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Ogni periodo della vita delle città nel capitalismo ha l'evento che traina la devastazione della città. Nei nostri anni tocca agli stadi. Anche a Firenze. Chi organizzerà un giro d'Italia? il Fatto Quotidiano, blog "Alle porte coi sassi", 14 febbraio 2017

Un nuovo stadio. E a fianco una Cittadella Viola che fa gonfiare volumetrie e proventi. Metri cubi da costruire in project financing nei pressi dell’aeroporto in espansione (quello di Carrai e Eurnekian) che, a sua volta, scalza una vecchia lottizzazione oggi in mano alla Unipol. In un clima di land grabbing all’argentina. Tutto, o quasi, fuori dalla pianificazione generale.

Vediamo meglio.Un nuovo stadio. E a fianco una Cittadella Viola che fa gonfiare volumetrie e proventi. Metri cubi da costruire in project financing nei pressi dell’aeroporto in espansione (quello di Carrai e Eurnekian) che, a sua volta, scalza una vecchia lottizzazione oggi in mano alla Unipol. In un clima di land grabbing all’argentina. Tutto, o quasi, fuori dalla pianificazione generale.

Vediamo meglio.

Il nuovo stadio è una trottola che gira tra cantieri e progetti evanescenti alla periferia occidentale del capoluogo toscano. Nel 2008 si diceva della sua costruzione nel “parco di Castello”, ottanta ettari di verde quale compensazione al progettato milione e 200.000 metri cubi di nuove costruzioni, allora intestato a Ligresti. Lo stesso parco che così, senza giri di parole, il sindaco Domenici chiosava: «mi fa cacare da sempre». Traduzione: in quell’area (paludosa) non ci vuole andare nessuno. Cosa di meglio allora di uno stadio con una corona di edifici speculativi? Spunta l’idea della Cittadella Viola: parcheggi, centro commerciale, hotel, museo dello sport. Più un parco a tema, tutto con firma d’autore. Un’altra nuvola di Fuksas.

Con la Magistratura in azione a Castello, sul progetto dello stadio è reputato opportuno mettere la sordina. Ma solo per poco.

La giunta Renzi, in Palazzo Vecchio dal 2009, non rinuncia ai metri cubi dello stadio e del suo corredo, che, nelle parole del sindaco, continua a rappresentare una «ghiotta opportunità per il territorio». Lo stesso sindaco che abbagliò l’Italia con un PRG “a volumi zero”, nei quali volumi zero, a mo’ di magico cilindro, si nascondeva (anche) la «Disneyland del calcio» di Della Valle, patròn viola.

La trottola continua a girare. Il Piano Strutturale Comunale (PS) arranca nel cartografarne i movimenti, registrati ex post da una variante (2012) al vecchio, ma vigente, PRG. Anziché dettare regole certe, il successivo Regolamento Urbanistico Comunale (2014) conterrà indicazioni flessibili alle occasioni di mercato, che si susseguono.

Quando si staglia sulla scena, nitido, il “pasticciaccio brutto” del nuovo aeroporto di Firenze, la limitrofa lottizzazione di Castello – quella di Ligresti, poi Unipol – è in parte sacrificata all’aviazione. Saltano metri cubi ed ettari edificabili. (Oggi, dalla stampa trapela che ai bolognesi di via Stalingrado, proprietari dei futuri volumi, potrebbe succedere Eurnekian, imprenditore dei due mondi. Che, in tal modo, sbancherebbe.)

La progettata pista dell’aeroporto richiede spazio: lo stadio deve spostarsi. Si pensa subito alla vicina area della Mercafir (cfr. variante al PRG 2012). Colpito dal giro di trottola, il Mercato Ortofrutticolo relegato dalla variante in un cantuccio dello stesso comparto, ora schizza a ovest, fuori dalle previsioni di PS e RU: la scelta oscilla tra Quaracchi e l’Osmannoro, poi – per ristabilire un opportuno equilibrio con quanto tolto – si orienta su Castello. Tutto a spese del pubblico, mentre il Comune, nel bilancio preventivo appena approvato, elemosina spiccioli con la vendita di ville rinascimentali e case popolari. Si dice che (in cambio dell’area Mercafir, tutta intera) Della Valle paghi il terreno del nuovo mercato ortofrutticolo.

Nel marzo 2016 Nardella, da Londra, parlava di un «investimento privato di interesse pubblico» ancora comprensivo di cittadella. A fine dicembre il progetto della Fiorentina Calcio ne ridimensiona i volumi accessori. La Cittadella viola, ancorché ridotta, non perde il carattere di core business, come avvertono anche i tifosi.

Se il quadro resta quello descritto, Firenze avrà uno stadio «modello Bordeaux», un potente edificio alto circa 40 metri, visivamente interposto tra le ville medicee di collina e la cupola del Duomo. Per conferire conformità urbanistica al progetto, è allo studio una variante al Piano Strutturale. Prima lo stadio, poi l’urbanistica. Come a Roma.

I tre firmatari di questo documento hanno colto l’occasione dell’ampio dibattito provocato dalla querelle relativa allo stadio della Roma per affrontare un argomenti di portata più vasta. Lo pubblichiamo nella speranza che sia utile a sviluppare un dibattito sul modo migliore per combattere il modello neoliberistico di governo del territorio

NOI URBANISTI CI IMPEGNIAMO…

Quanto sta accadendo a Roma - il caso della realizzazione del nuovo stadio – evidenzia in modo eclatante come l’urbanistica sia ormai relegata, dall’ideologia neoliberista dominante da tempo, a un ruolo subalterno e quindi miseramente perdente, rispetto alla centralità che un tempo possedeva nella progettualità riformista.

Basti pensare ad Adriano Olivetti presidente dell’Istituto Nazionale di Urbanistica, a Carlo Doglio che sperimenta in prima persona in Sicilia la ‘pianificazione della libertà’, alle conquiste sociali degli anni ’60 e ’70 in tema di standard collettivi, alla lunga marcia per separare diritto di proprietà e diritto di edificazione, al dibattito sul ruolo dell’urbanistica e della pianificazione del territorio rispetto ai mezzi e ai fini della programmazione economica, alla più recente acquisizione di come le scelte urbanistiche debbano necessariamente far propri i limiti ambientali del contesto in cui intervengono.

Di questa nobile tradizione disciplinare oggi restano soltanto poche tracce nei generosi quanto politicamente marginali appelli lanciati in rete da gruppi di intellettuali sempre più minoritari.

Ciò chiama in causa i partiti e i “movimenti”, che hanno allegramente ridotto, quando non liquidato, le questioni urbanistiche dai propri programmi, ma anche l’intera comunità degli urbanisti, troppo spesso proni a legittimare questa deriva e a rovesciare il loro ruolo a facilitatori degli interessi immobiliari.

Al centro della questione – emblematico il caso di Roma - l’interpretazione di ciò che è “pubblico interesse”. Lo stadio, se visto dal punto di vista della tradizione romana panem et circenses, potrebbe essere considerato opera di pubblico interesse, e in quanto tale è previsto dalla legge 147/2013. Ciò che viene legittimato dal Comune di Roma con la delibera 132/2014 è invece la qualifica di "pubblico interesse" per un progetto che comprende un milione di metri cubi con destinazione prevalente a uffici per ospitare multinazionali e attività commerciali, secondo il progetto presentato dai proprietari/costruttori, alla realizzazione del quale viene subordinata la costruzione compensatoria di alcune opere pubbliche per la città.

L’interpretazione del “pubblico interesse” vede quindi il “pubblico” affidato agli “interessi” finanziari dei proprietari fondiari, dei costruttori, delle banche creditrici, pronti a mettere in campo tutte le relazioni e i poteri di cui dispongono per assicurarsi la legittimazione “pubblica” dei loro profitti. E’ un copione che tende a ripetersi in molti luoghi, indipendentemente da chi governa le città e le regioni. Pratiche in controtendenza, da parte di singoli assessori, sono estremamente faticose e non riescono comunque a cambiare il contesto delle decisioni, rispetto alle quali prevalgono le mediazioni dei sindaci, dei presidenti e dei consiglieri eletti. Né il tentativo generoso di limitare i danni, con un corpo a corpo negoziale sui singoli progetti, riesce a restituire priorità effettiva agli interessi collettivi nelle trasformazioni della città e del territorio.

L’abbandono di ogni prospettiva seriamente riformatrice in materia di governo del territorio da parte delle maggioranze elette che governano le nostre città e i nostri territori contribuisce a rendere ancora più esasperata la disuguaglianza tra chi riesce tuttora a privatizzare i benefici delle decisioni pubbliche e chi – il popolo delle periferie -, assiste impotente a trasformazioni che non modificano affatto le sue condizioni di indigenza, privazione e marginalità. Una città può accrescere la propria ricchezza contemporaneamente al crescere della povertà e miseria di gran parte dei suoi abitanti.

Le politiche europee da un lato costringono le amministrazioni a svolgere un puro ruolo di ragioneria contabile, privatizzando anche le aziende municipalizzate sane e tagliando le spese per i servizi collettivi, esito di tante lotte e conquiste sociali, dall’altro sostengono la ricerca verso obiettivi effimeri come le smart city, l’uso di tecnologie che deresponsabilizzano gli abitanti, la ricerca di “successo” competitivo, piegando a ciò la stessa ricerca universitaria.

Mentre masse di cittadini già impoveriti vedono peggiorare le loro condizioni di vita giorno dopo giorno, tutti (o quasi) i governi locali subiscono il fascino delle grandi opere e dei grandi eventi, cavalli di troia per speculazioni, tangenti e scambi di favori proposti come ricetta magica.

Anna Marson, Enzo Scandurra, Edoardo Salzano


P.S
Questo articolo è stato ripreso dai siti Officina dei saperi e Società dei territoriliste/i, dove si possono inviare adesioni

Un bel passo verso l'apartheid sociale: i poveri (profughi e migranti, mendicanti, straccioni, ubriachi senza portafoglio, "indecorosi") possono essere trattati come i forsennati delle tifoserie sportive. Articoli di Nicoletta Cottone, Adriana Pollice, Mariolina Iossa, da Il Sole24ore, il manifesto, corriere della sera, 11 febbraio 2017

Il Sole24ore
MINNITI: «DASPO URBANO
PER CHI VIOLA LE REGOLE DEI TERRITORI»
di Nicoletta Cottone

«Non ci sono nuovi reati né aggravanti di pena ma misure come la possibilità di applicare in modo più ampio quello che si applica nelle manifestazioni sportive: davanti a reiterate violenze sportive c'è il daspo, di fronte a reiterati elementi di violazione di alcune regole sul controllo del territorio le autorità possono proporre il divieto di frequentare il territorio in cui sono state violate le regole». Lo ha detto il ministro Marco Minniti illustrando il decreto sicurezza approvato in cdm. Sulla sicurezza delle città oggi «abbiamo preso decisioni di un certo rilievo», ha sottolineato il premier Paolo Gentiloni, dopo il consiglio dei ministri, spiegando che il provvedimento sulla sicurezza è stato preso d’intesa con l’Anci.

Rafforzati i poteri di ordinanza dei sindaci

Il decreto mira a realizzare un modello trasversale e integrato tra i diversi livelli di governo mediante la sottoscrizione di appositi accordi tra Stato e Regioni e l’introduzione di patti con gli enti locali. Il ministro Minniti ha ricordato che «la sicurezza urbana va intesa come un grande bene pubblico. La vivibilità, il decoro urbano e il contrasto alle illegalità sono elementi che riguardo il bene pubblico». E ha spiegato che il decreto «prevede il rafforzamento dei poteri di ordinanza dei sindaci: avranno potere autonomi e la possibilità di patti tra territori e ministero degli Interni che prima non avevano una cornice legislativa». Previste uove modalità di prevenzione e di contrasto all’insorgere di fenomeni di illegalità quali, ad esempio, lo spaccio di stupefacenti, lo sfruttamento della prostituzione, il commercio abusivo e l’illecita occupazione di aree pubbliche.

Più servizi di controllo sul territorio

Il decreto prevede forme di cooperazione rafforzata tra i prefetti e i Comuni con l’obiettivo di incrementare i servizi di controllo del territorio e promuovere la sua valorizzazione. Il nuovo decreto «è stato ampiamente discusso, meditato, voluto» dall'Anci e dalla conferenza delle Regioni con l'idea di «un grande patto strategico di alleanza tra Stato e poteri locali». In Italia, ha detto il ministro, il modello sicurezza funziona, «non c’è emergenza ma bisogna stabilire che se il centro è modello nazionale si può pensare ad un modello che guardi meglio il territorio da Bolzano a da Agrigento».

Per i vandali obbligo di ripulitura dei luoghi

Con il decreto legge scatterà per i vandali l’obbligo di ripulitura e ripristino dei luoghi danneggiati, con obbligo di sostenere le spese o rimborsarle. Prevista anche una prestazione di lavoro non retribuita in favore della collettività per un tempo non superiore alla durata della pena sospesa. L’articolo 639 del codice penale già prevede che chi deturpa o imbratta cose altrui sia punito, con la multa fino a euro 103. Se il fatto è commesso su beni immobili o su mezzi di trasporto pubblici o privati, si applica la pena della reclusione da uno a sei mesi o della multa da 300 a 1.000 euro. Se il fatto è commesso su cose di interesse storico o artistico, si applica la pena della reclusione da tre mesi a un anno e della multa da 1.000 a 3.000 euro.

Nei casi di recidiva per le ipotesi di cui al secondo comma si applica la pena della reclusione da tre mesi a due anni e della multa fino a 10.000 euro.

Condanna a pulire per chi sporca la città

Nel decreto sulla sicurezza urbana c’è una «norma che prevede la pulizia e il ripristino per violazioni al decoro urbano. Il giudice, cioè, se qualcuno sporca, può condannarlo a ripristinare quello che ha sporcato: è una sfida di civiltà», ha detto il ministro Minniti.

Divieto di frequentare esercizi pubblici e aree urbane

Arriva anche la possibilità di imporre il divieto di frequentazione di determinati pubblici esercizi e aree urbane ai soggetti condannati per reati di particolare allarme sociale.

Misure per prevenire l’occupazione di immobili

Il provvedimento prevede anche misure per prevenire l’occupazione arbitrarie di immobili. Compito del prefetto impartire prescrizioni per prevenire il pericolo di turbative per l’ordine e la sicurezza pubblica e per assicurare il concorso della forza pubblica all’esecuzione di provvedimenti dell’autorità giudiziaria . (N.Co.)

il manifesto
STRETTA SULLASICUREZZA,
PIÙ POTERI AI SINDACI.
OK AL DASPO URBANO

di Adriana Pollice

Il decreto legge. Previste «misure amministrative: non ci sono nuovi reati né aggravanti di pena»Approvato ieri in Consiglio dei ministri anche il decreto legge «Misure sulla sicurezza urbana» (a firma Marco Minniti e Andrea Orlando) che dà ai sindaci più poteri in materia. La misura mostra la nuova strategia messa in campo dal ministro dell’Interno: «In Italia il modello Sicurezza funziona – ha spiegato -, non c’è emergenza ma bisogna stabilire che se il centro è modello nazionale si può pensare a un modello che guardi meglio il territorio da Bolzano ad Agrigento».

Decoro urbano, spaccio, prostituzione, commercio abusivo, occupazione di aree pubbliche, sono i punti intorno a cui ruotano gli articoli. Per i sindaci ci sarà maggiore autonomia e un rafforzamento del potere di ordinanza, forme di cooperazione maggiori tra i prefetti e i comuni, la possibilità di patti tra territori e ministero degli Interni. Il contenuto del decreto, ha spiegato Minniti, «è stato discusso, meditato, voluto dall’Anci e dalla Conferenza delle regioni con l’idea di un grande patto strategico di alleanza tra stato e poteri locali».

I comuni continuano a sopportare tagli, al Sud la disoccupazione aumenta, il governo dà più poteri in tema di sicurezza. Minniti si affretta a sottolineare che non si tratta di avere sindaci sceriffi «ma di cooperazione tra territorio e stato. Il decreto legge prevede misure di carattere amministrativo: non ci sono nuovi reati e non ci sono aggravanti di pena».

Nel dettaglio, però, il decreto legge stabilisce ad esempio multe tra 300 e 900 euro ma anche il daspo da determinate aree (non superiore a 48 ore ma può essere reiterato) per chi ha una condanna confermata in appello, ma anche per chi compie atti lesivi del decoro urbano, della libera accessibilità e fruizione a infrastrutture del trasporto pubblico, per chi violi i divieti di stazionamento o di occupazione di spazi o assuma alcol e droghe, eserciti la prostituzione «con modalità ostentate». Allontanamento anche per chi svolge commercio abusivo e accattonaggio. Per i «vandali» scatterà l’obbligo di ripulitura e ripristino dei luoghi danneggiati, con obbligo di sostenere le spese o rimborsarle.

Chi viola le ordinanze del sindaco su vendita e somministrazione di alcolici può subire una sospensione dell’attività, per gli ambulanti sono previsti sequestro di merci e attrezzature più la confisca amministrativa. A chi è stato condannato per spaccio, anche senza sentenza passato in giudicato, può essere vietato da uno a 5 anni lo stazionamento nelle vicinanze di locali.

Con una condanna definitiva possono scattare varie sanzioni: l’obbligo di presentarsi almeno due volte a settimana alla polizia o ai carabinieri; rientrare a casa entro una determinata ora e di non uscirne prima di un’ora prefissata; divieto di allontanarsi dal comune di residenza; obbligo di comparire in un comando di polizia negli orari di entrata e uscita dalle scuole. Si tratta di disposizioni previste dai quattordici anni in su. Le multe vanno dai 10 ai 40 mila euro.

È affidato al prefetto il compito di eseguire i provvedimenti del giudice su «occupazioni arbitrarie di immobili» per prevenire il pericolo di possibili turbative per l’ordine e la sicurezza pubblica».

corriere della sera
SICUREZZA, PIÙ POTERI AI SINDACI

UN«DASPO URBANO» CONTRO I VANDALI

di Mariolina Iossa

«Sì al decreto legge. Migranti, accelera l’iter per rimpatri e richieste d’asilo. Possibile un divieto di 12 mesi che può salire fino a cinque anni per chi spaccia nei locali».

Più poteri ai sindaci per la sicurezza delle città. Il consiglio dei ministri di ieri, su proposta del ministro dell’Interno Marco Minniti, ha approvato un decreto che realizza un patto tra prefetto e sindaci per dare loro più strumenti, come i poteri di ordinanza.

In particolare è previsto che chi deturpa zone di pregio delle città non potrà più frequentarle per un periodo di 12 mesi. Un provvedimento simile al «Daspo» in vigore oggi negli stadi. Ma prima di arrivare a questo vengono introdotte sanzioni amministrative da 300 a 900 euro con l’allontanamento fino a 48 ore per chi lede il decoro urbano o la libera accessibilità o la fruizione di infrastrutture, luoghi di pregio artistico, storico e turistico, anche abusando di alcolici o droghe, esercitando la prostituzione «in modo ostentato», facendo commercio abusivo o accattonaggio molesto.

Il Daspo urbano interviene quando tali lesioni siano ripetute. Il periodo di allontanamento è di 12 mesi mentre diventa più lungo, da uno a 5 anni, per chi spaccia droga nelle discoteche e locali di intrattenimento. Al giudice invece la possibilità di disporre il ripristino o la ripulitura dei luoghi pubblici (o il risarcimento), per chi deturpa o imbratta beni immobili o mezzi di trasporto pubblici o privati. «Non diventiamo come il sindaco di New York ma almeno abbiamo una norma che ci dà poteri concreti» commenta con soddisfazione il sindaco di Bari Antonio Decaro, presidente dell’Anci, l’associazione dei Comuni.

Su rifugiati e immigrazione clandestina, il governo ha esaminato anche un altro decreto del ministro Minniti. Si prevede la riduzione dei tempi per ottenere lo status di rifugiato, attualmente di due anni, l’accelerazione dei rimpatri per chi non è in regola, il raddoppio dei fondi per i rimpatri volontari, la sostituzione dei Cie con i Cpr, centri permanenti per il rimpatrio, che dovranno essere al massimo uno per Regione e non potranno accogliere più di 1.600 persone. Infine, sì ai lavori socialmente utili non retribuiti per favorire l’integrazione. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha anche annunciato l’istituzione in 14 tribunali di sezioni specializzate sull’immigrazione.

Un disegno di legge delega della ministra Roberta Pinotti riorganizzerà le Forze Armate. Riguarderà i vertici del ministero e le relative strutture e il modello operativo. Due gli obiettivi: ridurre le risorse umane e finanziarie senza incidere sulle capacità operative e risparmiare. E integrare le varie componenti, eliminando duplicazioni, riducendo i livelli gerarchici e semplificando le procedure.

Diventa «universale», aperto a tutti i giovani che potranno anche andare all’estero e ridotto a 25 ore settimanali con programmazione triennale. Si potrà svolgere in vari settori, dall’assistenza alla protezione civile, dall’ambiente alla riquali-ficazione urbana, dal patrimo-nio artistico e culturale allo sport, all’agricoltura.

«Il mio consiglio a tutti sarebbe di uscire quanto più possibile e occuparsi della disuguaglianza sociale e del degrado ambientale perché questi sono temi sempre più lungimiranti. La gente deve diventare attiva, uscire, muoversi». comune-info - newsletter, 7 febbraio 2017 (m.p.r.)

I movimenti ribelli nelle aree urbane si sviluppano molto lentamente. Non si può cambiare l’intera città dall’oggi al domani. Lo dimostra la storia dei movimenti, dalla Comune di Parigi fino allo sciopero generale della città di Seattle 1919 o Buenos Aires 2001. Intanto, oggi in tante città l’organizzazione dei tassisti o dei lavoratori delle consegne comincia a preoccupare perché le città dipendono da quei settori. La lotta contro l’incredibile disuguaglianze esistente e per un diverso modo di vivere passa anche da questi nuovi movimenti. Una lunga conversazione con David Harvey - rilanciata da Z Net Italy -, sulle città ribelli, i beni comuni, l’urbanizzazione, la disneyficazione delle città, le organizzazioni di quartiere… Secondo Harvey è tempo di “uscire, muoversi, è un periodo cruciale…”

Inizi il tuo libro Rebel Cities: From the Right to the City to the Urban Revolution [Città ribelli: dal diritto alla città alla rivoluzione urbana] descrivendo la tua esperienza a Parigi negli anni ’70: «Alti edifici giganti, autostrade, edilizia popolare senz’anima e mercificazione monopolizzata nelle strade che minacciano di inghiottire la vecchia Parigi … Parigi dagli anni ’60 in poi è stata chiaramente nel mezzo di una crisi esistenziale». Nel 1967 Henry Lefebvre scrisse il suo fondamentale saggio “Del diritto alla città”. Puoi parlarci di quel periodo e dell’impulso a scrivere Rebel Cities?

Nel mondo gli anni ’60 sono spesso considerati, storicamente, un periodo di crisi urbana. Negli Stati Uniti, ad esempio, gli anni ’60 furono un’epoca in cui molte città centrali finirono in fiamme. Ci furono rivolte e semi-rivoluzioni in città come Los Angeles, Detroit e naturalmente dopo l’assassinio del dottor Martin Luther King nel 1968 … più di 120 città statunitensi subirono disordini e azioni di rivolta minori e grandi. Cito questo negli Stati Uniti perché ciò che in effetti stava accadendo era che la città veniva modernizzata. Era modernizzata intorno all’automobile; era modernizzata intorno alle periferie. A quel punto la Città Vecchia, o quello che era stato il centro politico, economico e culturale della città in tutti gli anni ’40 e ’50 era lasciata alle spalle. Ricorda, quelle tendenze avevano luogo in tutto il mondo capitalista avanzato. Dunque non si trattava solo degli Stati Uniti. Ci furono gravi problemi in Gran Bretagna e in Francia dove un vecchio stile di vita veniva smantellato, uno stile di vita di cui penso nessuno dovrebbe avere nostalgia, ma tale stile di vita era cacciato e sostituito da un nuovo stile di vita basato sulla mercificazione, sulla proprietà, sulla speculazione immobiliare, sulla costruzione di autostrade, sull’automobile, sulle periferie e con tutti questi cambiamenti abbiamo visto un’accresciuta disuguaglianza e disordini sociali.

Secondo dove ci si trovava all’epoca c’erano disuguaglianze strettamente di classe o erano disuguaglianze di classe concentrate su specifici gruppi di minoranza. Ad esempio, ovviamente negli Stati Uniti si trattava della comunità afroamericana residente nei quartieri poveri che aveva pochissimo in termini di opportunità di occupazione o di risorse. Così gli anni ’60 furono definiti in termini di crisi urbana. Se si torna indietro e si guarda a tutte le commissioni che dagli anni ’60 stava esaminando che cosa fare riguardo alla crisi urbana, ci furono programmi governativi messi in atto dalla Gran Bretagna alla Francia, e anche negli Stati Uniti. Analogamente tutti tentavano di affrontare tale “crisi urbana”.

Ho considerato questo un argomento affascinante di studio e un’esperienza traumatica da vivere. Sai, questi paesi che stavano diventando sempre più ricchi stavano lasciando indietro persone che erano rinchiuse in ghetti urbanizzati e trattate da esseri umani inesistenti. La crisi degli anni ’60 fu una crisi cruciale e penso che Lefebvre l’abbia compresa molto bene. Egli riteneva che le persone nelle aree urbane dovessero aver voce nel decidere come dovevano essere quelle aree, e quale processo di urbanizzazione dovesse aver luogo. Al tempo stesso quelli che si opponevano volevano invertire l’onda delle speculazioni immobiliari che stava cominciando a travolgere le aree urbane di tutti paesi capitalisti industrializzati.

Tu scrivi: “La domanda riguardo a che tipo di città vogliamo non può essere separata dalla domanda circa che genere di persone vogliamo essere, quali tipi di relazioni sociali ricerchiamo, quali relazioni con la natura apprezziamo, quale stile di vita desideriamo o quali valori estetici coltiviamo”. Citi anche la Comune di Parigi come evento storico per analizzare e forse aiutarci a concettualizzare come potrebbe essere il “diritto alla città”. Ci sono altri esempi storici sui quali dovremmo riflettere?

Quale tipo di città desideriamo costruire dovrebbe riflettere i nostri desideri e bisogni personali. Il nostro ambiente sociale, culturale, economico, politico e urbano è molto importante. Come sviluppiamo questi atteggiamenti e tendenze? Questo è importante. Dunque, vivendo in una città come New York ci si deve muovere attraverso la città, spostarsi e trattare con altre persone in un modo molto specifico. Come tutti sanno, gli abitanti di New York tendono a essere freddi e sbrigativi tra di loro. Ciò non significa che non si aiutino a vicenda, ma al fine di far fronte alla velocità quotidiana delle cose, e alla grande quantità di persone nelle strade e nelle metropolitane, si deve affrontare la città in un determinato modo. Allo stesso modo, vivendo in una comunità chiusa dei sobborghi conduce a determinati modi di pensare riguardo a che cosa dovrebbe consistere la vita quotidiana. E queste cose evolvono in atteggiamenti politici differenti, che spesso includono mantenere certe comunità chiuse ed esclusive, al costo di ciò che avviene nella periferia. Creiamo questi atteggiamenti e ambienti politici.

Le reazioni rivoluzionarie all’ambiente urbano hanno molti precedenti storici. A Parigi nel 1871 c’era un tipo di atteggiamento per cui la gente voleva un tipo diverso di urbanizzazione; voleva che vi vivesse un tipo diverso di persone; era una reazione allo sviluppo dell’alta società, speculativo consumistico che stava avendo luogo all’epoca. Dunque ci fu una rivolta che chiedeva generi diversi di relazioni: relazioni sociali, relazioni di genere e relazioni di classe. In conseguenza se si vuole costruire una città in cui le donne si sentano a loro agio, ad esempio, si costruisce una città molto diversa da quelle che normalmente abbiamo. Tutte queste questioni sono legate alla domanda riguardante in quale genere di città vogliamo vivere. Non possiamo separarla dal tipo di persone che vogliamo essere; quale tipo di relazioni di genere, quale tipo di relazioni di classe, e simili. Per me il progetto di costruire la città in un modo diverso, con una filosofia diversa, con scopi diversi, è un’idea molto importante. Occasionalmente tale idea è stata raccolta da movimenti rivoluzionari, come la Comune di Parigi. E ci sono molti altri esempi che potremmo citare, come lo Sciopero Generale di Seattle circa nel 1919. L’intera città fu presa dalla gente ed essa cominciò a costruire strutture comunitarie.

A Buenos Aires queste stesse cose stavano accadendo nel 2001. A El Alto, 2003, c’è stato un altro tipo di esplosione. In Francia, abbiamo visto le aree suburbane dissolversi in rivolte e movimenti rivoluzionari negli ultimi 20-30 anni. In Gran Bretagna abbiamo visto questo genere di sommosse e rivolte di tanto in tanto, che sono realmente una protesta contro il modo in cui si vive la vita quotidiana. Per essere chiari, i movimenti rivoluzionari nelle aree urbane si sviluppano molto lentamente. Non si può cambiare l’intera città dall’oggi al domani. Quella che vediamo, tuttavia, è una trasformazione nello stile dell’urbanizzazione nel periodo neoliberista. Prima, diciamo a metà degli anni ’70, l’urbanizzazione era caratterizzata da proteste; c’era molta segregazione; e la risposta a molte di tali proteste è stata, in effetti, la riprogettazione della città coerentemente con i principi neoliberisti di autosufficienza, di assunzione di responsabilità di sé stessi, di competizione, di frammentazione della città in comunità chiuse e spazi privilegiati.

Così, per me la riprogettazione della città è un progetto di lungo termine. Per fortuna le persone sono costrette a immaginare qualche forma di trasformazione rivoluzionaria, che si verifica in un particolare momento del tempo, come a Buenos Aires nel 2001, quanto ci sono stati movimenti che hanno guidato la presa delle fabbriche e hanno tenuto assemblee. Sono stati in grado di imporre, in molti modi, come la città andava organizzata e hanno cominciato a porre domande serie: chi vogliamo essere? Come dovremmo relazionarci con la natura? Quale tipo di urbanizzazione vogliamo?

Puoi parlarci di alcuni di questi termini? Ad esempio, puoi discutere della sub-urbanizzazione come conseguenza di “un modo di assorbire il surplus di prodotto e in tal modo risolvere il problema dell’assorbimento del surplus di capitale?” In altri termini, perché le nostre città sono state svuotate in questo modo particolare? Questa questione è particolarmente preveggente per i nostri ascoltatori locali nella regione dell’industria manifatturiera in crisi, che è stata completamente devastata negli ultimi 30-40 anni.

Di nuovo, questo è processo lungo, che si trascina. Fammi tornare agli anni ’30 e alla Grande Depressione. Poniamo la domanda: Come siamo usciti dalla Grande Depressione? E quale era il problema durante la Grande Depressione? Uno dei grandi problemi durante la Grande Depressione era un mercato debole. La capacità produttiva c’era. Ma non c’erano flussi di reddito da sfruttare, per dir così. Dunque c’era un surplus di capitale in giro senza un possibile impiego. Ora, in tutti gli anni ’30 ci furono tentativi frenetici di trovare un modo per spendere quel surplus di capitale. Ci furono cose come il “Programma di opere pubbliche” di Roosevelt. Sai, costruire autostrade e roba del genere. Cioè impiegare il surplus di capitale e il surplus di lavoro in giro all’epoca.

Negli anni ’30 non fu trovata alcuna soluzione reale, fino a quando non arrivò la seconda guerra mondiale. A quel punto tutto il surplus fu immediatamente assorbito dallo sforzo bellico: produrre munizioni e via dicendo. Molti si arruolarono nell’esercito; una quantità di manodopera fu assorbita in quel modo. Dunque la seconda guerra mondiale, apparentemente, risolse il problema della Grande Depressione. A quel punto sorse la domanda del dopo 1945: che cosa sarebbe successo una volta finita la guerra? Che cosa sarebbe successo a tutto quel capitale extra? Beh, a quel punto si ebbe la sub-urbanizzazione degli Stati Uniti. In effetti la costruzione delle periferie, a quel punto era la costruzione di periferie ricche, divenne il modo in cui fu impiegato il capitale in surplus. Prima fu costruito il sistema autostradale; a quel punto tutti dovevano avere un’automobile; poi l’abitazione suburbana divenne una specie di “castello” per la popolazione della classe lavoratrice. Tutto questo ebbe luogo abbandonando le comunità impoverite dei quartieri poveri. Questo fu lo schema dell’urbanizzazione che ebbe luogo negli anni ’50 e ’60.

I surplus, che il capitale produce sempre, funzionano così: i capitalisti cominciano la giornata con una certa quantità di denaro. A sera finiscono con più soldi. Sorge la domanda: che cosa fanno i capitalisti con i loro soldi alla fine della giornata? Beh, devono trovare qualche posto in cui investirli: espansione. I capitalisti hanno sempre questo problema: dove stanno l’espansione e le occasioni di fare più soldi? Una delle grandi occasioni di espansione dopo la seconda guerra mondiale fu l’urbanizzazione. C’erano altre occasioni, quali il complesso industriale-militare, e così via. Ma fu principalmente mediante la sub-urbanizzazione che i surplus furono assorbiti. Ora, questo creò molti problemi, quali la crisi urbana dei tardi anni ’60. A quel punto hai una situazione in cui il capitale torna di fatto nelle città centrali e successivamente rioccupa i quartieri poveri. A quel punto inverte lo schema. Così un numero sempre maggiore di comunità impoverite è cacciato nella periferia, mentre la popolazione ricca ritorna nel centro della città.

Ad esempio nella New York di intorno al 1970 si poteva ottenere una casa nel centro di Manhattan quasi per nulla, perché c’era un enorme surplus di proprietà; nessuno voleva vivere in città. Ma ciò è completamente cambiato: la città è diventata il centro del consumismo e della finanza. Come hai citato, costa tanto un tetto per la tua auto quanto un tetto per una persona. Questa è la trasformazione che si è verificata. In breve, questo processo di urbanizzazione ha luogo in tutti gli anni ’40 estendendosi agli anni ’70. Dopo gli anni ’70 il centro della città diventa estremamente ricco. Di fatto, Manhattan passò dall’essere un luogo accessibile negli anni ’70 a diventare una vasta comunità chiusa negli anni 2000 riservata agli estremamente ricchi e potenti. Nel frattempo gli impoveriti, spesso comunità minoritarie, sono cacciate nella periferia della città. O, nel caso di New York, la gente è fuggita in cittadine del nord dello stato di New York o in Pennsylvania.

Questo schema generale di urbanizzazione ha a che fare con questa domanda di dove si trovano occasioni redditizie di investire il capitale. Come abbiamo visto nel corso degli anni, le occasioni redditizie sono scarseggiate negli ultimi quindici anni, o giù di lì. In tale periodo un’enorme quantità di denaro è stata riversata nel mercato residenziale, nella costruzione di case e in tutto il resto. Poi abbiamo visto quello che è successo nell’autunno del 2008 con lo scoppio della bolla immobiliare. Dunque si deve guardare all’urbanizzazione come a un prodotto della ricerca di modi con cui assorbire la produttività e la produzione accresciute di una società capitalista molto dinamica che deve crescere a un tasso del 3% di crescita composta se vuole sopravvivere. Questa è la domanda per me: come assorbiremo questa crescita composta del 3% nei prossimi anni in modo da evitare i dilemmi urbanizzazione/sub-urbanizzazione del passato? È interessante concettualizzare come potrebbe andare.

Tu parli della distribuzione geografica delle crisi economiche. Cioè come le crisi economiche si diffondono da una parte del globo all’altra. Citi anche il fatto che la gente non avrebbe dovuto essere sorpresa dal crollo economico del 2008. Ad esempio oggi abbiamo la crisi economica della zona UE e del Nord America, e tuttavia tu citi l’esplosione della crescita del PIL in Turchia e in varie parte dell’Asia, particolarmente in Cina. Ma citi anche un grande paradosso: in Cina, anche se è stato attraversato un enorme processo di urbanizzazione negli ultimi venti anni, quegli stessi processi industriali che hanno prodotto grandi profitti hanno cacciato milioni di cinesi e distrutto l’ambiente naturale. Contemporaneamente intere città rimangono totalmente vuote, poiché solo una piccola percentuale della popolazione cinese può permettersi tali lussi e abitazioni.

Beh, la Cina sta ripetendo il modo in cui gli Stati Uniti uscirono dalla Grande Depressione: mediante la sub-urbanizzazione dopo la seconda guerra mondiale. Penso che i cinesi, quando si trovarono posti di fronte alla domanda su che cosa dovevano fare, particolarmente in un declino economico globale e alla luce dei fiacchi risultati economici di circa il 2007-2008, decisero che sarebbero usciti dalle loro difficoltà economiche mediante programmi urbanistici e infrastrutturali: ferrovie ad alta velocità, autostrade, grattacieli e così via. Quelli divennero i mezzi attraverso i quali fu assorbito il surplus di capitale. Naturalmente tutti quelli che fornivano la Cina di materie prime se la passarono molto bene, poiché la domanda cinese era molto elevata.

La Cina assorbe metà dell’offerta mondiale di acciaio. Così se si produce minerale di ferro o di altri metalli, come fa l’Australia, allora naturalmente l’Australia se la passa molto bene perché non ha subito una gran crisi negli ultimi sette anni. I cinesi hanno, in effetti, preso una pagina dal libro della storia economica degli Stati Uniti replicando il programma di sviluppo economico post 1945 degli Stati Uniti. In poche parole, la Cina ha immaginato di potersi salvare con lo stesso tipo di strategia e di evitare la stagnazione o il declino economico. Sai, gli Stati Uniti e l’Europa sono impantanati in una crescita molto bassa, rispetto ai cinesi che hanno goduto tassi di crescita molto rapidi. Ma, di nuovo, si tratta di assorbire il surplus di capitale in modi che siano produttivi. Quella è la domanda; lo dico con speranza, perché non sappiamo se il boom cinese finirà a gambe all’aria.

Se il boom cinese andrà a rotoli, come i mercati immobiliare e finanziario negli Usa nel 2008, allora il capitalismo globale si troverà in guai seri. Oggi i cinesi stanno cercando di limitare il loro tasso di crescita. Così, invece di mirare a un tasso di crescita del 10 per cento del PIL, stanno puntando a una crescita del 7-8 per cento nei prossimi anni. Cercheranno di darsi una calmata. Voglio dire, via!, i cinesi hanno più di quattro città vuote. Riesci a crederlo? Città completamente vuote. Cosa succederà nei prossimi anni? Queste città diventeranno aree urbane produttive? Resteranno semplicemente lì a marcire? Nel qual caso andrebbe perso un mucchio di denaro e una grande depressione colpirebbe anche la Cina. In tal caso sarebbero prese alcune decisioni politiche molto sgradevoli, e certamente potremmo aspettarci agitazioni sociali tra la classe lavoratrice e tra i poveri cinesi.

Il mondo appare molto diverso secondo qual è la parte del mondo in cui si vive. Ad esempio, sono appena stato a Istanbul, Turchia: ci sono gru edili dappertutto. La Turchia sta crescendo a un ritmo del 7 per cento l’anno, dunque oggi (2013) è un luogo molto dinamico. Quando sei in Turchia è davvero difficile immaginare che il resto del mondo sia in crisi. Poi ho fatto un volo di due ore e mezza fino ad Atene, Grecia; non occorre che vi dica cosa succede là. La Grecia è come entrare in una zona disastrata dove tutto si è fermato. Tutti i negozi sono chiusi e non ci sono cantieri in corso in nessun luogo della città. Abbiamo qui due città distanti seicento miglia l’una dall’altra e tuttavia sono due luoghi totalmente differenti. Questo è ciò che ci si aspetterebbe di vedere nell’economia globale: alcuni luoghi prosperano, altri vanno in bancarotta. C’è sempre uno sviluppo disuguale delle crisi economiche. Per me questa è una storia molto affascinante da raccontare.

Nel capitolo due, Le radici urbane della crisi, discuti del collegamento tra la crisi economica e gli Stati Uniti, la proprietà e i diritti individuali di proprietà, che sono entrambi componenti ideologici importanti del Sogno Americano ma anche ti affretti a segnalare che tali valori culturali diventano molto rilevanti quando sussidiati da politiche statali. Puoi spiegare tali politiche?

Beh, se risali agli anni ’30 scoprirai che meno del 40 per cento degli statunitensi era proprietario della sua casa. Così circa il 60 per cento della popolazione degli Stati Uniti viveva in affitto. Era particolarmente così nel caso della classe inferiore, o della classe media. Normalmente vivevano in affitto. Ora queste popolazioni erano piuttosto irrequiete. Così era sorta l’idea di renderle filocapitaliste e a favore del sistema aprendo loro la possibilità di divenire proprietari. Così c’è stata una quantità di sostegno statale per quelle che chiamavano istituzioni di depositi e prestiti, che erano separate dalle banche. Erano luoghi in cui la gente depositava i propri risparmi e tali risparmi erano utilizzati per promuovere la proprietà per popolazioni a basso reddito. La stessa cosa valeva per la Building Society britannica. Negli anni ’80 si avvia tale tendenza con la classe imprenditoriale che si chiedeva come rendere la popolazione a basso reddito meno insofferente. C’era una magnifica frase che la classe imprenditoriale era solita utilizzare: “I proprietari di case non scioperano”.

Ricorda, ci si doveva indebitare per diventare proprietari. Questo è il meccanismo di controllo. In generale questo sistema era molto debole in tutti gli anni ’20 e fino agli anni ’30, quando il governo statunitense e le classi imprenditoriali decisero di rafforzarlo. Tanto per cominciare, quando sottoscrivevi un mutuo negli anni ’20 potevi solitamente ottenerlo solo per circa tre anni, poi avresti dovuto rinnovarlo o rinegoziarlo. Poi, negli anni ’30, le banche crearono i mutui trentennali. Ma per ottenere tali mutui essi dovevano essere garantiti in qualche modo. Così ciò portò alla creazione di istituzioni statali che avrebbero garantito i mutui. Ciò condusse all’Amministrazione Federale degli Alloggi. Contemporaneamente le banche avevano necessità di trasferire i mutui a qualcun altro, così crearono questa organizzazione chiamata Fanny May.

Per tutto quel periodo organizzazioni statali furono usate per incoraggiare e garantire la proprietà della casa, particolarmente a favore delle classi inferiori, il che naturalmente scoraggiò tali persone dallo scioperare e dallo sgarrare. Ora sono indebitate. Quelle istituzioni decollarono realmente dopo la seconda guerra mondiale. In quel periodo c’era una quantità di propaganda riguardo al “Sogno Americano” e a che cosa significava essere statunitensi. Entrò in gioco la deduzione fiscale dei mutui che consentiva di dedurre gli interessi sul mutuo. Ricorda, questo è un grande sussidio alla proprietà della casa. C’erano sussidi statali alla proprietà della casa; c’erano istituzioni statali che promuovevano la proprietà. Così tutto questo diventa cruciale quando collegato alla Legge GI, che diede diritti privilegiati di proprietà della casa e incentivi ai soldati reduci dalla seconda guerra mondiale. Ci fu un’incredibile spinta da parte dell’apparato statale a incoraggiare e garantire la proprietà della casa.

Ricorda, tutto questo stava accadendo nel contesto della sub-urbanizzazione. Quelle istituzioni divennero molto cruciali per il mercato immobiliare e naturalmente continuano a esistere. Tutti parlavano di come Fanny May e la nuova, Freddy Mac, erano gestite dal governo e tuttavia parzialmente di proprietà privata. Nel tempo, in essenza, sono divenute nazionalizzate. Così nel tempo il governo ha promosso la proprietà della casa e ha avuto un ruolo enorme nel creare questi mutui sub-prime. Ciò è stato fatto durante l’amministrazione Clinton, a partire dal 1995, mentre tentavano di promuovere la proprietà della casa tra le popolazioni minoritarie degli Stati Uniti. Lo sviluppo della “crisi dei sub-prime” è stato in larga misura collegato sia a ciò che stava facendo il settore privato, sia anche a ciò che le politiche governative garantivano.

Per me questo è un aspetto cruciale della vita statunitense, in cui si passa dal 60 per cento della popolazione in affitto al punto più alto del 2007-2008 in cui più del 70 per cento della popolazione diventa proprietario di casa. Questo, naturalmente, crea un genere diverso di atmosfera politica; un’atmosfera politica in cui la difesa dei diritti di proprietà e dei valori della proprietà diventa molto importante. Poi hai i movimenti di quartiere in cui la gente cerca di tenere certe persone fuori dal quartiere perchè le percepisce come causa della riduzione del valore della proprietà. Hai un genere diverso di politica perché la casa diventa una forma di risparmio per le famiglie della classe media e di quella lavoratrice. Naturalmente la gente attinge a quel risparmio per rifinanziare la propria casa.

C’è stata una quantità di rifinanziamenti in corso durante il boom della proprietà negli USA. Molte persone hanno approfittato degli alti prezzi delle case. Questa promozione della proprietà della casa è ora trattata come se fosse un antico sogno di quelli che vivono negli Stati Uniti. Tuttavia, di certo, c’è sempre stata questa specie di idea negli Stati Uniti presso le popolazioni dei lavoratori immigrati, che se ottieni un pezzo di terra, ci fai crescere qualcosa, e così via, potresti alla fine avere una vita piacevole. Sì, questo faceva parte del sogno degli immigrati. Ma questo è stato trasformato in proprietà suburbana, che non riguarda l’avere mucche e polli in cortile; riguarda avere tutto attorno a te simboli del consumismo.

Parliamo di queste tendenze in un ambito ideologico. Affermi che dovremmo andare oltre Marx. Tuttavia insisti che dovremmo utilizzare le sue intuizioni più preveggenti. Come possiamo andare oltre Marx? Che cosa intendi, esattamente?

Ora, il motivo per cui Marx è importante in tutto questo è che Marx ebbe un’acuta comprensione di come funziona l’accumulazione capitalista. Egli comprese che questa perpetua macchina di crescita contiene molte contraddizioni interne. Ad esempio, una delle contraddizioni di fondo di cui parla Marx è tra il valore d’uso e il valore di scambio. Puoi constatare molto chiaramente come questo abbia operato nella situazione degli alloggi. Qual è il valore d’uso di una casa? Beh, è una forma di rifugio, uno spazio di vita privata, dove uno può farsi una vita di famiglia. Possiamo elencare altri valori d’uso della casa, ma la casa ha anche un valore di scambio. Ricorda, quando affitti la casa, stai semplicemente affittando la casa per quel che serve. Ma quando acquisti la casa, a quel punto consideri la casa come una forma di risparmio, e dopo un po’ usi la casa come una forma di speculazione.

In conseguenza i prezzi delle case cominciano a salire. Così, in tale contesto, il valore di scambio comincia a dominare il valore d’uso della casa. Il rapporto tra valore di scambio e valore d’uso comincia a sfuggire di mano. Quindi, quando il mercato immobiliare crolla, improvvisamente cinque milioni di persone perdono la casa e il valore d’uso scompare. Marx parla di questa contraddizione ed è una contraddizione importante. Dobbiamo porre la domanda: che cosa dovremmo fare a proposito degli alloggi? Che cosa dovremmo fare riguardo all’assistenza sanitaria? Che cosa stiamo facendo riguardo all’istruzione? Non dovremmo promuovere il valore d’uso dell’istruzione? O dovremmo promuovere il valore di scambio di queste cose? Perché le necessità della vita dovrebbero essere distribuite attraverso il sistema del valore di scambio? Ovviamente dovremmo rigettare il sistema del valore di scambio che è preda dell’attività speculativa, dello sciacallaggio, e di fatto perturba i modi in cui possiamo acquistare prodotti e servizi necessari. Questo era il genere di contraddizioni di cui Marx era consapevole.

Nel terzo capitolo, La creazione dei beni comuni urbani, tu riconcettualizzi come potrebbero essere i “beni comuni” nel prossimo secolo. Prosegui facendo riferimento al lavoro di Tony Negri e Michael Hardt in tutto il libro. Ho intervistato Michael Hardt in passato e ho trovato molto del suo lavoro molto acuto e molto interessante. Come tutti voi citate nel vostro lavoro: dobbiamo cominciare a concepire come trasferire, promuovere, sviluppare e utilizzare i beni comuni. Ciò comprende anche effetti culturali: immagini, significati, simboli, eccetera. Prosegui citando il lavoro di Murray Bookchin: idee di ordine, processi, gerarchie sociali e così via diventano molto importanti quando si tenta di ideare alternative. Anche Christian Parenti ha recentemente scritto un testo notevole a proposito dello stato e dell’ambiente. Quali sono alcune delle tue idee su come potremmo riconcettualizzare i beni comuni?

Beh, la concezione dei beni comuni, da quel che ho visto e letto, è di dimensioni piuttosto ridotte. Così una quantità di scritti sui beni comuni si è occupata dei beni comuni a livello micro. Non sto dicendo che ci sia qualcosa di sbagliato in ciò; avere un orto comunitario nel tuo quartiere è una bella cosa. Tuttavia mi pare che dobbiamo cominciare a interessarci e a parlare di temi di vasta portata riguardo ai beni comuni, quali l’habitat di un’intera bio-regione. Ad esempio, come cominciamo a concepire come dovrebbe essere la sostenibilità nell’intero nord-est degli Stati Uniti? Come gestiamo cose come le risorse idriche a livello nazionale? E globalmente? Le risorse idriche dovrebbero essere considerate una risorsa di proprietà comune, ma spesso ci sono richieste di acqua pulita in conflitto tra loro: urbanizzazione, agricoltura industriale e ogni sorta di altre tutele dell’habitat e cose simili.

Mi fa piacere che tu abbia citato il saggio di Christian Parenti, perché il cambiamento climatico dovrebbe farci riconcepire i beni comuni globali. Come gestire questo problema? E come possiamo gestire questi temi nel futuro? È fuori questione che abbiamo bisogno di meccanismi di imposizione tra stati nazione al fine di combattere queste tendenze e prevenire minacce future. Che cosa succede ai trattati internazionali se i governi vanno a pezzi? Chi impedirà ad altri stati di immettere anidride carbonica nell’atmosfera? Lo si può fare indicendo assemblee collettive o quel che passa il convento. I confronti riguardo a se trasformare un pezzo di terra in un orto comunitario non combatteranno i problemi che affrontiamo come specie. Dobbiamo concepire i beni comuni come esistenti su una scala diversa. Sono interessato alla dimensione metropolitana-regionale. Come si organizza la gente in tali regioni per difendere i diritti della proprietà comune su scale diverse? Beh, questo livello di potenziale organizzativo non si realizzerà attraverso assemblee o altre forme di organizzazione che la gente utilizza oggi. Il problema è inventarsi un modo democratico di rispondere alle opinioni di vasti strati della popolazione in tutto il pianeta al fine di amministrare i diritti alle risorse di proprietà comune. Ciò includerebbe cose come qualità dell’aria e dell’acqua nell’intera regione. Includerebbe anche la sostenibilità bioregionale.

Queste cose non si realizzano mediante assemblee e solo perché c’è chi inventa qualche grande piano a livello locale, ciò non significa che tale piano funzioni a livello regionale o su scala globale. Così, mi piacerebbe introdurre il concetto di “scale” differenti di organizzazione nel nostro confronto collettivo sullo sviluppo, la sostenibilità e l’urbanizzazione. Dobbiamo sviluppare organizzazioni, meccanismi, vocabolari e apparati capaci di far fronte a questi problemi su scala globale. Non credo ci dia alcun vantaggio il discutere dei “beni comuni” se non siamo specifici riguardo alla scala di cui stiamo discutendo. Parliamo del mondo? In tal caso dobbiamo parlare dell’apparato statale e delle sue funzioni, particolarmente a livello bio-regionale e globale.

Pare che le sole persone disposte a considerare questi temi su scala globale siano gli scienziati del clima, gli oceanografi, i biologi, gli ecologisti, con pochissimi intellettuali, per non parlare di attivisti o della più vasta popolazione in generale che discutono dell’ambiente naturale globale. Alcuni scienziati suggeriscono che entro il 2048 quasi tutti i grandi pesci saranno estinti. Al minimo gli scienziati ci dicono di aspettarsi un aumento di due gradi Celsius della temperatura del globo entro la fine del secolo. Queste predizioni sono inquietanti, a dir poco. Anche se possiamo organizzarci efficacemente, diciamo, a livello bio-regionale, che cosa succede se altre regioni si rifiutano? Non avremo bisogno di un apparato globale per chiamare le nazioni a rispondere? A me questo sembra uno dei problemi più grandi del nostro tempo.

Beh, ci sono alcuni modi in cui una prassi può diventare egemone: uno è mediante coercizione, cosa che nessuno di noi vuole ma che può ben essere una necessità. Poi c’è il consenso, che è quello che vediamo in queste conferenze sul cambiamento climatico ma, come vediamo, anche questo non funziona. Il terzo è quello che potremmo chiamare “mediante esempio”. È per questo che penso che una regione come la Cascadia sia così interessante, tra i motivi che hai citato, perché la Cascadia mette in atto alcune politiche molto, molto progressiste. Ad esempio, la California lo ha fatto riguardo a numerosi aspetti della legislazione ambientale. Su scala locale la California ha cominciato a imporre cose come il chilometraggio o la capacità del serbatoio obbligatori per le auto, e questo è un piccolo esempio.

In modo interessante, può anche essere dimostrato che non si finirà a pezzi, economicamente, se gli stati attueranno tali misure. Oggi non accade nulla di tutto ciò. Penso che guidare mediante l’esempio possa essere molto significativo. È più facile conquistare consenso quando si offrono esempi alla gente di come questo funzionerebbe. Ad esempio, l’abbiamo visto a livello urbano con città come Curitiba, Brasile, che è piuttosto nota per il suo progetto ambientale. In altre parole, molte delle cose che si fanno a Curitiba sono ora attuate in tutto il mondo in vari contesti urbani. Penso che avremo una combinazione di operare mediante esempio, consenso e coercizione. La mia speranza sarebbe che potessimo principalmente utilizzare esempi del mondo reale; poi è più facile raggiungere il consenso; ed è piuttosto difficile muoversi in direzione della coercizione. Comunque questa è solo la mia speranza. Non necessariamente le cose andranno così.

Nel capitolo quattro, L’arte della rendita, citi che a un certo punto “le università delle arti erano fucine di dibattito, ma la loro successiva pacificazione e professionalizzazione hanno gravemente ridotto la politica agitativa”. Puoi parlare del carattere speciale della produzione e riproduzione culturale? Inoltre, puoi articolare questo concetto di “rendita di monopolio”? Come è stato aiutato questo processo da quella che chiami “imprenditorialità urbana”? Chiami questi processi la “disneyficazione” della società e della cultura. Che cos’è il capitalismo simbolico collettivo?

Il mio interesse a questo deriva da una contraddizione molto semplice. Si suppone che viviamo sotto il capitalismo e si suppone che il capitalismo sia competitivo cosicché ci si aspetterebbe che i capitalisti e gli imprenditori apprezzino la competizione. Beh, emerge che i capitalisti fanno tutto quel che possono per evitare la competizione. Amano i monopoli. Così ogni volta che possono cercano di creare un prodotto che sia monopolizzabile, che, in altre parole, sia “unico”. Ad esempio prendete il logo della Nike, che è un esempio perfetto di capitalisti che incassano un prezzo di monopolio da un simbolo particolare perché c’è tutto quel bagaglio culturale collegato a ciò che quel logo significa, a ciò per cui sta, e a come le persone vi interagiscono. Una scarpa identica, che costa molto meno, può essere venduta a un prezzo molto inferiore perché semplicemente non ha quel logo. Così il prezzo di monopolio è tremendamente importante. Troverete molti casi in cui è una componente cruciale di come funzionano i mercati.

Nello stesso capitolo cito il commercio del vino, che mi intriga parecchio. Si cerca di ricavare una rendita monopolistica perché questo vigneto ha un suolo particolare, o questa vigna ha una collocazione geografica speciale. Perciò crea un unico vino “vintage” che ha un sapore migliore di ogni altro al mondo; solo che non è così. C’è un grande interesse a cercare di acquisire una rendita monopolistica assicurandosi che il proprio prodotto sia commercializzato come unico e molto, molto speciale. Poi, a livello locale, città cercano di darsi un “marchio”. C’è ora un’intera storia, in particolare riguardante gli ultimi 30-40 anni, in cui città si sono date un marchio e hanno tentato di vendere un pezzo della loro storia. Qual è l’immagine di una città? È attraente per i turisti? Va di moda? La città si promuoverà commercialmente.

Si troveranno città che hanno alte reputazioni, come Barcellona, Spagna, o New York City. Uno dei modi in cui si può vantare l’unicità di una città consiste nel promuovere qualcosa riguardo alla storia della città che sia molto specifico, perché non si può fruire del parallelo storico altrove. Così, per esempio, si va ad Atene per via dell’Acropoli, o si va a Roma per le antiche rovine. Così si comincia a promuovere commercialmente la storia di una città come unica e redditizia. D’altro canto, se non si ha una storia particolare, semplicemente se ne inventa una. C’è una quantità di città che si sono inventate storie nel mondo di oggi. Allora si dice alla gente che la cultura del luogo è molto speciale. Sai, cose come stili alimentari unici, o danze uniche diventano molto importanti. Si deve promuovere la “vita di strada” come unica; non esiste nessun altro luogo così, e tutto quel genere di roba.

La commercializzazione degli aspetti culturali e storici di una città è oggi una componente cruciale del processo economico. Alcune città semplicemente s’inventano una cultura unica. Ad esempio alcuni città utilizzeranno “architettura firmata”. Ad esempio non molti conoscevano la città di Bilbao, in Spagna, prima che il Museo Guggenheim diventasse il posto alla moda di un particolare marchio di architettura. Passando oltre possiamo considerare Sidney, Australia, e la sua Sala dell’Opera, che è la prima cosa che le persone riconoscono quando vedono una fotografia della città, e possiamo vedere quanto importante sia diventato ciò. Così l’architettura stessa diviene preda della commercializzazione e del marchio di una città. Sai, persino le scene della pittura e della musica diventano aspetti considerevoli di cultura da poi promuovere e vendere; città come Austin, Texas, diventano “scene della musica”. Poi ci sono luoghi come Nashville, e così via. Così le città cominciano a usare la produzione culturale come modo per promuoversi come uniche e speciali. Naturalmente il problema al riguardo è che molta della cultura è facilissima da replicare. L’unicità comincia a sparire. A quel punto abbiamo quella che chiamo la “disneyficazione” della società.

In Europa, ad esempio, anche se molte città hanno un passato storico-culturale serio, ogni cosa diventa “disneyficata”. Alcuni, io per esempio, finiscono estremamente disgustati da questo. È ancora un’altra “disneyficazione” della storia dell’Europa e io semplicemente non voglio più essere seccato da questo. Questa è la contraddizione: si promuove commercialmente una città come unica e tuttavia, mediante la promozione, la città diventa replicabile. In realtà i simulacri della storia diventano importanti tanto quanto la storia stessa. C’è una tensione in giro in cerca di rendite monopolistiche, conquistandole per un po’ e poi perdendole a favore dei simulacri. Questo diviene significativo. Oggi questo crea anche una situazione in cui i produttori di cultura diventano tremendamente importanti. Sono andato a vivere a Baltimora nel 1969 e vi erano circa tre musei. Oggi ci sono più di trenta musei a Baltimora! Questo diventa il modo in cui si commercializza la città. Tuttavia se ogni città ha trenta musei allora ci si può scordare di godere di un vantaggio monopolistico. Allora davvero non conta dove mi trovo; se a Baltimora, Pittsburgh o Detroit. Tutto diventa un’esperienza replicabile. Cominciano a perdere il loro potere monopolistico.

Nel capitolo cinque, Riprendersi la città per la lotta anticapitalista, tu scrivi: “Due questioni derivano dai movimenti politici a base urbana: 1) La città, o sistema di città, è uno spazio meramente passivo o una rete preesistente? 2) Le proteste politiche spesso misurano il loro successo in termini di capacità di disarticolazione delle economie urbane”. Puoi spiegare tali disarticolazioni? Come pensi che i dimostranti nella società odierna possano disarticolare più efficacemente le economie urbane?

L’uragano Sandy ha realmente disarticolato le vite dei residenti nella città di New York. Dunque non vedo perché movimenti sociali organizzati non potrebbero disarticolare la vita consueta in grandi città e perciò causare danni agli interessi della classe dominante. Abbiamo visto molti esempi storici di questo. Ad esempio negli anni ’60 i disturbi che si sono verificati in molte città degli Stati Uniti hanno causato grandi problemi alle aziende. Le classi politiche ed economiche sono state rapide nel reagire a causa del livello di disarticolazione e distruzione. Cito nel libro le dimostrazioni dei lavoratori immigrati nella primavera del 2006. Le dimostrazioni furono una reazione al tentativo del Congresso di criminalizzare gli immigrati illegali. Successivamente la gente si mobilitò in luoghi quali Los Angeles e Chicago, e inceppò considerevolmente l’economia cittadina.

Si potrebbe prendere l’idea di uno sciopero, solitamente mirato contro una particolare azienda o organizzazione, e tradurre quelle tattiche e strategie nei centri cittadini. Così invece di scioperare contro una particolare impresa o società la gente indirizzerebbe le sue azioni nei confronti di intere aree urbane. Allora ci sono eventi come la Comune di Parigi o lo sciopero generale di Seattle del 1919 o la rivolta Cordobazo in Argentina, circa 1969. Non occorre che sia un movimento rivoluzionario da un giorno all’altro. Queste cose possono aver luogo gradualmente mediante riforme.

La redazione partecipativa del bilancio è attualmente attuata a Porto Alegre, Brasile, dove il Partito dei Lavoratori ha sviluppato un sistema attraverso il quale popolazione e assemblee locali decidono per che cosa devono essere spese le loro imposte. Dunque tengono assemblee popolari e così via, che decidono come utilizzare fondi e servizi pubblici. Di nuovo, ecco una riforma democratica che inizialmente è stata avviata a Porto Alegre ma che da allora è stata fatta circolare in città europee. È una magnifica idea. Coinvolge il pubblico e mantiene le persone coinvolte nel processo. Democratizza il processo decisionale in tutta la società. Queste decisioni non sono più prese da consigli comunali, burocrati o dietro porte chiuse. Oggi questi dibattiti sono accessibili alla partecipazione del pubblico. Da un lato ci sono interventi molto rapidi sotto forma di scioperi e interferenze. Dall’altro c’è un processo lento di riforme che ha luogo attraverso assemblee democratiche e così via.

Nel corso degli anni ho collaborato con persone che operano nel settore sindacale, con persone disoccupate e che operano nell’ambito di quella che è comunemente chiamata l’”economia sommersa”. Cosa più importante, sono interessato a organizzare quelli che lavorano nelle industrie dei servizi, o negli ipermercati tipo Applebee’s o Best Buy. Nel capitolo cinque tu scrivi: “Nella tradizione marxista le lotte urbane sono spesso ignorate o scartate in quanto prive di potenziale o significato rivoluzionario. Quando una lotta a livello cittadino acquista, in effetti, uno status di icona rivoluzionaria, come accadde durante la Comune di Parigi nel 1871, si afferma, prima da parte di Marx e poi con maggiore enfasi da parte di Lenin, trattarsi di una rivolta proletaria, piuttosto che un movimento rivoluzionario molto più complicato animato tanto dal desiderio di riprendersi la città stessa dall’appropriazione borghese, quanto dalla desiderata liberazione dei lavoratori dai calvari dell’oppressione di classe nel luogo di lavoro. Considero d’importanza simbolica che i primi due atti della Comune di Parigi siano stati l’abolizione del lavoro notturno nei forni, una questione sindacale, e l’imposizione di una moratoria degli affitti, una questione urbana”. Puoi parlare del privilegio riservato agli operai dell’industria nell’ideologia marxista?

C’è una lunga storia di ciò. La tendenza nei circoli marxisti, e non solo nei circoli marxisti ma nella sinistra in generale, consiste nel privilegiare i lavoratori dell’industria. Questa idea di una lotta di avanguardia che conduce a una nuova società è in circolazione da un certo tempo. Tuttavia, quella che è affascinante è l’assenza di alternative a questa visione, o almeno di varianti del suo intento e proposito. Naturalmente molto di questo proviene dal volume I del Capitale di Marx che enfatizza il lavoratore di fabbrica. Questa idea che il partito d’avanguardia dei lavoratori ci porterà nella nuova Terra Promessa dell’anticapitalismo, chiamiamola una società “comunista” è stata persistente per più un centinaio d’anni. Ho sempre sentito che si trattava di una concezione troppo limitata di chi è il proletariato e di chi è l’”avanguardia”. Inoltre io sono sempre stato interessato alle dinamiche della lotta di classe e ai loro rapporti con i movimenti sociali urbani. Chiaramente per me i movimenti sociali urbani sono molto più complicati. Coprono tutto lo spazio dalle organizzazioni borghesi di quartiere, impegnate in politiche di esclusione, a una lotta di affittuari contro padroni di casa a causa di pratiche sfruttatrici. Quando si guarda alla vasta gamma di movimenti sociali urbani se ne trovano alcuni anticapitalisti e altri che sono l’opposto. Ma farei la stessa osservazione riguardo ad alcune forme tradizionali di organizzazione sindacale. Ad esempio ci sono alcuni sindacati che considerano l’attività di organizzazione come un modo per privilegiare i lavoratori privilegiati della società. Naturalmente questa idea non mi piace. Poi ci sono altri che stanno creando un mondo più giusto e più equo.

Penso ci sia una varietà uguale di distinzioni nell’ambito delle forme di organizzazione dei lavoratori dell’industria. Di fatto le forme di organizzazione dei lavoratori dell’industria a volte, poiché si occupano di gruppi speciali e di interessi speciali, sono reattive alla politica generale più di quanto ci si aspetti. È a questo riguardo che io accolgo le forme di organizzazione di Antonio Gramsci. Egli era molto interessato ai consigli di fabbrica. Egli seguiva, in effetti, la linea marxista che l’organizzazione di fabbrica è cruciale nella lotta. Ma poi egli spingeva le persone anche a organizzarsi in ambito di quartiere. In quel modo, nel pensiero di Gramsci, potevano avere un quadro migliore di com’è l’intera classe lavoratrice, non solo quelli che sono organizzati in fabbriche e via dicendo. Includendo persone come i disoccupati, i lavoratori temporanei e tutte le persone che hai citato in precedenza che non erano occupate in posti di lavoro tradizionali del settore industriale. Così Gramsci proponeva che questi due tipi di metodi di organizzazione politica dovrebbe essere interconnessi al fine di rappresentare realmente il proletariato.

In essenza, il mio pensiero riflette Gramsci sotto questo aspetto. Come cominciamo a occuparci di tutti i lavoratori in una città? Chi lo fa? I sindacati tradizionali tendono a non farlo. Mentre ci sono movimenti in seno al movimento sindacale che stanno attuando tali pratiche organizzative. Ad esempio i Trade Union Councils in Gran Bretagna o i Labor Councils negli Stati Uniti che entrambi cercano di organizzare in qualche misura fuori dall’ambito dell’organizzazione sindacale tradizionale. Ora, quelle correnti del movimento sindacale non sono state dotate di potere. Dobbiamo ideare nuove forme di organizzazione che colgano il lato progressista di ciò che accade nei movimenti sociali urbani e lo unisca a quel che resta del modello sindacale tradizione del settore industriale. Dobbiamo riconoscere che molti lavoratori che operano nell’economia statunitense non potrebbero organizzarsi ufficialmente in un sindacato date le attuali leggi sul lavoro. Dunque abbiamo bisogno di una forma diversa di organizzazione, esterna al modello sindacale tradizionale.

C’è un’organizzazione a New York, che in realtà è nazionale ma è molto forte a New York, chiamata Domestic Workers Organization [Organizzazione dei lavoratori domestici]. È molto difficile sindacalizzare i lavoratori domestici. Ma hanno un’organizzazione basata su diritti e continuano a organizzarsi e a battersi. Siamo onesti: se sei un immigrato clandestino negli Stati Uniti, sei trattato in modi deplorevoli. Perciò organizzare gruppi come i tassisti o i lavoratori dei ristoranti conduce a quello che è chiamato un Congresso dei Lavoratori. Stanno cercando di mettere insieme tutte queste forme di organizzazione. Sai, anche Richard Trumka [leader sindacale, già presidente dell’AFL-CIO], si è presentato a una di queste conferenze nazionali e ha detto ai lavoratori che il movimento sindacale tradizionale al minimo desidererebbe avere un rapporto con loro.

In breve, io penso che oggi ci sia un movimento in crescita che riconosce l’importanza di tutti i tipi diversi di lavoro che esistono nell’ambiente urbano. Ho accolto la domanda postami da molti membri di sindacato: “Perché non sindacalizziamo l’intera dannata città?” Sono già attivi movimenti per organizzare i tassisti, ma perché non i lavoratori delle consegne? È una vasta manodopera e la città dipende assolutamente da questi settori del lavoro per mantenere normalmente funzionante la sua attività economica. E se questi gruppi si unissero e cominciassero a rivendicare un tipo diverso di politica nelle città? E se avessero voce in capitolo sul modo in fondi e risorse sono utilizzati? Ci sono modi per contrastare l’incredibile disuguaglianza esistente a New York? Voglio dire: i dati delle entrate fiscali dell’anno scorso hanno mostrato che l’un per cento al vertice a New York guadagna 3,57 milioni di dollari a testa, in confronto con il 50 per cento della popolazione che cerca di tirare avanti con meno di 30.000 dollari. È una delle città più disuguali del mondo. Dunque che cosa possiamo fare al riguardo? Come possiamo organizzarci per cambiare questa disuguaglianza?

Per me dovremmo abbandonare questa idea che l’operaio di fabbrica è l’avanguardia del proletariato e cominciare a immaginare come nuova avanguardia quelli che sono impegnati nella produzione e riproduzione della vita urbana. Vi sarebbero inclusi lavoratori domestici, tassisti, addetti alle consegne e molti altri della classe povera e di quella lavoratrice. Penso che possiamo costruire movimenti politici che operino in modi totalmente diversi rispetto al passato. Possiamo vederlo in città di tutto il mondo, dalla città boliviane a Buenos Aires. Mettendo insieme il lavoro di attivisti urbani con quelli che lavorano nelle fabbriche cominciamo a sviluppare un elemento completamente differente di agitazione politica.

Puoi parlare di alcune di tali città, come El Alto, in Bolivia? Inoltre, nel 2011 ero a Madison, Wisconsin, nel 2011 nel corso delle proteste sindacali e devo dire che è stato interessante e assolutamente frustrante vivere le dinamiche interne del movimento sindacale, e come interagisce con i cittadini e i lavoratori non iscritti al sindacato. Purtroppo il movimento sindacale reprime il dissenso e la resistenza seri. Anche se molti lavoratori a Madison sono sindacalizzati, quelli che fisicamente avevano occupato l’edificio del Campidoglio e avevano avviato l’occupazione erano lavoratori non sindacalizzati. Poi sono arrivati i grandi sindacati e hanno immediatamente reindirizzato i discorsi al voto sulla revoca del governatore Scott Walker. Indiscutibilmente, col senno di poi, il voto per la revoca del governatore Walker è stato un disastro politico. Che cosa ne pensi?

I sindacati hanno attraversato un brutto periodo. Non sono molto progressisti, specialmente negli Stati Uniti. Nel complesso sono d’accordo su quanto citi. Il motivo per cui ho citato Trumka era perché io penso che Trumka e molti di quelli all’interno del movimento sindacale organizzato capiscono che non possono più fare da soli; hanno bisogno dell’aiuto dell’intera forza lavoro, sindacalizzata o no. Questa è sempre stata la sfida nell’organizzare: quanto sostegno vogliamo da queste vaste entità? E quanto di ciò che stanno facendo è frutto di un vero senso di solidarietà? Quanto è per profitto personale? La mia esperienza a Baltimora, che copre campagne per il salario minimo, rispecchia in una certa misura la tua esperienza. I sindacati erano in generale ostili a tali campagne e non hanno contribuito, parlando in generale. Tuttavia abbiamo ricevuto in effetti molto aiuto da sindacati locali.

Così, di nuovo, dobbiamo separare tali due entità. Sezioni locali hanno effettivamente contribuito alle campagne. Indubbiamente il movimento è stato molto, molto conservatore negli Stati Uniti; in molti modi, particolarmente negli ultimi circa cinquant’anni, siamo stati privi di un movimento serio del lavoro organizzato. E ci sono problemi simili anche nei sindacati britannici. Per essere giusti, l’impressione che io ricavo da parte della dirigenza locale di New York è che capiscono che non possono più comandare. Dubito che tu affermi che non dovremmo organizzarci nei sindacati, e di chiunque lo dica dovremmo essere diffidenti, ma credimi: sono ben consapevole dei limiti dei sindacati moderni.

In effetti ho saputo molto di quanto mi racconti da amici che partecipavano agli eventi di Madison, Wisconsin. Sai, ho letto tutto quanto ho potuto riguardo a El Alto, Bolivia, e quelle che per me sono realmente affascinanti sono le forme di organizzazione che vi hanno luogo. C’è una componente sindacale, con un forte sindacato degli insegnanti che apre la via. Ma ci sono anche molti ex membri del sindacato che lavoravano nelle miniere di stagno ma sono finiti disoccupati a causa della ristrutturazione neoliberista degli anni ’80. Quelle persone sono finite a vivere in questa città di El Alto e c’è una tradizione politica attivista di socialismo. Nel movimento sindacale cui appartenevano erano principalmente trotzkisti, il che è significativo. Tuttavia le organizzazioni più importanti erano le organizzazioni di quartiere. Inoltre c’era un’assemblea omnicomprensiva di organizzazioni di quartiere chiamata la Federazione delle Organizzazioni di Quartiere.

Ad esempio c’erano organizzazioni di venditori di strada, che abbiamo anche a New York, oltre a quelle degli addetti ai trasporti. Questi gruppi diversi si incontravano regolarmente. La dinamica interessante di queste organizzazioni è che non la vedono tutte allo stesso modo su ogni singolo tema. Voglio dire: che senso ha partecipare a una riunione in cui tutti sono d’accordo? Dovevano partecipare alle riunioni per assicurarsi che i loro interessi non fossero traditi. È questo quello che succede quando ci sono dibattiti vivaci e confronti politici: il progresso. Dunque l’attivismo delle federazioni di quartiere era il prodotto di metodi di organizzazione molto competitivi. Poi, quando la polizia e l’esercito hanno cominciato ad assassinare persone nelle strade, c’è stata un’immediata dimostrazione di solidarietà tra i gruppi che si organizzavano nella città. Hanno chiuso la città e bloccato le strade.

In conseguenza la popolazione di La Paz, Bolivia, non è stata in grado di ricevere merci e servizi perché tre delle vie principali passavano direttamente attraverso El Alto, che era chiusa da queste organizzazioni. Lo hanno fatto di nuovo nel 2003 e il risultato è stato che il presidente è stato cacciato. Poi, nel 2005, è stato cacciato il presidente successivo. Alla fine hanno avuto Evo Morales. Tutti questi elementi si sono uniti e hanno organizzato efficacemente i poveri e la classe lavoratrice in Bolivia. È da qui che ho tratto il titolo del mio libro Città ribelli. Del tutto letteralmente, El Alto è diventata una città rivoluzionaria nel giro di pochi anni. Le forme di organizzazione in Bolivia sono affascinanti da studiare e da osservare. Non sto dicendo che questo è “il modello” che tutti dovrebbero copiare, ma è un buon esempio da osservare e studiare.

Verso la fine del tuo libro citi un film che è caro al mio cuore, Sale della terra, un film che ho visto per la prima volta da matricola all’università. Il mio insegnante, il dottor Kim Scipes, teneva un corso sulla diversità razziale ed etnica alla Purdue North Central University, dove ho visto il film. Era materiale prescritto da vedere per il corso. Nel far riferimento al film nel tuo libro tu scrivi: “Solo quando unità e parità sono costruite con tutte le forze dei lavoratori saremo in grado di vincere. Il pericolo che questo messaggio ha rappresentato per il capitalismo è misurato dal fatto che questo è il solo film statunitense del quale è stata sistematicamente vietata per molti anni, per motivi politici, la diffusione su reti commerciali”. Puoi parlare del motivo per il quale questo film è importante? Che cosa può insegnarci riguardo alla lotta?

Beh, ho visto il film ormai un certo tempo fa. È stato un po’ in passato e non riesco a ricordare esattamente quando. Ma, come te, ho sempre fatto tesoro del suo ricordo. Così mentre ero seduto a scrivere questo libro sono tornato a vederlo. Naturalmente l’ho rivisto un paio di altre volte. Penso sia una storia molto umana. Ma questa è una magnifica storia di una miniera di zinco, che è basata su una situazione reale, scritta da persone messe al bando da Hollywood per le loro tendenze comuniste. È un grande film in cui classe, razza e genere si uniscono tutte a formare una grande storia e narrazione.

C’è un momento nel film che è un po’ buffo: gli uomini non possono più attuare picchetti a causa della legge Taft-Hartley, così sono le donne ad assumersi il compito di picchettare perché non c’è nulla che vieti loro di partecipare alle proteste. Allora gli uomini devono farsi carico dei lavori di casa. Curiosamente gli uomini cominciano rapidamente a capire perché le donne chiedano dal padrone acqua corrente e altre cose che renderebbero molto più facile la vita quotidiana. Velocemente, naturalmente, gli uomini scoprono quanto sia difficile stare in casa tutto il giorno. Sintetizza il tipo di questioni di genere che sono importanti oggi. Si occupa della solidarietà oltre le divisioni etniche, il che è cruciale. Il film compie un gran lavoro di evidenziazione di tutto questo in un modo molto non didattico. Ho sempre amato molto quel film così ho pensato che fosse appropriato che lo riproponessi nel contesto di ‘Città Ribelli’.

Qualche consiglio di saluto per quelli che ascoltano o leggono questa intervista?

Purtroppo io non sono un organizzatore; sono uno che scrive dei limiti del capitale e di come potremmo muoverci nel concepire visioni alternative della società. Ho ricavato una gran quantità di forza, motivazione e idee intellettuali da quelli che sono concretamente impegnati quotidianamente nella lotta. Partecipo e contribuisco, se posso. Dunque il mio consiglio a tutti sarebbe di uscire quanto più possibile e occuparsi della disuguaglianza sociale e del degrado ambientale perché questi sono temi sempre più lungimiranti. La gente deve diventare attiva, uscire, muoversi. È un periodo cruciale. Sai, la massiccia ricchezza e il capitale non hanno avuto sinora il minimo ripensamento. Dobbiamo dare una grande spinta se vogliamo vedere qualcosa di diverso nella nostra società. Dobbiamo creare meccanismi e forme di organizzazione che riflettano i bisogni e le volontà della società nel suo complesso, non solo quelli di una classe oligarchica privilegiata di individui.

Riferimenti

Vedi su eddyburg la recensione di Benedetto Vecchi e l'articolo di David Harvey, entrambi da il manifesto del 12 settembre 2013, e la nostra postilla (e.s.)

«Da Palermo a Venezia. Lo strazio dei territori e delle città: una devastazione civica che comporta vere e proprie patologie». Il Fatto Quotidiano, 21 dicembre 2016 (p.d.)

In questa Italia delle crisi e dei veleni, sempre più fuoco cova sotto sempre meno cenere. Lo segnalano con forza crescente le battaglie per il diritto al lavoro, ma anche quelle per il diritto al paesaggio, sancito dalla Costituzione ma calpestato dalla bassa politica. Dagli orrori che ci circondano può venire qualche speranza? Forse. A Palermo due convegni rivali, convocati sullo stesso tema lo stesso giorno (16 dicembre), hanno gettato sul tappeto il tema del recupero della costa sud-est, sette chilometri di discariche e pessima edilizia in un paesaggio che fu di miracolosa bellezza, e questo mentre in Comune si lavora a possibili piani di recupero, in bilico fra vera resurrezione di un’area deturpata e pretese esigenze di un turismo straccione. È dunque tempo di parlare dei meccanismi che devastano non solo città e paesaggi, ma anche la cultura civile e giuridica sulla quale per secoli si è fondata la loro tutela e la loro bellezza. La dimensione di questo tradimento obbliga a pensare con urgenza alle prospettive di un possibile riscatto, prendendo coscienza di un dato elementare ma dimenticato: la difesa dell’ambiente e dei paesaggi non è un lusso estetico di anime belle, ma un diritto da reclamare nell’interesse della collettività.

Con perversa metamorfosi, le nostre città si tramutano in agglomerato di periferie, divorando al tempo stesso il loro cuore antico (il “centro storico”) e la circostante campagna o, come a Palermo, la costa. Dobbiamo ormai considerare sotto una stessa rubrica nozioni un tempo opposte, come centro/periferia o città/campagna. Fra l’una e l’altra corrono confini difficili da fissare, da regolare, da vivere. Periferie, spazi residuali, non-luoghi, “zone grigie”, junk space, rovine urbane: queste e altre categorie del discorso frammentano la forma della città, appestano il paesaggio storico. Abbagliati da una colpevole estetizzazione dello spazio, anche se devastato, tendiamo a non vedere intorno a noi croniche topografie del disagio individuale e sociale, e ci allarmiamo solo quando i veleni dell’ambiente minacciano la nostra salute. Ma il destino dei viventi e la qualità degli spazi sono due facce della stessa medaglia: fra l’inquinamento ambientale e l’inquinamento antropico prodotto dal dilagare di pessime architetture non c’è poi una gran differenza. L’uno colpisce la salute del corpo, l’altro la salute della mente. In una rincorsa al peggio, le brutture delle periferie e gli orrori delle discariche si nascondono a vicenda, ci accecano, ci impediscono di cogliere l’enormità del disastro che ci colpisce.

Nuove ricerche di sociologi, psicologi, antropologi definiscono lo spazio in cui viviamo come un formidabile capitale cognitivo che fornisce coordinate di vita, di comportamento e di memoria, costruisce l’identità individuale e quella, collettiva, delle comunità. Il grado di stabilità dei luoghi in cui viviamo è in diretta proporzione a un senso di sicurezza che migliora la percezione di sé e dell’orizzzonte di appartenenza, favorisce la produttività degli individui e delle comunità, innesca la creatività. Per converso, la frammentazione territoriale, la violenta e veloce modificazione dei paesaggi, l’obesità delle periferie provocano severe patologie individuali e sociali. Due formule vengono alla mente: “angoscia territoriale” e “di smorfofobia”. “Angoscia territoriale” non più nel senso (De Martino) di sradicamento dell’emigrante strappato ai propri orizzonti, ma come ansia di chi resta nei propri luoghi e non li riconosce più perché devastati da mostri di cemento o da montagne di detriti che ne annientano la familiarità. La nozione complementare di dismorfo-fobia descrive bene il passaggio dalla dimensione individuale a quella collettiva: nella pratica psichiatrica essa definisce i disturbi psichici di chi non accetta il proprio corpo come è, e lo vive come una “forma distorta” (questa l’etimologia greca di dis-morfo). Ma anche la forma distorta della città e dei paesaggi provoca sofferenze individuali e disturbi del corpo sociale. Più grave di ogni dismorfo-fobia individuale è la dismorfo-fobia delle comunità.

Il progressivo abbandono dei centri storici (a Palermo come a Venezia) da parte della popolazione residente lascia dietro di sé una scia di edifici in abbandono, che presto si trasformano in precari insediamenti di immigranti, nuovi poveri, disoccupati, esclusi. Edifici storici anche di massimo pregio vanno in rovina, e la sola ricetta finora escogitata per rimediarvi è una frettolosa gentrification, che comincia con l’espulsione dei meno abbienti e agghinda i fabbricati aggiornandone non solo gli impianti igienici, ma l’intera struttura, a scapito delle sue caratteristiche storiche.

Ma non è questo il percorso di riscatto di cui le nostre città hanno bisogno. Città, paesaggio circostante, patrimonio artistico, ambiente formano un ecosistema di cui gli abitanti sono componente essenziale. Rigenerazione urbana e rigenerazione umana sono due facce della stessa medaglia, e non c’è salvezza per le città e i paesaggi che non passi per una politica del lavoro, massimamente per i giovani. Precisamente il contrario di quel che vanno facendo i nostri governi, puntando sull’edilizia in nome non dei cittadini ma delle imprese e soffiando sul fuoco di un’austerità eterodiretta che incrementa la disoccupazione. Senza neppure accorgersi che il restauro dei paesaggi e la messa in sicurezza del territorio e dell’ambiente è la sola grande opera di cui il Paese ha bisogno, e che merita fortissimi, immediati investimenti.

Un tal riscatto deve incidere sulla realtà, trasformandola in nome di un orizzonte di diritti, in cui democrazia e legalità costituzionale facciano tutt’uno. Sfidando i confini difficili dentro e intorno alla città, ripudiando il ruolo di spettatori passivi che il cinico uso speculativo degli spazi sembra averci riservato. Ma i cittadini (e le associazioni) lo sanno sempre più chiaramente: è venuta l’ora di vedere nello spazio che abitiamo non una merce passiva da sfruttare ma il vivo scenario di una democrazia futura, innervata dal diritto al paesaggio (art. 9 Cost.) e dal diritto al lavoro (art. 4).

«Cosmopoli multietnica e multireligiosa, città-mondo ed economia-mondo sono i termini che usiamo per indicare ieri Venezia, oggi New York, Hong Kong o Mumbai». Doppiozero online, 19 dicembre 2016 (c.m.c.)

Da Weber e Simmel a Saskia Sassen, la città è cosmopoli, riunisce e ‘ordina’ (kosmos) individui diversi per estrazione sociale e provenienza geografica, non tutti cittadini però – la città da sempre ospita molte figure intermedie e provvisorie, spurie. Molto più degli Stati che confinano ed espellono, le città sono luoghi di mescolanze e ibridi, con tutti i significati e i valori che ciò porta al processo di civilizzazione. Come quest’ antico lascito sia tuttora vitale è un aspetto non trascurabile della nostra visione del mondo.

1. Ieri

Venezia, come dimostra il materiale iconografico raccolto in “Venezia, gli Ebrei e l’Europa 1516-2016” a cura di Donatella Calabi ed esposto in mostra al Palazzo Ducale di Venezia, è il luogo simbolico di una sorprendente pagina di storia del cosmopolitismo europeo. Ci si aspetterebbe che la formazione nel 1516 del primo ghetto d’Europa fosse processo di chiusura, persecuzione di minoranze religiose e prototipo di ogni futura segregazione. E invece la città ha lì sperimentato, in un’epoca di espulsioni e forzate conversioni, di crociate e di stermini a sfondo religioso guidati dall’Occidente, un mix di convivenza etnica e religiosa che prepara la moderna cosmopoli: forse unica Utopia del nostro tempo segnato da nuove linee di frattura.

La ragnatela delle persecuzioni antiebraiche nei due secoli che precedettero il ghetto veneziano, dalla Spagna e Portogallo alla Francia agli staterelli di ciò che restava del Sacro Romano Impero germanico, rende ancora più forte ed ‘eccentrica’ la scelta della Repubblica veneziana di ospitare, certo circoscrivendoli in uno spazio controllato, gli Ebrei in città.

Già essi erano internamente articolati (italiani tedeschi levantini portoghesi) e parlavano lingue e praticavano riti diversi, come testimoniano le diverse sinagoghe (italiana, spagnola, levantina). Ma l’intera città era un mosaico di comunità straniere, ospitate e circoscritte: albanesi, greci ortodossi, turchi, arabi, persiani, tedeschi. Ne rintracciamo ancora i segni nel tessuto urbano.
‘Zone naturali’, simili a quelle che a Chicago saranno create nell’immigrazione del Novecento colorandosi di italiani, polacchi, irlandesi, ebrei (cui il sociologo Louis Wirth dedica nel 1928 “The Ghetto”, storia della comunità ebraica che nella metropoli si auto-seclude e quando la seconda generazione di immigrati cercherà di abbandonare quello spazio, fatalmente li riattrarrà ‘costringendoli’ a tornare volontariamente sui propri passi).

A Venezia la chiusura del ghetto, la sorveglianza notturna lungo il canale perimetrale imposta agli (e pagata dagli) stessi Ebrei a opera di custodi cristiani, gli insulti che accompagnavano le imbarcazioni che portavano i feretri al cimitero ebraico del Lido: sono tutti aspetti ben documentati, compresi gli effetti imprevisti eppure benefici come l’apertura ad opera degli Ebrei di un nuovo canale (il canale degli Ebrei a Castello) per far transitare quei feretri, che porterà vantaggi a tutta l’economia urbana.

Ma colpisce la porosità urbanistica e culturale del confine imposto, il dialogo tra veneziani ed Ebrei anche lungo e nonostante quel bordo, e soprattutto l’apertura diurna che permette agli Ebrei di alimentare tutte le attività e i traffici della città commerciale. Il dialogo è raffigurato dall’incantevole Carpaccio nella predica di santo Stefano, in cui si affollano turbanti e lunghe barbe ad ascoltare il santo in un paesaggio urbano che è Venezia e insieme Gerusalemme. Perfetta rifrazione urbanistica del dialogo tra due mondi culturali. Innovazioni urbane e dialogo filosofico che si svolgono al più alto livello intellettuale tra Ebrei e cristiani.

La mancanza di spazio poi produce quella rilevante innovazione della crescita verticale delle abitazioni del ghetto Nuovo e Nuovissimo, quella piccola Manhattan che ancora si visita con sorpresa alzando gli occhi verso l’alto nel sestiere di Cannaregio. E poi colpisce la forte integrazione dell’élite ebraica nell’élite veneziana, documentata intorno a figure che tra Sei e Settecento rallentano la lunga braudeliana decadenza della Repubblica. La ricchezza degli Ebrei, che non poteva tradursi in rendita urbana per mancanza di titolo alla proprietà immobiliare, si traduceva in flussi finanziari, in moneta circolante: inaugurando nei banchi degli Ebrei la filosofia del denaro di Simmel e forse la finanziarizzazione del capitalismo contemporaneo.

Quando nel 1797 Napoleone abbatte le porte del ghetto la città festeggia, è cosmopolitismo anche politico e non solo economico quello degli Ebrei veneziani che inneggiano ai princìpi della rivoluzione francese, iniziando un’epoca di assimilazione che continua nell’Otto e Novecento. Il ritorno al ghetto degli Ebrei veneziani sopravvissuti alla Shoah chiude con una foto sobria il percorso della mostra.

2. Oggi

Cosmopoli multietnica e multireligiosa, città-mondo ed economia-mondo sono i termini che usiamo per indicare ieri Venezia, oggi New York, Hong Kong o Mumbai. A New York il 35,8 % della popolazione è nata fuori ed è immigrata, a Hong Kong il 40 %, mentre a Mumbai l’altissima percentuale di immigrazione viene dal subcontinente indiano. Le logiche spaziali di ghetto (o di slum a Mumbai) hanno a lungo segnato queste città-mondo.

Oggi la segregazione, o auto-segregazione, si declina come mescolanza incessante e porosità dei confini. La diversità etnica è cresciuta negli ultimi tre decenni creando mescolanze e accentuando segregazioni: a New York vivono oggi due milioni di Asiatici (sono raddoppiati in 20 anni), molto segregati spazialmente e socialmente anche se non sempre in aree svantaggiate come gli Afro-americani. Oggi a New York più della metà delle famiglie è concentrato nelle aree più povere oppure in quelle più ricche, mentre le aree a medio reddito della middle class si sono ridotte scendendo dal 65 al 44 % nelle metropoli americane.

A Hong Kong invece, dove la middle class sta crescendo in modo fortissimo, la crescita urbana ad alta densità si concentra nei nuovi quartieri di edilizia pubblica (che raggiunge il 50% dell’intero stock edilizio, la percentuale più alta al mondo di public housing) e la mescolanza sociale ed etnica si esprime in forme nuove: la recente e tuttora in corso mobilitazione politica di Hong Kong è anche il frutto di questa crescita. A Hong Kong ci sono attivisti, associazioni di welfare e movimenti sociali molto simili a quelli occidentali.

A Mumbai metà della popolazione, cioè sei milioni di persone, vive in slums che crescono a fianco delle aree più ricche ed esclusive: nello slum semplicemente abitano i domestici, lavoranti, custodi e autisti delle case in cui vivono i ricchi Global Indians, mentre nello stesso tempo si sviluppano città satelliti e new towns come Navi Mumbai, dove si concentra la nuova classe media in aree a bassa densità (tre volte meno dense della incredibile densità media di Mumbai) e servizi urbani avanzati.

Rispetto alle relazioni ‘centrale-locale’ di chiara origine imperiale (vecchia e nuova), il mondo si sta ridefinendo come glocale. Il globale e il locale non sono due piani o pianeti posti uno sopra l’altro, uno alto l’altro basso, essi sono lo stesso piano: nastri e circuiti entro cui fluisce la società globale. Alta e bassa, insieme: anche se nuove segregazioni spaziali e abissali distanze di ricchezza si sono moltiplicate negli ultimi tre decenni. Ogni discorso sulla glocal city, sulla città smart etc. dovrebbe andare in questa direzione: identificarne i crocevia, le intersezioni, i nodi del mondo e gli incroci.

Occorrerebbe ridisegnarne la geografia sociale. Sul piano dell’informazione, a formare un recente strato virtuale che si sovrappone agli altri strati formatisi nel tempo lungo ci sono: le reti, le imprese, gli users, gli Internet exchange, i linguaggi funzionali, l’Internet fisico della logistica delle merci, ecc. Sul piano dell’urbano (la dimensione planetaria dell’umanità globale, con diverse piegature e ispessimenti localizzati) essi sono le città, i flussi, le agenzie funzionali, i think-tank, le comunità trans-nazionali e diasporiche, ecc.
Per questo l’urbanizzazione planetaria non ha più alcun ‘interno’ ed ‘esterno’ ma tutto succede allo stesso tempo e nello stesso spazio, come scriveva Lefebvre. Possiamo riconoscere i nodi di un intelletto metropolitano espanso, non più confinato in alcuna amministrazione locale né dipendente da alcun centro nazionale. Le nostre reti, agenzie, funzioni, politecnici, piattaforme sono le basi di nuovi raggruppamenti, cluster, assemblaggi di cui è fatta la società globale; in attesa che altre istituzioni a scala planetaria possano emergere dalla crisi attuale.

Filone di Alessandria coniò il termine megalopoli in un’altra grande crisi, quella ellenistica; per il filosofo ebraico alessandrino megalopoli era un ‘mondo di idee’ che predetermina e dirige il mondo materiale in cui viviamo. Quel cosmopolitismo ellenistico, sostiene Sloterdijk, fu il tentativo di rendere l’anima capace di sopportare l’esilio attraverso l’ascesi; quello moderno è invece l’impresa di fornire ai corpi dei turisti lo stesso comfort dovunque essi vadano. Nella prima Ecumene il mondo della mescolanza, il Mediterraneo, si disfece senza più ricomporsi. Sta succedendo ancora oggi nella seconda Ecumene, negli spazi globalizzati in cui l’ultima Utopia cosmopolitica potrebbe tramontare.

Come Venezia ieri, l’Europa oggi può costruire il suo cosmopolitismo non tanto sulla dimensione delle sovranità territoriali delle nazioni o sul numero delle persone che esse ricevono e ospitano, quanto sulla capacità di trascendere questa espansione visibile e nell’allargare il proprio orizzonte geopolitico in un’area di gran lunga più vasta.

Intanto altri ibridi geopolitici si stanno formando, in altre parti del mondo, che spingono nelle più diverse direzioni: a Hong Kong, a Taiwan, a New York, ad Abu Dhabi sullo sfondo di passate e recenti colonizzazioni si mescolano popolazioni, tecnologie ed ecologie producendo utopie e distopie, razionalità tecniche ed esternalità negative, conflitti e nuove schiavitù di cui il nostro secolo sarà a lungo testimone.

Non tutti gli abitanti vivono in quelle che chiamiamo città. Le recenti elezioni Usa hanno reso evidenti le differenze. Non è solo questione da "urbanisti". O almeno, non dovrebbe. Se i mass media e la politicafossero un po' più attenti.... Millenniourbano, online,16 novembre 2016

Nei giorni immediatamente successivi alla elezione di Donald Trump le mappe che visualizzavano la distribuzione del voto per stati e contee mettevano in evidenza la profonda divisione elettorale tra aree urbane, suburbane e rurali. La transizione tra le alte percentuali di voto per Clinton nelle aree centrali delle grandi citta che si ribaltano nel massiccio consenso per Trump nelle contee rurali passa attraverso la densità insediativa. Nei cinque distretti urbani di New York City, ad esempio, solo a Staten Island – il più suburbano per caratteristiche insediative, con una densità di abitanti per chilometro quadrato che è meno di un terzo di quella media della metropoli – ha prevalso il voto per Trump.

La popolazione americana per circa due terzi vive in aree urbane, ma oltre la metà di essa abita gli sterminati suburbi che definiscono le Metro Areas, dove al centro c’è appunto la città vera e propria. Per Sarah Palin, già candidata alla vice presidenza e fondatrice del Tea Party, la “vera America” è rappresentata dalle piccole cittadine attorniate da vasti territori rurali. L’avversione per le città e per la pianificazione urbanistica, che ad esempio emergeva dalla piattaforma elettorale del Partito Repubblicano nel 2012 , riguarda lo stile di vita americano – basato sulla proprietà privata della terra, sulla casa unifamiliare, sull’auto e sulla mobilità individuale – messo in discussione dalla regolazione dell’uso del suolo di cui le città hanno più bisogno. Secondo questa visione gli investimenti pubblici nelle infrastrutture urbane sono un attacco diretto all’individualismo tipico dell’American Way of Life.

Tuttavia la visione negativa delle grandi città negli USA ha una storia bipartisan: se i conservatori hanno descritto le città come focolai del vizio e del crimine, con un livello eccessivo di diversità etnico-culturale e di regolamentazione governativa, molti liberals si sono schierati a favore dei centri di piccole dimensioni, sostenendo il decentramento della popolazione urbana in insediamenti in cui le persone avrebbero potuto formare ciò che era visto come una forma più autentica di comunità. Il New Deal di Franklin Delano Roosevelt, attraverso la sua agenzia Resettlement Administration, ha promosso la realizzazione di insediamenti decentrati – sul modello delle comunità cooperative autosufficienti ispirato alle Garden City britanniche – che avevano l’obiettivo di far fronte alla carenza di alloggi popolari nei grandi centri urbani e di impiegare la mano d’opera disoccupata per la loro realizzazione.

Le tre Greenbelt community effettivamente realizzate nelle aree metropolitane di Washington D.C. (Greenbelt), Cincinnati (Greenhills) e Milwaukee (Greendale), pur realizzate da una agenzia governativa, hanno anticipato il successivo sviluppo suburbano attuato dal settore immobiliare provato nel quale si è riversata la classe media e bianca nel secondo dopoguerra e che ha incarnato l’individualismo della casa unifamiliare e dell’auto privata.

La linea di demarcazione tra città e sobborghi ha così finito per coincidere con la questione razziale che oggi è alla base delle affermazioni di Trump contro le inner city. Quando egli afferma che le aree centrali delle metropoli americane sono un disastro il rimando alla estrema diversità etnica come problema non può non essere colto. Se qualcuno avesse dubbi in proposito provi a dare una occhiata al sito di informazione Breitbart.com, già diretto dall’attuale consigliere politico di Trump Stephen Bannon, e vi troverà numerosi articoli in cui le grandi città americane sono associate all’aumento degli omicidi, del crimine e delle rivolte razziali (Black Lives Matter).

Eppure – afferma Steven Conn che due anni fa ha pubblicato Americans Against the City: Anti-Urbanism in the Twentieth Century (Oxford University Press) – non si può non notare che si è innescato un processo di controtendenza rispetto alla fuga dalla città degli anni 50 e 60. Al di là dell’Urban Renaissance che sta riguardando le aree centrali delle grandi città americane – oggi molto desiderabili e sempre più inaccessibili ai redditi medio-bassi – numerosi sobborghi stanno in realtà diventando progressivamente più urbani. Costruiti in origine come antitesi alla città, questi insediamenti vogliono ora dotarsi di strade percorribili a piedi, di mezzi pubblici e di quelle funzioni che caratterizzano le città. Si tratta di un processo di riconoscimento dei vantaggi della vita urbana trai quali vi è anche la diversità sociale e etnica. Ciò spiega la loro crescente diversificazione in quanto a composizione demografica.

Sarà in grado questo processo di rimodellare, nel lungo periodo, l’attitudine dell’americano (bianco) medio verso le grandi città? Il contro esodo nelle inner city di coloro che hanno tra i 20 e i 30 anni e in maggioranza non hanno votato Trump sembra indicare che l’America urbana e multietnica, che ha in larga parte contribuito ad eleggere il primo presidente di colore, potrà in futuro essere decisiva per evitare l’esacerbarsi delle differenze basate su appartenenza etnica, censo e luogo di residenza. Con l’elezione di Trump ha vinto l’America che odia le città ma quella che invece le apprezza potrebbe forse diventare decisiva alla prossima tornata elettorale, ammesso che vivere lì non diventi un privilegio di coloro che riescono a far fronte a valori immobiliari in forte crescita. A questo riguardo il ruolo dei sindaci – per lo più democratici nelle grandi città americane – sarà decisivo nel confronto con un governo federale marcatamente anti-urbano.

«Contrassegnando il suo piano con la bandiera del rinnovamento urbano, Trump ritorna al passato, ad un periodo della storia urbana statunitense che ha avuto impatti devastanti sui quartieri dove erano insediate le minoranze etniche, come ci ha raccontato Jane Jacobs in Vita e morte delle grandi città». Millenniourbano, 8 novembre 2016 (c.m.c.)

Ciò che il candidato repubblicano alle elezioni presidenziali degli Stati Uniti pensa in materia di politiche urbane è molto semplice e si può riassumere con quel inner cities are a disater che ha dato molto da scrivere ai periodici statunitensi. Forbes, ad esempio, smentisce l’affermazione citando i prezzi degli immobili in crescita del 52 per cento negli ultimi 6 anni nelle aree centrali delle 31 maggiori aree metropolitane e precisando quale significato abbia attribuito all’espressione inner city, ovvero l’area definita da un raggio di cinque chilometri dal centro geometrico di una certa città.

Qui emerge il primo problema della semplificazione di Trump: quando si parla di aree centrali delle metropoli statunitensi non è chiaro a cosa ci si riferisca. Inner city, a differenza di metro area, non è un’entità statistica. Più che altro è un luogo comune dell’immaginario collettivo statunitense e bianco che fa riferimento ai quartieri a maggioranza non bianca dei settori centrali delle grandi aree metropolitane.

Da lì ha tratto origine il grande flusso verso i sobborghi residenziali che ha caratterizzato la storia urbana del Nord America dal secondo dopoguerra in poi, ma è proprio nei quartieri centrali delle metropoli americane che si sta verificando l’inversione di tendenza di cui scrive Forbes. A Boston, ad esempio, le case del centro costano il doppio di quelle delle zone residenziali limitrofe: se dobbiamo attenerci alla sola legge della domanda e dell’offerta vivere in centro a Boston è due volte più desiderabile che abitare in qualche sobborgo della sua area metropolitana.

Il newyorchese Trump di quartieri centrali delle grandi metropoli se ne intende: la società immobiliare di famiglia è stata un attore importante dell’offerta abitativa a New York City dove ha realizzato complessi residenziali nei quali l’accesso delle persone di colore è stato molto ostacolato (le richieste provenienti da famiglie non bianche venivano contrassegnate con l’iniziale C della parola colored e quasi sempre rigettate).

Come molti altri imprenditori del settore immobiliare anche Trump ha contribuito alla segregazione delle minoranze etniche nei complessi di edilizia residenziale pubblica, poi stigmatizzati per le loro condizioni “infernali”. Eppure tutto ciò non gli impedisce di scrivere in “New Deal for Black America: With a Plan for Urban Renewal” che «anno dopo anno la condizione dei neri in America peggiora. Le condizioni nelle nostre città sono oggi inaccettabili». Il piano propone esenzioni fiscali per gli investimenti nei settori centrali delle città e l’utilizzo del denaro risparmiato con la sospensione dei programmi di accoglienza dei rifugiati in investimenti «nei nostri centri urbani» e in programmi «per far rispettare le nostre leggi». La retorica populista della «nostra gente» riguarda evidentemente le due sponde dell’Atlantico.

Le strategie del piano di Trump omettono una realtà importante: non tutti gli afroamericani vivono nelle inner cities. L’evidenza invece mostra che anche gli afro-americani, come ogni altro gruppo etnico degli Stati Uniti, sono una realtà troppo diversificata per generalizzazioni di questo tipo.

Il termine inner city, che ha guadagnato popolarità attraverso il lavoro di teorici urbani e di sociologi tra gli anni sessanta e settanta del secolo scorso ed è ampiamente servito per indicare le comunità non bianche delle aree più centrali dei sistemi metropolitani, non fa giustizia di una realtà in profondo cambiamento.

L’Urban Institute ad esempio evidenzia come ad Atlanta – una delle aree metropolitane a più rapida crescita – gli afro-americani vivano ben oltre la città centrale e i quartieri prevalentemente neri siano dispersi in tutto il paesaggio metropolitano. Solo il 12 per cento dei residenti neri della città metropolitana di Atlanta vive all’interno del perimetro municipale della città di Atlanta.

Contrassegnando il suo piano con la bandiera del rinnovamento urbano, Trump ritorna quindi al passato, ad un periodo della storia urbana statunitense che ha avuto impatti devastanti sui quartieri dove erano insediate le minoranze etniche, come ci ha raccontato Jane Jacobs in Vita e morte delle grandi città.

L’Urban Institute denuncia, dati alla mano, quanto la narrazione di Trump degli afroamericani e delle altre minoranze come gli unici abitanti delle inner cities sia falsa, obsoleta, e tesa a perpetuare le condizioni che hanno consolidato le condizioni di povertà nei quartieri a maggioranza non bianca.

Da una parte egli invoca politiche pubbliche per risolvere i problemi urbani e dall’altra minimizza la storia problematica delle città americane grazie alla confusione tra inner cities e minoranze etniche. Il suo discorso finisce per far coincidere le ancora irrisolte questioni urbane degli Stati Uniti d’America e con i persistenti problemi razziali. Nella semplificazione a fini elettorali ciò significa contrapporre i bianchi dei sobborghi alle minoranze etniche delle zone urbane centrali, anche se ormai è ampiamente noto che questa distinzione abbia smesso di essere applicabile alle aree metropolitane americane.

Cosa dice a noi della sponda europea dell’Atlantico la retorica di Trump sulle grandi città? Che la questione della diversità delle popolazioni insediate al centro delle aree metropolitane più che una debolezza va considerata come un elemento di forza, cosa che viene indicata proprio dal cosiddetto Rinascimento urbano d’oltre oceano dove le differenze etniche dei quartieri centrali non hanno affatto ostacolato il processo di valorizzazione segnalato dal mercato immobiliare.

Da noi si fa ancora fatica ad andare oltre la narrativa della città centrale come unica espressione possibile della nostra cultura urbana ma è proprio cogliendo tutte le differenze che anche qui hanno trovato spazio nei sistemi metropolitani che la politica potrà forse capire e dire qualcosa di più sulle trasformazioni non sempre negative delle nostre grandi città.

Il documento presentato in una gremita assemblea internazionale a Quito (Ecuador) dovrebbe costituire il riferimento strategico per le trasformazione urbane del prossimo ventennio. Abbiamo chiesto una illustrazione alla nostra redattrice, che è stata coinvolta nel lavoro di preparazione del documento.

La Dichiarazione di Quito dall’accattivante titolo“Città e insediamenti umani sostenibili per tutti”, di cui la stampa sta inquesti giorni informando, merita un commento un po’ più ampio di quello che lecronache quotidiane possono permettersi. E’ il risultato di un processo che siè sviluppato in molti mesi e, data l’autorevolezza della fonte (le Nazioni Unite),avrà un impatto notevole sull’opinione pubblica e contribuirà a determinare ilpensiero comune.

Si tratta della terza Agenda Urbana a partire dal1976. Come le precedenti, ha l’obiettivodi orientare le politiche urbane per il prossimo ventennio. È sostanzialmenteuna sintesi delle politiche urbane dominanti negli ultimi vent’anni: buonipropositi e buone strategie, ma “moderate”, così da non mettere in discussionelo sviluppo economico dato e non intralciare il finanzcapitalismo[1]e le speculazioni immobiliari ad esso collegate.
Ho partecipato allo svolgimento del percorso dipreparazione dell’Agenda all'interno del gruppo sulle politiche per lagovernance (Policy Unit 4: UrbanGovernance): credo che la sintesi migliore sia proprio nel titolodell'articolo che Il Sole 24Ore ha dedicato all’evento: “Urbanizzazione per losviluppo”; in altri termini, come obbligare città e governi a indebitarsi congli investitori e i developers, checostruiscono l'espansione delle città per fini puramente monetari, e come ulteriormente trasformare terraagricole a questo scopo.

Il documento contiene tutte le “parole chiave” chehanno gonfiato il dibattito urbano internazionale, dalla parola storica - maancora in testa alle classifiche - “sostenibilità” fino alla parola “resilienza”, l’ultima arrivata. Neldocumento si parla moltissimo di esclusione, iniquità, povertà, problemiambientali e climatici, e c’è una sincera preoccupazione per tutti questifenomeni, ma senza mai mettere in dubbio la benevolenza del modello di sviluppoattuale - quel modello che comporta l’urbanizzazione a tutti i costi e losfruttamento la città “come motore di sviluppo economico”.
L’Agenda mirava ad essere “firmata” dagli statimembri, sebbene l’adesione non costituisca nessun vincolo o impegno. Ed è propriola ricerca a tutti i costi di un consenso, inutile, che ha costituito findall’inizio la rinuncia a provare a creare un documento progressista, creativoe innovativo.
Come strumento di partecipazione e sensibilizzazionedegli stati membri, l’Agenda non ha funzionato molto bene, poiché sono statipochi quelli che hanno avviato un dibattito nazionale[2].Ma certamente è servita per assicurare un larghissimo pubblico all’eventofinale che si è tenuto a Quito.
Un percorsopasticciato e opaco
Il testo finale è il risultato di un percorsopasticciato e poco trasparente, che tuttavia ha impegnato, per oltre un anno,moltissime persone, di diversi paesi ed esperienze ma sempre sotto la regia delSegretariato di Habitat III, che si è riservato la stesura finale del documento.Un Team delle Nazioni Unite, costituito da membri delle varie organizzazioni (conla Banca Mondiale e UN-Habitat sempre presenti), ha inizialmente preparato un documentocostituito da 22 Issues Papers (documenti tematici): una serie diquestioni cruciali da affrontare. Poi sono state costituite dieci Policy Units,ognuna composta da circa 20 esperti guidati da istituzioni con reputazioneinternazionale. Questi hanno lavorato da settembre 2015 ad aprile 2016,individuando punti critici, obiettivi e strategie in specifici ambiti (peresempio la Governance Urbana, il Diritto alla Città, l’Housing, etc.). Ciascundocumento (Issues paper e Policy Paper) è stato inviato aglistati membri e organizzazioni internazionali varie che hanno potuto commentare eproporre cambiamenti. Sulla base dei PolicyPapers il Segretariato di Habitat III ha preparato lo Zero Draftdocument (maggio 2016). Il documento è circolato tra i paesi membri, discusso in numerosiappuntamenti internazionali e revisionato diverse volte, fino ad approdare aQuito nella sua versione finale.
Tre punticritici
Vorrei commentare il documento, e l’insiemedell’iniziativa, su tre principali punti: l’obiettivo dell’Agenda, lo scontrosul concetto “diritto alla città” e un’omissione importante.
L’obiettivo
L’Agenda Urbana dovrebbe esprimere una visione,dei diritti e principi che possiamo assumere come universali, ma non ancorariconosciuti; e forse degli orientamenti strategici. È una fortuna che ildocumento sia rimasto sul terreno generale (e universale) dell’affermazione diprincipi e indirizzi strategici validi per tutte le regioni del mondo.L’imposizione di “modelli” e “regole di governo” da applicare a tutte le cittàe territori del mondo sarebbe devastante, almeno per chi condivide l’idea chela diversità è una ricchezza, e che i diversi contesti ambientali, sociali e culturalirichiedono strategie e tattiche diverse. Fare altrimenti (come qualcunovorrebbe), sarebbe stato un ulteriore strumento di omologazione nell’uso deglispazi, che avrebbe rafforzato i danni già provocati dalle tendenze attuali delsistema capitalistico.
Il “diritto alla città”
Per chi ha seguito da vicino la preparazione diquesta nuova Agenda Urbana, l’elemento più interessante è stato il braccio diferro tra coloro che volevano inserire il “diritto alla città” nel documentofinale e le grandi potenze che hanno espresso un opposizione aspra e tenace. IlSegretariato ha risolto il conflitto tra le grandi potenze e i sostenitoridell’inclusione del nuovo “diritto” (tracui i paesi dell’America Latina capeggiati dal Brasile) dando a questi ultimiun contentino: la citazione dell’espressione nel par. 11 relativo alla ‘visionecondivisa’[3].La formulazione è così ambigua cherisulta chiara la non condivisione del nuovo diritto. Ancora una volta lavolontà dei paesi del Nord del mondo ha prevalso su quella dei paesi del Sud.
L’inserimento del “diritto alla città” èstato ovviamente osteggiato perché potrebbe portare sia a rivendicazioni diriconoscimento del diritto in se - incluso quello di non essere costretto adandare in città - sia all’emergere di ulteriori rivendicazioni di misure per lasua messa in pratica: misure certamente non gradite perché potrebberointralciare il processo di urbanizzazione in atto, gli investimenti e iconseguenti profitti per alcuni dei soggetti (i meno, ma ricchi) eindebitamenti e sfratti scaricati sulle spalle di altri (i più, ma poveri).
L’omissione

Quest’ultima considerazione mi porta direttamentealla terza critica sostanziale all’Agenda urbana di Quito: una pesanteomissione, che ribadisce chiaramente da che parte stiano il mondo e le NazioniUnite. Questi ultimi vent’anni hanno visto ilmoltiplicarsi delle espulsioni, in tutti i paesi del mondo, soprattutto adiscapito delle popolazioni povere, minoritarie e fragili, proprio per effettodi questo modello. Nonostante le Nazioni Unite, in particolare UN-Habitat, abbianoin parecchi rapporti denunciato gli sfratti, questo documento non ha preso unaposizione decisa al riguardo, espressa da più parti nel corso della stesura deipolicy papers, e da molti movimenti e organizzazioni nazionali e internazionali[4].

Il linguaggio è sempre cauto, mai una denuncia decisa e un impegno a impedirele espulsioni, ma piuttosto un impegno a) promuovere politiche della casa atutti i livelli che portino progressivamente a prevenire le espulsioni forzatearbitrarie; b) a incoraggiare politiche che prevengano le espulsioni forzatearbitrarie; c) promuovere lo sviluppo di adeguati e attuabili regolamenti percombattere e prevenire la speculazione, trasferimento e espulsioni forzatearbitrarie[5].(par.107 e 111 del capitolo relativo all’implementazione).

I tre professori con il segretario di UN-Habitat

A concludere la conferenza Habitat III di Quito, econquistare la platea, è stato l’annuncio del “Quito Papers” da parte deiprofessori Saskia Sassen, Richard Sennet e Richard Burdett - già protagonistidel Convegno “Conflicts of an Urban Age” [6] - edi Joan Clos, direttore esecutivo di UN-Habitat, nonché persona di primo pianointernazionale (ex sindaco di Barcellona) e protagonista di Habitat III.
A partire da una forte critica della Carta diAtene, dei principi del Movimento Moderno e delle gated communities, che dovrebbero essere considerate illegali,Sennet sostiene che le città dovrebbero consentire a molte cose diaccadere contemporaneamente, e non dovrebbero aspirare a raggiungere un statoconcluso, ma essere sempre in un processo di incompletezza. Leggendo ilresoconto dell’incontro di Citiscope,avrei voluto sentire una denuncia alleespulsioni, ampiamente descritte e argomentata da Saskia Sassen nel suo ultimolibro Espulsioni[7].
Invece, anche i sociologi sembrano cadere nellatrappola di ritenere che la progettazione urbana sia la chiave per affrontare inostri problemi. A dicembre sarà pubblicato il loro testo, già dichiarato “uncontrappunto intellettuale” alla Urban Agenda. Temo che invece si tratterà diuna traduzione in chiave più progettuale – quindi destinata a rivitalizzare ilruolo dell’architettura e dell’urban design – della Agenda attuale. È unaposizione, del resto, già anticipata al citato convegno LSE-Urban Age daRichard Burdett: un invito ad abbandonare le lotte sociali e buttarsi sulla progettazione.Potrebbe essere invece un invito a un serio pragmatismo, a tentare una viadiversa per catalizzare il cambiamento, ma con la piena consapevolezza cheanche la progettazione dello spazio deve essere politicamente e ideologicamenteschierata? L’appuntamento è a dicembre.



[1] Mi riferisco a quella mutazione del sistema economicocapitalista, che Gallino ha appunto definito “finanzcapitalismo” (Luciano Gallino,Finanzcapitalismo, Einaudi, 2011),per la quale si è passati ad assumere la ricchezza monetaria come unicafinalità dello “sviluppo” e che comporta il saccheggio delle risorsedisponibili, l’incremento dell’indebitamento delle famiglie e degli stati e losfruttamento del territorio come fonte di rendita e di rendita percepita.
[2] L’Italia, come la maggior parte delle nazioni, hapreparato il suo Rapporto Nazionaleda inviare a Quito, con il coordinamento del Consiglio dei Ministri e il Dipartimentoper le Politiche di Coesione, e la collaborazione di una settantina di personee diverse istituzioni tra cui l’ Anci e l’Istituto Nazionale di Urbanistica(INU). In realtà è mancato completamente un confronto e la raccolta di commentiè stata completamente lasciata alla libera iniziativa delle personedirettamente coinvolte. Così come pochissima diffusione è stata data al documentostesso.
[3] Qui di seguito il testo integrale: “We share a vision of cities for all, referring to the equal use and enjoyment of cities and human settlements, seeking to promote inclusivity and ensure that all inhabitants, of present and future generations, without discrimination of any kind, are able to inhabit and produce just, safe, healthy, accessible, affordable, resilient, and sustainable cities and human settlements, to foster prosperity and quality of life for all. We note the efforts of some national and local governments to enshrine this vision, referred to as right to the city, in their legislations, political declarations and charters.” (Habitat III, New Urban agenda. Draft outcome document for adoption in Quito, 10 September 2016, p. 2).
[4] Per esempio quelli che danno sostegno all’International Tribunal on Evictions, che a Quito si è riunito per un assembleanell’ ambito del “People’s Social Forum Resistance Habitat III”, un evento in contrapposizione a Habitat III. Siveda per esempiosu questo sito
[5]I tre punti sono stati estratti rispettivamentedai par. 31, 107 e 111 dell’Agenda. Di seguito il par.114, nel capito sulleimplementazioni (il corsivo è mio è mio) “We will encourage developing policies, tools, mechanisms, and financingmodels that promote access to a wide range of affordable, sustainable housingoptions including rental and other tenure options, as well as cooperativesolutions such as co-housing, community land trust, and other forms ofcollective tenure, that would address the evolving needs of persons andcommunities, in order to improve the supply of housing, especially forlow-income groups and to preventsegregation and arbitrary forced evictions and displacements, to providedignified and adequate re-allocation.” (Habitat III, New Urban agenda. Draft outcome document for adoption in Quito, 10September 2016, p. 14).
[6]Si legga a proposito l’articolo su eddyburg “Banche al fronte”di Paola Somma.
[7]Saskia Sassen, Espulsioni. Brutalità e complessità nell’economia locale, IlMulino, 2015.

Concluso a Quito Habitat III; organizzato dall'agenzia dell'ONU per casa città, territorio ambiente. Approvata l'Agenda urbana per il prossimo ventennio. Come ne racconta il significato e il senso la il giornale dell'associazione degli industriali italiani e affini Fra poco la racconta eddyburg. Il Sole 24 Ore, 23 ottobre 2016.

Dopo Parigi, Quito. Nella capitale più alta del mondo, 193 governi hanno firmato questa settimana la Nuova Agenda Urbana, che delinea le strategie globali di urbanizzazione per i prossimi vent’anni, sotto l’egida delle Nazioni Unite. Il documento, approvato nella conferenza Habitat III dopo mesi di negoziati delinea una visione ambiziosa di città compatte, sviluppate lungo assi di trasporto pubblico sostenibile e umanizzate da una crescita policentrica, che cerca d’indirizzare il processo d’inurbamento lungo linee nuove, per evitare il sovraffollamento selvaggio delle megalopoli. Fra i punti centrali della Nuova Agenda Urbana c’è il cosiddetto diritto alla città - «Le città sono per la gente, non per il profitto» -, un principio concepito per spingere i governi locali a una pianificazione che privilegi il pubblico sul privato.

Le città già oggi ospitano oltre metà dell’umanità, producono il 70% del Pil globale e sono responsabili del 70% delle emissioni di gas serra, ma continuano a espandersi: entro fine 2016, altri 70 milioni di persone si saranno spostati nelle aree urbane. Entro il 2030, ci saranno 41 megalopoli di 10 milioni di abitanti o più, contro le attuali 28. Entro il 2050, l’homo civicus avrà superato i 6 miliardi di persone, due terzi dell’umanità, e genererà oltre 2 miliardi di tonnellate di rifiuti l’anno.

D’altra parte, le città sono anche grandi catalizzatori di soluzioni per la sostenibilità. Entro il 2017, per esempio, 2,5 milioni di pendolari della metropolitana di Santiago del Cile viaggeranno ogni giorno su treni alimentati da energia solare ed eolica. Singapore ha aperto la strada per una gestione efficace del traffico fin dal 1975, grazie alla prima congestion charge. Città del Capo vanta gli obiettivi di risparmio idrico più ambiziosi del continente. San Francisco e Montreal hanno di gran lunga superato gli standard dei loro governi federali per le politiche in materia di diritti umani. Il ruolo pionieristico delle città nell’affrontare le grandi sfide è stato riconosciuto nell’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici e nei Millennium Goals dell’Onu.

La Nuova Agenda Urbana ha lo scopo di sfruttare questo dinamismo urbano come motore dello sviluppo sostenibile. Ma lo stato d’animo festoso che ha salutato l’esito dei negoziati a Quito non può celare i problemi di fondo. Come uno tsunami, le migrazioni spazzano rapidamente tutto il globo. I confini delle aree urbane di espandono, le città satellite crescono, la dispersione delle aree edificate aumenta. Quest’ultimo è lo sviluppo più dannoso per l’ambiente. La maggior parte degli insediamenti urbani, infatti, sono partiti dai terreni agricoli migliori lungo un corso d’acqua dolce, ricco di vegetazione naturale. Edifici, coltivazioni, pascoli e boschi spesso si sono sviluppati in anelli concentrici. L’espansione urbana quindi invade e inquina a un ritmo crescente risorse naturali preziose. Questo modello si applica per le città di ogni taglia, dalle più piccole alle più grandi (oltre 10 milioni di persone). Intorno ai bordi delle piccole e medie città degli Stati Uniti, da Salt Lake City a Denver, gli ecosistemi naturali si sono ridotti a zone sempre più frammentate e degradate. Allo stesso modo, Seul ha trasformato le zone verdi circostanti in un anello di parchi delimitato da autostrade

«Nel 2013 la città ha dichiarato la bancarotta. Ad aprile 2016 ha ospitato il primo Forum nordamericano dell’economia sociale solidale. È stata l’occasione per conoscere le iniziative comunitarie che ne fanno un laboratorio del futuro».Altreconomia online,23 agosto 2016 (c.m.c.)

Le superstrade a 6 corsie che circondano e attraversano la città una volta dovevano essere molto trafficate: oggi sono per lo più vuote. Detroit, Michigan, storica sede della “triplice” automobilistica (Ford, GM e Chrysler), è la città che meglio rappresenta la profonda ferita che ha colpito il Sogno americano. Qui è forte l’evidenza fisica dell’abbandono e della devastazione: interi palazzi vuoti, case bruciate, strade inagibili in buona parte delle periferie e del centro, edifici storici chiusi e pericolanti.

Nel 2013, Detroit ha presentato istanza di bancarotta, con un debito stimato di 7 miliardi di dollari. Da povertà, disperazione, inquinamento e marginalizzazione, però, sono emersi negli anni gruppi di cittadini attivisti (grassroots), dando vita a progetti e movimenti che stanno rivitalizzando la comunità. Per conoscerlo, Rich Feldman, che dopo aver lavorato alle catena di montaggio dell’industria automobilistica per 30 anni, facendo il sindacalista, è instancabile leader del movimento di giustizia sociale, organizza un tour a bordo di uno scuolabus giallo degli anni Sessanta, from Growing our economy to growing our souls (dal far crescere la nostra economia al coltivare le nostre anime).

Si attraversa l’Hope District: il quartiere della speranza ospita la fabbrica artigianale di patatine Detroit friends potato chips, che ha dato lavoro a molti giovani. Qui negli anni Ottanta si avviò la diffusione del crack, ma la comunità seppe reagire con le marce contro le crack houses e l’istituzione di Zone di Pace (per arrivare a risolvere i conflitti senza ricorrere alla polizia, considerata un “esercito d’occupazione”), dalla Detroit Summer e la Boggs School for Manual Arts (che prende il nome da James e Grace Lee Boggs, anime storiche del movimento americano per la giustizia sociale), forme alternative di educazione che hanno cresciuto generazioni di leader di comunità. Ed ha funzionato.

Il tour finisce nel cuore della East Side di Detroit, nei due isolati occupati dall’Hidleberg project: l’artista Tyree Guyton ha recuperato oggetti di uso quotidiano per creare un’area piena di colore, simbolismo e dimostrare il potere della creatività per trasformare la vita. Marciapiedi, alberi ed edifici raccontano in maniera estremamente vivace gli effetti della globalizzazione: ci sono le barche dei profughi sul prato, 10mila scarpe a rappresentare i cittadini che hanno perso la casa, un Humvee (il SUV corazzato) installato nel 2010 durante l’US Social Forum a simboleggiare il militarismo. Dentro ci è cresciuto un albero.

A Detroit tra l’8 e il 10 aprile si è tenuto il primo Forum nordamericano dell’economia sociale e solidale: attivisti statunitensi e canadesi hanno discusso su come far crescere il movimento diffuso ma invisibile per un’altra economia, cominciando dal “decolonizzare la nostra economia solidale” da modelli e pratiche che fanno parte dell’economia dominante: dal superamento della separazione tra produzione e consumo, di come si finanziano le attività e del cambiamento di senso di parole come “ricchezza”, “benessere”, “condivisione”, “sostenibilità”.

Il luogo che ha ospitato il Forum è il Samaritan Center: un ex ospedale pubblico abbandonato, ristrutturato da una fondazione religiosa e trasformato in un centro polivalente, dove si trovano 30 organizzazioni tra associazioni, micro-imprese, cliniche, un fab-lab e una scuola. Il Forum è stato organizzato da RIPESS-Nord America (che include reti come il U.S. Solidarity Economy Network , il Canadian Community Economic Development Network e il Chantier de l’économie Sociale del Quebec).

La plenaria si è svolta in una grande palestra, e ad aprirla è stata Tawana “Honecomby” Petty, del Boggs Center to Nurture Community Leadership: «In un’epoca di dualità, dove una città è destinata alla bancarotta per alcuni, eppure è ancora fiorente per altri, dove la tecnologia isola gli anziani mentre abilita i giovani, dove il sistema alimentare affama il suo popolo di vero nutrimento e contribuisce alla sua obesità, e dove la giustizia penale e i sistemi educativi abusano dei cittadini con il pretesto della sicurezza, è imperativo per noi re-immaginare il sistema nella sua interezza, e identificare e riconoscere i ruoli e il contributo che ognuno di noi può dare».

Un altro dei “visionari” (così definiti nel programma) ha preso la parola dicendo: «Stiamo costruendo l’infrastruttura del futuro, ma dobbiamo fare attenzione. La sfida è quella di diffondere l’economia solidale al di là della classe media, prevalentemente bianca, perché risponda anche ai bisogni di chi è economicamente escluso. E abbiamo bisogno dei media per raccontarne la storia, preparandoci per quando sarà mainstream..». A parlare è Gar Alperovitz, economista politico, fondatore dell’organizzazione Democracy Collaborative/Next System Project.

Chi ha chiaro un piano e una visione del futuro a lungo termine è senz’altro Blair Evans, direttore e mente dell’Incite focus, il primo “fab lab” di Detroit. Situato all’interno del Samaritan Center, questo laboratorio di “makers” è ben più di una “falegnameria hi-tech”. Ingegnere elettronico, Evans è insegnante di Fabbricazione digitale (presso il Massachusetts Institute of Technology) e istruttore certificato di permacultura, e ha ideato vari modelli d’impresa sostenibile per la produzione su base comunitaria, con partecipazioni miste pubblico-privato-no profit.

Il piano di Evans e dei suoi collaboratori prevede la formazione continua di giovani e disoccupati al lavoro del futuro, la fabbricazione a livello locale e micro-industriale (con stampanti 3D e tecnologie simili, auto-riproducibili e “open”) di tutto quello di cui possiamo avere bisogno, con risorse e materiali il più possibili reperiti a “km0”. Le aree di lavoro sono principalmente tre: l’ambiente naturale (attraverso forme di bio-mimesi, agroecologia e tecnologie appropriate), l’ambiente costruito (con la fabbricazione digitale) e l’ambiente invisibile (ovvero l’organizzazione delle strutture sociali, economiche e politiche di una comunità).

La sperimentazione prevede, ad esempio, la costruzione di case con materiali prodotti in Fab Lab, autosufficienti per gran parte delle necessità (energia elettrica, riscaldamento, acqua e gestione residui, orticoltura...) e in rete. Per il 2017 è previsto un primo Fab-co-working center di quartiere; per il 2020 un Fab Village; per il 2030 un Fab District e infine, per il 2054, la trasformazione di Detroit in Fab City...

In molti, intanto, credono che la rivoluzione passi per la capacità di produrre il proprio cibo. We cannot free ourselves until we feed ourselves” (non ci possiamo liberare fintanto che non siamo capaci di nutrirci autonomamente) è lo slogan coniato da Gerald Hairston, fondatore dei Gardening Angels (gli angeli degli orti), un movimento intergenerazionale e interculturale che ha “piantato i semi della speranza”, coivolgendo centinaia di individui e gruppi di vicinato a crearsi il proprio orto sociale: orti dei ragazzi, orti di scuola, orti d’ospedale, orti degli anziani, orti del benessere, orti di parrocchia.

Durante il tour della città si visita Feedom-Freedom Growers (nutrire i coltivatori di libertà), un progetto che ha come scopo quello di combattere l’obesità di molti ragazzi facendogli coltivare il proprio cibo, oltre ad organizzare mercatini della salute e feste di quartiere. Gli orti familiari sono migliaia, e seicento quelli comunitari: l’agricoltura urbana sta cambiando il volto della città e coinvolge giovani da tutti gli Stati Uniti. Naim Edwards è uno di questi. Giovane eco-biologo afroamericano, dalla Pennsylvania si è trasferito a Detroit da un anno. Mi ospita a dormire presso la sede della sua associazione, Voices for Earth Justice, che è anche la sua casa. Prima ci ha accompagnato per quartieri semi-abbandonati, dove spuntano orti e serre. Quello che gestisce, con tecniche agroecologiche, è condiviso.

New work, new culture” è invece un movimento nato da una “conversazione” di anni tra alcuni degli storici attivisti di Detroit, come Grace Lee Boogs, Frithjof Bergmann, Rick Feldman e Frank Joyce. Bergmann, in particolare, ne è l’anima filosofica (ex professore di filosofia dell’Università del Michigan): un simpatico signore su una sedia a rotelle che di sè dice di esser stato «contadino per tre periodi della mia vita» e quindi sa «bene cosa significhi vivere sulla terra e della terra». Nel seminario del Forum che ha introdotto, ha spiegato che «stiamo vivendo un cambiamento epocale: l’idea che abbiamo oggi del lavoro è esistita solo negli ultimi duecento anni, e costringe gli individui a fare quello che ‘devono’ fare, non quello che ‘vogliono’. A Detroit abbiamo un’opportunità eccezionale per promuovere una nuova cultura del lavoro che rimetta al centro la relazione tra le persone. Dobbiamo immaginare di lavorare per una comunità e così facendo, creare comunità».

L’icona di questo movimento è Grace Lee Boggs: l’ho conosciuta nel 2010, aveva 95 anni. Cino-americana, instancabile ispiratrice e protagonista di mille campagne, è vissuta -sempre attiva- fino all’anno scorso. Al Forum l’hanno celebrata, a partire dalle magliette con il suo slogan: “(r)Evolution”. Nel suo ultimo libro, postumo, scrive: «La prossima Rivoluzione americana non riguarda [...] rendere possibile a più persone di realizzare il sogno americano di mobilità verso l’alto. Si tratta di creare un nuovo sogno americano che abbia come obiettivo un’umanità più alta, invece di uno standard di vita più alto ma dipendente dall’Impero. Si tratta di praticare un nuovo, più attivo e partecipatorio concetto di cittadinanza».

Una calda descrizione della città d'oggi; non solo Roma. «Le grandi città sono diventate in-accoglienti per tutti coloro che non possono permettersi di andare in vacanza e neppure raggiungere il mare così vicino. Quel mare, comunque, che poco più al largo è diventato una gigantesca bara per tanti immigrati».

In questi mesi di caldo e di esodo (per chi può permetterselo) legrandi città si trasformano in un inferno per anziani, disabili, poveri, personecomunque sole, migranti in cerca di asilo e per chi abita in periferie lontane.Chi è in ospedale, chi cerca assistenza medica conosce bene quanto l’esistenzaquotidiana diventi particolarmente dura in questo periodo dell’anno. Mai comein questi mesi d’estate Roma diventa una città con due velocità e due realtà.Da una parte gli anziani, i malati, i disabili che cercano di sopravvivere allecrescenti difficoltà di reperire cure, assistenza, medicine e perfino cibo;dall'altra il flusso consumistico e ordalico di turisti che si snoda supercorsi prefissati, lontani dai primi. E Roma, in questi giorni, può diventarespietata con chi non ce la fa, con chi non riesce a procurarsi un riparo dalcaldo soffocante, per l’attesa infinita nei pronto soccorsi degli ospedali doveil personale è sempre carente.

Qua e là in città ci sono, la sera, luoghi dove fare qualche incontro,vedere all’aperto qualche film, passeggiare sulle banchine del Tevere, visitareil Maxxi, ascoltare concerti all’Auditorium. Ma sono luoghi esclusivi, per pochi; lamoltitudine attende in casa, come può, l’arrivo della sera, sperando che questanotte si possa dormire, che domani non ci sia fila alla ASL che ci sia qualcherisposta alla domanda di assistenza. E chi ha un genitore anziano e malato saquanto il lavoro delle badanti sia assolutamente insostituibile, a fronte deldiscorso pubblico contro gli immigrati che “tolgono il lavoro agli italiani”.

Le grandi città sono diventate in-accoglienti per tutti coloro (e sono la maggior parte) che non possono permettersi di andare in vacanza e neppure raggiungere il mare così vicino. Quel mare, comunque, che poco più a largo è diventato una gigantesca bara per tanti immigrati che fuggono da paesi sconvolti da cambiamenti climatici provocati dalle guerre e dalla crescita insensata dell’Occidente.

Fin dalle sue origini – afferma Cacciari – la città è investita da una duplice corrente di “desideri”. La vogliamo oikos, grembo materno, madre premurosa e accogliente, luogo di pace e di sicurezza e la vogliamo, al tempo stesso, “macchina efficiente”. Nelle cosiddette città globali - sistemi urbani che tendono all’espulsione degli abitanti più poveri sostituiti da spazi esclusivi riservati ai ricchi e ai cittadini part-time internazionali, per dirla con Saskia Sassen - come Roma, il secondo aspetto ha di gran lunga soverchiato il primo, tanto che si invocano fantasmagorie come le smart city, città furbette, qualcuno le ha definite, per abitanti idioti. Così che il dibattito sulla città è diventato un dibattito su come accaparrare risorse, come incrementare il turismo, o conferire incarichi favolosi ad archistar in grado di produrre brand. Le città diventano i luoghi dove si manifestano logiche finanziarie il cui obiettivo non è migliorare le città, ma aumentare i profitti d’impresa. Così gli abitanti diventano comparse, semplici residenti se non spettatori passivi di grandi eventi, espropriati del loro bene comune, tanto da sentirsi estranei, stranieri nella propria terra.

E’, invece, il discorso sull’accoglienza, sulla diversità culturale, sulla povertà, sullo stare insieme (antico fascino della città moderna) che si impoverisce e perfino appare fuori moda rispetto ai tempi dell’austerity, della prevalenza del capitale finanziario, del fare cassa, dell’avere successo, del collocarsi ai vertici della classifica planetaria, della competizione senza contenuti (vedi il caso nostrano del conflitto tra Torino e Milano per la detenzione della fiera dell’editoria).

Così si distruggono legami sociali, si sviliscono (o si contrastano) esperienze isolate di piccole comunità locali per creare mondi più accoglienti, si consuma suolo, si alzano muri, si accentua la solitudine urbana, si producono ulteriori conflitti, separazioni, esclusioni dolorose che si caricano di vendetta. Eppure la città rappresenta l’occasione più grande per trasformare la nostra realtà quotidiana, per perseguire l’utopia di una comunità in pace, di uno stare insieme solidale, per fare progetti su come vivere. Ma a Roma il dibattito sulla questione urbana rischia di avvitarsi intorno alle due (effimere) questioni dello stadio e della partecipazione ai giochi olimpici. Due grandi occasioni di rinnovamento, modernizzazione, guadagni, affermano i loro sostenitori; due grandi opportunità per la città che sarebbe suicida non favorire e realizzare. Teoricamente è vero, come è vero che perfino un terremoto rappresenta un’opportunità (e per alcuni lo è davvero) per una nuovo risorgimento urbano; bisognerebbe poi raccontarlo agli abitanti di L’Aquila che ancora non se ne sono resi conto.

«Ada Colau, da leader dell’associazione anti-sfratti a sindaca: le ricette per cambiare l’amministrazione e non tradire gli elettori». Il Fatto Quotidiano, 31 luglio 2016 (p.d.)

Ada Colau, un anno da alcaldessa : come sta trasformando la città?

Barcellona è una città che genera molta ricchezza, ma dove è cresciuta la diseguaglianza. Abbiamo messo in moto un piano di interventi per i quartieri con indicatori di povertà più alti: non vogliamo una città divisa in due. Poi siamo intervenuti sulla questione della casa, la crisi ha provocato migliaia di sfratti. Abbiamo contrattato con entità finanziarie appartamenti da affittare a canone sociale: in 4 mesi ne abbiamo ottenuti oltre 500; nei 4 anni precedenti erano stati appena 19. Abbiamo interpellato le grandi imprese energetiche, sottoscrivendo intese per evitare il taglio dell’erogazione di energia, il cui mancato rispetto darà luogo a sanzioni.

Che modello di sviluppo economico vi proponete?

Abbiamo fatto la moratoria delle licenze per nuovi appartamenti turistici (gli Airbnb, ndr) perché la situazione era fuori controllo, per fare del turismo un’attività sostenibile e solida. Stiamo scommettendo anche sulle energie rinnovabili.

Lei ha lanciato la costruzione di una rete delle città per l’accoglienza dei rifugiati.

L’Europa si è chiusa con una politica delle frontiere che viola i suoi principi giuridici oltreché etici, condannando migliaia di persone alla morte. Allora abbiamo detto che vogliamo essere “città rifugio”. Molte città spagnole ed europee vogliono essere città di accoglienza e così abbiamo fatto una rete di città. Abbiamo inaugurato il contador de la vergonya, che conta il numero delle morti nel Mediterraneo che si possono evitare.

Ha annunciato un piano contro l’islamofobia in piena epoca di stragi jihadiste.

Se vogliamo vivere in uno spazio sicuro per prima cosa dobbiamo combattere il razzismo e capire che chi viene in Europa chiedendo asilo fugge dal terrorismo. Il razzismo alimenta quella polarizzazione di un “noi”e un “loro”che interessa il terrorismo.

Lei parla di cooperazione e non competizione tra le città.

È il momento di dare più riconoscimento e competenze alle città. Di cooperare, per fare meglio con più forza. Bisogna superare la logica basata sugli Stati e ricostruire una gov ernanc e più femminile, e dal basso, dalle città.

Che è successo nelle ultime elezioni, si è fermato il cambiamento?
I grandi cambiamenti non si producono con una tornata elettorale o una legislatura. Stiamo assistendo a un cambio d’epoca. Il sistema di partiti è entrato definitivamente in crisi. Siamo in una fase di transizione.

Come valuta l’attuale situazione di stallo?

Se dobbiamo andare a terze elezioni ci andremo. Certo, sarebbe meglio se ci fosse un governo. A me non va bene qualunque governo, ma un governo alternativo al PP, perché credo sia possibile. L’ostacolo principale è il Partito socialista, diviso al suo interno, e che non riesce a digerire la perdita di egemonia a sinistra e la fine del bipartitismo.

Come giudica il recente voto del Parlament sul procés constituent catalano?
In un momento di impasse fra lo Stato e la Catalogna per l’attitudine del PP che non ha voluto aprire alcuna via di dialogo, che ci sia una maggioranza parlamentare che in maniera legittima, votata dalla cittadinanza, fa una commissione per tentare di sbloccare la situazione e porti i suoi risultati al Parlamento, a me sembra inequivocabile. U n’altra cosa è se sia utile, possibile che non lo sia. Ma che sia legittimo è fuor di dubbio.

Nel 2011 lei passeggiava con suo figlio in carrozzina per Plaça Catalunya, in mezzo agli Indignati: com’è cambiata la sua vita da allora?

Per me, il cambio politicamente più importante è avvenuto con la Plataforma Afectados por la Hipoteca: il fatto che tanta gente impoverita dalla crisi fosse capace di mettersi insieme, darsi potere e cambiare l’agenda politica, cominciando a risolvere un problema grave come gli sfratti, mi ha dato un ottimismo democratico. L’altra grande trasformazione è stata la maternità, che mi ha resa ancor più ottimista perché mio figlio mi riconcilia con la vita e con il meglio dell’essere umano. La terza cosa meravigliosa è poter essere sindaca della mia città: un privilegio.

La cittadinanza mostra di apprezzare?

I cittadini ci dicono “siate onesti, spiegateci ciò che succede, non smettete di essere ciò che siete: vi abbiamo votati anche per questo”. Non ci dimentichiamo che veniamo dal movimento 15M (degli Indignados, ndr), da un processo di trasformazione cominciato fuori dalle istituzioni. Questo cambiamento va dentro e fuori le istituzioni.

«Un'intervista con Paulo Mendes Da Rocha, celebre esponente della scuola paulista, cui la Biennale di Venezia ha conferito il Leone d'oro alla carriera. "Le olimpiadi in Brasile? Rispondo con Borges: mi sento come quell’ospite che è ricevuto con cortesia ma si accorge di essere prigioniero"». Il manifesto, 30 luglio 2016 (p.d.)

L’incontro con Paulo Mendes da Rocha (Vitória, 1928) a Venezia è di quelli sempre attesi. Il Brasile è dagli anni ’50 il laboratorio dell’«Altra modernità», come direbbe Frampton, che occorre conoscere e seguire con attenzione e Da Rocha ne è il principale interprete e testimone. Dalla palestra del Clube Atlético Paulistano (1957) al Museo della Scultura Brasiliana fino la Copertura per Piazza del Patriarca (2009), tutte a San Paulo, si comprende con precisione qual sia la sua idea di architettura: semplicità formale e costruttiva, funzione sociale dello spazio, rigore etico e sensibilità estetica. Tutti argomenti che intendiamo meglio approfondire con lui nella biblioteca della Biennale che ci ospita.

Intanto, una domanda d’obbligo: cosa pensa delle prossime Olimpiadi a Rio?

Le rispondo citando una delle storie di Jorge Luis Borges nella raccolta Il manoscritto di Brodie, dove si racconta la finzionem, il dire ciò che si vuole, come facevano quei viaggiatori del XIX secolo che riportavano la descrizione di cose che nessuno conosceva. La novella racconta di quell’ospite che è contento di essere ben ricevuto, ma capisce di essere prigioniero. Sono terrorizzato per aver scoperto che abbiamo a che fare con il degenerato. Il nostro castigo sta in questa degenerazione che usa la creatività per pensare l’espansione della vita umana nell’universo. In questo momento l’architettura è formalista e delirante ma sempre preoccupata della «casa popolare» (ride, ndr). Il Brasile dimostra in modo chiaro questo corso degenerato.
Tuttavia non ci vorrebbe molto per realizzare un progetto nazionale di pianificazione davvero importante e necessaria: un sistema di navigazione fluviale nel bacino idraulico che è il più importante del mondo e una ferrovia in rete con altri paesi. Occorre immaginare la costruzione di una nuova pagina per l’America Latina. Siamo ancora impegnati in questo. Credo che la grande rivoluzione stia nella trasformazione democratica che può avvenire attraverso l’istruzione e il progetto, ma occorre fare di tutto per evitare altri disastri.

La Biennale Architettura di Venezia le ha conferito il Leone d’oro alla carriera. Tra le motivazioni c’è che la sua architettura dura alla prova del tempo. Come può resistere ai cambiamenti?

Per rispondere, vorrei partire dall’esperienza del movimento popolare «Ocupação» che agisce per trasformare gli edifici già esistenti. Intendo ribadirlo: ciò che riguarda l’urbanistica e l’architettura contemporanea è una questione politica. Infatti, al di là di ogni progresso tecnologico la qualità di ciò che chiamiamo casa interessa la grande prospettiva ideale della città come utopia e le possibilità che abbiamo di trasformare la nostra realtà. Faccio una sintesi. La chiave di tutto sta nell’idea della trasformazione. Il mio pensiero è stato quello di prendere coscienza del fatto che l’habitat umano è conseguenza della trasformazione della natura perché questa non può essere abitata. Ciò è particolarmente vero per il continente americano.

Fatta questa premessa, le chiedo: cos’è rimasto della scuola paulista?

Non mi piace l’idea di scuola paulista. Anzi, non esiste una scuola paulista. Ciò che occorre dire è che a San Paulo all’interno della sua Università, si strutturò una facoltà con un indirizzo particolare e distinto di intendere l’architettura. Un contributo importante fu dato dal filosofo Flávio Motta e dall’architetto marxista João Batista Vilanova Artigas. L’insieme, all’interno della stessa Università, sia dell’insegnamento delle lettere e della filosofia sia di una scuola politecnica ha permesso di esprimere una maniera assai particolare di architettura poiché fondata da un insieme di conoscenze. In questa scuola dove si concentrano tanti saperi come linguistica, filosofia, tecnologia, scienza delle costruzioni, meccanica, è impossibile che l’architettura non sia saggia. Che cosa dire sennonché l’architettura è di per sé una forma particolare di conoscenza. Viviamo, purtroppo, non beneficiando del contesto universitario. La conoscenza – l’architettura n’è una forma – richiede saggezza: tutto ciò che serve per il nostro obiettivo che è quello di costruire l’habitat umano che non c’è. Per ritornare alla domanda riguardo alla scuola paulista dico, quindi, che è una semplificazione.

Eppure ce ne hanno sempre parlato…

Non è proprio necessario classificare. Cosa vuole dire architettura funzionalista, costruttivista o addirittura moderna? Venezia, a me, appare modernissima.
Qual è, secondo lei, la relazione tra l’architettura e lo spazio pubblico. Lei ha affermato che «tutto è pubblico e che di privato c’è solo la nostra mente».
Sì, ho espresso molte volte il concetto che è necessario aumentare per tutti lo spazio pubblico: non esiste per me lo spazio privato. Una riflessione che possiamo fare è che è un’idea stupida quella di ragionare sulla «casa popolare». Come si può parlare di acqua potabile «popolare», come si può parlare di un chilowatt «popolare». Ora la questione della «casa popolare» rimanda alla definizione dei primi format, ai linguaggi che stigmatizzano il concetto di casa. La casa contemporanea non può essere «popolare». La grande virtù della casa è vedere dove questa è collocata, ha significato il contesto.

Un altro tema da approfondire è la questione della tecnica, in particolare quella del cemento armato, che ha un ruolo importante nella sua opera e che oggi è impiegato per banali megastrutture, come ad esempio a San Paulo il progetto previsto per il parco Ibirapuera…

Purtroppo, non lo conosco, non ho mai visto questo progetto…. Penso però che il materiale a rigore non interessi l’architettura, o meglio per costruire un determinato spazio va ricercata la tecnica più adeguata. Per difendere la natura in futuro si dovranno impiegare soluzioni tecnologiche sempre più innovative, ma non è per me una buona cosa contraddistinguere un’architettura attraverso la tecnica o il materiale.
La verità è che per qualità architettonica si deve intendere la disposizione spaziale di un edificio con il materiale più conveniente, in questo senso si può immaginare che in futuro l’uso del cemento armato possa anche essere abolito e sarebbe bello arrivarci. Il nostro dovere, quindi, è quello di essere attenti all’esecuzione tecnica con i materiali già esistenti. Si può immaginare una costruzione interamente in metallo o in legno con elementi prefabbricati e così abolire a poco a poco quella materialità dell’architettura che eviterà di distruggere il nostro pianeta. Ad esempio è interessante riflettere – riguarda noi brasiliani – sulla quantità di granito impiegato in Europa e dovunque per pavimentare. Si può essere indignati per quest’uso sconsiderato di smantellare montagne per consumare del materiale che si è formato in milioni di anni e usarlo per decorare bagni oppure, come si fa del granito brasiliano ridotto in sottili lastre, per rivestire la facciata di un edificio. Penso, quindi, che la cosa migliore che la tecnologia può offrire all’architettura sia tradurre la nostra fantasia nel costruire lo spazio della città contemporanea. In questa visione di ampia apertura voglio proporre una riflessione. Ciò che viviamo non è nuovo ma nel passato non era possibile vivere con la stessa serenità dell’oggi. Pensiamo all’espansione della vita umana nell’universo, ora abbandonata in un minuscolo sasso che è chiamato pianeta Terra. Un piccolo strumento su Marte invia notizie che danno lì una possibilità di vita. Già si considera questa una prospettiva realizzabile ma ci deve essere un’altra possibilità. Questo ci porta ancora all’espediente grottesco di possedere altre risorse, ma la questione più importante della nostra esistenza è fermare ora questo spreco.

(Con la collaborazione di Mirco Battistella e Ginevra Masiello)

«Dietro un’espressione ricorrente si cela molta retorica che stride con la realtà delle città oggi. L’India annuncia la fondazione di nuovi agglomerati urbani ad altissimo utilizzo di tecnologie digitali, ma i quartieri sono recintati da sbarre, frutto di un’ossessione da sicurezza». La Repubblica, 24 luglio 2016 (c.m.c.)

Il governo indiano ha di recente comunicato la lista delle prime venti città destinate a fornire un «modello replicabile che funzioni come una casa illuminata» per le altre città che aspirano a entrare in un ambizioso piano di 100 smart cities: in prevalenza città satelliti collocate in vicinanza di grandi aree metropolitane.

Una pianificazione affascinante soprattutto per una civiltà come quella occidentale, ancora ammaccata dall’aver troppo creduto alle virtù taumaturgiche della mano invisibile del mercato. Una pianificazione che aiuta anche a far emergere gli usi retorici del sintagma smart cities in Europa e negli Stati Uniti (le città intelligenti, le città che fanno grande uso di tecnologie della comunicazione, le tecnologie digitali, affidando a queste la possibile soluzione di molti dei problemi che le affliggono). Ma da quali considerazioni nasce la Smart Cities Mission indiana e cosa prevede?

Nasce dal riconoscimento della crisi di un’urbanizzazione senza piani, che ha portato all’edificazione di aree metropolitane invivibili. È cioè la parola city, nel sintagma, a dettare il punto di partenza e a definire le aspirazioni del progetto. Leggendo i programmi, scorrendo i venti progetti selezionati, colpisce come siano la qualità della vita e l’inclusione sociale i due obbiettivi fondamentali. «Dare un’identità alle città», renderle più friendly, anche attraverso scelte urbanistiche che poco appartengono alle culture indiane, come la cura nella progettazione degli spazi pubblici o l’identificazione di Urban Local Body, una contaminazione tutta da verificare tra centro storico europeo e civic center statunitense.

D’altronde le città satelliti hanno una lunga storia anch’essa tutta occidentale: dalle ottocentesche città giardino inglesi, alle Sunnyside Gardens e Redburn statunitensi negli anni venti, sino alle villes nouvelles francesi la cui edificazione inizia a metà degli anni sessanta del Novecento.

E la prima contraddizione che traspare in questa nuova accelerazione della modernizzazione indiana è la permanenza del modello culturale occidentale nelle forme di contrasto alla città diffusa, la città che si disperde nel territorio. La smart city come veicolo di una nuova forma di colonizzazione? Sarebbe un bel paradosso.

Su cosa sia smart le linee guida del governo e le scelte delle prime venti città, vanno in realtà con i piedi di piombo. Non esiste un’unica definizione di smart. Non solo: viene ricercata una via indiana alla smart city e una via federale dentro la via indiana! Mettendo così in crisi uno dei pilastri delle retoriche della smart city: la sua possibile e quasi ovvia interconnessione globale.

E il confronto ad esempio tra i progetti selezionati di Ahmedabad, Jaipur e Delhi almeno in parte conferma differenze tutt’altro che marginali. Così quando si osserva da vicino in cosa si materializzerebbero le città smart indiane, si scorgono la mobilità urbana, l’efficienza e il risparmio energetico, la gestione dell’acqua e dei rifiuti, e soprattutto la digitalizzazione dei servizi. Anche in questo caso il modello è europeo, le politiche infrastrutturali del Great London Council degli anni cinquanta.

Tre indizi ulteriori emergono da questo ambizioso e, per certi versi, straordinario progetto. In primis la banalità delle soluzioni architettoniche. I rendering ci restituiscono un universo architettonico omologo e banale: ennesime e ripetitive downtown. La difficoltà di passare dal piano al progetto architettonico è ancor più evidente, proprio per la scala dell’intervento: un’ennesima e davvero non auspicata conferma che oggi la cultura architettonica soffre di coazione a ripetere. Il secondo è la pericolosa vicinanza di queste città satellite alle gated communi-ties, gli insediamenti recintati e protetti da sbarre che dalla California oggi si sono diffuse in Brasile, Argentina, Cina e persino nella stessa India!

Uno degli obbiettivi dichiarati di queste smart city è la sicurezza e la ricomparsa delle mura cui stiamo assistendo in tutto il mondo, qui potrebbe trovare una declinazione smart: mura che si oltrepasserebbero, si varcherebbero con badges, naturalmente!

Certo appaiono lontani Georg Simmel e una delle più belle definizioni dell’intelligenza nelle città: la serendipity, l’incontro inatteso e creativo tra diversi. Una sfida che forse si ritroverebbe ben più frequentemente nelle vicine metropoli indiane che si vogliono risanare.

Il terzo indizio è quanto la sempre invocata partecipazione dei cittadini al progetto — modello anche questo anglo-americano — trovi proprio nella risposta tecnica — le reti — resistenza in una società, come quella indiana, segnata da diseguaglianze sociali ancora fortissime. Può essere difficile non solo per Pericle importare la democrazia a Thuri, colonia della Magna Grecia, durante le guerre elleniche, ma anche disseminarla all’interno di un paese ancora così diseguale come l’India.

Certo questo progetto fa quasi impallidire discussioni e sforzi europei e dà la dimensione, se si vuole anche solo brutalmente quantitativa, della distanza che esiste oggi tra parole e cose nel vecchio continente e, in parte almeno, anche negli Usa. E la fa ancor più impallidire se si misura la produzione di parole, che anche solo l’evocazione della dimensione smart oggi genera.

Se si accede attraverso Google Scholar alle pubblicazioni dedicate alle smart city, si può misurare la fortuna editoriale e mediatica di questo sintagma: articoli, saggi, libri con centinaia di citazioni e di testi correlati disegnano una ragnatela quasi inestricabile, spesso autoreferenziale, che parla quasi una sola lingua: l’inglese.

In realtà basta andare un minimo in profondità e si scorgono fenomeni inquietanti. Il primo è una semplificazione assai diffusa: dei rapporti tra territori e società che li abitano, delle relazioni tra accesso all’informazione e conoscenza, di concetti essenziali come innovazione o comunità. La metafora forse più emblematica di questa semplificazione è internet of things, l’internet delle cose, l’internet che mette in relazione non solo informazioni, anche oggetti.
Ma forse ancor più inquietante è il processo che tocca la scala territoriale dei fenomeni.

Smart city nasce come espressione fisica della società globale, sincronica e interconnessa: e la sua metafora, ancor più abusata, è la piazza informatica. Oggi invece le esperienze più sostenute dello smart legato a un territorio sono quelle che, giocando su un’altra grande retorica, la sostenibilità, e su una concezione di democrazia del vicinato, stanno lavorando per passare dalle smart cities agli smart villages, da una dimensione metropolitana a una molto più ridotta.

In realtà smart city rappresenta un esempio fra i più convincenti di un processo di naming without necessity (il nominare qualcosa senza che vi sia una necessità, dare un nome a cose che non esistono). Forse, come insegna la prudenza e la ricerca di declinazioni diverse nell’esperienza indiana, la parola smart evoca, non definisce, promuove (anche, ma non solo marketing, ma imprese, professioni, tecnologie), soprattutto sostituisce la necessità di raccontare fatti e persone. E la narrazione è, come hanno insegnato in modi tanto suggestivi Paul Ricouer e Jason Bruner, la forma che la mente umana ha per rielaborare e appropriarsi anche di cambiamenti traumatici, come indubbiamente è fronteggiare una credenza tanto forte e condivisa che la memoria possa quasi essere lasciata a una nuvola, a un cloud, che incrementerebbe quasi automaticamente un’intelligenza a questo punto ovviamente collettiva.

Forse uno smart che richiama troppo da vicino le battute finali del colloquio di Monos e Una nel celebre racconto di Edgar Allan Poe, in cui Monos solo una volta calato nella tomba si sente davvero rinato, vicino alla sua adorata Una. Speriamo il nostro destino informatico non necessiti di un amore necrofilo!

Ampia e documentata illustrazione del processo di distruzione di un popolo, una nazione, una città e un immenso patrimonio storico che sta avvenendo in quello stato tiranno e omicida cui l'Europa, gli Usa e la Nato hanno affidato il ruolo di "bastione della civiltà occidentale." Insieme, una richiesta di sostegno a chi tenacemente resiste

URBICIDIO A SUR- DIYARBAKIR
di Mireille Senn


Qui è scaricabile il testo integrale

Dall'inizio del 2015, la Turchia conosce una recrudescenza della violenza in tutto il paese. Atti di terrorismo e repressione poliziesca e militare si sono moltiplicati e hanno interrotto le fragili trattative di pace con i rappresentanti curdi. Queste erano state avviate nell’ autunno 2012 dal governo islamo-conservatore turco per tentare di porre fine ad una ribellione persistente nel sud-est del paese.

La guerra in Siria e la fuga dei rifugiati, i successi dei combattenti curdi in Iraq e nel Rojava alla frontiera siriana con la Turchia, l'accordo sul programma nucleare iraniano e l'autoritarismo del presidente Recep Tayyip Erdoğan fanno parte delle spiegazione alla crescita delle tensioni fino ad oggi.

Il clima delle elezioni legislative di giugno e di quelle anticipate di novembre 2015 è stato segnato da attacchi alla stampa dell'opposizione da parte del governo AKP[1], e alle sede del partito filocurdo HDP[2] da partigiani del presidente o dai nazionalisti del MHP[3] di estrema destra.

Nell'estate 2015, attentati commessi in Turchia dal gruppo Stato islamico, e altri commessi dal PKK[4] contro poliziotti e militari in ritorsione all'attitude al meno tollerante del governo turco verso i jihadisti islamici di Daech e dell'ISIS si sono susseguiti. In risposta, alla fine di luglio, l'aviazione militare turca ha iniziato dei bombardamenti sulle basi dei jihadisti in Siria, ma anche su quelle del PKK nel nord dell'Irak, rompendo la tregua che durava dal 2013.

"L'aumento delle misure di sicurezze al confine siriano" - come dichiarato dall'allora Primo Ministro Ahmet Davutoğl - ha incluso anche l'imposizione di coprifuochi in diverse città curde: Cizre, Silopi, e nel quartiere di Sur a Diyarbakır già dall'inizio di settembre 2015.

L'attentato di Ankara del 10 ottobre 2015, che ha colpito i partecipanti a una marcia per la pace organizzata dai sindacati di sinistra e dal HDP ha cristalizzato ancora di più le posizioni degli oppositori al governo. Da allora, veri e propri atti di guerra fra le forze di sicurezza turche e i gruppi armati che operano nella regione si sono svolti a porte chiuse : nell’ambito delle cosidette operazioni di sicurezza, sono stati officialmente confermati 65 coprifuochi "24 ore su 24" per una durata senza scadenza che ha variato da alcuni giorni a diverse settimane e persino a vari mesi.

Le conseguenze sulle popolazioni locali sono state particolarmente pesanti : secondo i dati raccolti dalla Fondazione per i Diritti Umani di Turchia, da gennaio alla metà di aprile 2016, sono stati uccisi dalle forze dello stato turco nella regione curda 353 civili e feriti 246 (senza contare le centinaie di militanti armati e di soldati caduti nei combattimenti). Attacate con armi pesanti, numerose città del Kurdistan sono state severamente danneggiate. L’ampiezza delle destruzione delle città si sono rivelate quando i coprifuochi sono stati revocati.

Ma la fine degli scontri armati non significa il ritorno alla pace per gli abitanti dei quartieri danneggiati : è cominciata oramai la lotta contro la gentrificazione e l'urbicidio voluti dal governo del onnipotente Erdoğan.

Diyarbakır, città millenaria
sulla lista del Patrimonio mondiale dell'Unesco

Diyarbakır (chiamata anche Amed dai curdi) è una città del sud-est della Turchia con una populazione di più di un millione e mezzo di abitanti. È considerata dai Curdi la capitale del Kurdistan turco. Il distretto di Sur, situato su un altopiano basaltico al di sopra il fiume Tigri, è la parte di città storica intra-muros di Diyarbakır. Alcuni storici fanno risalire la prima colonia sul Monte Amida a 5000 anni avanti Cristo, e attribuiscono la prima struttura di fortezza agli Hurriti circa 3000 a.C. Chiamata Amida nell'Antichità, fu capitale del regno arameo di Bet-Zamani nel XIII secolo a.C. Data la sua posizione geostrategica all'intersezione de l'Ovest e dell'Est, era già la principale piazzaforte della Mesopotamia nel IV secolo a.C. Dal II secolo a.C. al II secolo dopo Cristo fu una delle città maggiore del Regno d'Armenia. La regione diventò in seguito una provincia dell'Impero Romano e nel IV secolo fu una fortezza frontaliera nella valle superiore del Tigri, posta sotto assedio e presa della forze dell'Impero persiano dei Sassanidi. Dal XI al XII secolo fu sottomessa alla dinastia curda dei Marwanidi per poi passare sotto l'autorità dei Turchi Oghuz. Diyarbakır fu integrata all'Impero Ottomano nel 1534 e dopo un'annessione temporanea dall'Impero persiano Safavide, torno sotto la Sublime Porta e diventò capoluogo del vilayet di Diyabakir nel 1864.
La storia di Amida è anche un susseguirsi di influenze religiose: centro religioso legato al patriarcato siriaco-ortodosso di Antiochia, fu in seguito sede del partriacato della Chiesa cattolica caldea dalla fine del XVII secolo all'inizio del XIX secolo, e fino ai massacri che iniziarono alla fine del XIX secolo e che culminarono nel 1915, la regione era densamente popolata da Armeni e da diverse altre minoranze cristiane.

Se l'antica Amida prese la forma di una cittadella, dopo la Prima Guerra Mondiale e l'avvenimento della giovane Repubblica turca, la combinazione fra il bisogno di spazi dove costruire i nuovi edifici pubblici, la creazione della rete ferroviaria (che portava in se la speranza di uno sviluppo economica per la città), e l'edificazione di case e di caserme per l'esercito e il personale dell'amministrazione spinsero l'insediamento degli abitanti al di fuori della mura. In 1930, il Governatore Nizamettin Efendi mandò giù pezzi di muraglie nelle parte nord e sud della fortezza per dare aria alla città storica : nuove strade furono create che prolungarono l'asse di scambio tradizionale interno. Il quartiere interno alle mura fu chiamato Suriçi (sur = mura e iç = dentro), detto anche Sur. Con l'apertura e l'espansione della città, i proprietari delle case della parte storica cambiarono : i nuovi migranti delle zone rurali sostituirono gli abitanti più abbienti che andarono ad abitare nei nuovi quartieri. Un'altra parte della popolazione rurale si installò in baraccopoli con piccoli giardini nell'area compresa tra le case tradizionali e le mura della città. Dagli anni 1960, lo sviluppo urbano proseguò e si estendò al nord-est della città, sulla pianura. La città si costruì sur la trama di un piano orthogonale, ritmato da viale che prolongarono le breccie della città intramuros; strade secondarie servono di limiti a grandi isolotti dove grande torri sorgessero.

Negli anni 1980-90, la città conobbe una vera e propria esplosione urbana. Il conflitto armato, opponendo lo Stato turco al PKK nelle montagne dell'est e del sud-ovest della Turchia, diventò molto forte, constringendo la popolazione rurale ad un esodo verso le grandi città del paese. Diyarbakır tornò ad essere città di rifugio e i quartieri di Bağlar (all'ovest di Yenişehir), di Fiskaya e di Ben-U-Sen emergessero ai confini del tessuto urbano. La forma urbana rimase la stessa di quella iniziata negli anni 1960 e la forma architettonica declinò all'infinito degli ettari di torri alte dagli 8 ai 15 piani, interrotti da isolotti di gated communities per le classi sociali più ricche.

Sur si ritrovò a dover accogliere una parte di questi arrivi massicci e venne densificato al massimo: le case tradizionali di basalto furono consolidate e sopraelevate, nuove case aggiunte al tessuto già denso.

Dall'inizio degli anni 2000, la maggior parte delle famiglie solvibili o abbienti lasciarono Sur e andarono ad abitare nei condomini e nelle residenze chiuse degli quartieri più in vista della città in continua espensione.

Queste traiettorie residenziali hanno reso Sur un distretto uniformemente povero. Diyarbakır continua ad estendersi al di fuori delle muraglie antiche, spinta verso nord-ovest dalla valle del Tigri e dall'aeroporto militare che chiudono ogni possibilità di estensione altrove.

La straordinaria storia di questa città multiconfessionale ha lasciato un patrimonio architettonico molto ricco - muro di cinta quasi intero, chiese e moschee, caravanserragli, antiche case - che venne riconosciuto di interesse mondiale col l'iscrizione sulla Lista del Patrimonio Mondiale dell'Unesco il 4 luglio 2015 come Paesaggio culturale della fortezza di Diyarbakır e dei Giardini dell'Hevsel. Le muraglie e le sue torre storiche vengono ormai protette in quanto classificate "sito urbano", l'Içkale (la fortezza) di Amida in quanto "sito archeologico di prima classe" e due zone tampone vengono delineate, una esterna alle mura, l'altra essendo costituita dal distretto di Sur.

Il contesto politico

L'HDP è alla testa della municipalità metropolitana di Diyarbakır dal 2009. Da allora, è riuscita a menare un'azione politica volontaristica con l'apertura di centri sociali o culturali per gli abitanti, insistando sul passato multiconfessionale e multiculturale, ma anche sul carattere profondamente curdo della città. Pezzi del patrimonio non-musulmano (come la chiesa di San Ciriaco) sono stati rinnovati, anche se le communità contano ormai solo alcune famiglie. Una nuova generazione di uomini politici e di responsabili di associazioni e organizzazioni non-statali, che non hanno vissuto la lotta armata, ha vivacizzato una società civile diventata intraprendente. L'iscrizione della città al patrimonio dell'Unesco in 2015 è stata una tappa importante di questo percorso.

All'inizio del 2014, i tre cantoni di Rojava (Afrine, Kobane e Jazire, nel Kurdistan siriano) annunciarono la creazione di una regione federale nelle zone sotto il loro controllo nel nord della Siria. La federazione in comuni autonomi e l'adozione di un contratto sociale che stabilì una democrazia diretta e una gestione egalitaria delle risorse sulla base di assemblee popolari costituì una speranza per i Curdi della Turchia che seguono con attenzione la situazione dall'altra parte della frontiera. Il progetto politico del PYD[5] è quello di un confederalismo democratico con strutture federative e auto-organizativi per permettere l'organizzarsi di una società plurale in maniera più equa a tutti i livelli. Cioè l'antitesi dei principì fondatori della Stato turco nazionalista e patriarcale incarnato oggi dal l'AKP del presidente Recep Tayyip Erdoğan. Anzi, il governo turco è stato accusato a diverse riprese di sostenere i jihadisti contro i combattenti curdi del YPG[6] - il braccio armato del PYD - al fine di indebollire l’autonomia curda in Siria: anche quando l'esercito turco ebbe in linea di mira diretta i combattenti dello Stato islamico, non fece nulla per respingerli.

Durante l'occupazione di Kobane da parte dell'ISIS, il presidente Erdoğan aveva posto le condizioni per il suo sostegno ai resistenti curdi: creare una zona cuscinetto nel nord della Siria (sostanzialmente un’occupazione turca); l'unione dei curdi con l’opposizione araba siriana, e la presa di distanza del PYD dal PKK. Termini che sono stati respinti dai curdi del Rojava in quanto inaccettabili.

Nell’ ottobre 2014, manifestazioni di sostegno a Kobane e di protesta contro l'inazione turca si sono tenute in tutto il paese e hanno dovuto far fronte agli interventi violenti delle forze dell'ordine turche. A mettere olio sul fuoco, le dichiarazioni dei rappresentanti dello Stato che presentarono l'YPG come un'organizzazione più pericolosa che l'ISIS. Le ripresaglie contro la polizia e i militari da parte di militanti pro-curdi si molteplicarono, a cui le forze di sicurezza turche risposero a loro volta. L'ingranaggio della violenza era di nuovo in atto, ma la speranza di trovare delle soluzioni pacifiche non era ancora svanita.

Il 26 gennaio 2015, arrivò l'annuncio della liberazione di Kobane. Le forze curde, con l'aiuto della coalizione sotto commando americano, hanno ripreso la città sotto assedio da più da 4 mesi dai jihadisti dello Stato islamico. Lo stesso giorno, la Turchia ha aperto il più grande campo per i profughi siriani a Suruç, a pochi chilometri di Kobane da dove sono arrivati circa 200 mila rifugiati. Come in altre città curde, migliaia di persone si sono radunate nella città di frontiera per festeggiare la vittoria su Daech ma anche per tentare di raggiungere la città siriana ormai liberata. Vengono fermate dalle forze di sicurezza turche che disperdono la folla.

Il 28 febbraio 2015, la stampa nazionale e internazionale annunciò la rilancia dei negoziati con i ribelli curdi del PKK. "La Turchia è più vicina che mai dalla pace" - rilasciarono, ottimisti, i deputati del partito HDP all'uscita dell'incontro col vice-Primo ministro, Yalçın Akdoğan, al palazzo di Dolmabahçe. La riunione diede luogo ad una dichiarazione congiunta storica e alla lettura di un messaggio del capo del PKK, Abdullah Öcalan, che lancia alle sue truppe, dalla sua prigione, un appello a deporre le armi. Se, in un primo tempo, il presidente Erdoğan qualificò l'appello di "molto importante", appena alcuni giorni dopo prese le sue distanze da l'iniziativa. L'avvicinamento delle elezioni di giugno non fu estraneo a questo fatto : per non perdere voti, Erdoğan non vuole mettere la questione curda al centro del dibattito politico. Al contrario, il presidente turco si lanciò nella campagna elettorale - malgrado la neutralità richiesta dalla sua funzione - enfantizzando una polarizzazione della società sul modo del bene contro il male: laici contro religiosi, alevi contro sunniti, Curdi contre Turchi. Violenza di discorso che finì per tradursi sul terreno. Gli attacchi agli candidati e alle sede del partito filo-curdo HDP si ripeterono. Malgrado le intimidazioni, i risultati delle elezioni vedono l'entrata storica in parlamento del'HDP che oltrepassa la soglia dei 10% imposta ai partiti per entrare in camera, e la fine della maggioranza assoluta per l'AKP. Il 22 agosto, passato il termine di 45 giorni previsto dalla legge, l'AKP non avendo trovato nessuna coalizione con gli altri partiti, Erdoğan convocò elezioni anticipate per l'inizio di novembre 2015.

Nel frattempo, la violenza era esplosa sopratutto nel sud et nel sud-est del paese. Il 20 luglio 2015, 32 volontari della Federazione delle associazioni dei giovani socialisti venuti a Suruç per partecipare alla ricostruzione di Kobane sono uccisi in un attentato attribuito all'ISIS. Il giorno dopo, in tutte le città del paese, manifestazioni furono organizzate dalle organizzazioni di sinistra. Ovunque si sentirono le grida di accusa al governo turco per complicità con i combattenti islamici radicali. Il 22 luglio, il PKK rivendicò la morte a Ceylanpinar di due poliziotti in rappresaglia alla morte dei giovani di Suruç. Il 24 luglio, la polizia turca lanciò una vasta operazione antiterrorista in 13 provincie, e l'aviazione militare turca colpì le posizioni dell'ISIS nel nord della Siria, approfitando dell'occasione per effettuare anche dei raid contro il Kurdistan irakeno e i campi del PKK. Quest'ultimo dichiarò allora la fine del cessate il fuoco in vigore da due anni. Così, nel momento in cui l'HDP guadagnava legitimità col suo risultato alle elezioni di giugno, la ribellione curda cadeva nella trappola tesa dall'AKP, quella del ricorso alla violenza. La retorica usata da Erdoğan e dal suo Primo ministro che presentò l'HDP come succursale del PKK fece strada.

L'AKP vinse le elezioni di novembre 2015 col 49,3% dei voti: abbastanza per governare da solo ma non per modificare la Costituzione. Dichiarando "la guerra fino in fondo" contro i ribelli curdi e bombardando le loro posizioni in Turchia e nel nord dell'Irak, Erdoğan aveva trovato la simpatia della destra nazionalista, fortemente opposta a ogni concessione verso la minorità curda. Fra il 7 giugno e il 1 novembre 2015, l'HDP perse un milione di voti ma riuscì comunque a mantenersi al Parlamento con il 10,4% dei voti e 56 deputati.

Tra l'autunno e l'inverno 2015, la ripresa della repressione da parte delle truppe turche incitò gruppi di giovani curdi alla guerigla urbana. Le vittorie dei combattenti curdi nel Rojava in Siria hanno ispirato questa generazione che vive nel mito della guerilla e del sacrificio dei suoi genitori e hanno aumentato le loro aspirazioni all'autonomia e all'autogestione del Kurdistan. Aggiunta la mancanza di prospettive di futuro, si capisce che sono stati spinti ha vivere il "loro" Kobane, fosse lanciandosi in combattimenti nelle città con discutibile pertinenza strategica, a meno che sia stata sacrificiale. Un centinaio di giovani guerriglieri curdi scavarono trincee e proclamarono l'indipendenza del quartiere, ma non ottennero il sostegno della popolazione. Se gli abitanti di Sur avevano votato in modo massiccio per l'HDP (più del 70%) la loro aspirazione a vivere in pace non li resero pronti alla rivolta popolare sperata dai giovani guerriglieri, anche dopo il succedersi dei coprifuochi dettate dalle forze di sicurezza turche nelle zone all'Est del distretto. Le forze armate di Stato che avevano di fronte a loro piccoli gruppi di combattenti per la maggior parte dilettanti che avrebberò pottuto vincere in poco tempo. Ma sembra che abbiano fatto durare gli interventi a bella posta: si può ipotizzare che a Sur, il bersaglio dello Stato turco era la città storica in se stessa.

L'impatto dei combattimenti su Sur

Dopo la sua visita di alcuni giorni in Turchia in aprile 2016, Nils Muižnieks, Commissario ai Diritti Umani del Consiglio dell'Europa, dichiarò che la caratteristica la più saliente delle operazioni antiterroriste - riprendendo la denominazione ufficiale del governo turco - in atto da agosto 2015, fu l'instaurazione di coprifuochi sempre più lunghi, 24 ore su 24, e illimitati nel tempo, in quartieri o città intere del sud-est della Turchia Il Commissario si pose anche la questione della proporzionalità delle operazioni delle forze di sicurezza : "Durante la mia visita sul sito dell'assassinio di Tahir Elçi a Sur, ho potuto avere un quadro della proporzione molto sconvolgente della distruzione in certe zone. Il governo mi ha informato che 50 terroristi sono stati uccisi durante le operazioni a Sur; tuttavia, almeno 20 mila persone sono state spostate, inumerevoli edifici sono stati distrutti, e numerosi civili hanno indubbiamente molto sofferto a causa dei terroristi e dei danni collaterali."

Un rapporto di fine marzo 2016 della Municipalità Metropolitana di Diyarbak fa un breve elenco dei guasti e delle distruzioni causati dai combattimenti: la moschea di Kurşunlu di Fatih Paşa, la moschea Sheikh Muhattar e il suo famoso minareto a quatro pilastri, i negozi storici classificati situati nella strada Yeni Kapı vicino alla chiesa di San Ciriaco (la più grande chiesa armena della regione) e della chiesa caldea Sant'Antonio, l'Hamam Paşa, ma anche esempi di architetture civili tradizionali come la Casa e Museo Mehmed Uzun o la strada coperta Kabaltı, un raro esempio del tessuto urbano tradizionale.
Nello stesso periodo, poco dopo la revoca del coprifuoco, un decreto del Consiglio dei ministri firmato dal presidente Erdoğan prevette l'esproprio urgente del 82% delle particelle di Sur. Il decreto porta la data del 21 marzo 2016, il giorno di Newroz, la festa del nuovo anno curdo. Tuttavia, diversi giuristi e associazioni civili constestano la sua legalità, sollevando il fatto che il governo può emettere espropriazioni urgenti solo in caso di catastrofe naturale o di guerra, termine che si rifiuta di usare nel caso delle operazioni nel sud-est del paese (che qualifica invece di "antiterrorismo"). A seguito di questa decisione, la Camera degli Architetti di Turchia, instituzione riconosciuta d'interesse pubblico dalla Costituzione turca (Art. 135) e interlocutore degli esperti del patrimonio mondiale, ma anche numerosi cittadini hanno avviato una procedura contro le espropriazioni.

Si può dire che il governo islamista dell'AKP sta approffitando delle distruzioni per smantellare la parte storica e popolare della città di Diyarbakır, favorevole al movimento di liberazione curdo. Il proggetto di trasformazione urbana, negoziata da una decina di anni e suscitando forte divergenze tra le autorità municipali e quello dello Stato turco sembra ormai definitivamente piegare a favore di quest'ultimo. E allora, la nozione di urbanicidio - se si intende come destruzione intenzionale di quello che fonda l'urbanità di una città - sembra appropriata a quello che sta accadendo a Sur. I combattimenti hanno provocato lo spostamento di almeno 30 mila abitanti. E vista l'ampiezza delle distruzioni (70% degli edifici nell'Est della città storica) è chiaro che tutti non potranno tornare ad abitare nelle loro case. In aggiunta, oltre ai danni sulle strutture architetturali, le violenze hanno anche provocato la rottura della vita sociale nel quartiere : interruzione delle attività artigianale e chiusura dei commerci di prossimità, spaccatura delle rete tradizionali di aiuto reciproco e di mutualizzazione delle rissorse (com'era il caso per i tandır - forni comuni per il pane).

In una dichiarazione ripresa dal New York Times del 23 aprile 2016, l'ufficio del governatore locale difende la decisione di espropriazione dicendo che il bersaglio principale è quello di portare il potenziale di Sur come quartiere storico alla luce, restaurando gli edifici e sostituendo le strutture irregolari con delle nuove, che corrisponderanno al tessuto storico della città, aggiungendo che le proprietà verrebbero restituite una volta retaurate. Ma l'esperienza dei quartieri di Sulukule, Tarlabaşı e Okmeydani a Istanbul, che hanno vissuto un brutale stravolgimento della loro popolazione residente e una gentrificazione sotto una pressione economia forte, non lascia grande speranza agli abitanti di Sur.

La politica eseguita dalla TOKI (l'Amministrazione Pubblica dell'Alloggio Collettivo) in partenariato con appaltatori e imprenditori privati è chiaramente dettata dal profitto che si può trarre dalla speculazione immobiliare e finanziaria. Sotto il governo dell'AKP, i dirigenti della TOKI si sono felicitati della promolgazione della rivitalizzazione urbana come tecnica di emancipazione per i poveri, e per le communità e le popolazioni marginalizate. A questo scopo la TOKI offre ipoteche fino a 25 anni che permettono (o che così fa sembrare) a una popolazione con redditti bassi di diventare proprietari. Ma di fatto, il partenariato privato-pubblico ha generato più ineguaglianza : sotto la volontà di risolvere la crisi dell'alloggio nei centri delle città turche, il governo a distrutto i gecekondu e altre forme di abitazioni informali, gettando per strada molti ormai senza tetto e trasformando le zone liberate in siti prospizi alla speculazione e alla rendita immobiliare. Inoltre, le ipoteche a lungo termine operano come una tecnologia governativa: gli agenti della TOKI possono esercitare un vero potere sugli ipotecati, attraverso i tassi di interesse, mettendoli sotto il controllo della benevolenza della regia di Stato che può esercitare in questo modo una pressione sulla loro vita quotidiana e sulle loro decisioni politiche in periodo di elezioni.

In un'intervista rilasciata al giornale The Guardian a febbraio 2016, il direttore del Dipartimento del Patrimonio Culturale e del Turismo della Municipalità di Diyarbakır, Nevin Soyukaya anticipava :

- È ridicolo dire a queste persone "Possiamo portarvi una nuovo economia e più commerci con questi proggetti"; questa è una città che rissale a 7.000 anni, un centro di cultura e di commercio. La gente qui ha la memoria di questo. Se gli forzate a lasciare la zona, o di cambiare il loro stile di vita e la loro ambiente, distruggete la loro memoria storica, la loro cultura e il loro modo di vivere. Questo non è più una questione solo di Curdi e della popolazione di Diyarbakır. Sur è una parte della Mesopotamia, la culla della civilizzazione, così è un problema di livello mondiale; è importante per la storia dell'umanità e la sua destruzione sarebbe un crimine internazionale."

Dal 10 al 20 luglio 2016 è in corso a Istanbul la quarantesima sessione del Comitato del Patrimonio Mondiale dell'Unesco durante la quale è esaminato se i beni iscritti sono - o no - sotto protezione, e se strategie di salvaguardia debbono essere definite per i beni in situazione di pericolo. Nel caso di Diyarbakır, il rapporto specifica che lo Stato contraente ha creato un gruppo di lavoro per valutare i danni, il quale ha concluso che non esiste nessun deterioramento maggiore del bene nelle zone tra cui la fortezza di Diyarbakır, l'Içkale e i giardini dell'Hevsel. Misure di conservazione temporanee hanno dovuto essere prese per proteggere il bene per ragioni di sicurezza a causa di incidenti terroristici. Delle situazioni di degrado sono state segnalate nella zona tampone in particolare nel quartiere di Suriçi. Il Primo ministro turco si è ingaggiato ad applicare un piano di riabilitazione per Suriçi, compresa la sua conservazione. La racomandazione di decisione si limita a chiedere allo Stato contraente di fare una valutazione dello stato di conservazione del bene "non appena le condizione di sicurezza lo permettano" e di produrre un rapporto per il 1 febbraio 2017.

L'urbicidio di Sur, nel frattempo, è proseguito a colpi di bulldozer che hanno raso al suolo tanti edifici nelle zone colpite dai combattimenti e portato in discarica decine di tonnelate di detriti mescolati. Le operazioni di sgombero dei materiali si svolgono su un sito urbano protetto e dovrebbero rispettare misure specifiche di protezione, che non sono state prese. La perdita di alcuni materiali è ormai definitiva. Ormai, anche se lo Stato turco rinunciasse alle sue velleità di trasformazione della città storica, la ricostruzione di Sur non potrà più essere fedele a quello che era prima dell'estate 2015. Numerose abitazioni non saranno mai più ricostruite e anche se lo fossero, le famiglie che hanno dovuto trovare una sistemazione altrove non è sicuro che tornino.

Il tentato colpo di stato del 15 luglio 2016 e le misure di ritorsione del governo di Erdoğan rendono il futuro ancora più incerto, ma non devono far dimenticare che l'epurazione è cominciata da anni e non fa che proseguire. Oggi, le priorità sono moltiple. Fra queste, la possibilità per la società civile di presentare un piano urbanistico alternativo di ricostruzione di Sur, un progetto che tenga conto della realtà sociale che fù prima dell'estate 2015, cercando di ridarle vita. A questo scopo, l'aiuto e la solidarietà di professionisti - urbanisti e architetti - da l'Italia e d'altrove non sarà certo un peso, ma al contrario un sollievo e un segno di speranza in questo periodo buio per la Turchia.

NOTE
Riportiamo solo le note che chiariscono le sigle delle formazioni politiche ripetutamente citate nel testo. Tutte le note e le illustrazioni sono nel testo integrale, scaricabile qui nel formato .pdf

[1] AKP : Adalet ve Kalkınma Partisi - Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, al potere dal 2002.
[2] HDP : Halkların Demokratik Partisi - Partito democratico dei Popoli, sinistra progressista, emerso dai movimenti di indipendenza curda.
[3] MHP : Milliyetçi Hareket Partisi - Partito del Movimento Nazionalista.

[4] PKK : Partîya Karkerén Kurdîstan - Partito dei Lavoratori del Kurdistan di Abdullah Öcalan, detto Apo, in prigione dal 1999.
[5] PYD : Partiya Yekîtiya Demokrat - Partito dell'Unione Democratica
[6] YPG : Yekîneyên Parastina Gel - Forze di Difesa del Popolo

«Il neomunicipalismo è un ritorno alla città come spazio aperto, alla piazza, alla polis, all'agorà.Un approccio che guarda all'Europa contro l'austerità dei tecnocrati e il razzismo dei populisti». 18 luglio 2016 (c.m.c)

Il 14 luglio nell’arena di piazza Mercato a Marghera si è svolto l’incontro pubblico Le città ribelli per cambiare l’Europa promosso dalla Municipalità ed European Alternatives con Ada Colau, sindaca di Barcellona, Luigi De Magistris, sindaco di Napoli, Gianfranco Bettin, presidente della Municipalità di Marghera, e Lorenzo Marsili fondatore di European Alternatives, moderato dal giornalista Giacomo Russo Spena.

È stata una delle occasioni per mettere in comune le esperienze delle ‘città del cambiamento’ e lanciare la rete delle ‘città ribelli’ all’Europa delle lobby.

Barcellona rappresenta la punta di diamante della svolta possibile in Spagna, mentre Napoli aggiorna la ‘rivoluzione arancione’ altrove tradita grazie all’innesto dei centri sociali. Ma l’alternativa guadagna terreno in tutt’Europa: Birmingham e Bristol nel Regno Unito, il governo del Land Turingia in Germania, Grenoble in Francia, i governi regionali dell’Attica e delle Isole Ionie in Grecia, Wadowice e Slupsk in Polonia.

Nata otto anni fa European Alternatives è un’organizzazione transnazionale della società civile e un movimento di cittadini e cittadine che promuove i valori di democrazia oltre gli Stato-nazione.

Per il giornalista Giacomo Russo Spena il neomunicipalismo è un ritorno alla città come spazio aperto, alla piazza, alla polis, all'agorà. Un approccio che, come testimoniano i contatti dei sindaci presenti con l'ex ministro delle finanze greco Yanis Varoufakis e con Podemos in Spagna, guarda all'Europa contro l'austerità dei tecnocrati e il razzismo dei populisti.

Ada Colau ha raccontato come ha reso possibile l'impossibile, cioè coinvolgere chi è fuori dal sistema, i cittadini e le cittadine disillusi dalla politica di Palazzo insieme alle forze ribelli della città, per scommettere sull'idea democratica del suo progetto vincendo le comunali del 2015.

Contro i poteri forti della politica tradizionale e dell’economia, e sottolineando come il movimento delle donne da sempre è fuori dalle logiche del potere, ha indicato che la forza delle esperienze di governo alternative al sistema sta nella partecipazione e decisionalità del popolo, degli uomini e delle donne che possono cambiare lo status quo. Continua affermando che l'emergenza migranti doveva manifestare i principi fondanti dell'Unione, invece li ha messi in crisi. La sua è ormai una ‘città rifugio’ che in collaborazione con Lampedusa e Lesbo offre accoglienza e ospitalità.

Per la sindaca il neomunicipalismo deve evolversi dalla ribellione e puntare ai diritti conservando il contatto con la gente. Non dev'essere una nuova burocrazia, ma uno scambio di pratiche e di esempi concreti che può rigenerare la democrazia.

De Magistris racconta come la sua amministrazione (oppressa da ben quattro governi di Berlusconi, Monti, Letta e Renzi) abbia valorizzato il capitale umano della città. Dal sostegno alle scuole a quello ai movimenti, dal recupero degli spazi pubblici alla creazione di un'azienda per la gestione pubblica dell'acqua.

Senza gerarchie e senza autoritarismo, è una governance orizzontale che si propone di eliminare il conflitto novecentesco tra pubblico e privato per il bene comune. Nonostante i molti problemi, Napoli oggi è libera dalle collusioni con il malaffare e con le cricche, risultato possibile solo grazie al legame con la gente.

Per questi sindaci le città possono tornare a svolgere un ruolo da protagoniste, come è stato nei momenti decisivi di transizione nella storia europea, e candidarsi ad essere luoghi di radicale innovazione politica, di vera e propria reinvenzione della democrazia. E, in questo modo, offrire risposte alle principali sfide della contemporaneità.

Mezzo secolo fa ai grandi eventi distruttivi, conseguenti a e periodi di saccheggio del territorio, generavano nella società e nella politica reazioni positive. Dobbiamo aspettare un ulteriore disastro per ritrovare un analogo slancio?

Gli anniversari servono a fare i ripassi di storia e a capire meglio quello che è successo nel frattempo. Il 19 luglio 1966, cinquant’anni fa, gran parte dell’Agrigento moderna franò sotto il peso della speculazione edilizia provocando il crollo di centinaia di alloggi e migliaia di senzatetto. Da allora il 19 luglio del 1966 è una data fondativa della vicenda urbanistica italiana del secondo dopoguerra. Ma per intendere bene l’importanza dei fatti di Agrigento è necessario un passo indietro di tre anni, al 13 aprile 1993, il giorno in cui la Democrazia cristiana sconfessò il ministro dei Lavori pubblici del quarto governo Fanfani, il democristiano Fiorentino Sullo, stroncando sul nascere la sua risolutiva riforma urbanistica fondata sull’esproprio preventivo e generalizzato delle aree edificabili. Nonostante l’assassinio politico di Sullo, il terrore per la riforma urbanistica fu tale da indurre i vertici delle istituzioni repubblicane – dal presidente della Repubblica Antonio Segni, al ministro Emilio Colombo ad altre autorevoli personalità – a ordire un tentativo di colpo di Stato (il piano Solo del generale Giovanni De Lorenzo) che rientrò quando i socialisti, nella formazione del primo governo organico di centro sinistra presieduto da Aldo Moro, rinunciarono di fatto alla legge urbanistica. E di riforma urbanistica non si parlò più.

Fu l’enorme risonanza sulla stampa e sull’opinione pubblica della frana di Agrigento – come se allora per la prima volta ci si rendesse conto che la speculazione edilizia stava distruggendo le città italiane – che consentirono a Giacomo Mancini, ministro socialista dei Lavori pubblici, di sfruttare sapientemente la circostanza per riprendere, con inconsueta determinazione, il tema proibito della riforma urbanistica. Il primo passo fu l’indagine sulla situazione edilizia di Agrigento coordinata dal direttore generale dell’urbanistica Michele Martuscelli. Un lavoro esemplare – condotto in due soli mesi, agosto e settembre del 1966 – che esamina puntigliosamente centinaia di documenti e di progetti e valuta le responsabilità del Comune, della Regione, dello Stato, con nomi e cognomi. Il dato forse più clamoroso riguarda il dimensionamento del programma di fabbricazione del 1958 che prevedeva per Agrigento una crescita da 40 a 200 mila abitanti. Ma soprattutto l’indagine mise in evidenza che la speculazione edilizia non era una triste prerogativa della città dei Templi, il modello era lo stesso di Napoli, Roma, Rapallo, Milano e Palermo.

All’indagine Martuscelli fece seguito un aspro e serrato dibattito parlamentare (memorabile l’intervento, “d’intransigenza giacobina”, del comunista Mario Alicata, che morì subito dopo averlo pronunciato). L’iniziativa politica di Mancini si concluse con l’approvazione della cosiddetta legge ponte del 1967, ponte perché doveva valere per il tempo necessario all’approvazione della riforma urbanistica propriamente detta. La legge obbligò tutti comuni a dotarsi di strumenti urbanistici e i privati a pagare le urbanizzazioni, moralizzò le attività professionali in materia di urbanistica, mise mano alla repressione dell’abusivismo, ma sono soprattutto due le novità assolute della legge: gli standard urbanistici e le norme di tutela del paesaggio e dei centri storici.

Con gli standard del 1968, la fruizione degli spazi pubblici (per il verde, l’istruzione, le attrezzature d’interesse comune, i parcheggi) è diventata un diritto che la legge garantisce a ogni cittadino italiano. L’accanimento contro gli standard degli energumeni del cemento armato (come l’ex ministro Maurizio Lupi) è un indiscutibile riconoscimento della loro qualità sociale. L’altra novità sono le norme di tutela che per la prima volta entrano a far parte della disciplina urbanistica. E per la prima volta dopo l’art. 9 della Costituzione la tutela del paesaggio compare in una legge ordinaria. Che sostanzialmente riprende anche i principi della Carta di Atene del 1960 per l’inscindibile unitarietà degli insediamenti storici sottoposti a vincolo. Se i centri storici italiani hanno resistito meglio che nel resto d’Europa alle alterazioni, anche questo è merito della legge ponte.

Dei fatti di Agrigento e delle successive vicende abbiamo scritto altre volte anche su queste pagine e a esse rimandiamo, in particolare per il racconto degli eventi scatenati dalla legge ponte (le sentenze del maggio del 1968 della Corte Costituzionale) che riportarono in alto mare la riforma urbanistica. Almeno fino alla fine degli anni Sessanta, quando la spinta per la riforma ripartì grazie al movimento popolare e sindacale che, dall’estate del 1969, si attivò risolutamente sui temi della casa e dell’urbanistica. La mobilitazione culminò nello sciopero generale del 19 novembre 1969, forse la più possente e partecipata manifestazione che abbia attraversato le strade delle nostre città. La risposta fu un cospicuo impegno dello Stato per l’edilizia pubblica e per la riforma urbanistica, che vide finalmente la luce con la legge Bucalossi del 1977. Ma sappiamo come andò a finire, la riforma durò solo tre anni. A partire dal 1980 una susseguirsi di sentenze della Corte Costituzionale rimisero tutto in discussione. E siamo sempre in attesa della riforma che, come Godot, non arriva mai. In effetti con gli anni Ottanta è cambiato il mondo, anche e soprattutto per quanto riguarda l’urbanistica che ormai non compare più nell’agenda politica.

La conclusione di questo ricordo del 19 luglio di cinquant’anni fa è che, alla fine, la legge ponte e gli standard del 1968 sono stati l’unica riforma urbanistica approvata in Italia dopo la legge del 1942. Che il cielo non mi ascolti, ma è difficile non pensare che per ottenere un risultato significativo in materia di politica del territorio – la riforma urbanistica di oggi è in primo luogo lo stop al consumo del suolo – serva un’altra catastrofe, un’altra frana come quella di Agrigento del 19 luglio 1966. E un

Intervista di Francesco Erbani alla sociologa della Columbia University: «Le grandi corporation e le speculazioni immobiliari, la crisi economica e la fine dello spazio urbano pubblico. Se una parte di città è acquistata assecondando logiche finanziarie, l’obiettivo non è di migliorare la qualità urbana, bensì di ottenere profitti». La Repubblica, 13 luglio 2016

Per rendere esemplare il suo ragionamento su chi siano i padroni della città, Saskia Sassen racconta il caso di Atlantic Yards, un’area grande circa nove ettari a New York. Un tempo ospitava uno stabilimento industriale. Al suo posto erano subentrati laboratori artigiani e industriali, studi di artisti, piccoli appartamenti e piccoli negozi. Si era sviluppato un sistema di vicinato, diremmo noi italiani, che aveva favorito diverse attività. Ma questa miscela culturale, sociale ed etnica così rappresentativa della dimensione urbana, aggiunge Sassen, è stata rimpiazzata da 14 formidabili torri con residenze di lusso che hanno «deurbanizzato questo spazio».

Cos’era successo? Semplicemente che l’area di Atlantic Yards è stata acquistata da un gruppo immobiliare e trasformata. Qualcuno direbbe persino: riqualificata. Esempi simili si trovano ormai dovunque in Nord America e in Europa. Nonostante la crisi, anzi forse proprio perché c’è la crisi, aggiunge Sassen, sui grandi centri urbani sono piovuti investimenti che, toccando l’edilizia e solo quella, stravolgono variegati assetti urbanistici.

Da tempo Saskia Sassen, sociologa della Columbia University, autrice di libri celebri (da Le città globali all’ultimo Espulsioni, editi in Italia dal Mulino) tiene sotto osservazione i mutamenti della scena urbana incrociandoli con le riflessioni sulla crisi finanziaria e sugli effetti che questa produce in termini di aumento delle disuguaglianze. Che proprio nelle città si manifestano con virulenza, laddove si sottrae spazio pubblico, si espellono e sostituiscono ceti sociali, imponendo tipologie architettoniche identiche a Parigi, a Chicago e a Shangai. Sassen sta arrivando a Venezia dove partecipa al convegno di Urban Age nella sessione insieme, fra gli altri, ad Ada Colau, sindaca di Barcellona, e all’economista Edward Glaeser, che l’architetto inglese Richard Burdett, promotore dell’iniziativa, ha intitolato «Who owns the city?». Appunto: chi possiede la città?

Sassen, è possibile che una città appartenga a qualcuno?
«È una provocazione. Ma è un invito a guardare al fatto che interi pezzi di città passano di mano in molte parti del mondo. Una città, nella sua forma più genuina, è un insieme di abitazioni private, di uffici, di edifici pubblici e di spazi pubblici, cioè strade, parchi, piazze… Non c’è una proporzione fissa fra questi elementi. Del tutto sproporzionata è invece una città dominata da giganteschi complessi edilizi, che spesso restano vuoti, fortezze protette da muri sorte una volta eliminati quartieri, strade e parchi».

A chi appartengono alcune grandi città del mondo?
«Appartengono a grandi corporation immobiliari e finanziarie. Che siano nazionali o che abbiano sede in altri paesi è secondario. Fra il 2013 e il 2014 i loro investimenti sono cresciuti dal 300 al 400 per cento».

Quali città sono interessate da questi investimenti?
«Più che le fonti ufficiali, parlano gli stessi operatori. Fra le prime 25 città troviamo, nell’ordine, New York, subito dopo Londra, più staccate Tokyo e Los Angeles, poi San Francisco e Parigi, quindi Chicago, Dallas, Hong Kong, Houston, Berlino, fino a Pechino, San Diego e Toronto».

Nessuna italiana?
«Nelle prime 25 no».

Lei cita Londra: che cosa cambierà con la Brexit?
«A Londra hanno una sede gran parte delle corporation immobiliari globali. Per un certo periodo nella capitale inglese gli investimenti in edilizia si fermeranno. Poi torneranno».

Che cosa ha favorito queste acquisizioni, i meccanismi dell’economia finanziaria globale o anche norme urbanistiche molto permissive?
«Se una parte di città è acquistata assecondando logiche finanziarie, l’obiettivo non è di migliorare la qualità urbana, bensì di ottenere profitti. Il territorio urbano ha un valore in sé a prescindere dal valore degli edifici che vi sorgono. Questi possono essere anche di scarso pregio, ma il territorio urbano che li ospita ha un pregio potenziale che può essere sfruttato trasformandolo».

E a questo scopo intervengono norme urbanistiche ad hoc?
«Dagli anni Novanta del Novecento si è assistito a una forte deregolamentazione ».

Quali parti di una città vengono stravolte da queste acquisizioni?
«Un primo aspetto riguarda singoli ma rilevanti edifici. Edifici storici, edifici simbolo. Molte di queste compravendite sono invisibili a occhio nudo. Le facciate restano intatte. Cambiano le funzioni e quindi cambia la relazione con il contesto della città. Un secondo aspetto è invece relativo ad aree un tempo industriali, con un’edilizia più modesta, ma che si tende a valorizzare».

Si interviene quindi sia nelle zone centrali che in quelle più periferiche?«Fino ad ora si è investito soprattutto nelle aree centrali, o in quelle più vicine al centro. Ma si tende, come dicevo, a estendere gli investimenti laddove è possibile realizzare megaprogetti…».

Megaprogetti che hanno un enorme impatto urbanistico.
«Si realizzano edifici ad alta densità, che impongono la monotonia alla complessità di un assetto urbano, senza sufficiente cura per gli aspetti architettonici o, appunto, urbanistici. L’effetto che si procura è la deurbanizzazione. Si svuota di senso la dimensione urbana. Il risultato è che gli spazi accessibili al pubblico diventano molto più deboli. Dove prima i territori erano governati da amministrazioni pubbliche ora lo sono dalle corporation».

È come se si rovesciasse il significato storico della città.
«Sì. La città è sempre stata un luogo complesso ma incompleto, nel senso di non perfetto, un luogo di frontiera dove gli attori più diversi, provenienti dai mondi più diversi, possono entrare in relazione. Come in rapporto possono entrare coloro che hanno potere e coloro che non ce l’hanno».

Crescono in questo modo i fattori di disuguaglianza?
«La disuguaglianza è in crescita da tempo. Se ne discuteva già quando scrivevo Le città globali, era il 1994 (l’edizione italiana è successiva di dieci anni, ndr). In una città diventiamo tutti soggetti urbani e non siamo solo appartenenti a una comunità religiosa, etnica o sociale. Anche i più poveri sono riconosciuti come soggetti urbani, hanno voce, sono parte della complessità. Ma piuttosto che prevedere luoghi che includono, le nostre città globali tendono a espellere. I nuovi abitanti sono abitanti part-time, sono internazionali ma non perché rappresentino diverse culture o diverse tradizioni, bensì sono esponenti di una nuova, omogenea cultura globale».

A Venezia si discute di come architettura e urbanistica possono proporre soluzioni socialmente orientate. La Biennale di Alejandro Aravena ha questo indirizzo. Crede che queste proposte siano attuabili?«Io sottolineo l’insopprimibile forza che possiede una città, se essa è mescolanza e complessità. A Venezia è presente il sindaco di Bogotà, Enrique Peñalosa. Nella capitale colombiana, come a Medellin, si sono intraprese la via della cultura e di un’architettura che include, che migliora la condizione dei più poveri, per fronteggiare i signori della droga. Sono soluzioni migliori della militarizzazione».

IL CONVEGNO


Saskia Sassen interviene a Urban Age, il convegno che si apre domani a Venezia, ospite della Biennale Architettura. Il titolo è “ Shaping Cities”. Urban Age è organizzato dalla London School of Economics Cities, dalla Alfred Herrhausen Gesellschaft della Deutsche Bank con United Nations Habitat III. ( In foto: Summer Slums di Jonathan Wisner). Qui è scaricabile il programms completo del convegno. tra gli oratori del secondo giorno anche Ilaria Boniburini, della redazione di
eddyburg.it

«Dal tramonto delle archistar ai progetti innovativi per le periferie sudamericane Il grande storico Joseph Rykwert parla del futuro del nostro spazio urbano». La Repubblica, 6 maggio 2016 (c.m.c.)

«Un architetto per essere un vero architetto dev’essere un po’ boy scout, diceva Aldo van Eyck, grande progettista olandese. Vuol dire, secondo me, che non può che essere ottimista. Ma io, di motivi per essere ottimista, non ne vedo tanti». Joseph Rykwert ha compiuto pochi giorni fa novant’anni (nato a Varsavia, vive a Londra, ha insegnato negli Stati Uniti). È a Bologna per ricevere, oggi, una laurea ad honorem, che premia una formidabile carriera di storico dell’architettura e di storico della città, in particolare. È una laurea in pedagogia, un riconoscimento alle sue qualità di didatta.

L’idea di città e La seduzione del luogo sono due fra i suoi titoli (editi in Italia da Adelphi ed Einaudi): entrambi propongono l’organismo urbano, dalla Roma antica alle metropoli contemporanee, siano esse Shanghai o New York, Kinshasa o Mumbai, come forma simbolica e non solo come aggregato edilizio, più o meno pianificato. «Per quanto volga in giro lo sguardo», aggiunge, «non scorgo politiche orientate a rendere la città più giusta. Soprattutto nel mondo occidentale».

Ci arriviamo. Intanto mi dica se la città esprime ancora valori simbolici, se rappresenta la visione del mondo di chi la abita?
«In un certo senso è così. Aggiungerei: deve essere così, deve esserlo sempre. Noi vediamo la città come un corpo, come un’entità civile. Questa verità rimane immutata».

Però qualcosa cambia. O no?
«È evidente. È cambiata con la rivoluzione industriale o con il trasporto pubblico non più a cavallo. Io ricordo ancora la Varsavia in cui sono nato: lo sterco dei cavalli per terra era un elemento fondamentale del paesaggio urbano. Poi sono arrivati l’ascensore e l’automobile...».

Ma ora è cambiato qualcosa di più sostanziale, la città ha perso il senso del limite, ha invaso il territorio, non è più distinguibile da esso.
«Non sappiamo come andrà a finire. Però anche in mezzo ai grattacieli di Manhattan o in una baraccopoli sudamericana ognuno ha in mente la pianta del luogo che abita. Non parlo solo di valori simbolici. Ma è presente in tutti una carta geografica del proprio habitat, degli spazi collettivi, dei nodi di scambio. Si riconosce una forma».

La tendenza di certa urbanistica e di certa architettura è di realizzare quartieri ed edifici che vadano bene in Asia come nel Nord America. Vince un linguaggio universale. Qui viene meno il valore simbolico?
«Un mio collega messicano ebbe l’incarico da un governo africano di realizzare un insediamento nella capitale. Ma il progetto fu respinto. Sa perché? Non aveva previsto una selva di grattacieli. Si era ispirato al contesto, ma loro volevano un pezzo di città come a Chicago».

I grattacieli, lei dice, sono il simbolo della potenza finanziaria e immobiliare. E aggiunge: fino agli anni Venti del Novecento erano costruiti lasciando vuoto il pianterreno perché fosse uno spazio pubblico, poi non più. Il grattacielo resta il veicolo di un’immagine?
«Senza dubbio. I grattacieli realizzati di recente a Londra hanno uno spazio aperto, una connessione con la città. Ma quanto effettivamente questi spazi siano pubblici è da vedere. Spesso sono luoghi che aggiungono prestigio al committente, ne offrono un profilo più benevolo».

Quanto è importante per una città garantire spazio pubblico, spazio di convivenza?
«È essenziale. Anche per ridurre le disuguaglianze. Bisogna stare però attenti ai camuffamenti: certo capitalismo finanziario ci tiene a far bella figura ».

Ridurre le disuguaglianze. Quali altri dispositivi possono realizzare l’architettura e l’urbanistica a questo scopo?
«L’architetto può fornire gli strumenti tecnici. Ma questo compito spetta alla politica. Negli Stati Uniti e in Europa non accade. Spesso è dominante un’architettura tendente all’oggetto vistoso. Osservando questi fenomeni matura il mio pessimismo».

Non ci sono eccezioni?
«Le esperienze da molti anni maturate in alcuni paesi del Sud America sono un’eccezione. È un’eccezione il caso di Curitiba, in Brasile, dove ha operato il sindaco-architetto Jaime Lerner, il quale ha progettato un sistema di trasporti che ha avvantaggiato le classi popolari. Lo stesso è accaduto in diverse città della Colombia. Ancora un’eccezione è il sindaco di San Paolo, che ha proibito di tappezzare con la pubblicità le facciate dei palazzi».

Sono esperienze di rilievo.
«Se si apre una breccia nel mio pessimismo è perché rivolgo l’attenzione ai tanti architetti, soprattutto giovani, che s’impegnano nelle periferie del mondo».

Mi fa qualche esempio?
«Si tratta di esperienze anche modeste, che però fronteggiano problemi elementari, il disagio abitativo, le drammatiche forme di disuguaglianza. In diverso modo si risponde a quei bisogni che erano al centro delle riflessioni già negli anni Venti del Novecento o, andando indietro nel tempo, erano presenti nel pensiero utopico».

Volge al declino la stagione delle archistar?
«Mi chiede un vaticinio. Il fatto è che la gran parte delle archistar non realizza architetture di qualità, ma oggetti per lo spettacolo visivo e per l’intrattenimento. E soprattutto non fa pezzi di città».

Oggi alle 17.30 all’Università di Bologna si terrà la cerimonia di conferimento della laurea ad honorem in pedagogia per Joseph Rykwert. La Laudatio sarà tenuta da Raffaele Milani Rykwert è nato a Varsavia nel 1926. Tra i suoi saggi sull’architettura e l’urbanistica: L’idea di città ( Adelphi) e La seduzione del luogo ( Einaudi)

Sono passati quarant'anni dal terribile terremoto che scosse il Friuli. Gli abitanti con fermezza vollero ricostruire prima le fabbriche, poi le case"Tutto com’era o saremo stranieri"E fu il miracolo della ricostruzione. Corriere della Sera, 4 maggio 2016 (c.m.c.)

«Dopo il terremoto siamo rimasti con poche galline perché il pollaio è stato completamente distrutto. (...) Una si chiama Sammanta, una Odet e l’altra Aquila perché assomiglia a una aquila. Le galline hanno la cresta. E la faccia rossa. La mamma dice che si saranno date al bere per lo spavento del terremoto".

Sono passati quarant’anni da quella sera del 6 maggio 1976 in cui l’«Orcolàt», l’orco malvagio dei friulani che dorme sottoterra e già aveva seminato morte nel Medio Evo e giù giù per i secoli, diede uno scossone di 6,4 gradi della scala Richter al Friuli radendo al suolo 45 paesi tra cui Gemona, Buja e Osoppo, devastandone altri 40 e ammazzando 989 persone. Fu una mazzata tremenda. Seguita tre mesi dopo, l’11 settembre, da una nuova scossa…

Quella doppia carognata dell’Orcolàt non si limitò a uccidere uomini, donne e bambini e a fare danni per molti miliardi di euro d’oggi e a sconvolgere le galline descritte da Francesca, III elementare, in un pensierino ora esposto nello struggente museo «Tiere Motus» di Venzone. Scosse, come avrebbe scritto il nostro Alfredo Todisco, la fede stessa di tanti valligiani: «Se c’è un Dio che muove l’universo, come può permettere che un così immenso castigo colpisca e annienti genti tra le più remote e timorate per antica tradizione: proprio l’opposto di Sodoma e Gomorra?».

Dopo lo scoramento, però, subentrò la forza morale di gente che, emigrando in cerca di fortuna (una foto di friulani che costruivano la Transiberiana e reggono un cartello: «evviva la Siberia») si era guadagnata una tale fama che, come ricordò Gianfranco Piazzesi, i canadesi distinguevano gli italiani «in due grandi categorie: quelli del Friuli e gli altri».

Dice tutto la petizione dell’agosto ‘77 sottoscritta da tutti gli abitanti del borgo medievale di Venzone, distrutto dal sisma: «Respingiamo con fermezza la tentazione di una ricostruzione standardizzata che certamente ci renderebbe stranieri nella nostra stessa Patria e che, come dimostra il Belice, non riuscirebbe neppure a garantire tempi di esecuzione più brevi». Spiegherà Luciano Di Sopra, l’architetto che col commissario Giuseppe Zamberletti e il governatore Antonio Comelli («Prima pensammo alle fabbriche, al lavoro, alla produzione. Poi alle case») e tanti sindaci fu tra i protagonisti del «Modello Friuli» cui ha dedicato un libro con Rodolfo Cozzi: «C’era chi teorizzava, tra gli urbanisti, l’abbandono delle zone danneggiate per trasferire la popolazione in una “new town” tra Udine e Pordenone, con l’impiego integrale dei prefabbricati». Un orrore. Già commesso a Gibellina, evacuata per dar sfogo alle strampalate fantasie metafisiche di Gibellina Nuova. E destinato a ripetersi a Monteruscello, il quartiere dormitorio tirato su per gli sfollati di Pozzuoli. E poi, ovviamente, nei villaggi satellite dell’Aquila con lo spumante in frigo ma i materiali marciti in tre anni.

In Friuli no, non accettarono quel modello. «Dov’era e com’era», dissero i friulani. Il motto dei veneziani che nel 1902 avevano voluto rifare il Campanile di San Marco uguale a quello crollato. A costo di passare più inverni nei container. Nel fango. Al freddo. E di pensare alle fabbriche, come dicevamo, prima ancora che alle case. Racconterà Marco Fantoni, che aveva visto crollare i capannoni dove produceva mobili: «Sulle prime ci venne da piangere: un disastro. Ma era inutile star lì a lamentarsi. Era un giovedì sera. Mentre organizzavamo nel piazzale un centro per le roulotte per le famiglie dei dipendenti, abbiamo cominciato a consolidare l’unico capannone rimasto in piedi e a portarci i macchinari che ancora potevano essere riparati. Il lunedì mattina la produzione ripartì».

A Venzone gli abitanti impedirono alle ruspe di entrare nel borgo distrutto. Buttarono fuori gli «artisti» che vagheggiavano di coprire il Duomo in macerie con una cupola trasparente: omaggio alla pietra che fu. «Lei stia sul suo altare a dire messa che a fare gli architetti ci pensiamo noi», strillò il sovrintendente al prete, don Giovan Battista Della Bianca. E quello: «Se siete inefficienti faremo noi anche gli architetti».

«Una scelta di disubbidienza civile», scrive Marisa Dalai Emiliani nel saggio su «Il tesoro italiano eroso dai disastri» nel libro collettivo L’Italia dei disastri curato da Emanuela Guidoboni e Gianluca Valensise, «mentre si prepara febbrilmente un piano di recupero controllato delle macerie e si inizia, con metodo stratigrafico da scavo archeologico, la catalogazione scientifica del materiale lapideo crollato e recuperato a terra — bifore, stemmi, mensole sagomate, modanature, scalini — isolato per isolato, casa per casa, muro per muro». Un lavoro immenso e certosino.

Durerà dieci anni, la ricostruzione del borgo, prima che l’ultimo degli abitanti possa lasciare le baracche e tornare nella sua casa. E ancor più impegnativa sarà la ricostruzione del Duomo. Ma resterà l’esempio più clamoroso di cosa sia stato il «modello Friuli»: ripartizione dei compiti, efficienza, Stato presente ma non invadente, grande autonomia alla Regione e da questa massima fiducia ai comuni. Senza un «Uomo dei Miracoli» che osasse dire «ghe pensi mi».

Eppure li fecero davvero i miracoli, i friulani. E su tutti gli uomini e le donne di Venzone… «Tutta la cultura accademica», ricorda Dalai Emiliani, chiedeva per quell’antico Duomo in macerie, «la conservazione allo stato di rudere, facendo appello ai principi da poco sanciti nella Carta del restauro». Vincere le ostilità al «dov’era, com’era» da parte della Soprintendenza triestina («prigioniera di stereotipi culturali, alimentati dal terrore e dal rifiuto del possibile “falso storico”») fu dura, per la «Fabbriceria», che riuniva gli esponenti della comunità. Molto dura.

La spuntarono quei testardi abitanti del paese, però. E con l’aiuto di volontari e studenti di archeologia della Cattolica e sotto la guida dell’architetto Francesco Doglioni, «ogni pietra fu numerata e schedata in base alla sua traiettoria di caduta, quindi identificata nella sua collocazione originaria sulla scorta dello sviluppo grafico dei rilievi fotogrammetrici e dotata di una vera e propria carta di identità, con l’indicazione delle misure, della quota, dello stato di conservazione e usura di ogni faccia e un corredo completo di documentazione grafica e fotografica».

Per recuperare i materiali necessari «fu riattivata una antica cava» e per le malte e gli intonaci le sabbie di due corsi d’acqua locali. «Agli scalpellini, eredi dei tagliapietre medievali, si insegnò a lavorare le pietre delle reintegrazioni» ma anche a trattare i 7.650 conci superstiti sdraiati in un grande campo sotto l’occhio del «corpo docente», i mastri muratori del posto e i professori di Architettura di Venezia.

Diciannove anni, ci misero. Ma nel ‘95 il Duomo poteva infine essere riconsacrato. E oggi è lì, bellissimo, a fare coraggio a chi, davanti a certi rovesci della sorte, si sente mancare il fiato. E a ricordare ai turisti e più ancora ai «puristi» sconfitti, di cosa è capace una comunità unita e fiera di se stessa.

«Se la dilapidazione delle risorse non rinnovabili e il dilagare di modalità insediative non urbane hanno una matrice comune, la soluzione non può che essere cercata in una nuova alleanza che sappia tenere unite istanze ecologico-ambientali e valori civili».

Intervento alla Tavola Rotonda nell’incontro Studiare il futuro già accaduto. Il sistema climatico del Bacino del Po dall’inizio del Novecento a oggi, a cura di Ezio Tabacco e Luciana Tasselli, Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci, Milano, 27 gennaio 2016.

Quanto della trasformazione del mondo è frutto di un progetto consapevole e condiviso e quanto invece avviene nell’indifferenza o con la latitanza della politica? Politica ovviamente intesa nel senso più alto del termine, implicante il nostro essere parte di una società attenta alla direzione in cui si muove e in grado di apportare i correttivi per assicurare la migliore convivenza e il massimo grado possibile di benessere e felicità per il maggior numero di persone. Ci sono processi travolgenti che sembrano generarsi per meccanismi spontanei rispetto ai quali chi ha responsabilità di governo nella moderna democrazia si dimostra disattento o impotente, o, più spesso, connivente.

Si pensi all’agricoltura e agli insediamenti umani. Per tutta una fase iniziale dello sviluppo capitalistico - fase che, con riferimento alla Lombardia e alla Valle Padana, potremmo chiamare cattaneana, dal nome del suo massimo interprete -, le campagne hanno potuto essere descritte come un «edificio idraulico» e un «immenso deposito di fatiche» e le città essere celebrate come il contesto del manifestarsi della «magnificenza civile» (le definizioni sono, appunto, di Carlo Cattaneo).

Seppure in quella fase abbia avuto luogo una dilapidazione del patrimonio boschivo usato soprattutto come fonte energetica nelle prime lavorazioni della seta - e senza mai dimenticare che alle «fatiche» corrispondeva un elevato sfruttamento della forza lavoro -, si può dire che l’azione antropica su città e campagna sia andata di conserva esaltando le virtù sia della campagna che della città e il loro rapporto sinergico.

Nel configurarsi nell’arco di almeno un millennio di un assetto fisico e relazionale tutto sommato equilibrato, la politica ha avuto un ruolo abbastanza marginale. A guidare l’azione umana sono stati principi non scritti ma così radicati nel sentire comune e nei comportamenti che non avevano nemmeno la necessità di essere ratificati nel corpo legislativo. Ne richiamo due in particolare:

1) il patto fra le generazioni (le esistenti e le future) riguardante il mantenimento della capacità nutritiva della terra;
2) un modello di convivenza civile che, calato nelle forme insediative, ha mosso la storia della città verso una più netta affermazione dell’urbanità, che, a conti fatti, possiamo considerare come il lascito più alto della civilizzazione. Un’azione, questa, ulteriormente sostanziata nella prima metà dell’Ottocento dal rinnovarsi dell’idea operante della città come opera d’arte, che vedeva la nuova classe in ascesa, la borghesia, ricorrere alla bellezza come a un modo per legittimare la propria egemonia (in linea con una lunga tradizione).

Questi principi nel corso nel Novecento sono via via evaporati, con un’impennata negli ultimi decenni, senza che la politica se ne interessasse e mettesse in atto le opportune contromisure.

Un bilancio di medio-lungo periodo ci porta a concludere che, nell’ultimo secolo, agri coltura e urbis coltura hanno conosciuto una crisi parallela. Una crisi che, a dispetto delle apparenze, ha una radice comune nel venir meno del nesso tra l’antropizzazione e il colĕre, ovvero quel complesso di azioni che la lingua latina condensa in questo termine, in particolare l’avere cura e il venerare/onorare (che, ai fini del nostro ragionamento, possiamo laicamente attualizzare in riconoscimento e condivisione di valori comuni e attribuzione di ragioni di senso). Per questo non è fuori luogo parlare di una rottura epocale.

La crisi è chiaramente riscontrabile nei fatti concreti non meno che nel venir meno di una tensione ideale. Pratiche plurisecolari e principi saldissimi sono stati travolti dall’affermarsi di una realtà, insieme economico-sociale e territoriale, che possiamo denominare metropoli contemporanea, un organismo inedito nella storia dell’umanità, come lo è il modo di produzione capitalistico di cui è l’emanazione.

Tutt’uno con la rivoluzione industriale e i suoi sviluppi, la metropoli contemporanea ha avuto il suo motore primo nella messa a frutto delle specifiche economie esterne di città e campagna e soprattutto delle loro differenze, a cominciare dal divario nei costi riproduttivi della forza lavoro. Alla sua marcia trionfale ha concorso non poco la capacità di promuovere il sostentamento di ingenti masse e di consentire processi di emancipazione come mai si era verificato nella storia.

La fase attuale, contrassegnata dal predominio del capitale finanziario, è caratterizzata da un accentuarsi della concorrenza tra le realtà metropolitane conseguente alla globalizzazione in cui, oltre alla capacità dei contesti di attrezzarsi per far fronte alle nuove sfide, conta non poco la risposta ai problemi connessi al modello di sviluppo. Ne richiamo quattro:

- la dilapidazione di larga parte delle campagne ricadenti nella più diretta influenza dell’organismo metropolitano;
- l’abbandono, in molta parte di ciò che rimane del suolo agricolo, della cura volta a rigenerare gli elementi che assicurano la fertilità della terra;
- il dilagare nell’ultimo secolo di un’urbanizzazione estesa, informe, per lo più a bassa densità e a elevata entropia: un quadro ben identificato con il termine inglese sprawl;
- l’azione disgregatrice esercitata sul corpo della città compatta dalla rendita immobiliare e dalla speculazione, a cominciare dall’innesto di corpi estranei a elevata densità.

Questi processi strettamente intrecciati sono tutt’altro che esauriti. Ciò che le metropoli si trovano di fronte è una modalità insediativa e relazionale che presenta notevoli criticità su due fronti interdipendenti: la sostenibilità ecologica e la sostenibilità sociale.

Siamo alla resa dei conti di un modello di formazione e funzionamento degli insediamenti che ha avuto ed ha nella rete di trasporti su gomma il suo supporto. Il vantaggio iniziale offerto da questa modalità insediativa - essenzialmente riconducibile alla riduzione relativa della rendita fondiaria - si è rapidamente rovesciato in svantaggi.

Per cominciare, ne indico un paio:

- la forte dissipazione di risorse non rinnovabili (suolo, energia etc.);
- il gravare sul bilancio pubblico dei costi di realizzazione e di manutenzione delle reti (viabilità e trasporti, servizi primari).

Mentre sul primo punto si registra una crescita di consapevolezza e cenni di mobilitazione civile, l’attenzione, non solo degli addetti ai lavori, ma anche degli intellettuali e dei cittadini sul secondo punto è assai meno stringente. Eppure la crisi fiscale dello Stato e la stessa crisi economica hanno qui una loro radice strutturale e persistente.

Il modello insediativo e di funzionamento della metropoli contemporanea pesa sul bilancio dello Stato (ai vari livelli, a cominciare da quello locale) per via di una notevole sproporzione - e ingiustizia - nel riparto, tra settore pubblico e settore privato, delle spese relative ai cosiddetti processi urbanizzativi. Se per descrivere sommariamente il territorio usiamo l’immagine dell’albero, assimilando la pianta alle reti infrastrutturali pubbliche e i frutti alle costruzioni (per lo più private), possiamo dire che chi gode dei frutti non si assume per intero i costi di impianto e di manutenzione dell’albero. La sproporzione è particolarmente rilevante in Italia dove gli oneri di urbanizzazione - oltre a essere del tutto inadeguati al costo di realizzazione delle opere, per non dire della loro manutenzione - da un quindicennio possono essere sottratti al capitolo di spesa specifico per essere impiegati in altri capitoli, a cominciare dal funzionamento della macchina burocratica[1].

A ciò si aggiunge la possibilità, concessa per legge, di monetizzare quanto il privato non può assicurare in termini di dotazioni obbligate. Si pensi alla legislazione regionale per il recupero dei sottotetti che consente di trasformare in un tributo la mancata realizzazione della quota dei parcheggi di pertinenza; o ai vari casi in cui viene consentita la monetizzazione degli standard urbanistici. In tutto questo si evidenzia la propensione degli Enti Locali a favorire in tutti i modi il settore delle costruzioni pur di ottenere introiti per le casse pubbliche sempre più in sofferenza: poco denaro fresco, a fronte di un ben più rilevante esborso futuro da parte dell’ente pubblico, con un risultato certo: l’accumularsi esponenziale di un deficit nel bilancio dello Stato e delle sue articolazioni.

Le conseguenze sono devastanti anche e soprattutto sotto il profilo del governo delle trasformazioni territoriali. La sfera urbanistica, da tempo in sofferenza per lo sguardo corto degli amministratori pubblici, attenti solo ai cinque anni del loro mandato - tacendo dell’acquiescenza diffusa tra i cosiddetti esperti del settore -, è ormai sempre più vista e praticata dai gestori della cosa pubblica come una branca della fiscalità generale. Il che spiega la scarsa attenzione - quando non la rimozione - riservata alle questioni del progetto e dell’effettivo governo del territorio. Il territorio è un patrimonio e un bene comune a cui lo Stato attinge, svendendo il futuro del consorzio umano.

Parlano i fatti: anche il progetto di trasformazioni che hanno una portata rilevante per il destino delle città da decenni è del tutto demandato agli attori privati, ovvero a chi detiene le redini degli investimenti e della speculazione immobiliare (i grandi gruppi finanziari, la cui ‘potenza di fuoco’ è enormemente cresciuta con la globalizzazione). Ma la delega riguarda anche gli interventi di piccolo cabotaggio sul fronte dell’espansione insediativa; un ambito, questo, in cui l’esercito dei piccoli e medi investitori consegue nell’insieme un esito quantitativamente non meno rilevante di quello dei grandi operatori. La capacità della Pubblica amministrazione non solo di indirizzare, ma, più limitatamente, di discernere e di contrattare, è indebolita - quando non annullata - dalla convergenza che si è di fatto instaurata tra investitori immobiliari e amministratori pubblici. Una convergenza prossima alla connivenza che ha come esito un prezzo sociale altissimo, oltre a quello ecologico: la rimozione sia della difesa della città sia dell’attribuzione di qualità urbana e relazionale al nuovo ambiente costruito.

Una delle specificità di questo modello di sviluppo, del tutto assente nel mondo precapitalistico, è la sovrapproduzione. Una pratica ampiamente presente in campo edilizio a cui, oltre che una accentuazione della devastazione ambientale, corrisponde la sottrazione di ingenti risorse finanziarie ad altro tipo di investimenti. Da una recente analisi del Centro studi di Unimpresa, basata su dati della Banca d’Italia, apprendiamo che in Italia a novembre 2015 «Oltre il 30% delle sofferenze delle banche è riconducibile al settore immobiliare»: 64 miliardi di euro su un totale di 201 miliardi di euro di prestiti non esigibili. Ma sulla bolla immobiliare il silenzio dei media rasenta l’omertà. A nessuno dei commentatori interessa addentrarsi in una materia che vede il settore immobiliare trasformato da alcuni decenni in pesante zavorra: in una spugna che assorbe risorse sottraendole a investimenti strategici, ovvero ad attrezzare i nostri contesti metropolitani in modo che non soccombano nella sfida economica globale.

Ma non meno rilevanti sono le conseguenze sul versante della sostenibilità sociale. Le sintetizzo in tre punti:

- l’homo metropolitanus, disperso in quelle che con grande intuito già nel 1893 Émile Veraheren chiamava Les campagnes hallucinées, paga in termini di tempo e denaro ciò che in apparenza risparmia sul versante del tributo alla rendita: l’erosione della risorsa tempo lo impoverisce (se è vero che il tempo disponibile per ciascuno può essere considerato come il vero misuratore della ricchezza[2]);
- la cosiddetta «città diffusa» non ha nulla della città e questo va a discapito delle qualità relazionali, per non dire dell’ingigantirsi della questione della sicurezza. A essere in pericolo è lo stesso processo di incivilimento, se è vero che l’urbanità costituisce il livello più elevato raggiunto dalla convivenza civile tanto nell’urbs (la città fisica) quanto nella civitas (la città degli esseri umani);

- l’indebolimento della tensione su cui si regge l’urbanità come habitus diffuso ha tra i suoi indicatori la caduta della bellezza civile. Le forme del nuovo non mentono: le archistar sono costrette a esercizi inventivi i cui esiti stravaganti mal nascondono il vuoto di valori. Un vuoto che, in estrema sintesi, nasce dalla sostituzione del coesistere al convivere (da cui la scarsa o nulla attenzione alle relazioni di prossimità a favore di un’esaltazione enfatica delle relazioni a distanza, complici le nuove tecnologie). Molti degli organismi fuori scala sorti di recente a Milano non sono altro che teche sigillate che riducono l’intorno a deserto relazionale e di senso. Siccome l’essenza dell’architettura sta nella relazione, oltre alla morte dell’urbanistica, assistiamo così a prove di morte dell’architettura.

Questo nostro è tempo di divaricazioni e di contrasti. Proprio quando la globalizzazione economica e l’informatizzazione sembrano unire e fare piccolo il mondo, si accentuano crepe antiche (tra culture, dove le religioni hanno grande peso) e se ne formano di nuove.

Una di queste lacerazioni riguarda il tempo: c’è una parte del reale che conosce mutamenti rapidissimi e una parte che arranca. Si allarga la forbice tra mondo neotecnico e mondo paleotecnico. Ci sono le frontiere dell’innovazione dove la tecnologia, e in parte anche la scienza, sono protagonisti su più fronti - informatizzazione virtuale, comunicazione, automazione, biologia, medicina ecc. - e un mondo che, al confronto, appare quasi fermo, impaniato nel suo assetto. Il neotecnico non rimuove il paleotecnico, se non in minima parte: lascia un esteso residuo, un’eredità della storia che presenta valenze variegate. Così assistiamo al divaricarsi tra il mondo dei flussi, in particolare di quelli immateriali, e la realtà fisica, in particolare quella degli insediamenti. Realtà, quest’ultima, dove il paleotecnico è, in una parte non trascurabile, il risultato di quello che non molto tempo fa - si pensi all’automobile - appariva come neotecnico, capace di rappresentare l’idea stessa di modernità (Le Corbusier, per fare un esempio, pensava che gli insediamenti umani andassero ridisegnati in toto pur di adattarli all’automobile).

In realtà quello che chiamiamo modernità è un succedersi di astrazioni, scollamenti e separazioni: nelle pratiche e nei saperi; tra pratiche e saperi; tra il fare e la responsabilità civile. L’astrazione più potente ed emblematica è la proprietà privata, per la quale ci si dimentica facilmente del vincolo dell’utilità sociale sancito, per restare in Italia, nella Costituzione repubblicana.

Se l’aria delle città rendeva liberi, l’aria della metropoli sembra aver liberato l’individuo sia dal vicinato, dalla sua tirannia ma anche dai suoi vantaggi, sia dalla cura del contesto stessa della vita. Così, mentre una parte sempre più consistente di popolazione è attratta nella sfera delle metropoli e delle megalopoli, l’immane opera costruttiva che vi corrisponde non è iscrivibile sotto il segno della città (che Claude Lévi-Strauss, in Tristi tropici, ha definito la «cosa umana per eccellenza»[3]). E questo a dispetto dell’abuso del termine città (un mascheramento che, al pari della devastazione, non conosce l’eguale nella storia).

Oggi anche nel pensiero che si interroga sulle strategie possibili, e dunque in quel che resiste nel pensiero politico per eccellenza, pesa una dicotomia fra istanze ecologiche e istanze civili. È più facile trovare convergenze sulle prime che sulle seconde ed è raro vederle poste insieme. Ma la dilapidazione delle risorse non rinnovabili e il dilagare di modalità insediative non urbane hanno una matrice comune. E la soluzione non può che essere cercata in una nuova alleanza che sappia tenere unite istanze ecologico-ambientali e valori civili.

[1] Il Testo Unico per l’edilizia (D.P.R. 380/2001), abolendo nell’art. 136, comma 2, la legge 28 gennaio 1977, n. 10 (Bucalossi), ha aperto la strada alla possibilità degli Enti Locali di dirottare gli oneri di urbanizzazione dalla specifica voce di spesa a cui erano vincolati ad altre voci di bilancio. È uno degli ultimi atti del governo Amato su proposta del Franco Bassanini, allora Ministro della Funzione Pubblica. Un’operazione, come osservato da Sergio Brenna, «apertamente illegittima, poiché un TU non può né introdurre né abrogare alcuna norma».
[2] Karl Marx,
Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie (1857-1858), Dietz Verlag, Berlin 1953, trad. it. di Enzo Grillo, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica. Vol. II, La Nuova Italia, Firenze 1970, p. 405.
[3] Claude Lévi-Strauss,
Tristes Tropiques, Librairie Plon, Paris 1955, trad. it. di Bianca Garufi Tristi tropici, Il Saggiatore, Milano 1972 (1960), p. 119.

Per trasformare una città non bastano i programmi. Occorrono cose che scaturiscono dall'incontro del cuore col cervello. Qui ne trovate molte, utili per tutte le città del mondo.waltertocci.blogspot.it, 30 gennaio 1016

Ormai sappiamo quasi tutto dei Mali di Roma. Per scoprire i Beni di Roma, invece, ci vuole uno sguardo nuovo. A Roma l'innovazione è come una civiltà sepolta ancora da scavare. Occorre un'archeologia del contemporaneo per portarla alla luce, rompendo la crosta dell'indifferenza e del conformismo che la opprime.

Sarà per questo che il nuovo, quando riesce ad esprimersi, si fa beffa del consueto.

C'è ironia nei giovani del co-working che producono l'immateriale proprio nelle vecchie officine dove si batteva il ferro.
C'è ironia nei colori sgargianti della street art che illumina il paesaggio dei palazzi anonimi di periferia.
C'è ironia nel progettare un giardino pensile sopra la brutta tangenziale est.
C'è ironia nell'usare il car-sharing liberandosi del fardello proprietario dell'automobile.
C'è ironia nel realizzare un orto urbano dove era previsto un centro commerciale.
C'è ironia nei giovani del Garage-Zero che in un'autorimessa del Tuscolano hanno dato vita all’unica galleria romana di arte contemporanea nota nel mondo.
C'è ironia involontaria nella ruspa speculativa che ha rotto una falda creando un romantico laghetto nell'area industriale inquinata della Snia-Viscosa.
C'è ironia nel ripulire una discarica coltivando gigli, gladioli e tulipani da parte dei cittadini dell’associazione Bulbi Sovversivi.
Al contrario le opere promosse dall'establishment sono noiose, prevedibili e seriali: le palazzine nell'hinterland, gli uffici in vetrocemento, gli scatoloni edilizi degli ipermercati.
C'è un'ironia dell'innovazione che annuncia una trasformazione - ancora non compresa - degli stili di vita, dei modi di produzione e dell’immaginario urbano. Si esprime per frammenti un nuovo diritto alla città. Trovare una connessione con queste domande. Ecco l’imperativo di chi voglia ancora pensare un progetto di governo per la prossima Roma.
Occorre una politica del Riconoscimento, come scoperta degli innovatori, come relazione tra gli attori sociali, come luogo che offre un senso comune alle differenze. Le relazioni sociali si rappresentano nello spazio pubblico. Anche nella più semplice delle relazioni, come il dare un appuntamento, ci riconosciamo in un luogo.
Chi partecipa agli eventi dell'ironia impara sempre qualcosa. La soluzione non è quasi mai scritta in partenza, ma è generata nello scambio, nel conflitto e nell'invenzione. C'è sempre un apprendimento sociale quando la città si trasforma. Venti anni fa per uscire dalla depressione di Tangentopoli inventammo le Centopiazze, non tutte riuscirono bene, ma in molti casi aiutarono i quartieri a riconoscere le proprie risorse. Oggi, per uscire dal buio di Mafia capitale ci vorrebbe un programma nuovo: le Centoscuole da rinnovare nelle tecnologie e nelle architetture per farne i centri più belli dei quartieri, aperti giorno e sera, non solo per l'istruzione dei figli, ma anche dei genitori. Sarebbero i luoghi dell'apprendimento e del riconoscimento: spazi per la libera espressione dei linguaggi giovanili; strutture per l'alternanza scuola lavoro nelle filiere creative; laboratori civili per la riconversione ecologica, porte aperte per i bambini e gli adulti migranti.

Su un muro di Roma è apparsa una scritta paradossale: basta fatti, vogliamo promesse. A prima vista mi è sembrata sbagliata; come ex-amministratore conosco il valore dei risultati e quante soluzioni oggi si attendano i cittadini. Ma la retorica dei fatti nasconde molti inganni: risolve tutto un uomo solo, si risponde sempre a un'emergenza, sembra già stabilito e certo il da farsi. Non è cosi. Fare le riforme non significa promulgare un editto, ma aiutare i riformatori che stanno già realizzando il cambiamento, che si danno il tempo necessario, che inventano insieme le soluzioni. La promessa è diventata una brutta parola nella politica mediatica. Ma è tempo di darci nuove promesse come comunità sociale e politica che prepara il futuro, per realizzare i fatti che non abbiamo ancora immaginato.

Rivolgo un augurio ai giovani: fate irruzione nei partiti, scansate i notabili che se ne sono impadroniti, aprite le porte verso la società e la cultura. Ai militanti del mio Pd una raccomandazione ulteriore: non bastiamo a noi stessi, cerchiamo ancora nella società romana i protagonisti del cambiamento. A indicare le tracce saranno le parole da riscoprire, come Ironia, Riconoscimento e Promessa.


Intervento alla convention Puoi dirlo forte organizzata da Tobia Zevi e da tanti altri giovani appassionati di Roma, alla Galleria Colonna il 28-1-2016.

PS - Per aiutare uno sguardo curioso sulla città rinvio alla bibliografia che abbiamo raccolto come CRS sugli studi e le ricerche degli ultimi anni. Si tratta di contributi eterogenei per argomento e per approccio, ma offrono tante piste di approfondimento. Purtroppo circolano poco nel dibattito pubblico ormai dominato dalle angustie mediatiche. Aiutateci a perfezionare e ad arricchire la raccolta di analisi e progetti per Roma.

L’ILVA di Taranto è un malato intorno a cui si aggirano tanti medici come intorno al letto di Pinocchio nella casa della Fata ...(continua a leggere)

L’ILVA di Taranto è un malato intorno a cui si aggirano tanti medici come intorno al letto di Pinocchio nella casa della Fata dai capelli turchini. E, purtroppo, ogni medico ha una ricetta diversa e difende la sua con intemerata convinzione. L’ILVA è una fabbrica che produce una merce, l’acciaio, una lega di ferro e altri elementi, partendo da minerali nei quali il ferro è, in qualche forma, legato all’elemento ossigeno. Tutta l’operazione consiste nel “portare via” l’ossigeno (si chiama “riduzione”) degli ossidi di ferro del minerale e nel “liberare” ferro da adattare poi ai vari usi tecnici e commerciali. Ciò avviene usando come agente “riducente” il carbone; altrove l’acciaio viene prodotto con forni elettrici rifondendo il rottame. La produzione mondiale annua di acciaio ammonta a circa 1600 milioni di tonnellate; quella italiana a circa 25 milioni di tonnellate, circa la metà fabbricata a Taranto. Purtroppo il processo per la produzione dell’acciaio è lungo e inquinante ed è dannoso per la salute dei lavoratori dentro la fabbrica, e dei loro familiari che abitano i quartieri vicini.

Il carbone è il principale responsabile della crisi ambientale a causa delle sostanze nocive che si formano nei processi di trasformazione del carbone fossile in carbone coke, nell’agglomerazione del carbone coke con il minerale di ferro e con calcare e nella trasformazione, negli altiforni, col calore ottenuto anch’esso dal carbone, dell’agglomerato in ghisa. La ghisa viene poi trasformata, insieme al rottame, in acciaio nei convertitori mediante ossigeno.

Alcuni dei medici che cercano di risanare l’ILVA si sono chiesti se non sia possibile ottenere acciaio, di cui c’è crescente bisogno nel mondo, con un processo, già sperimentato altrove, che usa il metano del gas naturale come agente riducente del minerale. Il metano è costituito da un atomo di carbonio e quattro atomi di idrogeno, tutti adatti per “portare via” l’ossigeno dal minerale; si ottiene così un ferro preridotto che, trattato insieme a rottami, può essere trasformato nelle varie qualità e nei vari tipi di acciaio richiesti dal mercato. Il processo consentirebbe di liberare Taranto dalla schiavitù del carbone, comporterebbe un minore consumo di energia per tonnellata di acciaio prodotto e un minore inquinamento e sarebbe certamente molto più “verde” ed ecologicamente accettabile di quello attuale, anche se nessun processo è esente da polveri e fumi e scorie.

La produzione di acciaio col metano richiederebbe una radicale trasformazione dell’acciaieria, forse la localizzazione in un’altra zona vicina, e la soluzione di molti problemi tecnico-scientifici. L’economia e la termodinamica sembrano favorevoli e nel mondo già circa 75 milioni di tonnellate di acciaio sono prodotti ogni anno con ferro preridotto. Come tutte le transizioni tecnologiche la trasformazione dell’attuale acciaieria con l’introduzione del ciclo basato sul metano incontra decise opposizioni. Innanzitutto in coloro che dovrebbero affrontare nuovi investimenti finanziari. Contro l’acciaio al metano sono prevedili opposizioni da parte delle potenti organizzazioni dell’estrazione, del commercio e del trasporto del carbone. Nel mondo circa 1000 milioni di tonnellate di carbone ogni anno sono assorbite dalla siderurgia mondiale e gli ingenti profitti di queste attività verrebbero ridotti a favore dei produttori, esportatori e trasportatori del metano.

I vantaggi sembrano peraltro riconoscibili; innanzitutto sul piano umano, sociale e ambientale, grazie alla diminuzione dell’inquinamento; verrebbe così data una risposta alla giusta protesta popolare contro l’attuale “acciaio”, e si avrebbero positive ricadute di occupazione nelle fasi di innovazione e ricerca e di costruzione e installazione dei nuovi impianti.

Per ora il discorso è soltanto iniziato, ma è ragionevole credere che la sopravvivenza della siderurgia italiana e dell’acciaieria di Taranto possano passare da una trasformazione tecnologica basata sul metano. E’ perciò comunque auspicabile che si passi dalla fase di idea e proposta ad una seria analisi interdisciplinare delle attuali conoscenze sulla preriduzione, anche nei loro aspetti geopolitici: da dove acquistare minerali di ferro e di quale qualità e dove approvvigionarsi del metano, tenendo conto che finora la preriduzione è stata vista come un processo da utilizzare nelle vicinanze delle miniere, con esportazione di ferro preridotto, per cui al paese importatore resterebbe la fase finale della produzione di acciaio. Si tratta di scelte influenzate anche dalla futura disponibilità di rottami, prevedibilmente in aumento.

La transizione potrebbe incentivare quella innovazione tecnologica di cui tanto si parla, anche con il coinvolgimento delle Università, e comunque non potrebbe avvenire per bacchetta magica. Si tratta di fare una attenta previsione e programmazione del ruolo dell’Italia nella produzione dell’acciaio identificando la richiesta futura, la qualità dell’acciaio richiesto e i settori di impiego, dall’edilizia alla meccanica, interni e internazionali. Non so come finirà; si tratta di una occasione per coinvolgere, come mai è stato fatto in passato, la popolazione nei dettagli del processo, delle quantità e dei caratteri delle materie che verrebbero ad attraversare Taranto; una occasione per effettuare una “valutazione dell’impatto ambientale” preventiva, con la partecipazione della popolazione, ben diversa dalle valutazioni finora fatte a disastri avvenuti. Comunque, a mio modesto parere, anche solo l’aver formulato l’idea di un cambiamento, sta stimolando un dibattito e destando un briciolo di speranza per un futuro in cui Taranto conservi la sua tradizione industriale e operaia, l’occupazione e in cui si muoia di meno di mali ambientali.


L'articolo è stato inviato contemporaneamente a La Gazzetta del Mezzogiorno
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