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Titolo originale: Can our way of living really save the planet? – Traduzione per Eddyburg Mall di Fabrizio Bottini

In superficie, la vita di Kendal Murray sembra decisamente sulla media. Ogni mattina si fa la doccia, prepara i toast e lascia i bambini al nido prima di andare al lavoro. Solo osservando più da vicino i particolari della sua routine quotidiana, emergono alcuni elementi interessanti: la doccia è riscaldata da pannelli solari sul tetto; l’elettricità per il tostapane viene da un generatore locale che brucia legna; e quando porta i bambini al nido ci va a piedi: naturalmente.

La signora Murray abita a BedZED, che sta per Beddington Zero Energy Development, Sutton, sud di Londra, il primo insediamento di grosse dimensioni “senza produzione di anidride carbonica”, usando solo energie rinnovabili generate in loco, non aggiunge quantità significative di CO2 all’atmosfera.

”La gente ha un’idea da cilicio della vita ecologista, che invece può essere facile, economica e attraente” dice la Murray. “Vivo con la coscienza a posto e non ho dovuto rinunciare a nulla per farlo”.

Benvenuti nel modo della vita etica che, se si continua la tendenza attuale, vedrà molti di noi unirsi allo stile di esistenza della Murray, non solo preoccupandoci di risparmiare energia e diminuire le emissioni di anidride carbonica – unendoci così al leader Tory David Cameron che ieri ha annunciato che installerà una turbina a vento sulla sua casa nell’ovest di Londra – ma accertandoci di indossare vestiti che non sfruttano i lavoratori nei paesi in via di sviluppo, andare a fare vacanze che non danneggiano preziosi habitat, far crescere i figli meticolosamente eco-friendly.

Qualche giorno fa, Marks & Spencer è stata la prima catena commerciale a lanciare una propria linea di magliette e calzini equa e solidale. Poi il gigante dei supermercati Sainsbury's ha confermato di aver fatto la più grossa ordinazione di tutti i tempi in cotone del circuito equo. La scorsa settimana Top Shop ha annunciato che stava portando l’abbigliamento di questo circuito nei propri negozi. Contemporaneamente, il mercato del cibo biologico è lievitato sino ad oltre 1,1 miliardi di sterline, e di conseguenza gli alimenti prodotti nel circuito etico – biologico, equo e solidale, vegetariano, free range – ora contano per il 5% del conto alimentare britannico da 80 miliardi.

Ora stanno entrando in scena i marchi di lusso. La scorsa settimana si è lanciata Product Red: un’idea di Bono per utilizzare occhiali da sole di marca, felpe e T-shirt comprate con le carte di credito American Express per raccogliere denaro da usare per la lotta all’Aids in Africa. Sostenuti da attrici e supermodelle come Elle MacPherson o Claudia Schiffer, i contributi Amex Red versano qualche centesimo per ogni unità spesa alla causa.

La vita etica è in marcia, detto in altre parole. Statistiche pubblicate dalla Co-operative Bank mostrano che i britannici hanno speso 25,8 miliardi di sterline in prodotti etici lo scorso anno, il 15% in più del 2004. Oltre il 40% di questi sono andati agli investimenti nelle banche etiche, e anche il commercio di prodotti equi – che compensano i produttori oltre i normali livelli di mercato – si sta impennando drasticamente.

Dieci anni fa, non c’erano prodotti etici. L’anno scorso di sono spesi in acquisti del settore quasi 200 milioni di sterline, e il mercato cresce del 40% l’anno, col caffè in cima alla lista dei prodotti preferiti. Cafedirect ora è la sesta marca per vendite a livello nazionale.

In più, il governo sta prendendo in considerazione alcune azioni per rafforzare le Norme per le Abitazioni Sostenibili, in modo tale da farle diventare obbligatorio per tutte le nuove costruzioni, e raggiungere obiettivi ambiziosi di riduzione del consumo energetico. Si tratta di un’azione importante perché il 50% delle emissioni di carbonio del Regno Unito proviene dall’ambiente costruito, e si prevedono massicce quantità di nuova edificazione nell’Inghilterra meridionale.

Sembra tutto molto incoraggiante. Ma tutti questi milioni sono spesi bene? Si aiuta davvero l’ambiente? Ed è possibile che siano i consumatori a controllare il destino del pianeta facendo la spesa, scavalcando così i migliori sforzi internazionali dei politici? Queste domande ci portano nel nocciolo centrale di una delle principali questioni del momento: sino a che punto il potere del consumatore può salvare il mondo? Non sorprende che le risposte rivelino una grande distanza tra favorevoli e contrari alla vita etica.

Consideriamo il problema dell’eco-turismo. Ci sono ovvi elementi positivi nel passare vacanze che non portino a un diffuso degrado di preziosi habitat, come la cementificazione di isole coralline o gli enormi alberghi che sottraggono grandi quantitativi d’acqua solo per docce e piscine. Ma la questione non è così lineare. Per esempio, la maggior parte delle località di eco-turismo sta in Sud America, Asia e Africa. Arrivarci implica bruciare grandi quantità di carburante, aggiungendo ampie quote di anidride carbonica all’atmosfera.

È un punto su cui ora concordano anche gli operatori del settore. Ieri i due principali guru dei giramondo – Mark Ellingham, fondatore delle Rough Guides, e Tony Wheeler, che ha creato Lonely Planet – hanno entrambi ammesso pubblicamente che le loro edizioni hanno contribuito a diffondere un atteggiamento propenso a volare, che sta stimolando l’ascesa dei livelli di anidride carbonica e contribuendo al riscaldamento globale. Suggeriscono, fate meno voli, e fermatevi più a lungo.

Ma ancora, non è tanto semplice, come sottolinea Paolo Guglielmi, project manager del programma ambientale delle Nazioni Unite in Mediterraneo. “Se l’unico problema ambientale fosse il volare, saremmo sulla strada giusta; il problema è che non si tratta dell’unico problema”.

Questo aspetto è stato dimostrato da un recente studio accademico, che suggerisce come gli impatti della pratica dell’ecoturismo siano spesso significativamente superiori a quanto avverrebbe semplicemente restandosene a casa. John Hunter e Jon Shaw, della Aberdeen University, hanno calcolato la “impronta ecologica” di 252 vacanze eco-turistiche in termini di quantità di ettari globali di pianete, necessari a fornire le risorse consumate. I risultati, in corso di pubblicazione sulla rivista Environmental Conservation, mostrano che in tutti i casi tranne uno l’effetto è stato quello di incrementare la pressione netta sulle risorse naturali.

”Esiste probabilmente una differenza, tra un approccio hard e uno soft al turismo” aggiunge Hunter. “[Si può] andare ad attraversare la Mongolia sedendo in groppa a un cammello e mangiando come gli abitanti del posto; se si va nelle Filippine o in Tahilandia, si visita una volta un eco-park e si passa il resto del tempo abitando in un albergo di lusso, l’impatto sarà enorme”.

Un punto di vista condiviso da Guglielmi. “Il problema sta nel termine eco-tourism, interpretato in ciascun paese in modo diverso” dice. “Passiamo da posti dove lo si intende in termini di tende, ad altri, in particolare lungo le coste nel sud del Mediterraneo, dove la parola serve solo a pitturare di verde chilometri di alberghi a cinque stelle”.

C’è poi la questione del cibo. Da un lato, il circuito del commercio equo e solidale da’ ai piccoli produttori dei paesi in via di sviluppo un accesso ai mercati ricchi. D’altra parte, l’importazione di merci da migliaia di chilometri di distanza contribuisce sempre più ad un inquinamento che si calcola in quantità di cibo per distanza.

In modo simile, tutte le azioni per mantenere i nostri figli “ eco-friendly” vengono criticate per la loro scarsa praticabilità. I pannolini usa e getta sono considerati un dono di dio dalla maggior parte dei genitori, e uno studio dell’Agenzia Ambiente del 2005 ha concluso che c’è poca differenza in termini di impatto ecologico, fra usa e getta e pannolini che si lavano.

In ogni caso, l’analista commerciale Richard Hyman, consulente alla Verdict Research, afferma di non essere affatto convinto che i consumatori britannici siano pronti a sacrificare i prezzi più bassi in cambio della coscienza a posto. “Viviamo in un modo dove la maggior parte delle persone sono favorevoli a sostenere i negozi di quartiere ma non fa niente a questo proposito” dice. “La gente è contenta di parlare della consapevolezza etica, ma quando si arriva ai modi di consumo non c’è corrispondenza con queste parole”.

La strada per arrivare a un vero stile di vita etico e sostenibile, in altre parole, sarà ardua. Comunque, ciò non significa che l’obiettivo non valga la pena, dicono gli attivisti. Indicano gli impatti spesso orribili che gli occidentali hanno avuto sul mondo in via di sviluppo, sia in termini di costi ambientali che di vite umane.

La scorsa settimana, ci sono stati tre diversi incidenti nelle fabbriche di abbigliamento del Bangladesh con molte centinaia di morti, nella città portuale di Chittagong e in una fabbrica crollata nella capitale, Dacca. All’interno delle fabbriche, abiti destinati all’Europa e all’America. Nessuno di quegli incidenti è stato riportato sulla stampa britannica. E pure essi dimostrano il terribile prezzo che talvolta si paga per produrre cose che diamo per scontate.

Avvenimenti del genere danno impeto al movimento etico, e probabilmente manterranno la pressione sulle attività economiche perché si assicurino che i propri prodotti e servizi vengano offerti in modo moralmente accettabile alla maggior parte delle persone. Può dimostrarsi arduo organizzare nei particolari un programma di vita etica, ma ci sarà sempre la voglia di realizzarlo.

E alla fine, ci guadagneremo tutti, secondo Kendal Murray. “Non ho mai abitato in un ambiente tanto amichevole come questo” dice riferendosi al BedZED. “C’è un senso comunitario, qui, risultato diretto del fatto che siamo tutti legati dalla causa comune del vivere ecologico. Quando curo le verdure nell’orto o cammino fino ai contenitori del riciclaggio, mi incontro coi vicini e parliamo. In tutti gli altri posti dove ho abitato, la gante andava dalla porta alla macchina, e spariva in una nube di fumo da petrolio”.

Nota: in termini più pratici, e con riferimento alla pianificazione territoriale, qui su Mall si vedano le recentissime linee per l'inserimeno delle Energie Rinnovabili nei piani locali dello East England (f.b.)

here English version

Non sarà ancora la "Bad Godesberg" dei Verdi italiani, per dire una svolta storica come quella celebrata mezzo secolo fa dalla socialdemocrazia tedesca. Ma la Conferenza nazionale indetta dal partito di Alfonso Pecoraro Scanio per domani e dopodomani a Genova promette di innescare una palingenesi dell’ambientalismo politico, un rinnovamento e un rilancio del "Sole che ride". A pochi mesi dall’ultimo congresso, secondo l’impegno assunto ufficialmente in quella sede, i Verdi lanciano un "Patto per il clima" proprio nel momento in cui il cosiddetto "Global warming", cioè il surriscaldamento del pianeta provocato dall’inquinamento e dall’effetto serra, minaccia la sopravvivenza dell’intera umanità.

Oggi non è più il loro presunto allarmismo, il loro catastrofismo o millenarismo ideologico, a imporre l’emergenza climatica all’ordine del giorno. È il caldo che incombe sulla prossima stagione estiva, dopo aver già alterato quella invernale e primaverile; è lo scioglimento dei ghiacciai, la scarsezza di piogge e la siccità che fanno mancare un bene primario come l’acqua, insidiano la campagna e l’agricoltura. Non è insomma un’invenzione di Pecoraro Scanio e dei suoi seguaci, un’altra dimostrazione del loro estremismo o radicalismo, da liquidare con sufficienza e magari con fastidio.

L’appello predisposto per la Convention di Genova, già sottoscritto da diversi "testimonial" autorevoli tra cui lo scienziato Carlo Rubbia, il giurista Stefano Rodotà, il magistrato Gianfranco Amendola, il sociologo Domenico De Masi e il profeta di "Slow Food", Carlo Petrini, non è soltanto un manifesto di belle parole e buone intenzioni. Contiene le linee-guida di un programma concreto e praticabile, su cui il capogruppo dei Verdi alla Camera, Angelo Bonelli, ha raccolto diligentemente una serie di pareri, proposte, integrazioni e suggerimenti, prima di redigere il testo definitivo. Con quel tanto di "pathos" che il tema richiede, il "Patto per il clima" è aperto a tutti i cittadini, le associazioni, i gruppi e i movimenti che intendono impegnarsi in questa battaglia fondamentale per la difesa dell’ambiente e della salute collettiva.

Ma la sfida è di tale portata che esige, come recita il sottotitolo del documento, una "riconversione ecologica dell’economia e della società". Non si tratta, cioè, soltanto di risparmiare un po’ d’acqua e magari inquinare un po’ meno. Si tratta piuttosto di correggere e modificare il nostro modello di sviluppo economico-sociale, in modo che sia equo e solidale, più responsabile e più giusto. A cominciare, naturalmente, dal consumo e dalla produzione di energia, nel segno delle fonti rinnovabili come il sole e il vento: dall’era del petrolio, e dagli altri combustibili fossili che emettono la mefitica anidride carbonica, dobbiamo passare il più rapidamente possibile a quella dell’idrogeno, nel rispetto di madrenatura.

"La centralità della questione ecologica in Italia - si legge nell’appello dei Verdi - significa anche realizzare una nuova politica per fermare il consumo del territorio; per affrontare il problema smog trasformatosi in emergenza sanitaria; investire prioritariamente sul trasporto pubblico su ferro; rendere più rigorosa la tutela del paesaggio del nostro paese violentato e offeso dagli abusi, ma anche dalle cementificazioni legalizzate; valorizzare la bioedilizia; investire nella prevenzione del dissesto idrogeologico; realizzare sistemi di gestione dei rifiuti imperniati sulla riduzione, il recupero, la raccolta differenziata e il riciclaggio". Non sono chiacchiere, come si vede, bensì obiettivi precisi da realizzare nell’azione di governo, a tutti i livelli. E proprio su questo terreno, si misureranno la capacità e la credibilità dei Verdi dopo la svolta di Genova, per attuare quell’"ambientalismo sostenibile" - come qui l’abbiamo definito in passato - capace di conciliarsi con la crescita di una società moderna: a questi aspetti sarà dedicato in particolare il "Cantiere delle best practices", con una rassegna delle esperienze italiane più innovative per uno sviluppo anch’esso sostenibile.

Altri capitoli qualificanti del "Patto per il clima", sono l’avvento della "democrazia informatica"; la lotta contro le povertà sociali; la difesa di una ricchezza come la diversità; la non violenza; la cooperazione tra i popoli; il futuro delle giovani generazioni. Ma forse la novità più significativa della Conferenza sta nel titolo scelto per il dibattito, "Ecologia è economia", in quella "e" con l’accento, voce del verbo essere. Un’affermazione assai impegnativa per i Verdi italiani, considerati finora a torto o a ragione nemici dell’industria, antagonisti, massimalisti. E a parte l’espediente lessicale, da verificare poi nei comportamenti e nelle azioni concrete, c’è comunque da registrare positivamente l’intenzione di aprire da Genova un confronto con il mondo produttivo, con i sindacati, con tutte le forze sociali, in funzione di una "finanziaria verde" o eco-compatibile che rispecchi una tale impostazione programmatica.

A Palazzo Ducale, infine, i partecipanti al convegno e soprattutto gli ospiti troveranno anche una "Esposizione dell’innovazione" curata dall’associazione Capitalismo Naturale che fa capo a Fabio Roggiolani. All’insegna dello slogan "Verso l’impatto zero", si potranno vedere e toccare con mano prodotti, impianti, macchinari, per la riconversione ecologica dell’economia: dalla pellicola in silicio per il solare fotovoltaico alla pittura che coibenta gli edifici, dai sistemi di dissociazione molecolare come alternativa all’incenerimento dei rifiuti ai "naturizzatori" per l’acqua del rubinetto, fino al camion alimentato direttamente a gas naturale liquefatto. Una "nuova frontiera", dunque, sia per l’industria sia per i Verdi, con l’obiettivo strategico di conciliare gli interessi legittimi dell’economia con le ragioni vitali dell’ecologia.

Titolo originale: New turf for science: suburbia, Traduzione di Fabrizio Bottini



Suburbia può apparire un terreno familiare, ma si trattad i una delle ultime frontiere per gli scienziati che vogliono capire come funzionano gli ecosistemi, e come gli uomini stanno modificando l’ambiente naturale.

Dalle énclaves suburbane boscose del Vermont allo sprawl di Chico, i ricercatori Livermore e Gilroy, stanno iniziando a verificare il ruolo dei prati nel riscaldamento globale, quanto i fertilizzanti da giardino e i pesticidi colpiscano la fauna selvatica e come il deflusso delle acque da tetti, strade e corsie di accesso mini la salute dei corsi d’acqua.

”L’ambiente suburbano è grande, e in crescita” dice Jennifer Jenkins dell’Università del Vermont, una degli scienziati che hanno riferito dei propri risultati di ricerca a un incontro della American Geophysical Union a San Francisco. “C’è questa enorme superficie di terreno che scivola via attraverso le crepe”.

La Jenkins è impegnata nello studio di 40 giardini suburbani nell’area di Baltimora. A partire da questa settimana, i ricercatori preleveranno campioni di zolle erbose a mano, le peseranno, misureranno i ciuffi d’erba col il resto della copertura vegetale, e analizzeranno anche le foglie raccolte col rastrello.

L’obiettivo è verificare quanta anidride carbonica venga assorbita e rilasciata dai prati, e se essi contribuiscano al riscaldamento globale oppure lo rallentino.

Altri stanno tentando di studiare modi di progettazione dei quartieri suburbani che siano meno dannosi per l’ambiente locale.

”Cerchiamo di pensare a maniere per utilizzare l’ingegneria ambientale, un approccio di ingegneria verde, per risolvere il problema alla radice” racconta Breck Bowden, anche lui dell’Università del Vermont.

Da un punto di vista scientifico, è difficile anche solo definire cosa sia suburbia. Scivola gradualmente, dagli insediamenti radi sulle fasce esterne delle, città sino alle case su appezzamenti di 3.000 metri quadrati, o agli “ esurbi” e “ rururbi”: case sparse su aree in gran parte rurali.

Gli ecologisti si sono consumati nello studio di foreste e acquitrini, deserti e tundre, ma solo di recente si sono interessati di suburbia. Forse perché gli ambienti dominati dall’insediamento umano sono tanto complicati e in continua trasformazione, dice Jenkins; magari sono solo posti un po’ meno esotici per lavorare.

Ma questi “burbi” hanno un grosso impatto. Per esempio, di tutto il carbonio accumulato nelle piante del Maryland, solo i due terzi si trovano nei boschi; il resto è negli alberi piantati in giardini e spartitraffico centrali, come ha rilevato Jenkins in uno studio qualche tempo fa.

Un tipo di copertura del suolo in rapida crescita

L’impatto è destinato a crescere. I suburbi sono una delle forme di copertura del suolo in crescita più rapida, negli Stati Uniti e nel mondo, sostiene Daniel Bain dello U.S. Geological Survey a Menlo Park, tra gli organizzatori delle sessioni all’incontro di questa settimana.

Una delle prime cose che accadono quando si costruiscono campi coltivati o altri terreni allo stato naturale, è che una parte viene impermeabilizzata. Uno studio dello scorso anno ha rilevato che negli Stati Uniti ci sono più di 110.000 chilometri quadrati di superficie edifica o asfaltata. Più o meno un’area delle dimensioni dell’Ohio.

Di conseguenza, l’acqua piovana che un tempo sarebbe filtrata nel suolo si raccoglie nei corsi d’acqua molto più rapidamente, dice Bain. La corrente usura le sponde, approfondisce i corsi e spazza via gli habitat di piante, animali e insetti.

Non ci vuole molta asfaltatura, per danneggiare seriamente un corso d’acqua, racconta Bowden. Anche se si ricopre il 15-20% - quantità caratteristica di un suburbio a bassa densità – “si ha un serio degrado” dice. “Essenzialmente, li spingiamo a morire per eccesso d’acqua”.

Su flora e fauna, i sobborghi hanno effetti contrastanti.

Alcuni animali riescono a adattarsi, o addirittura a diventare infestanti: cervi che devastano i giardini; procioni che frugano nella spazzatura; corvi e ghiandaie gracchianti; coyote, orsi neri e puma che si avvicinano ad alcuni quartieri della California, rubano cibo e spaventano gli abitanti.

Ma molte altre specie sono allontanate, o spazzate via. In generale, la rapida diffusione di suburbia è probabilmente la peggiore minaccia alla biodiversità nel mondo sviluppato, secondo un’indagine del 2003 di Stephen DeStefano dello U.S. Geological Survey e Richard DeGraaf dello U.S. Forest Service.



Il problema dei fertilizzanti

Anche i fertilizzanti sono un problema, quando sono dilavati dai giardini verso i corsi d’acqua, sino al mare.

Anche se può sembrare una buona cosa, dare alle piante selvatiche una bella dose di fertilizzante, i risultati sono spesso disastrosi, dice Lawrence Band dell’Università del North Carolina. L’azoto nei composti provoca la crescita di alghe nell’oceano. Quando le alghe muoiono, affondano e marciscono, consumano l’ossigeno dell’acqua determinando “zone morte” che uccidono il pesce e altra flora e fauna.

Studi condotti sulle aree da Santa Barbara alla Chesapeake Bay in Maryland, stanno cercando di ricostruire le fonti dell’inquinamento da azoto per trovare modi di rallentarlo. Il costo di bonifica della sola Chesapeake Bay è stato calcolato in 18 miliardi di dollari, dice Band.

Negli ultimi tempi, gli scienziati hanno iniziato a sperare che le nuove conoscenze filtrino all’interno della progettazione di insediamenti migliori. Si potrebbero usare materiali di copertura che lascino passare un po’ dell’acqua nel terreno, raccoglitori di acqua piovana che intercettino lo scarico dei tombini, o addirittura tetti erbosi come quello che si sta installando sulla nuova California Academy of Sciences a San Francisco.

”Dobbiamo aver pazienza” dice Bowden. “Ci sono voluti cent’anni per trovarci in questo pasticcio. Ci vorrà un po’ di tempo per riprendersi”.

Nota: qui il testo originale inglese (f.b.)

Isola Sant´Antonio è un comune di circa 750 abitanti a metà strada tra Alessandria e Pavia, e il suo nome, insieme a quello delle tre frazioni Inferno, Purgatorio e Paradiso, la dice lunga sul suo rapporto con il Po: un tempo era un dedalo di canali e paludi sempre in lotta con le piene del grande fiume. C´è l´idrometro a Isola Sant´Antonio, e tra le secche sabbiose segna tristemente 179 metri cubi al secondo invece degli oltre 500 che le piogge di aprile e la fusione della neve alpina dovrebbero assegnargli in media.

Manca all´appello circa il 50 per cento delle precipitazioni attese negli ultimi sei mesi, e soprattutto manca il manto nevoso sulle Alpi occidentali, che è il settore dove si forma la riserva idrica per i mesi estivi: a 2000 metri lo spessore è di 20 cm contro i 120 normali. L´ultima occasione di mettere una pezza a questa crisi idrica è maggio, che secondo la statistica dovrebbe essere il mese più piovoso dell´anno in questa regione, ma ormai chi si fida più delle statistiche? Quest´anno abbiamo infranto un record dopo l´altro, e pure le temperature si avviano a spingere aprile in testa alle classifiche, anticipando così il consumo d´acqua che in genere sarebbe cominciato due mesi più tardi. Gli scenari climatici proposti dall´ultimo rapporto Ipcc prefigurano entro questo secolo estati mediterranee fino a 6 gradi più calde e molto più siccitose; per intenderci, il caso 2003 diventerebbe la norma. Quindi è venuto il momento di agire, la salvaguardia della sicurezza idrica non deve più essere trattata come un´emergenza casuale ed eccezionale, bensì deve essere attentamente pianificata e strutturata per non trovarsi gravemente impreparati. Ci sono infatti altri problemi subdoli che si affiancano a quello climatico: al tempo degli antichi romani gli acquedotti sfruttavano la caduta naturale dei dislivelli orografici, oggi per distribuire acqua ci vuole soprattutto petrolio.

Gran parte dei nostri acquedotti, per via delle falde superficiali ormai inquinate, attingono da pozzi profondi centinaia di metri, e pompano poi l´acqua fino ai piani più elevati degli edifici: un sistema ghiotto di energia ma sempre più fragile in vista della crisi del petrolio. Tocca dunque attrezzarsi, come del resto già incominciano a fare i regolamenti edilizi di alcuni comuni: obbligo di installazione di cisterna per la raccolta dell´acqua piovana sulle case nuove e possibilmente anche su quelle esistenti, in modo da limitare l´uso dell´acqua potabile allo stretto necessario e utilizzare quella meno pregiata per irrigare orti e giardini e per l´uso nei wc. Il risparmio e l´efficienza devono diventare delle priorità politiche, l´acqua per fortuna non è esauribile come il petrolio, almeno prima o poi ritorna sempre, sia pure in modo irregolare, ma bisognerà essere saggi nel gestirla. Mettere i riduttori di flusso sul rubinetto di casa è un buon punto di partenza, ma non basterà. Di fronte ai giganteschi volumi in gioco in agricoltura, ci vuole un progetto di ampio respiro, che parta dalle simulazioni climatiche, dagli invasi e dalle reti di distribuzione, fino ad arrivare alle scelte agronomiche e a nuovi metodi di microirrigazione.

Jacopo Giliberto, A rischio campi e officine, Il Sole 24 Ore, 24 aprile 2007

Bisogna decidere adesso a chi donare in estate le scorte d'acqua nascoste dietro le muraglie di cemento delle dighe idroelettriche: alle colture di mais,come chiedono le associazioni agricole, oppure ai consumatori di corrente, grandi industrie come le acciaierie.

Contraddizioni idriche. Le paratoie del lago Maggiore stanno riversando nel Ticino quanta più acqua possibile. Bisogna allagare le risaie novaresi, pavesi, vercellesi.Per non perdere il raccolto di riso, il più importante d'Europa. Intanto — ecco l'ossimoro dell'acqua —mentre i consumi elettrici crescono l'Enel ha ridotto la produzione idroelettrica del 20%. Molte dighe sono piene, e in vista dell'estate l'acqua non viene fatta correre attraverso le condotte forzate né attraverso le pale delle turbine, quelle turbine che producono chilowattora senza comprare all'estero il combustibile e senza alzare un fil di fumo inquinante.

Che cosa accadrà tra giugno e luglio,quando il granturco assetato invocherà acqua, e milioni tra imprese e famiglie succhieranno corrente per i condizionatori e i macchinari?

All'appello del Po mancano — sono le stime di Terna —400 milioni di metri cubi d'acqua. Ieri l'incontro del gruppo di lavoro del ministero dello Sviluppo economico ha proposto di dividere tra tutti il risparmio d'acqua.Circa 150 milioni di metri cubi in meno ai produttori idroelettrici, i quali sperano di avere in cambio un incentivo economico ( ma attenzione: quando la domanda sarà alta potranno vendere il chilowattora a prezzi superbi).

Alle associazioni agricole è stato chiesto di rinunciare a 130 milioni di metri cubi, ma i contadini, scarpe grosse e cervello fino,hanno dato risposte vaghe che fanno presagire un "no"estivo e un ricorso ai risarcimenti da emergenza climatica.

Altri 70 milioni di metri cubi di risparmio sono stati proposti agli enti di gestione dei grandi laghi, ma su questo risparmio indicativo già oggi si possono stimare 10 milioni effettivi mentre altri 60 milioni scorrono verso i canali irrigui, come accade a valle del lago Maggiore.

Sono salvi gli acquedotti, com'è giusto.L'acqua destinata ai rubinetti è sacra. Invece sono a rischio nella stagione calda circa 5mila megawatt degli 8.100 delle centrali del bacino del Po (Moncalieri,Chivasso, La Casella, Piacenza, Turbigo, Sermide e Ostiglia). Con il caldo la domanda elettrica aumenta ma aumenta anche il bisogno di acque di raffreddamento delle centrali, e il Po in secca potrebbe non bastare. Altrimenti, le centrali dovranno marciare a mezzo servizio.Non basta. Con il caldo lavorano male le linee di alta tensione che importano la corrente.

Bisogna decidere adesso.

Titolo originale: Global warming: Adapting to a new reality – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

ROMA – Quando il dottor Giancarlo Icardi, direttore sanitario per il comune di Genova, ha saputo per telefono che il suo nipotino aveva febbre, mal di testa, e occhi lacrimosi dopo una giornata in spiaggia, la prima cosa che gli è venuta in mente come diagnosi non è stata certo il riscaldamento globale. Pensava a un’influenza fuori stagione.

Ma poi è saltato fuori che c’erano altri 128 frequentatori della spiaggia negli ospedali di Genova che presentavano sintomi simili in quel fine settimana di luglio, obbligando alla chiusura di tutte le spiagge della zona nel bel mezzo di un’ondata di caldo. Anche se tutti i problemi di salute si sono risolti in una giornata, gli studiosi hanno presto denunciato il colpevole: un’alga velenosa che si sviluppa nelle acque sempre più calde del mare Mediterraneo, e che prima non si era mai sviluppata così tanto, né tanto a nord.

”Questa è la prima volta che abbiamo un problema del genere in Liguria” spiega Icardi, riferendosi alla regione dell’Italia settentrionale che comprende Genova. Ma gli analisti “hanno scoperto rapidamente di cosa si trattava” dice, perché negli anni recenti le alghe che possono causare disturbi erano state rilevate nelle regioni italiane Toscana e Puglia, oltre che in Spagna.

Mentre le nazioni di tutta Europa riducono la produzione di gas-serra per combattere il mutamento climatico, scienziati e cittadini cominciano a scoprire che gli effetti del riscaldamento sono già tra noi. L’aumento irreversibile delle temperature è in corso, si dice, e continuerà per un secolo anche controllando le emissioni inquinanti secondo il Protocollo di Kyoto, il trattato internazionale finalizzato a contenere i gas-serra.

Perciò, dicono gli scienziati, governi e cittadini devono prepararsi per un futuro bollente, adattarsi a un clima più caldo e tempestoso.

”Oltre a contenere il riscaldamento de clima, dovremmo anche pensare a come adattarci” dice Richard Klein dell’Istituto per le Ricerche sugli Impatti del Clima di Potsdam, in Germania. “Negli ultimissimi anni le persone hanno capito che il mutamento climatico avverrà effettivamente. L’adattamento non ha alternative: è qualcosa che dobbiamo fare”.

I primi segni di riscaldamento globale sono evidenti: un incremento dei decessi estivi a causa delle ondate di caldo in Europa; lo spostamento verso nord delle alghe tossiche e dei pesci tropicali nel Mediterraneo; la diffusione di zecche portatrici di malattie nelle prima inospitali zone della Svezia e Repubblica Ceca.

Gli scienziati sostengono che è il riscaldamento globale il responsabile del numero crescente di forti uragani, come Katrina, o delle alluvioni, come quelle che hanno colpito parti del centro Europa quest’estate.

Il riscaldamento globale è stato anche collegato ai ricorrenti incendi estivi del Portogallo, dato che la penisola iberica è diventata molto più calda e secca che in passato.

È difficile provare il ruolo del riscaldamento globale nel generare una certa alluvione, o incendio, o diffusione di una malattia, dato che c’entrano anche le variazioni di temperatura annue o altri fattori. Ma il numero medio di eventi estremi per anno legati al clima, negli anni ’90 era il doppio di quello degli anni ’80, secondo l’Agenzia Europea per l’Ambiente di Copenaghen.

Come risposta a questa tendenza, nazioni e politici stanno iniziando a riflettere sulle azioni da intraprendere. I coltivatori francesi si stanno orientando verso nuove colture che tollerino meglio le temperature più elevate, ad esempio.

Le località sciistiche austriache che non possono più contare sulla neve stanno predisponendo percorsi a piedi e campi da golf.

La città italiana di Brescia fornisce condizionatori agli anziani, cosa rara nel paese. I progettisti della nuova sotterranea di Copenaghen hanno rialzato tutte le strutture per prepararsi a un innalzamento di mezzo metro del livello del mare, previsto a causa del riscaldamento globale entro i prossimi 100 anni.

La maggior parte dei modelli scientifici prevedono che, anche con le emissioni ridotte fissate dal protocollo di Kyoto, le temperature saliranno da 2 a 6 gradi Celsius in Europa entro il prossimo secolo: un po’ di meno nel resto del mondo. E la gente in gran parte non è preparata.

La nostra resilienza è piuttosto bassa rispetto al mutamento climatico” dice Jacqueline McGlade, direttore esecutivo dell’Agenzia Europea dell’Ambiente, che ha pubblicato un rapporto, Impatti del Mutamento Climatico in Europa, che cataloga le zone di vulnerabilità e suggerisce come l’Europa possa adeguarsi.

Prevede che, se non si farà nulla, le persone nel nord e soprattutto nel sud Europa, dove ci si aspetta che gli effetti siano più marcati, diventeranno “profughi climatici”, migrando verso il centro del continente.

”Nei paesi artici e nell’Europa meridionale” dice la signora McGlade, “sarà sempre più difficile mantenere gli attuali modelli di vita e consumi”.

Le prove del riscaldamento ora sono incontestabili, e quasi tutti gli scienziati sono convinti che sia stato prodotto – o almeno ampiamente accelerato – dalle emissioni connesse alla produzione industriale.

Gli anni ’90 sono stati il decennio più caldo della storia. Le annate 1998, 2002 e 2003 le più calde da sempre. Entro il 2080, secondo il britannico Hadley Center for Climate Prediction and Research, un’estate su due sarà altrettanto o più calda di quella arroventata del 2003, quando in Europa si registrarono 20.000 morti in più.

L’Europa meridionale probabilmente si riscalderà prima, entro i prossimi due decenni, prevede l’Agenzia per l’Ambiente. Gli inverni gelidi, che si verificavano almeno una volta ogni dieci anni nelle tre scorse decadi, sono previsti in quasi totale scomparsa, continua McGlade.

Gli scienziati hanno già scoperto alcune prove concrete del cambiamento. “Fino a dieci anni fa avevamo a che fare per la maggio parte con previsioni e scenari” racconta Roberto Bertollini, direttore del Programma Speciale Salute e Ambiente all’ufficio europeo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. “Ora, purtroppo, negli ultimi anni siamo in grado di vedere e misurare gli effetti concreti”.

Alcuni degli esempi più studiati sono in Svezia, dove gli scienziati hanno documentato la diffusione delle zecche portatrici di malattie associata al riscaldamento delle temperature. Gli insetti – che trasportano il morbo di Lyme e una forma di encefalite – necessitano di caldo e inverni brevi per sopravvivere.

”Le variazioni del clima hanno effetti notevoli” dice Elisabeth Lindgren del dipartimento di ecologia dei sistemi all’Università di Stoccolma. “Vediamo malattie in zone dove non c’erano mai state prima, e più casi in quelle dove già esistevano”.

Negli anni ‘90, agli abitanti della Svezia del nord era stato comunicato che non erano vulnerabili rispetto a queste malattie, e non prendevano precauzioni inoltrandosi nei boschi. Ora, ad ogni primavera, le autorità svedesi distribuiscono carte con segnate le aree – in costante espansione – di rischio.

A causa degli inverni più caldi, i laghi svedesi contengono più batteri e detriti, con influenze sia sugli usi del tempo libero che sulla disponibilità idrica, dice Gesa Weyhenmeyer dell’Università Svedese di Scienze Agricole a Uppsala.

Nonostante il paese abbia fatto grandi sforzi per ripulire il lago Malaren, poco fuori Stoccolma, negli anni ’60 e ‘70, il mutamento del clima ha “annullato gli effetti della nostra gestione” prosegue Weyhenmeyer, aggiungendo: “Le autorità controllano certo la qualità dell’acqua, ma non ci si può più nuotare se non raramente per via delle alghe e dei batteri”. Le autorità italiane stanno considerando programmi simili per le spiagge mediterranee.

Con le temperature invernali in Svezia salite di 3 gradi negli anni ‘90, molte parti del paese hanno perso la coltre di ghiaccio e neve negli ultimi vent’anni, con effetti ecologici drammatici.

Con i terreni attorno al lago Malaren non più gelati nei mesi invernali, particelle marroni scivolano nell’acqua, facendo diventare quella potabile di Stoccolma sgradevolmente brunastra.

”Tutti vogliono risolvere il problema, ma è difficile capire come” dice Weyhenmeyer.

Qualche volta adattarsi al cambiamento risulta semplice. Il governo svedese incoraggia gli operatori forestali a piantare nuove specie di alberi che creascno meglio in un clima leggermente più caldo, per esempio. A Amburgo e Rotterdam, si stanno costruendo nuovi moli adatti al probabile innalzamento di livello dei mari.

In altri casi gli adattamenti sarebbero tanto costosi che le autorità preferiscono lasciare che la natura faccia il suo corso. Lungo le coste britanniche, Norfolk e Essex, i governi locali stanno prendendo in considerazione la possibilità di lasciare che le zone agricole già interessate da allagamenti, semplicemente affondino nel mare man mano si alza il livello.

”La cosa più sensata è che l’uomo si sposti, e che cambi la linea di costa” dice Klein.

”Non ci sono da pagare indennizzi. E questi campi probabilmente diventeranno ottime paludi salate, anziché cattivi terreni agricoli”.

Nota: il test originale al sito International Herald Tribune (f.b.)

Titolo originale: Denial in the Desert – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

L’orso polare sul suo blocco di ghiaccio galleggiante che si assottiglia è diventato l’icona simbolo dell’urgenza riguardo all’irreversibile mutamento climatico e riscaldamento globale. Anche i personaggi di basso profilo della Casa Bianca adesso riconoscono che i magnifici orsi potrebbero essere condannati all’estinzione col mare di ghiaccio che si scioglie e l’Oceano Artico che si trasforma per la prima volta da milioni di anni in un azzurro mare aperto. Il “grande esperimento geofisico” dell’umanità, come l’ha tratteggiato l’oceanografo Roger Revelle nella curva in brusca ascesa delle emissioni di anidride carbonica, ha strappato la natura alle sue fondamenta del Neocene, nelle zone attorno al circolo polare.

Ma non è soltanto l’Artico ad essere teatro di spettacolare e indubitabile cambiamento climatico, né gli orsi polari unici araldi della nuova era del caos. Vediamo per esempio alcuni lontani parenti dell’ Ursus maritimus: gli orsi neri che si abbuffano felici quanto minacciosi nelle fantastiche Chisos Mountains del Big Bend National Park in Texas. Potrebbero essere i messaggeri di una trasformazione delle Borderlands quasi altrettanto drastica di quella che sta avvenendo in Alaska o Groenlandia.

Camminando sulla via dello Emory Peak in una giornata innaturalmente calda del gennaio 2002, quando nei pensieri ancora incombevano le immagini apocalittiche del precedente [11] settembre, ho fatto la casuale conoscenza di un buffo e innocuo giovane orso in un campo di sosta. Le apparizioni degli orsi sono sempre un pochino magiche, e al momento ho pensato che si trattasse della conferma di una natura selvaggia ancora in gran parte intatta. In realtà, come ho ascoltato sorpreso da un ranger il giorno dopo, quel giovane orso era, per così dire, un mojado: progenie di recenti immigrati clandestini dall’altra sponda del Rio Grande.

Gli orsi neri erano comuni nelle montagne Chisos quendo queste erano la quasi mitica fortezza naturale degli incursori Apache Mescalero e Comanche fra il XVI e XVII secolo, ma gli allevatori li hanno senza posa cacciati sino all’estinzione, all’inizio del XX secolo. Poi, quasi miracolosamente nei primi anni ‘80, gli orsi sono ricomparsi fra le madrone e i pini di Emory Peak. Biologi esterrefatti hanno ipotizzato che fossero immigrati dalla Sierra del Carmen a Coahuila, attraversando a nuoto il Rio Grande e poi sessanta chilometri di deserto arroventato come una fornace, per raggiungere i Chisos, terra promessa di inoffensivi cervi e abbondante spazzatura.

Come i giaguari che si sono ristabiliti recentemente nelle montagne di confine dell’Arizona, o per altri versi il succhiasangue chupacabra del folklore ispanico che si dice sia stato avvistato nei sobborghi di Los Angeles, gli orsi neri fanno parte di una epica migrazione, di vita selvaggia così come di esseri umani, al otro lado. Anche se nessuno sa esattamente perché orsi, grossi felini e leggendari vampiri si stiano spostando a nord, un’ipotesi plausibile è che stiano adattando le proprie posizioni e popolazioni a una nuova era di siccità fra il nord del Messico e il sud-ovest degli USA.

La questione umana è definite in modo piuttosto netto: i ranchitos abbandonati e le città quasi fantasma in Coahuila, Chihuahua e Sonora testimoniano l’ininterrotta sequenza di annate di siccità – a partire dagli anni ’80, ma con vera intensità catastrofica alla fine dei ’90 – che ha spinto centinaia di migliaia di poveri delle campagne verso le fabbriche del lavoro nero di Ciudad Juárez e i barrios di Los Angeles.

Nel giro di qualche anno, la “siccità eccezionale” ha avvolto tutte le pianure dal Canada al Messico; in altri anni, le grandi macchie scarlatte sulle carte meteorologiche sono strisciate giù lungo la Costa del Golfo fino alla Louisiana o hanno scavalcato le Montagne Rocciose per raggiungere l’interno nord-occidentale. Ma gli epicentri quasi fissi sono rimasti i bacini del Colorado e del Rio Grande, e il nord del Messico.

Nel 2003, ad esempio, il lago Powell era calato di 25 metri in tre anni, e altri bacini essenziali lungo il Rio Grande erano ridotti a poco più di pozzanghere fangose. Contemporaneamente, l’inverno del 2005-2006 nell’area del sud-ovest è stato uno dei più secchi mai registrati, e a Phoenix non è caduta una goccia di pioggia per 143 giorni. Le rare interruzioni in questa siccità, come quel diluvio universale della scorsa estate (in alcune zone di El Paso sono caduti incredibilmente novanta centimetri di pioggia), non sono state sufficienti a ricaricare adeguatamente le falde o a riempire i bacini, e nel 2006 sia Arizona che Texas hanno riportato le peggiori perdite nelle colture e allevamenti di tutta la loro storia (complessivamente 7 miliardi).

La siccità costante, come il ghiaccio che si scioglie, riorganizza rapidamente gli ecosistemi e trasforma interi paesaggi. Senza umidità sufficiente a produrre la linfa protettiva, milioni di ettari di conifere pinyon e ponderosa sono stati devastati dalle invasioni degli scarafaggi della corteccia; le foreste morte, a loro volta, hanno provocato gli enormi incendi che si sono estesi sino ai sobborghi di Los Angeles, San Diego, Phoenix e Denver, distruggendo anche parti di Los Alamos. In Texas sono bruciate le praterie – quasi 800.000 ettari solo nel 2006 alone – e con la crosta superficiale di terra soffiata via dal vento, la prateria si trasforma in deserto.

Alcuni climatologi non esitano a definire tutto questo una “mega-siccità”, addirittura la “peggiore da 500 anni”. Altri sono più cauti, non ancora sicuri che l’attuale aridità del West abbia superato le famigerate soglie degli anni ’30 (la Dust Bowl nelle pianure meridionali) o degli anni ’50 (la devastante siccità del sud-ovest). Ma forse il dibattito non coglie esattamente la questione: Le ricerche più recenti e autorevoli rilevano come il “ rosso di sera all’ovest” (per evocare lo straordinario sottotitolo del libro di Cormac McCarthy, Blood Meridian) non sia un caso di siccità episodica, ma il nuovo “tempo normale” della regione.

In una sconvolgente testimonianza resa al National Research Council lo scorso dicembre, Richard Seager, geofisico esperto al Lamont Doherty Earth Observatory della Columbia University, ha avvertito che tutti i principali operatori di modelli climatici del mondo stavano ricavando i medesimi risultati dai propri computer: “Secondo i modelli, nel sud-ovest una condizione climatica simile a quella della siccità degli anni ’50 diventerà il nuovo clima corrente, nel giro di qualche anno, o decennio”.

Questa straordinaria previsione – “l’imminente prosciugarsi del sud-ovest USA” – è un prodotto collaterale del monumentale sforzo di elaborazione costruito da diciannove singoli diversi modelli climatici (come quelli simbolo di Boulder, Princeton, Exeter e Amburgo) per il Quarto Rapporto dello Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC).

Lo IPPC, naturalmente, è la corte suprema delle scienze del clima, istituito dalle Nazioni Unite e dall’Organizzazione Meteorologica Mondiale nel 1988 per valutare le ricerche sul riscaldamento del pianeta e i suoi impatti. Anche se adesso riconosce riluttante che come afferma lo IPCC l’Artico si sta rapidamente sciogliendo, il Presidente Bush probabilmente non ha ancora recepito la possibilità che il suo ranch di Crawford possa qualche giorno trasformarsi in una duna di sabbia.

I climatologi che studiano gli anelli di crescita delle piante e altre forme di archivi naturali, sono da tempo ben consapevoli che il sistema del trattato Colorado River Compact del 1922, distributore di acque verso le oasi in corso di urbanizzazione del sud-ovest, si basa su un rilievo del flusso del fiume di 21 anni (1899-1921) che, lungi dal rappresentare una media, in realtà è un’anomalia per eccesso d’acqua da almeno 450 anni. Più recentemente, si è cominciato a capire come continue Niñas (episodi di freddo nel pacifico equatoriale orientale) possano interagire con correnti calde nel Nord Atlantico subtropicale, a generare siccità nelle pianure e nel sud-ovest che possono durare per decenni.

Ma, come ha sottolineato Seager a Washington, le simulazioni dello IPCC indicano qualcosa di molto diverso dai soli episodi catalogati nel Lamont's North American Drought Atlas (compendio aggiornato di registrazioni dagli anelli di crescita degli alberi, dal 2 a.C. ad oggi). In modo inatteso, è la base climatica stessa, non solo alcune perturbazioni, che si sta modificando.

In più, questo brusco passaggio a un nuovo clima più estremo (“diverso da qualunque altro nello scorso millennio e probabilmente nell’Olocene”) non scaturisce da fluttuazioni nelle temperature degli oceani, ma da “schemi modificati circolazione atmosferica e movimenti di vapore acqueo, che si verificano come conseguenza del riscaldamento dell’atmosfera”. In sintesi estrema, i territori aridi diventeranno ancora più secchi, le zone umide ancora più umide. E il prosciugarsi del West si accompagnerà a temperature da fornace: il nuovo rapporto IPCC contiene l’incredibile previsione secondo cui le temperature nell’ovest americano aumenteranno in media di 9 gradi Fahrenheit entro la fine di questo secolo.

Gli eventi Niña, aggiunge Seager, continueranno a influenzare le precipitazioni piovose nelle Borderlands, ma nascendo da una base più arida esse potrebbero produrre i peggiori incubi per il West: siccità delle dimensioni delle catastrofi medievali che hanno contribuito al noto collasso delel società Anasazi a Chaco Canyon e Mesa Verde nel XII secolo (a peggiorare ulteriormente le cattive notizie che ci arrivano dai super-computer, si prevede una maggiore aridità anche per Mediterraneo e Medio Oriente, dove le forti siccità sono storicamente ben noto sinonimo di guerra, grandi migrazioni di popolazione e sterminio etnico).

E pure il semplice annuncio scientifico, anche col rombare unanime del tuono di 19 modelli climatici, probabilmente non sarà causa di molto turbamento sui campi da golf suburbani di Phoenix, dove uno stile di vita lussuoso consuma 2.000 litri d’acqua pro capite al giorno. Né fermerà le ruspe che danno forma alle mostruose fasce urbanizzate suburbane di Las Vegas (si prevedono 160.000 nuove abitazioni) lungo la statale 93 su tutto il percorso fino a Kingman, Arizona. Né, nonostante il possibile esaurimento per prelievo della grande falda di Ogallala, riserva d’acqua sotterranea che comprende otto stati nelle Grandi Pianure, si impedirà al Texas di raddoppiare la propria popolazione entro il 2040.

Anche se di recente si lanciano molti slogan su “ smart growth” e uso attento delle acque, i costruttori del deserto continuano a sfornare a raffica lottizzazioni “ dumb” nel modo ambientalmente inefficiente che ha devastato la California meridionale per generazioni. La carta vincente del pensiero liberista del sud-ovest, tra l’altro, è che la gran parte dell’acqua immagazzinata dai sistemi del Colorado e Rio Grande è ancora usata per alimentare l’agricoltura.

Anche se il “picco di disponibilità idrica” se ne è già andato da un pezzo, lo sprawl del deserto si può sostenere nel medio termine uccidendo cotone e alfalfa, e i grandi coltivatori si arricchiscono vendendo la propria acqua sovvenzionata dal governo federale agli assetati suburbi. Un prototipo di questo tipo di ristrutturazione si può vedere nella Imperial Valley, dove San Diego ha acquisito in modo molto aggressivo dei diritti idrici. Come ha notato un attento viaggiatore aereo di recente, il risultato è che sono in aumento grandi quadri essiccati e morti, nella scacchiera di smeraldo della valle composta da alfalfa e meloni.

E guardando ancor di più al futuro, c’è anche l’opzione “saudita”. Steve Erie, professore della Università della California di San Diego che ha molto scritto sulle politiche per l’acqua nella regione, mi ha raccontato che i costruttori del deserto del sud-ovest e di Baja California confidano di poter sostenere il boom demografico con una buona fornitura d’acqua convertendo quella del mare. “Il nuovo mantra degli organismi di controllo idrico naturalmente è quello di incentivare conservazione e recupero, mai rapaci costruttori stanno puntando i loro avidi occhi sull’Oceano Pacifico, e all’alchimia della dissalazione, senza badare alle più perniciose conseguenze ambientali”.

In ogni caso, sottolinea Erie, mercati e politica continueranno a sostenere il medesimo modello di suburbanizzazione rampante ad alto impatto che ora asfalta e ricopre di centri commerciali migliaia di chilometri quadrati di fragile deserto nel Mojave, Sonora e Chihuahua. Stati e città, ovviamente, si faranno una concorrenza ancora più aggressiva sulla distribuzione dell’acqua, “ma, complessivamente, queste macchine della crescita hanno il potere di strappare l’acqua ad altri usi”.

L’acqua diventa più cara, e il peso dell’adeguamento al nuovo regime climatico e idrogeologico ricade su gruppi subalterni come i lavoratori agricoli (posti di lavoro persi per trasferimenti delle risorse idriche), i poveri delle città (che potrebbero facilmente vedere le bollette aumentare di 100-200 dollari al mese), piccoli allevatori (compresi molti nativi americani) e, specialmente, le popolazioni rurali in pericolo del Messico settentrionale.

In realtà, la fine dell’era dell’acqua a buon mercato nel sud-ovest – specialmente se coincide con quella dell’energia a basso costo – accentuerà livelli già elevati di disuguaglianza sociale e razziale, oltre a spingere altri emigranti a giocarsi la vita nella pericolosa traversata dei deserti di confine (non ci vuole molta fantasia per immaginarsi il prossimo slogan dei Minutemen: “Vengono a rubare la nostra acqua!”).

I politici conservatori di Arizona e Texas si faranno ancora più avvelenati ed etnicamente prevenuti, sempre che sia possibile. Il sud-ovest ha già seminato ovunque un violento “nativismo” che si può soltanto definire come proto-fascismo: nelle siccità future, potrebbe essere l’unico seme destinato a germinare.

Come indica Jared Diamond nel suo recente successo editoriale Collapse, gli antichi Anasazi non sono stati spazzati via semplicemente dalla siccità, ma dall’impatto di un clima arido non previsto, su un ambiente già supersfruttato, abitato da persone poco pronte a fare sacrifici rispetto al proprio “costoso stile di vita”. Alla fine, hanno preferito divorarsi gli uni con gli altri.

Nota: su queste pagine, vari altri articoli di Mike Davis su diversi argomenti; a proposito di alcuni dei fatti e problemi toccati dall'ultima parte dell'articolo, si vedano qui le cartelle Spazi della Dispersione, e anche Consumo di Suolo (f.b.)



here English version

Titolo originale: Drowning New Orleans – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Un enorme uragano potrebbe seppellire New Orleans sotto sette metri d’acqua, uccidendo migliaia di persone. L’attività umana lungo il corso del Mississippi ha drammaticamente aumentato il rischio, e ora solo massicce opere di ingegneria nella Louisiana sud-orientale possono salvare la città.

Le casse sono ammucchiate sin quasi al soffitto lungo le pareti della stanza senza finestre. Dentro, ci sono body bags, 10.000 in tutto. Se un grosso uragano che si muove lentamente attraversasse il Golfo del Messico lungo la traiettoria giusta, genererebbe un sollevamento del mare tale da annegare New Orleans sotto sette metri d’acqua. “Quando l’acqua defluirà” dice Walter Maestri, direttore responsabile per le emergenze locali, “prevediamo di trovare molti cadaveri”.

Quello di New Orleans è un disastro che aspetta solo di accadere. La città si trova sotto il livello del mare, in una conca delimitata da argini che delimitano a nord il lago Pontchartrain e a sud e ovest il fiume Mississippi. A per via di una maledetta coincidenza di fattori, la città affonda sempre più, e il rischio di alluvioni aumenta sempre più anche per tempeste di entità minore. Le basse del Delta del Mississippi, che riparano la città del golfo, stanno rapidamente scomparendo. Fra un anno saranno spariti altri 65-80 chilometri quadrati di paludi costiere: la superficie di Manhattan. Ogni ora ne scompare un ettaro. E per ciascun ettaro che scompare si apre un sentiero più ampio perchè la tempesta si rovesci sul delta e dentro la conca, intrappolando un milione di abitanti, più un altro milione nei centri circostanti. Un’evacuazione di massa sarebbe impossibile, perché l’alluvione avrebbe tagliato le vie di fuga. Gli studiosi della Louisiana State University (L.S.U.), che hanno costruito modelli di centinaia di possibili percorsi dell’uragano su computer potentissimi, prevedono che potrebbero perdere la vita più di 100.000 persone. Quelle body bags non durerebbero molto.

Se non bastasse il rischio per le vite umane, il potenziale allagamento di New Orleans avrebbe gravi conseguenze sia economiche che ambientali. La costa della Louisiana produce un terzo del cibo nazionale di provenienza marina, un quinto del petrolio, e un quarto del gas naturale. Ospita il 40% delle zone umide costiere del paese, dove soggiorna d’inverno il 70% degli uccelli migratori acquatici. Le strutture portuali sul Mississippi da New Orleans a Baton Rouge costituiscono il più grosso complesso nazionale. E il delta alimenta un carattere unico della psicologia americana; è la sorgente primaria del jazz e del blues, fonte del Cajun e Creolo, e terra del Mardi Gras. Ma sino a questo momento, Washington ha respinto tutte le richieste di aiuti consistenti.

Sistemare il delta servirebbe come valido test, per il paese e per il mondo. Le zone umide costiere stanno scomparendo lungo il margine occidentale, gli altri stati del Golfo, la Baia di San Francisco, l’estuario del Columbia, per ragioni molto simili a quelle della Louisiana. Alcune zone di Houston stanno affondando più rapidamente di New Orleans. I grandi delta del pianeta – da quello dell’Orinoco in Venezuela, al Nilo in Egitto, al Mekong in Vietnam – sono oggi nelle medesime condizioni in cui si trovava il Delta del Mississippi 100-200 anni fa. La lezione di New Orleans potrebbe contribuire a fissare linee guida per un insediamento più sicuro in queste zone, e si potrebbero esportare tecniche di ripristino in tutto il mondo. In Europa, i delta del Reno, del Rodano e del Po stanno perdendo superfici. E se i livelli del mare saliranno a causa del riscaldamento globale nel prossimo secolo, numerose città costiere di bassa quota come New York dovranno prendere misure di protezione simili a quelle che si propongono per la Louisiana.

Vedere per Credere

Shea Penland è tra le persone più adatte a spiegare il blues del delta. Ora geologo alla University of New Orleans, ha passato 16 anni alla L.S.U.; è consulente del Corpo del Genio, che realizza gli argini; partecipa ai gruppi di lavoro statali e federali che attuano i progetti di sistemazione della costa; lavora anche per l’industria del petrolio e del gas. La sua competenza migliore però è quella di conoscere chiunque nelle piccole cittadine del bayou, zolle di terra e strisce di palude su e giù per la costa sbriciolata: gente che vive il degrado ogni giorno.

Penland, vestito in jeans e maglietta polo in una mattina di metà maggio, mi accoglie volentieri sul suo vecchio pickup Ford F150 rosso, per andare a esplorare cosa si sta divorando gli ottanta chilometri di paesaggio fradicio a sud di New Orleans. Il Mississippi ha costruito la pianura del delta che forma la Louisiana sud-orientale in secoli di sedimenti, depositati anno dopo anno nelle piene primaverili. Anche se poi sabbia e detriti si schiacciano sotto il proprio peso e affondano un po’, la prossima piena ricostruirà tutto. Ma a partire dal 1879, il Corpo del Genio, su mandato del Congresso, ha progressivamente allineato lungo il corso del fiume argini per prevenire i danni delle piene a città e industrie. Ora il fiume è imbrigliato dalla Louisiana settentrionale al Golfo, ed è impedito il deposito dei sedimenti. Di conseguenza, la piana sprofonda sotto l’oceano invasore. Con le zone umide, sparisce la protezione di New Orleans dal mare. Un’onda da uragano potrebbe raggiungere altezze superiori ai sette metri, ma ogni sei chilometri di acquitrino possono assorbire acqua a sufficienza ad abbatterla di 35 cm.

La pianura acquitrinosa attorno a New Orleans è ancora una spugna viva, una miscela in costante cambiamento di basse acque dolci, verdi erbe di palude e cipressi ricoperti da muschio spagnolo. Ma quando insieme a Penland raggiungiamo la metà strada verso la costa del golfo, la spugna ci appare seriamente strappata e allagata. Strade isolate su fondo di pietra passano davanti a case mobili ed ex bordelli, lungo zone un tempo bayou, e ora allagate; file di alberi spogli e morti; erbe marce e scure, specchi di acqua morta.

Giù a Port Fourchon, dove l’acquitrino risicato infine cede il posto al mare aperto, subsidenza ed erosione appaiono aggressive. L’unica strada da’ accesso solo a un gruppo di desolati edifici di lamiera ondulata, dove convergono le condutture di petrolio e gas naturale da centinaia di pozzi al largo. Innumerevoli piattaforme intrecciano una cupa foresta d’acciaio che cresce dal mare. Per trasportare i materiali le compagnie petrolifere hanno dragato centinaia di chilometri di canali, navigabili e per il passaggio delle condutture, attraverso gli acquitrini della costa e dell’interno. Per ogni taglio si sposta terra, e il traffico di imbarcazioni e le maree erodono stabilmente le rive. La media delle spiagge USA si erode di circa settanta centimetri l’anno, dice Penland, ma qui a Port Fourchon si perdono 12-15 metri l’anno: il ritmo più veloce del paese. La rete dei canali da’ anche all’acqua salata un facile accesso agli acquitrini dell’interno, aumentandone la salinità e uccidendo erbe e vegetazione di sottobosco dalle radici. Non resta nessuna pianta a impedire che vento e acqua si portino via il sistema delle zone umide. In uno studio finanziato dalle imprese petrolifere, Penland ha documentato come è questo settore industriale ad aver causato un terzo della perdita di superfici del delta.

La Scienza dell’Alligatore

I fratelli Duet conoscono di prima mano i vari fattori che accelerano l’erosione dei terreni diversa subsidenza naturale. Toby e Danny, due dei collaboratori locali di Penland lungo la strada, vivono su un sistema galleggiante da 15 metri ancorato al centro di un sistema di acquitrini discontinuo da 35 chilometri quadrati, a circa 30 chilometri a nord-ovest di Port Fourchon. La famiglia ha preso in affitto i terreni dalle compagnie petrolifere, per caccia e pesca, 16 anni fa, quando c’era solo un po’ d’acqua. Ora ce n’è da un metro e mezzo a due e mezzo. Loro filtrano l’acqua piovana per bere, depurano i propri scarichi, catturano il cibo che mangiano, e si guadagnano da vivere ospitando gruppi di pescatori sportivi per battute di una settimana. Ci sono una dozzina di pozzi nello specchio dove Toby ci prende su con la barca. Mentre risaliamo il canale, dice, “Una volta riuscivo a sputare sul fango di tutte e due le rive. Adesso da qui passano le grosse cisterne di petrolio”.

Dentro la grande cabina aperta dell’imbarcazione, Danny aggiunge altre misurazioni: “Due anni fa abbiamo affondato nel fango un grosso palo di legno a cui legare la trappola per alligatori, sul fianco di un canale. Sono passato di là l’altro giorno, e la riva del canale si era scostata di quasi sei metri dal palo. Non che conti molto, ad ogni modo. Gli alligatori se ne sono andati. Acqua troppo salata”.

Con la palude che scompare, l’unica difesa rimasta del delta sono alcune isole di barriera in disfacimento, che un secolo fa facevano parte della linea di costa. Il mattino successivo io e Penland viaggiamo per un’ora, fino al Louisiana Universities Marine Consortium, avamposto scientifico a Cocodrie, accampamento di studiosi e pescatori sul margine della costa. Da qui, usciamo in mare su una delle imbarcazioni grigie del consorzio.

La barca taglia quello che sembra un mare un po’ mosso per 50 minuti, per raggiungere Isles Dernieres (“ le ultime isole” in francese). Ma le onde non sono mai superiori a due metri. L’ampia distesa di acque basse un tempo era ricca di erbe ondeggianti, interrotte a volte da canaletti serpeggianti pieni di gamberetti, molluschi, trote. Penland tocca terra nel fango della baia. Attraversiamo solo un’ottantina di metri di striscia di sabbia spoglia prima di raggiungere l’oceano. Su ogni lato vediamo a distanza emergere altre piccole strisce simili. Sono quello che resta, di quella che un tempo era una grossa e solida isola lussureggiante di mangrovie nere. “Rompeva le onde oceaniche, riduceva gli effetti delle tempeste e manteneva lontana l’acqua salata, così l’acquitrino qui dietro riusciva a prosperare” rimpiange Penland. Ora l’oceano incombe.

Le isole barriera litoranee della Louisiana si stanno erodendo più velocemente che nel resto del paese. Milioni di tonnellate di sedimenti un tempo uscivano dalla bocca del Mississippi ogni anno, trascinate dalle correnti verso le isole, a ricostituire ciò che le maree avevano eroso. Ma, in parte a causa degli argini che impediscono al fiume negli ultimi chilometri di muoversi naturalmente, la bocca si è allargata a telescopio sul margine continentale. I sedimenti, semplicemente, cadono dal gradino subacqueo verso l’oceano profondo.

Di ritorno a New Orleans il giorno successivo, appare evidente come altre attività umane abbiano peggiorato la situazione. Cliff Mugnier, geodesista alla L.S.U. che collabora a tempo parziale col Genio, ci spiega il perché dal terzo piano del quartier generale del Corpo, un edificio rettangolare di cemento piazzato sull’argine del Mississippi costruito e ricostruito dal Genio per 122 anni.

Mugnier racconta che il terreno sotto il delta è fatto di strati di fango: una torba bagnata profonda centinaia di metri, costruita da secoli di piene. Quando il Genio arginò il fiume, città e industria bonificarono ampie superfici di acquitrino, che per decenni erano state considerate terre di nessuno. Fermare le piene ed eliminare l’acqua di superficie, ha consentito alle torbe meno profonde di seccarsi, restringersi e fare subsidenza, accelerando la discesa della città sotto il livello del mare (un processo già in corso, dato che le torbe si restringono naturalmente).

Ma non è tutto. Dato che la conca si fa più profonda, si allagherà durante le piogge. Allora il Genio, in collaborazione con il settore Acque e Fogne della città, ha iniziato a scavare una ragnatela di canali per raccogliere l’acqua piovana. L’unico modo di smaltirla era il lago Pontchartrain. Ma dato che il livello medio del lago è superiore di qualche decina di centimetri, si sono dovute costruire stazioni di pompaggio alle bocche dei canali per sollevare l’acqua fino al lago.

Le pompe servono ad un’altra funzione critica. Dato che i canali sono, essenzialmente, fossi, raccolgono anche acque dai terreni umidi. Ma se sono a pieno carico, non possono raccogliere acqua durante un temporale. Così la città fa funzionare le pompe regolarmente per risucchiare le infiltrazioni dai canali, il che toglie altri liquidi al terreno, aumentando prosciugamento e subsidenza. “Stiamo aggravando il problema” dice Mugnier. E il genio sta costruendo altri canali, e ampliando le stazioni di pompaggio, perché più sprofonda la città, più si allaga. Nel frattempo, strade corsie e vicoli si affossano, e le case esplodono per rottura delle condotte di gas naturale. Mugnier è anche preoccupato per le parrocchie (enti locali che qui sostituiscono le contee) attorno alla città, che stanno scavando altri canali man mano diventano più popolate. A St. Charles, a ovest, dice “la superficie potrebbe essersi abbassata anche 4 metri”.

Paura

Gli uomini non possono fermare la subsidenza del Delta, e non possono abbattere gli argini per consentire al fiume di scorrere naturalmente ed esondare, dato che la regione è urbanizzata. L’unica soluzione realistica, su cui concordano la maggior parte di ingegneri e studiosi, è quella di ripristinare i grandi acquitrini così che riescano ad assorbire le maree, e ricollegare le isole barriera litoranee a spezzare le onde e proteggere le recuperate paludi dal mare.

Sin dalla fine degli anni ’80 i senatori della Louisiana hanno presentato varie richieste al Congresso per finanziare grandi lavori di ripristino. Ma non sono stati sostenuti da un’azione unitaria. La L.S.U. aveva i suoi modelli idrografici, e il Genio ne aveva altri. Nonostante la concordia sulle soluzioni di massima, la concorrenza abbondava riguardo al tipo di progetti specifici più efficaci. Il Genio talvolta bollava gli appelli accademici contro il disastro a tentativi indiretti di ottenere più finanziamenti per la ricerca. L’accademia più volte ha risposto che l’unica soluzione del Genio per ogni problema sono le ruspe, i movimenti terra, rovesciare cemento senza alcuna razionalità scientifica. Intanto pescatori di ostriche e gamberetti lamentavano che sia i progetti degli accademici che dei genieri avrebbero distrutto le loro zone da pesca.

Len Bahr, a capo del Coastal Activities Office del governatore, a Baton Rouge, ha tentato di mettere tutti insieme. Vero appassionato della Louisiana meridionale, Bahr è sopravvissuto a tre governatori, ciascuno con orientamenti diversi. “Questo è un campo dove deve lavorare la scienza” dice. “Ci sono cinque uffici federali e sei agenzie statali con competenze su quanto accade nelle zone umide”. Per tutti gli anni ’90, racconta Bahr con frustrazione, “abbiamo avuto solo 40 milioni di dollari l’anno” dal Congresso, una goccia rispetto al secchio di cui abbiamo bisogno. Anche con le piccole opere e progetti resi possibili da questi finanziamenti, gli scienziati della Louisiana prevedono che entro il 2050 le coste dello stato perderanno altri 2.500 chilometri quadrati di paludi e acquitrini: la superficie dello stato del Rhode Island.

Poi è arrivato l’uragano Georges nel settembre 1998. I forti venti hanno accumulato una massa d’acqua alta più di cinque metri, più le onde, che ha minacciato di rovesciarsi nel lago Pontchartrain e allagare New Orleans. Era proprio il mostro da cui mettevano in guardia i primi modelli della L.S.U., e puntava dritto sulla città. Per fortuna, un attimo prima che Georges mettesse piede a terra, ha rallentato e deviato di due gradi verso est. L’onda è stata abbattuta da improvvisi caotici venti.

Un Grande Piano

Scienziati, ingegneri e politici hanno smesso di azzuffarsi, hanno capito che tutto il delta si avvicinava al disastro, e Bahr sostiene che è stata la fifa a metterli d’accordo. Verso la fine del 1998 l’ufficio del governatore, il Dipartimento statale delle Risorse Naturali, l’Agenzia di Protezione Ambientale, il Corpo del Genio, il Fish and Wildlife Service, e le 20 amministrazioni di parrocchia della costa, hanno pubblicato il programma di ripristino delle sponde della Louisiana: Coast 2050.

Ma nessuno dei gruppi coinvolti si riconosce interamente nel piano, e se si realizzassero tutti i progetti contenuti il cartellino del prezzo sarebbe di 14 miliardi. “Allora” chiedo, nella sala conferenze al nono piano degli uffici del governatore di Baton Rouge, “datemi la lista breve” dei progetti di Coast 2050 che farebbero la differenza. Ho di fronte Joe Suhayda, direttore alla L.S.U. del Louisiana Water Resources Research Institute, che ha ricostruito i modelli di numerosi eventi atmosferici, e conosce i rappresentanti principali del mondo della scienza, del Genio, dei responsabili per le mergenze cittadine; Vibhas Aravamuthan, che programma i computers della L.S.U. per i modelli; Len Bahr; e il suo vice, Paul Kemp. Tutti hanno partecipato alla redazione di Coast 2050.

La primissima cosa in ordine di tempo e di importanza, concordano, è costruire derivazioni del fiume in alcuni punti chiave del Mississippi, per ripristinare le zone umide in via di sparizione. In ciascun punto, il Genio taglia un canale attraverso l’argine sul lato sud, con paratie di controllo che consentano all’acqua dolce e ai sedimenti sospesi di filtrare attraverso zone umide individuate sino al mare. L’acqua potrebbe distruggere le zone delle ostriche, ma se le localizzazioni vengono selezionate con cura, è possibile fare accordi coi proprietari.

Ogni ora la Louisiana perde un ettaro di superficie

Il secondo passo: ricostruire le isole barriera meridionali, usando più di 500 milioni dimetri cubi di sabbia dalla vicina Ship Shoal. Poi, il Genio dovrebbe tagliare un canale attraverso lo stretto collo del delta, circa a metà. Le navi potrebbero entrare nel fiume da qui, accorciando il viaggio verso i porti dell’interno e risparmiando denaro. Si potrebbe così smettere di dragare la parte meridionale del fiume. La bocca si riempirebbe di sedimenti, iniziando a traboccare verso ovest, mandando sabbia e detriti dentro le correnti parallele alla costa, ad alimentare le isole barriera.

Il progetto del canale potrebbe integrarsi in un più ampio piano statale per realizzare un nuovo Millennium Port. Offrirebbe più pescaggio di quello di New Orleans alle grandi navi porta- container. Poi c’è il suo canale principale, il Mississippi River Gulf Outlet (MRGO, pronuncia Mr. Go), che il genio ha dragato nei primi anni ‘60. Questa struttura si è deteriorata terribilmente – dai 150 metri di larghezza originaria agli oltre 600 oggi nei punti più larghi – e lascia entrare una corrente continua di acqua salata che ha ucciso la gran parte delle zone umide che un tempo proteggevano la parte orientale di New Orleans dalle tempeste oceaniche. Se si costruissero il canale o il Millennium Port, il genio potrebbe chiudere Mr. Go.

Una crepa nell’armatura del delta, sono i varchi sul margine orientale del lago Pontchartrain dove si collega al golfo. La soluzione ovvia sarebbe quella di costruire delle dighe, come fa l’Olanda per regolare il flusso del Mare del Nord verso l’interno. Ma sarebbe troppo difficile da realizzare. “L’abbiamo proposto nel passato, ed è stato respinto” racconta Bahr. Il costi di realizzazione sarebbero estremamente elevati.

L’elenco dei progetti più promettenti di Coast 2050 è solo l’immagine di un piccolo gruppo, naturalmente, ma anche altri importanti esperti concordato sui punti fondamentali. Ivor van Heerden, geologo vice direttore del Centro Uragani alla L.S.U., riconosce che “per riuscire, dobbiamo imitare la natura. Costruire deviazioni e ripristinare le isole barriera è quanto di più vicino si può fare”. Shea Penland in generale è d’accordo, anche se ricorda che il Mississippi potrebbe non portare sedimenti a sufficienza per alimentare tutte le diversioni. Gli sudi del Servizio Geologico condotti da Robert Meade mostrano che la quantità di materiale in sospensione è meno della metà di quanto non fosse prima del 1953, in gran parte deviato dalle dighe lungo il corso del fiume attraverso mezza America.

Se non si agisce, un milione di persone potrebbe essere in trappola

Per quanto riguarda il Genio, si potrebbe attuare tutto il piano Coast 2050. Il primo progetto realizzato è la diversione di Davis Pond, che dovrebbe diventare operativa alla fine di quest’anno. Il direttore del progetto Al Naomi, trentenne ingegnere del Genio Civile, e Bruce Baird, esperto di biologia e oceanografia, mi accompagnano al cantiere sull’argine meridionale del Mississippi, trenta chilometri a ovest di New Orleans. La struttura ricorda una diga di modeste proporzioni, allineata all’argine. Paratie d’acciaio nella sezione centrale, ciascuna larga abbastanza da farci passare un autobus, si aprono e chiudono per regolare il flusso d’acqua. L’acqua sbocca verso un ampia distesa di ex palude che si estende a sud per un chilometro e mezzo, formando un basso fondale di fiume che si espande lentamente in un acquitrino senza margini. L’impianto devia circa 5.000 metri cubi d’acqua al secondo dal Mississippi, la cui portata totale dopo New Orleans va da meno di 90.000 mc/sec nei periodi di magra a oltre 500.000 durante le piene. Il prelievo dovrebbe consentire di conservare 13.500 ettari di zone umide, aree di allevamento ostriche e da pesca.

Il Genio è piuttosto spavaldo riguardo a Davis Pond, per via del successo a Caernarvon, un piccolo impianto sperimentale di deviazione inaugurato nel 1991 vicino a Mr. Go. Al 1995 Caernarvon aveva ripristinato 164 ettari di acquitrino, aumentano i sedimenti e riducendo la salinità attraverso l’acqua dolce.

Chi dovrebbe pagare?

Il genio sta ingaggiando scienziati per progetti come quello di Davis Pond, un segnale che le varie parti in causa stanno cominciando a lavorare meglio insieme. A Bahr piacerebbe integrare scienza e ingegneria un po’ di più, richiedendo un esame scientifico indipendente dei progetti ingegneristici, prima dell’approvazione statale: necessaria perché il Congresso richiede che lo stato sostenga parte dei costi dei lavori.

Se il congresso e il presidente Bush si trovassero di fronte ad una richiesta d’azione unificata, sembrerebbe ragionevole un via libera. Il restauro della costa della Louisiana proteggerebbe le industrie alimentari legate al mare, e le scorte di petrolio e gas naturale. Salverebbe anche le più importanti aree umide d’America, con una audace operazione ambientale. E se non si intraprendesse alcuna azione, il milione di abitanti fuori da New Orleans dovrebbe essere trasferito. L’altro milione dentro la città vivrebbe in fondo a un cratere che affonda, circondato da pareti sempre più alte, intrappolato in una città nello stadio terminale della malattia, dipendente da un continuo pompaggio per rimanere in vita.

Finanziare la ricerca e le opere di cui c’è bisogno, farebbe anche scoprire metodi migliori per tutelare le zone umide del paese in via di estinzione, e insieme i delta in crisi del pianeta. Migliorerebbe la comprensione della natura e dei suoi fenomeni di lungo respiro da parte dell’umanità: e i rischi di interferire, anche quando lo si fa con buone intenzioni. Potrebbe aiutare i governi ad apprendere come ridurre al minimo i danni dall’aumento dei livelli del mare, dagli eventi atmosferici violenti, in un’epoca per cui lo U.S. National Oceanic and Atmospheric Administration prevede tempeste di forte intensità a causa del mutamento climatico.

A Walter Maestri non piace questa prospettiva. Quando Allison, la prima tempesta tropicale della stagione degli uragani 2001, ha scaricato tredici centimetri di pioggia al giorno su New Orleans per una settimana in giugno, sono andati quasi al massimo delle possibilità i sistemi di pompaggio. Maestri ha passato le notti nel suo bunker di comando a prova di alluvione costruito sottoterra per proteggerlo dalle raffiche di vento; da lì comunicava con la polizia, le squadre di emergenza, i pompieri e la Guardia Nazionale. Era solo pioggia, eppure metteva in allarme le squadre di intervento. “Qualunque grossa quantità d’acqua, qui è una minaccia pericolosa” dice. “Anche se devo prepararmi, non voglio nemmeno pensare alla perdita di vite umane che potrebbe causare un grosso uragano”.

Nota: il testo originale al sito dello Scientific American ; suona piuttosto male, dopo questo saggio, il discorso del presidente Bush (tradotto qui su Eddyburg)a seguito dell'uragano Katrina, che ha provocato migliaia di morti a New Orleans ; su Eddyburg, anche il piano Coast 2050 ; l'articolo tradotto dello Scientific American è scaricabile anche direttamente da qui in PDF (f.b.)

Il lento evaporare del ciclo della vita

Guido Viale – la Repubblica, 6 marzo 2007

Per Talete da Mileto l´acqua era il principio e il fondamento (arkhé) di tutte le cose perché ogni cosa si genera e vive nell´umido. L´acqua, insieme all´aria, al fuoco e alla terra, è uno dei quattro elementi fondamentali della fisica presocratica; ma quei quattro elementi continuano a essere il riferimento ultimo delle analisi di impatto delle attività umane anche oggi. L´analisi del ciclo di vita (Life Cycle Assessement), infatti, analizza l´impatto ambientale dei beni in base alla quantità di quegli stessi elementi consumata per produrli, per distribuirli, per smaltirli o riciclarli e durante il loro uso o consumo. E se oggi il fuoco si chiama energia e si calcola in calorie o in joule, la terra si chiama materia, e in analisi di questo tipo si calcola in tonnellate o in metri cubi, l´aria si calcola in normali metri cubi (quelli necessari per diluire la concentrazione degli inquinanti emessi al di sotto della loro soglia critica, cioè quella comprovatamene nociva per la salute umana), l´acqua è sempre l´acqua: quella che tutti conoscono dalla notte dei tempi e a tutte le latitudini, attingendola, quando c´è, dalle sorgenti, dai pozzi, dalle fontane, dai rubinetti, o dalle bottiglie di acqua cosiddetta "minerale".

Per l´uomo primitivo, preurbano - o non ancora completamente trasformato dalla dimensione urbana della civiltà - il mondo è popolato da esseri animati, dotati di una vita propria; entrare in contatto con essi vuol dire condividere, nel bene e nel male, una parte della loro anima; non lo si può fare se non attraverso una serie di riti propiziatori. Soprattutto con l´acqua e con il fuoco. Molte religioni tramandano nei loro riti una traccia di questo sentire primordiale. La reverenza verso le virtù purificatrici dell´acqua si conserva nel battesimo cristiano, nell´immersione nel fiume degli induisti, nel bagno sacro degli ebrei, nelle abluzioni prima della preghiera degli islamici.

Anche per l´uomo moderno il mondo fisico (ribattezzato ambiente) non è costituito solo da cose. Ogni bene ha in sé qualcosa che lo anima e gli dà valore. L´anima delle cose del mondo moderno è il prezzo, che riduce ogni cosa a merce e la mette con ciò in relazione con tutte le altre. Il prezzo è una relazione puramente quantitativa: il programma galileiano di matematizzazione del mondo ha trovato la sua piena realizzazione non nelle scienze della natura - sempre di più alle prese con il problema della complessità, che introduce elementi di indeterminazione nel progetto riduzionistico di un universale determinismo meccanico - bensì nelle diverse branche dell´economia, che non incontrano remore nell´attribuire un prezzo a ogni cosa, compresa la vita umana o la qualità dell´ambiente.

La privatizzazione dell´acqua, cioè la sua trasformazione in merce, viene giustificata con il fatto che, in regime di scarsità, solo la gestione di impresa evita gli sprechi e limita i consumi: una tesi smentita dal fatto che con l´ingresso delle multinazionali dell´acqua nelle gestioni delle risorse idriche di molti paesi del Terzo mondo le piscine dei ricchi continuano a venir riempite di acqua corrente, mentre i quartieri dei poveri rimangono a secco. "È l´economia, stupido!", direbbe qualcuno.

Tra l´approccio dell´uomo primitivo - l´acqua è di tutti: un bene sempre disponibile - e quel compimento della modernità che si realizza attraverso l´appropriazione privata dell´acqua - un bene di cui insieme all´aria, per oltre due secoli, i manuali di economia avevano fatto i paradigmi di risorse sottratte al regime di scarsità, che dà invece un prezzo, cioè trasforma in merci, tutte le altre - l´evoluzione storica ha attraversato un lungo periodo in cui l´acqua è stata considerata un bene comune, che richiede cure, tutela, regole condivise: sia a livello locale che nel più vasto territorio di nazioni e imperi, molti dei quali (Egitto, Mesopotamia, Cina, India, eccetera) si sono costituiti proprio per garantire una gestione comune delle acque. A tutela dell´acqua si sono organizzate tanto le comunità delle oasi (che dalla scarsità dell´acqua non sono mai state indotte a privatizzarla, bensì ad attivarne una minuziosa e accurata gestione comune) quanto i costruttori degli acquedotti romani, delle fontane che costituivano il centro - e spesso anche il simbolo - dei comuni medioevali e della città rinascimentale; fino ai grandi progetti idraulici dei certosini e poi di Leonardo da Vinci a quelli varati per garantire il rifornimento idrico all´espansione urbana e allo sviluppo manifatturiero indotti dalla rivoluzione industriale.

Evoluzione e non progresso; perché proprio l´approccio all´acqua ci dimostra quanto la storia umana sia capace non solo di passi avanti, ma anche di corse indietro. Della città industana di Mohenjo Daro (3000 a. c.) abbiamo ancora i resti delle terme in cui i suoi abitanti andavano a lavarsi; e così nelle città romane e - fino ai giorni nostri - nelle medine arabe e in mille altri posti del mondo. Ma la de-urbanizzazione delle epoche di crisi ha spesso coinciso con la rottura e la decadenza degli impianti idrici che rifornivano le città e ne salvaguardavano l´igiene; e una vera e propria demonizzazione dell´acqua - e del suo uso a fini igienici - ha interessato il tardo medioevo e l´inizio del mondo moderno, mano a mano che in Europa, con la persecuzione delle streghe, cioè delle detentrici di un´arte medica tramandata oralmente, prendeva il sopravvento una scienza medica coltivata e professata da soli uomini, che sconsigliavano in tutti i modi il contatto con l´acqua, colpevole di aprire ai contagi i pori del corpo. Questa eclissi della ragione in nome della scienza ha avuto il suo emblema in Luigi XIV, il Re Sole, che fece un solo bagno in 66 anni di regno.

Oggi, mentre il consumo di acqua - nei paesi che possono permetterselo - ha raggiunto la media astronomica di 500 litri al giorno pro capite, più di un miliardo di abitanti del pianeta non riesce a raggiungere la media pro capite (una media tra chi ha la villa con piscina e chi vive in uno slum senza fontane e senza cessi) di 20 litri al giorno, che è quanto l´Onu ritiene il minimo vitale. Nonostante i dimenticati Millennium Goals, proclamati alla svolta del secolo, prospettino l´azzeramento della popolazione a corto di acqua per il 2025, il futuro appare ormai peggiore del presente. Perché la popolazione aumenta, soprattutto nei paesi che sono già oggi senz´acqua; perché aumenta la desertificazione, cioè il territorio dove l´acqua non è sufficiente a sostenere la vegetazione; perché aumenta il consumo di acqua per alimentare lo sviluppo economico, inducendo prelievi che superano la portata di falde che si abbassano di giorno in giorno; perché, a causa di inadeguate gestioni dei sistemi idrici, molta acqua è inquinata e non più utilizzabile.

L´acqua, ci dicono i costruttori di scenari, è il petrolio del futuro: nel senso che presto ci accorgeremo che è ancora più scarsa e "a termine" del petrolio. Anche perché, ormai, una quota crescente dei rifornimenti di acqua dipende proprio dall´energia generata con il petrolio: pompaggi per sfruttare falde sempre più profonde e per creare la pressione necessaria a raggiungere i rubinetti; depuratori per ridurne l´inquinamento e dissalatori per estrarre acqua dolce dal mare. Per millenni l´acqua, con le sue cadute (prima i mulini, poi le centrali idroelettriche) è stata la principale fonte di energia non animale a cui hanno attinto le attività dell´uomo. Oggi è l´energia, in larghissima parte generata dal petrolio, a garantirci una quota crescente dell´acqua che consumiamo.

Intorno a questa risorsa, si stanno preparando - e a volte già conducendo - tre guerre che decideranno del futuro dell´umanità: la prima è quella tra stati, per la ripartizione di risorse idriche comuni: fiumi, falde, laghi; la seconda è quella delle imprese dell´acqua contro cittadini, per appropriarsi e fare profitti con il più importante bene comune di un territorio; la terza, forse la più importante, è quella tra l´uomo e il suo ambiente: quella che succhia e inquina le riserve idriche del pianeta, invece di mettere il patrimonio di conoscenze di cui disponiamo al servizio di un uso dell´acqua più sobrio, più intelligente, più previdente, salvaguardando così le generazioni future.

Il grande business del nostro secolo

Intervista a Carlo Petrini di Antonio Gnoli – la Repubblica, 6 marzo 2007

Carlo Petrini fondatore di Slow Food, artefice di Terra madre, la rassegna internazionale dedicata all´importanza delle economie locali, autore di vari e importanti libri che hanno come tema l´alimentazione in rapporto all´ambiente, ironizza sulle scoperte scientifiche: «Ogni tanto apri un giornale e leggi che su Marte c´è acqua. E uno pensa: se c´è acqua c´è vita. È una bella fantasia che potremmo rovesciare: la Terra rischia di diventare come Marte, un pianeta con tracce d´acqua e qualche forma di vita. Vogliamo arrivare a questo? Beh, ci stiamo riuscendo. Lo stadio attuale delle nostre civiltà ha sviluppato un elemento autodistruttivo che preoccupa e l´acqua - l´uso che si sta facendo di questo bene primario - contribuisce a peggiorare la situazione. Di tutti gli elementi che gli antichi filosofi conoscevano e sui quali fondavano le loro cosmologie, l´acqua era il più rilevante, il più duttile, il più dolce»

Anche il più pericoloso come insegna il "Diluvio".

«È vero, di acqua si può morire. Il Diluvio che Dio scatena ci ammonisce e mette in guardia circa la nostra condotta. Ma proverei a leggere quella narrazione, che non è soltanto nella Bibbia, come una metafora di cosa rischia l´umanità quando perde di vista se stessa. Naufragi, tempeste, marosi, inondazioni hanno come protagonista negativa l´acqua. È il suo lato inquietante e letterariamente suggestivo. Ma oggi soffriamo non per eccesso di acqua bensì per difetto. La modernità ha di fronte uno scenario in cui i grandi beni collettivi sono a rischio esaurimento. È una situazione drammatica che non si può continuare a ignorare».

Si può quantificare questa drammaticità?

«Certamente. Intanto un primo dato: negli ultimi cinquant´anni il consumo dell´acqua è stato molto superiore all´aumento della popolazione. Se si guarda alla densità di consumo dell´acqua nelle diverse zone del pianeta vediamo che noi europei, che siamo il 12% della popolazione mondiale, possediamo l´8% delle risorse idriche. E ne facciamo un uso smodato. In Asia la situazione è drammatica: c´è il 60% della popolazione mondiale che ha il 35% delle risorse idriche. Nell´America del Sud il rapporto si capovolge».

È un problema demografico molto serio, pare di capire. Ma non ritiene che il vero dramma sia esploso per l´uso selvaggio e irrazionale che si fa dell´acqua?

«I paesi ricchi credono che sia ancora una risorsa inesauribile. Pensano che il problema non li toccherà. E sbagliano. In quest´ultimo mezzo secolo, in certe zone del mondo, si è intaccato in modo irreversibile il livello delle falde freatiche. Provocando danni ambientali in molti casi irreparabili».

L´acqua, dicono gli esperti, diverrà un bene prezioso e commerciabile come il petrolio.

«Già l´idea di paragonarla all´"oro nero" ci mette su una strada piena di fraintendimenti. Cosa vogliamo fare dell´acqua, una nuova arma di ricatto? Mi preoccupa la tendenza a ricavarne il grande business del ventunesimo secolo. Cresce la privatizzazione dell´approvvigionamento idrico, nascono colossi dell´acqua che decidono chi e come può usarla. La domanda è decisiva: l´acqua è un bene commerciabile al pari di altri o è prima di tutto un diritto dell´uomo?».

Una prima distinzione occorre introdurre tra uso industriale e privato di questo bene. Lei come vede la questione?

«Il settanta per cento delle esigenze idriche sono destinate all´agricoltura. A fronte della crescita della popolazione, si ipotizza un dieci per cento in più di consumo d´acqua. Quindi la situazione è destinata ad aggravarsi. La produzione di un manzo richiede il consumo di oltre 10 mila litri d´acqua»

Un´automobile ne richiede quindici volte di più.

«È un´aggravante. A me interessa attrarre l´attenzione sul sistema alimentare che è diventato insostenibile. Gli allevamenti intensivi dei maiali sono ormai una bomba ecologica. Le deiezioni dei suini inquinano la prima e la seconda falda acquifera. Se applicassimo questo modello ad altri parti del pianeta la situazione esploderebbe».

È ciò che sta accadendo in zone un tempo tradizionalmente chiuse come Cina e India.

«È in corso un genocidio culturale di proporzioni gigantesche. Milioni di contadini estromessi dalle campagne, inurbati a forza. È la nuova Asia che avanza. Quello che sta accadendo lì, da noi è già successo con l´emigrazione forzata. Ma oggi non può più essere questo il modo per uscire dalla fame».

Che cosa suggerisce?

«È chiaro che il piano della politica delle acque non può essere deciso da un singolo Stato. L´utilizzo dei fiumi e dei laghi, che spesso attraversano o toccano molti paesi, implica un impegno multilaterale e poi c´è una questione più di fondo».

Quale?

«Una politica delle risorse fondata esclusivamente sullo sviluppo e la crescita economica ci condurrà al disastro. Si tratta viceversa di proteggere e valorizzare le risorse primarie, i beni che sono della collettività. Per farlo occorre rendere protagonista l´economia locale».

Non è una proposta irrealizzabile nel tempo della globalizzazione?

«Diciamo che è molto difficile. Tra l´altro siamo orfani di una istituzione che assuma sulle sue spalle lo sguardo complessivo della terra. Ma se si vogliono governare bene le risorse che abbiamo a disposizione non si può farlo senza conoscere bene l´identità dei territori. Oggi si tende a privilegiare le produzioni monoculturali. Con la conseguenza che l´ambiente è sfruttato in modo irrazionale e nocivo. Occorrerebbe un rapporto diretto con il territorio. È una delle prime leggi dell´agronomia, che il movimento di Terra Madre ha fatto suo: conoscere e rispettare ciò che si usa. L´acqua non fa eccezione».

L'orso polare sul suo banco di ghiaccio sempre più piccolo è diventato l'icona pressante del riscaldamento globale e del cambiamento climatico galoppante. Persino l'inquilino della Casa Bianca, convinto com'è che la terra sia piatta, adesso ammette che i maestosi orsi potrebbero essere destinati all'estinzione man mano che il ghiaccio marino si scioglie e l'Oceano Artico si trasforma in acqua azzurra per la prima volta da milioni di anni. Il «grande esperimento geofisico» dell'umanità, come l'oceanografo Roger Revelle chiamò molto tempo fa la curva delle emissioni di diossido di carbonio in forte crescita, nelle terre del circolo polare ha buttato giù la Natura dalle sue fondamenta oloceniche.

Ma l'Artico non è l'unico teatro di un cambiamento climatico spettacolare e inequivoco, né gli orsi polari sono gli unici araldi di una nuova epoca di caos. Si pensi, ad esempio, ad alcuni dei lontani parenti dell'Ursus maritimus: gli orsi neri che abitano felicemente ma sinistramente le leggendarie Chisos Mountains del parco nazionale Big Bend, Texas. Potrebbero essere loro i messaggeri di una trasformazione ambientale nelle terre di confine radicale quasi quanto quella che sta avvenendo in Alaska o in Groenlandia.

In una giornata straordinariamente calda del gennaio 2002, sulla strada di Emory Peak, con la mente ancora attraversata dalle immagini apocalittiche del settembre precedente, feci la conoscenza occasionale di un giovane orso giocherellone e innocuo in un accampamento. Le apparizioni di orsi sono sempre un po' magiche, e pensai che l'incontro fosse l'espressione di una wilderness ancora largamente intatta. In realtà, come appresi allarmato il giorno successivo da un ranger, il giovane orso era, per così dire, un mojado - la progenie di migranti recenti e non documentati provenienti dall'altro lato del Rio Grande.

Gli orsi neri erano comuni sulle Chisos quando queste costituivano il rifugio semi-leggendario dei predatori apache mescalero e comanche nei secoli XVII e XVIII, ma i rancheros gli dettero implacabilmente la caccia fino a provocarne l'estinzione all'inizio del XX secolo. Poi, quasi miracolosamente, all'inizio degli anni '80 del Novecento, gli orsi sono riapparsi tra le madrone (arbusti sempreverdi, ndt) e i pini di Emory Peak. Stupefatti, i biologi ipotizzarono che gli orsi fossero migrati da Sierra del Carmen fino al Coahuila, nuotando nel Rio Grande e attraversando 40 miglia di deserto infuocato per raggiungere le Chisos, una terra promessa di cervi docili e rifiuti abbondanti.

Come i giaguari che negli ultimi anni si sono ristabiliti nelle montagne dell'Arizona o - se è per questo - il chupacabra assetato di sangue del folklore norteno avvistato nei sobborghi di Los Angeles, gli orsi neri partecipano a un'epica migrazione della fauna, oltre che di persone, al otro lado. Anche se nessuno sa esattamente perché orsi, grossi felini e leggendari vampiri si stiano spostando verso nord, un'ipotesi plausibile è che essi stiano adattando il loro raggio d'azione e la loro popolazione a un nuovo regno della siccità nel nord del Messico e nel Southwest degli Stati uniti.

Il caso umano è chiaro: ranchitos abbandonati e città quasi fantasma in tutto il Coahuila, il Chihuahua, e il Sonora (tre stati del Messico, ndt) testimoniano quella successione inesorabile di annate secche - iniziata negli anni '80 ma diventata veramente catastrofica alla fine degli anni '90 - che ha spinto centinaia di migliaia di poveri provenienti dalle campagne verso i laboratori clandestini di Ciudad Juarez e i barrios di Los Angeles.In alcuni anni, la «siccità eccezionale» ha travolto tutte le pianure dal Canada al Messico; in altri anni, rosse conflagrazioni sulle carte meteorologiche si sono incuneate lungo la costa del Golfo fino alla Louisiana o hanno attraversato le Montagne Rocciose fino alle regioni interne del Northwest. Ma gli epicentri semi-permanenti sono rimasti il Texas, l'Arizona, e gli stati del Messico loro fratelli. Nel 2003, ad esempio, il lago Powell risultava essersi abbassato di circa 80 piedi (pari a m. 2,43 circa, ndt) in tre anni, e i bacini idrici fondamentali lungo il Rio Grande erano poco più che pozzanghere. Nel frattempo, nel Southwest, l'inverno del 2005-2006 è stato uno dei più secchi a memoria d'uomo, e Phoenix è rimasta 143 giorni senza una sola goccia di pioggia. Le rare interruzioni della siccità sono state insufficienti a ricaricare adeguatamente le falde acquifere o a riempire i bacini, e nel 2006 sia l'Arizona che il Texas hanno lamentato le peggiori perdite in termini di raccolti e di bestiame mai registrate nella storia per siccità (circa 7 miliardi di dollari).

Tempesta di fuoco su L.A.

La siccità permanente, come il ghiaccio che si scioglie, riorganizza rapidamente gli ecosistemi e trasforma interi paesaggi. Senza abbastanza umidità per produrre linfa protettiva, milioni di acri di pini come il pinyon e il pino ponderoso sono stati devastati da una invasione di scarabei della corteccia; queste foreste e chaparral (macchie simili alla macchia mediterranea, ndt) senza vita, a loro volta, hanno alimentato le tempeste di fuoco che hanno incendiato i sobborghi di Los Angeles, San Diego, Las Vegas e Denver, oltre a distruggere una parte di Los Alamos. In Texas sono andati a fuoco anche i terreni erbosi - quasi 2 milioni di acri solo nel 2006 - e man mano che lo strato superiore del terreno vola via, le praterie si trasformano in deserti.

Alcuni climatologi non hanno esitato a definire quella in corso una «megasiccità», definendola addirittura «la peggiore in 500 anni». Altri sono più cauti: non sono ancora sicuri se l'attuale aridità nell'ovest abbia superato le famose soglie raggiunte nel Novecento: negli anni '30 con il «Dustbowl» nelle Pianure del sud, e negli anni '50 con una siccità devastante nel Southwest. Ma forse il dibattito non è pertinente: la ricerca più recente e autorevole sta riscontrando che il «rosso di sera nel west» (per citare l'inquietante sottotitolo di Meridiano di sangue di Cormac McCarthy) non è semplicemente una siccità episodica, ma la nuova «normalità climatica» della regione. In una allarmante testimonianza davanti al National Research Council lo scorso dicembre, Richard Seager, un esperto geofisico del Lamont Doherty Earth Observatory della Columbia University, ha avvisato che i super-computer dei principali studiosi dei modelli climatici del pianeta stanno sfornando tutti lo stesso risultato: «Secondo i modelli, nei prossimi anni o decenni, nel Southwest il nuovo clima sarà un clima simile alla siccità degli anni '50».

Questa straordinaria previsione è un sottoprodotto del monumentale sforzo di calcolo ottenuto da 19 modelli climatici separati (comprese le navi ammiraglie di Boulder, Princeton, Exeter e Amburgo) per il IV Rapporto di valutazione del panel intergovernativo sul cambiamento climatico (Fourth Assessment Report of the Intergovernmental Panel on Climate Change - Ipcc).

Naturalmente l'Ipcc è la corte suprema della scienza climatica. Fu istituito dalle Nazioni unite e dall'Organizzazione meteorologica mondiale nel 1988 per valutare la ricerca sul riscaldamento globale e i suoi effetti. Probabilmente il presidente Bush - anche se ora accetta, benché malvolentieri, l'allarme lanciato dall'Ipcc secondo cui l'Artico si sta rapidamente sciogliendo - non ha ancora realizzato la possibilità che il suo ranch a Crawford un giorno diventi una duna di sabbia.

I climatologi che studiano gli anelli degli alberi ed altri archivi naturali sanno da tempo che il Patto del fiume Colorado (Colorado River Compact) del 1922, che assegnò l'acqua alle oasi del Southwest in rapida urbanizzazione, poggia su una storia lunga 21 anni (1899-1921) di piene. Lungi dall'essere una media, questa è in effetti l'anomalia più bagnata in almeno 450 anni. Più recentemente i climatologi hanno capito come persistenti Las Niñas (episodi freddi nel Pacifico equatoriale orientale) riescono a interagire con fasi calde nell'Atlantico settentrionale subtropicale per generare siccità nelle Pianure e nel Southwest che possono durare decenni.

Ma, come ha sottolineato Seager a Washington, le simulazioni dell'Ipcc puntano a un qualcosa di molto diverso dagli episodi aridi catalogati nel Lamont's North American Drought Atlas (un compendio aggiornato delle osservazioni degli anelli degli alberi dal II secolo A.C. ad oggi). Inaspettatamente, è lo stesso clima base a cambiare, e non solo le sue perturbazioni.

Inoltre questa brusca transizione verso un clima nuovo e più estremo «diverso da qualunque altro nell'ultimo millennio, e probabilmente nell'Olocene» scaturisce non da fluttuazioni delle temperature oceaniche, ma dalla «trasformazione dei modelli della circolazione atmosferica e del trasporto del vapore acqueo che sorgono come conseguenza del riscaldamento atmosferico». In poche parole, le terre aride diventeranno più aride, e le terre umide, più umide. Gli eventi Las Niñas, ha aggiunto Seager, continueranno a influenzare le precipitazioni nelle terre di confine, ma costruendo da fondamenta più aride, potrebbero produrre i peggiori incubi dell'Occidente: siccità delle dimensioni delle catastrofi medievali che contribuirono al famoso crollo delle complesse società anasazi del Chaco Canyon e della Mesa Verde durante il XII secolo (a rendere ancora peggiori le notizie dei super-computer, la maggiore aridità è prevista anche per molta parte del Mediterraneo e del Vicino Oriente dove una siccità epica è un sinonimo storicamente ben conosciuto di guerra, migrazione delle popolazioni ed etnocidio).

Niente panico sui campi da golf

Eppure è improbabile che il semplice allarme scientifico, nonostante provenga da 19 modelli climatici unanimi, determini molta agitazione nei sobborghi di Phoenix dotati di campi da golf, dove gli stili di vita lussuosi bruciano ogni giorno 400 galloni d'acqua pro-capite (circa 1500 litri, ndt); né impedirà ai bulldozer di dare forma ai mostruosi strip suburbs di Las Vegas (si progettano 160.000 nuove case) lungo la US 93 fino a Kingman, Arizona; né impedirà al Texas di raddoppiare la sua popolazione entro il 2040 nonostante il possibile svuotamento della falda acquifera di Oglalla.

Sebbene recentemente siano stati lanciati molti slogan sulla «crescita intelligente» e su un uso intelligente dell'acqua, gli investitori immobiliari del deserto stanno ancora progettando i sobborghi con lo stesso stampino «ottuso» e inefficiente dal punto di vista ambientale che ha mortificato la California del sud per generazioni. Inoltre, l'asso nella manica della libera impresa del Southwest è che la maggioranza dell'acqua conservata nei sistemi del fiume Colorado e del Rio Grande viene ancora destinata a irrigare l'agricoltura.

Nel medio termine, almeno, l'urbanizzazione selvaggia del deserto riuscirà ad autosostenersi uccidendo il cotone e l'erba medica, mentre i grandi coltivatori continueranno a fare soldi vendendo ai sobborghi assetati la loro acqua sovvenzionata a livello federale. Un prototipo di questa ristrutturazione è già visibile in California nella Imperial Valley, dove San Diego sta aggressivamente acquistando i diritti sull'acqua. La conseguenza è che un osservatore attento, se sorvolasse la regione, noterebbe un recente aumento di zone morte nella scacchiera smeraldina di erba medica e meloni della valle.

Più futuristicamente, c'è anche l'opzione «saudita». Steve Erie, un professore della University of California San Diego, che ha scritto molto delle politiche sull'acqua nella California del sud, mi ha detto che gli investitori immobiliari del deserto nel Southwest e nella Baja California confidano di poter tenere ben rifornita d'acqua la popolazione in continua crescita attraverso la conversione dell'acqua marina. «Il nuovo mantra delle agenzie che gestiscono l'acqua, naturalmente, è incentivare la conservazione e la rigenerazione, ma i rapaci investitori stanno mettendo i loro occhi avidi sul Pacifico e sulla alchimia della desalizzazione, incuranti delle perniciose conseguenze ambientali.

In qualunque caso, sottolinea Erie, i mercati e i politici continueranno a votare per il tipo di urbanizzazione aggressiva e ad alto impatto che attualmente ricopre di strade e aiuole spartitraffico migliaia di chilometri quadrati dei fragili deserti del Mojave, del Sonoran, e del Chihuahuan. Naturalmente stati e città gareggeranno più aggressivamente che mai per la ripartizione delle acque, «ma collettivamente le "macchine della crescita" hanno il potere di sottrarre l'acqua agli altri utenti» (riferimento alla teoria delle growth machines sullo sviluppo urbano, ndt).

A mano a mano che l'acqua diventerà più costosa, il peso dell'adattamento al nuovo regime climatico e idrogeologico ricadrà sui gruppi subalterni come i braccianti agricoli (posti di lavoro minacciati dai trasferimenti di acqua), i poveri urbanizzati (che potrebbero facilmente assistere a un aumento vertiginoso, di 100 o 200 dollari al mese, delle tariffe dell'acqua), i contadini che operano nei terreni aridi (compresi molti nativi americani) e, specialmente, le popolazioni rurali nel nord del Messico.

La fine dell'epoca dell'acqua a basso prezzo nel Southwest - dato che potrebbe coincidere con la fine dell'energia a basso costo - accentuerà il livello, già alto nella regione, delle ineguaglianze di classe e razziali, e spingerà più migranti a sfidare la morte in pericolosi attraversamenti dei deserti di confine. Ci vuole poca immaginazione, inoltre, per indovinare lo slogan futuro dei minutemen: «Stanno venendo a rubare la nostra acqua!» (I minutemen erano volontari della guerra d'indipendenza noti per essere pronti a partire all'istante, ndt).

La politica conservatrice in Arizona e in Texas diventerà ancora più avvelenata ed etnicamente caratterizzata, se possibile. Il Southwest è già attraversato dappertutto da un violento nazionalismo che si serve di capri espiatori e da ciò che può essere definito solo proto-fascismo: nelle siccità a venire, potrebbero essere gli unici semi a germinare.

Come Jared Diamond mette in luce nel suo recente best-seller Collapse, gli antichi anasazi non soccombettero solo per la siccità, ma piuttosto per l'effetto dell'inattesa aridità su un territorio super-sfruttato, abitato da persone poco preparate a fare sacrifici nel loro «stile di vita lussuoso». In ultima istanza, preferirono divorarsi fra di loro.

Traduzione Marina Impallomeni

John Ashton, Europe Feels The Heat, WWF International, Power Switch Campaign, Gland, Svizzera, agosto 2005; Estratti e traduzione per Eddyburg a cura di Fabrizio Bottini

[...] È chiaro: le Capitali europee avvertono il riscaldamento

Le analisi sui dati climatici del WWF per le 15 capitali del vecchio nucleo dell’Unione Europea, più la capitale polacca Varsavia, rivelano altre sorprendenti statistiche sulle temperature. Nei primi cinque anni di questo decennio, le temperature medie in 13 delle 16 città erano perlomeno di un grado superiori a quelle del primo quinquennio degli anni ‘70.

La temperatura media dell’Europa è cresciuta di 0,95 gradi nel corso del XX secolo e quella globale di 0,6 gradi. Il maggiore incremento rilevato dalla nostra analisi, calcolato secondo metodi diversi ma ampiamente comparabili, ha avuto luogo in meno di trent’anni.

Abbiamo esaminato prima le temperature massime medie estive. Il massimo aumento fra 1970-’74 e 2000-’04 è stato a Londra, con 2º, seguita da Atene e Lisbona, assestate a 1,9º, Varsavia (1,3º), e Berlino (1,2º). Per le altre città o non si registrava un incremento delle temperature utilizzando i massimi estivi, o, in alcuni casi, era difficile ottenere questi dati.

Ad ogni modo, quando analizziamo le temperature estive per queste città, emerge una tendenza simile di aumento. L’incremento maggiore è a Madrid, con 2,2º, seguita da Lussemburgo, a 2,0º, Stoccolma (1,5º), Bruxelles (1,2º), Roma (1,2º), Vienna (1,2º), Parigi (1,0º), Amsterdam (1,0°), Helsinki (0,8º), Dublino (0,7º), e Copenaghen (0,2º).

Oltre a comparare i due quinquenni, il WWF ha anche calcolato le tendenze generali per le 16 città fra il 1970 e il 2004. Riportate su un grafico, le linee di tendenza mostrano un aumento significativo per 14 delle città analizzate, il che rappresenta una prova in più del loro rapido riscaldamento. Solo Dublino e Copenaghen non evidenziano aumenti significativi.

[...]

Il riscaldamento globale è una realtà

Nel corso del XX secolo le temperature medie globali sono aumentate di 0,6º, e la media europea di circa 0,95º. Circa due terzi dell’aumento globale si concentrano a partire dal 1975. La maggior parte degli studiosi del clima concorda sul fatto che il riscaldamento sia dovuto soprattutto alle attività umane. Stiamo esacerbando l’effetto serra, un fatto in sé naturale che intrappola le radiazioni solari creando una “coperta” che riscalda la Terra e la rende abitabile.

Gli effetti sulle condizioni mondiali del tempo

0,6º può sembrare poca cosa. Ma come avviene per le persone, un piccolo rapido aumento di temperatura può avere conseguenze gravi. La maggior parte degli scienziati del clima ritiene che questo incremento sia sufficiente a sconvolgere il delicato equilibrio naturale, producendo eventi estremi come onde termiche, siccità, tempeste.

Non si tratta di un processo lineare. Le temperature più elevate aumentano la quantità di vapore acqueo nell’atmosfera, che a sua volta porta più pioggia e rende alcune regioni più umide. Ma le modalità di circolazione dei venti e degli oceani renderanno altre regioni significativamente più secche. E queste regioni più secche probabilmente sperimenteranno tempeste più intense.

E ahimè,il peggio deve ancora venire.

[...]

Il fattore popolazione: l’effetto serra si accumula

L’aumento delle temperature globali è stato accompagnato da un aumento dei gas serra prodotti dall’uomo. L’anidride carbonica rappresenta l’80% di questi gas. Ne vengono prodotte circa 24.400.000.000 tonnellate ogni anno: circa 12 volte i livelli del 1900. Il singolo maggiore produttore è il settore dell’energia, responsabile per il 37% delle emissioni di CO2 di origine umana, per il 39% in Europa.

La concentrazione di CO2 nell’atmosfera è aumentata del 36% a partire dalla rivoluzione industriale a metà del ‘700, ed è superiore a quella di tutti i tempi negli ultimi 420.000 anni.

Come per il riscaldamento globale, la maggior parte di questo incremento ha avuto luogo negli ultimissimi decenni. Fra la metà del ‘700 e la fine degli anni ’50 i livelli medi di CO2 sono saliti da 280 a 315 parti per milione (ppm). Nel 2004, hanno raggiunto il record di 378.

[...]

L’Italia

I costi umani dell’ondata di caldo del 2003 in Italia sono stati superiori che nelle altre nazioni europee. Secondo le statistiche governative rese disponibili a giugno, sono morte 20.000 persone. Si tratta del doppio delle stime originali, e di una cifra superiore a quella della Francia, sinora ritenuta la nazione più colpita d’Europa. Sono stati rilevati quasi 2.000 incendi di boschi durante quell’estate, e i danni all’agricoltura connessi alla siccità sono stati per un valore di 5 miliardi di Euro.

Quest’estate nel paese si è verificata un’altra ondata di caldo, e una seria siccità. Le temperature hanno raggiunto i 40º in alcune zone, e il governo ha avvertito che erano a rischio circa un milione di persone. In giugno parecchie grandi città, come Roma, Milano, Torino, sono entrate in stato d’allerta per il caldo con decine di migliaia di abitanti (sopratutto anziani) monitorati.

In generale l’Italia è diventata più secca, con una diminuzione delle giornate di pioggia del 14% dal 1996. E al calo delle giornate di pioggia si è accompagnato l’aumento di intensità, delle piogge, con più temporali.

Si prevede che l’Italia sarà una delle nazioni dell’Unione Europea più colpite dal futuro riscaldamento globale, con ulteriore calo del livello delle precipitazioni, e molte altre sempre più prolungate onde di caldo. Sembra che anche il mare Mediterraneo si stia riscaldando rapidamente. Uno studio recente ha rilevato che le temperature del mare attorno all’Italia si sono alzate di quasi 4º fra il 1985 e il 2003. Si prevede che i livelli del mare si alzino fra i 20 e i 30 centimetri entro il 2100, il che minaccia una superficie di circa 4.500 chilometri quadrati di pianure costiere. L’Italia è il terzo maggior paese dell’Unione Europea per quanto riguarda le emissioni di gas serra, e ha uno dei record continentali in termini di basso controllo delle emissioni. Queste sono salite dell’11,6% fra il 1990 e il 2003, e del 2,7% solo fra il 2002 e il 2003. Il settore energetico nazionale dipende massicciamente dal petrolio, che dopo il carbone è la principale fonte di inquinamento da CO2. [...]

Nota: la versione originale integrale del rapporto scaricabile in PDF da questa pagina del sito WWF International (f.b.)

Titolo originale: Regenerating Lands and Livelihoods – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Le terre aride, presenti in oltre cento paesi, coprono un quarto della superficie del pianeta. Degrado e desertificazione di queste terre minacciano il mezzo di sostentamento di quasi un sesto della popolazione mondiale. Il continuo trascurare le superfici aride fragili mette a rischio le popolazioni che dipendono da queste terre. Il loro degrado deve diventare oggetto di attenzione in tutto il mondo.

In India, il problema del degrado delle terre è particolarmente acuto. Non si tratta semplicemente si un processo fisico, ma anche nella stessa misura di un prodotto della scarsa cura e di politiche mal orientate. Finché non modificheremo il sistema di politiche che hanno esasperato il degrado delle terre, gli sforzi materiali per arrestare il processo saranno futili. Ma è importante capire che se col degrado delle terre si distruggono i mezzi di sostentamento di alcuni, la vita di altri dipende proprio dai processi che le degradano.

Circa un terzo dell’area geografica dell’India è interessata da varie forme di degrado. Le stime sul totale variano, dai 75,5 ai 107,43 milioni di ettari, gran parte dei quali localizzati nelle zone aride e semi-aride del paese che dipendono dalle precipitazioni stagionali. In queste regioni aride e semi-aride, il degrado è spesso il risultato di carenze nel processo di sviluppo. Ma nelle zone ben fornite di sistemi di irrigazione e altre infrastrutture, è l’esaurimento delle sostanze nutritive del terreno la causa principale. Il bilancio negativo dei nutrienti in queste zone è di circa 8-10 milioni di tonnellate, con una perdita annuale stimata di 5,8 milioni di tonnellate. Ci sono grandi porzioni di terreni diventate saline e troppo sature d’acqua a causa di progetti di irrigazione. Il degrado indotto dall’infrastrutturazione è una grande minaccia alla sostenibilità dell’agricoltura indiana che si basa sulle risorse naturali.

Il degrado delle terre aride dell’India è il risultato del costante ignorare i loro bisogni e quelli vitali dei loro abitanti. La politica di sviluppo agricolo del paese è trincerata nel paradigma della “Rivoluzione Verde”, che comporta alcuni caratteri ben precisi: forte orientamento verso grano e riso a fertilizzazione chimica intensiva, moltissime risorse investite in impianti chimico-industriali, forte focalizzazione sulle colture intensive in zone irrigate, reti di ricerca e sostegno dei prezzi pensati esclusivamente a promuovere alcune ben precise colture irrigate. Questo paradigma non riconosce i bisogni di investimento di aree naturalmente meno dotate, ignorando così le popolazioni che vivono su queste terre meno fertili. Sono state realizzate infrastrutture per l’irrigazione di enormi proporzioni soltanto per costruire piccole sacche di ricchezza considerate i granai dell’India.

Anche se la sicurezza alimentare nazionale è migliorata col tempo, la pratica di concentrare eccessivamente gli investimenti pubblici in poche regioni si è tradotta nell’abbandono di altre grandi aree della zona semi-arida e sub-umida. Non a caso, queste regioni trascurate sono quelle con maggiori problemi di povertà e insicurezza alimentare locale. La disponibilità di vari input come sussidi, sostegno ai prezzi, ricerca orientate, ha creato un incredibile sbilanciamento a favore del riso e altre colture irrigue. I sistemi di distribuzione pubblica create a sostegno del prezzo di grano e riso hanno anche incoraggiato un allontanamento da altri cereali a basso consumo d’acqua, a favore della produzione di riso, ad alto consumo. Uno spostamento che ha a sua volta prodotto una trasformazione nei consumi, che si basano molto meno sul miglio indiano anche in aree dove tradizionalmente si produce. Gli impatti di questo cambiamento sono squilibri nutrizionali fra gli abitanti locali, e una maggiore vulnerabilità rispetto alla variabilità delle precipitazioni.

Altro risultato di questo cambiamento di colture è una crescente tendenza allo scavo di pozzi profondi per il prelievo dell’acqua. Una sempre maggior dipendenza dai pozzi profondi si è tradotta in una crisi, con un aumento dei suicidi fra i coltivatori che non riescono a scavare questi pozzi, perdono investimenti e fanno bancarotta. Nonostante questa tendenza, l’irrigazione da pozzi profondi cresce molto più rapidamente di quella di superficie.

A causa della diminuzione dell’investimento pubblico, i tipi di colture che si alimentano con le precipitazioni piovose hanno perso attrattiva. Il riso viene reso disponibile attraverso i sistemi di distribuzione pubblica, e così i coltivatori delle aree asciutte alimentate dalla pioggia hanno cambiato strategie, spostandosi verso grandi monocolture che rendono di più. Le pratiche tradizionali che restituivano fertilità ai suoli – attraverso rotazione delle colture, compresenza, coltivazione di legumi – vengono abbandonate. Attenzione e investimenti dei coltivatori si concentrano sulle aree irrigate, e si abbandonano quelle alimentate dalla pioggia. Ce ne sono moltissimi esempi. Ad esempio, dato che i coltivatori ora spargono pochissime quantità di letame sui terreni bagnati dalle piogge, questi non vedono rinnovate le sostanze nutrienti. L’aumento delle paghe dei lavoratori, insieme ai crescenti costi della coltivazione e ai prezzi stagnanti, hanno reso non economiche molte pratiche di agricoltura sostenibile. Di conseguenza, tecniche come la greenmanure sono cadute in disuso.

La monocoltura nei terreni bagnati dalle piogge ha aumentato il livello di infestazione dei parassiti, il che ha portato ad un più elevato uso dei pesticidi chimici. Questo disturba l’equilibrio naturale fra predatori e parassiti. Questi ultimi diventano resistenti ai pesticidi, e occorre investire di più. I debiti – spesso generati dalla spesa superiore per i pesticidi – aumentano a causa delle variazioni nelle precipitazioni piovose e delle siccità.

Anche l’allevamento contribuisce al degrado dei terreni su vasta scala. Il bestiame tradizionale è molto colpito quando cambia il sistema delle colture, perché dipende fortemente per l’alimentazione dai residui delle coltivazioni. L’appropriazione dei pascoli comuni a uso agricolo, la domanda concorrente per il lavoro, la crescita della meccanizzazione, hanno ridotto la quantità di animali. Esistono sistemi di sostegno pubblico all’allevamento solo per la produzione intensiva di latte, e in genere non sono disponibili per il bestiame tenuto in modo tradizionale nelle aree irrigate a pioggia. Ma esso rimane essenziale in queste zone, per la riproduzione e il letame. In pratica non esistono strutture sanitarie per gli animali, al di fuori del ciclo del latte. Anche il riciclaggio delle sostanze nutrienti è diventato un grosso problema. Lo spostamento verso una produzione di latte e latticini intensiva ha creato una domanda di ri-collocamento delle terre e dell’acqua a questi usi. La riduzione del bestiame nei sistemi agricoli dipendenti dalle piogge rende meno diversificata è più esposta alle crisi l’economia agricola.

Tali tendenze, insieme al cambiamento climatico che incrementa la vulnerabilità delle zone dipendenti dalla pioggia, hanno in generale creato una indifferenza dei coltivatori nei confronti delle aree alimentate a pioggia. Questa mancanza di interesse a sostenere la qualità delle aree, del bestiame, delle biomasse, rappresenta una grande causa di degrado. Gli investimenti pubblici in queste aree sono scarsi, e focalizzati principalmente sulla conservazione dei suoli e dell’acqua. Il miglioramento della fertilità non è fra gli obiettivi degli investimenti del governo nello sviluppo dei bacini agricoli. In pratica, i piani di recupero della fertilità del suolo significano semplicemente sussidi per acquistare e sviluppare i fertilizzanti.

Le superfici comuni ne hanno sofferto a causa della crisi dei sistemi di regolazione collettiva. In molti casi, le superfici a pascolo sono state redistribuite a chi non possedeva terra; anche se si tratta di un gesto ben intenzionato, ha semplicemente aumentato la pressione sulle poche superfici collettive rimaste. Le aree boscose che rimangono nelle terre aride sono controllate dal Dipartimento Forestale indiano. Nonostante il diritto del dipartimento su queste superfici venga fortemente rivendicato, non è stato fatto alcuno sforzo degno di rilievo per conservarle o rigenerarle.

Il degrado delle terre a causa degli investimenti per lo sviluppo, d’altra parte, deriva dal loro uso inadeguato. Progetti come canali di irrigazione nelle zone deserte devastano l’ecologia locale aumentando salinità e impregnamento. L’allevamento dei gamberetti nella aree costiere dell’Andhra Pradesh ha determinato la contaminazione delle falde d’acqua dolce con acque salate, con gravi problemi per la disponibilità di acqua da bere. L’eccessivo prelievo di acque sotterranee ha avuto il medesimo effetto di ingresso di acque salate nel distretto di Gujarat.

Stanno creando problemi anche una crescita economica deviata e la globalizzazione. I proventi della crescita in India non hanno in gran parte la popolazione. Col tempo, c’è una percentuale sempre più piccola di persone che si divide una quota sempre più ampia del reddito nazionale. La quantità di persone che dipendono dall’agricoltura è scesa marginalmente da circa il 70% al 60% del totale della popolazione, ma la loro quota del reddito nazionale è drasticamente caduta a poco più del 20%.

Il marchio di fabbrica della globalizzazione dell’economia indiana, è una crescita senza la creazione di posti di lavoro. Il settore industriale e dei servizi, in rapido sviluppo, non assorbe molte persone, e gran parte della popolazione dipende ancora da quello agricolo, che ora deve competere sul mercato globale. Prezzi sempre più instabili e una lenta penetrazione dei prodotti industriali nelle aree rurali, hanno prodotto una devastazione in molte comunità. Artigiani come i canestrai, vasai, fabbri, sono stati colpiti in modo particolarmente pesante. Sistemi produttivi tutti orientati all’esportazione e che usano macchinari pesanti, insieme allo scavo di pozzi sempre più profondi, stanno solo accelerando il degrado delle risorse naturali.

Sta avvenendo una concentrazione nella proprietà della terra, anche se in modo lento; il suo impatto in termini di degrado deve ancora emergere. Esiste una miriade di fattori – la vitalità dei modi di sostentamento tradizionali, i sistemi produttivi, metodi sbagliati di distribuzione dei sussidi, mutamento negli scenari dei mercati globali - che hanno impatti sul degrado delle terre. Il problema è molto più grave e profondo che non la semplice erosione dei suoli. La soluzione deve concentrarsi sul ripristino della fertilità e produttività delle terre, verso incentivi a prendersi cura delle superfici entro i sistemi produttivi alimentati dalle precipitazioni piovose. Ma per essere veramente efficace la soluzione deve andare oltre le pratiche di coltura. Occorre riallocare gli investimenti pubblici, rivalutare l’uso delle risorse naturali nelle economie locali. Soprattutto, il governo si deve concentrare sulle dimensioni umane del problema - l’esistenza precaria dei poveri che abitano le regioni dipendenti dalle piogge – nella lotta al degrado dei suoli.

Nota: A. Ravindra è Direttore del Watershed Support Services and Activities Network ( http://www.wassan.org/ ), gruppo di ricerca sulla gestione delle risorse naturali e la sostenibilità in India

here English version

Titolo originale: Report: World Land Use Is Top Environmental Issue – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

La massiccia conversione dei paesaggi naturali mondiali all’agricoltura e ad altri usi umani potrebbe presto iniziare a mettere in forse la capacità dell’ecosistema terrestre di sostenere una popolazione in costante crescita.

Sulla rivista Science del 22 luglio 2005, un gruppo di importanti scienziati presenta l’ escalation della trasformazione di foreste, zone umide, savane, vie d’acqua e altri paesaggi naturali, come la principale potenziale minaccia alla salute umana e alla sostenibilità globale.

”Salvo la collisione con un asteroide, è l’uso del suolo da parte degli esseri umani l’impatto più significativo sulla biosfera” secondo Jonathan A. Foley, cilmatologo dell’Università del Wisconsin a Madison e principale autore del saggio su Science. “Potrebbe essere il problema ambientale più urgente dei nostri giorni”.

L’articolo di Science è stato scritto da un gruppo di ricercatori ambientali di punta che rappresentano un ampio raggio di discipline, come biologia, climatologia, limnologia, geografia e scienze della terra. Foley dirige il Center for Sustainability and the Global Environment al Gaylord Nelson Institute for Environmental Studies dell’Università del Wisconsin di Madison.

L’uso del suolo, secondo il rapporto, non è più soltanto una questione locale. Si tratta di una forza di importanza globale, coi sei miliardi di umani in competizione per cibo, acqua, vestiti e alloggi. Lo studio, afferma Foley, è un compendio di ricerche scientifiche sulle principali forme di uso del suolo a livello mondiale – agricoltura, insediamento urbano e rurale, deforestazione e alte forme di sfruttamento delle risorse naturali – e dei loro impatti sull’ecosistema.

Secondo Foley, circa un terzo delle terre mondiali ora sono utilizzate per l’agricoltura, e altri milioni di ettari di ecosistemi naturali vengono convertiti ogni anno. Molte delle pratiche agricole, basate su metodi di origine occidentale, richiedono ampio uso di fertilizzanti chimici e modificano ulteriormente il paesaggio per deviare l’acqua verso le zone marginali.

”Anche se le pratiche di uso del suolo a livello mondiale variano notevolmente, il loro risultato finale in genere è lo stesso: acquisizione di risorse naturali per bisogni umani, spesso degradando le condizioni ambientali”, scrivono gli autori.

Il nuovo rapporto di Science sintetizza e riferisce di decenni di ricerche sugli impatti umani nell’ambiente, come i mutamenti nella composizione dell’atmosfera, la copertura del suolo, il ciclo delle acque e la diversità biologica.

Questa rassegna delle pratiche di uso del suolo mondiali, dice Foley, evidenzia il bisogno di una maggiore collaborazione fra scienziati e pianificatori territoriali, idrologi, coltivatori, architetti e professionisti delle sanità, per impedire un ulteriore degrado ambientale.

”I modi di uso del suolo dipendono da molte cause. Riconosciamo la necessità di cibo, acqua, alloggio” dice Foley. “Ma questo produce effetti multipli, e gli scienziati devono guardare al quadro generale. C’è uno spazio importante per la scienza, qui”.

Un esempio, continua Foley, è la trasformazione delle malattie umane e animali a causa del mutamento climatico, che consente agli agenti patogeni di svilupparsi in regioni dove prima non esistevano. Malattie come l’encefalite equina West Nile, malaria, colera, febbre della Rift Valley o virus hanta sono esempi di infezioni emerse in luoghi inediti, e la cui frequenza è aumentata con le trasformazioni nell’uso del suolo e nei sistemi ecologici.

Foley sottolinea il fatto che gli scienziati debbano guardare oltre gli aspetti naturali selvaggi del mondo, e considerare l’intero contesto, comprese città, suburbio e zone agricole, nella valutazione della salute ambientale globale. “Dobbiamo guardale all’uso del suolo in un contesto globale. Si deve prendere in considerazione l’intero sistema”.

Il rapporto mette anche in rilievo alcuni esempi di pratiche di uso sostenibile del suolo, che offrono contemporaneamente vantaggi economici e ambientali:

● l’acquisto da parte della municipalità di New York di diritti edificatori nelle Catskills per aumentare il potenziale idrico della città. Questa operazione ha prodotto un risparmio di 5-7 miliardi di dollari in servizi di potabilizzazione delle acque.

● la localizzazione di piantagioni di caffè a 1 chilometro dalla foresta tropicale intatta, per trarre vantaggio dall’impollinazione naturale, e che ha migliorato di molto la qualità del prodotto e aumentato la resa sino al 20%.

● l’utilizzo di tetti riflettenti, aggiunta di spazi verdi e piantumazione di alberi nelle città per ridurre lo smog, la mortalità legata al caldo, la domanda di elettricità per il condizionamento d’aria.

● lo sviluppo di sistemi basati sulla lotta integrata ai parassiti, e altre tattiche per ridurre il bisogno di pesticidi chimici e aumentare la produzione di cibo. Due strategie sperimentate sono l’introduzione di pesci che si nutrono di zanzare nelle risaie, e la predisposizione di condizioni ottimali per gli uccelli che si cibano di parassiti.

”L eforme di uso del suolo sono andate ben oltre la dimensione semplicemente locale” dice Foley. “Gli impatti a scala globale sono maggiori della somma di eventi locali. L’uso del suolo sta inducendo trasformazioni a scala del pianeta”.

Nota: il testo originale al sito GreenBiz ; altre informazioni sulle ricerche incorso, a questa pagina della University of Wisconsin, Madison (f.b.)

Sono pagati (poco) per il fondamentale compito di nutrire un'umanità sempre più numerosa. Ma agricoltrici e agricoltori - la classe di lavoratori più numerosa sul pianeta - dovrebbero essere remunerati anche per i servizi reali di protezione dell'ambiente contro il caos climatico, la perdita di biodiversità e la limitatezza delle risorse idriche; tanto più negli ecosistemi fragili in cui vivono un miliardo di persone povere nei paesi «in via di sviluppo». Paying farmers for environmental services (Pagare gli agricoltori per i loro servizi ambientali) è il focus del rapporto 2007 The State of Food and Agriculture-Sofa (Lo stato dall'agricoltura e dell'alimentazione) presentato ieri a Roma dalla Fao.

Non che il ruolo ecologicamente benefico dell'agricoltura sia scontato. Anzi, come ha detto Jacques Diouf, direttore dell'agenzia Onu, quest'attività «potenzialmente può degradare le risorse naturali del pianeta - suolo, acqua, atmosfera - o valorizzarle, a seconda delle decisioni prese da oltre due miliardi di persone» le quali ne ricavano le fonti di sussistenza e alle quali vanno offerti incentivi adeguati perché si sentano invogliati a offrire servizi ecologici adottando migliori pratiche agricole. Va detto che attualmente sono all'opera piuttosto una quantità di sussidi perversi, ad attività agroalimentari nocive per l'ambiente, energivore e idrovore; sussidi poco vantaggiosi per i piccoli contadini e profittevoli per l'agrobusiness. Alcuni esempi sono: le sovvenzioni alle esportazioni alimentari da parte di Ue e Usa; i sussidi agli allevamenti anche intensivi e alle colture mangimistiche; gli incentivi agli agrocarburanti; quelli ai costi energetici dell'irrigazione, come all'uso di fertilizzanti e pesticidi di sintesi. Rimuovere o ridurre tali elargizioni aiuterebbe assai a riorientare i modelli produttivi. Il resto lo farebbe appunto l'attribuzione di un valore economico-monetario ai servizi invece utili: l'immagazzinamento di carbonio (mentre attualmente l'agricoltura è responsabile del 30 per cento di tutte le emissioni di gas serra), il controllo delle inondazioni, la fornitura di acqua pulita, la conservazione della biodiversità. La sinergia di fattori quali minore deforestazione, rimboschimento, riduzione di una eccessiva lavorazione del terreno, incremento della copertura del suolo, una migliore gestione dei pascoli, e perché no la produzione di energia solare, eolica e da scarti (ben più problematici gli agrocarburanti) potrebbero portare all'immagazzinamento di oltre due miliardi di tonnellate di carbonio tra il 2003 e il 2012, secondo i calcoli della Fao.

Il meccanismo di mercato degli incentivi pubblici (o privati, le modalità possibili sono varie) necessita di una definizione dei soggetti aventi diritto, il che a sua volta rimanda all'annosa questione della sovranità e dei diritti di proprietà. E non è privo di rischi (fra cui il notorio effetto scaricabarile, se settori responsabili di ingenti emissioni climalteranti potranno liberarsi di ogni responsabilità passando un obolo a contadini rispettosi del clima...) ma può funzionare se abbinato ad altri interventi come l'informazione, il trasferimento di tecnologie e perché no i divieti di pratiche desuete e dannose. Uno degli esempi più precoci in un paese del Sud del mondo è il Programma di pagamento nazionale dei servizi ambientali del Costarica, destinato a chi manteneva in piedi superfici forestali; è stato la carota che ha accompagnato proficuamente il bastone delle restrizioni legali ai tagli. Un altro esempio riguarda la Cina: che nel 1999, dopo una serie di inondazioni devastanti, lanciò il programma Grain for Green per accrescere la copertura forestale intorno ai bacini dello Yagntze e del Fiume Giallo, per bloccare l'erosione: i contadini si impegnavano a destinare a bosco una parte dei terreni e in cambio ricevevano cereali, denaro e piantine.

Ma sono tuttora relativamente pochi i programmi per i servizi ambientali che mirano agli agricoltori e ai terreni agricoli dei paesi in via di sviluppo.

Non sappiamo quando ma il disastro arriverà

di Pascal Acot

Il rapporto della Commissione europea sul clima è abbastanza allarmista, per non dire catastrofico per i Paesi del Sud, Italia compresa: alla metà del XXI secolo i Paesi freddi del Nord dell’Europa potranno beneficiare della ricchezza del turismo, a discapito dei Paesi del Sud. Le conseguenze economiche potrebbero essere drammatiche, specialmente per l’Italia, la Grecia e la Spagna

Gli esperti stimano che le perdite dovute alla fine dei flussi turistici possano aggirarsi sui cento miliardi di euro circa. Oltre a ciò, i decessi in sovrappiù rispetto alla media, imputabili alla canicola o alle forti temperature, potranno aumentare molto, raggiungendo un totale di 87.000 casi l’anno qualora il riscaldamento medio fosse pari a tre gradi centigradi.

Ma gli esperti rendono noto anche che se la lotta contro l’emissione dei gas serra riuscisse a contenere a "soli" 2,2 gradi centigradi l’aumento della temperatura, il numero dei decessi in sovrappiù rispetto alla media potrebbe essere limitato a 36.000. Infine, le tragiche conseguenze cagionate da un eventuale innalzamento delle acque del Mediterraneo, dal degrado delle risorse ittiche e dall’aumento del numero degli incendi delle foreste avrebbero un costo quantificabile anch’esso in decine di miliardi di euro.

L’accuratezza della maggior parte di queste cifre deve indurre ad accogliere con una certa prudenza questo documento. Da un lato perché le previsioni climatiche su più decenni non sono molto affidabili: i climatologi non sanno ancora con precisione se l’aumento della nuvolosità amplificherà l’effetto serra trattenendo i raggi infrarossi di calore che la Terra potrebbe riflettere verso lo spazio profondo o se, al contrario, la copertura nuvolosa ispessita ci proteggerà dall’irraggiamento di calore del Sole. Dall’altro lato perché non è possibile prevedere con esattezza, sulla base della proiezione nel futuro della situazione contingente, quali saranno le reazioni politiche degli Stati europei in materia di lotta contro gli effetti del riscaldamento, considerata la tragica instabilità di alcuni e tenuto conto delle difficoltà ascrivibili alla povertà in tutta la parte occidentale e meridionale del Mediterraneo.

Ciò nondimeno, il problema sollevato da quanto abbiamo potuto conoscere del documento dell’Unione Europea, è da valutare con grande serietà. Se anche non siamo certi della velocità e dell’impatto generale del riscaldamento, sappiamo però che esso è in procinto di aver luogo e sappiamo anche che se non siamo in grado di scongiurarne tutti gli effetti, possiamo forse renderli meno gravi. Il merito dell’Unione Europea, in questo caso, è quello di mettere in allerta l’opinione pubblica sul fatto che al di fuori delle grandi mete turistiche, saranno i Paesi più fragili ad esserne maggiormente colpiti.

Per quanto riguarda il turismo, colpiscono le cifre proposte: secondo il rapporto si dirigeranno verso il Sud per le loro vacanze soltanto cento milioni di persone l’anno. È evidente quindi che il problema sollevato è ancora più grave da un punto di vista economico: nei Paesi direttamente interessati si impone una seria vigilanza. Il problema deve essere affrontato sensatamente. La situazione, tuttavia, non è nemmeno lontanamente paragonabile ai problemi che le risorse idriche della regione pongono e porranno. La quantità di acqua disponibile lungo il bacino del Mediterraneo è più o meno costante. Al contrario, la crescita demografica (in Egitto, in Turchia, in Algeria e in Marocco), lo sviluppo delle attività agricole, industriali e turistiche – i campi da golf si moltiplicano ovunque – provocano un aumento sistematico della domanda. Il riciclaggio delle acque sporche non è sufficientemente rapido e lo "stress idrico" segna pesantemente e duramente la vita degli abitanti del Maghreb e del Medio Oriente. Pertanto, in questa regione ogni abitante dispone mediamente di meno di 2.000 metri cubi di acqua ogni anno, compresi gli usi per l’agricoltura e l’industria.

Al contempo, gli scontri e i combattimenti ai quali assistiamo per il possesso delle risorse idriche nel Medio Oriente potrebbero – ahimè! – intensificarsi: basti pensare che già oggi un israeliano consuma il quadruplo dell’acqua di cui usufruisce un palestinese e che l’accordo di Taba firmato a Washington nel 1995 prevede di concedere l’82 per cento delle acque della Cisgiordania agli israeliani e il rimanente ai palestinesi. Analoghi scontri per l’acqua sono da temersi tra Turchia, Siria e, a termine, anche l’Iraq, tutti Paesi attraversati dall’Eufrate, fiume controllato dai turchi nell’Anatolia sud-orientale.

In seguito a questo rapporto, possiamo attenderci nuove raccomandazioni in materia di risparmio delle risorse idriche e più in generale in tema di riduzione delle emissioni di gas serra. Tali raccomandazioni resteranno tuttavia lettera morta se basilari e fondamentali decisioni politiche non saranno prese per tutti gli anni a venire, in tema di pace nella regione e di aiuti allo sviluppo dei Paesi più poveri del bacino del Mediterraneo.

L’autore, filosofo e storico della scienza, ha scritto fra l’altro "Storia del clima – Dal Big Bang alle catastrofi climatiche"

Traduzione di Anna Bissanti

Europa 2070, la catastrofe del clima

di Andrea Bonanni e Alberto D’Argenio

bruxelles - Sdraio e ombrelloni sul Mar Baltico, ulivi e pomodori nelle Ardenne, tonnare o spadare al largo delle coste scozzesi e svedesi. Alluvioni, desertificazione, erosione delle coste e un’ecatombe di morti per il caldo eccessivo nei Paesi del Mediterraneo, che oggi sono il paradiso dei turisti e dell’agricoltura di qualità. Sono questi i risultati a cui giunge Peseta, un catastrofico studio voluto dalla Commissione europea per analizzare "il costo dell’inazione" in materia di cambiamenti climatici. Il rapporto dovrebbe accompagnare un ampio pacchetto di riforme in campo energetico che la Commissione si accinge a proporre ai governi con lo scopo di ottenere una drastica riduzione delle emissioni di anidride carbonica e di altri gas ad effetto serra, responsabili per il surriscaldamento del pianeta.

L’obiettivo delle proposte avanzate dalla Commissione è una riduzione delle emissioni pari al 30 per cento entro il 2020 per arrivare al 50 per cento entro il 2050.

Dallo studio emerge che proprio i Paesi del Sud dell’Europa, come Italia, Spagna e Grecia, che oggi sono i meno attivi nella riduzione delle emissioni nocive, verranno maggiormente danneggiati da un surriscaldamento del clima. L’Europa meridionale, scrive il rapporto, soffrirebbe di «siccità, calo della fertilità del suolo, incendi ed altri fattori indotti dal cambiamento climatico».

Peseta considera due scenari. Lo scenario A ipotizza che, di fronte ad una generale inazione, le emissioni di anidride carbonica triplichino entro la fine del secolo, inducendo un surriscaldamento medio di tre gradi nel periodo 2071-2100 rispetto al periodo 1961-1990. Il secondo scenario prevede che, grazie ad iniziative isolate di contenimento delle emissioni, la concentrazione di anidride carbonica si limiti a raddoppiare provocando un aumento medio della temperatura di 2,2 gradi.

Gli effetti sulla salute, secondo lo studio, che però precisa di non avere preso in considerazione il fattore di acclimatamento della popolazione, sarebbero devastanti. Il maggior numero di decessi dovuti al calore, secondo Bruxelles, supererebbe nettamente il calo di vite perdute per colpa del gelo. Lo scenario A prevede un aumento di 86 mila morti all’anno. Lo scenario B conterrebbe i danni a 36 mila vittime in più.

Le cose in Europa andrebbero meglio per gli agricoltori. Ma solo per quelli del Nord, che vedrebbero aumentare i loro raccolti in proporzione variabile dal 3 al 70 per cento. Mentre nelle regioni del Sud il calo della produzione agricola varierebbe da un meno 2 ad un meno 22 per cento. Anche gli stock di pesce, pur colpiti dall’acidificazione delle acque marine, si dovrebbero spostare verso nord.

L’innalzamento del livello dei mari comporterebbe un grave fenomeno di erosione delle coste. L’acqua salirebbe da 22 a96 centimetri nello scenario A, da 17 a74 centimetri nello scenario B. Il costo dell’erosione, se non si corresse ai ripari con misure di adattamento, potrebbe arrivare a 42 miliardi di euro nello scenario peggiore e a 9 miliardi di euro per quello meno catastrofico. I danni causati dalle alluvioni aumenterebbero tra il 19 e il 40 per cento per il bacino dell’Alto Danubio, e tra l’11 e il 14 per cento per quello della Mosa.

Il cambiamento climatico influirebbe anche sul turismo. La migrazione di villeggianti dal Nord al Sud Europa rappresenta oggi un sesto del flusso turistico mondiale e riguarda ogni anno 100 milioni di persone che spendono una media di 100 miliardi di euro.

Ma tutto questo potrebbe cambiare. «La zona con eccellenti condizioni climatiche, che è attualmente intorno al Mediterraneo (in particolare per il turismo balneare) - scrive il rapporto - si sposterà a nord, forse fino al Mare del Nord e al Baltico. Lo stesso vale per il rapporto tra sviluppo turistico e disponibilità dell’acqua». Di fronte alla catastrofe estiva, l’unica consolazione che lo studio concede agli operatori turistici del Sud Europa è che «comunque, le condizioni climatiche in primavera e autunno dovrebbero migliorare».

Commoner :"C’è una sola speranza cambiare le tecnologie"

Antonio Cianciullo

ROMA - «In Europa ve la ricordate bene l’estate del 2003. Il termometro che arrivava ai 40 gradi, l’agricoltura in ginocchio, le ondate di calore che si abbattevano senza tregua sulle città. L’intero continente è uscito stordito da quell’esperienza traumatica, risvegliandosi dall’incubo con 35 mila cittadini in meno, 35 mila vittime del cambiamento climatico. Ebbene quel disastro che, secondo alcune ricerche, poteva capitare solo una volta nell’arco di secoli, è destinato ora a diventare la norma». Nel suo studio di New York, Barry Commoner, l’ecologo sui cui libri si sono formate generazioni di ambientalisti, non si stupisce per il rapporto della Commissione europea. Nel 1971, nel suo Il cerchio da chiudere, aveva anticipato la necessità di governare il ciclo dei gas serra e adesso i numeri gli danno ragione.

Lo studio ordinato dall’Unione europea ipotizza una catastrofe da 11 mila morti l’anno entro un decennio: le previsioni diventano sempre più pessimiste anno dopo anno. Le vecchie stime erano sbagliate o volutamente sottovalutate?

«L’attenzione si era concentrata sulle conseguenze graduali del global warming, come se fossimo di fronte a un meccanismo che si andava alterando in maniera preoccupante ma regolare. Ora invece ci troviamo di fronte all’altra faccia della medaglia: le accelerazioni improvvise. Sterzate brusche, imprevedibili nella loro esatta dinamica, che portano al moltiplicarsi delle ondate violente di calore e degli uragani».

Forse c’è stato anche un ritardo culturale. Abituati alle fluttuazioni fisiologiche del tempo non abbiamo capito subito cosa significa una fluttuazione del clima.

«Esattamente. Non si tratta di una stagione turistica che salta o di qualche raccolto rovinato. E’ cambiata l’energia in gioco: il calore in più trattenuto dall’atmosfera modifica la portata degli eventi estremi aumentandone il numero e l’intensità. Gli scenari che oggi vengono fatti propri da istituzioni importanti come la Commissione europea non fanno che dare un volto preciso a una tendenza già chiara da tempo».

Eppure è mancata la capacità di reazione. E ancora oggi alle grida d’allarme non fa seguito un’iniziativa concreta per ridurre l’emissione dei gas serra. Vuol dire che cambiare rotta è troppo costoso?

«E’ vero il contrario. E’ troppo costoso non agire. Già il rapporto Stern prevedeva una perdita del 20 per cento del prodotto mondiale lordo per colpa del cambiamento climatico. Mentre la rivoluzione tecnologica in direzione delle fonti energetiche rinnovabili comporta un guadagno».

Non le sembra di esagerare un po’?

«No, sono investimenti che danno profitti a breve. Anche il singolo cittadino può sperimentare come l’uso dell’energia solare permette di ridurre la sua bolletta elettrica. E nei paesi in via di sviluppo il mercato potenziale è enorme: per chi abita in un villaggio non collegato alla rete elettrica il vantaggio delle rinnovabili è ancora più evidente e immediato».

Il costo di base delle tecnologie pulite resta però nelle mani dei ricchi. Senza un investimento consistente nei paesi industrializzati non si riuscirà a tagliare i gas serra che minano la stabilità climatica.

«Non ci sono alternative. La diagnosi è chiara: per salvare le nostre società e le loro economie bisogna uscire dalla dipendenza dal petrolio e dai combustibili fossili. Bisogna lanciare il fotovoltaico e le rinnovabili, aumentare l’efficienza energetica e trasferire il traffico dalla gomma al ferro».

I sei anni di presidenza Bush non sono andati in questa direzione.

«Ma, nonostante le resistenze della Casa Bianca, le maggiori industrie, comprese quelle del petrolio e della chimica, hanno riconosciuto la necessità di frenare il cambiamento climatico. E questa necessità si può trasformare in una grande opportunità. Il sistema produttivo degli Stati Uniti sta perdendo colpi, subisce una concorrenza a cui, utilizzando i vecchi schemi, non riesce a far fronte: la svolta tecnologica imposta dagli sbalzi climatici è l’occasione per un rinascimento industriale».

Con che tempi?

«Quello che manca sono i programmi nazionali di riconversione industriale ed energetica. Se c’è una decisione politica, il risultato può essere raggiunto in cinque anni».

L’augurio per il 2007?

«Che il nuovo Congresso americano riesca a chiudere il capitolo della guerra in Iraq, legata alla vecchia logica del controllo del petrolio, e ad aprire la battaglia contro i cambiamenti climatici».

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