Rigenerazione urbana: «Ex strutture pubbliche recuperate, un museo nel centro commerciale e un quartiere rimesso a nuovo». Linkiesta.it, 2 giugno 2014 (m.p.r.)
Marsiglia è un vivace melting pot etnico e sociale. Basta fare una passeggiata sulla Canebière, la strada che divide in due la città, per accorgersene. Nel 2009 il reddito medio della città era di 16.128 euro, il 24,8% dei cittadini si era fermato all’istruzione media, la disoccupazione aveva raggiunto il 12,8 per cento. Ma le differenze sociali sono evidenti: per cinque arrondissement su 16, i redditi scendono a 10.400 euro, i senza diploma al 36% e i disoccupati al 25 per cento. E il problema sicurezza resta. Solo nel 2012 nella regione sono stati registrati 24 omicidi e in tanti hanno più volte chiesto addirittura l’intervento dell’esercito. Sì, proprio come è accaduto in alcune nostre città, da Napoli a Palermo. Marsiglia non è molto diversa dalle metropoli della nostra penisola.
Al di là della cronaca, la città tenta di rinascere, come in realtà è già avvenuto più volte nella storia di questa metropoli da 860mila abitanti. Ma stavolta lo fa attraverso la riqualificazione urbana e non radendo tutto al suolo. Tanto che nel 2013, anno in cui Marsiglia è stata capitale europea della cultura, il New York Times la indicava come seconda destinazione del mondo da visitare dopo Rio de Janeiro. E in occasione degli europei di calcio del 2016, con lo stadio Vélodrome in fase di rinnovamento, sarà anche una delle principali città a ospitare la competizione.
«Promuovere la rigenerazione dovrebbe essere un cardine della strategia economica nazionale, garantendo la sicurezza e la salute degli italiani, ridisegnando le periferie urbane creando condizioni indispensabili di inclusione sociale, intervenendo sugli spazi pubblici espropriandoli dalle auto per ridarli ai cittadini», ha scritto Leopoldo Freyrie, presidente del consiglio nazionale degli architetti sulla rivista L’architetto. E che di scelte innovative come quelle realizzate a Marsiglia abbiano bisogno pure le nostre città lo sostengono anche gli imprenditori edili dell’Ance, che insieme al Consiglio nazionale degli architetti hanno realizzato un viaggio-studio nella capitale della Provenza. «Un vero e proprio prototipo di rigenerazione urbana a tutto campo», ha scritto Paolo Buzzetti, presidente Ance, «da prendere come esempio anche in casa nostra».
La parola friche identifica proprio gli scarti industriali, da cui il quartiere è ripartito. Non un centro sociale occupato, ma 45mila metri quadri dedicati alla creazione e alla sperimentazione artistica contemporanea con il permesso e sotto la gestione economica della Ville de Marseille. Che non elargisce soldi a pioggia agli artisti, ma affitta gli i atelier a un prezzo medio di 9 euro al metro quadro al mese comprese le spese energetiche, che comunque restano basse, visto che gli spazi sono stati ristrutturati e isolati termicamente. La mano pubblica interviene nei costi della ristrutturazione delle strutture, ma non nella progettazione e nella organizzazione culturale. Quella si autosostiene, altrimenti avanti un altro. «La Friche afferma la cultura come un’“economia” e non come “un’eccezione”», si legge sul sito web. «Per questo la cultura è necessariamente un fattore di sviluppo economico e sociale: economico perché la cultura è un mercato nel quale si può vendere e comprare secondo una logica non produttivistica ma economica. E sociale perché la cultura è uno spazio nel quale vengono poste oggi le questioni essenziali della nostra società».
Cinque piani, settanta atelier, tra teatri, laboratori artistici e musicali, sale d’esposizione, e anche un ristorante e una biblioteca ricavati tramite un intervento architettonico quasi invisibile. «L’architettura più riuscita è quella che sparisce», spiega Matthieu Poitevin, autore del recupero architettonico. Sulla grande terrazza in alto, con una vista panoramica della città, la gente si raggruppa prima di andare a teatro o ad ascoltare un concerto. Gli atelier a un primo colpo d’occhio non si vedono neanche. «È una cosa tipica di Marsiglia», dice Matthieu, «la bellezza resta sempre nascosta». Nella stessa struttura sono stati già avviati i lavori per una scuola di teatro e una scuola materna di quartiere. E alcuni stanno pure pensando di ricavare nella struttura una scuola elementare.
La Friche ormai è diventato un posto alla moda della movida marsigliese. Ogni anno 500mila persone calpestano i corridoi di queste strutture industriali ingombranti e massicce. «Il centro città è per i turisti», dice Matthieu Poitevin, «i margini per i creativi». E tutto intorno il quartiere è rinato. Dal 2004, nell’ambito del progetto Euromediterranée, gli antichi edifici della fabbrica sono stati trasformati e riutilizzati, e oggi ospitano, oltre agli archivi del Mucem (altra struttura strabiliante), un media center, uno studio cinematografico e televisivo. Nel 2005, poi, la piazza Bernard Cadenat, al centro dell’area, è stata completamente rinnovata. Sulla piazza si affacciano numerosi negozi e un mercato giornaliero. All’orizzonte si vedono diverse gru. Laddove tanti avevano abbandonato gli appartamenti, ora il mercato immobiliare sta rinascendo. Così questo spazio schiacciato tra la ferrovia Saint-Charles e le fabbriche sta tornando ad avere valore immobiliare. Dove si concentrava disagio sociale, riparte il tessuto sociale. Non grazie a un centro sociale occupato, come i molti che costellano le città italiane, ma grazie a un polo culturale che fa girare l’economia, fa pagare le tasse e riduce i costi della sicurezza, visto che dopo la rinascita il quartiere è anche diventato più sicuro.
L’Hangar J1, l’arsenale diventato galleria d’arte. Il J1 è un arsenale situato su uno dei due moli del porto di Marsiglia, tra l’Espanade J4 (con le strutture di Rudy Ricciotti, Stefano Boeri e il Fort Saint Jean) e l’ex quartiere industriale La Joliette. L’enorme arsenale ormai dismesso, come uno dei tanti che si possono trovare nelle nostre città portuali, è stato messo a disposizione dei cittadini dalle autorità in occasione di “Marsiglia capitale europea della cultura” del 2013. Riallestito e riprogettato al suo interno, è diventato un luogo di attività e di incontro nel cuore del porto turistico-commerciale. Ogni giorno le grandi navi accostano al fianco di questa struttura, raggiungendo spesso la stessa altezza.Al livello superiore, su una piattaforma coperta di 6mila metri quadri, si trovano uno spazio d’esposizione di 2.500 metri quadri, un atelier con tre gallerie d’esposizione, uno spazio per giovani e uno dedicato a eventi artistici e culturali, un punto d’informazione, una libreria e un bar caffetteria con una magnifica vista sul mare aperto.
Quartiere Centre Nord, dal degrado al lavoro edile. Al confine tra il centro storico di Marsiglia, il vecchio porto e il progetto Euromediterranée, Centre Nord «è la vera Marsiglia», tra negozi di abiti usati, di dolci e di spezie dei tanti immigrati residenti e i calzini stesi alle finestre. Un vecchio quartiere degradato, come ce ne sono tante nei centri storici delle città italiane, con scarsa istruzione e bassi redditi, rimasto per tanti anni ai margini del tessuto urbano.
La zona rientra nell’ambito del programma nazionale di riqualificazione urbana avviato in Francia nel 2003, che a Marsiglia ha coinvolto 14 quartieri con circa 1,1 miliardi di euro di finanziamenti. Il progetto di riqualificazione del Centre Nord è stato finanziato nel 2010 con 137,2 milioni di euro, coinvolgendo 23 partner tra cui lo Stato, l’Agenzia nazionale di riqualificazione urbana (Anru), la Regione, la Provincia, il Comune, Marseille Rénovation Urbaine, la Caisse des dépots, Euromediterranée e l’Ater locale.
La proprietà immobiliare nel quartiere è frammentata e in gran parte privata. Molti edifici sono abbandonati. La riqualificazione urbana, quindi, ha puntato soprattutto nel sostituire gli alloggi degradati con alloggi sociali. Le strutture insalubri vengono espropriate, demolite e costruite, o ristrutturate. Nel frattempo, gli abitanti vengono alloggiati in edifici pubblici. E una volta rinnovati gli appartamenti, ritornano negli edifici di partenza. Il tutto grazie a una serie di incentivi fiscali per i privati che vogliono ristrutturare.
Gli alloggi privati degradati da rinnovare sono in totale 481, 176 gli alloggi sociali già esistenti da ristrutturare. La scommessa è stata anche riportare nel quartiere alcuni servizi pubblici, come l’asilo o l’Università. Il Comune, sui manifesti pubblici, informa e coinvolge i cittadini sui successivi interventi di riqualificazione urbana. Tra un incrocio e l’altro, si vedono i cantieri avviati e quelli già conclusi del progetto Euromediterranée. E ritorna il tema del parcheggio: dove i marsigliesi parcheggiavano le loro auto, al Centre Nord ora sono stati ricavati settanta alloggi.
Ma la rinascita di un quartiere non si ferma agli edifici. E questo a Marsiglia lo sanno. Oltre alle gru, l’Anru al Centre Nord ha portato anche il lavoro: il 5% delle ore lavorate nel quartiere è riservato ai residenti della zona. A beneficiarne, è chiaro, sono anche gli imprenditori edili. Cosa di cui, in Italia, avremmo bisogno, visto che tra il 2006 e il 2013 il valore degli investimenti nelle costruzioni tradizionali si è ridotto del 32 per cento, mentre il peso del dell’attività di recupero dell’esistente è cresciuto di 11 punti percentuali.
Un bel reportage in diretta dalla mecca dell'innovazione tecnologica globale, dove la ricerca di soluzioni avanzatissime a certi problemi pare corrispondere a indifferenza rispetto ad altri. La Repubblica 4 maggio 2014, postilla (f.b.)
SAN FRANCISCO – Se il nostro futuro sta nascendo qui, finora si è ben nascosto. Ritorno a guidare sull’autostrada 101, che da San Francisco verso Sud attraversa la Silicon Valley. Ora che abito a New York, mi colpisce di più ciò che davo per scontato quando vivevo qui: la banalità. Incolonnato nel traffico denso e monotono a 55 miglia orarie obbligatorie, vedo scorrere ai due lati un paesaggio fatto di insegne dei fast food McDonald’s e Taco Bell, di ipermercati Costco, Home Depot e Office Max, benzinai, concessionari d’auto, magazzini, depositi. La Highway 101, leggendaria nel mondo intero perché attraversa la più alta concentrazione di tecnologia, innovazione e ricchezza, ha partorito negli ultimi quarant’anni tutte le rivoluzioni del nostro tempo: dall’elettronica all’informatica, da internet ai social network. Eppure potrei essere sul raccordo anulare di Dallas o di Atlanta, in qualunque sconfinata periferia americana: stesse insegne sempre uguali, stesso anonimato. La standardizzazione della bruttura.
Poi il paesaggio s’ingentilisce, con palmizi rigogliosi sotto il sole californiano, giardini e parchi ben curati, quando abbandono l’autostrada e mi addentro nelle cittadine, da Palo Alto (Stanford University) in giù. Immersi nel verde, tuttavia, i quartieri generali dei Nuovi Padroni dell’Universo sono anch’essi una delusione garantita. A Menlo Park, al numero uno della Hacker Way, diverte l’ironia della toponomastica (è come se i banchieri newyorchesi avessero ribattezzato Wall Street la Via dei Predoni), ma è l’unico guizzo di fantasia: a parte il nome della strada, il quartier generale di Facebook è segnalato solo da un cartello col pollice rivolto in alto, il segno “like” (mi piace) del social network. Non fosse per le tante auto Tesla elettriche da cinquantamila dollari che ricaricano le batterie (gratis) nel parking aziendale, l’anonimo edificio di mattoni rossi è un casermone squadrato che potrebbe ospitare un scuola o la posta. Proseguo il mio viaggio fino a Cupertino, che mi accoglie come una città sino-coreana: le insegne dei negozi pubblicizzano ristoranti asiatici, massaggio dei piedi, corsi di taekwondo, serate karaoke, e la filiale della Cathay Bank. Prima ancora di arrivare al mitico numero uno dell’Infinite Loop (“cerchio infinito”) mi rendo conto che Apple si è appropriata di questa cittadina come una metastasi: occupando via via tutti i palazzi di uffici lungo il De Anza Boulevard. Una crescita a casaccio, senza un filo conduttore, senza una linea estetica. Che vergogna, per un’azienda che nel design dei suoi prodotti ha imposto la sublime eleganza zen come tratto distintivo.
Certo la banalità della Silicon Valley scompare quando varchi le porte d’ingresso e penetri nei luoghi di lavoro. Googleplex sembra un villaggio vacanze per hippy, con ragazzi in bermuda e infradito che giocano a beachvolley. Le sue celebri mense salutiste (che furono fondate dall’ex cuoco della rock band Grateful Dead) sono ubique, ispirate dall’idea che “nutrirsi deve essere un divertimento gratuito”, i magnifici giardini sono essenziali per incoraggiare la “biofi- lia”, l’amore della natura che “è la migliore cura antistress”. L’unico dei giganti digitali che ha scelto di rimanere in città (a San Francisco) cioè Twitter, ti accoglie in uffici dove ha abolito i telefoni fissi, le pareti e le porte, dove la reception d’ingresso è un “nido” (i tweet sono cinguettii di uccelli), dove le riunioni strategiche conservano quel tono d’improvvisazione giovanile che serve a ribadire un concetto: nulla è permanente, nulla è codificato e gerarchizzato, la vita nell’economia hi-tech è un flusso di cambiamento incessante.
Non sono certo il primo a notare che la Silicon Valley è una gran delusione estetica. L’esteta capo, Steve Jobs, lo avvertì come una sconfitta personale. Quattro mesi prima di morire, nel giugno 2011, il fondatore di Apple si presentò alla seduta del consiglio comunale di Cupertino con un annuncio clamoroso: la costruzione di un nuovo quartier generale. Affidato a una delle archistar globali, l’inglese Sir Norman Foster celebre per monumenti grandiosi come il Nido d’Uccello (Pechino, Olimpiadi 2008) e il Reichstag di Berlino. Jobs si presentò all’amministrazione cittadina col progetto già bell’e pronto. Il disco volante, o l’astronave, l’hanno chiamato. Un disco gigantesco, appoggiato in mezzo al verde, di dimensioni colossali: il più grande e costoso (cinque miliardi di dollari) edificio d’America, più ampio del Pentagono. Potrebbe contenere cinque stadi di football, ci staranno diecimila dipendenti. Fu l’ultimo grande sogno di Jobs, orchestrato con cura, fino alla presentazione spettacolo che fece ricordare le sue performance al lancio dei nuovi prodotti di Apple.
E così da quel giugno 2011 la Silicon Valley ha deciso di redimersi, di riscattare la propria banale bruttezza. Scatenata da Jobs, è partita subito la gara dell’emulazione di tutti gli altri. Il centro mondiale delle tecnologie, dopo avere generato la più vasta ricchezza capitalistica in un arco di tempo così breve (nessun altro distretto industriale nella storia ha raggiunto in pochi anni la capitalizzazione di Borsa di Apple più Google più Facebook più Twitter eccetera), ora vuole lasciare un segno durevole anche nel paesaggio. Come Bill Gates arrivato alla maturità s’innamorò del Rinascimento italiano, così tutta l’economia digitale scopre il mecenatismo a fini estetici. La Silicon Valley avrà le sue piramidi, la sua valle dei templi.
Appena divulgato il progetto Jobs-Foster, immediatamente Facebook si è messa alla rincorsa. Il fondatore Mark Zuckerberg ha ingaggiato un’altra archistar, l’americano Frank Gehry. Il cui progetto, volutamente, è una sorta di anti-Foster. Mentre il vascello spaziale di Apple sarà imponente e ingombrante, smisuratamente visibile da lontano, al contrario la nuova sede Facebook disegnata da Gehry vuole scomparire nella natura. Imitando il museo di scienze ambientali di Renzo Piano a San Francisco, Gehry ha adottato la soluzione del “tetto verde”: il campus Google sarà semi-interrato, interamente coperto di vegetazione, sotto giardini pensili che lo assorbiranno e lo mimetizzeranno.
Google ha lanciato il suo progetto pochi mesi dopo Facebook. I fondatori Sergey Brin e Larry Page hanno esaminato vari progetti concorrenti, scartandone uno dell’architetto tedesco Christoph Ingenhoven, per selezionare una società di design di Seattle, la Nbbj. «La sfida — spiega l’esperto di architettura Paul Goldberger — è molto ardua. I giganti delle tecnologie digitali hanno sconvolto e rivoluzionato ogni altro aspetto della nostra vita quotidiana, resta da vedere se possano avere un impatto altrettanto potente sull’ambiente urbanistico e la costruzione ». Un aspetto colpisce Goldberger. Le piramidi dei nuovi faraoni della nostra epoca, pur diverse come lo sono i progetti di Foster e Gehry, sembrano avere una cosa in comune: «Guardano verso se stessi, sono degli ambienti auto-sufficienti, più simili ai campus universitari che alle città, anzi del tutto scollegati dalle cittadine attorno».
Tutto accadrà molto in fretta, le cattedrali della Silicon Valley sorgeranno entro il 2016. La velocità non fa difetto, da queste parti. E allora il pellegrinaggio in quest’angolo della California ci offrirà emozioni nuove, forse anche una chiave di lettura aggiuntiva sull’ideologia dei faraoni digitali. L’informalità e la mediocrità estetica si addiceva alla fase pionieristica: dopotutto questi giovani cervelli hanno quasi sempre cominciato a reinventare il mondo dentro un garage. Ora che del mondo sono diventati i padroni, devono decidere che forma dargli.
postilla
Più che simili a campus universitari, i parchi uffici delle mega-imprese tecnologiche assomigliano alla cittadella suburbana ripiegata su sé stessa da cui l'idea di campus discende. E la vera questione, di cui Rampini cita solo l'aspetto secondario dell'anonimato di un territorio architettonicamente seriale, è l'impatto ambientale dello sprawl fatalmente indotto da questo modello organizzativo: di qui i parchi uffici aggrappati all'autostrada, di là i baccelli chiusi delle aree residenziali cul-de-sac socialmente omogenee, di là ancora i servizi e il commercio a offrire quella caricatura di spazio pubblico e di relazione creata via via dal novecento automobilistico. Il tono minaccioso con cui Steve Jobs presentava a Cupertino il progetto di astronave suburbana di Foster, spiegando al consiglio comunale “o me lo accettate così, o me ne vado altrove con la sede”, non riguardava tanto le forme architettoniche, ma proprio quel genere di zoning esclusivo che tutti additano come colpevole di tante cose, incluso il cambiamento climatico da emissioni. Le amministrazioni locali della California stanno cercando da anni con alcune leggi urbanistiche di arginare questa deriva, promuovendo nuclei urbani polifunzionali più densi e adatti alla mobilità dolce e pubblica, ma faticano assai nello scontro con questi innovatori ma non troppo, rigorosamente a modo loro. Pur di rifugiarsi nel vecchio american dream delle sicurezze infantili, Steve Jobs ha inventato la Macchina del Tempo (f.b.)
Con troppa poca enfasi sugli aspetti sociali e istituzionali (ma siamo nella sezione tempo libero del giornale) comunque qualche spunto interessante sul futuro urbano dell'Africa. Corriere della Sera, 19 aprile 2014 (f.b.)
In Nigeria c’è una scuola galleggiante che può essere presa a simbolo del Rinascimento africano. Si spopolano i villaggi, avanzano le città: il 38% degli africani (300 milioni di persone) vive nelle aree urbane, con una crescita annua del 4%. Da qui al 2020 ci saranno 40 città africane più grandi di Roma o di Berlino. Il 70% della popolazione vive nelle caotiche periferie che, come nota l’Economist, Dickens e Balzac troverebbero familiari come i centri industriali nell’Europa dell’Ottocento. Non è una notazione neocolonialista, lo dicono gli africani stessi: il Continente che si espande a ritmi vertiginosi ha davvero un problema (e una straordinaria occasione) di sviluppo urbano sostenibile. Non è facile: per mettere ordine al caos di Addis Abeba in Etiopia, uno studio di architetti svizzeri ha consigliato alle autorità di prendere in considerazione il modello italiano, con strade che si dipartono a raggiera da un centro e di lasciar perdere le pareti di cristallo importato dall’estero per tornare alla più fresca ed economica pietra locale. L’Africa deve copiare l’Italia? Forse è più utile (anche per l’Italia) prendere a modello la scuola galleggiante di Makoko, incrocio impossibile (nella velenosa laguna di Lagos) tra una baraccopoli di palafitte e i canali di Venezia. Tre piani di materiali riciclabili che ospitano 100 studenti al giorno, la scuola di Makoko è uscita dalla testa di Kunlé Adeyemi, uno dei protagonisti della mostra «Together, le nuove comunità in Africa» aperta fino al 28 aprile allo SpazioFMGperl’Architettura di Milano.
Grandi architetti, grandi città africane: Lagos, Kigali, Cape Town. Quest’anno la capitale mondiale del design è proprio Città del Capo. Chi la considera «poco africana», non ha mai fatto la spola tra l’immacolata Marina e le polverose ex township di Cape Flats, dove i neri erano relegati al tempo dell’apartheid. Ci vivono ancora oggi, a 20 anni dalle prime elezioni dell’era Mandela, ma con un orgoglio e una carica diversi rispetto al passato. Carica e orgoglio: è questa la visione di Dayo Olopade, che nel suo nuovo libro intitolato «The Bright Continent» divide le società in grasse e magre. Le vecchie categorie (ricchi e poveri, sviluppati e in via di sviluppo) non bastano a spiegare la brillantezza dell’Africa attuale, magra e intelligente, contrapposta al ristagno soporifero dell’Europa.
Olopade, giornalista nigeriana-americana, spiega che «le società magre hanno un approccio alla produzione e al consumo tutto basato sul concetto di scarsità». Reddito medio 1.600 euro (all’anno!), popolazione al 70% sotto i trent’anni, gli africani «sanno che niente è scontato, niente può essere sprecato». Questo aguzza quella fondamentale (e poco conosciuta) forma di «know how» che nella lingua Yoruba (parlata in Nigeria) prende il nome di «kanju». Il fare che dribbla le difficoltà e le formalità, inventa nuovi modelli senza buttare niente, impastando praticità e fantasia, high tech e tradizione. L’Africa magra è il continente che cresce più veloce di tutti? È perché nel suo motore ha messo la giusta miscela di kanju che manca invece alle nostre «società grasse», che sprecano e vanno a rimorchio del passato.
Tra gli esempi di kanju applicato alla società (oltre che all’architettura), Olopade cita proprio la scuola di Makoko (è indicativo che gli amministratori di Lagos volessero abbatterla: troppo rivoluzionaria e al tempo tradizionale). Cita anche una clinica di Khayelitsha, una delle township di Cape Flats e una delle più povere del Sudafrica: lì alcuni container da trasporto navale sono state riciclati e riadattati fino a diventare lo spazio operativo della dottoressa Lynette Denny che li usa per gli screening e la prevenzione del cancro.
Naturalmente sarebbe auspicabile che le donne di Khayelitsha potessero fare gli esami in un ospedale vero. Ma anche Joe Noero, veterano degli architetti sudafricani che ha molto lavorato su progetti sostenibili proprio a Cape Town, si troverà in sintonia con il principio del Kanju applicato a Cape Flats. Le nuove comunità africane sono anche un monumento all’emergenza creativa. Noi grassi (ma sempre più deperiti) europei alla deriva dovremmo fare tesoro del Kanju pensiero. Mentre gli africani dovrebbero chiedere ai loro governanti di non perseguire una cementizia modernità pseudo occidentale (già superata). E tanto per cominciare fornire a tutti una rete elettrica decente (e non solo la rete dei telefonini). È la presa della corrente che, per esempio, meglio permette di conservare i cibi. Più kanju a noi, più frigoriferi agli africani.
Anche nell'elezione del sindaco di Parigi emerge vistoso e drammatico il tema delle disuguaglianze metropolitane, e dell'inadeguatezza dell'idea di città contemporanea, da molte prospettive. Corriere della Sera, 23 marzo 2014 (f.b.)
Comunque vada a finire l’odierna sfida elettorale, sarà una donna a governare Parigi. E sarà una donna di origine straniera, perfetta simbologia del cambiamento sociale e culturale della Francia di oggi, in cui si specchia la sua capitale. Parigi come New York, con un sindaco il cui dna riflette le tante anime e le tante diversità di una grande metropoli.
Anne Hidalgo, 54 anni, socialista, è nata in Spagna. Nathalie Kosciusko-Morizet, 40 anni, destra gollista, ribattezzata NKM perché più facile da pronunciare, discende dalla nobilità polacca che combatté a fianco di Napoleone. Due donne alle quali sono affidate le diverse speranze delle rispettive famiglie politiche. La Hidalgo, data per favorita, erede della lunga gestione del sindaco uscente Delanoë, deve riuscire a impedire che un test amministrativo si trasformi — come spesso avviene a metà legislatura — in uno schiaffo politico al governo centrale, ossia nel deposito della delusione dei francesi nei confronti del presidente Hollande, il cui consenso è in caduta libera. NKM, ex ministro dell’ecologia e molto vicina a Sarkozy, può offrire a una destra lacerata da conflitti di corrente e rivalità un messaggio di riscossa, con cui coltivare peraltro anche le sue personali ambizioni.
Ma la simbologia parigina non si ferma alla sfida fra due donne e due personalità. È evidente anche nel confronto di contenuti e programmi. Se depurati dalle forzature propagandistiche — un po’ più di sicurezza, un po’ più di alloggi popolari, un po’ meno funzionari pubblici, un po’ meno burocrazia e sprechi e riduzione delle tasse sulle abitazioni — riflettono un’idea molto simile della Parigi di oggi e di come sarà il suo futuro. Per la bruna spagnola dagli occhi mediterranei e per la bionda polacca dal malinconico sguardo slavo, le priorità sono l’ambiente, il trasporto pubblico, la lotta al traffico automobilistico e ai motori diesel, l’estensione delle aree pedonali. Chiunque vinca, non correggerà la politica che ha portato alla chiusura delle vie di scorrimento sulla Senna, al modello velib e autolib imitato in tante metropoli europee, a una forte diminuzione della circolazione privata. Entrambe le candidate annunciano misure più radicali, con la determinazione di azzerare picchi d’inquinamento atmosferico e acustico che periodicamente ancora si registrano in giornate e ore di punta.
La scommessa delle due «rivali» è, in sostanza, la prospettiva di un nuovo urbanesimo, una trasformazione della vita collettiva della capitale francese di cui sono già state poste le premesse nell’ultimo decennio. Una scommessa che stenta però a conciliarsi con le altre decisive realtà e funzioni di una metropoli che rappresenta il 10 per cento del prodotto nazionale, è il cuore burocratico di un Paese fortemente dirigista e centralista, è sede di 360 mila società e imprese, accoglie ogni anno milioni di turisti e ogni giorno milioni di pendolari. La Parigi della sfida fra le due dame, quella compresa fra i confini municipali, è piccola cosa rispetto alla «grande Parigi» con i suoi dodici milioni di abitanti e città satelliti che «usano» la capitale senza far parte di un disegno complessivo di governabilità e integrazione sociale.
Il «club Med» che piace tanto ai visitatori stranieri e ai «bobos» che hanno in privilegio di abitare in centro e di percorrerlo in bicicletta, è quindi in stridente contraddizione con le esigenze del lavoro e della produzione, con le vaste aree di povertà ed esclusione, con la «cintura» delle sue periferie popolari che tendono a strangolarlo. Il «club Med» è una macchina amministrativa che gira con cinquantamila impiegati, una città nella città, al costo di otto miliardi all’anno, senza contare l’apparato dei ministeri e delle funzioni statali. Capitale ecologica, ma anche capitale ostile, con un tasso di nevrosi collettiva e latente depressione e aggressività che oscura il mito della Ville Lumière. Anche per questo, la sfida delle due dame è un test nazionale: il futuro di Parigi, al di là dei risultati di un’elezione amministrativa, è anche una certa idea della Francia, dei suoi primati culturali ed economici, di una qualità della vita collettiva che tende a diventare, come a Parigi, un privilegio di pochi.
Il racconto del giornalista, avvincente, da molti punti vista rischia di vedere solo il dito: la questione vera è quella delle politiche territoriali, come hanno ben capito altri. La Repubblica, 17 marzo 2014, postilla (f.b.)
Sembrano degli Ufo, vascelli spaziali che trasportano alieni. Imponenti, maestosi, e misteriosi, i torpedoni extralusso a due piani si aggirano per le vie di San Francisco inghiottendo il loro carico umano in silenzio. Hanno i vetri oscurati. Sul cruscotto leggo dei cartelli dai simboli arcani: Mtv, Mpk, Gbus. Gli addetti ai lavori sanno decifrare ogni sigla. Mountain View, quartier generale di Google. Menlo Park, sede di Facebook. Gbus sta per Google-bus. Si accostano ai marciapiedi dove li attendono i passeggeri in file ordinatissime, molto più lunghe di quelle degli utenti “normali” che attendono gli autobus pubblici. Questi qui sono tutti ventenni, ragazze e ragazzi, molti di loro asiatici, vestiti ultra-casual (bermuda, T-shirt, sandali e ciabatte infradito) e con zainetto come se andassero a fare surf in spiaggia; gli immancabili auricolari che li isolano dal mondo. Appena salgono sul bus li vedo aprire i loro tablet e sprofondare in un isolamento ancora più completo, a tu per tu con il cyber-lavoro che li aspetta.Questi torpedoni stile Rolls Royce, extra-large e con tutti i comfort delle limousine (wi-fi, snack, bevande, poltrone rilassanti), sono diventati il detonatore di una protesta sociale senza precedenti da queste parti. Occupy Silicon Valley, possiamo chiamarla.
È la rivolta dell’altra San Francisco contro lo strapotere del capitalismo digitale: che genera ricchezze diffuse ma esaspera le diseguaglianze, espelle da questa città interi ceti sociali medio-bassi. Bersaglio della protesta per alcuni mesi sono diventati proprio i torpedoni, simbolo visibile di un privilegio e di un’ingiustizia. Con la loro stazza enorme invadono le strade di San Francisco, peggiorano gli ingorghi, fanno fermate non autorizzate. Ad ogni ora del giorno e della sera (adattandosi agli orari ultra-flessibili dei giovani ingegneri e programmatori di software) fanno la spola tra i quartieri residenziali della città e le varie sedi di Apple, Google, Yahoo, Facebook, disseminate lungo l’autostrada 101 che è l’arteria vitale della Silicon Valley. Trasportano comodamente dalle abitazioni agli uffici hi-tech un popolo di giovani strapagati, coccolati, mentre il resto della popolazione cittadina si accalca sui bus municipali stravecchi e sempre in ritardo.
«Un mattino all’improvviso siamo stati assaliti dai manifestanti, hanno rotto un vetro del torpedone», racconta Craig Frost che lavora da Google. E conserva il volantino che i manifestanti hanno distribuito ai passeggeri. Ecco il testo: «Vi meravigliate di questa protesta? Eccone le ragioni. Le persone che stanno fuori dal vostro Google-bus sono quelle che vi servono il caffè al mattino, vi custodiscono i figli mentre siete al lavoro, si prostituiscono per fare sesso con voi a pagamento, vi preparano da mangiare al ristorante, e vengono espulse dai quartieri di questa città. Mentre voi vivete come maiali d’allevamento ben pasciuti, con i buffet aziendali gratuiti 24 ore su 24, il resto della città sta raschiando il fondo per sopravvivere. Ma noi non esistiamo neppure, nel mondo costoso e artificiale che voi avete creato».
Uno degli organizzatori delle proteste è Tony Robles, attivista di Senior and Disability Action, una ong che assiste anziani e disabili. «Siamo andati alle fermate dei torpedoni — dice Robles — per far capire a quella gente che i loro business hanno conseguenze sociali, e devono farsene carico ». Nel quarto di secolo di storia di Internet, un’era tecnologica che ha avuto nella Silicon Valley il suo epicentro e la sua cabina di regìa, non era mai nata una protesta sociale “mirata” in modo così preciso contro questo mondo.
Le ragioni di questa protesta le riconosce lo stesso sindaco di San Francisco, il cinese-americano Edwin Lee, che molti manifestanti accusano di essere legato a doppio filo alle grandi imprese della Silicon Valley. «Non lo nego affatto — dice Lee — in questa città esiste la povertà. C’è una parte della popolazione che sta lottando per sopravvivere». Eppure per molti, incluso Barack Obama che lo invitò in tribuna d’onore al discorso sullo Stato dell’Unione, il sindaco Lee è il simbolo di un’America che ha sconfitto la crisi, che è tornata a crescere, che tutti vorrebbero imitare. Il tasso di disoccupazione a San Francisco è al 4,8% contro la media nazionale del 6,6%. Mentre nel resto degli Stati Uniti esplode lo scandalo degli stagisti non remunerati (una forma di sfruttamento illegale ma diffusa), qui a San Francisco uno stagista di Twitter guadagna 6.791 dollari al mese, più di 80.000 dollari all’anno, una cifra notevole se confrontata col reddito medio della famiglia americana: 53.000 dollari all’anno. Eppure la stessa sede di Twitter — l’unica che è nel centro di San Francisco — è stata presidiata da manifestanti con gli striscioni. Denunciano i generosi sgravi fiscali che il sindaco Lee haofferto a quest’azienda: dieci anni di esenzione dalla payroll tax (l’equivalente dei contributi previdenziali), pur di convincere Twitter a insediarsi in città.
L’ennesimo boom della Silicon Valley sta creando un esercito di giovani milionari, a una velocità esponenziale. Quando Google si quotò in Borsa furono “solo” mille i nuovi milionari creati da quel collocamento, per Facebook e Twitter la stima è salita a 1.600 milionari cadauna. Il salario “minimo” di un dipendente hi-tech nella Silicon Valley è centomila dollari annui secondo i dati del Bay Area Council, una sorta di Confindustria locale. Ma tutta questa ricchezza provoca un fenomeno di “gentrification” senza precedenti: espulsione dei ceti meno abbienti. L’affitto di un modesto appartamento a due stanze è salito a 3.250 dollari, secondo la San Francisco Tenants Union. La bolla immobiliare è ancora più evidente nelle compravendite: l’80% delle abitazioni messe sul mercato vengono acquistate a prezzi superiori a quelli chiesti dai proprietari, in una folle spirale di aste competitive. Un professore di liceo statale guadagna 59.700 dollari all’anno: con questo costo della vita, gli è diventato impossibile rimanere a San Francisco. Un’altra attivista che ha organizzato le proteste è Rebecca Gourevitch di Eviction Free: «Siamo di fronte a due San Francisco, due città sempre più distanti tra loro, con un divario economico che cresce a dismisura ».
Il movimento contro le “eviction” cioè gli sfratti, ormai coinvolge ampie fasce di ceto medio. Non è più un gap tra ricchi e po-veri, ma tra i nuovi ricchi dell’economia digitale e la maggioranza degli altri, inclusi tutti quegli addetti ai servizi essenziali per gli stessi ventenni della Silicon Valley: che quando tornano a casa la sera si aspettano di trovare una San Francisco pulita e ordinata, con pattuglie di polizia, vigili del fuoco, nettezza urbana, licei e università che funzionano. Nessuno di questi servizi paga stipendi sufficienti, ormai, per una città in preda alla febbre delle stock option. «Il 23% degli abitanti — riconosce il sindaco Lee — vive sotto la soglia della povertà».
Alcuni protagonisti del nuovo boom digitale reagiscono alle proteste con una suprema arroganza. Un celebre venture capitalist come Tim Draper promuove un referendum per la secessione della Silicon Valley che la trasformi in uno Stato indipendente dalla California. Altri perfino più temerari immaginano di trasferire i quartieri generali delle aziende hi-tech su piattaforme marine, extra-territoriali. Il simbolo dell’insensibilità è Tom Perkins, uno dei più celebri finanziatori del venture capital, un genio dell’investimento che ha contribuito alla nascita di Google e di tante altre start-up di successo. Grande visionario nelle tecnologie, ma solo in quelle. «I manifestanti che bloccano i torpedoni privati diretti nella Silicon Valley mi ricordano la Gioventù nazista che agli ordini di Hitler assaltava le aziende degli ebrei durante la Notte dei cristalli». Questa frase Perkins ladice davanti a una folta platea, parlando in uno dei centri culturali più frequentati a San Francisco, il Commonwealth Club. Secondo Perkins c’è un «accanimento contro l’un per cento». E il suo suggerimento a Google è spietato: «Ignorino le proteste».
Ma l’azienda diretta da Eric Schmidt non segue i consigli del suo illustre finanziatore. Almeno sembra avere più sensibilità alle relazioni pubbliche, rispetto al capitalismo di Wall Street che domina sull’altra costa. Di fronte a Occupy Silicon Valley, la risposta è astuta. Google stacca un assegno da 7 milioni di dollari, intestato al Public Transit System, l’azienda dei trasporti municipali: offre biglietti gratis sugli autobus pubblici a tutti i giovani sotto i 17 anni che appartengono a famiglie a basso reddito. La portavoce di Google, Meghan Casserly, si esibisce in un capolavoro di diplomazia: «I residenti di San Francisco hanno ragione ad essere frustrati. Pagheremo di più per l’uso delle fermate pubbliche. E nel frattempo tutti gli studenti a basso reddito viaggeranno a nostre spese almeno per i prossimi due anni». Google aderisce anche all’iniziativa di Marc Benioff, fondatore di Salesforce: si chiama San Francisco Gives, ha raccolto già 10 milioni per iniziative contro la povertà. La filantropia come risposta alle disuguaglianze sociali: i giovani capitalisti della Silicon Valley sperano che basti.
postilla
Parafrasando un celebre proverbio, verrebbe da dire: se indichi la luna, lo stolto guarda il dito, il saggio vede lo sprawl. Ci sono due facce dello sganciamento fra capitale e territorio che ci perseguitano almeno dagli anni della deindustrializzazione e libera circolazione dei capitali globalizzata. La prima è quella dell'apparente indifferenza localizzativa, che prosciuga da un momento all'altro intere regioni di risorse economiche, posti di lavoro, prospettive future, spostandosi là dove hanno deciso i contabili e un consiglio di amministrazione estraneo al mondo reale. La seconda, una specie di strascico novecentesco superstizioso ma micidiale, è il riorganizzarsi locale delle cosiddette mega-regioni (nel caso specifico la Bay Area di San Francisco, ma vale benissimo per altri luoghi come la nostra pianura padana) secondo il modello tradizionale dello sprawl e della specializzazione territoriale. A cui a quanto pare sinora non hanno dato risposta convincente le teorie di Richard Florida e della sua classe creativa che attraverso processi di gentrification avrebbe controbilanciato la dispersione insediativa. Avviene, invece, che il ricentraggio parziale gestito dal libero mercato speculativo produca da un lato l'impennarsi dei valori immobiliari in centro, dall'altro l'espulsione ulteriore dei ceti popolari e progressivamente anche di quelli medi. Ma c'è un altro fattore che Rampini non coglie: la persistente tendenza delle grandi imprese a organizzarsi su campus suburbani, anziché contribuire a costruire città vere e proprie, che da sole (con ovvie politiche pubbliche) sarebbero già una risposta sociale ai disastri raccontati dall'articolo. Un aspetto lo abbiamo raccontato a suo tempo su Mall e anche qui su Eddyburg, nel pezzo Steve Jobs Urbanista. Chi volesse verificare gli ultimi sviluppi può ad esempio leggersi l'ultimo documento elaborato dal centro studi San Francisco Planning and Urban Research Association SPUR, Agenda for Change; su Millennio Urbano qualche considerazioni in più (f.b.)
Una interessante esperienza integrata di gestione del territorio e della propria esistenza, da osservare e considerare in una prospettiva più ampia. La Repubblica, 9 marzo 2014, postilla (f.b.)
BOLOGNA - Mani che battevano la tastiera di un computer o segnavano in blu o rosso i compiti degli allievi. Stringevano un bisturi in sala operatoria ma anche la cazzuola per alzare un muro di mattoni: adesso si dedicano alla semina, alla crescita e al raccolto di cavoli, fragole, pomodori, zucchine, pere, mele. I cittadini diventano contadini, con centina ia di braccia rubate dall’agricoltura, e non viceversa. «Semplicemente, abbiamo riscoperto l’agricoltore che è in noi. Investiamo denaro e lavoro e ogni settimana ci portiamo a casa una cassetta con il nostro raccolto. Non ci basta il piccolo orto, al massimo dieci metri per dieci, che è un bella invenzione per i pensionati. Noi cittadini — contadini, e per giunta biologici, siamo imprenditori agricoli. Non l’un contro l’altro armati ma uniti in una cooperativa».
È arrivata in Italia — Borgo Panigale, periferia di Bologna, sette chilometri da piazza Maggiore — la prima Csa, “Community supported agriculture”, agricoltura sostenuta dalla comunità. In Germania, Francia e Inghilterra ci sono Csa attive da quarant’anni. Tre ettari di terra in affitto, per ora. Ma la cooperativa Arvaia (pisello, in dialetto bolognese) vuole affittare altri trenta ettari, così gli attuali 180 soci potranno diventare almeno 500 e oltre a frutta e verdura potranno portare a casa tutto ciò che si serve in tavola: dalla carne al formaggio, dal latte al pollo.
Qualche giorno fa Arvaia («Abbiamo scelto questo nome perché ci mettiamo uno a fianco dell’altro, come i piselli nel baccello») ha compiuto il primo anno di vita. «Siamo partiti in sette e fra pochi giorni saremo duecento. C’è davvero una gran voglia di tornare alla terra. In fondo, la nostra è una piccola rivoluzione: l’insalata che ti metti in tavola non ha più un prezzo ma un valore. Sai che è stata coltivata in modo sano e questa è una garanzia per noi ma anche per i nostri figli: la terra che lasceremo non sarà rovinata dai veleni». Il “salotto” della cooperativa è una piccola serra di nylon, sotto il colle di San Luca. C’è un fornello a gas per il caffè. «Io sono l’unico socio fondatore — racconta il presidente, Alberto Veronesi — con esperienza diretta nei campi. Sono agronomo, ho lavorato come consulente per le coltivazioni biologiche. Poi ho deciso: voglio fare il contadino assieme ad altri abitanti di città, come me. E voglio farlo condividendo la passione ed anche i rischi d’impresa».
Una quota di 100 euro, una tantum, per diventare soci. E questo è il capitale d’impresa. Poi, all’inizio dell’anno, il socio anticipa il costo delle cassette di verdura e frutta settimanali — circa 42, con la sosta invernale — che saranno ritirate alla coop o consegnate a casa. Per una cassetta di 3-4 chili si anticipano 400 euro, per quella di 6-7 chili si versano 800 euro. «E con questi soldi noi possiamo pagare la preparazione del terreno, le semine, la cura, il raccolto. E pagare noi soci lavoratori, che per ora siamo quattro ma che — se otterremo i trenta ettari — potremo diventare più di dieci. I rischi? Se ti arriva l’insetto che ti mangia i pomodori o ti spazza via la lattuga, non potrai riempire le cassette. La garanzia? Tutto viene fatto senza chimica. Un esempio: abbiamo già seminato veccie, favino e orzo che saranno già alti, ma non maturi, prima dell’estate. Allora faremo il sovescio, o concimazione verde. Con l’aratro, seppelliremo queste colture e poi semineremo i cavoli e altre piante invernali. Il sovescio sarà il concime naturale: noi non nutriamo la pianta ma il terreno».
Con una certa ironia, Arvaia ha inventato l’agrifitness. «Al sabato — ma chi può anche negli altri giorni — i soci lavorano nei campi. Così si mantengono in forma». C’è chi lavora non per fare ginnastica ma per guadagnarsi la cassetta senza togliersi gli euro di tasca. Si tratta di esodati, disoccupati e cassintegrati che così riescono a portare a casa almeno la verdura. Arvaia è anche un laboratorio. C’è chi viene a imparare il mestiere per poi magari affittare qualche ettaro e mettersi in proprio. «Per noi la cooperativa — raccontano Cecilia Guadagni (pedagogista), Stefano Peloso (artigiano) e Paola Zappaterra (storica) — è una scelta di vita. C’è chi ha perso il lavoro e chi lo ha lasciato volontariamente. Nella nostra memoria c’è il racconto dei nonni per i quali l’agricoltura era una condanna. Si spaccavano la schiena e se arrivava la grandine mangiavano riso e fagioli tutto l’inverno. Lavorare qui — Cecilia e Stefano sono a tempo pieno — è invece una scelta: è un mestiere vero e completo per il quale spendi tutto il tuo tempo, coltivando patate, piselli e relazioni umane».
Un altro caffè poi la raccolta del cavolo nero. Si deve riparare una rete che tiene lontani caprioli e lepri, divoratori delle prime insalate. «Il Comune di Bologna, che presto farà il bando per i trenta ettari, ha molte terre oggi abbandonate. Potrebbero essere date in comodato d’uso ad altre cooperative o gruppi di giovani. La terra può accogliere chi è stato mandato via dalla fabbrica. Non siamo una manica di idealisti, il bilancio è tenuto da Nunzia Liseno, laureata in Economia. Ce la possiamo fare, “produzione e partecipazione” debbono essere carte vincenti». Le nuvole se ne vanno, riappare il sole. «Fra pochi giorni fioriranno i meli».
postilla
Nel racconto dell'esperienza di agricoltura sociale bolognese emergono alcuni aspetti davvero interessanti, del resto piuttosto noti nelle esperienze internazionali simili, e che riguardano il ruolo emergente degli spazi aperti urbani sia sul versante socio-ambientale, che sanitario e dei servizi alla persona, ma soprattutto (e questo è forse più difficile da intuire immediatamente) in prospettiva i diversi equilibri fra città e campagna di questo nostro terzo millennio dell'urbanizzazione globale. Perché se è vero che soggettivamente questi spazi valorizzati grazie alla partecipazione diretta dei cittadini si pongono come una specie di istituzione parallela autogestita (il riferimento è per esempio al bell'articolo di Daniela Poli su un caso toscano pubblicato su questo sito) è anche vero che difficilmente la dimensione locale e di quartiere può cogliere l'entità del problema a scala vasta. La chiave di lettura pare ancora, come in tanti altri casi, quella dell'ente sovracomunale di coordinamento, vuoi strettamente istituzionale, vuoi in forme inedite miste, a gestire la cosiddetta infrastruttura verde territoriale, che raccorda una città sempre più densa (perché così si sta evolvendo, non dimentichiamolo) a spazi naturali e di agricoltura non-urbana. Altrimenti, al di là delle ottime intenzioni di gruppi o comitati o teorici del ritorno alle radici di qualcosa, non si andrà oltre una generica dichiarazione di principio (f.b.)
La città dei flussi e del movimento nel suo processo storico e critico divergente da quella degli spazi della società e dell'identità: considerazioni e riflessioni che coinvolgono sia le prospettive urbanistiche, che quelle di percezione collettiva. La Repubblica, 18 febbraio 2014
In realtà, questa deprivazione sensoriale dovrebbe sorprenderci, visto che il corpo è diventato un’icona della cultura moderna altamente consapevole di sé. (...) Il corpo, oggi, è costantemente esplorato come chiave per comprendere se stessi: le persone parlano di accettazione del proprio corpo come passo per il raggiungimento della libertà personale. Eppure, il nostro modo di costruire non contribuisce alla cultura della consapevolezza corporea di sé.
Visto come stanno le cose, potremmo essere tentati di mettere sotto accusa quelli che appaiono solo come costruttori di strutture asessuate e di spazi pubblici neutri. Gli scrittori che pensano in termini di “corpo politico” dovrebbero piuttosto trattare l’esistenza di spazi morti in una cultura ossessionata dalla sensazione corporea come l’indizio di una più generale dimensione culturale; forse l’ossessione somatica non è esattamente quello che sembra. (...) Dare la colpa ai progettisti professionisti per aver realizzato spazi morti è un po’ come sparare sul messaggero che porta cattive notizie. In realtà, la cattiva notizia che ci arriva dai portavoce dell’architettura è un’altra: e cioè che un pubblico così avido di corpi fatti a pezzi, e di letture di argomento sessuale – in cui si descrivono atti fino al più piccolo dettaglio anatomico – possa sentirsi appagato da un corpo politico in cui impera la passività.
Uno dei modi possibili di definire la passività dei sensi nella vita di ogni giorno è “fastidio nel contatto”. A questo proposito, un paio di incisioni realizzate da William Hogarth nel 1751 possono risultare illuminanti per l’osservatore moderno.
In Beer Street e in Gin Lane, Hogarth cercava di rappresentare l’ordine e il disordine nella Londra del suo tempo. Beer Street mostra un gruppo di persone sedute insieme a bere boccali di birra in tutta tranquillità. Gli uomini si appoggiano a vicenda le braccia sulle spalle e in alcuni casi compiono lo stesso gesto anche con le donne. L’atto del toccare, in questa incisione, mostra una condizione del vivere nella società: rappresenta l’ordine sociale.
Gin Lane raffigura invece una scena in cui non c’è contatto fisico tra i corpi, dove ogni persona è catatonicamente ritirata in se stessa e ubriaca di gin, dove la gente non ha consapevolezza fisica né delle altre persone, né delle scale, né delle panchine o degli edifici presenti nella strada. Questa mancanza di connessione fisica trasmette l’idea hogarthiana di disordine nello spazio urbano. Se oggi uno sconosciuto con una bottiglia di birra in mano vi si avvicinasse per la strada e provasse a toccarvi l’avambraccio, probabilmente fareste un balzo indietro per la paura — e così del resto farei anche io. Il toccare è percepito più come una violazione che non come un atto generatore di ordine. Questa paura del contatto fisico trova espressioni diverse nell’ambiente costruito che ci circonda. Nel decidere il percorso delle strade, per esempio, gli urbanisti cercano di incanalare il traffico in modo da isolare la comunità residenziale dal quartiere degli affari, oppure, se il traffico attraversa zone residenziali, fanno in modo da separare le aree ricche da quelle povere o etnicamente diverse.
Nello sviluppo della comunità, i progettisti prevedranno la costruzione di scuole o di edifici residenziali nel cuore della comunità stessa, piuttosto che ai margini dove le persone possono entrare in contatto fisico con gli estranei. Sempre di più, le comunità recintate e sorvegliate 24 ore su 24 sono presentate agli ipotetici acquirenti come modello di vita ideale. Dal punto di vista urbanistico, la paura del contatto si traduce in paura del contatto fisico con gli estranei. È facile sentir parlare di quanta capacità di sopportazione sia necessaria per gestire il contatto con esseri umani “esterni”. Un modo più mirato per comprendere questa paura è quello di risalire alle sue origini, rintracciabili nell’evoluzione di un’altra esperienza corporea nello spazio: il movimento.
Un importante punto di partenza per questa storia congiunta del contatto e del movimento è stata l’apparizione, nel 1628, del De motu cordis del fisico William Harvey, un lavoro che analizza il cuore presentandolo come una gigantesca macchina che pompa sangue in tutto il corpo. Secondo Harvey, il meccanismo della circolazione è ciò che permette al corpo di crescere e di rimanere sano fino alle sue estremità inferiori – una visione che ha sfidato sia le vecchie credenze mediche sul calore innato del sangue che quelle religiose sul cuore come sede dell’anima. Questa nuova comprensione del corpo si è rivelata rivoluzionaria, modificando non solo le pratiche dei medici ma anche quelle di altre figure professionali.
Prima fra queste, la progettazione urbanistica. Gli urbanisti hanno infatti adottato le scoperte di Harvey sulle virtù del movimento, ritenendo che la circolazione desse vita al corpo politico urbano così come al corpo umano. Tali convinzioni si sono quindi espresse nei piani delle villes circulatoires del XVIII secolo, come Karlsruhe in Germania e, in particolare, nel piano L’Enfant per Washington DC, elaborato da Ellicott. Per descrivere le strade, i progettisti parlavano di vene e arterie. La scoperta di Harvey che la circolazione del sangue unifica il corpo in un sistema totale è stata adattata a una visione di coerenza sistematica della città: l’insediamento più lontano lungo il perimetro deve essere collegato al centro città attraverso ciò che l’urbanista Manuel Castells chiama “lo spazio di flussi”. (...) Queste credenze sul movimento sistematico nell’ambiente costruito hanno determinato una rottura significativa con le vecchie credenze barocche sulle virtù del movimento. Quando Papa Sisto V pianifica la Roma barocca, immagina il movimento lungo le strade della città come se si trattasse di percorsi verso destinazioni precise: le strade diventano vie di pellegrinaggio in direzione dei sette luoghi sacri della Roma cristiana.
Il Piano L’Enfant per Washington, al contrario, non è pensato solo in termini di pellegrinaggio verso i luoghi del potere. Non tutte le strade principali sfociano infatti in edifici monumentali. Si tratta invece di una visione più democratica, in cui le persone sono libere di muoversi nell’intera città e non sono costrette a dirigersi ineluttabilmente verso i luoghi e i santuari del potere. È stato durante l’esplosione urbanistica del XIX secolo che i progettisti hanno elaborato la discontinuità tra il movimento e lo spazio e hanno continuato a usare il vecchio immaginario harveyiano delle strade come arterie e vene. A poco a poco, però, il movimento ha assunto una forma più direzionale: l’allontanamento dal centro è diventato più importante del movimento verso il “cuore” della città. La direzionalità è apparsa, ad esempio, nel grande piano stradale del barone Haussmann, elaborato tra il 1850 e il 1860 per la città di Parigi. Quando Robert Moses concentrava la sua pianificazione stradale sul modo in cui lasciarsi alle spalle New York City con tutti i suoi problemi, faceva leva sull’impulso tipico della grande espansione urbanistica avvenuta all’epoca del grande capitalismo: quello di fuggire dai centri di diversità della città, densi e incontrollati.
Velocità significava che la gente “perdeva il contatto” con il luogo: questa non è solo una metafora. Perché in effetti le tecnologie della velocità hanno de-sensibilizzato e placato il corpo in movimento. Alla guida di un’automobile, il piede compie micro-movimenti, gli occhi si spostano solo a tratti dalla strada che si ha davanti allo specchietto retrovisore. La stessa velocità diminuisce la stimolazione sensoriale dei luoghi che si vedono passare. Guidare è come guardare la televisione, perché le rappresentazioni scorrono rapide davanti a un corpo immobile, o in una posizione fissa per ore e ore come davanti allo schermo del computer. In questa condizione, il contatto con gli altri, in particolare il contatto con l’ignoto, il non programmato, si affievolisce, e viene sostituito dalla mera visualizzazione dello schermo. Il moderno corpo politico è segnato dalla perdita delle capacità sensoriali causata dalla circolazione sempre più rapida di beni, di servizi e di informazioni.
Un ampio saggio sulla città, in occasione del congresso della Società dei territorialisti "Ricostruire la città" (Roma, 17-18 gennaio 2014), preludio a una serie di articoli sulle città italiane. Il manifesto, 17 gennaio 2014
Anche allorquando gli studiosi prendono in considerazione una delle risorse naturali più ovvie, condizione imprescindibile per la nascita e la vita di un aggregato di popolazione, l'acqua di un fiume, ne sottolineano il rilievo quale infrastruttura ideale per i flussi di mercato. E' il caso, ad esempio, di un studioso come Lewis Mumford, pur attento agli aspetti sistemici del mondo urbano . Nella sua monumentale La città nella storia – meritoriamente riproposta ora da Castelvecchi - egli considera il fiume esclusivamente come « il primo veicolo efficace per il trasporto di massa ». E aggiunge: « Non è un caso che le prime città siano sorte nelle valli fluviali, e che la loro ascesa sia contemporanea ai progressi della navigazione, dal fascio galleggiante di giunchi o di tronchi alla barca mossa dai remi e dalle vele » Mumford non è solo in questo richiamo del fiume che dimentica la risorsa acqua:« Londra dipende dal suo fiume », afferma perentoriamente Braudel, ma si riferisce ai traffici che esso rende possibili, all'intensa vita economica che si svolge lungo il Tamigi e soprattutto nell'area della sua foce.
Naturalmente, non si tratta di negare il ruolo di mezzo di trasporto dei corsi d'acqua, peraltro dotati di una loro energia motrice e dunque, per più versi, prezioso per i bisogni delle popolazioni urbane in età preindustriale. Ma il trasporto e il commercio rappresentano già una forma economicamente evoluta della stanzialità urbana, funzionalmente separata dalla vita agricola. E tuttavia a lungo insufficiente a rendere le città autonome dalle loro fonti di approvvigionamento, costituite dai territori agricoli dei loro dintorni.
D'altra parte, prima di commerciare e di spostarsi, i primi cittadini ( ma anche i secondi e i terzi) dovevano vivere e dunque avevano assoluto bisogno di bere. Eppure non c'è traccia, anche in grandi storici che si sono occupati di città, di accenno a tale elementare bisogno della vita, risorsa imprescindibile dell' umana esistenza. Quasi che il commerciare fosse la prima condizione della vita urbana e non un suo complemento, spesso uno stadio successivo di evoluzione. La vita, nella ovvietà dei suoi bisogni e delle sue manifestazioni, diventa degna di nota quando acquista un rilievo economico. Anche Fernand Braudel, nel vasto affresco del suo Mediterraneo, che ha insegnato a tutti noi come la storia si svolga negli spazi fisici delle montagne e delle pianure, non ha occhi che per le condizioni commerciali dell'esistenza urbana. « Non c'è città senza mercato e senza strade: esse si nutrono di movimento. »
Forse Braudel è l'autore più esemplare di questa sussunzione dei bisogni primari e dunque della natura entro le categorie dell'agire economico. Perché è lo storico più attento ai quadri territoriali in cui si svolge la storia umana, ma conserva sempre uno sguardo filtrato, che incorpora la natura e la rende visibile solo come fenomeno economico. Il bere e il mangiare, elementi fondativi della vita biologica, resi possibili dalla presenza dell'acqua e del cibo, cioé da fonti, sorgenti, fiumi, pozzi e da superfici più o meno vaste di terra fertile, sono nella sua ricostruzione e rappresentazione storica inglobati in rapporti spaziali di commercio o semplicemente sussunti dentro i meccanismi dell'attività produttiva. E' sempre l'attività economica dei cittadini o dei contadini a rendere possibile la vita della città. Ma non accade mai che le risorse naturali presenti nel territorio costituiscano la condizione perchè quella stessa attività possa svolgersi con successo.
Non sottolineo tali aspetti per la pretesa saccente di rimproverare a Braudel di non essere stato uno storico dell'ambiente. Ogni epoca ripesca dal proprio passato il presente di cui avverte più acutamente il bisogno. Tanto più che Braudel anticipa talora, a modo suo, cioé entro il bozzolo delle dinamiche economiche, “scoperte” che si renderanno evidenti alla ricerca storica solo qualche decennio più tardi. E' questo il caso, ad esempio, dell'approvvigionamento delle fonti di energia calorica. Scrive lo storico francese: « la legna da bruciare, materiale ingombrante, deve essere a portata di mano: oltre i trenta chilometri di distanza è rovinoso farla viaggiare, a meno che il trasporto non avvenga per via d'acqua».
Da quando si è cominciato a fare storia dell'energia, abbiamo appreso che le città preindustriali in genere non potevano letteralmente vivere se non avevano a disposizione, a distanza ravvicinata, le risorse legnose di un bosco. « Una città di 10.00 abitanti – ricorda Paolo Malanima – doveva disporre per i soli usi domestici di una riserva forestale di 50-80 chilometri quadrati.»
Riscoprire il sistema
Anche da questi brevi cenni appare evidente come lo sviluppo delle relazioni commerciali che, nel corso di diversi secoli, hanno finito col rendere le città relativamente indipendenti dalle risorse collocate nel loro territorio, hanno occultato i vincoli sistemici su cui esse sono sorte e a lungo vissute. Esattamente l'estensione delle reti del mercato - l'elemento di connotazione urbana più enfatizzato dagli studiosi - hanno cancellato le reti che le legavano alle risorse naturali. Ma in realtà esse hanno solo trasferito e diluito gli ecosistemi che ne rendevano possibile l'esistenza su un territorio sempre più vasto. La Londra dell'età moderna, che da tempo si riforniva di grano, cibo e legname prodotti anche fuori dai suoi confini e dalla stessa 'Europa, aveva in realtà moltiplicato intorno a sé i territori da cui trarre le risorse naturali consumate dai suoi cittadini. Nell''800 il suo ecosistema aveva assunto dimensioni mondiali, dal momento che, ad esempio, le élite londinesi consumavano correntemente te, cacao, zuccherro di canna e caffé provenienti dalle colonie. Esso ormai costituiva il centro di una immensa periferia che era il suo impero coloniale, si reggeva e si occultava grazie alle reti di dominio e di sfruttamento dei territori delle colonie.
Ma oggi, nella fase storica in cui il mercato mondiale penetra negli anfratti più reconditi della vita locale, è ancora visibile un ecosistema come intelaiatura fondamentale della vita urbana? Mentre le città ricevono tutto ciò che è loro necessario da territori lontani e anche lontanissimi, possiamo guardare ad esse come a nuclei di realtà materiale condizionati, se non dominati, da vincoli naturali costanti e necessari? Si tratta, in verità, di domande retoriche. L'ecologia urbana della seconda metà del '900 ha messo da tempo in evidenza i caratteri ecosistemici dell'ambiente urbano con approcci e contributi molteplici. In realtà oggi si presenta ai nostri occhi una rete ambientale che avvolge il mondo (non diversa da quella, in continua espansione, delle comunicazioni) ma tenuta insieme da regole e vincoli ecosistemici. La osserviamo distintamente man mano che ci liberiamo della scorza dell'economicismo di cui è incrostato il pensiero sociale contemporaneo. Allorché scorgiamo l'universalità di beni comuni di cui si compone la città, là dove prima l'osservatore non scorgeva che un paesaggio di res nullius, o solo un sistema di domini privati. E a tal fine appare indispensabile liberare la figura dell'uomo cittadino dalla sua sovrastruttura ideologica di essere sociale, mero prodotto della storia, fabbro di se stesso tramite il dominio tecnico sulla natura.
E' tale operazione di disvelamento che ci consente di guardare agli uomini quali soggetti viventi, membri della “comunità biotica” che popola la foresta urbana. La città è un ecosistema innanzitutto perché gli uomini non hanno mai cessato di essere natura.
E' infatti il paradosso del successo totalitario dell'uomo tecnico a disvelare i legami non resecabili con la realtà biologica. Pensiamo al rapporto tra città e dinamiche del clima. Sono ormai parecchi anni che gli episodi climatici estremi ( alluvioni, tornado, ecc) in varie città del mondo, dagli USA all'Europa, mostrano come le città non sfuggano al sistema climatico generale e al suo crescente disordine. E' ormai di dominio popolare che la crescente copertura del suolo con le strutture dell'edificato impedisce in maniera crescente l'assorbimento dell'acqua piovana. In caso di pioggia intensa – fenomeno che appare ormai sempre più regolare a tutte le latitudini- le strade diventano fiumi, rovinosi corsi d'acqua e gli abitati vengono allagati come comuni golene di espansione.
D'altra parte, tali fenomeni svelano un legame prima invisibile tra gli uomini e l'habitat urbano. Ma al tempo stesso fanno emergere alla consapevolezza generale l'esistenza di alcuni beni comuni per effetto della loro violazione, della loro messa in pericolo. E' evidente che l'edificazione diffusa, l'occupazione degli spazi incolti e coltivati, la restrizione dei territori agricoli periurbani, hanno riflessi crescenti su un diritto fondamentale dei cittadini: quello della sicurezza, dell'incolumità della persona. Sicché una occupazione del bene comune suolo per mano dei singoli privati, che edificano per loro specifico interesse, si configura sempre più nitidamente come in conflitto con il bene comune della sicurezza di tutti. In caso di piogge intense le città diventano pericolose per tutti i suoi abitanti. Il danno particolare che l'uso privato del suolo genera nei confronti dell'universalità dei cittadini disvela così uno specifico carattere ecosistemico dell'azione umana in città. Non si possono mutare gli equilibri naturali di un habitat pur artificiale senza effetti e rotture in qualche punto del sistema. E soprattutto senza conseguenze sul Dedalo ingegnoso che quel sistema ha costruito. Non si può pensare al territorio come a un mero supporto neutro sopra il quale “poggiare” qualunque edificio: esso non è nudo suolo, appartenente a vari proprietari che pretendono di ricavarvi una rendita, ma è il frammento di una rete ecosistemica entro la quale siamo tutti impigliati.
Il rapporto sistemico della città con il suo territorio più o meno prossimo emerge oggi anche dalla rottura di un equilibrio millenario con la campagna, cui abbiamo già fatto cenno. Il mutamento drammatico, in qualità e quantità, della massa dei rifiuti urbani ha creato fenomeni ignoti a tutte le società del passato. Se un tempo la gran parte delle deiezioni cittadine veniva utilmente consumata dalle agricolture circostanti in forma di fertilizzanti, esse formano oggi un'appendice urbana che occupa e inquina territori più o meno prossimi, con danni alle acque, all'aria, alla salute degli animali e dei cittadini nelle varie casistiche osservabili in giro per il mondo.
Il cielo è di tutti
Non meno noto è diventato il legame sistemico tra il cielo della città, vale a dire la qualità dell'aria che in essa si respira, e la sua manipolazione, insieme privata e collettiva, a scopi produttivi e di varia altra natura. Il sorgere di un rischio per la salute umana, esploso in maniera allarmante negli ultimi decenni, ha fatto emergere quale bene comune una risorsa vitale irrinunciabile, fino a pochi decenni fa da tutti ignorata in quanto illimitata e relativamente integra. L'aria è un common. Noi tutti respiriamo l'aria che ci circonda senza pensare ai nostri polmoni, ma anche senza badare al fatto che essa è natura, che da essa dipende la nostra vita, e certamente senza chiederci a chi appartiene. Ma l'apparire della scarsità di questa risorsa, la sua violazione e alterazione ( che corrisponde a una appropriazione privata dei singoli) fa emergere l'elemento naturale che rende possibile l'esistenza di tutti e al tempo il suo carattere di bene collettivo e indivisibile.
In questo specifico caso appare assai difficile separare l'interesse privato di chi immette smog nello spazio urbano, usando un proprio mezzo di trasporto, da chi respira l'aria inquinata mentre cammina per la città. In un gran numero di casi quel pedone costretto a respirare il cocktail fotochimico di anidride carbonica , di solfato di zolfo , di particolato e vari altri inquinanti, il giorno dopo, a bordo della sua auto, sarà tra la schiera degli inquinatori. Il bene comune dell' aria salubre e il diritto universale alla salute vengono violati sistematicamente anche da chi quel danno subisce, a sua volta, in quanto abitante di una città, utente dello spazio pubblico. Appare qui evidente che la rappresentanza e la difesa del bene comune salute è affidata a una autorità terza in grado di comporre il diritto e il bisogno della mobilità dei cittadini con quello di respirare un'aria non inquinata.
E tuttavia appare anche in questo caso ben visibile la configurazione del mondo urbano quale ecosistema: l'uso privato e collettivo dell'habitat ha conseguenze sugli attori naturali che lo manipolano e lo abitano, non diversamente da quanto accade in natura, allorché un qualche agente rompe un equilibrio consolidato. Se un ambiente acquatico si prosciuga a causa di un intervento dell'uomo o per una prolungata siccità, la vita degli uccelli, dei pesci e dei mammiferi che l'abitavano ne viene sconvolta.
Intanto,senza che nessuno lo notasse, senza sofisticate elaborazioni teoriche, sotto il cielo delle città un bene comune fondamentale è stato storicamente ripartito e regolato con criteri egalitari fra i suoi innumerevoli fruitori. Com'è noto, lo spazio adibito alla libera circolazione di uomini e veicoli non conosce significativi impedimenti e domini privati e particolari. Al contrario lo spostamento su strada è reso possibile da regole universali che danno pari diritto di movimento a tutti gli utenti. Quello spazio pubblico è stato infatti ripartito in un reticolato di possibilità e divieti in cui ciascuno esercita il proprio diritto a spostarsi rispettando quello degli altri. Il semaforo rosso che impedisce al singolo utente di transitare all'incrocio è un obbligo che lo costringe a non considerare lo spazio urbano come un dominio particolare che può utilizzare a proprio arbitrio. Qualunque sia la potenza e il lusso del veicolo che guida, qualunque sia il ruolo sociale, la ricchezza, la potenza gerarchica del guidatore, quel rosso è un impedimento da rispettare. E' condizione della sua sicurezza e di quella degli altri. Si è tutti alla pari nello spazio aperto delle strade cittadine. Una grammatica universale si impone su tutti. Ed è grazie a tale egalitarismo che viene protetto il bene comune dell'incolumità fisica dei cittadini. Solo i pari diritti di spostamento di cui godono tutti consentono l'uso ottimale del bene comune del territorio urbano. Forse e' qui il modello di uso egalitario della città, del suolo, dell'aria, delle risorse a cui occorrerà uniformarsi in futuro.
Il tetto che scotta
Lo scenario climatico che le conoscenze scientifiche del nostro tempo hanno squadernato davanti a noi ci mostrano oggi un altro aspetto di legame sistemico tra la città, i suoi attori naturali, e il più vasto spazio planetario. Le città ci fanno sperimentare la nuova mondialità del locale. Mai come oggi esse erano apparse così nitidamente quali punti interconnessi di una rete a scala globale. Com'è largamente noto, è lo smog cittadino, sono gli scarichi urbani e i fumi industriali per produzioni destinate alle città a determinare una percentuale rilevante di immissione di gas serra nell'atmosfera.Tutte le città del mondo, centri energivori di varie dimensioni e potenza, consumano in maniera crescente petrolio e carbone, alterando il clima atmosferico, surriscaldando il nostro comune tetto di abitanti della Terra. Il riscaldamento globale, potremmo dire, è figlio del metabolismo urbano.
Val la pena inoltre osservare che il riscaldamento urbano tende a rafforzare i suoi effetti per via della stessa manipolazione territoriale che espone le città agli allagamenti periodici. La scomparsa degli orti periurbani, il taglio di alberi, la cementificazione diffusa, la cancellazione progressiva del verde, tutta la multiforme e molecolare attività di consumo dei suoli incolti, non solo contribuisce alla produzione di carbonio e alla cancellazione di fonti produttrici di ossigeno, incrementando così il riscaldamento globale. Essa ha anche un effetto locale e ravvicinato.
Parma Due: un modo travestito per urbanizzare un altro pezzo di territorio rurale: con la scusa della sostenibilità e del chilometro zero, l'ennesimo quartiere suburbano a bassa densità e filosofia ruralista? Corriere della Sera, 12 gennaio 2014, postilla (f.b.)
(Parma) — C’è un grande prato verde dove nascono speranze cantava Gianni Morandi. Il prato verde di Giovanni Leoni, 52 anni, imprenditore agricolo parmense con una rivoluzionaria idea in testa e un progetto che a mesi diventerà realtà, sono i 28 ettari sui quali il prossimo settembre verranno posate le 60 abitazioni (per altrettante famiglie, totale 240 persone) del suo Agrivillaggio, un quartiere ecologico totalmente autosufficiente dal punto di vista alimentare ed energetico, fornito di negozi e servizi, dove nulla viene sprecato, tutto viene prodotto secondo i cicli naturali dell’agricoltura e i cui abitanti si muovono a piedi, in bici o con auto elettriche.
Un eco-villaggio, «unico al mondo» afferma Leoni, capace di provvedere ai bisogni dei residenti nel rispetto dell’ambiente. Dove la filosofia del «Km 0» trova piena attuazione (Leoni parla di «iperzero»): «Tra il consumatore residente nel villaggio e l’agricoltore non ci sono intermediari né sprechi di risorse per il trasporto: tutto viene prodotto all’interno dell’Agrivillaggio, a cominciare dai prodotti di stagione». Il cuore pulsante, «il polo energetico» come lo chiama Leoni, è la stalla già perfettamente funzionante e in linea con le migliori tecnologie, che sforna cibo, consente il riciclo dei rifiuti e produce energia (biogas, quindi metano).
Il progetto di Leoni, a un tiro di schioppo da Parma, a Vicofertile, dove la campagna lambisce la prima periferia, non è un ritorno al Medioevo, «né una suggestione da eremita». È un modo diverso di pensare il futuro, l’alimentazione, l’abitabilità, i rapporti sociali. Un modello alternativo alle grandi megalopoli-dormitorio che parte dalla constatazione «dell’enorme debito ecologico che il genere umano ha ormai contratto con la Terra». Un modello che punta, nel rispetto dei cicli, a creare un mondo con più beni e servizi e un minor impatto ambientale:«A differenza di adesso, l’agricoltura del futuro dovrà partire dal fabbisogno ideale di ciascuno, guardando in faccia il consumatore». È quella che Leoni chiama «agricoltura on demand»: «Nel villaggio gli orti e i frutteti produrranno cibo per un migliaio di persone, anche se i residenti sono 200: l’eccedenza sarà venduta all’esterno».
Se negli ultimi dieci anni Leoni ha potuto dedicarsi anima e corpo al progetto dell’Agrivillaggio — che decollerà ufficialmente all’inizio del 2015 per sfruttare la scia dell’Expo di Milano e che si è avvalso della consulenza di architetti, biologi e ingegneri — lo si deve alla solidità della sua azienda agricola, leader nel settore, che produce ogni anno 1500 forme di Parmigiano-Reggiano, 22 mila quintali di pomodori e 10 mila di cipolle. L’azienda sarà il cuore pulsante dell’Agrivillaggio. È in essa che Leoni ha riversato le conoscenze accumulate nelle più diverse aree del mondo (dall’Argentina all’Australia) nel campo della sperimentazione agricola e ora confluite in una sorta di «fattoria didattica» per gli studenti delle scuole medie e superiori. Anche sul piano urbanistico il progetto presenta lati innovativi. Ispirato dalle teorie dell’architetto Frank Lloyd Wright («La città vivente», 1958) e dalle transition towns fondate in Irlanda e in Inghilterra dall’ambientalista Rob Hopkins, l’Agrivillaggio prevede nuove concezioni abitative: «Case a un piano con un tetto che fa da terrazza sugli orti. Ogni modulo poggia su una piattaforma di cemento e ha una superficie di 18 metri quadrati. Saranno i residenti a scegliere la metratura: basterà aggiungere o togliere i moduli».
Il costo della casa, fornita di fotovoltaico e solare termico, è volutamente basso per consentire a tutti di usufruirne: «Non si acquista la terra, che resta di proprietà dell’azienda, ma il diritto di superficie. Chi vuole può acquistare una quota che diventa una sorta di pensione integrativa». Autogestita anche l’urbanizzazione. Non ci saranno fogne: «Tramite la fitodepurazione i rifiuti vengono trasformati in cibo per piante, biomassa e quindi energia». Di notte funzionerà un’illuminazione al passaggio. E poi c’è l’aspetto sociale: «La spesa a “Km 0”, la possibilità del telelavoro e i servizi del villaggio consentiranno ai residenti di dedicare più tempo ai figli e agli anziani».
La grande incognita tra Leoni e il suo sogno si chiama, guarda caso, burocrazia: «Stiamo aspettando il varo del Piano strutturale comunale, ci hanno assicurato una corsia preferenziale». E ci mancherebbe. Parma è governata da un monocolore 5 Stelle. E uno degli ispiratori dell’Agrivillaggio, nonché presidente della scuola, è Maurizio Pallante, teorico della «decrescita felice», totem dei grillini.
postillaSe osserviamo con un minimo di prospettiva le vicende delle cosiddette utopie urbane (o meglio antiurbane) a cavallo tra XIX e XX secolo, non possiamo fare a meno di notare come tutte, nessuna esclusa, abbiano abbastanza ovviamente fallito l'obiettivo dichiarato, ovvero costituire un campo di prova per la società futura, mentre in alcuni casi si sono potute sperimentare puntualmente alcune innovazioni, di solito ritenute marginali almeno ufficialmente dagli utopisti e dai loro seguaci. Non fa eccezione al modello la città giardino, che addirittura ha prodotto sul versante pratico il suo esatto contrario, ovvero il suburbio a bassa densità, socialmente segregante e ambientalmente micidiale per consumi di territorio e sprechi energetici indotti dal modello di vita. Nel caso della utopia de noantri descritto dall'articolo, a definirne le premesse possono bastare i riferimenti dichiarati: l'antiurbanesimo individualista di Frank Lloyd Wright, padre legittimo di tutte le Wisteria Lane da casalinghe disperate dei nostri tempi; la fuga all'indietro (pur di fronte al temuto crollo climatico ed energetico della civiltà occidentale) del movimento Transition Town, sostanzialmente localista e familista. Anche tra gli hippies di Woodstock, insomma, si vedeva di molto meglio, da tutti i punti di vista (f.b.)
Una pagina indimenticabile dal libro del fondatore dell’etologia scientifica, Gli otto peccati capitali della nostra civiltà, (Adelphi, Milano 1974). Con postilla
La cellula neoplastica si distingue da quella normale principalmente per aver perduto l’informazione genetica necessaria a fare di essa un membro utile alla comunità di interessi che rappresentata dal corpo. Essa si comporta come un animale monocellulare o, meglio ancora, come una giovane cellula embrionale: è priva di strutture specifiche e si riproduce senza misura e senza ritegni, con la conseguenza che il tessuto tumorale si infiltra nei tessuti vicini ancora sani e li distrugge. Tra l’immagine della periferia urbana e quella di un tumore esistono evidenti analogie: in entrambi i casi vi era uno spazio ancora sano in cui erano state realizzate una molteplicità di strutture molto diverse, anche se sottilmente differenziate fra loro e reciprocamente complementari, il cui saggio equilibrio poggiava su un bagaglio di informazioni acquisite nel corso dei secoli: laddove nelle zone devastate dal tumore o dalla tecnologia moderna il quadro è dominato da un esiguo numero di strutture estremamente semplificate.
Il panorama istologico delle cellule cancerogene, uniformi e poco strutturate, presenta una somiglianza disperante con la veduta aerea di un sobborgo moderno e con le sue case standardizzate, frettolosamente disegnate da architetti privi ormai di ogni cultura”.
postilla
Lo sguardo dell’etologo vede la città da un punto di vista particolare. Descrive la città, l’habitat della società umana, da un punto di vista che non può essere trascurato. Coglie un aspetto che,oltre a rivelare i danni prodotti nei secoli recenti, rivela la dimensione immane del lavoro di chi voglia impedire che la città antica sua circondata da una proliferazione maligna di sobborghi disumani Lorenz denuncia è l’habitat dell’uomo progettato e costruito dove hanno trionfato il gioco perverso dell’appropriazione privata della rendita urbana e l’incapacità della società di farsi governo collettivo delle trasformazioni del territorio. Per fortuna esistono, nella storia della città antica (e della cultura e dalla pratica dell'urbanistica contemporanea) elementi che possono aiutare a costruire una città diversa da quella denunciata da Lorenz. E forse, a guardar bene dentro l’ammasso informe di quelle metastasi, si può riuscire scorgere i germi di un nuovo habitat della società, in grado di renderlo diverso da quello della rendita e dell’individualismo esasperato.
Due articoli in due sezioni diverse dello stesso giornale, apparentemente senza alcun rapporto tra loro salvo il medesimo autore, toccano due aspetti del medesimo problema: sostenibilità e cittadinanza. La Repubblica, 11 dicembre 2013, postilla (f.b.)
Il diritto al cibo
C’è qualcosa di nuovo da dire a proposito della fame nel mondo? Qualcosa che non sia ancora stato detto. C’è. O meglio c’era. Ed è quel che ha detto lunedì Papa Francesco, portando all’attenzione di una politica, e probabilmente anche di una chiesa, avvitate su se stesse, una situazione planetaria che non è tollerabile: il fatto che quasi un miliardo di persone nel mondo sia malnutrita o soffra la fame non è una questione di sfortuna o di destino, è una questione di scelte e di responsabilità.
In un videomessaggio registrato in occasione del lancio della nuova campagna della Caritas Internationalis contro la fame, il Pontefice ha richiamato l’attenzione del mondo su quello che ha chiamato «lo scandalo mondiale » della morte per fame.
La fame non è certo un tema nuovo per il mondo cattolico e per i papi, ma è nuovo l’atteggiamento che emerge dalle parole di Francesco: «Non possiamo girare la testa dall’altra parte e fare finta che questo non esista, (...) invito tutti noi a diventare più consapevoli delle nostre scelte alimentari che spesso comportano spreco di cibo e cattivo uso delle risorse a nostra disposizione». La prospettiva viene ribaltata. La fame non è un accidente della storia, quanto piuttosto un prodotto funzionale al sistema alimentare e produttivo in cui ognuno di noi gioca un ruolo e ha una parte. La svolta è radicale, non si mette più al centro solo l’aiuto che i ricchi fortunati devono per spirito di carità ai fratelli più sfortunati. Al contrario, Francesco dice chiaramente che noi, con il nostro stile di vita, siamo parte del problema e non solo della soluzione.
Il messaggio del Papa è arrivato nel momento in cui mezzo mondo si stava predisponendo a partecipare alle esequie di una delle figure più imponenti della modernità, Nelson Mandela, proprio nel continente in cui oggi si concentra la maggioranza degli affamati. Se Mandela è riuscito a vedere il suo continente liberato dalla vergogna dell’apartheid e dal colonialismo (almeno quello istituzionalizzato), non è tuttavia riuscito a vedere gli abitanti di quel continente liberi dalla fame. In un passaggio del suo messaggio Francesco dice: «Il cibo basterebbe a sfamare tutti» e «se c’è la volontà quello che abbiamo non finisce». Questo è il punto, la fame è una vergogna risolvibile, cancellabile dalla storia in tempi ragionevoli. Manca la volontà politica, e noi cittadini, associazioni, organizzazioni, partiti, movimenti, dobbiamo essere la massa critica che mette in moto il processo.
Per il popolo ebraico le due calamità per eccellenza erano la fame e la schiavitù. Ecco, per sconfiggere definitivamente la schiavitù, almeno quella legalizzata, abbiamo dovuto aspettare secoli, e addirittura abbiamo attraversato periodi in cui l’umanità ha vissuto senza battere ciglio palesi contraddizioni. Basti pensare alla Costituzione Americana, stilata nel 1787, due anni prima della rivoluzione francese. Veniva sancita l’uguaglianza di tutti gli uomini, ma per quasi un secolo, in contemporanea alla vigenza di quella Costituzione, negli stati del sud la schiavitù era non solo accettata ma addirittura normata. L’ultimo stato al mondo ad abolirla dal proprio codice è stata la Mauritania, nel 1980, più di due secoli dopo la nascita del movimento abolizionista.
La fame sta seguendo un percorso simile. Francesco parla del «diritto dato da Dio a tutti di avere accesso a un’alimentazione adeguata». Aggiungo che anche il diritto degli uomini sancisce questo punto fermo. Nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 si dice «ognuno ha il diritto a uno standard di vita adeguato per la salute e il benessere propri e della propria famiglia, incluso il cibo…», mentre nella Dichiarazione di Roma sulla Sicurezza Alimentare Mondiale del 1996 si fa un passo in più affermando «… il diritto di ogni persona ad avere accesso ad alimenti sani e nutrienti, in accordo con il diritto ad una alimentazione appropriata e con il diritto fondamentale di ogni essere umano di non soffrire la fame». Nessuno mette in discussione queste formulazioni, eppure tutti quanti conviviamo con la consapevolezza dell’esistenza di un miliardo di malnutriti.
Il messaggio del Papa è una sollecitazione morale straordinaria, e andrebbe inserito in un dibattito politico che sembra aver dimenticato la centralità del cibo. L’obiettivo della sconfitta della fame deve essere assunto come prioritario da ognuno di noi non solo per fratellanza universale, quanto piuttosto per il proprio benessere personale. Non possiamo essere felici se non lo sono anche gli altri, per cui fino a che non si riuscirà a cancellare questa vergogna non potremo dirci compiutamente realizzati. Se una fetta così grande della “grande famiglia umana” non ha accesso al cibo significa che noi non stiamo adempiendo al nostro dovere di fratelli.
Il Pontefice parla dell’importanza del cibo nel messaggio cristiano e porta l’esempio della parabola della moltiplicazione dei pani e dei pesci. In quell’occasione, messo al corrente della moltitudine di persone affamate convenute per ascoltarlo, Gesù non esita e manda immediatamente i suoi discepoli a cercare cibo per tutti. Ecco il punto: senza cibo non c’è parola di salvezza che tenga. Oggi non è pensabile immaginare futuri possibili, vie d’uscita dalla crisi mondiale, nuovi paradigmi di convivenza, se un miliardo di persone non mangia. Per questo il messaggio di Francesco è un messaggio di liberazione. Dobbiamo scrollarci di dosso la ruggine delle nostre questioni di piccolo cabotaggio politico per volare alto e per affrontare sfide davvero epocali e centrali. Questo sistema alimentare mostra ogni giorno i suoi lati oscuri, da qualunque punto di vista lo si guardi. Ai morti per fame si contrappongono gli obesi, ai malnutriti gli ipernutriti, con la differenza che gli affamati e i malnutriti non sono artefici delle proprie scelte alimentari ma subiscono la violenza del sistema.
Arizona da coltivare
Pensare all’Arizona vuol dire immediatamente pensare al Grand Canyon, uno dei luoghi più impressionanti e famosi del mondo. Una gola scavata nel corso dei millenni dal fiume Colorado, che con la sua azione erosiva ha creato una delle attrazioni principali per chi cerca viaggi ad alto tasso d’avventura. Ma l’Arizona è anche uno Stato a forte caratterizzazione agricola. Il clima semi-arido di questa terra ha fatto sì che l’uomo abbia dovuto ingegnarsi per trovare sistemi efficienti per ottimizzare le rese con il minimo utilizzo di risorse, in primis l’acqua. Ancora oggi, nonostante l’agronomia e la tecnologia agricola abbiano fatto passi da gigante, in Arizona il rapporto tra uomo e natura rimane estremamente delicato. La scarsità di acqua e di suolo fertile ha concentrato le pratiche agricole nelle zone più vantaggiose (quelle che oggi ospitano le grandi città), offrendo il substrato ambientale adatto alla nascita di una fiorente agricoltura di comunità.
Proprio l’agricoltura urbana di comunità è il centro dell’attività di Agritopia, un’interessante esperienza nel cui nome è visibile quel seme di utopia che contraddistingue il progetto fin dalla sua nascita. La famiglia Johnston acquista la fattoria, oggi il centro di Agritopia negli anni Sessanta, un periodo di transizione dalla coltura del fieno ai più redditizi cotone e grano. Trent’anni dopo inizia a essere chiaro che l’espansione inarrestabile dell’area urbanizzata di Phoenix avrebbe presto raggiunto anche l’area in cui sta la fattoria, ed ecco che nasce l’idea di pianifica-re alcune opere che includono abitazioni, aree dedicate alla commercializzazione diretta dei prodotti agricoli, un ristorante e una caffetteria, al fine di preservare lo stile di vita tipico delle comunità agricole del Sudovest. I lavori sono iniziati nel 2000, e oggi Agritopia è una comunità agricola urbana, totalmente integrata nella municipalità di Phoenix. Al centro c’è ancora l’azienda agricola e la comunità ne sostiene l’attività versando il denaro in anticipo per poi ricevere i prodotti della terra secondo la disponibilità e la stagionalità.
È quello che chiamano Community supported agriculture e uno degli obiettivi è favorire l’interazione sociale e lo scambio, rendendo consapevoli i cittadini di cosa significhi il lavoro agricolo. Ad Agritopia è anche possibile affittare alcune parcelle di terreno per coltivare personalmente il proprio orto e i lavoratori dell’azienda agricola che mettono a disposizione tecniche e savoir faire. L’intera produzione è biologica, e la rigenerazione dei terreni si fonda su un complesso sistema di rotazione delle colture. Dalla monocoltura si è passati a un’ampia biodiversità, con frutteti, orti e colture cerealicole. Agritopia è uno dei tanti esempi di agricoltura di comunità praticata in Arizona, ed è il simbolo di una sensibilità crescente nei confronti della produzione alimentare sostenibile, anche in una zona poco fertile come il deserto del Sudovest americano. Phoenix è la base ideale di partenza per una visita dello Stato, e le suggestioni gastronomiche non mancano: il ristorante The Herb Box, nel sobborgo di Scottsdale, offre sempre piatti stagionali e attenti al territorio, mentre il D-Vine, a Mesa, è interessante anche per la presenza nella carta dei vini di alcune cantine dell’Arizona, dove esiste una piccola ma significativa viticoltura.
postillaSe l'accesso al cibo è un diritto, come autorevolmente sottolineato anche dalle parole del Papa, forse non va dimenticato sino a che punto il concetto di città si leghi a quello di diritti, e parallelamente quanto il tema dell'urbanizzazione, della sua sostenibilità ambientale e sociale, sia ormai all'ordine del giorno in questo nostro terzo millennio. Urbanizzazione autoritaria, tecnocratica, puro strascico della civiltà industriale meccanica oggi rappresentato dal trionfo del capitalismo finanziario liberista, significa ancora e forse inevitabilmente mega-città tradizionali, diseguaglianze, campagne industrializzate, land grabbing, e in sostanza accessibilità limitata alle risorse, oltre che loro spreco. Urbanizzazione sostenibile significa recuperare, o almeno cercare di recuperare, un diverso rapporto fra natura e artificio, città e campagna, recuperando il meglio della tradizione utopista senza per questo rinunciare agli avanzamenti tecnologici messi a disposizione dal progresso industriale e scientifico. L'idea di agricoltura urbana partecipata e integrata è una delle risposte più avanzate sinora emerse: non ritorno a un improbabile passato, ma sperimentazione per un futuro migliore (f.b.)
p.s. uno studio recente che affronta il tema dell'equilibrio fra attività primarie e urbanizzazione a scala molto ampia conferma questa prospettiva
Tentativi, immagini e idee per una possibile città del futuro, a partire dall'uso dello spazio pubblico, in una mostra al Guggenheim Museum di New York.. Il manifesto, 6 dicembre 2013
Tutto questo viene raccontato da una nuova grande esposizione dal titolo Participatory City: 100 Urban Trends, aperta fino al 5 gennaio 2014 al Guggenheim Museum di New York. E cento, infatti, sono le tendenze esposte, ordinate dalla a alla zeta, selezionate tra trecento idee e progetti diversi, che esplorano le possibili interazioni tra urbanismo, architettura, arte, design, scienza, tecnologia, educazione e sostenibilità. Un glossario di idee vecchie e nuove, già consolidate o da sperimentare, a piccola o grande scala, temporanee o permanenti, che tutte insieme raccontano il fermento, la vitalità e la forte volontà di sperimentare e di cambiare di migliaia di persone. Proposte da realizzare in un isolato, in un quartiere o da estendere a tutta la città, magari in collaborazione con amministrazioni e municipalità, perché un design innovativo, un maggiore coinvolgimento e responsabilità delle persone sono oggi necessari più che mai.
Tutto il materiale esposto è il frutto di tre intensi anni di lavoro svolto dal Bmw Guggenheim Lab, un laboratorio mobile che si è spostato in tre diversi continenti. Partito da New York nel 2011 ha fatto tappa prima a Berlino nel 2012 e, infine, a Mumbai nel 2013. Durante il suo percorso ha coinvolto migliaia di persone che hanno potuto partecipare gratuitamente a incontri, workshop, ricerche, passeggiate, indagini, proiezioni in un vero e proprio think tank urbano che prevedeva anche la possibilità di interazione on line.
Al Guggenheim, le cento parole chiave sono proiettate sulle pareti, come installazioni luminose digitali, e di fianco a ciascuna sono esposti disegni, fotografie e video che le spiegano e raccontano. In un’area separata, altri video e immagini fanno rivivere l’atmosfera delle tre sedi del laboratorio e delle città ospitanti, per raccontare in modo più vivo il coinvolgimento delle persone e le attività che si sono svolte. Durante il periodo dell’esposizione, un fitto programma di proiezioni di film e presentazioni di libri e di progetti continuerà a esplorare i temi trattati e a raccontare altri possibili aspetti e interazioni tra le persone e le città.
In mostra, sono esposti anche alcuni prototipi della Water Bench. Più che a una panchina per esterni assomiglia a un comodo divano trapuntato. Progettata in un laboratorio a Mumbai, la struttura è costruita con plastica riciclata e al suo interno nasconde una riserva d’acqua piovana da utilizzare per l’irrigazione nei momenti di siccità. Una di queste sarà esposta a New York nel First Park, mentre altre quattro sono già situate in un parco a Mumbai.
Ognuna delle cento tendenze si riferisce a un particolare laboratorio, evento o esperienza realizzato dal Lab in una delle città ospiti. È impossibile elencarle tutte, ma tra le più interessanti c’è per esempio City as Organism che si riferisce alla similitudine tra il sistema urbano e la vita complessa di un organismo formato da multiple e interrelate parti. Oppure Digital Democracy, che indica come la corretta implementazione delle informazioni e delle comunicazioni tecnologiche potrebbero contribuire ad aumentare la partecipazione dei cittadini ai processi urbani e a migliorare la trasparenza dell’amministrazione pubblica.
Alcune tendenze tengono conto di un aspetto più emotivo e quindi vertono sulle sensazioni, positive o negative, che possono evocare le città come Confort che, insieme a Happy City, tratta della percezione dello spazio intorno a noi e quindi del benessere fisico e psicologico. Al contrario, Urban fatigue mette in evidenza una condizione comune a chiunque abiti in città, sottoposto allo stress, all’ansia, all’affaticamento e a una continua sovrastimolazione, diventando una delle silenziose epidemie dell’era moderna, con conseguenze sulla salute fisica e mentale delle persone.
Poi Emotional Connections e Emotional Intelligence, la prima sul continuo aumento di amicizie virtuali e sul conseguente declino in numero, valore e durata delle reali interazioni tra le persone, mentre la seconda sulla capacità di identificare, misurare e riconoscere le emozioni quando sono espresse dagli altri.
Con Micro Architecture e Non_Iconic Architecture si propongono, invece, soluzioni di architettura o di design adatte a spazi urbani di dimensioni ridotte, ma che ciò nonostante sono in grado di cambiare radicalmente il comportamento e la responsabilità dei cittadini, oltre a sfruttare e adattarsi ad aree non utilizzate. Proprio come le soluzioni adottate dal Bmw Guggenheim Lab nel 2011 a New York, dove è stata montata per dieci settimane una leggera struttura pop up progettata dall’Atelier Bow-Wow in uno spazio abbandonato tra due edifici del Lower East Side, poi trasportata fino a Berlino e modificata per adattarsi a un altro contesto.
A Mumbai invece l’Atelier ha collaborato con l’architetto Samir D’Monte per creare una nuova grande costruzione di bambù. Una reazione all’architettura iconica e alle archistar del XX secolo, legate al consumismo, alla globalizzazione, allo status speciale di quegli artefici di strutture spettacolari. All’opposto queste due tendenze vogliono difendere l’importanza della semplicità e della funzionalità dell’architettura e dare la priorità alla scala umana piuttosto che a quella scultorea delle grandi opere.
Local Food, Food Distribution e Community Gardens sono tutte legate alla produzione di cibo locale, alla domanda di frutta e ortaggi freschi e alla sicurezza alimentare. Adottata negli Stati Uniti nel 2008, la Food, Conservation, and Energy Act stabilisce che il cibo non deve viaggiare oltre le 400 miglia dalla fonte o deve essere venduto nello stesso stato in cui è stato prodotto. I mercati locali stanno rapidamente crescendo e sviluppando grazie alla sempre più numerosa domanda di cibo biologico, inoltre si evidenzia come consumatori desiderano supportare l’economia locale e limitare l’impatto ambientale. Così oltre ai community gardens, sono nate numerose fattorie urbane che riducono ancora di più la distanza tra consumatori e produttori. Urban Foraging , invece, riguarda la ricerca, la mappatura, l’identificazione di tutto ciò che cresce in città, senza o con minimi interventi da parte dell’uomo. E quindi la pratica, ormai diffusa, di raccogliere la frutta ma anche le erbacee e i funghi che crescono in città e che sono a disposizione di tutti. Con una visione più ampia, questa voce si riferisce al riuso e alla raccolta di tutto ciò che si trova a disposizione per le strade.
Disneyfication, parola coniata nel 1996 da Sharon Zukin, indica invece la trasformazione di un luogo secondo la logica dei parchi a tema. Mentre con Gentrification ci si sofferma sulle origini e le cause di questo fenomeno globale, associato quasi sempre all’aumento degli affitti e a un drastico cambiamento sociale ed economico di interi quartieri. E così Urban Beauty e Urban Ugliness si interrogano sul valore estetico di una città e sulla molteplicità di prospettive e punti di vista.
Altri trend ancora, eloquenti già dalla parola che li designa, sono: Affordable Housing, Bike Politics, Bottom-Up Urban Engagement, Collective Memory, Eviction, Infrastructure of Waste, Public-Private Tension, Trust, Urban Spontaneity… Tutte insieme, le cento tendenze raccontano di una capacità di adattamento e di una flessibilità comune alle migliaia di partecipanti di tutto il mondo al Lab e questo è il vero grande trend sul quale è necessario cercare di modellare le nostre città.
Non fisse, statiche, bloccate dalle normative e dalla pianificazione a tavolino, ma dinamiche e sperimentali, in un work-in-progress continuo, a maggior ragione in un momento come questo attuale, in cui sono visibili ovunque i segni di degrado e inefficienza, dove ormai è assente la manutenzione ordinaria e straordinaria di strade, parchi, piazze, in generale di tutti gli spazi pubblici.
Quelle raccontate dall’esposizione del Guggenheim sono tendenze e tematiche che provano come le città non siano solamente un concentrato di palazzi, di strade e infrastrutture, ma soprattutto un insieme di persone che sono (o dovrebbe essere) al centro dello spazio e che, interagendo tra loro, possono contribuire a renderlo più vivibile.
Sarebbe bello che un progetto di così ampio respiro potesse passare anche per il nostro paese che ha sicuramente bisogno di stimoli per avviare un nuovo modo di rapportarsi al paesaggio urbano. Un modo caratterizzato da un forte impegno comunitario, che non sembra essere ancora parte del nostro patrimonio culturale.
Dalla lectio magistralis di Alberto Magnaghi all'Univerità di Firenze una alternativa ambientale e sociale all'urbanizzazione del pianeta nel segno del liberismo e della diseguaglianza. Presentazione di Alberto Ziparo. Il manifesto, 4 dicembre 2013
Vivere nelle bioregioni, padroni dei propri spazi
di Alberto Ziparo
Questa «lectio magistralis» di Alberto Magnaghi può essere letta come una sintesi del percorso teorico dell'urbanista italiano. Un itinerario che ha visto Magnaghi impegnato nel dare vita a esperienze di progettazione, ricerca, azione di tutela e affermazione dei valori territoriali («Era e resta un grande organizzatore di anime», disse di lui Rossana Rossanda un po' di tempo fa). Nel testo, Magnaghi ricorda inoltre come il capitalismo globalizzato, di recente «ad alta finanziarizzazione», abbia esasperato i processi di deterritorializzazione già in atto per gli impatti dello «sviluppo insostenibile contemporaneo».
Magnaghi propone di guardare alle problematiche condizioni ecologiche attuali da una prospettiva diversa da quella restituita dalla vulgata mediatica e dalle classi dirigenti che la informano. Lontano dalle politiche dominanti nelle varie governance multilivello che connotano i quadri decisionali istituzionali di oggi, l'innovazione viene cercata «guardando al basso» verso le nuove soggettività territoriali, consapevoli dell'urgenza di azioni di riqualificazione sociale incentrata sulla tutela e riaffermazione dei valori ambientali.
Tali attori sono individuati tra gli «abitanti della bioregione urbana», categoria «glocale» a forte connotazione socio-ambientale, utile ed efficace per reinterpretare i processi di declino e deterritorializzazione in atto, e rivoltarli in rappresentazioni di scenari di recupero ambientale e culturale del patrimonio territoriale. Dai comitati di difesa del territorio ai nuovi attori delle produzioni agrorurali a filiera corta, alle strutture della green economy locale, agli animatori della landscape oriented smart city, Magnaghi individua possibili reti di «abitanti di bioregioni urbane» capaci di esprimere azioni allargate e sostantive per politiche di restauro del territorio - bene comune, di riutilizzo del patrimonio, di riqualificazione civile e sociale dell'ambiente.
Con la più recente delle organizzazioni di ricerca e azione che ha promosso, la «Società dei Territorialisti» e i moltissimi studiosi, esperti, cultori e ambientalisti che vi aderiscono, l'urbanista oggi promuove «Osservatori» sui diversi contesti regionali, riletti secondo i criteri della «Bioregione Urbana» su cui si sofferma nel suo scritto.
L'obiettivo è proporre strategie che prefigurino il piano e il progetto urbanistico nella sua accezione più coerente di «formalizzazione spaziale di politiche»: connotate, invece che da una partecipazione crescente solo a livello di declaratorie, dalle intenzionalità strutturanti dei nuovi abitanti; consapevoli delle necessità di un'azione «attenta e sensibile» ad altissima coscienza e bassissima impronta ecologica.
di Alberto Magnaghi
L'urbanizzazione del mondo è irreversibile? Ma innanzitutto, perché mai fermarla? L'aria della città non rende liberi? Forse un tempo, quando ci si liberava dal feudo costruendo città e cittadinanza o quando, in seguito, ci si liberava dalla fatica dei campi e dalla precarietà del raccolto per andare a cercare un salario certo in fabbrica. Ma oggi la città, come terra promessa è, per la maggioranza degli abitanti della terra, solo un miraggio. Il più grande esodo della storia dell'umanità è duplice: verso l'iperspazio telematico, promessa di democrazia immateriale, ma anche assoggettamento al dominio delle reti globali, e verso le megacities e megaregions di decine di milioni di abitanti del Sud e dell'Est del mondo. Nel 2050, secondo l'Onu, su 9 miliardi di abitanti, 6,4 saranno urbanizzati. Questo percorso è iniziato con la crisi della città fabbrica fordista che aveva concentrato nelle cittadelle produttive del nord del mondo i flussi di forza lavoro dalle periferie regionali e globali, costruendo grandi aree e conurbazioni metropolitane al servizio del sistema produttivo massificato fordista.
Con la crisi di questo sistema dopo il grande ciclo di lotte operaie (1968-70) e la crisi petrolifera (1973) si avvia un doppio esodo: il primo regionale, che con il decentramento produttivo e la molecolarizzazione della grande fabbrica, costruisce il territorio della «città diffusa», che pervade distruttivamente le campagne e «urbanizza» vasti territori regionali; un processo che procede tutt'ora con edificazioni d'interesse esclusivo del capitale finanziario; il secondo più radicale che sposta dal nord al sud-est del mondo il ciclo produttivo globale provocando l'inurbamento forzato di milioni di contadini.
I protagonisti di questo megaesodo planetario non arrivano più in città. Arrivano in smisurate e sconfinate periferie, slums, favelas, urbanizzazioni illegali, frutto esponenziale e terminale dei processi di deterritorializzazione già avvenuti (ma con proporzioni e tempi diversi) nelle periferie della città-fabbrica occidentale: rottura delle relazioni culturali e ambientali con i luoghi e con la terra, perdita dei legami sociali, dissoluzione dello spazio pubblico, condizioni abitative decontestualizzate e omologate, crescita di nuove povertà. Questo «regno del posturbano» (e del postrurale) si è costruito, nella civiltà delle macchine, con la rottura delle relazioni co-evolutive fra insediamento umano, natura e lavoro che ha caratterizzato, nel bene e nel male, le civilizzazioni precedenti.
Il percorso di «deterritorializzazione senza ritorno» che si è avviato con la recinzione dei commons, procede, nel tempo del grande esodo, con la privatizzazione e la mercificazione progressiva dei beni comuni naturali (la Terra, innanzitutto, e poi l'acqua, l'aria, le fonti energetiche naturali, le selve, i fiumi, i laghi, i mari e cosi via), e dei beni comuni territoriali (città e infrastrutture storiche, sistemi agroforestali, paesaggi, opere idrauliche, bonifiche, opifici, impianti energetici).
Autogestioni locali
Questa deterritorializzazione ha trasformato progressivamente gli abitanti (che ancora nella città fabbrica esprimono la forza collettiva per rivendicare nel territorio condizioni di vita adeguate) in consumatori individuali e clienti del mercato e i luoghi in siti occupati da funzioni che rispondono a reti globali. L'urbanizzazione del pianeta che compie questo processo è dunque catastrofica per la mutazione antropologica che produce con la fine della città e della cittadinanza, oltre che ecocatastrofica per gli effetti sul clima, sul consumo di suolo fertile, sugli ecosistemi, provocati dalla dimensione, velocità e forma dei processi di inurbamento. Si compie così un percorso, analizzato da molti osservatori scientifici, da una parte verso una condizione urbana globale (ma non di urbanità) come destino esclusivo dell'umanità sul pianeta, dall'altra, «fuori le mura», verso l'abbandono e l'inselvatichimento di molti spazi aperti, resi inospitali per la vita dell'uomo da processi di degrado, desertificazione, alluvioni; e verso lo sfruttamento commerciale della natura fertile residua.
Se questa urbanizzazione globale non è più la terra promessa, vanno allora ricercate forme di controesodo: accrescendo la resistenza (in via di crescita) dei luoghi periferici e marginali al loro definitivo tramonto e colonizzazione e favorendo il loro ripopolamento con nuovi agricoltori, alleati con cittadini consapevoli, per la costruzione di una nuova civilizzazione urbana e rurale.
Il controesodo è un «ritorno al territorio» come bene comune (alla terra, alla montagna, alla urbanità della città, ai sistemi socioeconomici locali) per disseppellire luoghi, ritrovare la misura umana delle città e degli insediamenti. Il che significa ricostruire relazioni sinergiche fra insediamento umano e ambiente; aiutare la crescita di «coscienza di luogo», ovvero la capacità della cittadinanza attiva di sviluppare, a partire da vertenze specifiche, saperi e forme di autogoverno per la cura dei luoghi, in primis dei fattori riproduttivi della vita; promuovere nuovi stili conviviali e sobri dell'abitare e del produrre; valorizzare le forme in atto di mobilitazione sociale, le reti civiche e le forme di autogestione dei beni comuni territoriali e ambientali, per produrre ricchezza durevole in ogni luogo del mondo attraverso una conversione ecologica e territorialista dell'economia e la costruzione di reti solidali per una «globalizzazione dal basso».
Lo strumento concettuale e operativo che propongo, insieme a molti ricercatori della Società dei territorialisti, per avviare questo «ritorno al territorio» è la bioregione urbana, declinazione territorialista del concetto storico di bioregione: un modo di ridisegnare, in controtendenza, le relazioni virtuose fra insediamento umano, ambiente e storia che, similmente alla costruzione di una casa, individui e metta in opera gli «elementi costruttivi» di un progetto di territorio che produca l'autosostenibilità degli insediamenti umani.
Eccentricità a confronto
Questi elementi costruttivi sono, in sintesi: le culture e i saperi locali contestuali e esperti che si mobilitano per riattivare l'ars aedificandi dei mondi di vita delle comunità locali; gli equilibri idrogeomorfologici e la qualità delle reti ecologiche come precondizioni dell'insediamento umano e della sua capacità autorigenerativa; la decostruzione delle urbanizzazioni contemporanee centro-periferiche e la ricostruzione di centralità urbane policentriche e dei loro spazi pubblici (città di villaggi, reti di città in equilibrio ambientale con il loro territorio rurale); lo sviluppo di sistemi produttivi locali orientati alla messa in valore dei beni patrimoniali per la produzione di ricchezza durevole; la valorizzazione integrata delle risorse energetiche locali in coerenza con il patrimonio ambientale, territoriale e paesaggistico, per l'autoriproduzione della bioregione; i ruoli multifunzionali degli spazi agroforestali (già presenti in molte esperienze di neoruralità) per la riqualificazione delle relazioni città-campagna per la produzione di servizi ecosistemici e la riduzione della impronta ecologica; le istituzioni di democrazia partecipativa, le forme e le esperienze di gestione sociale dei beni comuni territoriali per l'autogoverno della bioregione.
Ognuno di questi «elementi costruttivi» si appoggia su energie sociali (comportamenti, movimenti, comitati, reti) che vanno esprimendo nuove forme del conflitto che si è desituato, almeno nelle regioni del nord del mondo, con la complessificazione crescente dei rapporti sociali di produzione, dalla centralità della contraddizione fra capitale e lavoro alla opposizione fra eterodirezione e autogoverno delle comunità locali, come già scrivevo nel 1981: «Due eccentricità si fronteggiano sul nuovo territorio metropolitano: le aree socioeconomiche in cui si disarticola il territorio della produzione, in quanto terminali informatizzati del nuovo ciclo di accumulazione e la formazione di nuovi bisogni di autodeterminazione della qualità della vita, emergenti in modo articolato e specifico nelle singole comunità socioeconomiche».
Il progetto di bioregione consolidandosi nel tempo in relazione alla evoluzione dalla coscienza di classe alla coscienza di luogo, fa riferimento a esperienze di ricerca-azione e di progettualità sociale del territorio in corso in alcune regioni europee dove l'urbanizzazione diffusa ha già raggiunto livelli difficilmente superabili; ma può nel contempo indicare strade per il contenimento del grande esodo verso megacity, contrapponendogli la visione di un pianeta brulicante di bioregioni in rete, per una globalizzazione dal basso fondata in ogni luogo sulla gestione collettiva del bene comune territorio.
La Società dei Territorialisti e il sistema vivente dei «luoghi»
La Società dei Territorialisti e delle Territorialiste è nata per iniziativa di un Comitato di garanti di diverse discipline di molte università italiane, per perseguire i seguenti obiettivi: a) sviluppare il dibattito scientifico per la fondazione di un corpus unitario, multisciplinare delle arti e scienze del territorio di indirizzo territorialista, che assuma la valorizzazione dei luoghi come base fondativa della conoscenza e dell'azione territoriale; b) promuovere indirizzi per le politiche e gli strumenti di governo del territorio a partire da questo corpus; c) indirizzare il dibattito sulla formazione di scuole, dipartimenti, dottorati, master di Scienze del territorio nelle università italiane; d) promuovere eventuali strutture di carattere culturale e scientifico al di fuori dell'Università; e) sviluppare relazioni internazionali mirate a estendere e confrontare i temi della Società.
Soprattutto, vi si favorisce un approccio che ha posto alcentro dell'attenzione disciplinare il territorio come bene comune nella suaidentità storica, culturale, sociale, ambientale, produttiva e il paesaggio inquanto sua manifestazione sensibile. Si critica, invece, l'idea di una fatalitàdella deterritorializzazione e despazializzazione. L'approccio della Societàinterpreta il territorio, appunto, come un sistema vivente ad alta complessitàche è prodotto dall'incontro fra eventi culturali e natura, composto da luoghi(o regioni) dotati di una propria storia, struttura e carattere. Ribadiscedunque il legame interattivo delle società umane con la terra (nella sua entitàgeologica, topografica, ecologica, vegetale e animale).
In una intervista a Cino Zucchi, emerge la grande capacità comunicativa dei progettisti, rispetto allo schematismo burocratico degli urbanisti, che invece sarebbero per natura portatori privilegiati di una visione organica di città migliore. La Repubblica, 30 giugno 2013, postilla (f.b.)
Strategie possibili per unire politiche di sostenibilità e ed equità: uno sguardo sulle metropoli del mondo ma in particolare le grandi città-regione italiane. Temi per una discussione di rilievo planetario che è urgente avviare, e magari, da noi, concludere prima che vengano istituite le "città metropolitane. La critica sociologica, estate 2013. (f.b.)
Che cos’è oggi la città? La sua aria rende ancora liberi i suoi cittadini? Quali le forze scatenanti della nuova grande urbanizzazione globale? Il gigantismo urbano, la metropolizzazione del territorio, le grandi città globali, gli slum e le baraccopoli, le mega-regioni, le mega-city, sono compatibili con la nostra idea di democrazia ? Possiamo parlare di crisi della Polis, intesa nel senso di politica e di città? Quali i valori fondanti di un nuovo urbanesimo?
La città moderna non sarebbe esistita senza la città comunale indipendente, caratteristica dell’Italia e della Germania. La rinascita delle città intorno all’anno Mille avvenne in Europa sotto il segno della libertà di commercio e dell’ autonomia dei suoi membri dal controllo dei feudatari. Qui si sperimentarono le prime forme di democrazia attraverso le libere elezioni dei propri rappresentanti. In Italia questo processo fu anticipato con la nascita e lo sviluppo delle libere repubbliche marinare che segnarono l’inizio di una egemonia italiana nel commercio e nell’economia mondiale.
Le città hanno creato un ordine sociale basato sul diritto alla cittadinanza per tutti quelli che vi risiedevano, non basato su vincoli di sangue o etnici, compreso il diritto alla protezione e alla sicurezza per lo ‘straniero’. Perché oggi le città, soprattutto le più grandi, invece che alla sicurezza, sono sempre più associate alla paura e al pericolo? Non ho risposte esaustive a tutte queste e ad altre domande simili. Proverò a darne qualcuna.
L’esplosione/decadenza urbana nel mondo
Più della metà degli abitanti della terra oggi risiedono nelle aree urbanizzate. Ad espandersi in maniera tumultuosa sono soprattutto le cosiddette megalopoli, aree metropolitane con più di 10 milioni di abitanti. Le aree urbanizzate occupano solo il 2% della superficie terrestre, ma consumano tre quarti delle risorse del pianeta, producendo una massa enorme di gas inquinanti, di rifiuti e di sostanze tossiche. Le città che superano i 10 milioni di abitanti nel 2015 dovrebbero essere 40, in gran parte nei paesi emergenti e nell’Africa. Quelle che superano il milione di abitanti sono più di 500. Cent’anni fa la città più popolosa al mondo era Londra con 6,5 milioni di abitanti. Il gigantismo urbano è fonte di enormi problemi ambientali e sociali, produce conseguenze catastrofiche dal punto di vista della sicurezza urbana, dell’aumento delle malattie, dello smaltimento dell’entropia accumulata.
Le mega-città oggi formano mega-regioni che si diffondono nel mondo, città infinite raccordate da relazioni amministrative, geografiche ed economiche. Le 25 maggiori città della terra producono più della metà della ricchezza del pianeta. Le 5 più grandi città della Cina e India producono il 50% della ricchezza dei rispettivi paesi. Sono 40 le mega-regioni, di cui parla il Rapporto UN Habitat 2010-2011 delle Nazioni Unite, nelle quali vivono un quinto degli abitanti della Terra e si svolge il 66% delle attività economiche e l’85% di quelle tecnologiche e scientifiche. Esse hanno un’economia intorno ai 100 miliardi di dollari minimo, che le pone al di sopra della 40a più grande nazione in termine di PIL. La mega-regione in pratica svolge la funzione che una volta era svolta dalla città ma semplicemente su scala molto maggiore. Secondo il Rapporto, Hong Kong- Senhzn-Guangzhou in Cina è la mega-regione più estesa e popolata del mondo, un’area abitata da 120 milioni di persone.
Questo modello urbano è ecologicamente e democraticamente sostenibile? L’impronta ecologica sostenibile del pianeta, necessaria a produrre le risorse utilizzate per assorbire i nostri rifiuti, equivale a un indice di 1,78 ha pro-capite. Ma un americano ne necessita di 9,5 ha, un italiano di 4,8 ha, il Lazio di 3,98 ha. Ad una città come Londra serve per sostenere il suo modello di consumi e di smaltimento un’area 125 volte più grande, a Milano ne serve per 300 volte. L’intero continente africano ha invece un’impronta ecologica inferiore ad un ha pro capite. Oggi consumiamo il 23% in più delle risorse che la Terra riesce a produrre in un anno. Per essere ancora più chiari le risorse che la biosfera produce in 365 giorni noi le bruciamo in 282. Più la città è estesa, più questa impronta è forte. L’impronta ecologica è direttamente connessa al consumo di suolo sottratto alla natura e al suo uso produttivo primario.
L’eccessivo consumo di suolo è al centro delle attenzioni anche nell’ Unione Europea che, con il documento Orientamenti in materia di buone pratiche per limitare, mitigare e compensare l’impermeabilizzazione del suolo ha fissato il traguardo di “consumo zero” da raggiungere entro il 2050. Dalla metà degli anni ’50 la superficie totale delle aree urbane nell’UE è aumentata del 78% a fronte di una crescita demografica del 33%. Circa il 2,3% del territorio europeo è ricoperto di cemento. Fra il ’90 e il 2000 la quota di suolo occupato era di circa 1000 kmq l’anno, con un incremento del 6%. Dal 2000 al 2006 la quota di terreno occupato è sceso a 920 kmq annui, mentre le aree di insediamento sono aumentate di un ulteriore 3%, con un aumento complessivo tra il ’90 e il 20006 del 9% , a fronte di un incremento della popolazione del 5,5% nello stesso periodo.
Nuove gerarchie urbane nella globalizzazione
La globalizzazione ha sicuramente favorito il rapporto tra il capitale e la trasformazione spaziale ed urbana del mondo. Alle grandi città dell’epoca fordista, che attraevano popolazione e forza-lavoro per alimentare i processi di industrializzazione, subentrano oggi città che diventano sempre più luoghi dove estrarre plusvalore attraverso la loro valorizzazione immobiliare e la loro rifunzionalizzazione alle esigenze di mobilità delle persone e delle merci, luoghi di estrazione di forza-lavoro a basso costo, di consumi di massa, dove si concentra il potere finanziario e direzionale dell’economia globale.
Si parla tanto di reti delle città globali. In realtà dobbiamo parlare di una nuova gerarchia urbana globale che risponde alle diverse esigenze di una divisione internazionale del ruolo delle megacity in base alle diverse funzioni loro assegnate nella riproduzione dei meccanismi di dominio e di controllo economico, sociale, culturale del mondo: con al vertice le grandi città sedi della finanza e del potere globale descritte da Saskia Sassen; a seguire le grandi metropoli terziarie occidentali orientate ai consumi di massa e le grandi città industriali dell’Asia in crescita spaventosa; alla base infine le grandi megalopoli del terzo e quarto mondo con le periferie più povere del mondo che raccolgono gli scarti umani (Bauman) e le sacche di miseria e di degrado umano degli slum raccontate da Mike Davis, vere discariche umane, provocate dalla privatizzazione della terra e dell’acqua ( Vandana Shiva).
Le conseguenze di questo processo modificano la tradizionale peculiarità dell’economia urbana delle metropoli del Nord del mondo, che tendono a perdere la loro caratteristica di specializzazione produttiva tipica dell’epoca fordista. Alle vecchie città “fortificate” e compatte, si sostituiscono, infatti, città sempre più “liquide” e al vecchio policentrismo delle piccole e medie città, si sovrappone oggi un nuovo megacentrismo territoriale caratterizzato da forti relazioni produttive, direzionali, commerciali, di consumi, con forti pressioni sul territorio di domande sociali, abitative, di mobilità sempre più difficili da soddisfare anche per effetto di un duplice movimento in atto: da una parte di concentrazione delle attività attrattive e produttive e, dall’altra, di diffusione di nuovi insediamenti abitativi in luoghi economicamente accessibili e lontani dai luoghi di lavoro.
Questo disastro urbano è la conseguenza della crisi della politica ma anche del fallimento di architetti e urbanisti che non hanno saputo o potuto impedire la decomposizione del tessuto urbano, la cementificazione del territorio, la distruzione dell’ambiente. Anzi, una parte consistente della cultura urbanistica e della politica progressista ha nobilitato queste scelte sciagurate attraverso l’assunzione di nuove teorie e modelli di governance urbana improntate alla cultura neoliberista del pianificar facendo e dell’urbanistica contrattata.
Il risultato è l’esplosione dell’urbano che sta travolgendo e snaturando le nostre città, e con esse la nostra democrazia trasformandola progressivamente in oligarchia e forse in tirannia. “La città non riesce più a produrre società. Le periferie in Europa e in gran parte del resto del mondo simboleggiano questo brusco arresto della funzione civilizzatrice della città”(Ferrarotti, Macioti 2009). È questa la nuova ‘questione urbana’ a cui è legato il futuro della democrazia.
Roma e la nuova periferia metropolitana e regionale
Cos’è un’area metropolitana? Cittalia (2010) ha proposto una definizione di cosa siano le aree metropolitane e le aree urbane proponendo una classificazione basata su tre criteri in base ai quali è possibile distinguere: ‘aree urbane’ “caratterizzate da continuità edilizia e minima presenza al loro interno di suoli destinati ad uso agricolo”, ‘aree metropolitane’ “caratterizzate da integrazione di funzioni e intensità dei rapporti che si realizzano al loro interno” e ‘regioni metropolitane’ “identificate con le aree di influenza delle prime e delle seconde” . Su questa base sono individuate le città della metropolizzazione e le città della regionalizzazione. Nelle prime: “Si verificano processi di diffusione delle residenze fuori dalla città. Tale fenomeno non è tuttavia accompagnato in modo evidente dalla ri-localizzazione delle attività sul territorio. I residenti fuori comune continuano ad ‘usare’ la città per accedere ai posti di lavoro. La mobilità in ingresso nelle città è in aumento”. È, questo, il caso di Roma e del suo entroterra metropolitano.
Nell’ultimo decennio si sono accentuati i processi di diffusione urbana nei comuni della provincia rispetto al comune capoluogo. Secondo il recente Rapporto CNA-CRESME tra il censimento 2001 e le risultanze anagrafiche del 2010, la popolazione della provincia di Roma è cresciuta del 13,3%, attestandosi a 4.194.068 abitanti, mentre nel solo capoluogo la crescita demografica è risultata dell'8,4%, giungendo a 2.761.477 abitanti. In poco più di nove anni, con riferimento all'intera provincia, si è realizzato un aumento netto di quasi 500 mila residenti, mentre nel comune di Roma la crescita è stata di quasi 215 mila unità. Il tasso di incremento demografico della provincia e del capoluogo, quindi, è stato nettamente superiore alla media italiana (6,4%).La popolazione residente nei comuni di prima cintura è passata dai 578mila abitanti del 2001 ai 730mila del 2010, un incremento del 26% in nove anni e nei comuni di seconda cintura invece, la popolazione residente è passata da 243mila a 315mila abitanti, pari ad un incremento che giunge a sfiorare il 30%. Ma l'espansione urbana ha investito anche i comuni di terza cintura, dove la popolazione residente è passata da 232mila a 278mila abitanti, segnando un incremento di poco inferiore al 20%.
La dinamica urbana che interessa l’area metropolitana romana corrisponde a una fase espansiva di urbanizzazione e soprattutto di suburbanizzazione della cintura metropolitana, mentre nel centro storico della capitale prevalgono da una parte processi di riduzione di residenza con la perdita di abitanti in termini assoluti e dall’altro processi di riurbanizzazione attraverso la sostituzione di popolazione autoctona con ceti medio-alti, anche stranieri, caratteristici della gentrification. Secondo il CENSIS e il Rapporto della RuR 2009, sui 120 comuni che formano la cintura metropolitana, 46 sono comuni a più alto tasso di sviluppo integrati nel sistema metropolitano, collocati entro una fascia di 30 km dalla capitale, equivalente al 88% dell’intera popolazione della provincia.
La città metropolitana presenta così tutte le caratteristiche negative di una urbanizzazione non governata oltre ad essere fattore di grande attrazione e centralizzazione della maggiore ricchezza prodotta nel paese. “Nel periodo 1998-2008, il rapporto tra il PIL complessivo delle 11 città metropolitane e il PIL nazionale ha mostrato una crescita del 6,8%. Nel caso di Roma e Genova oltre l’80% del PIL provinciale è realizzato dal comune capoluogo, mentre il restante 20% circa nell’area provinciale. Nelle città di Milano, Torino, Palermo e Bologna tale percentuale varia tra il 47% e il 50%. (Cittalia 2008).
Ma nelle grandi aree urbane sono anche più evidenti i fenomeni di polarizzazione sociale nella distribuzione della ricchezza e i rischi di povertà con un conseguente aumento delle differenti forme di marginalità. Il Rapporto UPI Lazio 2011 fotografa queste diseguaglianze nella distribuzione del reddito: il 7,5% dei contribuenti percepisce tra i 33,5 mila e i 40 mila euro, il 6,1% tra i 40 e i 50 mila euro, il 5,3% 50-70 mila euro, il 3,3% 70-100 mila euro e il 2,8% oltre 100 mila euro. Tali dati evidenziano la presenza di una distribuzione poco omogenea, in cui il 25,6% della popolazione meno abbiente detiene appena il 7,7% dei redditi distribuiti, mentre il 25% della popolazione più ricca assorbe il 54,3% dei redditi complessivi.
Il Lazio si colloca, nella graduatoria nazionale, in quarta posizione con un reddito medio familiare pari a 35.030 euro, dopo il Trentino Alto Adige (38.306 euro), la Lombardia (37.235 euro) e l’Emilia Romagna (35.579 euro). All’interno della regione si rilevano significative differenze, con un valore decisamente alto a Roma (38,5 mila euro) dove il reddito medio familiare risulta superiore a quello delle altre province di circa il 40%. Il Lazio risulta essere, infatti, una delle regioni italiane, dopo la Sicilia la Campania e la Calabria , dove si registra la più alta diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza tra i diversi ceti sociali, con l’indice GINI 2009 pari a 0,312, davanti a Lombardia e Piemonte che seguono con indice 0,301.
Un nuovo urbanesimo: Ecopolis versus Metropolis. La città laboratorio di una nuova democrazia
È indubbio che un nuovo urbanesimo non può che partire da una radicale critica del modello urbano generato dallo sprawl e dal rifiuto del connubio sviluppo-crescita urbana dominato dagli interessi e dalla logica del mercato e del profitto. Si tratta di un modello insostenibile sul piano ecologico, ambientale, umano, democratico. È un cancro da combattere con potenti cure chirurgiche che riducano le escrescenze che hanno infestato, come una metastasi, il corpo martoriato dei territori del nostro pianeta. A partire dalle nostre città che abitiamo e che amiamo.
Nel nostro paese è sotto gli occhi di tutti ed è oggetto della cronaca quotidiana il disastro provocato alle bellezze delle nostre antiche città e dei nostri territori da un industrialismo selvaggio e da una urbanizzazione anti-ecologica che ne hanno compromesso l’identità e gli equilibri ecologici. Penso in particolare al drammatico destino di una città che mi è cara, Taranto, distrutta nelle sue millenarie bellezze culturali, naturali, paesaggistiche, marinare, da una sciagurata scelta di cattiva industrializzazione che ne ha deturpato il volto e intossicata l’aria - oltre all’anima e ai corpi dei suoi cittadini - in nome del mito dello sviluppo a cui purtroppo non è stata estranea una cultura ‘sviluppista’ della sinistra politica e sindacale. I paesaggi delle città avvelenate da insediamenti inquinanti e nocivi costellano il nostro territorio da nord a sud. Se questo nostro paese avrà un futuro, questo sarà legato alla nostra capacità e volontà di saper uscire da quella storia passata riconsegnando i suoi territori martoriati e le sue città alla loro antica bellezza, oggi sfigurate dalla crisi e dalla decadenza della città fordista e da una urbanizzazione selvaggia.
Và innanzitutto recuperata la dimensione simbolica delle città, che le renda riconoscibili nei suoi spazi ed edifici pubblici, favorendo la riappropriazione da parte dei suoi abitanti di un senso di appartenenza smarrita. Và ridata alla bellezza delle città, dei suoi quartieri, dei suoi edifici pubblici, la funzione centrale che storicamente hanno sempre avuto. Le moderne periferie, non solo delle grandi città, sono invece un inno alla bruttezza architettonica che spesso coincide con la bruttura alienante e inumana della sua vita sociale.
Per sfuggire a questo destino dobbiamo riprendere nelle nostre mani il destino delle nostre città. All’origine della crisi della polis c’è la crisi e il fallimento della politica. E il rimedio, dice Latouche, deve essere “politico”prima ancora che “ urbanistico e architettonico”, per cui ”il progetto della decrescita passa necessariamente attraverso una rifondazione del politico e quindi anche della polis, della città e del suo rapporto con la natura”. Concordo con questa affermazione. Dobbiamo abbandonare il modello della città metropolizzata (Metropolis) e passare alla progettazione e ri-costruzione della città ecologica ( Ecopolis), e immaginare le città non più come indifferenziati agglomerati urbani, ma come una comunità di liberi cittadini che si autogovernano, riconciliando la politica con le virtù e le responsabilità civiche.
La globalizzazione e la de-territorializzazione dell’economia hanno determinato una riduzione del potere delle comunità locali nell’orientare le scelte dello sviluppo locale e il governo e la politica locale non governano più le città in nome dei cittadini e per il bene comune. Il gigantismo urbano da cui siamo afflitti è effetto e conseguenza della riduzione delle città a merce e della loro privatizzazione a favore dei poteri forti della speculazione finanziaria e immobiliare, della rendita urbana: i comuni si finanziano con l’espansione urbana e il consumo di territorio, svendendo e privatizzando i propri beni comuni. La politica che oggi detiene il monopolio della rappresentanza, è ormai prevalentemente ridotta ad ancella al servizio di questi poteri.
Le conseguenze del gigantismo urbano sono da un parte la sua insostenibilità ecologica che produce effetti devastanti nella qualità della vita urbana e sul territorio circostante, penso alla mobilità, alle discariche e agli inceneritori dei rifiuti, all’inquinamento dell’aria, della terra, dell’acqua, alla desertificazione della campagna; dall’altra la centralizzazione del sistema decisionale in nome della necessità di governare le emergenze ambientali, le grandi opere infrastrutturali e i ‘grandi eventi ‘ ( sportivi, religiosi, culturali), attraverso il conferimento di poteri eccezionali che aggirano le regole e le norme di legge, con effetti quasi sempre disastrosi, come l’esperienza di Roma insegna. Le forme di governo basate sulle istituzioni regionali e provinciali hanno fallito nella loro funzione di assicurare il governo del territorio e nell’impedirne la sua devastazione.
La legge 42/2009 sul federalismo fiscale, istitutiva delle 11 città metropolitane, ci promuovere una vera democrazia locale e un governo sostenibile del territorio. Le grandi città non possono essere più governate democraticamente in maniera centralistica, e la soluzione della città metropolitana così come prefigurata non sarebbe il rimedio adeguato. Che fare? Un’alternativa possibile alla crisi urbana può trovare le sue radici nel rilancio di un nuovo municipalismo e in un nuovo policentrismo territoriale e metropolitano ecologicamente auto-sostenibile, basato sulle bioregioni e sulla cooperazione municipale. In sostanza, mettere in campo il progetto di una “società ecologica” (Murray Bookchin).
Il primo passo è stabilire un nuovo rapporto tra urbano e rurale, tra città e campagna, mettendo fine all’espansione urbana e al consumo dissennato di suolo. I temi di un tale approccio possono essere così sintetizzabili:
a) incoraggiare forme innovative di cooperazione orizzontale tra comuni virtuosi per riconnettere e riunificare ambiti territoriali di area vasta partendo dalle specifiche peculiarità storiche, culturali, ambientali, morfologiche e geologiche del territorio, per promuovere sviluppo locale autosostenibile;
b) individuare in questo modo le nuove bioregioni, anche oltre gli attuali confini amministrativi, da governarsi attraverso la cooperazione e/o patti federativi tra comunità locali;
c) rimettendo in discussione l’attuale assetto delle regioni e delle province; d) instaurare una nuova democrazia urbana a partire dalle grandi città metropolitane, che assumerebbero la configurazione di città-regioni policentriche, con una forte decentralizzazione degli ambiti decisionali e di governo a scala di comune e di quartiere.
Territorio, ambiente e paesaggio devono tornare ad essere considerati come beni comuni non alienabili, da assoggettare ad un governo collettivo da parte delle comunità locali. Nel campo della pianificazione territoriale, gli ‘spazi aperti’ devono diventare ‘centrali’ al fine di contenere e riqualificare i modelli insediativi diffusi che sotto la forma della metropolizzazione hanno invaso il territorio periurbano, riconnettendo lo spazio urbano con quello rurale, riqualificando le periferie degradate, trasformando le aree e regioni metropolitane in “bioregioni urbane” ( Magnaghi, Fanfani 2010) e ridurre la loro impronta ecologica.
Dobbiamo uscire dalla logica del modello metropolitano centroperiferico, per abbracciare in pieno la logica e il modello policentrico e multipolare della bio-regione come eco-sistema urbano e rurale dotato di una forte capacità di auto sostenibilità. Il bioregionalismo si basa su un nuovo patto tra città e campagna e su un policentrismo municipale fatto di città autogovernate, di federazioni di comuni e di municipi urbani e rurali.
“Decentrare le grandi città in comunità a misura d’uomo è condizione indispensabile per una società ecologica” (Murray Bookchin). “Una nuova politica dovrebbe implicare la creazione di una sfera pubblica ’di base’ estremamente partecipativa, a livello di città, di paese, di villaggio, di quartiere” (Murray Bookchin ).
Questa nuova democrazia deve basarsi sulla rivitalizzazione e riscoperta del valore della comunità e sulla capacità di autogoverno dei cittadini e dei lavoratori a partire dal proprio quartiere e dalla gestione dei beni in comune: dalla vivibilità urbana agli spazi pubblici e agli spazi culturali, dalla modello ibrido di complicata gestione, legata alla adesione volontaria dei singoli comuni e non consegna un ancora definita sulle funzioni e i poteri fondamentali, gli organi e il sistema elettorale.
Si presenta come un modello di governance senza un’anima e senza uno spirito fondativo e costituente, non in grado di battersi affinché le bioregioni così individuate acquisiscano nel tempo sempre maggiori autonomie, fino alla possibilità di arrivare alla sovranità vera e propria, mobilità al recupero dei rifiuti urbani, fino alla partecipazione al governo dei beni e servizi pubblici primari. Penso ad una vera e propria riforma della rappresentanza politica e del sistema decisionale a favore di un co-governo tra istituti della democrazia rappresentativa e nuove forme di democrazia diretta e partecipata.
Dobbiamo inoltre immaginare un modello urbano diverso da quello che abbiamo ereditato dalla società industriale, insediato in prevalenza nelle pianure e nelle zone costiere fortemente antropizzate, e ridare invece centralità alle zone interne e appenniniche (Castronovi 2012), ora marginali, e ai piccoli comuni oggi semi-spopolati. Qui permangano risorse preziose di biodiversità, di terre incontaminate, di salubrità ambientale, di sedimenti culturali, che possono essere valorizzati in funzione di un modello alternativo di sviluppo, convivenza, di tutela e di valorizzazione delle risorse naturali, agricole e culturali del territorio.
Un nuovo urbanesimo passa attraverso le parole d’ordine della decentralizzazione urbana e della sua democrazia e di uno sviluppo locale auto-sostenibile che leghi i destini delle popolazioni a quello delle loro città e dei propri territori, sottraendo il loro controllo e il loro futuro alle logiche e al dominio della rendita e alle filiere lunghe della globalizzazione. Ma passa anche attraverso la costruzione e formazione di un carattere e di una integrità etica dei suoi cittadini (la paideia nell’antica democrazia ateniese), di una educazione a coltivare l’ethos pubblico come bene comune, con istituzioni e leggi che le promuovano e sorreggano. L’antidoto al rischio incombente di consegnare il nostro futuro ad oligarchie ed élite locali e globali predatorie, estranee ad ogni considerazione e legame di tipo comunitario, può essere rappresentato solo dall’emergere di un nuovo protagonismo e impegno civico, da cui può rinascere la polis come nuova democrazia saldamente ancorata in città a misura d’uomo, non più in conflitto con la natura.
Riferimenti bibliografici:
BAUMAN ZYGMUNT, Fiducia e paura nella città – Milano, Mondadori 2005
Se ne sono accorti anche nell'ex paese della Fiat: il veicolo privato non è più né uno status symbol né un potenziale motore economico. Cosa significa per il territorio? Corriere della Sera, 23 giugno 2013, postilla (f.b.)
Se pensate — come da tradizione — che sedersi dietro al volante e partire con il vento nei capelli sia una conquista di libertà, preoccupatevi. Secondo questo standard, stiamo entrando in un'era illiberale. Nel 1989, anno di picco, a sostenere l'esame per la patente B in Italia furono 2.582.736 persone. Da allora, il declino è stato costante: a1.756.374 nel 2010. Poi il crollo: 1.413.031 nel 2011 e 1.322.872 nel 2012 (dati del ministero dei Trasporti). In 23 anni una caduta del 48,8%. In una certa misura è spiegabile con il calo delle nascite e, soprattutto negli ultimi anni, con la recessione, registrata anche dalla caduta verticale del numero di auto vendute. Probabilmente, però, qualcosa è anche cambiato negli stili di vita: i giovani si stanno disamorando dell'auto (sono loro, infatti, a dettare le tendenze: per circa il 70%, gli italiani prendono la patente tra i 18 e i 24 anni). Un fenomeno quasi mondiale.
L'anno scorso, l'Università del Michigan ha notato che il 30,5% dei ragazzi americani di 19 anni non ha la patente: in crescita dal 24,5% del 2008 e dal 12,7% del 1983. Certo, anche negli Stati Uniti la recessione ha colpito, il costo del gallone di benzina è aumentato, i giovani sono alle prese con debiti consistenti per pagare le rette delle università. In misura sempre maggiore, però, sono Angry Birds (il videogioco), Facebook, Twitter ad allontanarli dall'auto. «Le persone non hanno bisogno di vedersi l'una con l'altra come prima perché possono comunicare attraverso i social media», sostiene il professor Michael Sivak, che ha condotto la ricerca della University of Michigan. Quasi il 50% dei ragazzi americani tra i 18 e i 24 anni ha detto alla società di ricerche Gartner che, dovendo scegliere tra Internet e automobile, sceglie Internet. Non che Web e quattro ruote siano alternativi: il dato ha però valore, ribalta priorità che spesso si danno per scontate.
Tendenze simili i ricercatori del Michigan le hanno registrate in Paesi a forte penetrazione di Internet: Canada, Gran Bretagna, Germania, Giappone, Svezia, Norvegia, Corea del Sud (ma in Spagna, Israele, Polonia, Svizzera è vero il contrario). Analisi specifiche in Italia non ne sono state pubblicate: il cambio di preferenze e il diverso approccio all'automobile, in particolare tra i giovani, è però evidente dai dati riportati sul numero di esami per la patente.
C'è un'altra ragione, in qualche modo strutturale, che spiega il (relativo) disamoramento per l'auto. Secondo una ricerca dell'australiana Curtin University, in Europa e in Nord America sempre meno persone la usano perché l'urbanizzazione e la congestione del traffico ormai portano a cozzare contro il cosiddetto Marchetti Wall, il limite di tempo di spostamento oltre il quale un pendolare decide che non vale la pena di andare: secondo il fisico italiano Cesare Marchetti circa un'ora e mezza. La domanda è ovvia: ci rendono più liberi Internet e la metropoli o l'automobile?
Postilla
Pare quasi automatico (lo accenna anche l'articolo del resto) iniziare a pensare al modello di città sotteso a queste nuove tendenze, e ad esempio al corso che dovrebbero imboccare politiche virtuose di riuso, riorganizzazione spaziale, densificazione e sostegno ad alcune attività economiche piuttosto che ad altre. Se esiste un modello tangibile di smart city, insomma, è sicuramente quello che emerge da questa chiara tendenza: non aggeggi tecnologici a vanvera, magari buoni solo per chi ce li vende, ma facilitatori di nuovi comportamenti sociali fortemente legati alla sostenibilità ambientale (f.b.)
Dal noto ambientalista una riflessione alta sul valore politico dell'urbanistica conflittuale e partecipata, che come nel caso di Occupy esprime un'idea-progetto di città e società alternativa. La Repubblica, 14 giugno 2013 (f.b.)
Dal ponte di Galata a Gezi Park ci sono tre chilometri e mezzo. Tre minuti di funicolare per arrivare all'imbocco di Istiklal Caddesi, la strada che sfocia nella piazza Taksim. In basso, verso il Corno d'oro, il brulicare umano di sempre: traffico, cantieri aperti, tram modernissimi accanto a vecchi carretti di ambulanti. In alto, la via commerciale della Istanbul moderna. Tre minuti di funicolare sotterranea che sono stati il simbolo di una distanza tra due mondi completamente separati: da una parte la vita quotidiana assolutamente normale, dall'altra le scene di guerriglia urbana riprese dalle televisioni di tutto il mondo.
La raccomandazione era di non salire con la funicolare fino là, per l'aria resa irrespirabile dai lacrimogeni, per gli scontri in corso. Fa un certo effetto vedere la piazza Taksim “liberata” dai manifestanti e il contiguo Gezi Park, dove ancora tende e striscioni colorati spiccano tra gli alberi. Quegli alberi che sono oggi il simbolo di una rivolta forse più grande di quanto ci si aspettasse. C'è aria di smobilitazione, ma si avverte anche una tensione latente. Al centro della piazza, un uomo anziano con un improbabile impermeabile di nylon giallo sta in piedi immobile e tiene in alto una grande bandiera turca. La scalinata che dalla piazza sale all'entrata del parco è ancora chiusa quasi completamente dalle barricate, c'è uno stretto passaggio attraverso il quale però le persone circolano liberamente, tra striscioni e cartelli dei più diversi schieramenti. Dentro, chi raccoglie i sacchi a pelo, chi smonta l'accampamento, chi discute seduto in cerchio.
La via Istiklal, di solito affollata, riprende lentamente ad animarsi appena poche ore dopo gli scontri tra la polizia, armata di caschi, idranti e lacrimogeni, e migliaia di giovani, arrivati qui da tanti quartieri della Istanbul metropolitana, attrezzati con mascherine antipolvere ed elmetti da cantiere. Si ha l'impressione che il fuoco covi sotto la cenere e che questa giornata di tregua, durante la quale Erdogan si è impegnato a dialogare, non sia che una tappa di un percorso più lungo a venire. Il movimento appena nato per difendere gli alberi di Gezi Park minacciati dalla costruzione di un gigantesco centro commerciale (l'ennesimo a Istanbul) è qualcosa di completamente nuovo in questo contesto. Anche all'occhio di un turista senza particolari convinzioni ambientaliste, l'idea che questa macchia di verde nel pieno centro cittadino scompaia appare del tutto illogica. Non sono soltanto concezioni urbanistiche diverse a confrontarsi aspramente, ma due filosofie di vita, in questa Turchia che cresce a ritmi impressionanti ma fatica a trovare una sintesi tra due mondi culturalmente diversi. Per anni la laicità, imposta anche con la forza dell'esercito, ha sottomesso le istanze religiose della popolazione a maggioranza musulmana; oggi le parti si sono invertite e un governo di ispirazione religiosa sottomette la moderna laicità dei giovani che guardano all'Europa e alla democrazia. Certamente Erdogan gode di una maggioranza elettorale riconosciuta, ma sa anche essere totalmente irrispettoso e arrogante di fronte a questi giovani.
La distanza tra i due mondi si avverte proprio guardando al focolaio di piazza Taksim da una parte e l'umanità immersa nelle quotidiane occupazioni dall'altra, in tutto il resto della città. C'è però un elemento che sembra unire le due anime di Istanbul nel sostegno morale alla protesta per l'abbattimento degli alberi: alle nove di sera - e poi ancora più volte nel corso della serata - le luci delle case a Beyoglu, il vasto quartiere esteso dalle sponde del Bosforo in direzione nord ovest dove tutto questo si svolge, si accendono e si spengono, e dalle finestre aperte delle case la gente batte sulle pentole con gli attrezzi da cucina, facendo salire verso il cielo un costante martellare sonoro, dal timbro metallico, simile al rumore delle cicale che cantano d'estate proprio tra gli alberi che il progetto edilizio del governo vorrebbe abbattere.
A Gezi Park c'era e c'è ancora una piccola postazione di giovani simpatizzanti di Slow Food che durante l'occupazione hanno realizzato un orto. Oggi lo hanno smantellato, preparandosi una via di fuga in vista dello sgombero finale. Defne Koryurek, leader di Slow Food a Istanbul, mi dice: «È stato un gesto quasi spontaneo realizzare una biblioteca e un orto, basati sulla collaborazione e sulla voglia di condivisione. Quest’orto non ha padre né madre, ma è figlio del lavoro di una comunità intera. Per anni, come gruppo, ci siamo opposti ai progetti faraonici di questa città: il terzo ponte sul Bosforo, il nuovo aeroporto nella zona Nord (il più grande del mondo, ndr), e il centro commerciale che dovrebbe prendere il posto di Gezi. Sappiamo sempre cosa dire quando ci opponiamo a qualcosa. Più difficile è portare esempi virtuosi e concreti. L’orto di Gezi rappresentava il nostro modello di sviluppo, ciò che vogliamo fare con la nostra terra. E lo abbiamo curato assieme ai nostri figli, con loro abbiamo piantato semi e piante, perché siano loro a raccoglierne i frutti».
Refika Kortun ha diciotto anni, una generazione in meno di Defne. Racconta di essersi unita ai manifestanti per difendere il parco: «Gezi è occupato dai nostri sogni. L’energia che vivo in questi giorni è splendida, anche se ho paura. Qui abbiamo creato una comunità vera, come mai avevo sperimentato. Una comunità che è nata su Twitter e Facebook e che lì continuerà, anche se dovessero cacciarci da qui». Guardare negli occhi questi giovani, la loro determinazione, la loro passione è guardare a una nuova Turchia, capace di dare valore a cose semplici ma importanti, come gli alberi di un parco.
E' già successo a insetti, passeracei, volpi, procioni, nutrie eccetera, di cambiare radicalmente grazie al contesto metropolitano di vita. Perché non imitarli consapevolmente, quando ci azzeccano? La Repubblica, 20 maggio 2013 (f.b.)
Forse non ce ne siamo ancora accorti, ma stiamo diventando tutti uguali. Per la prima volta nella storia dell’umanità, più di metà della popolazione mondiale vive in città, e questo sta producendo un effetto non solo culturale, ma anche biologico. «Gli uomini sono oggi più geneticamente simili tra loro di quanto siano mai stati negli ultimi 100 mila anni», afferma il professor Steve Jones, genetista del London University College e uno degli scienziati più noti del pianeta. Non ci siamo mai assomigliati tanto, in altre parole, da quando poche decine di migliaia di Homo Sapiens popolavano l’Africa orientale e cominciavano a diffondersi nel resto del globo.
Geneticamente simili, va precisato, non significa avere tutti lo stesso aspetto, la stessa faccia, lo stesso colore della pelle: vuol dire avere un simile Dna. Ma una cosa è in un certo senso la premessa dell’altra, essendo in ultima analisi la genetica a determinare le caratteristiche del nostrocorpo. Nel presentare la tesi dell’ultimo libro del professor Jones, laBbc parla infatti di «grande omogeneizzazione umana». A determinarla, è l’urbanizzazione. Le città, sebbene rappresentino soltanto il 3 per cento della superficie terrestre, ospitano ora più del 50 per cento della popolazione totale della terra.Questo processo ha portato nel “melting pot” delle metropoli, nel pentolone di razze dei centri urbani, una quantità senza precedenti di immigrati da tutti i continenti. A New York si parlano 800 lingue. A Londra i bianchi sono adesso una minoranza (appena dieci anni fa erano ancora il 58 per cento). E come conseguenza di questa commistione, le lingue e i dialetti della terra diminuiscono costantemente: ogni due settimane ne scompare una delle 7 mila ancora esistenti.
In sostanza, la multietnicità, producendo società più diversificate dal punto di vista etnico e culturale, porta a mescolare le razze come non era mai accaduto, attraverso i matrimoni misti. Nord e sud, del mondo o di una stessa nazione, si mischiano. E dal cocktail genetico esce poco per volta una nuova specie: l’Homo Unicus. La razza degli uomini tutti uguali, non attraverso un fantascientifico progetto di clonazione, bensì come risultato di una rivoluzione nei trasporti, nel progresso, nello stile di vita.
«È un’evoluzione cominciata con la bicicletta», dice il genetista Jones, con una provocazione che contiene una verità di fondo. Per milioni di anni, fino praticamente a due-tre secoli fa, gli uomini hanno vissuto per lo più nel luogo in cui erano nati. La distanza tra un villaggio e una città, per non parlare di quella tra una nazione e l’altra, tra un continente e l’altro, appariva come quella tra la Terra e la Luna: incolmabile. Le navi dei conquistadores prima, i treni della rivoluzione industriale poi (e la metropolitana, la prima inaugurata a Londra 150 anni or sono), hanno ridotto e infine frantumato quella distanza. Il globale è diventato locale. E la concentrazione sempre più ampia e diffusa di persone di origine etnica e geografica differente all’interno di una stessa città ha creato unamiscela dapprima culturale, quindi pure biologica, come non accadeva dall’alba dell’Uomo.
Naturalmente è inesatto dire che siamo tutti uguali. Ma l’urbanizzazione, avverte l’eminente scienziato gallese, ci sta cambiando in modo non solo socioculturale. Possiamo sembrare diversi per ceto, reddito, religione, ma dentro, dal punto di vista scientifico, ci somigliamo quasi come al tempo del primo uomo. Dando ragione a quella vecchia battuta di Albert Einstein, che al funzionario dell’immigrazione di New York, il quale compilando il questionario d’ingresso negli Usa gli chiedeva a che razza appartenesse, rispose senza batter ciglio: «Umana».
Con la trasparenza e accessibilità totale dei dati – scelta prima politica che tecnica – si aprirebbero sia le prospettive di smart city che di sviluppo economico per le applicazioni. Articoli di M. Sideri e A. Farkas, Corriere della Sera, 12 maggio 2013
Open Data
di Massimo Sideri
«Open + data»: due termini che stanno entrando nel linguaggio comune, ma la cui pacifica convivenza non è così scontata. Dati e numeri, dunque «informazioni» su qualcuno che in un dato momento e in un dato luogo fa qualcosa, aperti, dunque accessibili liberamente tramite la Rete. Per decenni questi due concetti hanno fatto a botte: il sostantivo informazioni era quasi l'antitesi dell'aggettivo aperte. Pensiamoci. Lo Stato silente. Il segreto di Stato. La Guerra fredda con le sue macchine di spionaggio e controspionaggio in cui nemmeno lo Stato alla fine sapeva cosa fosse vero. Nel film premio Oscar di Florian Henckel von Donnersmarck, «Le vite degli altri», gli abitanti di Berlino Est devono aspettare la fine della Ddr e la caduta del Muro di Berlino per conoscere cosa la Stasi sapesse di loro.
Ma anche venendo all'oggi possiamo trovare mille esempi di un'eterna lotta tra informazioni e loro diffusione. Pensiamo alla potenza, a tratti rivoluzionaria e a tratti distruttiva, di WikiLeaks. Se tutti i dati fossero liberi, accessibili, se le informazioni non fossero anche al centro della forza che definiamo «Potere», non ci sarebbe spazio per Julian Assange. D'altra parte una delle più efficaci definizioni di Potere l'ha data lo storico banchiere di Mediobanca, Enrico Cuccia, dicendo che il bello delle informazioni è tenersele per sé, non darle.
La storia moderna vede contrapporsi uno Stato che annovera tra i suoi compiti la «difesa» del dato e dall'altra il cittadino che non ha quasi il diritto di sapere la verità, almeno non tutta. La filosofia del «meglio che non sappiano» è stata uno dei valori condivisi delle scuole di politica del Novecento. Ora la gara App4Mi, lanciata dal Comune di Milano in collaborazione con Corriere e Rcs, può essere un punto di incontro di buone volontà. Una nave rompighiaccio. L'amministrazione locale che usa la Rete come luogo di trasparenza con i suoi Open data. E lo sviluppatore cittadino che li trasforma in app, rendendoli fruibili e utili dopo averli strappati a una massa accessibile di informazioni che però, se lasciata disordinata, può produrre un fastidioso rumore di fondo.
Molto c'è ancora da fare. Secondo un rapporto presentato al recente Festival del giornalismo di Perugia da il Diritto di sapere e da Access Info Europe con l'esplicativo nome «The Silent State», risulta che nel 77 per cento dei casi di specifiche richieste alla Pubblica amministrazione inviate da giornalisti e blogger le informazioni non sono state fornite (con buona pace del decreto trasparenza). Nel 65 per cento dei casi gli uffici amministrativi non si sono degnati nemmeno di rispondere.
Ma anche dal punto di vista commerciale immaginiamo come stia cambiando il «Potere», anche qui, delle società specializzate in sondaggi e proiezioni con gli Open data e i Big data (per chi non avesse chiara la distinzione possiamo dire che i due concetti-movimenti culturali sono cugini: con Open data si fa riferimento alla massa enorme di informazioni sulla nostra vita in società, dai rifiuti alla mobilità, controllate dai soggetti locali e nazionali della Pubblica amministrazione. Con Big data ci si riferisce invece alle informazioni detenute dal settore privato: banalmente, pensate a tutti i dati sugli accessi a Internet immagazzinati da Microsoft, Cisco, Ibm, Apple, Facebook e Google, oppure a quelle in mano agli operatori telefonici, tanto per fare degli esempi). Ci sarà un momento in cui anche l'Istat, così com'è oggi, diventerà obsoleta.
Ora — a.D. 2013, era della socializzazione di massa e del dibattito infinito sulla Rete — siamo maturi e pronti per sapere. In questo senso quello dei dati aperti ha una natura ambivalente che solo alla fine del percorso si dissolverà: da una parte è una nuova forma di politica, soprattutto locale, una politica di trasparenza per amministrazioni illuminate e moderne di città come New York e Londra ma anche Milano, Firenze, Roma. Dall'altra è un movimento culturale che spinge dal basso, una nuova forma di cittadinanza.
Che però corre il serio rischio di restare una battaglia potenziale, un diritto latente più che un risultato. La massa è nemica della trasparenza, avere accesso a tutto vuole dire in sostanza non sapere nulla. Stiamo parlando di terabyte di dati in continua evoluzione. Fiumi di fogli Excel senza capo né coda.
Ecco che per permettere a questa corrente sotterranea di cambiare le nostre vite quotidiane abbiamo bisogno della forza creatrice degli sviluppatori. La storia di Max Stoller e della sua DontEat.at (vedi nella pagina a fianco) ne è l'emblema pratico. E adesso App4Mi — come gli altri di questo genere che, speriamo, seguiranno — permetterà di trasformare quei papiri digitali di dati in servizi utili sulla mobilità, l'Area C, la raccolta dei rifiuti, la sanità. Creando, punto non secondario, posti di lavoro. L'Unione Europea, in maniera lungimirante e moderna, ha appena risolto l'equivoco: gli Open data possono essere usati per finalità commerciali, per creare imprese, fatto salvo il rispetto della privacy. I dati aperti possono essere una nuova forma di elettricità. Ma gli sviluppatori con le loro idee saranno le (nostre) lampadine.
E Bloomberg sbucciò la Grande Mela
di Alessandra Farkas
Per anni, nel pieno della notte, molti ristoratori della Grande Mela hanno riversato illegalmente tonnellate di olio da cucina usato nelle fognature del loro quartiere, intasando più della metà dei tubi di scarico dell'intera città. Come stanare i colpevoli? Il mistero, degno di uno Sherlock Holmes moderno, è stato svelato dalla Geek Squad messa in piedi dal sindaco di New York Michael Bloomberg nell'Ufficio Municipale di fronte al ponte di Brooklyn.
L'asso nella manica? I cosiddetti Open data: strumenti ormai indispensabili per i geni informatici che hanno compreso come i dati liberamente accessibili a tutti, privi di brevetti o altre forme di controllo che ne limitino la riproduzione, oggi sono uno strumento cruciale al servizio delle amministrazioni pubbliche e dei privati cittadini, per risolvere gran parte dei loro problemi e migliorarne la qualità della vita.
Grazie a Bloomberg, New York è oggi la città più digitalizzata del mondo. «La massa sterminata di informazioni che New York ha raccolto sui suoi 8 milioni di abitanti è incredibile», scrive il New York Times, «dal numero degli infarti e degli incendi nei condomini alle denunce per scarafaggi e rumori molesti, dalle auto in sosta vietata agli evasori fiscali, dai voti degli studenti alle preferenze degli anziani nei trasporti pubblici».
Alcune innovazioni tecnologiche, se attentamente considerate, possono davvero ribaltare in modo stupefacente l'idea di organizzazione urbana tradizionale e di economia locale. CityWire, aprile 2013 (f.b.)
Titolo originale: More Self-Sufficient Cities in a 3D Printing World – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Si è parlato tantissimo ultimamente della stampa tridimensionale e delle sue meraviglie: una tecnologia emergente che potrà riuscire a riprodurre qualsiasi oggetto, dai sublimi strumenti musicali (un violino Stradivari) agli strumenti di morte (un'arma di fuoco). Ma la stampa 3D può far molto di più che produrre oggetti: può cambiare le città del mondo, forse in modo radicale, trasformandole anche di nuovo in grandi laboratori di produzione. Da un certo punto di vista la 3D ci potrebbe riportare anche più oltre, verso un modello simile al villaggio di epoca preindustriale, quando erano il fabbro o il sarto a costruire sul posto ciò di cui si aveva bisogno, e le città erano molto più autosufficienti.
Come è possibile che questa tecnologia, oggi ancora ai primi passi, riesca a produrre cambiamenti radicali del genere? E innescare sviluppi di profondità paragonabile a quelli del vapore, delle lampadine, dell'energia atomica o dei microchip? Faccio qui riferimento alle ricerche di Banning Garrett, responsabile per l'innovazione e le tendenze globali per l'Atlantic Council, di Thomas Campbell del Virginia Tech, degli analisti alla National Defense University e molti altri. Che evidenziano sino a che punto una volta che un computer sia riuscito a riassumere strato dopo strato tridimensionalmente un oggetto – dalla chiave inglese all'iPhone – quel file poi venga spedito alla sofisticata stampante, che dista un metro, o via internet in tutto il mondo, nel giro di qualche secondo. La stampante poi riproduce l'oggetto per strati, uno alla volta, coi vari materiali. Col 3D il prodotto finale emerge in un unico processo, a differenza della manifattura tradizionale che spesso richiede costosi passaggi di produzione, lavorazione, assemblaggio di migliaia di componenti, ciascuno di provenienza diversa e lontana.
Ciò significa possibilità di produzione su richiesta, eliminazione dei grandi depositi e magazzini, eliminazione delle lunghe attese per un articolo o componente spedito da lontano. Basta un solo produttore per quantità e articolazioni infinite. Sarebbe possibile de-globalizzare l'attuale produzione e distribuzione, ridimensionando drasticamente ad esempio il sistema portuale delle navi container, o del trasporto su camion che brucia carburante attraversando i continenti. La forte dipendenza degli Stati Uniti dalle produzioni estere, specie dalla Cina, ne uscirebbe radicalmente ridotta, e in generale si ridurrebbe altrettanto l'impronta ecologica di produzione e trasporti. La 3D taglia anche scarti e uso di materiali pericolosi nelle fasi produttive, e riduce la domanda per risorse non rinnovabili, come le terre rare.
Il prezzo delle stampanti tridimensionali si è molto ridotto, al punto che qualunque inventore oggi è in grado di pensare, produrre, sperimentare, e nel caso funzioni mettere sul mercato, ogni cosa. E instaurare immediatamente un rapporto col consumatore. “Inventore, capitalista, produttore, distributore: tutti concentrati nella medesima persona”, nota Garrett. Un modello che si adatta perfettamente all'ambiente urbano, con la sua società creativa che si ritrova magari in un caffè a scambiare idee, e se c'è bisogno di qualche competenza la trova facilmente nell'università poco distante. Concetto e impianti 3D possono diventare diffusi così come succede oggi alle normali “apps” che i giovani di oggi usano e migliorano senza alcuna difficoltà. Col 3D, a differenza di quanto accade con la produzione di massa, anche il consumatore fa parte attiva del processo. E migliora il prodotto: basta pensare a una scarpa in grado di adattarsi perfettamente a chi la dovrà indossare.
Nel caso di disastri come gli uragani Katrina o Sandy, quando tutti gli impianti si bloccano, col sistema 3D li si possono rapidissimamente analizzare o riparare o riprodurre: un enorme progresso per la ricostruzione. Garrett ce ne fa un esempio particolarmente futuribile, della 3D e delle sue possibilità: un mondo di gran lunga più decentrato di quanto non sia ora, con prodotti (e personalizzazioni) del tutto locali. Alimenti prodotti in fattorie verticali, anche la carne 3D (da colture di cellule di origine animale). Un paziente ha bisogno di un fegato nuovo, ecco che questo può essere ricavato direttamente dalle sue cellule.Ma Garret aggiunge che un mondo decentrato e quindi molto resiliente, non significa rinuncia alla rete dell'economia mondiale: è ancora il villaggio globale di internet, dove dappertutto circolano le migliori idee (e i files tridimensionali).
Con tutta questa efficienza e assenza di sprechi, si riduce la dipendenza da materiali com acciaio, o titanio, si possono usare energie da fonti rinnovabili come vento e sole, a sostituire carburanti che oggi vengono importati da centinaia, a volte migliaia e migliaia di chilometri di distanza. Una visione scintillante, che senza alcun dubbio passa però anche attraverso l'inevitabile, magari drammatica, perdita dei posti di lavoro produttivi tradizionali (salvo forse le produzioni standardizzate su grosse quantità). Fra gli altri aspetti negativi, col 3D è più facile imitare, aggirare la proprietà intellettuale. Però succede raramente, che compaia una tecnologia con tante possibilità rivoluzionarie per il nostro progresso e benessere, nelle città e nei territori circostanti, in cui abiteremo nei prossimi secoli.
Pianificazione e gestione urbana nella città di oggi. Da un intervento a un convegno milanese in onore di Guido Martinotti, e con qualche piccola pecca nella traduzione che notano solo gli urbanisti. Corriere della Sera, 14 aprile 2013 (f.b.)
Vorrei presentare tre modelli di realizzazione di una città aperta. Questi progetti puntano alla creazione di confini ambigui tra le diverse parti della città, generando forme incomplete negli edifici e pianificando narrative irrisolte di sviluppo.
Confini ambigui
Steven Gould attira la nostra attenzione su una distinzione importante nelle ecologie naturali tra due tipi di confini: limiti e bordi. Il limite è un confine dove le cose finiscono; il bordo è un confine dove diversi gruppi interagiscono. Sui bordi, gli organismi diventano anzi maggiormente interattivi, proprio per l'incontro di diverse specie e condizioni fisiche; per esempio, dove la sponda del lago incontra la terraferma si crea una zona attiva di scambio per gli organismi, che trovano e si nutrono di altri organismi. Non sorprende perciò constatare che l'attività di selezione naturale è più intensa proprio lungo i bordi, mentre il limite racchiude un territorio custodito, demarcato ad esempio da un branco di leoni o di lupi. Non si ammettono trasgressioni lungo i limiti: state alla larga! E ciò significa che quella stessa zona del limite è, a tutti gli effetti, priva di vita.
Prendiamo in considerazione un'altra situazione di confine, a livello cellulare, la distinzione cioè tra parete e membrana delle cellule. La parete della cellula trattiene tutto al suo interno, è analoga a un limite. La membrana della cellula, invece, è più aperta, permeabile, più somigliante a un bordo. Le differenze naturali tra limite/parete e bordo/membrane si rispecchiano nella forma edificata chiusa e aperta. La città moderna è oggi dominata dal limite/parete. L'habitat urbano è suddiviso in settori segregati dai flussi del traffico, dall'isolamento funzionale tra le varie zone destinate al lavoro, al commercio, alla famiglia, allo svolgimento delle funzioni pubbliche. La modalità più popolare dei nuovi complessi residenziali, in campo internazionale, la cosiddetta comunità recintata, porta all'esasperazione l'idea del muro che chiude e delimita. Ne consegue un minor scambio tra le varie fasce sociali, economiche ed etniche. Noi ci proponiamo pertanto di costruire un bordo/membrana, non un limite/muro.
Basta entrare in contatto!
L'esortazione di E. M. Forster ci sembrerà banale e carica di buoni propositi, ma nella pianificazione urbana essa rischia di innescare ripercussioni inquietanti. Vi darò un esempio tratto dalla mia esperienza. Qualche anno fa ho lavorato a un progetto per la realizzazione di un mercato per la comunità ispanica di Spanish Harlem a New York. Questa comunità, tra le meno abbienti della città, è situata oltre la 96a Strada nell'Upper East Side di New York. Appena sotto la 96a Strada, senza soluzione di continuità, si accede a uno dei quartieri più ricchi ed esclusivi al mondo, che si estende dalla 96a fino alla 59a Strada, un settore simile a Mayfair di Londra o al 7° Arrondissement di Parigi.
Quando ci si chiede dove possa trovarsi la vita di una comunità, di solito si punta al centro. Per rafforzare la vita della comunità, gli urbanisti si sforzano di intensificare la vitalità del centro e questo significa trascurare i margini. Pertanto il mio studio decise di realizzare La Marqueta nel centro di Spanish Harlem, a venti isolati di distanza, nel cuore stesso della comunità, e di considerare la 96a Strada come un margine morto, dove non poteva accadere nulla di interessante. E questa si è rivelata una scelta errata. Se avessimo edificato il mercato su quella strada, avremmo potuto incoraggiare ogni genere di attività che avrebbe portato i ricchi e i poveri a scambiare una qualche forma di contatto giornaliero, commerciale o fisico che fosse. Da quel giorno, gli urbanisti più scaltri hanno imparato dai nostri errori e nel West Side di Manhattan si sono sforzati di realizzare nuove infrastrutture proprio sui bordi tra le varie comunità, in modo da creare, per così dire, dei confini porosi e permeabili.
Forma incompleta
La forma incompleta incarna un credo creativo. Nelle arti plastiche, si manifesta nelle sculture lasciate di proposito incomplete; in poesia, per usare una frase di Wallace Steven, si parla della «creazione del frammento». L'architetto Peter Eisenman ha tentato di evocare questo stesso credo forgiando il termine di «architettura leggera», indicando un'architettura pensata per essere modificata con aggiunte varie o — soprattutto — con alterazioni interne nel corso del tempo, man mano che mutano le esigenze abitative. Questa forma di edificio rappresenta l'antidoto alla città sovra strutturata. La forma incompleta non è facile da disegnare, come si potrebbe supporre. Forma e funzione richiederanno collegamenti agili e leggeri, quando non vengano scisse da un vero e proprio taglio netto. La ragione è questa: man mano che la funzione di un edificio muta nel tempo, la forma riesce ad adattarsi alle nuove esigenze solo se non è stata eccessivamente pianificata, come dicevo poc'anzi.
Narrativa irrisolta
Per ultimo, prendiamo spunto dai romanzi rosa o sentimentali. Tutte le peripezie di questi romanzi trovano alla fine uno scioglimento, una catarsi appagante nella quale ogni cosa torna al suo posto, la servetta va in sposa al signore del castello. La narrativa è limpida: in termini tecnici, essa è lineare, il che significa che l'intreccio procede seguendo un susseguirsi lineare degli avvenimenti. La vita reale, ovviamente, è tutt'altra cosa: ci capitano cose che non trovano soluzione e la vita va avanti, spesso senza incontrare alcuno scioglimento appagante. Nella pianificazione urbana noi ci sforziamo di creare una narrativa nel senso stretto del termine: ci concentriamo sulle fasi di sviluppo di un dato progetto e cerchiamo di intuire ciò che accadrà per primo, per poi costruire sulle conseguenze di quella mossa iniziale.
Ma pianificare una città chiusa equivale davvero a tessere la trama di una novella sentimentale. L'urbanista ottuso vuole avere sotto mano, sin dall'inizio, tutti i risultati finali. La pianificazione della città aperta, al contrario, come in tutti i sistemi aperti che ritroviamo in matematica e nel mondo naturale, abbraccia forme non lineari di sequenzialità. Per ribadire il concetto: se uno scrittore annunciasse nelle prima pagine del suo romanzo, ecco che cosa succederà, che cosa capiterà ai personaggi, e che cosa significa questa storia, il lettore non ci penserebbe due volte a chiudere il libro. La narrativa migliore parte alla scoperta e punta a esplorare l'ignoto, l'imprevisto. L'arte dello scrittore sta nel plasmare, nel dare forma a quel processo esplorativo. Così pure è l'arte dell'urbanista.
(Traduzione di Rita Baldassarre)
«Fluida, dinamica, mobile e temporanea, spesso strategia di sopravvivenza, la "kinetic city" ricicla le proprie risorse, imponendo una presenza con mezzi molto limitati». Il manifesto, 5 febbraio 2013
Oltre la monumentalità
Nelle idee di sviluppo sociale e territoriale della sinistra oggi c'è qualcosa che colpisce forse più del risorgente mito da utopia regressiva: una certa schizofrenia e assenza di visione, che finisce per penalizzare anche le idee migliori, astraendole dal contesto. Una proposta di metodo alternativo
In realtà qualcuno che gli darebbe subito torto, e senza pensarci troppo su, forse lo trovate semplicemente uscendo sul pianerottolo, o aprendo la vostra pagina di Facebook e scorrendo la prima mezza dozzina di post degli amici. Sono tutti coloro che, a distanza di mezzo secolo dallo spot pubblicitario appena descritto, Semaforo Verde per le Autostrade, ne hanno ampiamente sperimentato gli effetti reali sulla vita quotidiana, e non ne possono più. Perché i viadotti multicorsia attraverso i quartieri, presentati come la soluzione pigliatutto del traffico urbano, non solo non hanno eliminato la congestione, ma di fatto hanno eliminato i quartieri, come ben sappiamo anche nella nostra piccola Italia, dove almeno c'è stata la resistenza passiva, in qualche modo virtuosa anche se contraddittoria, dei tessuti storici e degli stili di vita che hanno conservato. Ma anche perché quelle corsie infinite, infinite per vocazione, dopo aver attraversato e distrutto i quartieri sono dilagate sulle campagne, facendole a fettone e fettine, producendo in serie quella nuova città battezzata negli anni '30 da Frank Lloyd Wright Broadacre, ma che presto ha cambiato nome diventando la cosiddetta villettopoli, che tutti detestano anche se non tutti riconoscono al volo.
Ma Robert Moses, ai suoi seri spettatori e alle casalinghe bloccate in cerca di parcheggio, non proponeva un sogno di asfalto, per quanto liscio e ben illuminato: proponeva una visione. Una visione fatta sì di strade, ma anche di tutto quanto a quelle strade stava attorno, scambi, produzione, lavoro, reddito, vita quotidiana migliore per tutti. Non a caso il documentario Semaforo Verde è esplicitamente proposto dalla General Motors, vero e proprio motore immobile dell'universo, per così dire. L'auto come nucleo centrale del modello di sviluppo, dove il territorio solcato dalle corsie asfaltate riorganizza non solo gli spazi della residenza, del lavoro, del consumo e tempo libero, ma anche l'intera vita di chi lo percorre. Non a caso già Henry Ford una generazione prima aveva saputo esprimere il nucleo centrale di questa idea: una nuova frontiera di crescita economica, più che di pura mobilità fisica, che cancellava l'idea di città, l'idea di campagna, e magari pure quella di classi sociali (forse escludendo i padroni, immagino così a spanne). E appunto, vi diranno giustificatamente i contestatori di quel modello che incontrate sul pianerottolo o su Facebook, guarda come siamo conciati oggi, oggi che l'automobile tra l'altro dopo aver fatto tutti quei danni ci lascia anche senza reddito, chiude le fabbriche, abbandona i territori, ammucchia solo macerie e desolazione. Che fare?
Hanno ragione a ricostruire le contraddizioni di un percorso a dir poco accidentato, i nostri critici della frontiera infinita, della città infinita che in fondo non è mai stata città, riproducendone solo le infrastrutture meccaniche in forma quasi caricaturale, con quel metodo della catena di montaggio che applicato alla natura ha prodotto tanti mostri. E ci dicono torniamo al pensiero tradizionale, alla prevalenza della campagna, dei tempi lenti, della civiltà slow. In fondo anche la loro è una visione. Ma c'è qualcosa che non va: hanno davvero messo nel conto tutte le variabili? Oppure anche i nostri interlocutori, diciamo neo-contadini, involontariamente ci stanno proiettando un loro spot pubblicitario, titolo provvisorio Semaforo Rosso? E ancora e soprattutto: può funzionare davvero quel tipo di comunicazione tutta in negativo, parziale, dove si promettono tanti sacrifici e pochi vantaggi? L'operaio della fabbrica di automobili, che ha sperimentato sulla propria pelle il passaggio dalla sottomissione contadina dei genitori ai suoi diritti sindacali e di cittadinanza, non se la beve più di tanto l'idea di ritorno alla vita tradizionale. La signora pur ancora bloccata nel traffico , con figli e spesa nel baule, vi manderà prontamente al diavolo se col migliore dei sorrisi da imbonitore tenterete di sfilarla dal suo abitacolo, e di infilarle invece una bicicletta sotto il sedere. Entrambi colgono al volo, istintivamente, che la visione di Moses, pur piena di lacune e forzature, guardava avanti, e guardava a loro, mentre la contemplazione dell'ottocentesco terroso Angelus di Millet diventata immagine del mondo, manca di un motore affidabile. La signora dello spot General Motors si chiede e ci chiede: “What can I do?”
A lei rispondeva Robert Moses, uomo di destra, uomo del capitale, uomo autoritario e persino razzista quando costruiva superstrade per andare in spiaggia dove (è stato ricostruito da uno storico serio, non è una battuta) i ponti erano troppo bassi per far passare gli autobus. E i neri si spostavano quasi tutti in autobus, quindi le superstrade erano progettate coi soldi di tutti, ma solo per i bianchi. Quale sarebbe una risposta di sinistra, ma propulsiva, progressista, visionaria? Bella domanda, alla quale si può solo provare a dare una piccola risposta parziale, del tipo nani sulle spalle del gigante: il mondo automobilistico ce lo siamo costruito per due o tre generazioni, e da lì ci tocca volenti o nolenti partire, senza immaginare o peggio sognare ecatombi anti-industriali o tardo-ruraliste. Che dalle nostre parti in fondo evocano quel cosiddetto "Grande Statista del Novecento" che trebbia a torso nudo alla periferia di Littoria, dichiarando di accettare legittimamente solo quelle attività economiche che derivano “dalla terra e dal mare”. Diffidate di sparate simili. Perché gira e rigira negano il diritto sindacale del figlio di contadini diventato operaio metalmeccanico, o il diritto della signora di portare i figli a scuola, fare la spesa, e poi avere anche un po' di tempo per sé, per pensare, per vivere. Lui non è una macchina da reddito, lei non è una macchina da riproduzione forza lavoro.
Lo slogan che gira da un po' è demotorizzazione, e anche qui lo si può leggere da destra o da sinistra, lo si può provare a governare oppure lasciare ai famosi spiriti animali, col loro noto comportamento da bestie. Demotorizzazione sono quelle statistiche abbastanza spaventose sul crollo di vendite e immatricolazioni, o i tira e molla dei manager di questo o quello stabilimento sui contratti, gli ammortizzatori sociali, l'eventuale delocalizzazione e riuso dell'area. E le idee di farci, sempre e comunque, o centri commerciali (idea di destra) o orti urbani (idea di sinistra). Domanda: non si può declinare la demotorizzazione a sinistra, iniziando a riflettere su una visione che riprenda la Broadacre di Wright, la rete delle Highways di Moses (ovvero la produzione in serie di un prototipo artigianale griffato italiano, l'Autolaghi del 1924), in una prospettiva postmoderna? L'automobile e quanto le sta attorno, nell'epoca della condivisione, che in inglese si chiama sharing. Automobile condivisa, solidale diciamo, dove dal mezzo si passa al sistema, pensando anche l'occupazione per produrre nuovi veicoli sostenibili da immettere in una rete altrettanto sostenibile. Dove la casa automobilistica fornisce un servizio dalla culla alla tomba, del veicolo, della rete, dell'energia, delle fasi di manutenzione, rinnovamento, riciclo. Manca una cosuccia, ma è quella che distingue appunto la destra dalla sinistra: il diritto proprietario valore assoluto, a cui si sostituisce la condivisione.
Terra terra: se non sono più proprietario unico della mia auto (e magari neppure della lavatrice, che come l'auto se ne sta ferma e vuota il 90% della sua vita), mi libero di un sacco di complicazioni burocratiche, e libero il territorio da un aggeggio che di suolo ne consuma anche direttamente tantissimo, fra box standard a parcheggio sparsi ovunque e sezioni stradali da ora di punta. Se chi investe nella riconversione si rivolge alle masse popolari anziché a una miriade di Fantozzi presi uno per uno, magari ha un interlocutore più tosto sul mercato, ma ci guadagna in certezza. Riconvertire stabilimenti, rete di assistenza e informazione, produzione e distribuzione di energia sostenibile. Riconvertire il territorio, recuperando ad altre funzioni, o rinaturalizzando per quanto possibile, tutti gli spazi già destinati alla fatale impermeabilizzazione. E proviamo a riformulare la domanda: è un Semaforo Rosso, minaccioso, autoritariamente ammonitore, oppure un convincente (e realistico) Semaforo Verde che indica un buon equilibrio fra oneri e onori? Sicuramente è di sinistra, perché guarda avanti. Recuperando al meglio lo spirito del bel filmato anni '50, che consiglio a tutti di guardarsi per intero: niente nostalgia, è proprio convincente, se lo si guarda bene e si dà retta all'istinto.
La città autoritaria dell’automobile coatta, degli schermi televisivi familiari e dei tempi di lavoro e riposo programmati. "The Pedestrian", un inquietante racconto dello scrittore appena scomparso, nella bella traduzione di Carlo Fruttero
Entrare in quel silenzio che era la città alle otto di un'opaca sera di novembre, sentire sotto le suole quei riquadri di cemento raggrinzito, calpestare l'erba cresciuta fra gli interstizi e aprirsi un varco, con le mani in tasca, in mezzo ai silenzi: era questo che il signor Leonard Mead amava fare sopra ogni altra cosa. Si fermava al primo crocicchio e scrutava i lunari corridoi dei marciapiedi nelle quattro direzioni, come se sceglierne una piuttosto che un'altra facesse qualche differenza. Poi, presa la decisione e stabilito l'itinerario, tornava ad avviarsi, spingendo davanti a sé, come fumo di sigaro, volute d'aria gelida.
A volte continuava a camminare per ore e ore, per miglia e miglia, e tornava a casa dopo mezzanotte. E lungo tutta la strada, lungo case e villini dalle finestre buie, era come camminare in un cimitero: con fiochi barlumi di lucciole che baluginavano di quando in quando dietro un vetro; con improvvisi fantasmi grigi che sembravano talvolta manifestarsi sui muri interni delle stanze, là dove una tenda non era stata tirata contro la notte; o con sussurri e mormorii che talvolta giungevano fino a lui, là dove una finestra, in uno dei tanti funerei edifici, era rimasta aperta.
Il signor Leonard Mead si fermava, piegava il capo, ascoltava, guardava, e si rimetteva in cammino. Il suo passo, sulle lastre di cemento incrinate e sconnesse, era perfettamente silenzioso; perché, saggiamente, già da molto tempo s'era deciso a portare scarpe con la suola di gomma, per le sue passeggiate notturne: altrimenti i cani avrebbero abbaiato parallelamente a tutto il suo viaggio, e luci si sarebbero accese di colpo, facce sarebbero apparse alle finestre, finché tutta la strada si sarebbe ridestata al passaggio di una figura solitaria, lui, in una sera di novembre.
Quella sera Leonard Mead si avviò verso la parte occidentale della città, verso il mare invisibile. C'era nell'aria il presagio cristallino del gelo; pungeva la pelle e, dentro, incendiava i polmoni come un albero di Natale; a ogni respiro, si sentiva la luce fredda accendersi e spegnersi, tutti i rami carichi d'invisibile neve. Rallegrato dai tonfi lievi delle scarpe sulle foglie d'autunno, Leonard Mead prese a fischiettare tra i denti un motivo sommesso, liscio, curvandosi ogni tanto a raccogliere una foglia, esaminando, ripresa la marcia, la sua trama scheletrica alla luce degli infrequenti lampioni, fiutandone l'odore rugginoso.
— Vi saluto, — sussurrava davanti a ogni casa, a destra e a sinistra. — Che c'è di bello stasera sul Quarto Canale, sul Settimo Canale, sul Nono Canale? Dove galoppano i cow boys? È forse la cavalleria degli Stati Uniti che viene alla riscossa, quella nube di polvere sull'altra collina?
La via era silenziosa e lunga e deserta, la sua ombra era l'unica cosa che si muovesse, come l'ombra di un falco sulla pianura. Se chiudeva gli occhi tenendosi perfettamente immobile, impietrito, riusciva a immaginarsi al centro di un'immensa distesa piatta, un arido deserto senza vento e senza una casa nel raggio di mille miglia, con l'unica compagnia di tortuosi fiumi disseccati: le strade.
— Che programma c'è a quest'ora? — chiese alle case, guardando l'orologio. — Le otto e mezzo. È l'ora di mezza dozzina di delitti assortiti? O dei quiz? O di un varietà musicale? O di una scenetta comica?
Era un mormorio di risate quello che usciva da una delle casette bianche di luna? Esitò un istante, ma poi riprese il cammino quando vide che nulla accadeva. Inciampò in un tratto di marciapiedi particolarmente sconnesso. Il cemento spariva, invaso dai fiori e dall'erba. In dieci anni di passeggiate, di giorno e di notte, per migliaia di chilometri, non gli era mai capitato di incontrare un altro essere umano che camminasse come lui per la città; nemmeno uno.
Giunse a un incrocio a quadrifoglio, imponente e silenzioso, dove due grandi arterie tagliavano la città. Durante il giorno un vortice assordante di veicoli lo trasformava in un immenso insetto frenetico, velato dai vapori degli scarichi, continuamente dissanguato, dilatato, e poi di nuovo congestionato, soffocato, dall'incessante fluire e defluire del traffico. Ma ora queste grandi strade erano anch'esse corsi d'acqua inariditi, null'altro che asfalto e pietra e chiaro di luna.
Imboccò una via laterale per tornare verso casa. Era ormai a un isolato dalla sua porta quando un'automobile solitaria girò di colpo l'angolo e lo centrò con un violento cono di luce. Al primo momento egli rimase immobile; poi, non diversamente da una falena accecata dal bagliore, si sentì attratto verso la fonte.
Una voce metallica suonò nel silenzio:
— Si fermi. Resti dov'è! Non si muova!
Si fermò.
— Mani in alto!
— Ma... — disse.
— Mani in alto! O spariamo!
La polizia, naturalmente. Ma era un caso rarissimo, quasi incredibile: in una città di 3 milioni di abitanti, era rimasta, se ricordava bene, un'unica auto della polizia. Già da un anno ormai, dal 2052, l'anno delle elezioni, le auto in dotazione della polizia erano state ridotte da tre a una sola. La delinquenza era quasi completamente scomparsa; non c'era più bisogno della polizia, quest'ultima auto solitaria che errava senza posa per le vie deserte era più che sufficiente.
— Nome e cognome, — disse l'auto della polizia in un ronzio metallico.
Non gli riuscì di vedere gli uomini dentro la macchina, accecato com'era dalla luce bianca.
— Leonard Mead, - rispose.
— Parli più forte!
— Leonard Mead!
— Impiego o occupazione?
— Diciamo, scrittore.
— Senza occupazione, — disse l'auto della polizia, come parlando tra sé. Il fascio di luce lo teneva inchiodato come un esemplare da museo, un insetto col corpo trapassato da uno spillo.
— Non avete torto, — disse Leonard Mead. Da anni aveva smesso di scrivere: Libri e riviste non si vendevano più. Tutto - pensò, tornando alle sue meditazioni d'ogni sera, - tutto ormai si svolgeva di sera, dentro quei sepolcri di case appena illuminati dal tenue riflesso dello schermo televisivo, in cui gli uomini, simili a defunti, sedevano davanti alle luci grigie o multicolori che sfioravano i loro volti ma senza mai toccarli dentro.
— Senza occupazione, — disse la voce di fonografo, sibilando.
— Perché è uscito di casa?
— Per camminare, — disse Leonard Mead.
— Camminare!
— Solo camminare, — disse con naturalezza, ma mentre un gelo gli saliva lungo la schiena.
— Camminare, solo camminare, camminare?
— Sissignore.
— Camminare dove? A che scopo?
— Camminare per prendere aria. Camminare per vedere.
— Il suo indirizzo, prego?
— Saint James Street, numero 11.
— E lei ha dell'aria, in casa sua, signor Mead? Ha un condizionatore d'aria?
— Sì.
— E ha uno schermo televisivo in casa? Uno schermo da guardare?
— No.
— No? — Vi fu un silenzio crepitante che era di per sé un'accusa.
— Lei è sposato, signor Mead?
— No.
— Celibe, — disse la voce della polizia dietro il raggio accecante.
La luna era alta e chiara fra le stelle e le case grigie e silenziose.
— Nessuno mi ha voluto, — disse Leonard Mead con un sorriso.
— Non parli se non è interrogato.
Leonard Mead rimase in attesa nella notte fredda.
— E uscito da solo, per camminare, signor Mead?
— Sì.
— Ma non ci ha detto per quale scopo.
— Ve l'ho detto: per prendere aria, per vedere, e per il piacere di camminare.
— Lo fa spesso?
— L'ho fatto per anni, tutte le sere.
L'auto della polizia era acquattata al centro della strada con la sua gola radiofonica che ronzava fiocamente.
— Bene, signor Mead, — disse.
— Non c'è altro? — chiese educatamente Mead.
— No, — disse la voce. — È tutto —. Vi fu uno scatto metallico e come un lungo sospiro.
Lo sportello posteriore della macchina della polizia si aprì lentamente. — Salga.
— Un momento, io non ho fatto niente!
— Salga.
— Io protesto. Non avete il diritto di...
— Signor Mead.
Leonard Mead avanzò rassegnato, vacillando appena, ma con le spalle improvvisamente curve. Mentre passava davanti al parabrezza guardò nell'interno dell'auto. Come si aspettava, non c'era nessuno seduto sul sedile anteriore; non c'era nessuno nella macchina.
— Salga.
Posò una mano sullo sportello e scrutò nel sedile posteriore, che era una piccola cella, una piccola prigione nera, con le sbarre. Odorava di acciaio. Odorava di pungente antisettico. Odorava di gelida pulizia, di duro metallo. Non c'era nulla di soffice là dentro.
— Se lei fosse sposato, e sua moglie potesse testimoniare, — disse la voce di ferro. — Ma così come stanno le cose...
— Dove mi portate?
La macchina esitò, o piuttosto emise un leggero, brevissimo ronzio, e uno scatto, come se un braccio meccanico, nel suo interno, chissà dove, facesse scorrere una serie di schede sotto un occhio elettrico. — Al Centro di Ricerca Psichiatrica sulle Tendenze Regressive.
Leonard Mead salì. Lo sportello si richiuse con un tonfo morbido. L'auto scivolò via tra i viali notturni, preceduta dai suoi fari fiochi.
Un istante dopo passarono davanti a una certa casa, in una certa via, l'unica casa in una città di case buie, che avesse tutte le sue luci accese, ogni finestra viva e rutilante, ogni rettangolo caldo e chiaro nel buio di novembre.
— Quella è casa mia, — disse Leonard Mead.
Nessuno gli rispose.
L'auto continuò la corsa lungo i fiumi inariditi, lasciandosi dietro strade deserte e deserti marciapiedi, dove non un suono, non un movimento turbavano più la fredda notte d'autunno.
Da: Sergio Solmi, Carlo Fruttero (a cura di) Il secondo libro di fantascienza, Einaudi, Torino 1961