da una classica strategia di impresa: si cercano e si trovano “radici” nei territori locali, radici genuine, che poi impacchettate e transustanziate si rivendono, localmente ma non solo, cavandoci lauti profitti. Il che non sarebbe nulla di male se non avvenisse quasi sempre a spese esclusive (ambientali, sociali, e con consumo di risorse non rinnovabili, come il territorio stesso) delle popolazioni e degli ambienti inseriti nel “pacchetto”.

Guardando con un po’ di attenzione in più, insomma, il progetto dell’ archistar internazionale calato sulla valle del fiume Brembo, a fare da ciclopico sfondo alle tradizionali terme di San Pellegrino, giusto di fronte all’imponente mole del Grand Hotel sull’altra sponda, racconta benissimo a modo suo l’idea di sviluppo locale a partire dall’acqua.

Siamo in una delle tante articolazioni territoriali del sistema padano, e precisamente in una delle valli immediatamente affacciate verso la megalopoli delle pianure. Il fiume Brembo inizia a raccogliere le sue acque dai versanti più alti, su in direzione del passo San Marco (passaggio a nord-ovest mitico simbolico della Lega Nord), e poi si fa strada attraverso le seconde case delle stazioni turistiche, fino a sfociare in quella specie di escrescenza milanese che è l’area metropolitana di Bergamo. La megalopoli spinge, e risale il fiume insinuando da lustri fra le montagne la sua materia costitutiva: asfalto, cemento, e tempi rapidi di messa in opera. Poco più su dell’imbocco bergamasco della valle, il ridente borgo di San Pellegrino, col suo appeal turistico un po’ appannato e in cerca di rilancio attraverso la promozione pubblico-privata del territorio, come usa oggi.

I fatti, riassunti in poche battute [2], sono: un accordo di programma fra vari soggetti per la riqualificazione delle strutture termali, che comporta corposi investimenti in infrastrutture e trasformazioni territoriali varie. Nella migliore tradizione di questo tipo di interventi cosiddetti “integrati”, alla parziale deroga dalle procedure correnti corrispondono altri investimenti più o meno diffusi tesi al miglioramento della città, a interventi sociali, di formazione ecc. La cosa particolare nel caso specifico, però, è che la materia prima costituita dall’acqua sembra aleggiare ovunque come collante di identità, accordi, ambienti, ma allo stesso tempo essere ridotta a inafferrabilissimo brand. Tutto comincia a tenersi, se si prende in considerazione la qualità particolare dell’operatore privato coinvolto.

Si tratta infatti di Premium Retail, che come recita il sito web “è impegnata nella realizzazione di luoghi di alto profilo per produttori, distributori e consumatori”, luoghi che vanno intesi nella logica del complesso commerciale-turistico, se non esattamente dello shopping mall tradizionale mediato dalle forme più moderne del villaggio della moda, o di altre variegate innovazioni cosiddette mixed-use. E basta leggere un po’ meglio gli obiettivi di impresa per confermare la centralità di un tipo di sviluppo in cui quei luoghi prendono soprattutto la forma di metri cubi edificati, che siano i “grandi blocchi di pietra disordinati” dell’ archistar internazionale o altre più prosaiche aggiunte al panorama di valli e pianure, fino alle banalissime solite villette delle seconde case. Un modus operandi che del resto è piuttosto caratteristico (quasi da manuale, verrebbe da dire) di questa idea di sviluppo di iniziativa privata, applicata via via a territori relativamente deboli per un motivo o l’altro, che si tratti di aree urbane industriali che necessitano di rigenerazione, o di bacini turistici in cui sfruttare commercialmente le varie risorse naturali, acqua, suolo, paesaggio ecc.

Nel caso specifico, l’acqua assume valenze multiple e per molti versi inedite.

C’è quello base, dell’acqua come risorsa naturale, che conforma il fiume, la valle, e che ha dato origine alla prima attività turistica locale, ovvero le terme. Proprio a partire da questo nucleo originario iniziano però presto ad articolarsi gli altri due, che caratterizzeranno gli sviluppi “postmoderni”: il turismo alberghiero e delle seconde case che ruota attorno alle acque termali; la visibilità anche internazionale del marchio San Pellegrino veicolata dall’acqua in bottiglia e dai flussi della comunicazione pubblicitaria correlata.

Esiste infine un altro aspetto, per nulla secondario dal punto di vista dei territori direttamente coinvolti, rappresentato … ehm, dagli stati della materia. Ci insegnano sin dalle elementari infatti che l’acqua nel suo ciclo naturale assume via via varie forme: il vapore delle nubi, le onde del mare, il bianco della neve sulle cime delle montagne. Nella valle dentro la quale si colloca San Pellegrino, queste montagne servono anche, da parecchi decenni, da grande resort sciistico, degradato più di recente verso le forme di esurbio della megalopoli padana, con gli ex pascoli e pinete invasi da quartieri “periferici” di seconde case, a volte prima casa e mezza se si pensa che da Milano ci vogliono un paio d’ore scarse di macchina.

Il progetto di rilancio del brand abbraccia così davvero, è il caso di dirlo, tutti gli stati della materia acqua. Quello più corrente, delle fonti termali da cui in origine scaturisce il primo sviluppo turistico/immobiliare. Quello dell’immagine immateriale, “svaporata”, che la pubblicità dell’acqua e della neve irradiano in tutto il mondo. Infine quello concreto risultante dell’impatto locale, non a caso il più sottolineato dai critici: l’acqua impastata al cemento, che bene o male sembra rappresentare sempre lo sbocco di qualunque idea di “sviluppo integrato”. E che, come piuttosto noto, non fa benissimo a tutto il resto. Forse pensava a questo, Frank Lloyd Wright, scrutando quella bottiglia di acqua San Pellegrino.

Ma ad operatori che lavorano a colpi di “messa a punto di format adeguati al territorio” oppure di “gestione delle attività di pre e post opening in vista dello start up” [3] ovviamente frega assai poco.

Soprattutto pensando che alla cordata di soggetti si è “aggiunta” (si fa per dire) nientepopodimeno che la San Pellegrino/Nestlè in persona, piuttosto nota per le sue politiche locali.

Nota: per alcuni (solo alcuni) aspetti di quanto accennato nell'articolo, si veda il caso della vicina Piazzatorre (f.b.)

[1] L’intervento dell’architetto è tratto dall’opuscolo Premium Retail, Nuovo Complesso San Pellegrino Terme [2008] scaricabile in pdf dal sito www.premiumretail.it .

[2] Desumo le informazioni generali sull’accordo di programma per lo sviluppo locale da un articolo pubblicato dal quotidiano locale L’Eco di Bergamo, “S. Pellegrino, via all’accordo per Grand Hotel e Terme”, il 22 novembre 2006, in occasione dell’assenso della Regione Lombardia; e dal numero unico di un gruppo di opposizione in consiglio comunale, Il Ponte News, febbraio 2008 scaricabile dal sito www.nicolabaroni.it .

[3] Entrambe le citazioni da: a.b., “Gruppo Percassi: con Premium Retail verso nuovi investimenti immobiliari”, http://www.fashionmagazine.it 12 Giugno 2008

La decisione di piantare un orto nel giardino della Casa Bianca va annoverata tra gli atti politici significativi di Barack Obama in questi suoi primi mesi di mandato. Il sogno che ebbe nel 1995 Alice Waters, vice-presidente internazionale di Slow Food, quando domandò formalmente - e inascoltata - ai Clinton di fare la stessa cosa, si è finalmente avverato.

Dai tempi di Bill e Hillary Alice ci ha sempre riprovato senza successo, ma già mentre sosteneva ardentemente la campagna presidenziale, e ancora mentre partecipava all’organizzazione per la festa di insediamento, mi confessò che Obama sarebbe stato la persona giusta.

I giornali parlano della precisa volontà di Michelle Obama rispetto a questa piccola grande svolta: infatti è tradizione che siano le first ladies a occuparsi di che cosa deve finire nei piatti presidenziali. Sono stati rievocati i Victory Gardens della signora Roosevelt in tempi di guerra, e questo è certo un bel modo di dare la notizia. Ma va detto che il grande movimento di persone legate al mondo del biologico, delle produzioni agricole locali, dei farmers’ markets e di Slow Food, una grande rete popolare che negli Stati Uniti sta facendo sempre più proseliti, ha senz’altro avuto un’influenza determinante.

Il fatto che l’uomo più potente del mondo si sia deciso a fare quello che i suddetti movimenti stanno da tempo realizzando nelle scuole e nelle comunità con gli school gardens (Slow Food da parte sua, dopo i progetti di Alice Waters negli Usa, ha già attivato circa duecento orti scolastici in Italia e quasi trecento nel resto del mondo) sancisce una volta per tutte che non si tratta di un vezzo salutista, di snobismo o, peggio, di «fanciullaggini»: è pura politica.

Non a caso è una decisione presa dopo l’annuncio da parte di Obama di voler riformare la Food and Drug Administration, l’ente che dovrebbe vigilare sulla sicurezza alimentare dei cittadini americani e intanto approva coltivazioni Ogm, ormoni della crescita nell’allevamento e ogni sorta di additivo alimentare. Cosa più importante è una decisione presa di fronte a una crisi epocale che sta mettendo a dura prova gli Stati Uniti e il mondo, quindi dal significato molto profondo, tanto più che dovrà dichiaratamente servire «da esempio a tutte le famiglie americane».

Non è soltanto un modo per procurarsi cibo più facilmente, è una vera questione economica: è la differenza che passa tra prezzo e valore. È probabile che sarà più dispendioso per Sam Kaas, il cuoco della Casa Bianca, coltivare da sé le materie prime, così com’è obiettivamente più costoso fare la conserva in casa rispetto al comprarla al supermercato. È la stessa cosa che ho visto fare a un contadino del pinerolese, che per ricominciare a coltivare un appezzamento ha dovuto fare un faticosissimo scasso del terreno e l’ha fatto a mano, mentre tutti gli consigliavano di chiamare qualcuno con una scavatrice: «No, preferisco le mie mani, almeno so cosa sto facendo al terreno». Ci sono cose che potrebbero sembrare non convenienti, ma nascondono un valore che va al di là dei semplici conti. Perché fare una conserva in casa è un atto politico; uno scasso a mano nel terreno è un atto politico; un orto è un atto politico.

È economia partecipativa, quindi anche democrazia partecipativa. Non conta quanto vale l’atto in termini di prezzo, ma è l´atto stesso, il cui valore sta nel chi lo compie, come lo compie e perché lo compie. Si tratta di mettere in moto le basi di una nuova economia locale, che ha evidenti vantaggi nel consumo di prodotti freschi, stagionali, più buoni, meno inquinanti, che non si accaniscono sulle tasche né del contadino né di chi mangia, ma che soprattutto rende protagonisti i cittadini e infonde una nuova consapevolezza del cibo, di quelli che sono i tempi e le esigenze della natura. In questo modo non si è più consumatori passivi - e nocivi al pianeta - ma si diventa padroni delle proprie vite, tra l’altro anche rendendosele più piacevoli.

Non so se è vero, come sostiene una ricerca dell’università di Uppsala, che coltivare un orto o un giardino allunghi la vita, ma è certo che potrebbe rivoluzionare in positivo le nostre abitudini alimentari e innescare processi virtuosi dalle ricadute che andrebbero molto al di là della nostra casa o del territorio di cui si fa parte. Ci voleva Obama per aprirci gli occhi? Ben venga, a patto però che quegli occhi restino bene aperti, e questo sta solo e soltanto a noi renderlo possibile.

UN’AQUILA reale imbalsamata in salotto. Un fucile in mano a un ragazzo di 16 anni, lo stesso a cui non si affida né un volante né una scheda elettorale. Le porte dei parchi aperte alle doppiette. L’uso senza limiti degli zimbelli, civette lasciate appese per le zampe ad agitarsi per ore, in modo da attirare con la loro sofferenza altre prede. È l’Italia della libera caccia, così come dovrebbe uscire dalla controriforma che ieri è arrivata in commissione Ambiente del Senato. Un terremoto che spazza via l’equilibrio faticosamente raggiunto con la legge quadro del 1992 e rischia di inasprire il contenzioso con l’Europa. Per l’Enpa (Ente nazionale protezione animali) è un ritorno al Medioevo.

Per Jane Goodall, una delle più famose etologhe, il segno di una sconfitta culturale: «Per quanto possa sforzarmi, alla mia età non riesco ancora a capire come persone civilizzate possano provare piacere nell’uscire di casa, togliere la vita a creature bellissime e poi appenderne la testa in salotto, per decorazione».

«La notizia della liberalizzazione dell’imbalsamazione l’ha colpita profondamente», racconta la scrittrice Margherita D’Amico - fondatrice della agenzia non governativa "La vita degli altri" che si occupa di trovare punti di incontro tra il mondo degli animali, quello degli uomini e quello dell’ambiente - che ha intervistato Jane Goodall nell’ambito del documentario sulla caccia "A ferro e fuoco" girato «per rompere il silenzio sulla trasformazione dei 700 mila cacciatori in imbalsamatori e sul rischio crescente per chiunque vada in campagna, visto che già l’ultima stagione venatoria è costata 42 morti e 85 feriti».

Il testo appena arrivato a Palazzo Madama è il frutto di una sintesi di varie proposte di legge presentate dalla forze di maggioranza. L’autore della stesura finale, Franco Orsi (Forza Italia), ritiene che le modifiche non restringano l’elenco delle specie tutelate, fatta eccezione per i danni prodotti all’agricoltura e per i rischi «all’incolumità pubblica». Di fatto saranno i sindaci e i prefetti a stabilire di volta in volta se i lupi o gli orsi costituiscono una minaccia da arginare premendo il grilletto.

La nuova legge trova l’opposizione degli ambientalisti, degli agricoltori e persino delle associazioni che raccolgono la maggioranza dei cacciatori (Arcicaccia e Federcaccia). Lipu, Lav e Enpa urlano allo scandalo parlando di "nuovo Medioevo". «Tutte le categorie direttamente coinvolte sono contrarie perché la legge quadro aveva messo fine alla guerra ideologica sulla caccia, ora si rischia di riaprire una lunga stagione di conflitti», nota il senatore del Pd Roberto della Seta. Bocciato dai diretti interessati, il nuovo disegno di legge sarà forse frutto di un sondaggio segreto? Per scoprirlo Legambiente, Lipu e Wwf hanno commissionato un sondaggio pubblico all’Ipsos. Ecco la sintesi. Il primo dato riguarda l’orientamento generale: il 69 per cento è fortemente contrario alle doppiette, il 21 per cento neutrale, il 10 per cento favorevole. Prolungare il periodo di caccia e aumentare i luoghi in cui si può sparare: 86 per cento contrari. Ridurre le sanzioni per chi uccide specie protette: 86 per cento contrari. Aree private in cui è possibile sparare agli animali: 89 per cento contrari. Doppiette nei parchi: 91 per cento contrari. Autorizzare a sparare agli uccelli migratori: 93 per cento contrari. Rilasciare la licenza di caccia a chi ha 16 anni se accompagnato: 94 per cento contrari. Se la maggioranza anti caccia era prevedibile, la misura del dissenso rispetto alla controriforma risulta particolarmente alta. E un’altra sorpresa arriva quando si analizza l’orientamento politico di chi risponde. In una serie di casi gli elettori di centrodestra sono ancora più contrari alla controriforma di quelli di centrosinistra. Solo il 5 per cento di chi vota per la maggioranza è favorevole ad autorizzare la caccia a specie protette contro un 7 per cento di elettori del centrosinistra. Solo il 3 per cento di chi vota per il Pdl vuole che i cacciatori possano sparare ai migratori contro il 6 per cento di chi vota per l’opposizione. Solo il 5 per cento di chi è schierato con il governo vede con favore l’idea di dare una doppietta a un ragazzo di 16 anni contro il 6 per cento di chi è schierato con l’opposizione.

Se il "global warming" va sotto processo

Pascal Acot

Quella che stiamo vivendo in questi anni è una svolta indiscutibile nella storia del clima. Il pianeta si riscalda sempre di più. Il global warming è un processo complesso che non è certo rimesso in discussione dall’attuale ondata di freddo abbattutasi sull´Europa. La situazione di questi giorni - che per altro non è assolutamente eccezionale, visto che negli ultimi decenni bbiamo conosciuto periodi anche più freddi - è piuttosto il segno di un progressivo sregolamento climatico dovuto all’innalzamento globale della temperatura.

Nel corso del secolo scorso la temperatura del pianeta è aumentata dello 0,6 per cento, con un margine d’errore dello 0,2 per cento. Forse non siamo ancora di fronte a una tragedia irreversibile, ma ciò non significa che non si debba intervenire. Anche perché non siamo assolutamente in grado di fare previsioni affidabili.

L’unica certezza è il ruolo fondamentale svolto dalle attività umane nel processo che aggrava il riscaldamento del pianeta, riscaldamento che finora era solo di origine astronomica. E siccome la prossima fase di glaciazione sarà tra 50 mila anni, non possiamo contare sulla variabile astronomica per combattere la deriva del clima.

La natura non può rimediare ai nostri errori, anche se alcuni fenomeni sembrerebbero indicarlo. Ad esempio, secondo alcune ricerche, lo scioglimento dei ghiacci polari dovuto al riscaldamento climatico metterebbe in moto un processo naturale in grado di combattere l’effetto dei gas serra.

Si tratta solo di un’ipotesi, che se fosse confermata mostrerebbe quanto possa essere imprevista l’evoluzione climatica. Sapere che la natura sa reagire, non dovrebbe però spingerci all’attendismo. Invece, forse inconsciamente, coltiviamo tutti l’illusione che la natura sia capace di ristabilire da sola il proprio equilibrio. La pensiamo come una realtà indistruttibile e tale percezione diventa un alibi per non agire e addirittura per non rispettare gli impegni già presi.

Si pensi ad esempio al protocollo di Kyoto, che finora non è riuscito a ottenere i risultati auspicati. I gas serra dovevano diminuire e invece tra il 2005 e il 2007, la Spagna ha aumentato le emissioni di gas serra del 53 per cento, il Portogallo del 43 per cento e l’Irlanda del 26 per cento. Per non parlare dell’impatto sull’ambiente delle cinquantadue centrali a carbone messe in cantiere dalla Cina.

Insomma, nonostante gli accordi di Kyoto, la situazione si degrada, forse perché le popolazioni non percepiscono ancora le trasformazioni climatiche come una vera minaccia.

Quando si parla del riscaldamento del pianeta si dimentica spesso che le maggiori conseguenze di tale situazione ricadranno sui paesi più poveri, per i quali l’ecologia è un lusso insostenibile. Quando non si sa come nutrire i propri figli, non ci si preoccupa certo del riscaldamento climatico e si cerca solo di sopravvivere. Anche nei paesi occidentali, a pagare saranno soprattutto le popolazioni più fragili vale a dire i bambini, gli anziani, i malati e i più poveri. Questa vulnerabilità però non è quasi mai presa in considerazione, rimuovendo quindi le conseguenze concrete prodotte dai cambiamenti climatici, conseguenze che saranno una vera e propria tragedia per moltissime persone.

Ecco perché il global warming non è solo un problema ecologico, ma anche e soprattutto un problema sociale e politico. Le catastrofi naturali, sempre più frequenti degli anni a venire, vanno viste innanzitutto come catastrofi sociali, i cui costi economici e umani risulteranno ogni volta più drammatici. La battaglia, quindi, non può svolgersi solo sul terreno ecologico, deve spostarsi sul sociale.

Accanto alle misure per limitare le emissioni dei gas serra, bisognerebbe già intervenire per aiutare le popolazioni ad adattarsi a un´evoluzione climatica ineluttabile.

Ad esempio, dovremmo aiutare i paesi che si affacciano sul bacino del Mediterraneo ad affrontare siccità sempre più gravi. Occorrerebbe un piano straordinario di interventi di medio e lungo periodo per evitare terribili drammi umani e flussi migratori sempre più incontrollabili.

In una fase di crisi economica come quella attuale è però difficile pensare politiche straordinarie capaci di mettere in campo ingenti risorse. Di fronte alla crisi, chi governa sceglie sempre le soluzioni più economiche, senza rendersi conto che quasi sempre sono le più costose sul piano ecologico. Anche l’industria mira esclusivamente al profitto immediato, senza preoccuparsi del costo per la collettività delle sue scelte, rivelando così una contraddizione insanabile tra economia e ecologia, tra interesse privato e interessi collettivi. Per questo, una politica preoccupata della difesa del pianeta avrebbe bisogno di un forte impulso pubblico e di una pianificazione capace di proiettarsi nel futuro. Senza la pressione dello Stato, le imprese non prenderebbero mai misure a difesa dell’ambiente, di solito molto costose e senza benefici economici immediati.

Purtroppo le élite politiche ed economiche si sono sempre dimostrate lontane dai problemi reali della gente, usando l’ecologia solo per fare qualche risparmio. Lo Stato di solito si limita a incitare i cittadini a cambiare i loro comportamenti (una politica che non costa nulla), quando invece sarebbe necessario un sostegno tecnologico ed economico alle imprese, affinché abbandonino le tecnologie più inquinanti. Per non parlare delle misure contraddittorie: si tassano le automobili più inquinanti, ma si lascia esplodere il trasporto su strada. Insomma, mancano politiche coerenti e di lungo periodo. Si aspetta di essere con le spalle al muro per intervenire, ma così facendo si arriva sempre troppo tardi.

Un’economia non distruttrice della natura non può che nascere in un contesto molto dirigista che pone vincoli e tiene conto innanzitutto dell´interesse futuro della collettività.

Di recente, in occasione della crisi finanziaria mondiale, abbiamo assistito a un interventismo statale molto accentuato. Questo stesso atteggiamento, fatto di decisionismo e volontarismo, sarebbe necessario anche sul piano ecologico. Come pure sarebbe necessario che la sensibilità ecologica - indubbiamente oggi più diffusa che in passato - si trasformasse in comportamenti concreti e scelte operative. Per adesso però quasi nessuno è veramente disposto a cambiare il proprio stile di vita. Sarà probabilmente un processo molto lungo. Il problema però è che nessuno sa dire con esattezza quanto tempo ci resti.

(testo raccolto da Fabio Gambaro)

Ma il tempo non è il clima

Antonio Cianciullo intervista Jeremy Rifkin

Un Capodanno con il cappotto pesante, qualche aeroporto bloccato per neve e subito l’affondo degli eco scettici: «Il global warming rallenta». C’è veramente un´inversione di tendenza? «Nella letteratura scientifica internazionale non esiste traccia di questi dubbi», risponde dal suo studio di Washington Jeremy Rifkin, presidente della Foundation on Economic Trends. «Forse in Italia c’è ancora qualcuno che confonde il tempo con il clima. Eppure il concetto è semplice: provo a ripeterlo. Per capire dove va il clima occorre osservare i lunghi periodi, prendere in considerazione le serie degli anni. E da questo punto di vista il quadro è chiaro: gli anni Ottanta sono stati i più caldi nella storia delle meteorologia, i Novanta li hanno battuti e questo inizio di secolo segue il trend del rialzo di temperatura».

Anche con un Natale freddo?

«Ecco, appunto, adesso parliamo del tempo, cioè della meteorologia che, tra l’altro, si sta comportando esattamente secondo le previsioni degli scienziati Onu: aumentano gli eventi estremi. In questo caso, per la verità, non si è neppure registrato un evento estremo. Semplicemente non c’è una progressione meccanica; non succede che ogni Natale sia un po’ più caldo di quello precedente, anno dopo anno, in modo geometrico. Registriamo sbalzi in alto e in basso: quello che conta è la tendenza».

E la tendenza in che direzione ci porta?

«In una direzione pessima. Già le previsioni dell’Ipcc sono preoccupanti, ma James Hansen, il più importante climatologo degli Stati Uniti, dopo una lunga ricerca sul campo ha lanciato un allarme che deve far riflettere: fermare la concentrazione dell’anidride carbonica in atmosfera a 450 parti per milione non basta se vogliamo evitare uno scenario catastrofico».

Abbiamo già superato le 380 parti e fermarsi a quota 450 viene considerato un obiettivo ambizioso.

«Hansen ha fatto dei carotaggi sul fondo dell’oceano e ha ricostruito cosa è accaduto in passato quando la concentrazione di anidride carbonica è aumentata molto velocemente. Se si rimane a quota 450 anche per pochi anni, si raggiunge il tipping point, cioè la soglia di non ritorno, e la temperatura sale rapidamente di sei gradi: un salto che comporterebbe la fine della nostra civiltà».

Qual è il tetto da non superare?

«Le 350 parti per milione. Cioè un valore inferiore a quello attuale: dobbiamo far ridiscendere la concentrazione di anidride carbonica varando piani come quello predisposto dal governo della Gran Bretagna: investire in efficienza e nelle fonti rinnovabili per arrivare a tagliare le emissioni serra dell’80 per cento entro il 2050».

Investire con questa crisi economica?

«La crisi ci aiuta perché il modello della terza rivoluzione industriale, quella basata sull’energia diffusa, sulle fonti rinnovabili e sull’efficienza, è la sola possibilità per far ripartire il motore dell’economia».

Il piano Obama sulle rinnovabili.

«Quel piano coglie solo una parte delle possibilità: manca una coerente visione d’assieme. Non basta limitarsi a creare qualche pezzo di economia che funziona: occorre costruire l’infrastruttura necessaria alla terza rivoluzione industriale e da questo punto di vista il ruolo degli edifici è determinante. Dovremo avere milioni di case e di uffici che invece di consumare energia la producono usando il sole, il vento, il riciclo dei rifiuti. Dovremo muoverci con veicoli a zero emissioni che usano idrogeno ottenuto con energia rinnovabile. Dovremo affinare la tecnologia delle fonti rinnovabili usando anche geotermia, maree, onde. Solo in questo modo riusciremo a risolvere assieme le tre grandi crisi che ci minacciano: la crisi della finanza globale, la crisi della sicurezza energetica, la crisi del cambiamento climatico».

Chi sarà il protagonista di questa rivoluzione?

«Dal punto di vista politico l’Unione europea ha molte carte da giocare perché la sua visione strategica è centrata sulla qualità della vita: punta ad aumentare l’efficienza, a conciliare il mercato con la protezione sociale, a trovare soluzioni che tengano conto della collettività e non solo dell’individuo. Dal punto di vista industriale bisogna compensare vent’anni passati ad accumulare debiti e a investire poco in innovazione e ricerca. Per questo abbiamo costruito il Tavolo dei business leader della terza rivoluzione industriale. Hanno già aderito cento tra presidenti e amministratori delegati delle più importanti industrie a livello globale nei settori strategici: le fonti rinnovabili, l’edilizia avanzata, i trasporti a basso impatto ambientale, le reti intelligenti. Saranno loro a dimostrare che oggi il colore del business è il verde».

I negazionisti del gas serra

Luca Mercalli

Karasjok, nella Norvegia settentrionale, è uno dei luoghi più freddi d’Europa, nel 1886 ha registrato 51 gradi sottozero. Nei giorni scorsi vi faceva più caldo che a Piacenza, con "soltanto" meno nove gradi, nel buio della notte polare. Lassù il dicembre 2008 si è chiuso con sette gradi oltre la media. Quindi, mentre nell’Italia innevata il riscaldamento globale non va più di moda, in Scandinavia si potrebbero fare titoli cubitali sulla sua avanzata. L’aggettivo "globale" serve proprio per evitare questo continuo rumore di fondo focalizzando l’analisi su un dato significativo per l’intero pianeta. Michel Jarraud, segretario generale dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale ha dichiarato che «nonostante l’attuale freddo sull’Europa centro-meridionale, la tendenza generale rimane senza dubbio verso il riscaldamento». Ed è la stessa agenzia internazionale, che dal 1951 coordina le osservazioni meteorologiche di tutto il mondo, a ribadire che il 2008 è stato il decimo anno più caldo dal 1850 (il settimo in Italia dal 1800, dati Cnr-Isac) e ha visto una stagione degli uragani atlantici tra le più attive, con 16 eventi. E i ghiacci artici in aumento? Frutto di un frettoloso giornalismo in cerca di scandali, basato su dati non correttamente interpretati a causa di differenti satelliti utilizzati dal 1979 a oggi per misurare la banchisa artica. (AspoItalia ha fatto chiarezza qui: www.aspoitalia.it/archivio-articoli).

Ma è assurdo trasformare il problema del cambiamento climatico antropogenico in uno scontro da tifoseria calcistica: oggi fa freddo uno a zero per i negazionisti, domani fa caldo e segnano i serristi. Così come è assurda la divisione, aggressiva e improduttiva, tra elenchi di scienziati pro e contro: la scienza non si fa a maggioranza, ma verificando le ipotesi con fatti ed esperimenti. L’Ipcc, tanto vituperato quanto poco conosciuto, non è certo depositario di verità assolute, ma ha posto in essere dal 1988, anno della sua fondazione, un serrato processo di validazione dei dati che è quanto di meglio oggi si sia riusciti a mettere in atto con la cooperazione di tutti i governi.

Il riscaldamento degli ultimi decenni è inequivocabile e l’aumento dei gas serra è il processo fisico che ha maggiori probabilità di spiegarlo, come aveva già intuito nel 1896 il chimico svedese Svante Arrhenius. Sulla previsione del futuro le incertezze sono molte di più, lo diceva già il Nobel per la fisica Niels Bohr, ma da quando nel 1967 Syukuro Manabe e Richard Wetherald del Geophysical Fluid Dynamics Laboratory di Princeton elaborarono la prima previsione numerica computerizzata del riscaldamento atmosferico causato dall´aumento dei gas serra, qualcosa si è imparato e il legame più CO2 uguale più caldo non è mai stato smentito. Semmai è la complessità delle interazioni nell’intero sistema terrestre - atmosfera, oceani, ghiacci, suoli, foreste, alghe, batteri, uomo - rendere per ora limitata la comprensione del problema. Il fatto che poi le risposte all’aumento della concentrazione di gas serra siano lente rispetto alla durata della vita umana e si esplicitino in molteplici modalità, ci priva di quella desiderabile verifica causa-effetto che in altri settori della scienza è talora più netta, ma meno diffusa di quanto si immagini. Se prendiamo la medicina, vediamo che sono ancora molte le patologie mal conosciute. Non per questo si rinuncia alla cura. E considerando il fumo, pur nella concorde affermazione della sua tossicità, nessuno è disposto a credere che quelle cupe minacce stampate sul pacchetto di sigarette si verificheranno proprio su di sé molti anni più tardi. Se le sigarette uccidessero all´istante, il nesso causa-effetto sarebbe chiarissimo e nessuno fumerebbe.

La posta in gioco sul riscaldamento globale è dunque così alta che la sua prevenzione, in sintesi la riduzione dell’uso di combustibili fossili a vantaggio di energie rinnovabili e sobrietà, presenta comunque vantaggi collaterali, come nel caso del fumo, clima o non clima. Consumare meno e meglio, ridurre inquinamento e rifiuti, chiudere i cicli produttivi in un pianeta limitato, è un progetto per la salvaguardia a lungo termine del nostro benessere. Personalmente detesto il caldo e adoro neve e freddo, non sono dunque un teologo del riscaldamento globale, preferirei senz’altro l’avvento di un’era glaciale. Ma le evidenze che qualcosa non funziona nel termostato terrestre sono tanto più numerose di quelle che minimizzano il problema, da non poterle trascurare.

Non si tratta soltanto di una figuraccia, un'altra brutta o pessima figura a livello internazionale. Questa volta è qualcosa di più e di peggio. E l'intervento immediato del presidente della Repubblica, con l'invito a tutelare l'economia rispettando l'ambiente, lo conferma in modo formale. L'opposizione del governo italiano al "pacchetto verde" dell'Unione europea non è la solita gaffe di Berlusconi, sempre pronto a contraddirsi e a smentire se stesso. Qui siamo al rifiuto ideologico; al boicottaggio programmato delle misure per contrastare l'effetto serra, con tutti i danni che ne derivano per l'ambiente, per la salute dei cittadini e in fin dei conti anche per la produzione e per l'economia.

Ma il peggio è che questa linea è ispirata e sostenuta ufficialmente dai vertici di Confindustria, con un atteggiamento tanto miope quanto corporativo, in un riflesso condizionato dalla crisi finanziaria e dalla recessione incombente. Quasi che i nostri imprenditori, incalzati dall'altalena delle Borse, allarmati dalla riduzione dei consumi e forse anche allettati dall'annuncio degli aiuti di Stato, subissero una sorta di "richiamo della foresta" e volessero tornare indietro di venti o trent'anni, per salvaguardare la sopravvivenza delle loro aziende a scapito dell'emergenza ambientale.

L'ecologia come optional, insomma, se non proprio come costo aggiuntivo. Un extra, un accessorio di cui si può fare anche a meno pur di risparmiare e conservare i margini di profitto. O magari, un lusso che in questo momento non possiamo permetterci.

Con un ministro dell'Ambiente come Stefania Prestigiacomo, di cui i giornali sono costretti a parlare quando finisce fuori pista con l'aereo di servizio più che per i servizi resi al Paese, il governo di centrodestra tende naturalmente a identificarsi con gli interessi prevalenti dell'industria, rinunciando così a una responsabilità di mediazione e di guida in funzione dell'interesse collettivo. In sincronia con l'andamento dei mercati, il crollo dell'attenzione e della sensibilità ambientalista costituisce ormai una tendenza o una deriva generale, un "main stream", una corrente dominante di fronte alla quale non c'è ragionamento o calcolo che regga.

È una regressione culturale che minaccia di isolare l'Italia dal resto dell'Europa e di produrre per di più gravi danni alla nostra economia, come ha avvertito ieri Francesco Rutelli dalle colonne di "Europa", dichiarando la disponibilità dell'opposizione ad appoggiare il governo per negoziare al meglio le condizioni per il nostro sistema produttivo. Ma bisogna riconoscere che in qualche misura questa è anche la conseguenza di un ambientalismo radicale e massimalista, a cui il centrosinistra non ha saputo contrapporre finora un valido e convincente progetto riformista. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti.

Quando il commissario europeo all'Ambiente, Stavros Dimas, contesta pubblicamente le stime del governo italiano in ordine ai costi del "pacchetto ambientale", in realtà scopre un bluff destinato a durare solo una mano di gioco. In base ai suoi conti, il nostro Paese dovrebbe spendere fra i 9,5 e i 12,3 miliardi di euro all´anno per combattere l'effetto serra, vale a dire l'inquinamento e il mutamento del clima, mentre è uno di quelli che farebbe l'affare migliore per la conversione e il rilancio di un'industria moderna, in grado di competere sul mercato globale. E intanto, nel giro di quarantotto ore, il presidente del Consiglio parla prima di 25 e poi di 18 miliardi, come se fosse una trattativa commerciale, una compravendita immobiliare o l'acquisto di un calciatore.

Non è stato proprio lui, del resto, a dichiarare trionfalmente pochi giorni fa che la crisi finanziaria era risolta e che l'economia reale non ne avrebbe risentito? Ecco invece le Borse che continuano ad andare su e giù come sull'ottovolante. Ed ecco le imprese giustamente preoccupate per il trend negativo dei consumi che tocca perfino quelli essenziali, come i prodotti alimentari o l'abbigliamento. Forse sarebbe ora che qualcuno lo sfidasse apertamente, il presidente Berlusconi, richiamandolo alla promessa di ridurre le tasse per sostenere i bilanci delle famiglie che non arrivano alla fine del mese e quelli delle piccole e medie imprese.

Per un Paese come il nostro, povero purtroppo di materie prime e straordinariamente ricco di risorse naturali, artistiche e culturali, la centralità della "questione ambientale" rappresenta al contrario una scelta obbligata. Questo è il maggior investimento che possiamo fare sul nostro presente e sul nostro futuro, anche al di là delle ragioni vitali che lo impongono. E non solo per quella che rimane tuttora la prima industria nazionale, cioè per il turismo e per il suo indotto; bensì per tutto il "made in Italy", per l'industria della qualità, dello stile e della creatività; per quella della trasformazione, del valore aggiunto, della moda, del design e magari dell'elettronica, dell'informatica, della bioingegneria o della biomedica.

Piuttosto che rinnegare l'impegno in difesa dell'ambiente, e quindi della salute collettiva, l'Italia dovrebbe rilanciare semmai la ricerca e la sperimentazione sulle fonti alternative: quelle che - come il sole e il vento - madre natura mette gratuitamente a nostra disposizione, per abbattere le emissioni nocive. E poi sviluppare l'applicazione su larga scala dell'idrogeno, come vettore di energia verde. Magari sfruttando il laboratorio delle nostre "isole minori" dotate in abbondanza di queste risorse, per conciliare un tale programma anche con la tutela del paesaggio, secondo il Protocollo d'intenti sottoscritto recentemente a Capri dal ministero dei Beni culturali e dall'associazione Marevivo.

Fu proprio da una piccola isola italiana, Ventotene, che partì nel 1941 l'idea dell´Unione europea con il "Manifesto" di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi. E quella non sembrò allora meno utopistica di quanto appaia oggi l'energia pulita, naturale, rinnovabile.

Da domani viaggeremo con i conti in rosso, consumeremo più risorse di quelle che la natura fornisce in modo rinnovabile. Ci stiamo mangiando il capitale biologico accumulato in oltre tre miliardi di anni di evoluzione della vita: nemmeno un super intervento come quello del governo degli Stati Uniti per tappare i buchi delle banche americane basterebbe a riequilibrare il nostro rapporto con il pianeta. Il 23 settembre è l’Earth Overshoot Day: l’ora della bancarotta ecologica.

Il giorno in cui il reddito annuale a nostra disposizione finisce e gli esseri umani viventi continuano a sopravvivere chiedendo un prestito al futuro, cioè togliendo ricchezza ai figli e ai nipoti. La data è stata calcolata dal Global Footprint Network, l’associazione che misura l’impronta ecologica, cioè il segno che ognuno di noi lascia sul pianeta prelevando ciò di cui ha bisogno per vivere ed eliminando ciò che non gli serve più, i rifiuti.

Il 23 settembre non è una scadenza fissa. Per millenni l’impatto dell’umanità, a livello globale, è stato trascurabile: un numero irrilevante rispetto all’azione prodotta dagli eventi naturali che hanno modellato il pianeta. Con la crescita della popolazione (il Novecento è cominciato con 1,6 miliardi di esseri umani e si è concluso con 6 miliardi di esseri umani) e con la crescita dei consumi (quelli energetici sono aumentati di 16 volte durante il secolo scorso) il quadro è cambiato in tempi che, dal punto di vista della storia geologica, rappresentano una frazione di secondo.

Nel 1961 metà della Terra era sufficiente per soddisfare le nostre necessità. Il primo anno in cui l’umanità ha utilizzato più risorse di quelle offerte dalla biocapacità del pianeta è stato il 1986, ma quella volta il cartellino rosso si alzò il 31 dicembre: il danno era ancora moderato. Nel 1995 la fase del sovraconsumo aveva già mangiato più di un mese di calendario: a partire dal 21 novembre la quantità di legname, fibre, animali, verdure divorati andava oltre la capacità degli ecosistemi di rigenerarsi; il prelievo cominciava a divorare il capitale a disposizione, in un circuito vizioso che riduce gli utili a disposizione e costringe ad anticipare sempre più il momento del debito.

Nel 2005 l’Earth Overshoot Day è caduto il 2 ottobre. Quest’anno siamo già al 23 settembre: consumiamo quasi il 40 per cento in più di quello che la natura può offrirci senza impoverirsi. Secondo le proiezioni delle Nazioni Unite, l’anno in cui - se non si prenderanno provvedimenti - il rosso scatterà il primo luglio sarà il 2050. Alla metà del secolo avremo bisogno di un secondo pianeta a disposizione.

E, visto che è difficile ipotizzare per quell’epoca un trasferimento planetario, bisognerà arginare il sovraconsumo agendo su un doppio fronte: tecnologie e stili di vita. Lo sforzo innovativo dell’industria di punta ha prodotto un primo salto tecnologico rilevante: nel campo degli elettrodomestici, dell’illuminazione, del riscaldamento delle case, della fabbricazione di alcune merci i consumi si sono notevolmente ridotti. Ma anche gli stili di vita giocano un ruolo rilevante. Per convincersene basta confrontare il debito ecologico di paesi in cui i livelli di benessere sono simili. Se il modello degli Stati Uniti venisse esteso a tutto il pianeta ci vorrebbero 5,4 Terre. Con lo stile Regno Unito si scende a 3,1 Terre. Con la Germania a 2,5. Con l’Italia a 2,2.

«Abbiamo un debito ecologico pari a meno della metà di quello degli States anche per il nostro attaccamento alle radici della produzione tradizionale e per la leadership nel campo dell’agricoltura biologica, quella a minor impatto ambientale», spiega Roberto Brambilla, della rete Lilliput che, assieme al Wwf, cura la diffusione dei calcoli dell’impronta ecologica. «Ma anche per noi la strada verso l’obiettivo della sostenibilità è lunga: servono meno opere dannose come il Ponte sullo Stretto e più riforestazione per ridurre le emissioni serra e le frane».

Se ne parla ormai con allarme da molti mesi. Agli abituali 800 milioni e passa di affamati annualmente censiti dalla FAO se ne va aggiungendo un numero imprecisato che aumenta di giorno in giorno.Analisti e commentatori hanno chiarito soprattutto le ragioni congiunturali di ciò che sta avvenendo: crescita della domanda, soprattutto di carne e quindi di mangimi nei Paesi emergenti, annate di prolungata siccità in importanti regioni cerealicole, vaste superficie di suoli convertiti ai biocarburanti, aumento del prezzo del petrolio, speculazione finanziaria sui titoli delle materie prime, ecc. E tuttavia l’attuale fase non è un congiuntura astrale, il fatale combinarsi di “fattori oggettivi”. Luciano Gallino, su Repubblica, ha ben messo in luce le responsabilità dell’Occidente nel determinare le condizioni dei nostri giorni. Ma le responsabilità non sono solo recenti, rimandano a una storia di scelte e di strategie che occorre rammentare se si vogliono trovare soluzioni durevoli a un problema di così scandalosa gravità.

La diffusione epidemica della fame nel mondo ha una origine storica ormai non più recente.Essa nasce con la rivoluzioneverde avviata dagli USA negli anni ’60 in vari Paesi a basso reddito e proseguita con crescente intensità nei decenni successivi. Quella rivoluzione venne definita verde perché essa aveva il compito strategico di contrastare, nelle campagne povere del mondo, l’onda rossa del comunismo.Essa doveva impedire che l‘avanzare di una rivoluzione sociale – come quella che aveva consegnato la Cina al partito comunista di Mao – investisse altre aree del mondo povero di allora. Ed era verde non perché rivestisse anticipatrici connotazioni ambientalistiche, ma perché puntava a una radicale trasformazione tecnologica dell’agricoltura senza sovvertire i rapporti di proprietà.Non la liquidazione dei latifondi, ancora così diffusi in tutti i continenti, né la distribuzione della terra ai contadini, ma una via tecnologica.Essa puntava a innalzare la produzione unitaria, a modernizzare le campagne sul modello occidentale, risolvere il problema elementare del cibo per tutti e fornire così un potere stabile alle classi dirigenti locali amiche dell’Occidente. In una fase storica in cui una moltitudine di Paesi si stava liberando dal giogo coloniale una rivoluzione sociale nelle campagne costituiva una eventualità tutt’altro che remota..

La rivoluzione verde si è imposta attraverso un dispositivo molto semplice: la difusione di un “pacchetto tecnologico”(technical package )composto da sementi ad alte rese, concimi chimici, pesticidi, ecc. Tutti gli elementi del pacchetto erano indispensabili e fra loro interdipendenti per la riuscita dell’innovazione. Senza i concimi chimici le sementi non davano rese elevate, senza i pesticidi le piante, create in laboratorio, venivano decimate dai parassiti.E occorreva, infine, un ricorso senza precedenti all’uso dell’acqua. D’un colpo i saperi millennari con cui i contadini avevano provveduto sino ad allora alla produzione del proprio cibo venivano sostituiti da uno schema tecnologico calato dall’alto su cui essi non avevano più alcun potere. Non potevano più utilizzare le loro sementi, perché dovevano ormai acquistarle all’esterno, e così il concime, i pesticidi, più tardi i diserbanti, ecc. Essi dovevano limitarsi ad applicare i dettami di una scienza esterna di cui non capivano i meccanismi e che alterava gravemente il loro habitat naturale. Ma la loro agricoltura diventava dipendente dall’industria agrochimica occidentale. Oggi i contadini che sono rimasti sulla terra subiscono l’aumento generale dei prezzi di tutti questi imput esterni dipendenti dal petrolio..Di passaggio rammentiamo che l’introduzione degli Ogm aggiungerebbe a queste spese di esercizio anche il pagamento delle royalties sui semi protetti da patenti: con quali vantaggi per risolvere il problema della fame è facile capire.

Ma allo spossessamento culturale si è accompagnato, ancor più violento, lo sradicamento sociale. La grande maggioranza dei contadini non era in grado di reggere le spese di esercizio di quella nuova agricoltura e abbandonava le campagne. D’altra parte, per applicare con piena efficienza economica il pacchetto tecnologico occorreva puntare sulle grandi aziende, accorpare le piccole proprietà coltivatrici, abolire le agricolture miste ( che garantivano l’autosuffcienza alimentare delle famiglie), estendere le monoculture, introdurre i trattori. Era il trionfo dell’agricoltura industriale, con pochi addetti ( in regioni del mondo affamate di lavoro) che aumentava significativamente la produzione globale dei vari Paesi, ma spingeva milioni di contadini ad abbandonare la terra, costringendoli a comprare il modesto cibo quotidiano che prima producevano con le proprie mani. Ma quei contadini non hanno trovato fonti di reddito alternative. Diversamente da quanto è accaduto in Europa o in USA, nella seconda metà del ‘900, non hanno avuto la possibilità di trovare lavoro nelle fabbriche o nei servizi urbani. Hanno creato un nuovo esercito do poveri. La crescita delle megalopoli asiatiche e latino-americane, la diffusione delle baraccopoli in Africa e in varie altre regioni del mondo, nel secolo scorso, sono in gran parte l’esito di queste migrazioni rurali. E qui la fame trionfa.

A partire dagli anni ’80, con le politiche della Banca Mondiale e del FMI volte ad “orientare al mercato” le economie dei Paesi a basso reddito, le scelte avviate con la rivoluzione verde hanno ricevuto una definitiva consacrazione. Ma esse hanno mostrato, in maniera ineccepibile, il loro stupefacente fallimento. L’innegabile successo economico-produttivo di quelle scelte non ha affatto scalfito l’iniquità sociale dei rapporti sociali e dell’accesso ai mezzi di produzione, soprattutto alla terra. Esemplare il caso dell’India. Qui, tra il 1966 e il 1985 la produzione di riso è passata da 63 milioni di tonnellate a 128, facendo di questo Paese uno dei maggiori esportatori di derrate fra i Paesi poveri. Eppure la maggioranza degli oltre 800 milioni di affamati si trova oggi in India. Qui, nel 2000, si è verificato un surplus di cereali di 44 milioni di tonnellate, che sono state destinate all’esportazione, come vuole il credo liberista. Ma diversamente esemplare è il caso dello Stato indiano del Kerala. Qui, nel 1960, è stata realizzata un’ampia riforma agraria, che ha distribuito la terra ai contadini – il 90% della popolazione - assegnando ad essi una superficie non superiore agli 8 ettari.La fame del resto dell’India qui è sconosciuta, l’ambiente è integro, le foreste ben curate. Eppure il Kerala ha una densità di 747 individui a km2, il triplo di quella della Gran Bretagna. D’altra parte è ben noto: numerose ricerche condotte in USA, in Europa e in giro per il mondo hanno mostrato la più elevata produttività unitaria della piccola proprietà coltivatrice rispetto alla grande azienda agricola. Senza considerare che essa garantisce la rigenerazione della terra, impiega poca energia, acqua, pesticidi, conserva la biodiversità agricola, riduce la produzione di CO2.

Dunque, dopo tanti decenni di questa strategia verde oggi tutti possono ammirarne i mirabolanti successi: il numero degli affamati nel mondo non è mai significativamente diminuito e oggi rischia di conoscere una nuova e tragica impennata. L’agricoltura dipende da potenze economiche inesistenti solo mezzo secolo fa: i colossi chimico-sementieri la cui strategia può condizionare la vita di intere popolazioni. Cargill, Dupont, Monsanto,ecc accrescono i loro affari mentre anche nella civilissima Europa si diffonde il salariato agricolo semischiavile e ovunque continua l’esodo dalle campagne. Eppure governi, organismi internazionali, esperti perseguono nel loro vecchio errore: voler trasformare le campagne del Sud nella copia delle agricolture industriali occidentali. La panacea è sempre la stessa, garantire l’espansione del cosiddetto libero mercato. Pazienza se il mondo tende a diventare un’immensa megalopoli e le campagne si ridurranno a poche monoculture lavorate con le macchine. Quanto agli affamati è sufficiente l’elemosina degli aiuti, che servono a smaltire le eccedenze agricole dei Paesi ricchi e a tacitare la coscienza delle più ipocrite classi dirigenti di tutta la storia contemporanea.

Finalmente è arrivata la soluzione agognata per risolvere l'emergenza rifiuti in Campania: dieci nuove discariche e qualche inceneritore con recupero energetico (il termine termovalorizzatore, si sa, non ha senso scientifico o tecnico, neanche nelle regolamentazioni comunitarie). Il problema è che questa nuova soluzione assomiglia parecchio alle vecchie: quando si è insediato il Commissario De Gennaro, cinque mesi fa, la questione era sgomberare le strade di Napoli, e per farlo si è cercato di aprire nuove e vecchie discariche (non riuscendovi sempre), di mettere in funzione nuovi inceneritori (non riuscendovi mai), di esportare i rifiuti in Paesi più civilizzati (riuscendovi quasi sempre), dove gli scarti sono considerati risorse. Il problema è che questa soluzione assomiglia molto a scopare la polvere sotto il tappeto per avere la casa pulita.

In nessuna parte del mondo le discariche eliminano i rifiuti, anzi, li concentrano, con problemi ambientali che è ormai anche inutile approfondire: infiltrazioni nelle falde, percolati, liquami, per non parlare del maleodore. Senza contare che aprire nuove discariche sarebbe contro la legge nazionale e anche contro le normative comunitarie. E in nessuna parte del mondo bruciare rifiuti è un sistema per eliminarli, perché, come dovrebbe essere noto, in natura nulla si può distruggere e dunque le tonnellate di rifiuti si trasformeranno in ceneri (spesso velenose) e polveri (spesso tossiche). Certo, un inceneritore con recupero di energia e di calore non è un tabù contro cui combattere guerre di religione - ci sono problemi molto più devastanti, come il traffico cittadino -, ma è un controsenso energetico, perché per fabbricare oggetti e materiali si è impiegata molta più energia di quella che se ne ricava bruciandoli. E poi in Italia ci sono già abbastanza impianti: costruirne di nuovi può significare scoraggiare l'unica vera soluzione al problema dei rifiuti, la raccolta differenziata e il riciclaggio (un folle piano regionale siciliano prevede addirittura di bruciare il 65% dei rifiuti, come a dire condannare la raccolta differenziata a non superare mai il 35%, quando in tutta Europa si punta al 70-80% e a San Francisco si va verso l'opzione rifiuti-zero).

Se si fosse cominciato - alla prima emergenza di 15 anni fa - con un piano integrato di raccolta differenziata dei rifiuti campani, non saremmo a questo punto. Se lo si fosse fatto cinque mesi fa, avremmo ora qualche prospettiva, ma continuare a pensare che la questione possa risolversi con discariche e inceneritori vuol dire non aver compreso che, così, i rifiuti si accumuleranno di nuovo, e saremo alle solite, solo avendo perso ancora del tempo. Come da gennaio a oggi. E come dimostra il fatto che aver sgomberato oltre 200.000 tonnellate di pattume non ha risolto un granché. Ma sono i numeri che parlano: a Torino - una grande città del Nord i cui cittadini non sono antropologicamente diversi dai napoletani - nel 2003 si raccoglieva in maniera differenziata solo il 20% dei rifiuti. In cinque anni si è passati a oltre il 40%, attraverso campagne di educazione ambientale fino nelle scuole promosse dall'amministrazione comunale e dalla municipalizzata. Pensiamo a Napoli: se si fosse recuperata almeno la frazione umida (residui di pasti, bucce) avremo avuto il 30% in meno di rifiuti, cioè 75.000 tonnellate di meno all'inizio dell'emergenza. Cioè più spazio nelle discariche (dunque meno discariche) e meno commercio di rifiuti, dunque più risorse da destinare al riciclaggio.

Riciclare raddoppia la vita dei materiali, permette di spendere meno energia e, dunque, di inquinare di meno e fa in modo che si aprano meno miniere e cave. Se poi le ditte si impegnassero a ridurre definitivamente gli imballaggi, usando, per esempio i fogli di plastica termosaldati, che, una volta sgonfiati, si riducono a una pallina di qualche centimetro; se la distribuzione permettesse di acquistare i prodotti sfusi a peso e non a confezione; se le municipalizzate non si scomponessero in migliaia di subappalti incontrollabili, allora i nostri sforzi personali sarebbero premiati e non staremmo qui a temere di finire come a Manila, nella cui discarica vivono gli 80.000 abitanti di un posto chiamato Lupang Pangako (letteralmente «terra promessa»), fra commerci di ogni tipo, contrabbando e riciclaggio su commissione. Ma anche per questa volta non è aria.

Un impianto grande quindici campi di calcio. Adibito alla lavorazione del mais. Il business mondiale del «bio» etanolo sbarca ufficialmente anche nel Belpaese (a Rivalta Scrivia, un piccolo paese di 800 anime in provincia di Alessandria), per mano dell'Italian Bio Products. Un sodalizio tra il Gruppo Ghisolfi e quello Gavio, Marcellino, azionista di quella Impregilo sotto inchiesta (attraverso la Fibe) per la questione dello smaltimento dei rifiuti in Campania.

Ignorate le critiche dell'Onu e della Fao, allarmate dall'uso «per autotrazione» dei cereali, causa dell'innalzamento mondiale dei prezzi di questi prodotti. Vincoli morali e non solo. Ma non per quelle imprese italiane che negli agrocarburanti hanno visto fonte di profitto. I nuovi «produttori» di «bio» etanolo però non hanno fatto i conti con le resistenze della popolazione, tanto che a Rivalta ancora non sono iniziati i lavori per la costruzione. L'impianto è «ecocombustibile - è scritto nel progetto dell'Ibp - risponde alle direttive europee sull'accesso a tecnologie avanzate»: una struttura di 107 mila mq e composta da 35 silos alti da 12 a26 metri che trasforma attraverso un ciclo di cogenerazione a gas il mais in etanolo. Con una sua produzione annuale di 200 mila tonnellate, in media con gli altri impianti europei, che invece svetta in Italia. La prima, per l'esattezza, insieme all'altra industria di agrocarburanti in costruzione a Zinasco (Pavia).

Il mais verrebbe preso per il 50% dalla «Padania» e per l'altra metà importato dalla Romania, non escludendo l'uso di quello transgenico. Il sodalizio Ghisolfi-Gavio ha in mente un progetto lungimirante, prefiggendo di aprire le porte successivamente anche alla cellulosa. Obiettivo: vendere il prodotto finale alle compagnie petrolifere, a cui è consentito in base a una regolamentazione europea miscelare fino al 5% l'etanolo nella benzina. Un vero e proprio giro di affari.

Il progetto è uscito allo scoperto lo scorso 26 luglio, in concomitanza con la corsa mondiale verso le cosiddette benzine verdi: il consiglio comunale di Tortona - Rivalta è una sua frazione - vota all'unanimità una «variante d'uso», richiesta dal gruppo Ghisolfi, di un terreno agricolo. «E' il più grande investimento industriale della storia della città - commentava il sindaco del Pdl Marguati - Un disegno all'avanguardia che poggia su solidissime basi».

Ma gli abitanti di Rivalta e della provincia da subito si sono opposti contro la favola del «carburante ecologico» e un'imposizione calata dall'alto. Si sono organizzati in un movimento di difesa del territorio: «580.000 tonnellate di acqua all'anno da pescare in una zona attualmente definita predesertica, 200.000 tonnellate di Co2 scaricate nell'aria - dichiara Enzo del comitato - Cosa ci sia di sostenibile nel progetto del bioetanolo nessuno è ancora riuscito a spiegarlo. Questo impianto è utile esclusivamente per chi lo costruisce e contribuirà a far aumentare il prezzo del mais nel sud del mondo come in Italia». Da questione etica diventa motivo di preoccupazione economica anche per i consumatori nostrani. Così da luglio 2007 il movimento ha raccolto 4000 firme contro l'impianto, costruito un'assemblea con i No Tav e i No Dal Molin e dato vita ad una partecipata manifestazione lo scorso 7 giugno.

Intanto l'inizio dei lavori, previsto per ottobre 2007, non c'è ancora stato. La legge sulla pubblica sicurezza del 1931, infatti, intima a costruire ad almeno a 600 metri da fabbriche di esplosivi: questione che interessa Rivalta Scrivia con la Nobel Sport Martignoni, un'industria che produce inneschi da cartucce (quindi materiale esplosivo), a 300 metri dal terreno comprato dal colosso Ghisolfi-Gavio. Anche se l'ostacolo potrebbe essere aggirato a giorni dall'Ibp con la richiesta di una deroga nazionale «ad hoc». A quel punto inizierebbe la costruzione. «Gli agrocarburanti sono moralmente e politicamente insostenibili, un crimine contro l'umanità», dichiara Andrea del movimento. «Sia chiaro - aggiunge - che siamo pronti a fermare le ruspe con i nostri corpi. Lo faremo per difendere la nostra terra e per non essere complici di chi affama i popoli del mondo». Per ora una sola certezza: il «bio» etanolo, da tempo guardato con distanza e disinteresse, è diventato una questione anche italiana.

L’Africa è il continente che sarà colpito più duramente di tutti dal cambiamento del clima. Piogge e inondazioni inimmaginabili, siccità prolungate, conseguenti raccolti andati a male, rapido processo di desertificazione – volendo citare soltanto alcuni dei sintomi del riscaldamento globale – di fatto hanno già iniziato ad alterare l’aspetto del continente africano. I più poveri e i più vulnerabili tra gli abitanti di questo continente saranno particolarmente colpiti dagli effetti delle temperature in aumento: in alcune aree dell’Africa le temperature sono salite a un ritmo doppio rispetto al resto del pianeta.

Nei Paesi ricchi, l’incombente crisi climatica è motivo di preoccupazione, in quanto essa avrà un impatto sia sul benessere economico sia sulla vita delle popolazioni. In Africa, però, regione che non ha contribuito quasi in nulla al cambiamento del clima (le sue emissioni di gas serra sono irrilevanti rispetto a quelle di altre zone industrializzate del pianeta), la crisi climatica determinerà la vita o la morte.

Di conseguenza, l’Africa non deve tacere a fronte delle realtà del cambiamento climatico e delle sue cause. I leader africani e la società civile africana devono essere coinvolti nel processo decisionale globale su come affrontare e risolvere la crisi del clima, con metodi efficaci e al contempo equi.

Per questo motivo, quando i capi di Stato del G8 si sono incontrati all’inizio di giugno a Heiligendamm in Germania, ho inviato loro un appello nel quale sollecitavo i Paesi industrializzati a dare il buon esempio, essendo essi inoltre i principali responsabili del cambiamento del clima. Ora, quindi, i leader dei Paesi industrializzati devono intraprendere i passi decisivi e risolutivi volti a contrastare il cambiamento del clima. Essendo inoltre loro i principali inquinatori, i Paesi industrializzati hanno altresì la responsabilità di aiutare l’Africa a ridurre la sua vulnerabilità e ad aumentare le sue capacità di adattamento al cambiamento del clima. I Paesi industrializzati devono mettere in essere i meccanismi atti ad aumentare i finanziamenti, rendendoli costanti nel tempo e affidabili, destinati alle prime vittime della crisi del clima, in Africa e in altre regioni in via di sviluppo.

Sappiamo che tra ambiente, governance e pace esiste un legame preciso molto profondo ed è essenziale pertanto che la nostra definizione di pace e sicurezza sia allargata fino a includervi una gestione consapevole e responsabile delle limitate risorse della Terra, come pure una loro spartizione più equa. Il cambiamento del clima rende quanto mai impellente la necessità di tale ridefinizione.

Affinché gli esseri umani utilizzino e condividano in modo più equo e giusto le risorse che la Terra offre, i sistemi di governo devono essere maggiormente dinamici e inclusivi. La popolazione deve provare un senso di appartenenza. Le voci delle minoranze devono essere ascoltate, anche se poi sarà la maggioranza a decidere. Sono necessari sistemi di governo che rispettino i diritti umani e la legalità, e promuovano spontaneamente l’equità.

Molti dei conflitti e delle guerre si combattono per avere accesso o il controllo o la distribuzione di risorse quali acqua, carburanti, terreni da pascolo, minerali e terra. Del resto, è sufficiente pensare al Darfur: negli ultimi decenni il deserto del Sudan Occidentale si è ampliato a causa della siccità e di piogge occasionali, fattori imputabili al cambiamento del clima. Di conseguenza, i coltivatori e gli allevatori si sono scontrati per contendersi la poca terra arabile e l’acqua, mentre leader privi di scrupolo hanno approfittato di questi conflitti per scatenare violenze di massa. Sono state uccise centinaia di migliaia di persone. Molte di più sono profughe tra vere e proprie campagne di intimidazione, stupro di massa e rapimenti.

Gestendo meglio le risorse, riconoscendo il rapporto che esiste tra gestione sostenibile delle limitate risorse e conflitti, avremo invece maggiori probabilità di prevenire le cause profonde delle guerre civili e delle guerre in generale, e di conseguenza creeremo un mondo più pacifico e più sicuro.

L’ambiente, in ogni caso, si degrada poco alla volta e la maggioranza delle persone potrebbe non accorgersene: se sono povere, egoiste o avide, potrebbero essere troppo concentrate sulla propria sopravvivenza o sulla necessità di soddisfare le proprie necessità più immediate e i propri desideri e non preoccuparsi per le conseguenze delle proprie azioni. Sfortunatamente, la generazione che distrugge l’ambiente potrebbe non essere la medesima che ne pagherà le conseguenze. Saranno le generazioni future a dover affrontare le conseguenze delle azioni devastatrici dell’attuale generazione.

La responsabilità di affrontare i problemi ai quali ci troviamo di fronte – ivi compresa la crisi del clima – in tempo utile per il bene comune impone ai governi una volontà politica visionaria, e al mondo delle corporation una responsabilità sociale.

Per quanto concerne il clima siamo chiamati tutti a fare qualcosa di concreto. Molti Paesi che hanno vaste foreste e una considerevole copertura di vegetazione proteggono la loro biodiversità e godono di un ambiente sano e pulito. Alcuni di essi, però, si dedicano a un accanito disboscamento e abbattimento di alberi o attingono alla biodiversità lontano dai propri confini. È pertanto estremamente importante iniziare a considerare il nostro pianeta un tutt’uno, e adoperarci a proteggere l’ambiente non soltanto a livello locale, ma soprattutto a livello globale.

Le pressioni per sacrificare le foreste e far spazio per gli insediamenti umani, l’agricoltura o l’industria sono continue e non potranno che aumentare in un mondo surriscaldato nel quale il clima è sempre più instabile. Da un punto di vista politico, è estremamente più conveniente e opportunistico sacrificare il bene comune a lungo termine e la responsabilità intergenerazionale per la convenienza e i vantaggi del presente. Ma dal punto di vista morale è nostro dovere agire per il bene collettivo. Abbiamo la responsabilità di salvaguardare i diritti delle generazioni, di tutte le specie, che non sono in grado di farsi sentire. La sfida globale del cambiamento del clima ci impone di non pretendere niente meno di questo, dai nostri leader come da noi stessi.

L’autrice, Premio Nobel per la Pace 2004, è membro del Parlamento del Kenia e fondatore del Green Belt - copyright Ips Columnist Service - Traduzione di Anna Bissanti

I piccoli comuni italiani fanno festa perché sanno di essere una risorsa preziosa, sebbene troppo spesso ignorata. Fino a qualche decennio fa non avevano un ruolo, appartenevano a una provincia sorniona che se voleva evadere dal suo isolamento - dorato o subìto - poteva solo guardare alla città. Oggi no. Internet ha reso ogni piccolo nucleo abitato un centro del mondo, diversificato secondo ogni prospettiva e integrato in una rete internazionale di affinità elettive.

E vivere in piccoli centri è oggi un privilegio che spesso permette di fuggire ai problemi delle zone urbane sovraffollate e sovrainquinate. Ma c’è di più. Di fronte alla crisi ambientale che sta emergendo, i piccoli comuni sono più reattivi e pronti a cambiare registro, a diventare luoghi di sperimentazione e di emulazione di buone pratiche.

In primo luogo c’è ancora spazio fisico, agricoltura e suolo non cementificato per intenderci, per mettere in pratica la filiera corta, la coltivazione delle biomasse, l’uso delle energie rinnovabili. Ma poi c’è il tessuto sociale giusto che permette il dialogo con i cittadini e l’attuazione in tempi brevi di nuovi stili di vita. La Lombardia è la regione italiana con il maggior numero di piccoli comuni, ce ne sono 1152 sotto i 5000 abitanti. A Cassinetta di Lugagnano, nell’ovest Milano, il sindaco Domenico Finiguerra combatte strenuamente per salvare il suolo agrario da nuove autostrade e cementificazioni annesse, e fa bene: in vista della scarsità alimentare che aleggia sul mondo i terreni che oggi i palazzinari gli vogliono sottrarre nutriranno la Milano di domani. A Roncoferraro, provincia di Mantova, anche se di abitanti ne ha 6600, da un paio d’anni funziona l’impianto termico alimentato a cippato per scaldare gli edifici pubblici con i pioppi coltivati in zona. Tornando in provincia di Milano, Albairate ha applicato l’elettronica alla raccolta rifiuti e fa pagare i cittadini non sulla base della superficie occupata, ma della quantità prodotta e differenziata. A Rocca Susella, nell’Oltrepo Pavese, 229 abitanti, si sta realizzando un villaggio ecologico a energia rinnovabile. A Mezzago si è istituita la Deco, Denominazione comunale di origine, per favorire il consumo di prodotti locali, come l’asparago rosa: meno chilometri percorsi, meno inquinamento, meno rifiuti. L’Associazione dei Comuni Virtuosi è piena di buoni esempi da imitare: ora tocca ai grandi. A quando, per esempio, la raccolta dell’umido a Milano? Si produrrebbe tanto buon compost per l’agricoltura dei comuni limitrofi e si chiuderebbe un cerchio virtuoso.

L’approccio al parco cittadino è di solito riduttivo: un momento di tregua dal traffico, un frettoloso godimento estetico di una natura artefatta sebbene reale rispetto a quella dei cartelloni pubblicitari o delle finte edere di plastica che tappezzano certe facciate. C’è ben di più dietro un’area verde urbana. Qui alberi e prati assorbono acqua dal suolo e la fanno evaporare dalle foglie: il processo abbassa la temperatura dell’aria circostante nei mesi estivi. Ecco perché un’area verde rende più vivibile la canicola di città rispetto a un ardente parcheggio asfaltato. Nel parco il suolo non è stato sigillato e impermeabilizzato ma respira, è vivo, ospita un’immensità di insetti, funghi e batteri che mantengono in attività il ciclo degli elementi. Una cacca di cane sul marciapiede è uno scomodo rifiuto e basta, sul suolo vivo verrà in breve distrutta da un esercito di organismi che la trasformeranno in nutrimento per i vegetali.

Questo è il modo in cui funziona, da miliardi di anni, l’ecosistema, e il suolo rappresenta l’anello di chiusura del ciclo rifiuti-nutrimento. Una goccia di pioggia che cade sul cemento defluisce rapidamente nelle fognature, e se la precipitazione è violenta, rischia di allagare le cantine.

Una goccia che cade su un suolo vivo penetra in profondità, alimenta la vita e la falda idrica e si depura: la berremo molto tempo dopo quando le pompe degli acquedotti saranno andate a cercarla sottoterra. Gli alberi, gli arbusti, il prato, offrono anche rifugio a uccelli e altri animali che in molti casi contribuiscono ad abbattere un’eccessiva infestazione di insetti, divorano zanzare e altri parassiti. Insomma, là, nel parco, si svolge qualcosa di molto più importante della sola passeggiata con il cane e i bambini: si dipana l’essenza stessa del funzionamento del pianeta.

Se percepita e vissuta, questa consapevolezza ha un grande valore formativo e didattico: in un mondo sempre più virtuale e artificializzato, ricordarsi, anche a pochi metri dai quartieri più urbanizzati, di quali sono le regole ferree e ineludibili dell’antichissimo gioco della vita, di cui anche noi volenti o nolenti siamo parte, è una necessità per la nostra sopravvivenza. Eppure c’è chi non sembra curarsi di questi valori fondanti. Ruspe e betoniere ogni giorno divorano in modo irreversibile il nostro suolo e ciò che ci vive sopra. Il bosco di Gioia non c’è più. Quisquilie, era solo un ettaro. Ora è il momento delle minacce ai grandi parchi periferici, parchi che hanno un valore in più, chiamandosi "agricoli": ci sono sì il suolo e il verde, ma c’è pure l’agricoltura, quella millenaria ammirata da Cattaneo, la più raffinata del mondo, c’è la cascina lombarda che da sempre è stata nutrimento della città e della sua economia sostenibile, oggi mortificata dai cibi che arrivano via aerea da oltreoceano. Anche a Cascina Campazzo, due passi da piazza Abbiategrasso, le ruspe rombanti sono pronte a sloggiare le vacche. Al posto del distributore di latte fresco avremo lattine di Coca-Cola.

Titolo originale: Welcome to the Post-Carbon World– Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Non deve essere per forza la fine del mondo. Certo edifici, produzione di elettricità, trasporti, produzione di alimenti e gestione delle foreste, contribuiscono ad aumentare la massa dei gas serra. Ma ci sono a portata di mano soluzioni amiche del clima. Partiamo da fuori del mondo, per iniziare a immaginare soluzioni molto terra-terra.

Apollo a Terra: Houston, avete un forte sovraccarico di carbonio nell’atmosfera. Subirete un grave surriscaldamento se non riuscite a metterlo sotto controllo.

Terra a Apollo: Ricevuto. L’abbiamo individuato vent’anni fa, ma la Casa Bianca ci dice di non preoccuparci e continua a tagliarci il bilancio. Avete qualche idea brillante?

Apollo a Terra: Hello, Houston? Abbiamo interessanti sviluppi, qui. Riceviamo chiari segnali visivi, e non vengono dalla Terra. Ci date cinque minuti? … Non ci crederete, ma è vero: non siamo soli. Ci stanno spedendo materiali da qualcosa che si chiama Archivi Intergalattici. Dicono che la crisi da riscaldamento è piuttosto normale sui pianeti che hanno grossi depositi di energie fossilizzate. Raccomandano di passare rapidamente a energie semplici, a partire da sole, vento, terra, oceani. Ci dicono, anche, di non aspettare troppo!

Terra a Apollo: Ci state creando un bel po’ di rimescolamento, qui, Apollo. Ma a parte quello, quanto tempo abbiamo? Si parla di un taglio dell’80% delle emissioni di carbonio per il 2050: sarà abbastanza?

Apollo a Terra: Ho paura di no, Houston. Dicono 25 anni, massimo, e pianeti simili che non hanno effettuato la conversione hanno sofferto perdite del 15%: collasso totale della civiltà ed ecologico. Non è una prospettiva carina. Poi ci vogliono dieci milioni di anni per un parziale recupero ecologico. Non credo che vorreste arrivarci, signore.



Terra a Apollo: Qualche consiglio che ci può essere utile?

Apollo a Terra: Certo. Sembra che i pianeti poi collassati siano stati presi dal panico. Gli Archivi mostrano che le intelligenze avanzate traggono stimoli dalla capacità di vedere in prospettiva, non dalla paura. É come nel football, signore: si vince per la tenacia e la determinazione, non riducendo gli errori. I pianeti che sono collassati non sono riusciti a collaborare. Si è interrotta l’ispirazione, si sono rinsecchite le intuizioni. Ha preso piede il panico, la gente ha cominciato ad accumulare cose, ha smesso di credere nel futuro. Una volta accaduto questo, è di fatto finito tutto, anche se in realtà poi ci sono voluti ancora un paio di secoli.

Terra a Apollo: Ci fate battere i denti, Apollo. No hanno qualche caso di inversione di tendenza? Qualche pianeta che stava collassando, e poi ce l’ha fatta?

Apollo a Terra: Certo: parecchi. Gli Archivi mostrano come i pianeti che hanno avuto successo abbiano trasformato le proprie crisi del carbonio in balzi evolutivi in avanti. Hanno smesso di dar colpe, e cominciato ad apprezzare il capitale di conoscenze che gli era stato messo a disposizione dai combustibili fossili, consentendo di sviluppare le energie solari e geotermiche. Hanno smesso con l’atteggiamento pauroso e difensivo, collaborando per una transizione rapida. Riaccendendo l’impulso creativo, hanno compiuto più facilmente il passaggio a nuove tecnologie e stili di vita.

Terra a Apollo: Grazie, Apollo. A quanto pare abbiamo un lavoro pronto da fare, qui. Passo e chiudo!

Edifici verdi e intelligenti



Gli edifici usano molta energia, dunque non sorprende il fatto che essi siano responsabili del 30-40% delle emissioni di CO2. La sfida qui riguarda due obiettivi: realizzare edifici nuovi che siano carbon neutral, e adattare tutti gli edifici esistenti in modo da eliminare la loro impronta di carbonio.

Il primo obiettivo è il più facile. In Germania, le case Passivhaus consumano il 95% in meno di energia per riscaldamento e condizionamento, utilizzando super-isolanti, esposizione solare, recupero efficiente del calore. In Europa ci sono 6.000 case costruite coi criteri Passivhaus. I regolamenti edilizi dovrebbero richiedere che tutte le nuove case fossero realizzate con questi criteri.

Non c’è carenza di innovazione. A Guangzhou, Cina, la Torre del Fiume delle Perle, 69 piani, produrrà più energia di quanta non ne consumi, usando turbine a vento inserite in due piani dell’edificio, sistemi solari fotovoltaici, acqua riscaldata col sole. A Målmo, Svezia, la torre Turning Torso, oltre ad essere alimentata da energie eoliche e solari prodotte localmente, ricicla i rifiuti organici producendo biogas che si può osare sia per cucinare che per far andare glia autobus cittadini. Nella città cinese di Rizhao, il 99% degli edifici in centro usa acqua riscaldata dal sole. In Spagna, tutti i nuovi edifici e quelli sottoposti a interventi di rinnovo edilizio devono ricavare il 30-70% dell’acqua calda da pannelli solari.

L’iniziativa Architecture 2030 preme perché tutti i nuovi e rinnovati edifici degli Stati Uniti siano carbon neutral al 100% entro il 2030: un obiettivo unanimemente approvato dalla Confederazione nazionale dei Sindaci.

La Gran Bretagna si sta muovendo più in fretta: chiede che tutti gli edifici siano carbon neutral entro il 2016. Il criterio Usa LEED ( Leadership in Energy and Environmental Design) per gli edifici verdi, deve evolversi nella medesima direzione.

La sfida è invece molto più ardua per gli edifici esistenti. Gran parte dei proprietari potrebbe ottenere una riduzione dal 20% al 50% nel consumo di energia investendo in nuove finestre, super-isolanti, sistemi di recupero del calore, apparecchiature e caldaie più efficienti. Si possono introdurre sistemi fotovoltaici e riscaldamento solare, e calore carbon-neutral ottenuto dallos cambio termico con aria, terra, acque, scarichi. Ci sono caldaie che bruciano biocarburanti, e in alcune zone della Svezia sistemi di teleriscaldamento che fanno circolare acqua bollente per ottanta chilometri senza dispersioni significative di calore. I super-isolanti, insieme all’ombra degli alberi e a tetti di colore bianco, possono ridurre il carico per il condizionamento.

Per sostenere un rapido rinnovo, c’è bisogno di crediti fiscali, meccanismi di autofinanziamento, norme come la Residential Energy Conservation Ordinance, che richiede ai proprietari di San Francisco e Berkeley di intervenire sui propri edifici prima di venderli. La Germania finanzia interventi completi di modernizzazione di tutti i vecchi edifici ad appartamenti. Londra ha attivato il Green Homes Concierge Service per aiutare i proprietari nelle migliorie. A partire dal 1993, il piccolo centro austriaco di Güssing (4.000 abitanti) ha ridotto le proprie emissioni di CO2 di un incredibile 93%, orientandosi tra l’atro verso il teleriscaldamento centralizzato a biocombustibili per gli edifici. É solo un problema di immaginazione e determinazione.

Spostarsi carbon free



Dieci anni fa, molte persone pensavano che il carburante del trasporto futuro sarebbe stato l’idrogeno. Poi venne la speranza dei biocarburanti. Oggi entrambi questi sogni sono svaniti, di fronte alla realtà delle equazioni che rappresentano il loro completo ciclo vitale, di fonti insostenibili.

Certo ci sarà ancora un ruolo per l’idrogeno, e per i biocombustibili là dove possono essere prodotti in modo sostenibile dagli scarichi, alghe, erba di prato. Sta comunque emergendo vincente l’elettricità. Il veicolo elettrico, che non era mai morto, rinasce sia come solo elettrico (EV) nel caso di Tesla, G-Wiz, e Modec, sia in quanto Plug-in Hybrid Electric Vehicle (PHEV).

Il viaggio nell’epoca del dopo carbonio parte però dalle nostre gambe. I nostri antenati si sono spostati a piedi per tutto il pianeta, e dunque recuperiamo il diritto di camminare sicuri e tranquilli sulla nostra Terra. Riprogettiamo le nostre città e periferie con percorsi sinuosi che portano a negozi di quartiere e parchi. Se il 5% dei nostri spostamenti del dopo carbonio sarà a piedi, sarà una riduzione del 5% del bisogno di carburanti liquidi.

Poi c’è la bicicletta. A Copenaghen, Danimarca, il 33% dei pendolari va a lavorare in bicicletta. A Davis, California, dove si costruiscono piste ciclabili sin dagli anni ‘60, il 17% dei pendolari fa lo stesso. A Parigi, l’amministrazione ha collocate 20.000 Vélib’ (che sta per “ vélo liberté” ovvero “libertà in bicicletta”) nelle strade cittadine che chiunque può usare per una piccola tariffa. Se vi fanno male i muscoli, basta un piccolo aiuto elettrico e la vostra bicicletta volerà su per le salite. Negli inverni coperti di neve, i ciclisti viaggiano con gomme chiodate. Se i nostri spostamenti con questo mezzo raggiungono il 10%, complessivamente si ha una riduzione del 15%.

Poi ci sono i mezzi pubblici. Boulder, Colorado, ha riorganizzato il proprio servizio per rendere gli autobus più piccoli e frequenti: aumentando i passeggeri di cinque volte. Hasselt, Belgio, offre gli autobus gratuiti, pagati dalle imposte cittadine: e aumenta i passeggeri di dieci volte. Nelle città più amiche del trasporto pubblico, gli autobus sono dotati di sistemi GPS e orari elettronici, così da essere informati esattamente su quando arriveranno. Dobbiamo fare immensi investimenti nel trasporto pubblico, autobus rapidi (come le metropolitane leggere, ma sulle normali strade) e linee di lusso per pendolari con prese per i computer portatili e servizio caffetteria. Se diventano così il 20% dei nostri spostamenti, si arriva a una riduzione complessiva del 35%, diciamo del 30% visto che gli autobus anche ibridi hanno comunque bisogno di carburanti liquidi.

Si può aggiungere il telelavoro e la teleconferenza per un 5%, treni comuni e a alta velocità per un altro 5%, e abbiamo ridotto la necessità dei carburanti liquidi del 45%. E passiamo alle automobili. Dato che l’80% dei nostri spostamenti in macchina avviene entro il raggio di autonomia di una batteri da EV o PHEV, questo potrebbe ulteriormente ridurre la necessità di carburante liquido. Se usiamo i materiali moderni più leggeri, riducendo il peso sino all’80%, i consumi calano sino al 5%, che può essere coperto da biocarburanti derivati da rifiuti o alghe.

Per ridurre la necessità di spostamenti su camion per lunghe distanze, occorre riorganizzare le economie locali in modo che possano rispondere alla maggior parte dei bisogni, e utilizzare per il resto veicoli da trasporto ibridi e a idrogeno. Per i trasporti via mare, la risposta può essere nelle navi a vela SkySails e nell’idrogeno ricavato tramite piattaforme oceaniche da sole, vento e onde. Per il volo, forse dirigibili a elio e biocarburanti, ma comunque nessuna risposta semplice.

Cent’anni fa, quasi tutti andavano a piedi, o a cavallo. L’era dei derivati del carbonio ci ha dotato di un guado dal passato al futuro. É ora di uscirne, e avviarsi verso il futuro.

Nota: Guy Dauncey ha scritto questi articoli per il numero monografico Stop Global Warming Cold , della rivista YES! . Guy insieme a Patrick Mazza è autore di Stormy Weather: 101 Solutions to Global Climate Change , New Society Publishers



here English version

Titolo originale: Villes amphibies, îles artificielles – Traduzione per eddyburg di Fabrizio Bottini

Se si avvereranno le previsioni per il riscaldamento climatico dei prossimi decenni, i Paesi Bassi saranno sottoposti a una minaccia tripla. L’innalzamento del livello degli oceani e la recrudescenza delle tempeste metteranno a dura prova il sistema di dighe e polder che mantiene all’asciutto il territorio nazionale, e che si trova già in gran parte al di sotto del livello del mare. Inoltre, la moltiplicazione dei periodi di forte pioggia in Europa provocherà delle piene improvvise sulla Mosa e sul Reno, che attraversano il paese. Infine, i Paesi Bassi sono sempre più bassi: intere province il cui suolo è composto di torba, si affossano inesorabilmente.

Come hanno già fatto in passato, anche stavolta gli olandesi si sono mobilitati. Il possente apparato di ingegneria e lavori pubblici resta fedele alla grande tradizione di lotta sistematica contro l’invasione delle acque: afferma che sarà sufficiente alzare le dighe, rinforzare sbarramenti e chiuse, moltiplicare le stazioni di pompaggio e ripristinare le dune costiere anziché ricoprirle di asfalto.

Di fronte a questa «scuola classica» ci sono gruppi di architetti, urbanisti, imprenditori, e amministratori locali, che tentano di immaginare soluzioni innovative, di rottura con la tradizione: invece di dichiarare una guerra infinita all’acqua, perché non reimparare a vivere un po’ più in armonia con essa?

I partigiani dell’approccio «naturale» hanno appena ottenuto la prima vittoria, col lancio di un grande progetto nazionale, che consiste nell’ampliare i letti della Mosa e del Reno distruggendo le dighe, per ricostruirle più lontano, a distruggere terrapieni e edifici che rischiano di fare da tappo in caso di piena. Il progetto prevede anche la formazione di «fiumi verdi», zone a funzione multipla che a seconda dei periodi saranno via via prati, acquitrini, laghi.

Nelle città, la messa in pratica di questi nuovi principi comporterà degli sconvolgimenti ancor più spettacolari, anche di mentalità. Uno dei punti principali di sperimentazione sarà la splendida città storica di Dordrecht, costruita su un’isola fluviale, alla confluenza di quattro corsi d’acqua e vicino a un estuario nel quale si insinua il mare durante l’alta mare. Dopo anni, l’amministrazione aveva previsto di demolire una zona industriale vicina al centro per realizzare un nuovo quartiere d’abitazione e attività. Tenendo conto del futuro innalzamento del livello dell’acqua, municipalità e commissione idraulica (istituzione potente e rispettata eletta a suffragio universale) hanno modificato il piano introducendo un nuovo concetto: il quartiere anfibio, nel quale l’acqua può entrare e uscire senza turbare troppo la vita degli abitanti.

Il margine del futuro quartiere verrà sopraelevato grazie a un largo terrapieno ad arco circolare, sul quale verranno realizzati dei normali edifici. Al contrario, il centro verrò affossato e trasformato in zona di inondazione in grado di contenere l’acqua in caso di piena. La grande novità, è che anche la zona bassa sarà abitata. In questo caso, l’amministrazione municipale ha chiesto alla ditta BTP Dura Vermeer e allo studio di architettura britannico Barker and Coutts di pensare a delle abitazioni di tipo nuovo. Alcune saranno galleggianti, costituite di pontoni in legno e polietilene rivestito di cemento. Altri saranno «anfibi»: i pontoni semplicemente posati al suolo in periodo di acque basse, inizieranno a galleggiare all’arrivo delle piene. Per evitare che vadano alla deriva, saranno organizzati attorno a un pilone centrale piantato al suolo. Ci saranno addirittura delle abitazioni “inondabili”: il pianterreno realizzato assemblando materiali resistenti all’acqua, con gli impianti elettrici installati nel soffitto. Con la medesima logica, strade e percorsi del quartiere saranno in realtà dei pontoni galleggianti articolati. Gli spazi pubblici saranno a volte parchi o spiazzi, altre volte laghi o piccole insenature di sosta.

Chris Zevenbergen, uno dei responsabili della società Dura Vermeer, sembra molto sicuro: "All’inizio, ci hanno preso per pazzi furiosi, ma poi l’idea che il medesimo spazio potesse avere usi molteplici è stata rapidamente accettata, in un paese sovrappopolato come il nostro. Dobbiamo fare in modo che architetti e ingegneri idraulici riscoprano un lavoro comune. Ricorreremo a tecnologie sperimentate. Per esempio, siamo già in grado di realizzare pontoni solidi e leggeri, che restano stabili anche con le onde". La società ha già realizzato una lottizzazione pilota di cinquanta abitazioni fluttuanti e anfibie, a Maasbommel. Resta da vedere se il grande pubblico avrà davvero voglia di abitare questi quartieri acquatici. Le prime ricerche condotte dagli agenti immobiliari sembrano molto positive per le case fluttuanti, mentre il concetto dell’abitazione inondabile è più difficile da vendere.

Altri esperti si impegnano perché i Paesi Bassi si lancino in una nuova epoca di grandi opere, ad esempio con l’innalzamento del livello di alcuni polder con sabbia ricavata dal fondo del mare del Nord: operazione impensabile nel passato, ma ora realizzabile grazie a potenza dei motori e tecniche di fertilizzazione dei suoli.

Adrian Geuze, noto architetto e urbanista di Rotterdam, ha ideato un progetto ancor più ambizioso: la creazione, a una trentina di chilometri al largo delle coste di Fiandra e Olanda, di cinque lunghe e strette isole artificiali. La più grande raggiunge i 100 km di sviluppo. "É meno costoso e meno difficile di quanto non sembri”, afferma Geuze. “D'altronde le nostre imprese sono impegnate a costruire le isole artificiali di Dubai“. Forma e dimensioni delle isole verranno calcolate tenendo conto di migliaia di fattori naturali. Saranno «dinamiche», vale a dire che il litorale si evolverà secondo venti, maree, correnti. Proteggeranno le regioni costiere dalle tempeste frangendo la forza delle onde, e permettendo di stabilizzare la sponda, diminuire l’entità delle maree, limitare l’erosione. Ci si potranno far crescere boschi e prati, installare attrezzature per il tempo libero e porti industriali, a farsi peso di parte dell’attività di Rotterdam. La vita potrà svilupparsi grazie al fatto che le dune artificiali trattengono l’acqua piovana, e diventeranno falde freatiche.

Ma nonostante tutti questi progetti futuristi, nei Paesi Bassi si sa di doversi anche preparare al peggio. Nel novembre 2008, il governo organizzerà un’esercitazione d’allerta allarme nazionale, destinato a verificare l’efficacia dei servizi pubblici e d’urgenza in caso di inondazione catastrofica.

Nota: oltre i toni spettacolari e un poco propagandistici da rivista di architettura, va notato il ricorrere di alcuni elementi del dibattito già emersi, con toni assai diversi, nel caso dell’inondazione di New Orleans (f.b.)

Titolo originale: Beijing’s Quest for 2008: To Become Simply Livable – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

PECHINO, 27 agosto – C’è uno schermo vicno a Piazza Tiananmen che conta i giorni che mancano ai Giochi Olimpici dell’estate 2008, e ogni giorno appare prezioso: Pechino deve realizzare o rinnovare 72 impianti sportivi e strutture di allenamento, asfaltare 59 nuove strade e completare tre nuovi ponti entro la cerimonia di inaugurazione.

Un compito che travolgerebbe la maggior parte delle città, ma Pechino è tanto efficiente nel versare cemento che il Comitato Olimpico Internazionale ha chiesto di rallentare, anziché terminare le realizzazioni troppo presto. Molto più difficile per Pechino sarà, invece, mantenere la promessa di ospitare un’Olimpiade “verde”, oltre all’obiettivo della nuova variante del piano regolatore generale: diventare “una città sostenibile per abitare”.

”È un concetto nuovo per noi” ha dichiarato Huang Yan, vice direttrice della commissione urbanistica, presentando il piano regolatore in aprile. “Non ci avevamo mai pensato prima”.

Per i 15,2 milioni di abitanti di Pechino, quel commento non rivela niente di nuovo. La città è intasata da ingorghi di traffico, col numero delle automobili che è più che raddoppiano in soli sei anni. La qualità dell’aria, dopo anni di continuo miglioramento, di recente si è assestata per alcuni indici, e ha iniziato a peggiorare per altri, mentre Pechino si colloca sempre fra le peggiori città del mondo per quanto riguarda l’inquinamento atmosferico. La fornitura idrica è tanto al limite, che molti esperti hanno chiesto il razionamento.

Anche con l’incombente obiettivo delle realizzazioni olimpiche in corso nei settori settentrionali della città, il sindaco aggiustatutto Wang Qishan ha dichiarato che i suoi pensieri sono rivolti spesso a questioni non-olimpiche. In un discorso all’inizio dell’anno, Wang diceva di essere assediato dalle proteste pubbliche, e “le questioni calde sono sempre spazzatura, fogne, gabinetti pubblici e traffico”. La città è piena di migliaia di vecchie e puzzolenti latrine pubbliche, che sta velocemente cercando di sostituire.

”Ovunque guardo” ha riportato l’organo ufficiale governativo in lingua inglese China Daily, “sembra che ci siano problemi”. L’unica persona che non si lamenta, secondo il sindaco, è sua moglie.

Non è sicuro, che Pechino riesca a tradurre il suo teorico abbraccio alla “vivibilità” in veri miglioramenti nella qualità della vita, in una città che spesso appare come un immenso cantiere (ce ne sono, più o meno, 8.000 aperti).

Gli osservatori sono scettici. Attribuiscono le attuali intenzioni dichiarate di Pechino al fallimento delle precedenti politiche di piano, e incolpano il governo per uno sviluppo rampante, che ha distrutto molta parte della città storica, producendo il guazzabuglio di quella nuova emergente.

”La cattiva urbanistica degli scorsi decenni è diventata motivo di imbarazzo per l’amministrazione” dice Wang Jun, il cui libro best-seller, “Storia di una città”, documenta la demolizione di molti quartieri storici “ hutong”, le vecchie e densamente popolate énclaves di vicoli stretti e tortuosi con le cadenti case a corte.

Wang afferma che Pechino non si è mai ripresa dagli anni ‘50, quando il principale storico dell’architettura nazionale Liang Sicheng ammoniva che distruggere gli hutongs avrebbe portato a traffico e inquinamento, e chiedeva urgentemente a Mao di conservare le antiche mura Pechino. Invece, Mao le demolì in quanto simbolo del feudalesimo cinese.

Più di recente, gli hutongs sono stati demoliti spostando un imprecisato numero di migliaia di persone, per far spazio alle migliaia di nuovi intervento che si sono ingoiati la città.

”Ora le vecchie previsioni sono realtà” dice Wang dell’inquinamento e del traffico.

La costante pressione, su Pechino e le altre città cinesi, è quella dell’immigrazione. La Cina è nel mezzo di uno dei momenti di urbanizzazione più rapidi della storia, con 300 milioni di persone che si prevede migreranno verso le città nei prossimi 15 anni.

La popolazione della sola Pechino potrebbe superare i 21 milioni entro il 2020, se la crescita continua al ritmo di oggi.

La signora Huang dice che gli urbanisti sono stati obbligati e rivedere le priorità. Pechino ora comprende una vasta area geografica, per la maggior parte montagnosa e punteggiata da villaggi rurali.

Il nuovo piano generale vuole creare centri satellite suburbani per allentare le pressione demografica sul centro. L’industria manifatturiera, per esempio, sarà concentrata a est, l’alta tecnologia a ovest. La signora dice che l’accesso limitato all’acqua e le carenze energetiche nazionali hanno reso essenziale una pianificazione più attenta.

”Nel passato, non pensavamo alla questione delle risorse” dice. “Ci concentravamo esclusivamente sullo sviluppo”.

Il Partito Comunita al potere considera le Olimpiadi come il comitato di benvenuto della Cina verso il resto del mondo, e tutta Pechino sta aspettando il 2008. Il governo ha deliberato che i principali progetti vengano completati diversi mesi prima della cerimonia di apertura. Le strutture olimpiche saranno terminate entro la fine del 2007.

Ma non è ancora chiaro se Pechino sarà in grado di rispettare gli obiettivi della propria promessa olimpica “verde”. I funzionari si sono impegnati a spostare alcune fabbriche, a chiuderne altre. Migliaia di camion e taxi pesantemente inquinanti sono stati sostituiti da veicoli con rigidi limiti per quanto riguarda le emissioni.

Lo scorso anno, i funzionari municipali hanno festeggiato quando Pechino, anche se solo per un pelo, ha rispettato l’obiettivo di 227 giornate cosiddette “Cielo Azzurro”, basato sui livelli di tre principali sostanze inquinanti nell’atmosfera.

Ma alcuni abitanti erano tanto scettici da accusare il municipio di manipolazione dei dati. Un recente rapporto dell’ufficio ambientale dell’ambasciata USA a Pechino ha riconosciuto l’incremento delle giornate “Cielo Azzurro”, ma sottolinea che gli standards utilizzati sono meno rigidi di quelli americani. Il rapporto rivela che il numero dei giorni con “livelli di inquinamento estremamente nocivi” è caduto da 17 a 5, e che l’indice generale è invece risalito sull’arco annuale.

Lo studio ha anche rilevato che i livelli di alcuni particolati nell’aria erano di parecchie volte più alti che nelle principali città americane, e che Pechino potrebbe non raggiungere l’obiettivo dell’adeguamento ai criteri di qualità dell’aria dell’Organizzazione Mondiale della Sanità entro il 2008.

L’impennata nell’auto privata – il cui numero sta raggiungendo i tre milioni – diminuisce i vantaggi ottenuti dalle azioni su camion e taxi inquinanti. Le auto private sembrano sempre più incombenti sulla città, e il comune risponde con una frenetica costruzione di strade, anche se si espandono metropolitane e ferrovie leggere. “Essenzialmente, è come usare il modello Los Angeles per risolvere il problema di New York” commenta lo studioso Wang Jun.

Los Angeles, naturalmente, potrebbe anche fornire un po’ di ispirazione a Pechino, avendo ridotto drasticamente i propri livelli di inquinamento.

Anche ora, ci sono momenti in cui l’inquinamento cade, e Pechino si rivela per quello che potrebbe essere. In agosto, dopo una serie di forti piogge, il cielo era oltremodo azzurro e si vedeva chiaramente il cerchio di montagne irregolari attorno alla città.

Ma sono giornate rare. Non lontano dalla Piazza Tiananmen, l’ufficio urbanistica municipale offre qualche immagine di come si spera apparirà Pechino entro il 2008, con un impressionante modello in scala: il quartiere degli affari snello gruppo di torri avveniristiche; il complesso olimpico che si eleva elegante a nord, circondato da spazi verdi; l’antica Città Proibita al centro.

Appare tutto ordinato, persino possibile, ma forse è solo perché manca qualcosa di importante: in quel modello non ci sono quasi persone, o automobili.

Nota: il testo originale al sito del New York Times (f.b.)

Il governo cinese si prepara a "bombardare" chimicamente i cieli per provocare la pioggia: è l´estremo rimedio allo studio, contro l´apocalisse di sabbia e polveri tossiche che si è abbattuta da una settimana su Pechino e tutte le regioni settentrionali del paese. Una miscela esplosiva di inquinamento e intemperie naturali è all´origine dell´emergenza ambientale.

Le tempeste che soffiano dalla Mongolia Interna, alimentate dalla deforestazione e dalla desertificazione, hanno scaricato su Pechino nella sola notte fra lunedì e martedì 20 grammi di polveri per ogni metro quadro, l´equivalente di 300.000 tonnellate di sabbia cadute sugli abitanti della capitale. Il disastro colpisce anche la città portuale di Tianjin, le provincie dello Shanxi, Hebei e Shandong. L´immensa nube giallastra ha ricoperto 1,61 milioni di chilometri quadrati, colpendo 562 città e 200 milioni di abitanti.

A Pechino strade, automobili, alberi e tetti delle abitazioni sono coperti da un fine strato di terriccio, il sole è invisibile da giorni, il cielo è grigio antracite. I vortici di vento in una megalopoli afflitta da mesi di siccità rendono l´atmosfera irrespirabile. Le sabbie del deserto si mescolano alle polveri di migliaia di cantieri edili in azione, alle emissioni carboniche di un traffico automobilistico sempre più congestionato. L´ospedale Chaoyang di Pechino ha rivelato ieri che è triplicato il numero di pazienti ricoverati al pronto soccorso per problemi respiratori, la televisione di Stato Cctv conferma che tutte le strutture sanitarie sono assediate da persone colpite da malattie dei polmoni, degli occhi e della pelle. I mezzi di informazione lanciano appelli alla popolazione perché resti in casa, la polizia tenta di far chiudere i cantieri edili e coprirli con teli finché non si placano i vortici di polveri. È uno scenario da perfect storm, l´incubo che Pechino non avrebbe mai voluto avere, mentre mancano solo due anni alle Olimpiadi e le autorità di governo hanno promesso un drastico miglioramento delle condizioni ambientali. Mantenere quegli impegni oggi sembra un´impresa disperata.

La tempesta di sabbia è solo l´ultimo segnale di un degrado spaventoso degli equilibri ecologici. Normalmente queste tempeste stagionali provenienti dalle regioni desertiche della Mongolia avvengono con una frequenza media di sei all´anno, ma su Pechino se ne sono già abbattute otto dall´inizio del 2006. È un altro prezzo che la Cina sta pagando alla sua formidabile crescita economica. L´industrializzazione a tappe forzate che ha trasformato la Cina nella fabbrica del pianeta ha anche fatto esplodere i consumi energetici, alimentati a maggioranza dalle centrali elettriche a carbone altamente inquinanti. Le maggiori metropoli si avvicinano al collasso demografico: Chongqing supera i 30 milioni di abitanti, Pechino Shanghai Canton e Shenzhen si avvicinano alla soglia dei 20 milioni ciascuna. Con la motorizzazione privata sale inesorabilmente il livello delle emissioni carboniche nei centri urbani. Dall´inizio del 2006 Pechino ha avuto 16 giornate di "cieli puliti" in meno rispetto allo stesso periodo del 2005.

Il primo ministro Wen Jiabao, nel piano quinquennale presentato al Congresso il mese scorso, ha indicato la difesa dell´ambiente tra le priorità del suo governo. Ma finora i tentativi di arginare il dissesto ecologico sono insufficienti e inefficaci. Le campagne di riforestazione lanciate per creare dei cordoni di difesa naturale attorno a Pechino sono dei timidi palliativi, mentre la desertificazione avanza insieme con il prosciugamento di fiumi e laghi, nell´emergenza idrica provocata dall´industrializzazione. L´inquinamento prodotto dalla Cina si trasforma rapidamente in un problema planetario, si fanno frequenti i ritrovamenti di polveri tossiche cinesi nei cieli della Corea, del Giappone, della California e perfino della East Coast americana.

Proprio mentre Pechino soffoca sotto l´immensa nube gialla, procede verso la conclusione un cantiere della capitale che è il simbolo di una disperata lotta contro il tempo. È la nuova sede della facoltà di Scienze ambientali dell´università Tsinghua, frutto di una cooperazione italo-cinese che coinvolge il nostro ministero dell´Ambiente, il ministero della Scienza e della Tecnologia della Repubblica popolare, il Politecnico di Milano e lo studio di architettura Mario Cucinella. Il palazzo in costruzione nel campus della Tsinghua è un condensato di tutte le tecnologie più avanzate per il risparmio energetico e la tutela dell´ambiente. Dai vetri speciali isolanti ai pannelli per l´energia solare, dalle terrazze coperte di vegetazione ai dispositivi per l´illuminazione naturale, il Sieeb (Sino-Italian Ecological and Energy Efficient Building) è il prototipo di un nuovo modo di costruire. Ma visitare il cantiere in questi giorni offre uno spettacolo di un´ironia crudele. Le squadre di operai cinesi, incluse donne e ragazzi giovani, annaspano nelle nuvole di sabbia che sommergono i materiali avanzati spediti dalle aziende italiane. Le baracche-dormitorio dei muratori sono coperte dalle polveri. Il prezioso gioiello del design "verde" italiano è avvolto nella nebbia acre dello smog che brucia occhi e polmoni, mentre tutt´attorno il paesaggio urbano è una selva di grattacieli tirati su in tempi record, con criteri tutt´altro che eco-compatibili. La nuova sede della facoltà di Scienze ambientali sarà pronta per l´inaugurazione due anni prima delle Olimpiadi. È un altro record di velocità che va ad aggiungersi alle performance dell´edilizia cinese. Ma la promessa che quel cantiere rappresenta sembra allontanarsi ogni giorno.

© 2025 Eddyburg