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«Vede quella cascina? È amministrata da una società di Ligresti. Siamo buoni vicini di casa. Noi facciamo gli agricoltori, loro fanno gli agricoltori». A parlare è Paolo Bossi, 50 anni, veterinario. Con il fratello Francesco (agronomo), la sorella Giuditta (medico) e la mamma farmacista è affittuario di 40 ettari in via Selvanesco. Non molto lontano dalla sua azienda sorgerà il Cerba: su un’area di Ligresti, come d’altra parte è di Ligresti l’area dello Ieo, l’Istituto europeo di oncologia. Alla Immobiliare Costruzioni dell’ingegnere di Paternò sono riconducibili proprietà nei fogli catastali 633, 635, 655, 685 a sinistra dell’asse di via Ripamonti. Ma altre sue società possiedono terreni a destra di Ripamonti. Questa non è più Milano, è Ligrestown. Il trapasso avviene in modo simbolico ancora sulla via Ripamonti. Uscendo dalla città si incontra prima il palazzo della Coldiretti, con la grossa insegna verde «Consorzio agrario».

Più a Sud, un po’ sopra via Selvanesco, là dove il 24 fa capolinea a rispettosa distanza dall’area di via Macconago del Cerba, svettano le torri di Ligresti. Un simbolo, appunto. Del suo potere e del suo stile. L’ingegnere ha tirato su due piani in più di quelli previsti dalla concessione edilizia. Lo hanno fermato e questi ultimi due piani sono rimasti uno scheletro non costruito, un cappello bucherellato, d’aria e cemento, in testa agli edifici. Dentro c’è l’Inps.

Le tappe del degrado di cui si parla a proposito del parco Sud, sono quattro. Si parte da una azienda agricola funzionante e stabile grazie a contratti di lungo periodo: almeno vent’anni. La proprietà perciò accorcia i contratti degli affittuari, rendendo più onerosi gli investimenti (il rientro deve avvenire in tempi brevi) e più incerte le prospettive: l’agricoltura d’impresa si trasforma in agricoltura di sopravvivenza. Il terzo passaggio è l’abbandono: il contadino va in pensione o getta la spugna, la proprietà non riaffitta. È il gran finale: sui terreni lasciati a se stessi si insinuano attività abusive. Arrivano gli sfasciacarrozze, proliferano le discariche.

Il consigliere comunale verde Enrico Fedrighini la chiama «costruzione del degrado». A cosa serve? «Alla valorizzazione immobiliare dei terreni - risponde Fedrighini - perché i proprietari non sono imprenditori del settore alimentare ma di mestiere costruiscono palazzi». Con la sola Immobiliare Costruzioni, Salvatore Ligresti possiede ettari ed ettari di aree agricole inedificabili fra Cerba e dintorni. Cosa se ne fa? Li coltiva, certo. Però i fratelli Bossi strabuzzano gli occhi nel sentire che il Pgt, il Piano comunale di governo del territorio, potrebbe assegnare un indice di edificabilità dello 0,20 ai terreni coltivati: «L’indice agricolo è dello 0,03. Con lo 0,20, sui nostri 40 ettari verrebbero 80.000 metri quadrati di case, hai voglia quante sono».

Il Pgt assegna alle aree agricole un indice virtuale. La scommessa è che la proprietà lo riversi su altre aree (edificabili) e in cambio ceda gratuitamente l’area al Comune. È la cosiddetta perequazione. Ma gli immobiliaristi sembrano voler puntare sul «degrado costruito», grazie al quale porteranno a casa l’8,15% di aree edificabili in più nelle aree del parco Sud comprese nei Piani di cintura urbana. Perfino la Provincia, che governa il parco, lo ritiene un sacrificio necessario per salvare il resto con gli oneri di urbanizzazione. Ma a questo punto, perché «perequare»? Conviene accettare l’indice di edificabilità e far fare al degrado il suo lavoro. Poi si risanerà costruendo.

La cascina Gaggioli dei fratelli Bossi fa agricoltura biologica. Vende riso, farina, la carne di una cinquantina di mucche (francesi, razza Limousine), ha cinque camere per agriturismo. Molti turisti stranieri preferiscono dormire in campagna e al mattino prendere la bicicletta. Il Duomo è a 6 chilometri. Il fondo della Gaggioli è coltivato in modo documentato dal 1300 ma esiste da prima, da quando i monaci cistercensi bonificarono le paludi, costruirono i canali per irrigare e diedero vita sulle due fondamenta della presenza del bestiame e di una abbondante riserva d’acqua alla produzione di latte, carne, riso, foraggio (mais, orzo, prati).

«Con le ovvie modifiche tecnologiche - spiega Dario Oliviero della Cia (Confederazione italiana agricoltori) - la trasformazione pensata allora è valida concettualmente ancora oggi». Siamo dunque alla fine di una storia plurisecolare? «Per noi - dice Oliviero, che rappresenta la categoria nel direttivo del parco Sud - l’espulsione dell’agricoltura è un fatto evidente». E i piani di cintura urbana con i quali parco Sud, Provincia e Comuni devono dettare le norme urbanistiche di 4.800 ettari prevalentemente in Comune di Milano? «Se ben calibrati - risponde Oliviero - sono un elemento regolatore fondamentale».

Questi sono i campi più fertili d’Europa. Il terreno a medio impasto, né argilloso né sabbioso, è il migliore per i seminativi. Il sindaco Moratti aveva promesso attenzione per il settore. Eppure i Bossi, semplicemente per rifare la stalla, hanno chiesto l’autorizzazione al parco Sud, poi atteso 11 mesi l’ok della commissione edilizia, dalla scorsa primavera aspettano il permesso di costruire. In Comune hanno chiesto lumi sull’allacciamento fognario: «Facciamo una stalla, quali fogne? il letame va nei campi». Questo nel secondo Comune agricolo italiano (800 ettari di terre), nella città che propone al mondo una Expo sull’alimentazione.

Insieme abbiamo dato vita alla manifestazione del 22 gennaio 2006. Quella giornata segnò il punto di arrivo di un percorso più che decennale che è giunto mobilitare decine di migliaia di persone ed ha fatto del movimento contro il ponte un laboratorio politico e sociale capace di far convivere al proprio interno anime molto differenti tra di loro. Fu quella manifestazione a segnalare l'avversione al ponte di una parte consistente dell'opinione pubblica. Quel segnale venne raccolto sul piano elettorale e tradotto nella formula ambigua di "opera non prioritaria" nel programma del Governo Prodi (operazione che ha fermato la costruzione del ponte, ma che ha lasciato sul campo la Stretto di Messina Spa ed il contratto con il general contractor).

Oggi ci troviamo a dover nuovamente affrontare l’offensiva dei fautori del Ponte. Sostenuti da Berlusconi, che ne ha sempre fatto una sua bandiera, e dal Presidente della Regione Sicilia Lombardo, che guarda evidentemente con grande interesse ai flussi finanziari che ne deriverebbero, i pontisti si apprestano se non proprio a costruirlo (rimangono, infatti, inalterati gli interrogativi dal punto di vista ingegneristico e del finanziamento) ad aprire un capitolo di spesa dentro il quale, di volta in volta, far confluire le risorse a disposizione per progettazione, sbancamenti, movimento terra, info-point ecc.

Va detto, peraltro, che sulla politica delle grandi opere si gioca in parte il futuro delle condizioni materiali di vita di tutti. L'utilizzo dei fondi Fintecna (originariamente destinati alla costruzione del ponte e poi stornati dal Governo Prodi per opere infrastrutturali in Sicilia ne Calabria) per coprire i mancati introiti causati dall'abolizione dell'Ici sulla prima casa dimostra che i soldi per le grandi opere saranno ricavati dalla riduzione delle spese sociali (istruzione, sanità, servizi). Da questo punto di vista l'agire nell'ambito del generale Patto di Mutuo Soccorso tra le comunità in lotta contro le devastazioni territoriali da un significato politico ulteriore alla nostra battaglia.

Facciamo, quindi, appello a tutti perchè si rimetta in moto la mobilitazione contro il ponte, affinché si comincino a tessere nuovamente quelle relazioni virtuose che ci hanno consentito di fermarli la prima volta, per costruire un percorso di iniziative che ci porti a realizzare, magari proprio a gennaio prossimo, a tre anni di distanza, una nuova grande manifestazione.

RETE NO PONTE, Stretto di Messina, luglio 2008

Parte l’assalto al verde del Parco Sud. Ci si lavora dal 2006, e da oggi i Piani di cintura urbana iniziano il loro iter amministrativo. I Pcu sono cinque progetti urbanistici che riguardano aree del parco Sud, vincolate alla destinazione agricola, in territorio perlopiù di Milano e marginalmente dell’hinterland. L’accordo fra la Provincia (ente gestore del parco Sud), e il Comune di Milano prevede che poco più dell’8% di questi terreni, originariamente inedificabili, venga costruito, per reperire i soldi necessari a salvaguardare il resto. Ancora non si sa, però, quale sarà l’indice di edificabilità concesso. La Provincia calcola che, se anche Milano fissasse un tetto minimo, il nuovo costruito non potrebbe essere contenuto nell’8% reso edificabile.

Più cemento nel Parco Sud si costruirà nell’8% dell’area

di Stefano Rossi

Non ci sono solo l’Expo e le grandi infrastrutture. A delineare il volto futuro di Milano concorrerà in modo decisivo l’assetto delle ultime aree agricole della città, in discussione oggi di fronte al direttivo del Parco Sud. Il direttivo raccoglie i Comuni inclusi nel parco e deve dare un parere sui Piani di cintura urbana (Pcu), cinque grandi progetti che coinvolgono Milano e, in parte, l’hinterland per 4.800 ettari, oltre un decimo dei 46.000 dell’intero Parco Sud. Il protocollo concordato fra il parco, governato dalla Provincia, e i Comuni, prevede che l’82% del territorio rimarrà verde: agricolo, naturalistico, parco pubblico; un 8% sarà destinato a impianti ricreativi e sportivi (possibile ad esempio l’ampliamento del parco Acquatica a Quinto Romano); un altro 8,15% sarà destinato a edilizia e infrastrutture.

Il braccio di ferro si esercita su questo 8,15 per cento. Per gli ambientalisti è una perdita secca, poiché si parla di aree già vincolate a verde. Milano sostiene invece che sia l’unica strada, poiché il Parco Sud, ripete spesso l’assessore all’Urbanistica, Carlo Masseroli, «oggi è solo degrado». Nel mezzo sta la Provincia: «Edificare ci permette di finanziare la costruzione del verde, altrimenti l’agricoltura è conservata solo sulla carta», spiega Ugo Targetti, architetto già vicepresidente della Provincia nella giunta Tamberi e ora consulente sui Pcu.

In pratica gli oneri di urbanizzazione delle nuove case pagherebbero il verde: i filari lungo i canali, i boschi, insomma gli abbellimenti elencati fra i doveri degli agricoltori che coltivano i terreni. Va però messo a punto - con successivi accordi di programma fra il parco Sud, la Provincia e i Comuni - il meccanismo di scambio con i grandi proprietari immobiliari. La Provincia punta alla compensazione: per ogni metro quadrato di cemento, 10 metri quadrati di area agricola ceduta in proprietà al parco. Oppure 20 affittati all’agricoltura con contratti almeno ventennali, perché il degrado è dovuto in buona parte al fatto che ai conduttori dei fondi ottengono solo contratti brevi, che scoraggiano gli investimenti.

Il Comune di Milano crede invece nella perequazione, criterio guida del Piano di governo del territorio che sostituirà il Piano regolatore e andrà approvato entro il marzo 2009. Vuol dire assegnare un indice edificabile anche alle aree agricole (e dunque non edificabili, come quelle nel Parco Sud) e cumularlo con l’indice di altre aree, a loro volta invece edificabili. In cambio, le aree non edificabili passano in proprietà al Comune. «Per noi è il sistema più efficace», scommette Masseroli. Targetti replica «che la cessione al parco di singole aree rischia di bloccare qualunque intervento, fino a che non si realizza una certa continuità del territorio. Il rischio è che non si veda progredire il parco mentre le case vengono su».

Nel direttivo del Parco Sud, Milano ha il coltello dalla parte del manico: forse per la prima volta, con le ultime elezioni la maggioranza delle amministrazioni in provincia è passata al centrodestra. Ma non ci si può nascondere che anche diversi Comuni di centrosinistra sono insofferenti dei vincoli ambientali.

Il valore del paesaggio

di Paolo Hutter

Di nuovo è a rischio il Parco Sud, il territorio agricolo nella periferia meridionale di Milano che ha finora - faticosamente - resistito all’avanzata del cemento. L’opposto anche geografico della via Gluck, un esempio di sostenibilità, di possibile inversione della tendenza.

Recentemente Carlin Petrini lo ha candidato a luogo di sperimentazione della filiera corta, ovvero di quella vicinanza tra produzione e consumo dei prodotti dell’agricoltura e dell’allevamento che viene indicata come la soluzione del buon tempo antico alla crisi global dell’energia fossile. La candidatura sarebbe di particolare attualità perché l’alimentazione sarà tema centrale dell’Expo. Se non fossero rimasti terreni agricoli fin nel cuore della periferia Sud di Milano bisognerebbe inventarli, decementificare qualche pavimento di fabbrica dismessa. E invece siamo qui a fare il tifo, temendo che dal direttivo del Parco possa venire un qualche via libera al sacrificio di pezzi del Parco Sud, magari col pretesto di renderli più fruibili.

Nei mesi scorsi dal Comune di Milano erano venute anche affermazioni esplicite sul «degrado» che deriverebbe da zone agricole non presidiate da attività e da edilizia. Fatto sta che oggi invece la partita si gioca attorno a concetti complicati, cose da addetti ai lavori come la «perequazione» urbanistica. In sostanza il Comune dice: «Non preoccupatevi se diamo un indice di edificabilità alle aree agricole, poi lo trasferiamo altrove». Ovvero aumentiamo ulteriormente le cubature in altre parti della città, il verde complessivo resta sempre lo stesso, e se necessario mangiucchiamo anche qualche pezzo di parco Sud, tanto si tratta di sterpaglie, non di parchi pubblici con le panchine. Questo è dunque il pericolo. I Comuni vengono indotti a rendere edificabili nuovi terreni dalla sete della moneta sonante degli oneri di urbanizzazione, che rischiano di diventare indispensabili addirittura per la spesa corrente. Ma se concordiamo sul valore «inestimabile» dell’agricoltura, del paesaggio, della sostenibilità proviamo ad alzarne il valore reale. Tanto più che il passato mica tanto passato delle influenze ligrestiane induce a una saggia diffidenza.

E Ligresti pregusta un’altra vittoria sull’asse via Ripamonti-Cerba

di Stefano Rossi

Milano ricomincia a costruirsi. Altro che saturazione degli spazi, l’assalto alle ultime aree libere -aree pregiate, ai margini della città edificata, 3-4 chilometri dal Duomo - riparte. È questo il quadro presente, e più ancora, futuro, che si sta preparando. Oggi il Parco Sud è considerato degradato.

Degradato perché nelle aree tutelate si sono insediati abusivamente discariche e sfasciacarrozze. Impossibile un recupero, meglio rinunciare a quei terreni. Ma questo impasse vale il sacrificio di oltre l’8% di territorio già vincolato che forse - è la critica - si poteva proteggere meglio? No, secondo Legambiente: «Non siamo per principio contro la perequazione, ovvero lo scambio di indici di edificabilità ai privati contro la cessione delle aree inedificabili dai privati al Comune di Milano - spiega il presidente lombardo Damiano Di Simine - il punto vero è quale indice di edificabilità concederà il Comune».

Per altri motivi, anche i grandi proprietari di aree nel Parco Sud stanno cercando (e ci stanno riuscendo), di moderare la perequazione. L’assessore comunale all’Urbanistica, Carlo Masseroli, vuole estenderla ai Pcu perché ne ha fatto il cardine del suo Piano di governo del territorio, gli immobiliaristi chiedono che sia facoltativa. In altre parole, l’assegnazione di un indice virtuale di edificabilità su aree agricole non obbligherebbe alla perequazione e alla cessione delle aree stesse al Comune.

Il perché di questa scelta dei grandi proprietari (ma soprattutto di uno, Salvatore Ligresti) lo spiega bene l’esempio del Cerba, il Centro europeo di ricerca biomedica del professor Umberto Veronesi. Sorgerà, con 30 ettari di padiglioni ospedalieri e 30 di parco, su un’area di Ligresti. Ma è di Ligresti anche il terreno non distante su cui è sorto lo Ieo, l’Istituto europeo di oncologia, sempre di Veronesi. E mentre l’ingegnere di Paternò comunicava all’assessore azzurro Masseroli le sue perplessità sulla perequazione, la giunta provinciale di centrosinistra stralciava il Cerba dal Pcu 3, sottraendolo alle norme vincolistiche e aprendo un fronte di crisi in maggioranza con i Verdi.

Commenta proprio un verde, il consigliere comunale Enrico Fedrighini: «Ligresti costruisce a CityLife, dove con Impregilo partecipa pure agli scavi della Linea 5. Ha una quota minoritaria, rispetto a Hines, di Garibaldi-Repubblica. Farà il Cerba. È l’ultimo grande pianificatore rimasto, peccato che non si preoccupi della crescita della città ma dei suoi affari. Del tutto legittimo, ma se riesce a condizionare le scelte strategiche della città è perché la politica glielo consente».

A giugno la Mm ha ricevuto l’incarico per uno studio di fattibilità della Linea 6 lungo via Ripamonti con capolinea al Cerba. Significa superare il limite della città e raggiungere il nuovo avamposto edificato del Cerba. Che fine potrà mai fare la campagna che ci sta in mezzo? La ricostruzione castastale di Fedrighini rivela come tutto l’asse a est di via Ripamonti, a sua volta da raddoppiare, appartenga alla Immobiliare Costruzioni di Ligresti. Saper aspettare, a volte, vale davvero la pena.

Beninteso, nei Piani di cintura urbana (Pcu) ci sono anche previsioni di sicuro valore ambientale. Nel Pcu 4 si potrebbe collegare l’Idroscalo con le cave (trasformate in laghetti) di San Bovio a Paullo, a 3 km di distanza, e aumentare del 50% lo specchio d’acqua complessivo. Si starebbe in barca per ore, mentre la costruzione della rete di collegamento dei canali si ripagherebbe con l’escavazione della ghiaia dal fondo dei nuovi canali. Il Pcu 5 vuole recuperare il rudere dell’albergo dei Mondiali per il ‘90. Il Pcu 1 ha buone potenzialità naturalistiche, le aree sono al margine del Boscoincittà e del parco delle Cave. Il Pcu 3 mira a fare della cava Pecchione, a sud dell’abbazia di Chiaravalle, un centro balneare e sportivo. «I Pcu - dice l’assessore provinciale all’Ecologia, Bruna Brembilla - sono una grossa opportunità di riprogettare aree marginali attraverso la partecipazione e condivisione dei Comuni e di ambientalisti, agricoltori e cittadini».

Sull’altro piatto della bilancia, però, se pure Milano limitasse l’indice di edificabilità a, diciamo, 0,15-0,20 metri quadrati di costruito per un metro quadrato di terreno, secondo la Provincia sarebbe autorizzato tanto cemento che la quota dell’8,15% di aree agricole riconvertite alla edificabilità dai Pcu non basterebbe a contenerlo. A meno di non tirare su dei gran grattacieli. Nel frattempo, la proprietà di aree spezzate e discontinue, impossibili da trasformare in un vero parco fino a che non fossero riconnesse, permetterebbe facilmente ai famosi sfasciacarrozze, conclude Di Simine di Legambiente, di «spostarsi 300 metri più in là». E di replicare il degrado. Al quale ovviare magari con nuovi palazzi.

Monguzzi: "Così si cede ai grandi costruttori"

Carlo Monguzzi, consigliere regionale verde, cosa pensa dell’idea di costruire l’8% delle ultime aree agricole milanesi?

«Il clima generale, specie dopo l’abolizione dell’Ici, è questo. L’unico gettito consistente per i Comuni sono gli oneri di urbanizzazione, così è impossibile opporsi ai grandi costruttori».

Avete criticato lo stralcio del Cerba dai Piani di cintura urbana.

«Il Cerba è una funzione nobile, ma non va messa lì. Il mio sogno, ripreso da Carlo Petrini di Slow Food, era trasformare il parco Sud entro i confini di Milano, con i suoi fontanili e le sue cascine, in una zona di agricoltura biologica di qualità. Va bene la vicinanza allo Ieo, ma il Cerba non è nemmeno servito dai mezzi».

Nei Piani di cintura però ci sono anche progetti interessanti.

«Certamente. E aggiungo che destinare le aree trascurate all’edificazione e recuperare quelle di pregio non è sbagliato in sé. Ma un simile meccanismo oggi non dà garanzie. Occorre vigilare, come faremo sul Piano territoriale regionale in gestazione, la madre di tutti gli strumenti di pianificazione».

Non ci sono troppi strumenti urbanistici? Sullo stesso territorio il Piano di governo del territorio dei Comuni, le aree vincolate dal parco, il piano delle aree agricole della Provincia, ora il Piano regionale...

«No, ma vanno collegati bene. Il grosso guaio è quando si vuole mettere il parco all’ultimo gradino della scala, come vuole fare la Regione».

postilla

In effetti da un certo punto di vista si potrebbe anche concordare con chi sostiene che in fondo siamo in area metropolitana, la crescita è un dato ineludibile ecc. ecc. Ma.

Ma se vogliamo guardare le cose in una prospettiva giusta, ovvero di medio-lungo termine, forse è il caso di ricordare almeno due cose:

1) siamo al terzo, forse quarto ciclo di attacchi su più lati al medesimo sistema della greenbelt in pochi mesi, e con la prospettiva dell'Expo le cose sono destnate a peggiorare;

2) là dove le medesime forze che ora spingono per "modernizzare il verde" hanno agito liberamente, è lo stesso sistema ambientale ad essere molto vicino all'artificializzazione completa. Basta dare un'occhiata al disegno della Dorsale Verde che con fatica la Provincia di Milano sta cercando di portare a termine, per salvare almeno il salvabile. Che non è molto, e potrebbe facilmente diventare nulla.

Poi è probabile che come già successo in passato, le grandi città e aree metropolitane italiane seguano a ruota il mirabile esempio. In fondo gli operatori sono sempre gli stessi (.b.)

Nota: di seguito un pdf (spero leggibile) estratto dalle norme del Piano Territoriale Parco Sud con l'art. 26 oggetto della discussione sui Piani di Cintura (f.b.)

Una passiera, cassette della posta in ordine, i nomi sul citofono oppure l’ascensore che puzza di benzina, il citofono divelto, portone sfondato, scritte naziste sui muri: il quartiere Diamante in Valpolcevera è così, si mescola il pugno nello stomaco e la bellezza.

Ci sono alla Diga rossa e a quella bianca, come vengono chiamate in gergo, scale pulite, appartamenti di 70-80 metri quadri luminosi e un balcone in comune con altri due o tre vicini di casa, e altre aree (per fortuna minoritarie) abbandonate, con mobili rotti o trasformate in officine per l’assemblaggio di moto rubate. A monte appare un altro caseggiato enorme, via Cechov, qualche balcone murato e il problema eterno dell’acqua che s’infiltra, niente ascensori per disabili, scarsa illuminazione. E su ancora, altre case con solo pochi appartamenti per edificio che dopo vent’anni avrebbero bisogno di una rinfrescata. Ovunque silenzio, lo spazio dilatato della campagna a due passi e l’aria tersa. Sono le cose che chi è nato qui ama di più.

Passate le elezioni, c’è chi su Begato vuole fare un convegno a Palazzo Tursi e un workshop in loco per dar vita a un laboratorio vivo, come si è fatto a Cinisello Balsamo o Torino, come stanno tentando in tante periferie spagnole e francesi nate dal boom e dalla speculazione. «Vogliamo che il quartiere sia deciso da chi vi abita e che dagli abitanti arrivino le idee per riqualificarlo – dice il presidente regionale del Sicet Stefano Salvetti – non vogliamo che da mostri nascano altri mostri».

La storia di Begato nasce con la costruzione del primo caseggiato di case popolari nell’84, la Diga rossa (277 appartamenti). L’idea era di farne una città immersa in un parco urbano con negozi nei corridoi. Invece i negozi non hanno mai aperto, il parco è sparito ingoiato dalla fame di metri quadri: in pochi anni si è aggiunta la Diga bianca (altri 277 appartamenti) ed edifici, per un totale di 1600 alloggi. A disagi si sono sommati altri disagi. Per anni nell’immaginario dei genovesi è stato il posto dove la gente correva in motorino ai diversi piani. La storia delle corse è finita quando la Diga rossa è stata finalmente divisa da una verticalizzazione. Eppure secondo la Caritas resta una delle dieci periferie più degradate d’Italia, anche se gli abitanti alla cattiva nomea non ci stanno: «Ho avuto la fortuna di navigare – dice il presidente della Polisportiva Diamante, Gavino Lai – a Miami Beach ci sono edifici come questo. Il problema non è la struttura, ma la gente che hanno mandato», tradotto sarebbe «tossicodipendenti, malati mentali ed ex-carcerati». Lai ha battagliato sin dall’84 col Gruppo inquilini, «primo, perché nella Diga bianca non facessero i corridoi da cima a fondo come nella rossa, secondo perché si aprisse un supermercato e infine perché la farmacia pagasse un affitto basso». Tutte cose realizzate.

Ma i problemi restano. Per questo oggi il Sicet propone la modifica della normativa sulle assegnazioni per creare un mix sociale, «non a detrimento del patrimonio di edilizia popolare che deve restare», precisa Salvetti.

Oggi tanti abitanti (3200 circa) vorrebbero che il quartiere rivivesse; che Arte (l’azienda regionale, ex Iacp) mandasse degli ispettori; che tutte le case fossero assegnate visto che nella graduatoria per le case popolari ci sono 2300 persone in attesa, verranno assegnati solo 300-400 alloggi e il resto aspetterà; altri propongono che si facciano spazi di assistenza e intrattenimento per gli anziani (sei su dieci abitanti) e soprattutto che si risolva la questione manutenzione visto che se si rompe l’ascensore il vecchietto al ventesimo piano è costretto a casa finché non l’aggiustano.

Il sindaco punta invece a coinvolgere l’Urban Lab e il superconsulente all’urbanistica Renzo Piano. «Oggi a Begato non ci vuole andare nessuno – sostiene Marta Vincenzi - bisogna diradare, ridurre le volumetrie in modo che gli edifici siano più gestibili. Un casermone così oggi non si costruirebbe più». Ma quelli che vivono qui dagli anni Ottanta sono affezionati anche a quello che gli architetti chiamano mostro, perché hanno affitti calmierati (ci sono pensionati che pagano una quarantina di euro al mese): «Abbattere parti della Diga è un peccato – dice il presidente del comitato di via Maritano, a Begato bassa, Mario Lopuzzo – noi suggeriamo piuttosto di ripopolare con attenzione. Sarebbe bene che dessero le case a giovani coppie appena sposate e che agevolassero l’assegnazione degli appartamenti ai figli di chi vive qui». Uno di loro con fidanzata e neonato ha occupato abusivamente un appartamento pur di rimanere, e quando lo sfrattano se ne trova un altro.

Tanto la scelta non manca: tra Diga rossa e bianca ci sono oltre 200 appartamenti vuoti, manna per una trentina di abusivi. E mentre tre comitati, quello di via Maritano e altri due legati alle zone più a monte del quartiere, spesso s’accapigliano, l’assessore comunale alle politiche della casa Bruno Pastorino suggerisce di guardare a esperienze europee, «vale a dire puntare sul diradamento e sul mix sociale, quindi ridurre le volumetrie presenti intervenendo in altezza o sulle lateralità. Ora è una struttura che viene avvertita come opprimente, un luogo che più che permettere la socialità favorisce alienazione. Sarebbe opportuno mixare edilizia pubblica e privata, in modo che in quella zona non vivano solo gli assegnatarima possano stare anche i loro figli che magari hanno un reddito migliore. Nonmi stupisco quindi se alla fine il quartiere Diamante ha gli indici più alti per somministrazione di psicofarmaci a Genova».

La questione sanitaria non è secondaria. Secondo uno studio dell’Istituto di statistica francese pubblicato lo scorso ottobre, quelli che vivono con 817 euro al mese a famiglia (sono oltre 7 milioni) hanno quasi il doppio delle carie, non hanno assistenza sanitaria integrativa (22 per cento contro il 6 del resto della popolazione), vanno meno a fare visite specialistiche. Così l’Istat nostrana in una ricerca del 2006 col Ministero della sanità, che ha esaminato un campione di 60 mila famiglie a basso reddito e preso a parametro l’educazione scolastica, scopre che chi ha la licenza elementare non è in salute come i laureati (16% contro il 2,5), ha patologie croniche più facilmente (32,5 contro l’8,2), insomma non ha tempo e soldi per andare dal medico.

Per questi e altri motivi a Begato sono fieri di avere un ambulatorio, anche se «noi ce la mettiamo tutta, ma la sensazione è che qualcuno non voglia che cambi nulla», dice Nicoletta Bodrato, farmacista e volontaria del poliambulatorio nato nel ‘99. Qui operano dodici specialisti che visitano gratuitamente e su appuntamento gli abitanti della zona ricoprendo moltissime patologie (dall’andrologia alla ginecologia, poi cardiologia, angiologia, chirurgia per adulti e pediatrica e ancora dietologia, gastroenterologia, psicologia, ortopedia e urologia).

A questi si aggiungeranno presto altre due specialità, oculistica e dentistica, grazie a una seconda tranche di interventi comunali. «Oggi – spiega Nicoletta – siamo alla caccia di un paio di medici di base per fare un polo associato. Almomento sono coperte solo 12 ore alla settimana ». La nascita del polo associato («offriamo gli studi gratuitamente», precisa il titolare della farmacia) permetterebbe di risolvere una serie di problematiche burocratiche: per esempio il fatto di dover andare dal proprio medico di base per far riscrivere la ricetta data dallo specialista dell’ambulatorio.

Quanto ai giovanissimi, nel 1999 gli operatori di strada, pur di agganciarli, si erano inventati l’officina. Montando e smontando marmitte, spesso di mezzi rubati con targhe di cartone e senza nessuna assicurazione, si finiva col parlare di legalità. La questione poi è morta lì per problemi ovvii (d’illegalità). «Ogni tanto incontro qualcuno e mi dice che ha l’assicurazione della macchina», dice Paolo Putti del consorzio Agorà, coordinatore del progetto Diamante del centro servizi della Valpolcevera finanziato dal Comune. E’ da lì che sono partiti gli operatori di strada che continuano a promuovere progetti sui giovani abitanti tra i 10 e 25-30 anni. «Un po’ l’architettura, un po’ l’assegnazione delle case, ha assommato problematiche delle persone che venivano in questo quartiere – spiega Putti – Diamante ha finito col dare solo una risposta abitativa e la popolazione non è stata coinvolta dalle amministrazioni passate nelle decisioni, ad esempio quella della verticalizzazione della Diga rossa». Per trovare qualche soluzione è partito alla fine degli anni Novanta il progetto Diamante del distretto sociale, inizialmente dedicato ai ragazzi sotto i 18 anni. Tra le attività, serate di karaoke col dj e gite.

Un altro centro di incontro è «l’asilo», dove due educatrici tengono quattro bambini alla volta alla mattina, da uno ai tre anni, e al pomeriggio puoi incontrare quattro marocchine e una tunisina che si scambiano consigli o studiano l’italiano sotto dettatura. «Alcune di loro non sanno scrivere neppure l’arabo – racconta un’educatrice, Claudia - perciò abbiamo inventato un libro con tutte le lettere dell’alfabeto con la parola in italiano e in arabo, il disegno e anche il suono della pronuncia in arabo». Così arancia è anche burducaleton e albero anche chajarstan. Questo che sembra un gioco didattico serve poi a leggere bollette e documenti che arrivano a casa. Le donne del quartiere non vogliono parlare, spesso sono oggetto di frasi razziste. L’altra operatrice, Silvana che vive a Begato, ma «dall’altra parte, dove c’è il quartiere residenziale con scuole, negozi e un centro sociale» conosce la zona a menadito: «15 anni fa la gente qui non ci veniva, c’erano per la metà tossicodipendenti.

Oggi sta cambiando ma la testa della gente è ancora ancorata alle vecchie paure. Vivono chiusi nel loro bunker senza la voglia di mettersi in relazione». Perché per essere come quelli «dall’altra parte» «c’è bisogno di appartenere, di amare il posto dove vivi e questo succede ancora a macchia di leopardo», ti spiega Claudia.

Ci vogliono fatti e non parole, ripetono gli abitanti. Nella vecchia sede della Polisportiva, le suore vicenziane del centro d’ascolto hanno lanciato un corso di cucina per le badanti, un’altra cosa di cui vanno fieri in via Maritano. Intanto il Comune ha promesso il potenziamento del poliambulatorio, la ristrutturazione di una cascina abbandonata che potrebbe diventare un centro d’educazione ambientale, la chiusura degli spazi aperti ai piani terra degli stabili per farne spazi sociali, asili autogestiti, box o alloggi per anziani e portatori di handicap. A Begato sono previsti interventi per un milione e 600 mila euro cofinanziati da Comune e Regione. Si parla di recuperare 50 alloggi, di fare manutenzione agli alloggi vuoti e di ridurre i volumi.

Altri fondi potrebbero arrivare dalla Finanziaria. «Quanti soldi son passati di qui – borbotta qualcuno tra gli abitanti – che cosa ne hanno fatto?».

LA SINTESI DELLA PRIMA RIUNIONE

La riunione, che si è tenuta il 15 luglio 2008 presso la sede del Consiglio regionale, per via di disguidi nella trasmissione dell’invito ha visto la partecipazione di un limitato numero di comitati, alcuni dei quali rappresentanti di reti locali.

La riunione è stata aperta da Mario Agostinelli che ha illustrato la bozza di progetto messo a punto con Andrea Rossi riguardante “la costituzione della rete dei comitati in difesa del territorio”. Ne è seguito un dibattito che ha permesso di integrare alcuni punti del progetto che dovrà essere sottoposto a tutti i comitati. La discussione ha affrontato inoltre la questione posta da Locatelli riguardante il modo con cui rendere operativa la rete tenendo presente due aspetti: la massima apertura e la condivisione del percorso e dei contenuti.

È stato fatto presente che per la gestione della Rete Lombarda non si può prendere a riferimento il modello della rete della Toscana dato che essa si è strutturata attorno ad una specifica tematica (il caso Montichiello). La rete della Toscana è strutturata operativamente attorno a 8 gruppi di lavoro composti da un numero variabile di persone, coordinati da un responsabile. I partecipanti alla rete condividono una “carta della rete” composta da un preambolo e da 10 punti. La rete ha un Consiglio di Coordinamento, un Consiglio scientifico ed una Segreteria

Per la Lombardia è stato ipotizzato l’affidamento della gestione della rete a 3 Gruppi operativi (uno per ciascuna macro-area tematica: urbanistica e pianificazione del territorio - ambiente e paesaggio - energia) composti da rappresentanti di comitati (in numero da definire) oltre al Comitato tecnico scientifico ed a una Segreteria.

Per garantire la massima apertura e partecipazione è stata proposta la rotazione periodica dei componenti di ciascun Gruppo operativo. Nella discussione è comunque emersa l’importanza di evitare un sistema organizzativo eccessivamente flessibile poiché esso inciderebbe negativamente in termini di efficienza. Pertanto i partecipanti hanno avanzato un’ipotesi di organizzazione della rete che coniughi la più alta partecipazione possibile dei comitati con la necessità di avere dei punti di riferimento stabili.

Nel corso della riunione è altresì emersa la necessità di “qualificare” la rete (evitando comunque una connotazione di tipo partitico) al fine di non aggregare comitati che, sulla stessa problematica, perseguono obiettivi opposti e/o contrastanti. Per questo motivo si ritiene necessario che l’adesione alla rete lombarda venga fatta sulla base della condivisione di uno “statuto” o “carta” della rete.

Si è inoltre accennato al modo con cui sostenere i costi di gestione della rete: è stata avanzata l’ipotesi di definire una quota associativa annuale da porre in capo a chi vi aderisce.

I presenti hanno inoltre accolto la proposta di indire quattro iniziative a partire dall’autunno sulle seguenti tematiche:

energia sul territorio: fossili o rinnovabili

mobilità e grandi infrastrutture

expo 2015: Milano ed i territori lombard

salvaguardia dell’ambiente e contenimento del consumo di suolo

Infine si sono assunte le seguenti decisioni di carattere organizzativo:

a - inviare via e-mail a tutti i comitati ed alle persone che individualmente hanno accolto la proposta di Bergamo di costituire la rete lombarda, la bozza di progetto riguardante “la costituzione della rete dei comitati in difesa del territorio” al fine di ricevere suggerimenti e proposte (qui in allegato);

b - convocare i comitati lombardi ad una assemblea pubblica il giorno 15 settembre alle ore 18:00 presso la sede della Regione Lombardia al fine di assumere decisioni operative riguardanti la strutturazione e l’organizzazione della rete.

Andrea Rossi

UNA PROPOSTA DI LAVORO

La costituzione di una Rete dei Comitati di lotta deve tener conto:

delle caratteristiche peculiari dei vari Comitati

dei loro punti di forza e di debolezza

della domanda che viene espressa

della volontà dei Comitati a costituire forme di relazione informazione e coordinamento

Elementi caratteristici strutturanti i Comitati di lotta

Si tratta di organismi vertenziali nati per rispondere, in genere, a bisogni locali specifici di varia natura che:

Rivendicano la propria autonomia rispetto alle Istituzioni ed alle forze politiche

Rivendicano la propria autonomia di elaborazione e di decisione

Le decisioni vengono assunte in assemblee pubbliche e con il metodo del consenso

Dispongono di una propria piattaforma rivendicativa/propositiva

Autofinanziano le proprie iniziativeIn genere non hanno una struttura formalizzata –esiste portavoce.

Le cariche non sono permanenti

Sono composti da persone aventi posizioni politiche eterogenee e provenienti da strati sociali diversi

Si rivolgono a tutte le forze politiche ed alle istituzioni al fine di ricercare condivisione e sostegno alla rivendicazione in atto

Attuano forme di lotta decise in assemblee pubbliche

Punti di forza

Sono in grado di mobilitare la cittadinanza locale (non solo) in assemblee, manifestazioni, forme di lotta varie autogestite

Sono in grado di coinvolgere sulla vertenza/piattaforma le forze politiche locali e le istituzioni

Sono in grado di coinvolgere i mass media locali per pubblicizzare la lotta/vertenza in atto

Sono in grado di conseguire i risultati vertenziali attesi in un rapporto di rappresentanza diretta

Punti di debolezza

Limitano il proprio orizzonte vertenziale / di lotta al livello locale

Le lotte/vertenzialità hanno una natura spontaneistica (nascono con la manifestazione del bisogno e dal riconoscimento che ad esso non si dà una risposta pubblica adeguata)

Non dispongono in genere di adeguati sostegni e informazioni di natura scientifica

Tengono limitatamente conto delle esperienze analoghe fatte da altri comitati

Dispongono di limitate risorse economiche per l’autogestione delle lotte

L’esperienza non è quasi mai formalizzata, per cui si perde nel tempo (perdita della memoria)

Le vertenze non si trasformano per lo più in iniziative di carattere generale (dal comitato al movimento)

Non è scontato un rapporto tra comitati e forze politiche

Le vertenze hanno una scarsa incidenza sulla produzione legislativa

La domanda dei Comitati

Collegarsi agli altri Comitati presenti nel territorio lombardo per socializzare (mettere in circolo) l’esperienza attivata, per ricercare sostegno e supporto alla propria vertenza, per conoscere eventuali altre esperienze e per condividere i risultati conseguiti

Costituzione di un Osservatorio sui problemi oggetto di vertenzialità, sulle piattaforme e sui risultati conseguiti

Disporre di conoscenze tecnico-scientifiche e legislative (formazione)

Disporre di un comitato tecnico scientifico a cui rivolgersi per formulare proposte tematiche e dare sostegno alla piattaforma vertenziale (supporto alle vertenze)

Disporre di supporti legali

Produrre cambiamenti in un quadro di coerenza che incida oltre il livello locale

Obiettivi

Ricostruire fino al livello regionale il ciclo di messa a profitto del territorio attraverso la rappresentanza dei singoli Comitati

Disporre di un osservatorio dei bisogni/problematiche presenti sul territorio

Disporre di un osservatorio della vertenzialità e lotte in essere sul territorio

Supportare le vertenze in atto

Attuare forme di scambio e partecipazione attiva - sia interregionali che intraregionali - dei Comitati nelle varie lotte per uscire dalla frammentazione

Sviluppare forme di solidarietà sociale

Superare una visione localistica dei problemi presenti e permettere una lettura complessiva delle problematiche territoriali

Dare alle istanze territoriali provenienti dal basso uno sbocco politico-istituzionale

Definire forme di comunicazione efficaci e partecipate

Organizzazione

Al fine di organizzare in modo efficace la Struttura della nascente Rete dei Comitati si potrebbe pensare ad un percorso a tappe

Costituzione e finanziamento di una struttura per l’organizzazione e mantenimento della rete

Costituzione di gruppo di coordinamento aperto con incarichi revocabili o a rotazione

Censimento ed organizzazione dei comitati (modulistica-segreteria)

Predisposizione sito internet dei comitati e gestione diretta e coordinata

Costituzione di comitati tecnico-scientifici per AREE TEMATICHE

Organizzazione di incontri -convegni -seminari di formazione

Definizione di forme di comunicazione efficaci e partecipate

Questionario

Ad ogni Comitato che vorrà far parte della Rete, verrà inoltre richiesta la compilazione di un questionario nel quale raccogliere le seguenti informazioni:

breve storia del Comitato

problemi oggetto della vertenza

obiettivi della vertenza

controparte della vertenza

alleanze strette forme di lotta attuate/previste

documentazione prodotta sulla vertenza

aspettative dalla Rete dei Comitati

aspettative dai supporti tecnico scientifici

suggerimenti per il finanziamento

aspettative formative

ORGANIZZAZIONE DEL BILANCIO SOCIALE TERRITORIALE (BST)

Il Bilancio sociale territoriale dovrebbe essere strutturato sulle seguenti macro tematiche:

Urbanistica e pianificazione del territorio

Ambiente e paesaggio

Energia

Acqua e beni comuni

Trasporti

Il Bilancio sociale territoriale dovrebbe essere strutturato secondo una matrice che permetta di costruire:

a) Una mappa del bisogno sociale/territoriale (attraverso la costruzione di una matrice in cui si mettono in relazione i TEMI della vertenzialità con la loro LOCALIZZAZIONE

b) Una mappa del bisogno sociale/comitato-organismo-vertenziale (attraverso la costruzione di una matrice in cui si mettono in relazione i TEMI della vertenzialità con il COMITATO PROMOTORE)

L’aggiornamento continuo delle mappe consente il MONITORAGGIO delle vertenze/lotte in atto e la VERIFICA dei risultati conseguiti

(seguono tabelle esemplificative che traducono le indicazioni sopra riportate; scarica il file .pdf allegato)

Postilla

Un tentativo interessante di aumentare l’efficacia delle singole iniziative di difesa del territorio, tenendo conto di quanto è avvenuto in Toscana dopo lo scandalo di Monticchiello.

In effetti, le iniziative locali hanno un respiro breve, e raggiungono risultati spesso effimeri, se non allargano il loro orizzonte. Non si tratta solo di essere più forti perché si è di più, ma di assumere consapevolezza che le lotte locali saranno sempre minoritarie e perdenti finché non alzeranno il tiro. Generalmente le scelte locali di devastazione del territorio e di privatizzazione dei beni comuni sono conseguenze di atti e decisioni che hanno radici lontane nel tempo (esempio, scelte di piani urbanistici approvati nel silenzio e nell’indifferenza dei cittadini) o nello spazio (esempio, leggi e atti amministrativi regionali o nazionali). Solo collegandosi ad altre iniziative locali e dandosi strumenti capaci di mirare alle cause i risultati potranno essere positivi.

Questa consapevolezza è implicita nei documenti. Forse sarebbe utile che diventasse esplicita, e che ogni comitato si impegnasse a dare (aiutando a colpire bersagli comuni e “lontani”) oltre che a ricevere (assistenza tecnica, informazioni ecc.)

Per il ministro Prestigiacomo, visto che, dopo i colpi di mannaia di Tremonti, non ci sono più fondi per l’ambiente, è utile dare in gestione i nostri 23 Parchi Nazionali (e magari pure quelli regionali) ad agenzie private per tirare su un po’ di soldi. Per il ministro Bondi, visto che, passata la sega elettrica di Tremonti, non ci sono fondi per la cultura e per l’arte, è utile allargare l’area di intervento delle società private per i servizi aggiuntivi nei maggiori Musei, in modo da incassare un po’ di soldi. Privatizzate, dunque, e siate felici. L’onorevole Prestigiacomo lo dice col sorriso della signora borghese che non sa quel che si dice. L'onorevole Bondi lo dice un po' piangendo e un po' no perché risparmiare bisogna, l'ha detto il Capo. Comunque sia, si tratti di insipienza, di sottocultura o di dilettantismo, il risultato è lo stesso: il nostro patrimonio storico-artistico-naturalistico-paesaggistico è affidato a queste mani e a queste menti, dietro le quali grandeggia ("Mamma mia!", titolò l'Economist) Berlusconi, Silvio/Nerone affiancato da Tremonti e da Brunetta. Con Matteoli al Cemento&Asfalto.

Nella giornata di oggi, 22 luglio, nei nostri musei, nei siti archeologici, nelle antiche biblioteche, custodi e tecnici si asterranno parzialmente dal lavoro premurandosi però di distribuire, "contro i nuovi barbari", volantini di protesta (della Uil e, separatamente, grave errore, di Cgil e Cisl) in cui si spiega ai visitatori italiani e stranieri - circa 36.000 milioni - che quello potrebbe essere il loro ultimo ingresso nei magnifici luoghi della nostra storia: se al Ministero per i Beni e le Attività Culturali verranno inferti, da qui al 2011, tagli di finanziamenti per 1,2 miliardi di euro, il personale delle Soprintendenze, dal più alto in grado all'ultimo entrato, riceverà lo stipendio (modesto) ma non avrà risorse per fare in pratica alcunché. E poiché il nostro turismo è mosso, per buona parte, dalle città d'arte, con musei e siti archeologici chiusi o semichiusi, coi restauri bloccati, con l'attività di tutela sospesa, coi vandali non più sorvegliati, con gli abusivi che la fanno franca assieme ai "tombaroli", quella fonte di reddito nazionale verrà presto impoverita e disseccata. Complimenti: ci volevano genii assoluti come Berlusconi, Tremonti & C. per portare al suicidio finale il Belpaese.

Analogo discorso si può fare per i Parchi di ogni ordine e ampiezza: sono costati decenni di lotte, coprono ormai il 10 per cento di un Paese altamente dissestato e inquinato e costituiscono un'altra molla essenziale dello stesso turismo di massa, il solo Parco Nazionale d'Abruzzo viene visitato da oltre 2 milioni di persone l'anno. Un movimento anni fa impensabile che ha concorso a consolidare una vera e diffusa "economia dei parchi", fatta di agricoltura e zootecnia compatibili, di prodotti tipici del bosco e sottobosco, di marchi di qualità. Frutto di una azione di tutela pluriennale, tenace, rigorosa, contro abusi di ogni genere, come e più di quella che ha riguardato i nostri centri storici largamente salvati. Ma che richiede investimenti pubblici, personale qualificato, tecnici preparati, mezzi nuovi.

Qual è la logica del duo Prestigiacomo&Bondi, ispirati, devotamente, dall'esempio del Capo? I beni culturali e ambientali non sono un patrimonio permanente, fondante dell'Italia (articolo 9 della Costituzione), non sono valori primari "in sé e per sé", ma sono, quelli che lo sono, macchine per fare soldi. E gli altri? Semplicemente non sono, e dunque vadano in rovina. Punto e basta. I parchi, per lor signori, non formano una parte strategica dei paesaggi italiani, non rappresentano i luoghi nei quali ricostituire una natura che disboscamenti secolari hanno distrutto o rattrappito, nei quali conservare e tornare ad arricchire la biodiversità della flora e della fauna per decenni dissipata, nei quali i cittadini possono incontrare e ritrovare la Natura, ossigenando il corpo e la mente. Per il ministro Prestigiacomo sono, evidentemente, simili ai parchi-diventimenti, nei quali far pagare un biglietto, lasciar costruire di nuovo case e ville, reintrodurre la caccia, dai quali insomma spremere soldi attraverso la logica privatistica, aziendale (par di vedere il Cavaliere, sullo sfondo, che sorride beato), del profitto.

Analogamente i luoghi dell'arte, i musei, le aree e i monumenti archeologici, i castelli, magari le chiese, le abbazie, i palazzi civici ed ecclesiastici: mettiamoli a reddito, facciamoci dei begli incassi. Macché ingressi gratuiti o ridotti per scolaresche, studenti e studiosi, macché didattica museale per abituare i più piccoli a capire quadri e sculture, macché mostre ispirate a criteri scientifici, macché valori della cultura del contesto e loro trasmissione ai nostri figli e nipoti. E per i centri storici? Basta con le ubbie della conservazione, delle ZTL, largo ai commercianti, agli esercenti, alle pizze-a-taglio, ai pub, ai protagonisti del Divertimentificio notturno, ai Suv parcheggiati ovunque. A Roma il sindaco Alemanno ha già aperto questa strada e vedrete che, se la protesta dei cittadini (e degli intellettuali) non salirà chiara e forte, andranno avanti. A tutto Suv.

Si legge sui giornali che, bontà sua, l’Unione Europea dopo lungo dibattito e considerazione ha deciso di stanziare un miliardo di euro per il sostegno allo sviluppo del continente africano. Si legge anche, più o meno sugli stessi giornali, che sull’asse di via Torino a Settimo Torinese un consorzio formato per ora da Comune, Pirelli Tyre , Edison , Intesa-San Paolo , IPI , Pirelli RE , Loclafit, vuole investire UN MILIARDO E DUECENTO MILIONI di euro in un progetto di trasformazione urbana. Complessivamente la superficie interessata è di circa un milione di metri quadrati: moltissimo, per un comune come Settimo Torinese; pochino, se lo paragoniamo all’Africa, no? E con una concentrazione di risorse del genere si capisce, che qualcuno salti sulla sedia, e che a qualcun altro inizino a brillare gli occhi, come succede nei fumetti a Zio Paperone.

La via Torino è il percorso della Padana Superiore nel primissimo tratto “extraurbano”a est di Torino città, dopo la grande rotonda in cui si conclude l’asse di corso Giulio Cesare alla periferia del capoluogo. Dopo corso Romania e il cavalcavia, questa di via Torino è tutta la striscia che sta prima di convergere con l’altro “ramo” di via Regio Parco e restringersi nell’area pedonalizzata del centro storico di Settimo. Qui soprattutto nella seconda metà del Novecento si è accumulato un po’ di overspill produttivo metropolitano che ha trasformato questa zona di ex campagna fra le sponde dello Stura e il nucleo centrale di Settimo in terra di conquista per capannoni che classicamente proponevano il proprio modello insediativo piuttosto brutale. Isolati enormi, impenetrabilità, e ad anticipare in qualche modo il centro commerciale di oggi un’organizzazione introversa che lasciava ben poco al contesto, salvo gli indispensabili assi della strada di attraversamento e la vicina parallela ferrovia, che fa da margine settentrionale.

Immediatamente dopo l’ultima guerra, questa striscia di futura metropoli si conquista un piccolo quarto d’ora di celebrità. È quando sulle pagine della prestigiosa Metron, diretta da Bruno Zevi, Giovanni Astengo e Mario Bianco pubblicano alcuni estratti del loro pionieristico “ Piano Regionale Piemontese”, elaborato anche come modello possibile da offrire alla Costituente per le future, non ancora formulate nei dettagli, Regioni italiane. Proprio l’asse della via Torino è presentato come schizzo tridimensionale di sistema lineare di espansione metropolitano, nel quadro del più ampio “comprensorio” che in quel piano si stende sin oltre Chivasso.

Naturalmente all’epoca la sola idea della pianificazione regionale faceva venire i sudori freddi agli “interessi consolidati”, e al congresso INU di Venezia del 1952 lo stesso Bruno Zevi doveva spiegare a liberali e democristiani seduti in platea che no, questi piani non erano tanto da prendere sul serio. Infatti in tutte le periferie più o meno metropolitane d’Italia invece di seguire piani regolatori l’edilizia sapeva benissimo “regolarsi” da sola …. Figuriamoci poi quando come nel caso di Settimo Torinese si trattava di impianti produttivi, e strettamente legati al comparto dell’automobile, i pneumatici della Pirelli …

Passano gli anni, le imprese scoprono i mercati del lavoro più convenienti di altri paesi, e in tutte le nostre città iniziano a svuotarsi le fabbriche e riempirsi le sale dei convegni in cui si discetta di aree dismesse. Le stesse imprese, ovvero gli “interessi consolidati”, avevano ovviamente già scoperto da anni il tema della grande dimensione territoriale: la loro avversità ai piani regionali del 1952, si doveva solo al fatto che non volevano alcuna interferenza pubblica nel decidere i grandi assetti spaziali entro cui imperversare. Non a caso, quando ancora negli anni ’60 alcuni politici lungimiranti tentano di inserire un approccio programmatico anche territoriale nei documenti di bilancio, il tutto viene liquidato dalla grande stampa come “libro dei sogni”. Proprio nel momento in cui le medesime grandi formazioni delineate ad esempio dal Progetto ’80 iniziano a prendere forma visibile, primo fra tutti il Triangolo Industriale, soprattutto sull’ipotenusa Milano-Torino.

Ipotenusa che, guarda caso, sul lato occidentale si attacca proprio a quelle poche centinaia di metri di via Torino, fra gli sparpagliati capannoni dismessi della Pirelli. E quando c’è di mezzo l’interesse privato, salta improvvisamente fuori che il “libro dei sogni” dell’area vasta, anche vastissima, non è una cosa da sfottere, ma da prendere maledettamente sul serio. Come nel caso della recente enorme trasformazione urbana dal poetico nome “Laguna Verde”, proposta (e a quanto pare già accettata).

Di seguito alcuni dati desunti dal sito Skyscraper City e più o meno confermate dagli articoli dei giornali:

- superficie interessata 815.000 mq

- 13.300 posti auto

- parco di 320.000 mq

- centro ricerca 60.000 mq

- palazzetto dello sport 15.000 mq

- piscina

- scuola 25.000 mq

- museo 12.000 mq

- edifici privati : 650.000 mq (50% residenziale , 19% attività commerciale , 17% ricerca e produzioni innovative , 7% terziario e direzionale , 7% tempo libero)

- cittadella del sapere 160.000 mq

- il progetto prenderà vita in 6-7 anni

E c’è sempre da tenere ben presente quel 1,2 miliardi di euro, nonché la “sinergia” territoriale entro cui si inserisce l’investimento. Dal punto di vista metropolitano, che già non è affatto poco, il Piano Strategico legato a doppio filo alla TAV recita:

Nel territorio metropolitano […] due assi di sviluppo ad alta accessibilità […] La seconda centralità metropolitana investe il settore urbano compreso tra la periferia nordest di Torino e i comuni di Settimo e Borgaro, dove il progetto di trasformazione è declinato prioritariamente in termini di riqualificazione [….] Urbanistica, Laguna verde, nuovi comparti produttivi Pirelli[1].

C’è anche, forse soprattutto, la dimensione megalopolitana di questi interventi, che forse spiega meglio l’enorme pressione che hanno alle spalle. Se ne sentono varie eco molto più a oriente, nel dibattito sull’Expo milanese, come ha ben raccontato su Lo Straniero Giacomo Borella, di questa vagheggiata regione urbana, che “impropriamente” qualcuno immagina solo come aumento delle densità edilizie e infrastrutturali (e relativa torta da dividere) su quantità spropositate di spazio.

Ma che saranno mai cento chilometri di territorio, per certi nostrani maîtres à flairer da convegno a gettone, paludati in pensosi maglioncini scuri girocollo da cabaret esistenzialista, geniali nella fulminante battuta che fa scattare l’applauso? Uno scioccare di lingua, e il balzo è bell’e fatto! Alla faccia di quei noiosi geografi e pianificatori, sempre lì a occuparsi dei dettagli … Poi via, nelle sterminate pianure, verso il prossimo convegno sui destini dell’ineluttabile ubiquo “sviluppo del territorio” ...

Con questi presupposti, appare poi del tutto conseguente l’atteggiamento della stampa, che con tono omogeneo e appiattito sulle dichiarazioni dei promotori, sembra descrivere un panorama in cui tornano tutti i possibili luoghi comuni: la brillante idea del prestigioso architetto che ci libererà per sempre da ogni traccia di vetusto puzzolente industrialismo, potenzialità strabilianti che dalle casse degli investitori si riverseranno automaticamente (nella migliore vulgata liberista) sulla testa dell’umanità tutta, eccetera eccetera. Una brevissima rassegna ci racconta:

Una sorta di San Gimignano del terzo millennio che prenderà il posto dell’area industriale. […] Settimo diventerà la porta verso Malpensa, la Fiera di Rho, Milano. Ma anche verso Aosta e Ginevra, nell’ambito di una riorganizzazione complessiva del Nord Ovest, in grado di coinvolgere anche Genova. Anche per questo nel concept è prevista la realizzazione di un’isola nella Laguna per ospitare un hotel” (Augusto Grandi, “A Torino la città sopraelevata”, Il Sole 24 Ore, 8 maggio 2008).

Uno dei più grandi progetti di riqualificazione urbana e di eco-city d’Italia […] è ritenuto uno dei più sofisticati ed ecocompatibili del pianeta. […] la sostenibilità non sarà solo naturalistica, ma antropoculturale, socio-gestionale ed economico-finanziaria” (Giovanna Favro, “Le palafitte della città futura”, La Stampa, 12 giugno 2008).

In mezzo a tanto verde il comune intende costruire anche vari grattacieli e una stazione ferroviaria” (Jan Pellissier, “Laguna Verde, eco-city a Settimo”, Italia Oggi, 18 giugno 2008).

Il grattacielo […] l’impressione che darà è di un libro sfogliato […] con due bracci puntati direttamente sul centro di Milano e sulla città di Ginevra” (Andrea Gatta, “Ecco Laguna Verde, cittadella del futuro a misura di ambiente”, Cronaca Qui, 12 giugno 2008).

Il tutto sulla base di una serie di classicissimi renderings, che mostrano sostanzialmente un insediamento a organizzazione lineare lungo l’asse attuale, con edifici molto sviluppati in altezza, un percorso denominato broadway a connettere il tutto, e l’idea della “Laguna”, ovvero dell’edificato e di parte del verde a “galleggiare” organizzato in “isole” sopra il livello delle infrastrutture.

E con tutto il rispetto per i promessi uno virgola due miliardi di euro di investimenti: che ci azzeccano in sé e per sé i grattacieli, di un colore o l’altro che siano, con la “ sostenibilità antropoculturale”? Per giustificare la presenza di un albergo c’è bisogno di essere la porta su Malpensa, di stare “ nell’ambito di una riorganizzazione complessiva del Nord Ovest”?

Insomma, senza entrare troppo nei dettagli, che tra l’altro pare non ci siano, l’impressione è che si tratti di un trompel’oeil giornalistico, come già visto in tanti e tanti casi di grandi progetti di trasformazione urbana. L’unica osservazione che si può aggiungere per il momento pare di metodo anziché di merito: è davvero il caso che, come riferiscono gli articoli dei giornali, il Comune approvi “prima” questa serie di suggestivi schizzi e tabelle del concept, e “poi” inizi le procedure di variante ad hoc del Piano Regolatore?

Perché l’intuizione migliore probabilmente l’ha avuta suo malgrado uno di quei lettori entusiasti di Skyscraper City, pronti ad acclamare sempre e comunque i rendering più colorati e ad effetto. Il progetto della cosiddetta “Laguna Verde” a Settimo Torinese gli ricordava molto da vicino quello di Renzo Piano per le aree delle ex acciaierie di Sesto San Giovanni. A Settimo non sono ancora arrivati i premi Nobel al traino, ma lo schema sembra presentarsi identico, coi salvatori della patria che promettono e stragiurano sfracelli.

Ma, “Poi”?

L’unico modo di garantirsi un “poi” è quello di arrivare “prima”: con una strategia condivisa all’interno della quale collocare, con tutte le contrattazioni pubbliche del caso, anche vagonate di renderings, tonnellate di pensosi filosofi e sociomani da convegno, e magari anche le esigenze della città. Che non si calcolano solo in rapporto agli investimenti: “ diventare una città modello per il dialogo, per lo studio, per l’ambiente. Dove sia piacevole vivere e interessante lavorare”, come ha dichiarato il sindaco di Settimo al Sole 24 Ore, passa anche e soprattutto da una strategia. Condivisa con una platea magari un pochino più ampia di quella degli investitori.

Di seguito scaricabile un pdf con questo testo e qualche immagine, dell'area e del progetto "concept" di P.P. Maggiora (f.b.)

[1]Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, Provincia di Torino, Un territorio sostenibile ad alta relazionalità. Schema di Piano Strategico per il territorio interessato dalla direttrice ferroviaria Torino-Lione, p. 75

Fu nel luglio 2010 che i milanesi scoprirono il loro nuovo parco.

Il petrolio quotava 250 dollari a barile, l´amico Putin giocava ad aprire e chiudere i rubinetti del gas e il dibattito sul ritorno al nucleare ferveva. Intanto, fra le generali proteste anche della sua maggioranza, il neo ministro dell´energia, il leghista Giuseppe Bonomi, aveva appena pubblicato le nuove norme per il risparmio energetico: condizionatori vietati, ascensori in funzione solo in orario di lavoro, ventilatori autorizzati dalle prefetture e l´odiosa super-tassa sui ventagli che aveva già attivato un fiorente mercato clandestino.

Fu allora che CityLife divenne un nuovo paradiso urbano.

Malgrado gli insistenti interventi del premier Berlusconi e le prediche dell´ex ragazzo della via Gluck, nessuno aveva raddrizzato il grattacielo di Libeskind. Ma solo pochi milionari davvero snob si erano dimostrati disponibili ad affrontare le centinaia di gradini fino ai loro super attici senza aria condizionata e con specchi ustionanti al posto delle vetrate panoramiche. Il grattacielo era in uno stato di semi abbandono, ma con i suoi due fratelli "normali" continuava a proiettare una lunga persistente ombra sul verde splendidamente ingegnerizzato di CityLife. Quell´ombra che i comitati solo tre anni prima avevano ferocemente contestato, aveva creato una piccola isola di refrigerio nella città cementificata dall´Expo. E quello strano profilo del grattacielo più contestato era piaciuto a frequentatori professionali della notte che vi avevano fissato una solida dimora: su ogni sbalzo dell´architettura si indovinava la sagoma rovesciata di un pipistrello. Un lugubre annuncio?

Nient´affatto: per i frequentatori del parco la garanzia di zanzara zero.

Un´assicurazione importante dopo che le aree destinate ad ospitare l´Expo erano state massicciamente disertate perché infestate come la bassa Pavese: riaprire le vie d´acqua non era stata una buona idea e già ci si interrogava sul perché 80 anni fa ci si fosse così impegnati a interrarle. Zanzare a parte, i frequentatori delle nuove rive segnalavano topi, nutrie e si favoleggiava perfino di castori; e naturalmente, di un vorace pesce siluro già padrone dei canali e della presenza di tale Loredano, feroce caimano metropolitano. Là, in cima al grattacielo storto, volavano invece due veri falchi nemici di ogni roditore. E tra le architetture liberty di largo Domodossola si accendevano a tratti i lampi gialli degli occhi di una civetta.

Festa grande per gli etologi e nuovi impegni per i climatologi. Perché nella città in via di tropicalizzazione, quell´area garantiva suggestioni particolari. A parte le palme e i banani (che avrebbero dovuto mettere in sospetto il gran ciambellano-giardiniere), si segnalavano infatti tifoni in miniatura e venti accelerati dal canyon dei nuovi grattacieli, mai registrati prima nelle cronache cittadine.

Fu così che CityLife si popolò di non residenti in braghe corte e canottiera a temperare la cittadinanza dei nuovi ricchi. E fu così che Milano sperimentò nella sua stessa geografia urbana una inquietante "eterogenesi dei fini". Per una volta, a lieto fine.

Documento inviato a la Repubblica e ad eddyburg.it per la Rete toscana dei comitati per la difesa del territorio

Si attendeva con interesse l’incontro del 17 luglio in Regione, annunciato come “risposta” al convegno della Rete dei Comitati sulle emergenze territoriali in Toscana del 28 giugno. Con interesse, perché questa volta la parola doveva passare dalle impressioni soggettive ai dati sul consumo di suolo. Negli ultimi due decenni, veniva ipotizzato, la crescita delle aree urbanizzate diminuisce drasticamente: e ciò per effetto delle nuove disposizioni legislative messe in atto dalla Regione Toscana a partire dalla Legge 5 del 1995. E’ il satellite che lo dimostra, niente di più oggettivo.

L’esito dell’evento sta non tanto nei toni dell’incontro che si è svolto nella sede dell’auditorium regionale a Firenze, e nemmeno nella relazione presentata dall’IRPET, quanto nel resoconto che troviamo sulla pagina locale di Repubblica il giorno dopo, con sottotitoli del tipo “Suolo e cemento: è in Toscana la terra promessa”, oppure “Qui si costruisce meno che nel resto d’Italia. E meglio”. Il titolista si è lasciato prendere la mano, esagerando anche i toni dell’articolo dove pure accanto alle ‘sviolinate’ rivolte all’assessore c’era anche qualche espressione di cautela. Oltre al titolista, si segnala anche il redattore che ha scelto le immagini: una grande foto aerea del raccapricciante pasticcio nato intorno al casello autostradale di Barberino di Mugello, poi un vigneto “californiano” (in foto piccola) … Belle immagini davvero, per documentare la qualità delle trasformazioni del paesaggio!

Nel testo non si parla neppure del contenuto di tutti gli altri interventi, variamente critici, non solo di Paolo Baldeschi, della Rete dei Comitati, e Federico Oliva, presidente dell’INU, ma anche di Marco Romagnoli sindaco di Prato e di Dario Franchini della Provincia di Pisa: secondo l’articolista, l’evento si è esaurito con la figura dell’assessore e con le cifre che egli esibiva a conferma delle proprie tesi.. La pagina toscana di Repubblica del 18 luglio è l’esatto contrario della pagina (nazionale) curata da Francesco Erbani sullo stesso giornale del 28 giugno, che dava conto del dossier sulla “mappa delle emergenze territoriali in Toscana”: 109 casi di “malaurbanistica”, di aggressioni al paesaggio, all’ambiente e al patrimonio storico, molti in corso di realizzazione ma anche molti che ancora potrebbero essere bloccati, magari applicando realmente quel Codice del Paesaggio che Conti ha più volte dichiarato di non amare..

Il dossier della Rete dei Comitati offre una casistica di situazioni, molto diverse fra loro, dalla quale emerge confermata l’impressione che proprio negli ultimi anni si stia compiendo (anche) in Toscana una opera di cementificazione - pessima qualitativamente e distruttiva per localizzazione - ad uso principalmente della speculazione edilizia, favorita o non sufficientemente contrastata dalla legislazione vigente. Non è vero, ci risponde la Regione: da quando abbiamo assegnato ai Comuni la piena autonomia di decidere delle sorti del proprio territorio, cioè dal 1995, le cose vanno meglio. Sui singoli casi documentati nella “mappa delle emergenze” saranno date risposte puntuali, a tempo debito. Ma intanto i numeri parlano: da un incremento nel decennio 1990-2000 pari al 16 % del costruito il consumo di suolo si è ridotto, nei sei anni successivi, a un modesto 3 %. Così Riccardo Conti: e i numeri sono numeri, non si possono mica discutere.

L’idea di una verifica del consumo di suolo per urbanizzazione - con tutti i limiti di un approccio quantitativo che mette in ombra la vera emergenza toscana che è soprattutto qualitativa - è interessante, e anche noi della Rete ci siamo messi a lavorare sui dati dell’uso del suolo, utilizzando le competenze dei laboratori universitari di ricerca territoriale, a Siena e a Empoli.

Una prima constatazione, esaminando la mappatura Corine relativa al 1990, è che il procedimento adottato nel progetto europeo (sulla base di moduli di 25 ettari) è troppo grossolano per rendere conto dei processi di urbanizzazione di tipo estensivo. Da un conteggio analitico (ma probabilmente approssimato per difetto) l’insieme delle aree ignorate nel 1990 ma “recuperate” nel 2000 supera i 2.000 ettari, cui dovrebbero essere aggiunti altri 300 ettari di cave, per arrivare a un incremento effettivo non di 8.300 ettari ma intorno ai 6.000, pari al 7,3 %: un valore molto vicino alla media nazionale.

Come hanno fatto i nostri esperti regionali a dimostrare che nell’ultimo decennio del secolo scorso l’urbanizzazione correva al ritmo di 1.384 ettari l’anno, mentre nei sei anni successivi solo di 534? Semplice: sono andati a rivedere e verificare il Corine Land Cover, ma non quello del 1990, bensì quello del 2000, estraendo dal territorio agricolo e forestale la bellezza di 5.707 ettari, che sommati agli 8.300 dei dati ufficiali portano l’incremento del consumo di suolo alla spaventosa cifra di 13.000 ettari nel decennio, il + 16 % , appunto. Un valore che collocherebbe la Toscana in compagnia della Calabria, della Basilicata, dell’Abruzzo. Poi con la stessa “metodologia” hanno compiuto una rilevazione su immagini satellitari relative al 2006, per avere un termine di confronto: il famoso + 3 % post-legge 5/95.

Ma le maggiori ragioni di perplessità sull’uso dei dati riguardava, e riguarda, non tanto l’entità assoluta del consumo di suolo, quanto l’effetto che le nuove aree - residenziali e industriali - hanno avuto sulle città e sul paesaggio: i fenomeni di conurbazione e di saturazione delle periferie nelle agglomerazioni della valle dell’Arno e della costa, la proliferazione di nuovi aggregati edilizi nel territorio aperto della Toscana collinare, la moltiplicazione di seconde e terze case e di insediamenti turistici. In un decennio, un consumo di suolo di 6.000 ettari, per lo più rivolto alla creazione di rendite, è già tantissimo, e non ci consola il fatto che in altre regioni il consumo di suolo sia cresciuto più che in Toscana.

E allora, lasciamo perdere la clamorosa conferma che viene dall’oggettività dei dati. Cerchiamo di ragionare seriamente. Abbiamo a disposizione altri strumenti di verifica, come l’Inventario Forestale (che è già informatizzato) o la Carta dell’uso del suolo del 1980 (che invece non lo è, ma potrebbe facilmente essere digitalizzata). Possiamo risalire indietro fino al volo GAI del 1954 o alla Carta dell’utilizzazione del suolo del CNR, che ci restituisce la situazione agli anni ’50. Fonti che documentano la situazione di questi decenni cruciali con criteri diversi e a scala diversa, ma che potrebbero costituire una base di partenza un po’ più affidabile del Corine Land Cover. Di certo qui non troveremo un’area agricola al posto di San Miniato!

Poi ragioneremo sugli effetti prodotti dalle nuove urbanizzazioni, sulla qualità, come ci viene promesso dalla Regione.

Con le presentazioni a Palazzo Mezzanotte ed ai Sindacati, in pubblico e, osiamo supporre, ai Sindaci amici in privato, la strategia di SEA è uscita allo scoperto ed i piani sono chiari, oltrechè i soliti: crescita e terza pista non sono certo novità.

Coperta rimane la questione ambientale che noi, invece, vogliamo ricordare: parlare di 50 milioni di passeggeri a Malpensa è terrorismo ambientale.

Vogliamo evidenziare, a questo proposito, che Malpensa sta nel Parco del Ticino, non in un deserto, e che tutta l’area è fortemente antropizzata.

É facile verificare che, nel raggio di 10 km dalle piste, esistono 38 Comuni con oltre 250.000 abitanti.

Allargando a 15 km si contano in totale 88 Comuni e 500.000 abitanti.

É qui che vogliamo far crescere un aeroporto che è già oltre il doppio del limite stabilito dal proprio P.R.G.A?

Nulla di nuovo anche sul fronte sindacale: a parte qualche esponente incredulo (dove troveranno i soldi?) il plauso è generale. Gli allarmi occupazionali (esagerati!!!) sono già rientrati, sono già ricominciate le assunzioni, si riparla di crescita e l’esperienza appena vissuta con il dehubbing e tutte le falsità relative non ha insegnato nulla.

Se Malpensa torna a crescere, l’elevata concentrazione di voli (forzando il mercato) e di lavoratori costituirà di nuovo una bolla destinata a scoppiare. E quando scoppierà (e sarebbe già la terza volta) pagheranno come al solito i più deboli o, nella migliore delle ipotesi, i contribuenti, per gli errori di politici, amministratori e sindacati.

Politici, amministratori e sindacati che, quando Malpensa cresce, si fregano le mani tutti contenti, senza pensare all’ambiente, quando scoppia, strillano e cercano altrove il capro espiatorio su cui rovesciare le proprie responsabilità.

In merito alle dimensioni aeroportuali è interessante ricordare che Linate, con una sola pista, gestiva, fino al ’98, 16 milioni di passeggeri/anno: perchè Malpensa, che doveva gestire al massimo 12 milioni di passeggeri, ha due piste?

Allora la proposta è: rispettiamo il P.R.G.A. e l’ambiente e, invece di fare la terza pista, chiudiamo una delle due attuali.

Si noti inoltre che due piste parallele consentono, ad esempio a Londra Heathrow, una capacità operativa superiore a quella che sarebbe possibile a Malpensa con tre piste.

Questo studio, infatti, redatto per S.E.A. da Mitre Corporation di Washington, e noto per essere stato presentato ad alcuni Sindaci e per descrizioni circolate, invece di risolvere i principali problemi di Malpensa, ne crea altri.

Attraversamento di pista con rischio di collisioni e ridotta capacità operativa (ridotta per un hub, in realtà, per l’ambiente è esagerata) sono attualmente i principali problemi.

Con la terza pista secondo Mitre l’operatività aumenterebbe un po’, ma anche i problemi, poichè gli attraversamenti di pista ci sarebbero ancora e la dipendenza tra le piste diventerebbe un gioco a tre (piste), quindi ancora meno sicuro.

Poi, particolare non trascurabile, si dovrebbe demolire e ricostruire la torre di controllo (costata 15 milioni di €) perchè nell’attuale posizione interferirebbe con i movimenti sulla nuova pista.

Ricordiamo la nostra proposta, il “Sistema Aeroportuale del Nord Italia”, dove ci sono 13 aeroporti con 15 piste ed una capacità di ca. 100 milioni di passeggeri/anno, il traffico reale è meno di 40 milioni e quindi non serve alcun ampliamento, neppure a Malpensa.

Ma non è ora di smetterla con questo aeroporto?

Gallarate, 19 luglio 2008 http://unicomal.blogspot.com/

Per la cultura "le risorse sono poche, bisogna fare delle scelte". Così il ministro dei Beni Culturali Sandro Bondi nel suo intervento durante l'assemblea annuale dell'associazione Civita. "Si dovrebbe limitare l'uso deficiente delle risorse, spendendole male o per niente - ha spiegato il ministro -. L'unica cosa da fare è destinare quei fondi, anche se pochi, a progetti qualificati. Intanto, la cultura non deve essere sottovalutata come mezzo di rilancio economico, neanche dalla classe dirigente politica". Restando in termini di economia della cultura, Bondi ha aggiunto: "l'unica soluzione per uscire da questa situazione di stallo economico è la cooperazione tra pubblico e privato, senza antagonismi. bisognerebbe tornare alla gestione autonoma dei beni culturali e rimuovere gli eccessivi vincoli che ostacolano chi vuole aiutare a rilanciare il patrimonio. Penso anche ad una defiscalizzazione dei sostegni che provengono dai privati". Come esempio di collaborazione tra pubblico e privato, il ministro ha detto: "Civita sta lavorando ad un piano d'innovazione tecnologica per i musei italiani, è possibile una collaborazione. Intanto il ministero - ha ricordato - sta pensando ad un piano nazionale per la valorizzazione dei quasi 4000 musei italiani".(ANSA).

Postilla

L’ottimismo quasi senza riserve manifestato oggi dal Presidente del Consiglio Nazionale dei Beni Culturali, riconfermato dopo la bufera, si scontra con le dichiarazioni che in più sedi (Civita, FederCulture, lo stesso Consiglio Nazionale) in queste ultime ore lo stesso ministro ha rilasciato e di cui riportiamo ad exemplum il comunicato ANSA.

Al di là delle consuete dichiarazioni di maniera, peraltro inevitabili dopo lo scontro politico sull’articolo del Sole del 7 luglio, la direzione prioritaria cui ispirare la politica del Ministero è chiarissima: largo ai privati.

In queste affermazioni non ci sembra proprio di cogliere alcuna intenzione di proporre una battaglia politica e culturale per provocare non dico un’inversione, ma neanche un semplice ridimensionamento dei tagli brutali prefigurati dal DL 112: si dà anzi per scontato che le risorse saranno ridotte e che, quindi, si dovrà ricorrere a finanziamenti non pubblici e sicuramente non solo statali.

Certo considerazioni drasticamente negative non possono essere tratte da poche note di agenzia stampa (ma le cronache di ieri erano sufficientemente concordi al riguardo, come risulta dalla rassegna stampa di patrimoniosos): attendiamo il ministro nella sede deputata, la discussione parlamentare sul Dl 112: passaggio cruciale al quale eddyburg si prepara, con le poche forze di cui dispone, per produrre il massimo sforzo di conoscenza e di sollecitazione politica. (m.p.g.)

Due eventi hanno turbato negli scorsi giorni gli eleganti corridoi del Collegio Romano, sede centrale dei Beni Culturali. Primo evento, i recenti tagli al bilancio del Ministero: il Dl sull’Ici ha cancellato i 45 milioni di euro per il ripristino dei paesaggi degradati; 105 milioni sono stati dirottati a compensare mancati introiti Ici e al "Fondo per la politica economica"; infine, il Dl 112/2008 taglia nel prossimo triennio quasi un miliardo, di cui 761 milioni dalla "tutela dei beni culturali e paesaggistici".

Il secondo evento è assai più banale: sul Sole-24 ore del 4 luglio ho commentato queste cifre, citandole dalla Gazzetta Ufficiale. Non ci vuol molto a capire che il primo di questi due eventi è assai preoccupante, il secondo è irrilevante. Eppure è sul mio articolo, e non sui tagli che lo hanno provocato, che si sono concentrati quasi tutti i commenti di senatori e deputati (fra cui un sottosegretario), e di molti giornali. Nessuno ha contestato la correttezza dei dati che avevo addotto; in compenso, più d’uno ha chiesto le mie dimissioni da presidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali. Perché? Perché la preoccupazione per questi tagli rivelerebbe «scarso rispetto per le istituzioni» (sen. Amato), «disinvoltura e gusto per la polemica» (on. Giro), «non condivisione della linea di rilancio delle attività culturali del Ministro» (on. Carlucci). Perché, insomma, chi presiede il Consiglio Superiore dei Beni Culturali è tenuto a non manifestare preoccupazioni sui Beni Culturali, che potrebbero suonare critiche verso il governo. Anzi, soggiunge il sen. Amato, il carattere strumentale di tali critiche è dimostrato dall’«assordante silenzio» che avrei osservato all’epoca del governo Prodi.

Il presupposto di queste esternazioni sembra essere: la presidenza del Consiglio Superiore è un incarico politico, e comporta fedeltà al governo; ergo, ogni preoccupazione del presidente non può che essere "strumentale", cioè da oppositore politico. Quanto al mio preteso silenzio durante il governo Prodi, ricordo al sen. Amato solo la normativa sul silenzio-assenso. Quando fu proposta dal ministro Baccini (governo Berlusconi), ne scrissi sulla prima pagina di Repubblica dell’8 marzo 2005 (Beni culturali, ultimo scempio); quando una norma assai simile fu riproposta dal ministro Nicolais (governo Prodi), il mio articolo Per i Beni Culturali ritorna lo scempio, ahinoi molto simile al precedente non solo nel titolo, uscì sulla prima pagina di Repubblica dell’11 settembre 2006 (in ambo i casi, la proposta fu ritirata).

Altri esponenti della maggioranza hanno preso per fortuna la strada opposta: l’on. Granata, per esempio, mentre lo stesso Ministro Bondi ha riconosciuto «l’urgente necessità di intraprendere un cammino comune per limitare il più possibile il temuto ridimensionamento delle risorse», e ha dichiarato di non aver «mai messo in dubbio la legittimità di esprimere liberamente le proprie opinioni da parte del presidente del Consiglio Superiore».

Ma è vero che, come alcuni han detto, chi ricopre questa carica è obbligato al pubblico silenzio su ogni questione che riguarda i beni culturali? No, non è vero. Il Consiglio Superiore dei Beni Culturali è, come altri Consigli Superiori (dei Lavori Pubblici o della Magistratura), uno degli organi tecnico-scientifici (non politici) che l’Italia liberale istituì come mediatori fra il governo, il parlamento e la società civile, convocando competenze dal mondo dell’università, della ricerca, delle professioni. Perciò la presidenza del Consiglio Superiore comporta la massima discrezione sui documenti su cui il Ministro chiede pareri, ma non comporta l’obbligo del silenzio sugli atti ufficiali del governo né il divieto di citare dati pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale, né tanto meno la proibizione di esprimere opinioni. Il carattere tecnico-scientifico e non politico del Consiglio è stato pienamente riconosciuto dal Ministro Bondi, quando, davanti alle (doverose) dimissioni del presidente e dei membri nominati da Rutelli, ha chiesto a tutti di restare al loro posto.

L’atteggiamento responsabile del Ministro e la sua dichiarazione alle Camere che intende «impegnarsi per una progressiva crescita dell’intervento economico dello Stato a favore delle politiche culturali, attualmente attestato sulla troppo modesta percentuale dello 0.28%» consentono di accantonare le polemiche inutili, per tornare al cuore del problema. Quale che sia la manovra economica del governo, a chiunque abbia una qualche competenza specifica sui beni culturali, o un ruolo istituzionale connesso, spetta non la facoltà, bensì l’obbligo di dire nel modo più chiaro che questo è un settore (come del resto l’università e la ricerca) in cui tagli troppo drastici e non compensati da credibili meccanismi di recupero possono generare conseguenze di lungo periodo. Il deterioramento del patrimonio e del paesaggio per carenza di tutela, così come la forzata chiusura di una linea di ricerca o l’emigrazione di giovani talenti, educati in Italia a caro prezzo, verso Paesi più interessati alla ricerca, innescano processi irreversibili, danni economici e culturali non più sanabili.

Il Paese non può permettersi tagli tanto gravi ai Beni Culturali da mettere a rischio l’obbligo costituzionale della tutela, tanto più d’attualità oggi di fronte alla selvaggia aggressione al paesaggio da parte di comuni e regioni di ogni colore politico. Oggi e non domani è il momento di dirlo, prima che il Dl venga convertito in legge (entro l’8 agosto). Una discussione aperta, trasparente, limpida (dunque pubblica) sui fatti è richiesta dal pubblico interesse e dalle regole della democrazia. E poiché il Ministro (ha ragione l’on. Carlucci) ha una chiara «linea di rilancio delle attività culturali», protestare contro i tagli che ne impedirebbero l’attuazione è segno di rispetto per lui, di condivisione delle sue dichiarazioni alle Camere, e non il contrario. Il Ministro, intanto, sta lavorando per limitare il danno che verrebbe al suo Ministero da quei tagli: infatti, all’assemblea di Federculture ha parlato della «carenza di risorse che attanaglia il Ministero». Dopo gli 80 milioni per il cinema già recuperati, dopo i 20 milioni che verranno da Arcus, non si può dubitare che egli si adoprerà sia per ridurre la portata dei tagli al suo bilancio sia per attivare altre fonti d’introito.

Il Parlamento, al cui esame è ora il Dl 112, non può, non deve sottoscrivere tagli ai Beni Culturali della portata ipotizzata. Lo ha ripetuto ieri all’unanimità il Consiglio Superiore al Ministro, esprimendo il proprio apprezzamento per le sue dichiarazioni e per l’intenzione di promuovere donazioni mediante misure di defiscalizzazione, ma anche «piena solidarietà e appoggio allo scopo di scongiurare la temuta deriva che rischia di annichilire la tutela e il governo del patrimonio culturale e paesaggistico». Una preoccupazione grave che nasce dal massimo rispetto per la Costituzione, per gli interessi del Paese, per i funzionari della tutela, per il Ministro che vi è preposto e per i progetti che egli ha dichiarato alle Camere. Con ostinato ottimismo rivolgiamo al senso di responsabilità istituzionale del Governo e del Parlamento un accorato appello perché le cifre dei tagli previsti dal Dl 112 vengano rivedute sensibilmente al momento della sua conversione in legge; anzi perché, pur nella difficile congiuntura economica, venga avviato un piano per una progressiva, necessaria crescita delle risorse.

La precisazione dell’assessora Barbanente, in replica all’articolo di Dino Borri, è stata pubblicata da la Gazzetta del Mezzogiorno, edizione Bari, il 17 giugno 2008

Il dibattito sviluppatosi sulla stampa locale in seguito all’approvazione della modifica delle Norme tecniche di attuazione del Piano regolatore generale (Prg) di Bari, adottata dal Consiglio comunale nel dicembre 2005, mi induce ad alcune riflessioni che in parte vanno oltre i contenuti dell’atto in questione.

Un primo punto che mi sta particolarmente a cuore riguarda la partecipazione sociale. La Regione ha approvato Indirizzi che prevedono che il coinvolgimento della società nella formazione dei Piani urbanistici generali (Pug) accompagni l’intero processo decisionale, sin dalla fase di concepimento del piano e, soprattutto, dia voce a portatori di interessi ambientali, socioeconomici, culturali diversi da quelli “del mattone” e a soggetti finora esclusi dalle decisioni perché privi delle risorse cognitive necessarie per comprendere atti tecnici di indubbia complessità.

Queste nuove forme di partecipazione non sostituiscono quelle da lungo tempo previste dalle norme urbanistiche a tutela dei diritti di ogni soggetto, pubblico o privato, singolo o associato, ma si aggiungono ad esse. I non addetti ai lavori devono sapere che l'iter di formazione del Prg e delle relative varianti prevede: adozione del Consiglio comunale, pubblicazione, presentazione di osservazioni che il Consiglio è obbligato a esaminare puntualmente, controllo regionale con eventuali modifiche che – merita sottolineare – possono riguardare solo l'accoglimento delle osservazioni e il coordinamento con altri piani territoriali e le norme vigenti.

Mi colpisce che, mentre operiamo ogni sforzo per potenziare gli strumenti della partecipazione nelle direzioni sopra indicate, quelli consolidati non siano utilizzati neppure da soggetti attivi e informati.

Vi è un secondo punto sul quale mi preme soffermarmi, soprattutto per evitare che i Comuni pugliesi possano immaginare che la Regione non sia imparziale nella valutazione dei piani comunali. Esso attiene ai limiti dei poteri regionali: come accennavo, la Regione può solo controllare la rispondenza degli atti adottati al quadro normativo di riferimento e non può effettuare valutazioni in ordine all’opportunità degli stessi, essendo queste di stretta competenza del Consiglio comunale. Così come è di competenza comunale la scelta di non dotarsi di Programma Pluriennale di Attuazione (Ppa), reso facoltativo da norme statali recepite dalla lr n. 20/2001. D’altra parte, basta leggere il programma amministrativo del Sindaco Emiliano, al paragrafo “Fare di Bari una città costruttiva”, per constatare che l’eliminazione di “scelte pregresse come il Ppa” era un’esplicita opzione politica volta a “sfidare con successo tutte le questioni, i nodi, i problemi che si sono accumulati”. Ed è proprio la scelta di non redigere un nuovo Ppa che, da un lato, ha reso edificabili altri volumi rispetto a quelli inclusi nel 3° Ppa, dall’altro, ha suggerito di introdurre con la variante al Prg l’obbligo,nelle zone di espansione, di estendere all'intera maglia i piani attuativi, di realizzare le urbanizzazioni di collegamento con quelle esistenti anche al di fuori della maglia e di riservare all’edilizia residenziale pubblica almeno il 40% della volumetria totale.

Nei limiti dei propri poteri, la Regione ha approvato la variante di Bari (adottata fra il 2005 e il 2006, ndr), obbligando, fra l’altro, il Consiglio comunale a deliberare un piano di utilizzazione delle aree destinate a servizi di quartiere, definito sulla base della verifica degli “standard” dei singoli quartieri e/o circoscrizioni. Operazione non da poco, se si pensa che il Comune di Bari non è riuscito in trent’anni ad approvare il piano dei servizi previsto dal Prg e che questa norma potrebbe indurre finalmente a effettuare una ricognizione, quartiere per quartiere, della dotazione di aree per servizi che residuano alla progressiva erosione dovuta a usi impropri, programmi in deroga e sentenze del TAR su aree con vincoli preordinati all’esproprio decaduti.

La Regione, inoltre, nel rispetto delle norme abrogate con lr n. 22/2006, ha eliminato ogni rimando ai crediti urbanistici per le aree ricadenti nei 300 m dalla costa e nei 150 m dalle lame. Quanto ai riferimenti alla perequazione urbanistica, è stato osservato che essi sono del tutto ininfluenti, mancando nella variante norme e strumenti per renderla operativa. La Regione ha peraltro ricordato che la tutela di tali aree è comunque affidata alle norme del piano paesaggistico regionale. Particolare attenzione è stata prestata alle modifiche delle norme sugli indici edilizi, che sono state approvate perché giudicate migliorative di quelle previgenti che consentivano la facoltà di deroga per le lottizzazioni estese a una intera maglia di Prg, mentre le modifiche escludono tale facoltà per tutti i piani esecutivi presentati dai privati. L’attenzione a queste norme deriva dalla consapevolezza degli effetti perversi prodotti nelle aree sottoposte a tutela paesaggistica dalla facoltà derogatoria prevista da Quaroni: questa induce i privati, per sfruttare tutta la volumetria consentita dal Prg, a concentrare l’edificazione nelle aree non tutelate e a sviluppare i fabbricati in altezza, con intuibili impatti negativi su paesaggi e ambienti di particolare valore e fragilità.

Non ho dubbi che il confronto di idee su questi temi è sempre utile e quindi va sollecitato. Ma sono pure convinta che occorre allargare le sfere della partecipazione sociale al di là dei media. L’insegnamento che credo tutti possano trarre da questa vicenda, soprattutto in vista della redazione del Pug che mi auguro imminente, riguarda le possibili distorsioni di un dibattito sviluppatosi tutto nella sfera mediatica. Questo ha spostato il fuoco dell’attenzione su scelte già da tempo compiute (non approvare un nuovo Ppa), su norme prive di alcuna efficacia (la perequazione urbanistica) o sugli undici milioni di metri cubi della grande manovra urbanistica (che non mi pare possano essere motivo di vanto discendendo dalla semplice decisione di non dotarsi del Ppa e che successive stime hanno peraltro ridotto a tre). E ha occupato i vuoti degli esistenti istituti della partecipazione democratica e determinato la formazione dei giudizi ben più della conoscenza diretta dei fatti.

La prima volta che La Maddalena ospitò un G8 le cose non andarono tanto bene. Benché fosse giugno, il tempo si mise di traverso, e impedì ai Grandi convenuti nell'isola di sbarcare: era il 1882, e gli emissari delle teste coronate di mezza Europa nonché del presidente degli Stati Uniti si trovarono nell'arcipelago per i funerali di Giuseppe Garibaldi. L'eroe fu salutato dalle salve delle navi, ma poi vento e mare impedirono i rifornimenti e la partenza per giorni. Bizzarrie del tempo maddalenino. Non altrettanto sarà per il G8 che nel 2009 si terrà sull'isola a cui Silvio Berlusconi in persona ha dato il via libera definitivo: lo ha promesso il capo della Protezione civile Guido Bertolaso, che come commissario straordinario per l'evento si è preso la responsabilità di garantire che tra un anno esatto tutto sarà pronto. E cioè che, laddove oggi c'è un vecchio edificio di fine Ottocento usato come ospedale, ci sarà un albergo a cinque stelle lusso adatto ai Grandi, e che nel vecchio Arsenale, anch'esso di stampo ottocentesco e in disuso da trent'anni, sorgeranno come per incanto la conference room degli incontri dei capi di Stato, l'area stampa, un altro albergo e la darsena per un migliaio di posti barca. Tutto lustro, ecologicamente compatibile e ad autonomia energetica solare, popolato di mezzi elettrici e con la banda larga via etere, con i materiali di scarto riutilizzati nella malta e con cibo 'a kilometri zero'. Una meraviglia tecnologico-turistica destinata non solo a sfruttare le vestigia di vecchie servitù militari di cui la Regione è diventata proprietaria, ma anche a cancellare definitivamente quell'atmosfera da vecchia colonia che aleggia nell'isola. E a lanciare l'arcipelago, fino a pochi mesi fa vincolato (e preservato) dall'ingombrante presenza della base americana, nel grande giro del turismo di lusso. "Non saremo la piscina di nessuno", promette il sindaco maddalenino Angelo Comiti, Pd. Oggi, infatti, secondo i calcoli dell'Ente parco, ogni anno arrivano nell'arcipelago 12 mila barche, e 3.800 passeggeri al giorno vengono riversati dai barconi su spiagge e spiaggette di Santa Maria, Budelli, Spargi, tutti gioielli naturali. Turismo di passo, che non fa la spesa, non va in albergo, non affitta case. Consuma le bellezze naturali, ma non lascia soldi.

Ora invece i soldi per far fare alla Maddalena il grande salto ci sono. Trecento milioni per i lavori dell'evento G8, garantiti da Bertolaso (la Regione ne metterà una settantina, il resto viene da stanziamenti fatti ad hoc, più il rastrellamento di 100 milioni di fondi Fas per le aree sottoutilizzate), ma che lieviteranno fino alla strabiliante cifra di 800 milioni. Come? Agganciando al treno in partenza del grande evento, e alle sue procedure superveloci sull'impatto ambientale, una serie di opere pubbliche che Regione e Comune avevano in mente di fare (con relativo stanziamento): dalle quattro corsie Olbia-Sassari (370 milioni di euro) al nuovo tracciato della Arzachena-Palau (85 milioni), all'allungamento della pista dell'aeroporto di Olbia per far atterrare l'Air Force One, dal depuratore-potabilizzatore dell'isola dimensionato ai futuri consumi (12 milioni), fino al 'waterfront' maddalenino (18 milioni), insomma il porto turistico nuovo di zecca che farà lievitare i posti barca da diporto dai 90 ospitati attualmente nella piccola Cala Gavetta a 650. Più quelli dell'Arsenale, un tripudio di nautica dove oggi la fanno da padroni gommoni e barconi di legno che offrono pasta con le cozze.

Nel compendio militare in città, off-limits fino a febbraio e dove gli americani facevano la spesa, andavano al cinema, portavano i bambini al parco e giocavano a squash, oggi governa la Protezione civile che sorveglia i lavori del G8. Finita l'impresa, tornerà ai proprietari, i Mordini, che in tutti questi anni hanno incassato un canone d'affitto. I quali hanno già un progetto di costruzione di un centro congressi e un albergo. Non sono gli unici. L'ex sindaco Pasqualino Serra ne farà uno a Santo Stefano, il Club Méd, chiuso da due anni, ricostruirà a Caprera, si vuole allargare l'Hotel Cala Lunga comprato dall'imprenditore del packaging Davide Cincotti, e anche Salvatore Ligresti, che ha acquistato le 134 ville prima affittate alle famiglie degli americani in una delle più belle zone dell'isola, Trinita, vorrebbe allargarsi. Insomma dai 1.100 posti letto attuali, l'arcipelago arriverà a 2.200. Qualcuno stima un impatto di 200 mila metri cubi di cemento, ma il governatore Renato Soru su questo punto è tranchant: "È un dato inesatto: quei metri cubi sono per il 95 per cento volumetrie già esistenti che possono essere recuperate. In linea con il Piano paesaggistico regionale, che non è vero che ha bloccato l'edilizia in Sardegna, e che consente la riqualificazione dell'esistente, il recupero, e una premio per chi trasforma seconde case in alberghi". E a chi critica il nuovo modello di sviluppo maddalenino il sindaco risponde ricordando i 1.800 disoccupati dell'isola (su 12 mila abitanti), e l'esiguità del suo budget da 27 milioni, che ora potrebbe prendere il volo, tra Ici e introiti delle nuove concessioni portuali. Modello che ha un solo ostacolo da abbattere: l'Ente parco dell'arcipelago, contro il quale l'intero consiglio comunale ha votato un referendum consultivo tra la popolazione per il suo scioglimento. O di cui, in alternativa, il Comune vorrebbe la presidenza.

La grande prova sarà comunque il G8. Reggere all'arrivo delle 20 mila persone che l'evento di luglio 2009 porterà sull'isola non sarà facile. Alla Protezione civile sono ottimisti e anche un po' eccitati. Dopo aver organizzato congressi eucaristici, firme della Costituzione europea e intronizzazione del papa, questo è il loro primo intervento 'da prato verde', in cui si parte da zero e tutto va inventato e realizzato. Affrontando temi quali: quanto devono essere grandi le suite di Sarkozy e della Merkel, di Putin e di Obama (dato lui per vincente), insomma degli otto big più il presidente della Ue e quello di turno del Consiglio europeo con relativi capi delegazione? Come si sposteranno i suddetti grandi? E dove far dormire i 3 mila giornalisti attesi e le 10 mila forze dell'ordine? Come sfamare tutti in un'isola che importa qualsiasi cosa da fuori? Come garantirsi da cadute di tensione elettrica o che dal rubinetto della Jacuzzi di Putin non esca più l'acqua? E, soprattutto, come fare tutto in 12 mesi?

"Teak? Meglio il granito: neanche il teak è più quello di una volta...". Con qualche ritocco firmato da Berlusconi in persona, i progetti, tutti vincolati dal segreto militare, sono stati varati. Gli appalti verranno conclusi entro il mese, e le maestranze lavoreranno 24 ore su tre turni. Lo studio di Stefano Boeri firma la zona conferenze nell'Arsenale, che le indiscrezioni raccontano come un grande parallelepipedo aggettante sull'acqua. Dopo, diventerà uno yacht club attraverso una gara internazionale bandita dalla Regione. Perché tutta l'area del vecchio Arsenale militare, dal molo dove nell'Ottocento si scaricava il carbone alla darsena per le riparazioni, sarà il volano del futuro maddalenino. Sarà lì che nascerà il Polo nautico dell'arcipelago, con una zona per l'attività fieristico-commerciale e una di rimessaggio per la cantieristica leggera, cioè non i super-yacht, ma le barche a vela. Più albergo per gli equipaggi. Ma chi sogna l'America's cup dovrà rassegnarsi: a Valencia è stata necessaria una superficie che è cinque volte quella maddalenina.

Allo studio Facchini, che per il Vaticano ha firmato la Domus Santa Marta, il 5 stelle che ha ospitato i cardinali del conclave, è andato invece il progetto dell'albergo per i Big. Fronte mare, il vecchio palazzotto dell'ospedale militare, debitamente integrato con due ali ad esedra, ospiterà 115 stanze, di cui dieci suite da 70 metri quadrati (la metà del G8 in Giappone) più altrettante da 45 metri quadrati per i capi delegazione. Invece della palestra in camera, ce ne sarà una comune, più piscina, più spa. Decisioni difficili, si sa, ma prese dopo attenta disamina di metri cubi e distanze dei G8 precedenti e di quello appena concluso. Con un risultato che non si sa se verrà apprezzato dai Grandi: a 150 metri dalla sala del congresso, i giornalisti non sono mai stati così vicini. n

Manifesto Soru

"Il G8 è un'occasione per bonificare siti militari dismessi, sperimentare forme di sostenibilità ambientale per esempio nell'approvvigionamento energetico, nella mobilità nell'isola, nel consumare i prodotti agro-alimentari sardi. Sarà completato il ciclo della depurazione delle acque, nemmeno un litro d'acqua sarà sprecato. E questo accade dove sino a un anno fa era presente una nave appoggio per sommergibili a propulsione nucleare". Renato Soru è orgoglioso dell'operazione che ha avviato con il governo Prodi e ora condotto in porto con quello Berlusconi. Ma era proprio necessario infilare nel pacchetto anche le strade, governatore? "Sono strade necessarie e di cui si parla da decenni. Le procedure del G8 rendono tutto più veloce, senza saltare nessun passaggio: la Olbia-Sassari è una delle strade più pericolose e trafficate d'Italia, rifarla è una richiesta di tutto il sistema economico sardo".

La Maddalena reggerà l'impatto della crescita turistica che si prepara?

"Sì, l'isola d'estate è soffocata da auto e villeggianti, che però la sera se ne vanno perché non sanno dove dormire. Si deve riconvertire un'economia basata sulle attività militari in economia civile, turistica, attorno al meraviglioso ambiente del Parco nazionale".

Il Parco: anche lei è per cancellarlo?

"L'Ente parco nazionale crea problemi e conflitti, è un potere che si sovrappone a quello comunale, mentre lo Stato mette risorse ridicole per un bene di immenso valore che costa invece alle casse della Regione. È ora che torni alla disponibilità dei sardi".

BRACCIO DI FERRO A CAPRERA

"Ricorrerò al Tar sulla questione referendum". Giuseppe Bonanno, 32 anni, presidente dell'Ente parco dell'arcipelago maddalenino ha l'aria di uno che mette il dito nella diga per fermare l'acqua. Gli enti locali, dalla Regione al Comune alla Provincia, non hanno nominato i propri rappresentanti negli organismi decisionali per azzopparlo, e vedono il parco come un ostacolo per i mille progetti di valorizzazione delle isole. Innanzitutto Caprera, dove nella zona militare di Punta Rossa la Regione ha deciso di far nascere un Centro di osservazione per gli ecosistemi costieri (ma si è rischiato l'albergo), e dove l'altro oggetto del desiderio è il forte militare che domina l'isola. L'Ente parco, viceversa, progetta per l'isola un blocco delle auto, con un parcheggio di scambio e lo smistamento dei visitatori con minibus elettrici. Quanto a Santo Stefano, è ancora in discussione cosa fare della ex base americana, passata alla Regione. L'architetto Stefano Boeri sta lavorando a un'idea: farne un centro turistico a basso costo per i giovani, e porterà in ottobre i suoi studenti di Harvard a studiarne il progetto. Che potrebbe combinarsi con quello di un attracco dei traghetti su Santo Stefano, collegandola poi a La Maddalena con un ponte.

Sull'argomento si vedano gli articoli La Maddalena Blindata, Nuvole sulla Sardegna, e l'Opinione di Vezio De Lucia

Gent.ma Guermandi, a proposito della trasmissione di Report sull'urbanistica romana, per amore del confronto le trasmetto questa lettera aperta scritta a Report, scritta a caldo, prima ancora che venissero pubblicate le reazioni di Morassut. spero che avrà tempo di leggerla.

Forse il diavolo è brutto proprio come l'ha dipinto Report e quindi alla malora tutto e tutti (a cominciare da Veltroni e Morassut). Può essere, anche se tanti dubbi ci sono.

Però credo che dalla trasmissione escano perdenti indiscutibilmente due cose che a tutti noi dovrebbero stare a cuore: l'informazione e l'urbanistica (noti bene, entrambe senza aggettivi).

L'informazione, perché è davvero incontestabile (se ha dei dubbi si riveda la registrazione video più che il resoconto scritto della puntata) che la trasmissione ha avuto un impianto tendenzioso volto soprattutto a colpire un soggetto (l'amministrazione uscente): usare le fotografie di veltroni che mangia le tartine con i costruttori è davvero squallido! e vogliamo parlare dei commenti musicali? siamo tutti abbastanza svezzati da vedere e capire certe cose...!

L'urbanistica, perché paradossalmente, nel rivendicare un immagine "pura" dell'urbanistica che dovrebbe librarsi al di sopra degli interessi dei costruttori, o delle questioni di bilancio, o dei rapporti di forza e di potere, la si uccide, la si uccide nella sua essenza vera che è molto "sporcarsi le mani" (come tutto quello che è politica e territorio) non nel senso ovviamente di prendere le mazzette ma nel senso di sedersi a dei tavoli dove le controparti hanno sempre molta più forza di te e sono numerose, mentre la parte pubblica è quasi sempre sola e debole, e sapere che comunque da quei tavoli bisogna alzarsi con delle scelte. Se lasciamo passare l'idea che la pianificazione (possiamo sostituirla anche con la parola "politica") alla fine è fatta solo di accordi sottobanco e di interessi privati, perché qualcuno dovrebbe ancora appassionarsi e crederci? crederà solo a quello che gli dice, lasciate fare a me che sono ricco di mio e sistemo tutto io...

con stima

Arch. Felice Cappelluti

Due brevi risposte a proposito di informazione e di urbanistica,

Che il servizio di Report abbia accortamente adoperato tutte le figure retoriche dell’allusione, del parallelo, della sineddoche e via elencando a servizio di una tesi, è innegabile, ma fa parte delle “armi del mestiere”: l’uso che se ne fa è deontologicamente scorretto laddove la tesi da dimostrare ne risulta distorta. Nessuna delle affannose repliche uscite a commento della trasmissione ha incrinato il quadro complessivo di una gestione del territorio più che disponibile nei confronti delle richieste dei costruttori e poco incline all’ascolto delle ragioni dei mille comitati civici sorti in questi anni. E l’unico argomento a discolpa nella sua lunga lettera è un disarmante “così fan tutti” che dalla nostra parte politica proprio pretendiamo di non sentire più, anche perché è esattamente una delle cause principali del dilagare qualunquistico che Report è accusata di incentivare (detto inter nos, si è domandato perché la trasmissione, pronta da almeno due mesi, sia uscita dopo il 27 aprile? Altro che tendenze suicide della sinistra…).

Le tesi del servizio televisivo sono peraltro freudianamente ribadite nella sua stesso commento alla postilla di eddyburg, laddove si parla con ironia dell’immagine “pura” dell’urbanistica e con pragmatismo operativo di “sporcarsi le mani”. Solo una considerazione al proposito: ma perché mai la parte pubblica dovrebbe essere per forza “sola e debole” di fronte al privato? In una democrazia degna di questo nome la parte pubblica è portatrice del volere della maggioranza dei cittadini e chiamata a rappresentare le esigenze superiori dell’interesse collettivo e ha armi politiche (nel senso migliore del termine) potenti per far pesare le proprie decisioni solo che le usi: una per tutte, la partecipazione dei cittadini ai processi decisionali,. Questo non le impedisce di “sedersi a dei tavoli” e di contrattare, ma in piena trasparenza, in una casa di vetro. Il problema è che i vetri puliti sono a rischio, con le mani sporche…(m.p.g.)

La lettera di Felice Cappelluti sul forum del PD

Panacea, la dea che tutto guarisce, figlia del dio Esculapio, ha lasciato l´Olimpo: è scesa tra di noi milanesi sotto le spoglie di Expo 2015. Benvenuta! A lei oramai ci affidiamo perché ci guarisca da tutti i mali, dalle infrastrutture insufficienti e malandate ai sentieri di montagna mal segnalati, al dissesto idrogeologico, all´inquinamento atmosferico, alle buche nei marciapiedi. Tutto lei può. Da ultimo ci siamo rivolti a lei per il problema della casa, un´emergenza ormai nota per la sua drammaticità e che ha stravolto il significato della parola stessa: quando dura un quarto di secolo emergenza non c´è più, è solo drammatica incapacità a provvedervi.

Dunque di nuovo oggi si interrogano gli architetti per avere lumi. Gli amministratori pubblici interpellano gli architetti ai quali hanno appiccicato una nuova professione, quelli che definirei di "socio-architetti", quelli che loro ritengono capaci di risolvere problemi sociali usando dell´architettura. È un pericoloso arretramento della classe politica di fronte alle sue responsabilità: individuare i problemi sociali e scegliere gli strumenti adatti a risolverli, ovviamente solo in parte quelli dell´architettura. Detto tra noi conosco molti disastri sociali fatti dagli architetti e pochi esempi del contrario: dal problema dal Corviale a Roma fino allo Zen di Palermo. Ci risiamo? Il problema è analogo a quello del pane oggi, scarso e caro. Soltanto qualche brillante spirito penserebbe di consultare i panificatori chiedendo loro di risolvere il problema pensando alla forma del pane: rosette? biove? ciriole? francesini? ciabatte? carasau?

Il problema principe della casa, in particolare quella popolare (che oggi con impareggiabile delicatezza chiamiamo housing sociale) è la sua scarsità e il suo prezzo. Alla fine del 1993, governo Ciampi, sotto la spinta della diffusa morosità, delle occupazioni abusive e delle difficoltà di gestione, viene varata la legge 560 che autorizza gli enti proprietari di edilizia sociale a vendere il loro patrimonio.

La soluzione è devastante: le vendite impoveriscono il demanio pubblico e favoriscono chi ha qualche risparmio trasformandolo in un fortunato che godrà della rivalutazione forsennata degli immobili degli anni successivi: ombre in più sulle vendite, come sempre. Da un 30% di milanesi a fine anni 80 alloggiati in case popolari o di edilizia pubblica si passa ad oggi ad una percentuale di poco superiore all´otto per cento.

Dunque il dato essenziale è che mancano le case, non solo quelle popolari, mancano le aree per costruirle, mancano i denari. A fronte di 30.000 alloggi necessari se ne producono qualche migliaio all´anno, se va bene. Il numero delle famiglie con redditi insufficienti per il libero mercato aumenta. Agli immigrati regolari bisogna dare una casa. Sinceramente non vorrei più sentir parlare, anche per questo problema, della fantastica strategia "collaborazione pubblico-privato". Di questa invenzione abbiamo esempi clamorosi: la clinica Santa Rita, Ville Turro, le autostrade in concessione. Tanto per cominciare l´elenco. Preferisco i "rozzi" strumenti degli anni 70 e 80 dove il rapporto tra pubblico e privato era regolato dalla legge sugli appalti. Non indenne da difetti ma dove era più facile capire chi rubava o più semplicemente "profittava". E provvedere.

La deliberazione del Comune di consentire nello scorcio del mandato ben 11 milioni di nuovi metri cubi residenziali e molti altri milioni di mc di dubbi edifici per servizi – tutto quanto residua del gigantesco PRG Quaroni approvato nel 1976, in epoca culturale e ambientale diversissima dalla nostra – non può che allarmare chi tiene alle sorti della città. Per l´incombente colata di cemento, destinata a aggravare ancor più ambiente e qualità di vita in una città cresciuta assai male negli ultimi anni, si pensi che: a) si tratta di edifici per ulteriori 110mila e passa abitanti rispetto agli attuali 320mila e di ultimare (ma il programma elettorale del Sindaco non andava in altra direzione?) una manovra edificatoria del PRG degli anni 1960 orientata a una mai inveratasi città di 650mila abitanti; b) il recentissimo PRG di Roma, città grande dieci volte Bari, ha previsto per i prossimi venti anni nuovi edifici residenziali per circa 70 milioni di metri cubi facendosi criticare per il devastante impatto ambientale già evidente in quell´agro unico al mondo per vestigia storico-culturali.

Pare si dica, a Bari, che volendo rifare il Piano Regolatore convenga ridar fiato all´economia sfruttando tutto il residuo potenziale edificatorio dell´ambiziosa Città-Regione pensata negli anni 1960 del grande sviluppo sociale e economico. Ma tutti sanno oggi, a Sud e a Nord del pianeta, che un durevole sviluppo sociale e economico si costruisce valorizzando e rispettando l´ambiente e si pregiudica con le colate di cemento tipiche di una crescita povera e di rapina.

Ieri su Repubblica Giovanni Ancona – ricordando Vittore Fiore e la tradizione di una coscienza critica rara a Bari – citava il freno qui posto tuttora dall´economia del cemento a una più avanzata economia industriale, dei servizi, e della conoscenza, e con esso l´aggravarsi della qualità della vita e dell´ambiente e delle vecchie e nuove povertà. La variante deliberata alle Norme Tecniche di Attuazione del vigente PRG – forse per inaugurare alla grande, facendo tabula rasa del paesaggio-ambiente di una metropoli non priva di ambizioni internazionali, la più saggia stagione urbanistica possibile con la revisione del vecchio piano? – consentirà dunque ulteriore cementificazione, questa volta nelle aree per servizi trent´anni fa riservate alla popolazione dei quartieri e della città, spazzando via da una Bari sfortunata ogni frammento di spazio e spirito pubblico. Essa avanza all´apparenza con la distratta testimonianza di una Regione Puglia che per altri versi dice di voler mirare a una nuova stagione di qualità e rigenerazione urbana e di lotta alla povertà.

Ci si deve chiedere se oltre al Comune di Bari anche RP abbia sottostimato i prevedibili impatti sulla società e l´ambiente di questa variante di piano: a) sostituzione di servizi privati di quartiere e urbani ai servizi pubblici originariamente previsti per rispettare una legge nazionale a parer di chi scrive non aggirabile almeno negli anni di esercizio consentito del potere pubblico (quali conseguenze sul costo della vita e la ‘città pubblica´?); b) frammentazione degli interventi privati – e dunque di nuovo peggiore qualità della città – per eliminazione sia di ogni misura minima delle lottizzazioni che del piano dei servizi; c) mano libera senza limiti di volume a "spazi liberi e porticati a piano terra" che rischiano di riaccendere furbesche pratiche di chiusure posticce e condoni; d) riconoscimento del diritto edificatorio sulle strisce larghe 300 metri accanto alle "lame" e 150 metri accanto al mare – dichiarate fin dal 1985 aree non edificabili minime a rispetto di quegli ecosistemi – con trasferimento dei futuri edifici nei pochi campi attigui residui in ossequio a una "urbanistica perequativa" sconosciuta in Europa. Se la ripresa del vecchio modello di crescita quantitativa e l´abbandono della più aggiornata via della qualità s´orientano come pare a incentivare attività e consensi del variegato milieu sociale da sempre in Bari orbitante sulle costruzioni, non sarebbe meglio ricostruire le tante cattive aree centrali e periferiche ostili alla vita – di cui la città è purtroppo ormai fatta? Si può solo sperare che le Comunità della Metropoli Terra di Bari, oggi impegnate in un difficile piano strategico per il loro sviluppo futuro agiscano per scongiurare l´inquietante prospettiva.

Due recentissimi articoli di tema apparentemente distante, esemplificano con grande chiarezza i due lati della stessa medaglia, intendendo come tale la situazione dell’archeologia in Italia, ma non solo.

Sulle pagine culturali del Corriere della Sera di domenica 8 giugno, un articolo dal titolo "Italia ad Atene: cent'anni in solitudine" si concludeva con un appello al buon cuore degli italiani di nobile sentire perchè intervengano a risollevare le sorti della centenaria Scuola Archeologica Italiana d'Atene, minacciata, già da qualche anno, dalla scure delle ultime finanziarie alla perenne ricerca di sacche di risorse da recuperare ed etichettata come ente inutile. In realtà la “gloriosa e benemerita” (binomio laudativo di prassi in casi consimili) istituzione rappresenterebbe un risparmio di scarsa entità, vivacchiando con un budget annuale di poche centinaia di migliaia di euro che consente a malapena di elargire la dozzina di borse di studio che giustificano la denominazione e permettono ad una ristretta lobby di professori universitari di gestire corsi di specializzazione non proprio classificabili come eventi culturali. Quanto agli scavi, un tempo attività di grande risonanza e ottimi risultati scientifici, probabilmente per le ristrettezze economiche, anche in questo settore sono lustri che la Scuola d'Atene non può annoverare risultati significativi: in tutto l'accorato articolo del Corriere che ne perora le sorti, uno dei pochi elementi a favore del suo mantenimento, oltre all'esiguità dell'onere finanziario e alla vetustà dell'istituzione (che si voglia vincolarla come reperto archeologico?), risiede nell'affermazione che esistono numerosissime scuole archeologiche straniere ad Atene e quindi sarebbe un'onta nazionale che sparisse quella italiana: una sorta di versione culturale della vicenda Alitalia, insomma. Effettivamente, come per le compagnie aree di bandiera, non tutte le Scuole Archeologiche straniere attraversano un’uguale fase di decadenza, anche se tutte hanno dovuto affrontare un radicale ripensamento del loro ruolo. Nate come coté culturale di politiche neppure troppo velatamente originate dall’ideologia colonialista, alcune hanno saputo diventare, nel tempo, centri di ricerca di primo livello e forniscono, ad Atene come a Roma, servizi culturali all’intera comunità internazionale degli studiosi. Altrettanto non è avvenuto per la Scuola Italiana d'Atene che, da alcuni decenni a questa parte, invece di affrontare questo passaggio cruciale, sta attraversando una lunghissima fase di stagnazione che l'ha resa molto simile ad un periodico buen retiro sia pure con motivazioni culturali, ormai totalmente svincolato dalle primigenie finalità di formazione per il personale dell'amministrazione statale e scosso periodicamente da querelles di basso potere accademico. Certo questa non è la sola italica istituzione culturale che vivacchia in dorato isolamento nelle lagune protette dell'erudizione e della ricerca per “specialisti”, tenendosi ben al riparo dalle maree della cultura contemporanea, ma come le altre “gloriose e benemerite” è un sintomo evidente di una incapacità dell'archeologia nostrana ad affacciarsi al mare aperto della ricerca e ad affrontare i molti nodi che ancora la confinano fra le discipline di erudizione. Per festeggiare il prossimo centenario non come una commemorazione un po’ funerea di passati splendori, occorrerebbe all’attuale Direttore che ha ereditato una così pesante situazione, prima che un aiuto economico, uno sforzo di ripensamento intellettuale, urgente e radicale per superare questa lontananza evidente e pericolosa dalla contemporaneità di una disciplina, quella archeologica, che in Italia appare ancora incapace, nel suo complesso, di proporsi come una scienza in grado di confrontarsi e interagire con la post-modernità e i suoi problemi.

L'altro, speculare sintomo di questa involuzione è ben esemplificato dalla rincorsa sempre più convinta agli aspetti più effimeri di tale modernità e quindi alla necessità di una visibilità mediatica: frenesia che si manifesta nella ipertrofica realizzazione di eventi in serie (dalle conferenze di stile holliwoodiano agli scoop giornalistici) in cui, nella grande maggioranza dei casi, l'antico viene utilizzato soprattutto per il suo potere di richiamo fascinoso ed esotico. L’ultimo, in questa direzione, ci viene preannunciato dall’odierna esternazione su la Repubblica dello studioso che da anatomo patologo dei primati, ha recentemente (post 13 aprile, per intenderci) ribadito l’assoluta neutralità ideologica della disciplina (“l’archeologia non è né di destra né di sinistra”). Andrea Carandini dunque, dopo aver rivendicato alle università italiane il possesso di un patrimonio documentale misconosciuto (e c’è da domandarsi come mai organi deputati alla diffusione della conoscenza abbiano sinora svolto così male uno dei loro compiti statutari), sprona l’attuale amministrazione capitolina ad abbandonare ogni timidezza (sic) e a lanciarsi nell’impresa del nuovo costituendo Museo della città di Roma, attraverso il quale la capitale d’Italia, finalmente allineata alle altre metropoli europee, riuscirebbe a raccontare la storia del proprio passato. Dall’articolo pare di capire che si tratti in primo luogo di un museo di storia dell’architettura (antica?) abbinato a un meno magniloquente museo della “vita quotidiana”. Un altro museo dunque, dai caratteri ancora non precisati, ma per il quale, in compenso esiste già una sede bella e pronta in via de’ Cerchi e come ognun può capire non mancherebbe certo, a Roma, il materiale archeologico per riempire le sale: dove sta il problema? Il problema sta esattamente nello strumento adottato, il museo, che alle nostre latitudini attraversa da anni una crisi di funzione testimoniata da una perdurante disaffezione di pubblico. Si vada a leggere il professor Carandini le cifre degli accessi ai tre musei citati nel suo intervento (Cripta di Balbo, Mercati di Traiano e della Civiltà romana), scoprirà che si tratta di luoghi disertati non solo dai grandi flussi turistici, ma incapaci di attirare se non poche migliaia di visitatori l’anno. In Italia, come ogni operatore culturale minimamente informato sa bene, escludendo pochissime eccellenze (in campo archeologico al di fuori di Pompei e il Colosseo, che non sono musei, solo L'Egizio di Torino e i Capitolini reggono dignitosamente), i visitatori non frequentano i musei e questi ultimi, specialmente in alcune realizzazioni recenti, sono diventati spesso cattedrali nel deserto destituiti di ogni impatto culturale, ridotti alla mera funzione conservativa e con costi di gestione proibitivi per la collettività. E’ assolutamente vero che esiste una domanda crescente di informazione da parte di flussi di visitatori sempre maggiori e che Roma e il suo passato meritano uno sforzo culturale in campo comunicativo. Ma che sia davvero innovativo: non solo e non tanto dal punto di vista tecnologico ( e certo in questo settore gli esempi stranieri non mancano), ma da quello intellettuale. Forse nel “basta Roma a raccontare sé stessa” di Salvatore Settis (pur se accusato di disinformazione, sic!) era contenuta una più profonda verità: Roma è essa stessa un museo a cielo aperto e come tale va “comunicata”, non allestendo l’ennesimo museo, ma magari collegando fra loro quelli che già ci sono (alcuni di recentissima realizzazione) e facendoli dialogare con i monumenti della città, con quel “tessuto continuo e cangiante dell’abitato” che Carandini cita, ma che, in quanto tale, non può certo essere confinato e spiegato per exempla nelle sale di un museo. Al contrario va fatto leggere nella fisicità originaria di un contesto unico al mondo.

Il museo, insomma, può essere uno strumento di una strategia culturale, uno dei tanti, non necessariamente l’unico o il più efficace…certo rimane uno dei più mediaticamente spendibili.

E così fra questi due estremi in fondo contigui e in taluni casi sovrapposti dell'isolamento accademico e iperspecialistico da un lato e della rincorsa all'evento in sè dall'altro, mi sembra che questa nostra disciplina si riveli spesso incapace di misurarsi con l'urgenza e la violenza dell'oggi che scortica e brucia, le scorie innanzi tutto, ma non solo, e che però è l'unica via possibile per superare il guado e tentare di traghettare il passato nel presente e nel domani. In questa situazione di impotenza culturale siamo in buona compagnia: in fondo, pur con qualche forzatura, questa condizione è assimilabile a quella che contraddistingue l'attuale vicenda della sinistra in Italia, fra radicalità attardata su modelli arcaici e con strumenti interpretativi tutti da reinventare e un riformismo disperso nella rincorsa di una modernità di facciata anche a costo di trasmutazioni genetiche forse irreparabili e in grado di cancellare identità storiche in cambio di maschere indecifrabili e labili.

Anche in questo caso vaghiamo dunque, alla ricerca di risposte, in una notte caliginosa: eppure, come ci ha insegnato Hegel, “la nottola di Minerva inizia il suo volo sul far del crepuscolo”.

Milano è da alcuni anni I'epicentro del virus dell'eccellenza. Questo virus megalomane si è propagato a macchia d'olio nel discorso pubblico e mediatico, intossicando in modo trasversale con la sua retorica ogni ambito della comunicazione politica, amministrativa, universitaria, giornalistica, sanitaria, architettonica, perfino gastronomica. Ciò che rende difficile da sopportare l'epidemia retorica dell'eccellenza è il fatto che essa cresce in rapporto di diretta proporzionalità allo scadimento della vita di ogni giorno nella regione metropolitana milanese, all'indecenza che caratterizza la progettualità nella dimensione quotidiana e ordinaria di molta parte delle istituzioni e della cittadinanza. Si pensa di curare la perdita della capacità di prendersi cura della "città di tutti i giorni", della capacità di investire energie nel senso civico quotidiano -che è il segno di ogni urbanità civile -a colpi di eccellenza, progetti straordinari, grandi opere, allo stesso modo in cui la perdita profonda della capacità di fare festa, oggi produce la serie infinita di festival, kermesse, eventi, intrattenimenti. È chiaro quindi che in questo quadro l'Expo 2015 "vinta" da Milano arriva come il cado sui maccheroni: Grande Opera e Grande Intrattenimento, insieme, in un solo colpo.

Ma prima di venire all'Expo, è necessario capire meglio la scena sulla quale essa ora si affaccia come un deus ex machina: un angolo visuale privilegiato per farlo, per descrivere la mancanza di decenza nella costruzione della città ordinaria, e per osservare gli effetti dell'avvento del discorso retorico dell'eccellenza che avrà poi il suo apogeo nell'Expo, può essere quello delle trasformazioni urbanistiche e architettoniche milanesi degli ultimi anni.

Di certo emblematica è la prima generazione di trasformazioni delle aree industriali dismesse, avvenuta a cavallo tra anni novanta e duemila: un'occasione irripetibile prodotta da un cambio di paradigma produttivo di rilevanza epocale, che si è risolta nella costruzione di una serie di quartieri monofunzionali - residenza mono-ceto (medio-alto) più centro commerciale - all'insegna del più tradizionale consociativismo - grande proprietà, comune, cooperative bianche e rosse, grande distribuzione commerciale - e nella più totale incoscienza delle questioni urbane nodali del nostro tempo - energia, viabilità, integrazione sociale, ambiente. Questa generazione di interventi (detta dei Pru, dal nome dello strumento urbanistico utilizzato: Programmi di recupero urbano) è avvenuta in sostanziale continuità con le modalità proprie delle ultime grandi operazioni immobiliari della stagione pre-tangentopoli, quali i quartieri del famigerato Piano Casa di Ligresti (poi messo a riposo per un brevissimo periodo di quarantena, e come sappiamo oggi ampiamente terminato) e come essi, tra l'altro, contrassegnata da un'architettura anche formalmente indecorosa, progettata da professionisti impresentabili, per quanto spesso in posizione di forza all'interno delle università. La realizzazione dei Pru è stata il principale fiore all'occhiello delle politiche urbanistiche delle giunte Albertini, insieme al Piano dei parcheggi, che consisteva nella realizzazione di oltre un centinaio di parcheggi sotterranei (molti ancora oggi in corso di realizzazione), su suolo pubblico in concessione a privati, in buona parte in zone centrali della città: un esplicito incentivo all'uso abituale dell'automobile negli spostamenti urbani.

Questo quadro molto sommario -al quale bisognerebbe aggiungere almeno l'ondata di sopralzi generalizzata promossa da una legge formigoniana che, al di là di importanti effetti negativi sul piano urbanistico, ha soprattutto fornito un ritratto impietoso dell'analfabetismo architettonico dei tecnici e committenti milanesi -ha avuto un progressivo punto di svolta cinque o sei anni fa, quando ha cominciato a diffondersi la parola d'ordine dell'eccellenza. Questa trasformazione è ben rappresentata proprio dalle strategie di Ligresti, che fino ai primi anni novanta affidava il progetto di centinaia di migliaia di metri cubi ai geometri del suo ufficio tecnico, e che oggi, a capo della cordata che ha comprato all'asta l'area della ex Fiera Campionaria, ingaggia le più grandi star dell'architettura commerciale mondiale (tra l'altro, su consiglio dell'ex operaista tafuriano Francesco Dal Co, oggi potente manovratore della critica e del management architettonico). Su questa traccia fortemente mediatizzata e spettacolare, e sul modello delle dinamiche del cosiddetto Real Estate affermate in tutto il mondo, da Londra a shanghai, si allineano le successive trasformazioni delle grandi aree dismesse residue nel milanese. O meglio, sulla base del più casereccio precedente modello "indecente" dell'architettura lottizzata e impresentabile, viene innestato il nuovo modello "eccellente" dell'architettura-spettacolo. La seconda serve anche a vendere la prima, la prima tenta di "aggiornarsi" imitando la seconda: è ciò che succede per esempio nell'area Garibaldi-Repubblica, o ancor più emblematicamente al supermediatizzato progetto di Santa Giulia, dove la parte scadente già quasi terminata e realizzata dalle cooperative (bianche e rosse) rischia di rimanere senza quella eccellente disegnata da Norman Foster, che forse non si farà più a causa dei guai finanziari di Zunino e del contemporaneo afflosciarsi della bolla del mercato immobiliare.

Va visto in questa chiave di urbanistica mediatica, anche se qui le superstar dell'architettura non c'entrano, pure l'Eco-Pass, la congestion charge del sindaco Moratti, un provvedimento teso chiaramente a comunicare un messaggio anti-inquinamento senza intaccare i diritti degli automobilisti, più che a ridurre drasticamente il numero di auto circolanti in città. Un provvedimento oggettivamente ridicolo, visto che la limitazione riguarda solo la cerchia dei Bastioni e solo le auto "vecchie": in tutta la parte di città costruita dal Seicento a oggi (e nel frattempo Milano è diventata una città-regione) le auto possono circolare liberamente.

Così la Milano del nostro tempo è una città che, con più enfasi di altre in Italia, punta all'eccellenza dello straordinario e nell'ordinario razzola nell'indecenza. È in primo luogo in rapporto a questo scenario che si può comprendere quanto poco ci sia da essere contenti della vittoria di Milano nella gara per l'assegnazione dell'Expo 2015 e quanto sia costernante l'u- nanimità pressoche assoluta dei consensi che l'hanno accolta. Assegnare l'Expo a Milano è un po' come regalare a un matto megalomane un vestito da Napoleone.

La vicenda dell'Expo milanese dimostra che Guy Debord, descrivendo quarant'anni fa la Società dello Spettacolo, se aveva sbagliato, aveva sbagliato per difetto. L'Expo conferma che la politica non può governare se non mediante lo spettacolo, l'evento. Un consigliere comunale di Forza Italia, membro del comitato organizzatore, nel corso di un dibattito radiofonico alla vigilia dell'assegnazione dell'Expo mi dice innocentemente che capisce tutte le mie perplessità, ma che con gli strumenti e le risorse ordinarie non si sarebbero potuti purtroppo soddisfare i bisogni fondamentali della città, le infrastrutture e i servizi di cui Milano assolutamente necessita, e che l'Expo servirà proprio a quello. Che diamine di bisogni abbiamo, a quali standard ci rifacciamo per misurarli, quali modelli di città abbiamo in mente, se le risorse di uno degli otto paesi più sviluppati del mondo non bastano a soddisfarli? Ed è a partire da questo sovradimensionamento dei propri bisogni che questa città si propone di affrontare, come recitano i depliants pubblicitari dell'Expo, "i grandi problemi dello sviluppo sostenibile del pianeta"? A rendere ancora più grottesco questo tema c'è poi il fatto che - se sono riuscito a capire qualcosa nella ridda di cifre spesso incoerenti tra loro diffusa dai media - dei 4,1 miliardi di budget previsti per la costruzione dell'Expo, solo il20 per cento viene da fonte privata, ovvero 1'80 per cento saranno fondi pubblici, stanziati da Comune, Provincia, Regione e soprattutto Stato. Ciò significa che, posto che tali necessità siano davvero inderogabili, le risorse per rispondervi che sembrerebbero reperibili nella quasi totalità anche senza l'Expo, senza la scusa catartica del Grande Spettacolo in realtà non lo sarebbero affatto.

E se ufficialmente a sostenere la "necessità" dell'Expo vengono portate ragioni “scientifiche", di ferreo realismo economico, in realtà una dimensione magica, salvifica, taumaturgica, ai limiti della superstizione, viene attribuita a questo evento da moltissimi sostenitori, compreso il sociologo Aldo Bonomi, che nel corso dello stesso dibattito sostiene che "la Sciura Maria che torna dal mercato con le borse della spesa, se l'Expo non venisse assegnata a Milano, avrebbe una conferma del declino della città e del paese, e questo sarebbe tragico". L'Expo come talismano contro il declino!

Tutta la vicenda dell'Expo milanese è una galleria di situazioni grottesche. Nell'atmosfera calcistico-patriottica prodotta ad arte dai media dopo la vittoria, si sostiene che a trionfare è stata la serietà e completezza del dossier di candidatura presentato da Milano, sostenuta dalla testimonianza di Al Gore che assicura che "Milano è una città amica dell'ambiente" (pazienza se i rapporti dell'Organizzazione mondiale della sanità indicano l'area metropolitana milanese come una delle zone più inquinate di Europa), o che il successo è frutto del lavoro di squadra bipartisan, oppure al contrario si rivendica il merito esclusivo della vittoria, come fa Berlusconi la sera stessa dell'assegnazione. Ma si sa perfettamente che l'appoggio dei diversi paesi membri del Bureau (o di quelli che non lo erano, ma che sono stati convinti a entrarvi: negli ultimi giorni prima della scadenza il numero è improvvisamente aumentato del 50 per cento) è stato comprato sguinzagliando negli ultimi tre mesi assessori di Comune, Provincia e Regione in giro per il mondo: voti comprati in cambio di "aiuti allo sviluppo" dei generi più strampalati -una centrale del latte alla Nigeria, un ct italiano alla nazionale di calcio del Vietnam - con una caparra anticipata di complessivi dieci milioni di euro e un conguaglio a saldo, a votazione positiva avvenuta, di altri cento milioni. Ma neppure in questa compravendita quasi nessuno trova qualcosa di un po' schifoso, né a destra né a sinistra: è capacità di costruire partnership internazionali, arte di tessere reti geopolitiche.

Grottesco, se non osceno, a me appare il tema stesso scelto per l'intera kermesse – tema che invece entusiasma anche i pochi scettici illustri dell'Expo: Renzo Piano e Adriano Celentano - e fa abbastanza impressione vedere tra i membri del comitato scientifico, tra gli altri, i nomi di Carlo Petrini e Amartya Sen: dietro allo slogan generico "Nutrire il pianeta / Energia per la vita" viene tracciata una linea che congiunge il tema dell'eccellenza gastronomica, il famoso italian food, a quello della fame del mondo. Il tema di questo grande spettacolo da 4 miliardi di euro, ma dall'indotto complessivo stimato in oltre 40 miliardi, è in sostanza il mangiare, in senso molto lato, fino a comprendere il suo opposto: il non-mangiare. Sievince dai depliants promozionali che illustrano il programma che il problema di chi comprensibilmente si ostina a far riferimento al secondo versante, cioè a non mangiare, o a mangiare molto poco, è un problema medico, tecnico e tecnologico, dietetico, di educazione alimentare, di innovazione, e giammai il prodotto di un preciso modello di sviluppo politico-economico fondato sulla diseguaglianza, sull'iperconsumo di alcuni e sulla miseria e lo sfruttamento di molti. La medicalizzazione della fame nel mondo, la sua rubricazione nella categoria delle disfunzioni della filiera produttore-consumatore, è un messaggio così rivoltante che sinceramente stupisce che neppure nelle parti più decenti del fronte pro-Expo nessuno abbia avuto niente da dire.

Tra i molti precedenti di grandi opere o grandi eventi milanesi che si potrebbero ricordare, a partire dai disastri economico-urbanistici dei campionati mondiali di Italia ‘90, è bene evidenziarne almeno due tra i più recenti. Del potenziamento dell'autostrada Milan-Torino e della contestuale realizzazione della linea ferroviaria ad alta velocità, ancora in corso, i giornali si sono occupati a lungo concentrandosi sui costi e sui tempi astronomicamente lievitati e sulle massicce infiltrazioni mafiose nei loro appalti. Ma quest'opera è anche un esempio lampante di che cosa significa oggi da un punto di vista fisico, ambientale, paesaggistico la corsa allo sviluppo, alla crescita, all'eccellenza: un tratto di territorio della lunghezza di un centinaio di chilometri è stato trasformato d'un colpo da paesaggio semirurale a scenario periferico lineare, una concatenazione ininterrotta di viadotti ferroviari sopraelevati e di bretelle, svincoli, sotto passi autostradali necessari a superare le continue intersezioni fra i due sistemi di trasporto (perché, come è ormai noto, ogni aumento della velocità di comunicazione in una direzione, costituisce un ostacolo e un rallentamento per gli spostamenti nella direzione trasversale alla prima, e rende necessarie ulteriori infrastrutture per il loro che a loro volta divengono ostacoli nell'altra direzione, eccetera...). È lo scheletro infrastrutturato di un futuro suburbio lineare sovraregionale, la megalopoli Torino-Trieste che manda in brodo di giuggiole Fuksas, la città infinita che ambiguamente descrive Bonomi.

Proprio Fuksas immagina la sua Fiera di Rho-Pero - che è il secondo esempio a cui volevo accennare e che si salderà con il villaggio Expo che le sorgerà giusto accanto – non come una semplice fiera, ma come un brano di questa futura megalopoli. E su questa dismisura essa è sintonizzata: la sua dimensione è tale che, da quando esiste, la Fondazione Fiera - feudo di quella Compagnia delle Opere senza la cui presenza si può capire ben poco delle dinamiche non solo urbanistiche milanesi - ha il problema di cosa farne. La struttura funziona a pieno regime solo nei cinque giorni del Salone del Mobile, quando ogni anno per l'affluenza di visitatori l'intero sistema della mobilità milanese va in tilt: ingorghi colossali, code di centinaia di metri fuori dalla metrò e alle fermate dei taxi. Per il resto dell'anno molta parte della megastruttura è inutilizzata e per compensare gli insostenibili costi di gestione l'ente progetta di vendere l'ultimo pezzo della vecchia Fiera Campionaria che aveva mantenuto in città, trasformandolo in centro commerciale e cinema multisala. Il modello per cui si finanziano con risorse pubbliche grandi strutture d'eccellenza tese a competere sul famigerato scenario globale, e poi si rimane con il problema di che cosa farsene, è in grande espansione: dal PalaFuksas di Torino al PalaGregotti di Milano, cioè il Teatro degli Arcimboldi costruito da Pirelli alla Bicocca, in utilizzato per gran parte del tempo.

Il tema di un'architettura ipertrofica e drogata che ha invertito il suo rapporto di servizio con l'uso e la necessità, è uno dei grandi temi tragicomici dell'architettura contemporanea. Che tocca anche l'Expo: su un'area di oltre un milione di metri quadrati verranno costruiti edifici che in minima parte - sembra solo i padiglioni dei paesi stranieri - verranno smontati dopo il 2015. Il resto dovrà essere riconvertito dall'eccellenza alla vita quotidiana. Su questo tema il progetto dell'Expo è di una vaghezza sconfortante: si parla di residenze universitarie e atelier per creativi. Un milione di metri quadri di atelier per creativi? Ma è lo stesso progetto architettonico e urbanistico dell'Expo a essere assolutamente aleatorio, tanto che all'indomani dell'assegnazione il sindaco Moratti, sull'onda di una campagna populista contro i grattacieli storti guidata da Berlusconi e Celentano (progetti orrendi, attaccati per la ragione sbagliata) ha cancellato in pochi minuti la torre di duecento metri che ne era il perno. Un progetto fantasma, disegnato da ghost-designers per aggirare la normativa europea che impone di affidare progetti pubblici solo mediante gare o concorsi. Una aleatorietà che non è solo un limite specifico di questo progetto ma un fattore strutturale di tutta l'architettura contemporanea della mega- macchina: le operazioni in cui essa viene messa al lavoro hanno ingredienti e procedure complesse, toccano interessi così poderosi e capitali tanto fluttuanti che la sua flessibilità deve essere totale, ma allo stesso tempo essa deve essere immediatamente spendibile sul piano dell'immagine e dello spettacolo. Avere cioè una forma memorabile ancor prima che qualcuno sappia a cosa dovrà servire. L'architettura dell'eccellenza è quindi pura aleatorietà compensata da iperrealismo. È un architettura che ambisce a quella smaterializzazione, a quella disincarnazione che Illich e Virilio hanno individuato come tratto cruciale della disumanizzazione con- temporanea, un'architettura-play station che cancella ogni terrestrità: senza gravità, senza materia, senza luogo. Visti di sfuggita nella videoanimazione promozionale dell'Expo, mentre la telecamera virtuale vola come in un videogioco, l'edificio che si protende a sbalzo per cinquanta metri, senza appoggi, o i padiglioni con gli spigoli smussati come elettrodomestici o Suv, raccontano la favola agghiacciante che piace a tutti di una landa tra Milano e Rho, tra l'autostrada per Torino e il carcere di Bollate, trasformata in scenario di second Life.

Il ministro Sandro Bondi ha reso alle Camere e alla stampa dichiarazioni encomiabili sul futuro dei beni culturali e del paesaggio. Si è impegnato a un rigoroso rispetto dell`articolo 9 della Costituzione («La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione») sottolineando, come già hanno fatto dal Quirinale Ciampi e Napolitano, lo stretto nesso fra i due commi e il ruolo dello Stato. Ha considerato il Codice dei Beni culturali e del paesaggio, dopo i tre "passaggi" coi suoi predecessori Urbani, Buttiglione e Rutelli, il frutto positivo di un lavoro genuinamente bipartisan, e si è impegnato ad attuarlo attivando un tavolo di coordinamento ministero-Regioni.

Ha insistito sulla necessità di potenziare le Soprintendenze mediante nuove assunzioni, di ripristinare i paesaggi degradati, di migliorare la capacità di spesa del ministero, di rilanciare la cultura italiana del restauro.

Con questi lodevoli propositi, della cui sincerità non c`è motivo di dubitare, contrasta tuttavia in modo stridente la politica economica del Governo. Il decreto sull`esenzione dell`Ici per la prima casa (Dl 93/2008) azzera i 45 milioni che la Finanziaria aveva destinato al ripristino dei paesaggi degradati; inoltre, accantonamenti di bilancio dei Beni culturali per oltre 15 milioni dal 2008 al 2010 sono utilizzati a copertura dei mancati introti Ici, e 90 milioni nel triennio confluiscono nel «Fondo per interventi strutturali di politica economica». A questi tagli già cospicui (in totale 150 milioni) si aggiungono le misure ancor più drastiche del recentissimo Dl 112, che sottrae ai Beni culturali 228 milioni nel 2009, 240 milioni nel toto e 423 milioni nel 2011: un taglio complessivo di quasi un miliardo che, aggiungendosi ai 150 milioni già menzionati, infliggerà un colpo mortale a un`amministrazione già in grande sofferenza per mancanza di risorse (invano Prodi aveva promesso di portare il bilancio dei Beni culturali dal misero 0,28% all`1% del bilancio dello Stato). Di più, come ha scritto Luigi Lazzi Gazzini sul Sole 24 Ore del 26 giugno, il Dl 112 capovolge d`autorità, «stiracchiando la Costituzione», la gerarchia delle fonti normative, demandando al Governo (anzi al ministro dell`Economia) il potere di modificare per decreto gli stanziamenti approvati dalle Camere per legge.

I tagli ai Beni culturali non vengono operati su attività marginali né su progetti opzionali: la maggior parte della riduzione di spesa prevista per il triennio 2009-11 grava infatti sulla voce «Tutela e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici», cuore e "ragione sociale" del ministero. I tagli alla tutela sono 198 milioni su 228 nel 2009, 207 milioni su 240 nel 2010, 366 milioni su 423 nel 2011. Se prendiamo come anno di riferiménto il 2011, in cui al taglio più massiccio si sommerà

l`effetto incrementale del decurtamento 2008-2010, si può dire che resteranno sul bilancio del ministero solo gli stipendi per il personale residuo, del resto in via di esaurimento visto che l`età media dei funzionari tecnico-scíentifci ha ormai varcato la soglia di guardia dei 55 anni, e che le pochissime nuove assunzioni in vista non bastano nemmeno a coprire il 10% del turn over.

In queste condizioni, non solo non sarà possibile ripristinare i paesaggi degradati, ma neppure proteggere quel poco che ancora c`è di intatto. Non solo non si potrà promuovere il restauro, ma si stenterà a lasciare aperti musei e monumenti. Forse migliorerà la capacità di spesa: ma solo perché resterà ben poco da spendere.

Il disegno politico sotteso a questi provvedimenti del Governo appare diametralmente opposto a quello che l`onorevole Bondi ha delineato alla Camera. Tagli di tale entità configurano la messa in mora del ministero fondato da Spadolíni, che ereditò la gloriosa tradizione italiana di tutela e l`ha fatta sopravvivere con dignità fino ad oggi.

Si può avanzare l`ipotesi che alla messa in mora debba seguire, nell`intenzione del Governo odi una sua parte, l`abolizione del ministero (o, che è lo stesso, la sua riduzione allo stato larvale) e forse la devoluzione della tutela alle Regioni, secondo la proposta avanzata nel 2007 dalla Lombardia e dal Veneto. Un progetto come questo presupporrebbe un`interpretazione assai forzata del Titolo V della Costituzione (articolo 116), infelicemente riformato nel 2ooi con esigua maggioranza. Se questo è il progetto, il Codice dei Beni culturali, che prevede una forte interazione fra Soprintendenze e Regioni, è già lettera morta, e il "tavolo di coordinamento" Stato Regioni voluto da Bondi segnerebbe la resa incondizionata di un ministero in via di liquidazione.

L`articolo 9 della Costituzione, che assegna alla competenza esclusiva dello Stato la tutela dei beni culturali e del paesaggio (come la Corte Costituzionale ha ribadito da ultimo nella sentenza 367/2007), verrebbe in tal modo svuotato, anzi capovolto. Ma se questo è il disegno, perché non dirlo subito?

E se il disegno non è questo, chi ci spiegherà come potrà mai funzionare la tutela in Italia con le casse vuote e il personale in costante decremento?


Pompei il crepuscolo delle rovine

Patrizia Capua – la repubblica, ed. Napoli, 6 luglio 2008 (m.p.g.)

Primo giorno dell'emergenza. Nella Città degli scavi posta sotto tutela dal governo, la sola novità ieri è stata una disinfestazione negli uffici deserti della direzione, programmata da tempo. Mercoledì prossimo il ministro Bondi firmerà l'ordinanza con la nomina del commissario. Esce di scena, così pare, il prefetto Mario Mori, chiamato come capo di gabinetto del sindaco di Roma, Alemanno. Un commissario, approva il critico d'arte Vittorio Sgarbi, neo-sindaco della cittadina di Salemi: «Bisogna salvare il sito archeologico. L'ho detto recentemente al ministro. Servono interventi necessari e urgenti per impedire che la mancanza di tutela e di controllo distrugga questi luoghi».

«Sarebbero 95 euro, ma vi faccio lo sconto: cinquanta, che ne dite, eh?». Guide a caccia di turisti a Porta Marina Inferiore. Il "patentino" rilasciato dalla Regione Campania bene in vista sul petto. Se li accaparranno, e li portano in giro, a volte, come fossero un bagaglio personale. Turisti in balìa delle guide. In questo posto unico al mondo, straordinario e potente, non c'è un tariffario esposto all'ingresso, un presidio che garantisca il visitatore, controlli accurati.

Come districarsi? Il giro della città romana, con l'accompagnatore a pagamento, dura in media due ore, meno e non più. Pompei è una città grandissima, pochi ne hanno consapevolezza prima di addentrarsi. «Il turista arriva qui disarmato, pieno di fiducia, esposto a tante variabili e qualche sorpresa», dice una guida "fuori del coro", «per alcuni Pompei è una miniera di affari. Un esempio frequente: la guida entra con due persone, e poi fa "trombetta", come si dice in gergo, strada facendo raccatta visitatori disorientati. A dieci euro ciascuno, in una giornata il guadagno di 500, 600 euro è assicurato». Abusi. Capita che a metà del giro, mollino il gruppo dicendo: l'uscita è quella. I turisti per lo più si accontentano, si lasciano portare fiduciosi. Ogni tanto qualcuno si ribella, denuncia e finisce in lite, come testimoniano le denunce al posto di polizia. «Ci sono organizzazioni illegali», tuona l'assessore regionale Velardi, «che agiscono in modo paracamorristico».

Inefficienze e limiti. La Casa di Trittolemo è chiusa per restauro, così la casa di Romolo e Remo. Sul cartello è indicata la data di chiusura dei lavori: l'altroieri. Area chiusa per "caduta pietre" nel vicolo degli Augustali, puntelli arrugginiti dal terremoto del 1980. In fondo a via della Fortuna, lastricata come tutte di pietre di basalto, c'è la Casa di Marco Lucrezio Frontone, cantiere chiuso due mesi fa e non ancora aperta al pubblico, come le case di Obelio Firmo, restaurata con i Por, di Cecilio Giocondo, di Trebio Valente, dei Quattro stili. La folla si assiepa ai cancelli dei Granai, museo all'aperto, con due telecamere puntate all'interno. Calchi originali, anfore, un'arca, le sagome dei fuggiaschi, una statua funeraria trovata nella necropoli di Ercolano. In lontananza l'isola di Capri, la brezza di mare soffia tra i vicoli e fa scordare l'arsura. «Ci vorrebbero migliaia di interventi» commenta Ciro Mariano, storico custode, alle Terme del Foro, dove i turisti vengono accolti dai cani randagi che spadroneggiano tra le rovine. Nel Foro la folgorazione, l'incontro con il Vesuvio ritagliato sullo sfondo. Mette in pace gli animi. A dispetto di lucchetti e transenne.

«Il commissario è quello che mette in moto tutto. Precondizione per il ripristino della legalità, sicurezza, agibilità», dice l'assessore Velardi, «prima di passare a un progetto di cambiamento». Piano che, spiega, riguarda Pompei e tutta Stabia, con un accordo di programma magari da fare insieme con la Tess. Un vero programma di sviluppo dell'area: dentro gli Scavi e fuori di essi, per offrire accoglienza ai turisti. «Con un progressivo ingresso del privato e del mercato». Tra Scavi e Santuario, Pompei ha quattro milioni di visitatori l'anno.

Si occuperà di Pompei anche la senatrice del Pdl, Diana De Feo, componente della commissione Beni culturali, moglie di Emilio Fede. «Dalla Comunità europea arriveranno per la Campania 900 milioni di euro per gestire l'arte e la cultura. Il sovrintendente Giovanni Guzzo ha lasciato languire nella casse milioni destinati a Pompei. È ora di voltare pagina, anche politicamente».

Pompei sempre più in rovina: arriva il commissario

Stefano Miliani – l'Unità, 5 luglio 2008

L'unico bar chiuso, problemi alle fogne, case restaurate ma alcune non visitabili perché mancano i custodi oppure perché pochi sorveglianti, rappresentati da sindacati minori (una sigla pesa solo qui), possono bloccare molto, incuria e degrado costanti e di lunga data, un anno fa una colonna crollata e fu un avvertimento, non il vento. Per questo il sito archeologico di Pompei viene commissariato. Per un anno almeno. Su proposta del ministro dei beni culturali Sandro Bondi accolta in pieno ieri dal consiglio dei ministri. Questo mentre, denuncia la Uil, grazie al decreto legge 112 Brunetta-Tremonti il ministero vede dimezzare la dotazione finanziaria 2008 (a 279 milioni di euro) e nel triennio 2009-11 subirà «tagli vicini al miliardo». Un disastro.

Il provvedimento su Pompei incontra il plauso dell'assessore campano al turismo Velardi, Pd («Decisione coraggiosa, mi sono preso rimbrotti quando ho indicato la necessità di un cambio radicale nella gestione del sito»), e del sindaco Claudio D'Alessio, Margherita, il quale rimprovera alla soprintendenza un totale «rifiuto» alle sue proposte di collaborazione. Il commissario sarà nominato a giorni e dovrà risistemare la gestione amministrativa e l’ordine pubblico del sito. Un provvedimento senza precedenti per un luogo culturale, tanto più clamoroso perché riguarda il «museo a cielo aperto» statale più visitato del nostro paese con 2 milioni e mezzo di ingressi l'anno, benché nei primi sei mesi del 2008 siano scesi a 1 milione 243mila rispetto al milione 424mila del primo semestre 2007, causa la non proprio invitante pubblicità nel mondo del caso-rifiuti. Eppure la rete di abitazioni romane, di vie in pietra, di resti di templi e anfiteatro soffre anche per i tanti turisti: l’ingresso costa 11 euro, il giro di soldi intorno alla città distrutta dal Vesuvio nel 79 d.C., dove pullulano bancarelle e vendita abusiva di guide, fa gola anche alla criminalità organizzata.

«Ferme restando le competenze in materia di tutela del soprintendente Guzzo, avrà compiti in materia di ordine, sicurezza pubblica e controllo sull'attività amministrativa», recita una nota del ministero. Che così vuole «proteggere» Guzzo, archeologo tra i più competenti in circolazione, al quale Bondi rinnova piena fiducia. Il soprintendente si rallegra della decisione, da sempre denuncia problemi, e però viene «commissariato». Va spiegato che Pompei ha una struttura particolare: è una soprintendenza autonoma con 20 milioni d’incasso l’anno e ha, o dovrebbe avere perché così aveva stabilito a suo tempo Veltroni quando era ministro, un city manager. Un amministratore per gli aspetti amministrativi qui più complicati che altrove (si parlò anche di ingressi non sempre regolari). Quello nominato da Veltroni, Gherpelli, funzionò bene e risolse diversi problemini. Poi arrivarono, voluti da Urbani, il generale dell’aeronautica Lombardi e Crimaco, e funzionò meno bene: i rapporti con il soprintendente non sono stati idilliaci (così come non lo sono stati con l’archeologo De Simone, scelto da Rutelli nel 2007, durato un soffio e contestato da Guzzo) e senza un’intesa ai vertici non si procede. «Mi auguro che il commissario non sarà un mero ragioniere, serve una gestione ordinaria, nelle casse giacciono 70 milioni di euro inutilizzati», denuncia il presidente dell’Osservatorio campano sul patrimonio culturale Antonio Irlando.

"Stato d'emergenza per gli Scavi di Pompei"

Patrizia Capua – la repubblica, 5 luglio 2008

Un commissario straordinario per Pompei, basta con l'incuria e il degrado. Il governo annuncia lo stato di emergenza per la Città degli scavi, il sito archeologico più visitato al mondo. Per una situazione che «definire intollerabile è poco». Un provvedimento, spiega il ministro dei Beni culturali Sandro Bondi, che è «un atto d'amore nei confronti della cultura». Arriverà un commissario straordinario, precisa il ministero, che dovrà occuparsi dei conti, ma anche dell'ordine pubblico e della sicurezza.

Chi sarà non è ancora deciso, anche se nel dicastero di via del Collegio Romano circola il nome del prefetto Mario Mori. «Decideremo in settimana», taglia corto Bondi, e sarà una decisione, spiega, presa di concerto con il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta e il sottosegretario all'emergenza rifiuti Guido Bertolaso. Nessun commissariamento per il soprintendente archeologico Pietro Guzzo, assicura, che rimane responsabile della tutela e le cui competenze non vengono toccate. «Mi ha assicurato che collaborerà con il commissario». Da Pompei, Guzzo conferma: «Mi sento rafforzato e grato». Ma dietro le quinte sono in molti a leggere in questa decisione del governo un giudizio non proprio positivo dell'operato del soprintendente. Dai sindacati al sindaco di Pompei, Claudio D'Alessio, del Pd, che sottolinea «la pervicace volontà della soprintendenza nel rifiuto di qualsiasi collaborazione utile nella complessa azione della valorizzazione del patrimonio culturale presente nel territorio cittadino». Nella cerchia dei collaboratori più vicini a Guzzo, invece, la decisione suscita preoccupazione e sdegno: «È un'ingiustizia, qui lavoriamo per sopperire alle mancanze del ministero, che non integra il personale che va in pensione e della Regione Campania, che promette soldi per le aperture straordinarie e non mantiene». E azzardano: «C'è un disegno che va verso la privatizzazione. Pompei fa gola, ci sono grossi interessi, specie da quando la sovrintendenza è stata unificata a quella di Napoli. Guzzo sta facendo uno sforzo enorme per ripristinare anche la legalità».

Con il commissariamento, i riflettori si accendono ancora sull'incuria, l'inefficienza, il degrado nell'area della città romana, un'estensione di 66 ettari di cui 44 già riportati alla luce e 22 ancora da scavare. L'emergenza sono i servizi igienici insufficienti e mal tenuti, come scrivono i turisti nel libro blu dei reclami all'ufficio informazioni. Protestano perché le audio guide non funzionano, non ci sono le mappe per visitare il sito, mancano i custodi, non c'è il posto di guardia medica, e troppi cani randagi che invadono il percorso dei visitatori. «Quello che fa più arrabbiare i turisti», dice Mattia Buondonno, che ha guidato i Clinton a spasso tra le rovine, «è trovare i cancelli chiusi delle più belle case di Pompei». L'ultima casa aperta, dopo il restauro, è quella dei Ceii, una conquista di maggio. Chi arriva in questi giorni, in maggioranza turisti spagnoli e russi, trova chiusa per restauro la Casa dei Vettii, nel Foro, l'edificio di Eumachia, dove c'era il mercato della lana. Lavori di iniezioni di cemento sul tetto pericolante, nel Macellum, che conserva le teche con i calchi dei fuggiaschi in cerca di salvezza dall'eruzione. Chiusa, ma visitabile con prenotazione on line la Casa degli Amorini Dorati. Restano sempre aperte al pubblico le case del Fauno, della Caccia antica, della Fontana piccola, le Terme, gli edifici del grandioso Foro, il piccolo e il grande teatro, Villa dei misteri.

Velardi applaude la decisione di Roma: "Una vittoria, ora apriamo ai privati"

Ottavio Lucarelli -la repubblica, ed. Napoli, 5 luglio 2008

«Una decisione importante da parte del governo. Una decisione coraggiosa, un aiuto per lo sviluppo dell'area archeologica. Direi anche una mia vittoria, che ora apre la strada all'ingresso dei privati nella gestione». Esulta Claudio Velardi, assessore regionale del Partito democratico con delega al turismo che del caso Pompei in pochi mesi ne ha fatto una crociata.

Esulta e non dimentica i suoi nemici: «Ho incassato molti rimbrotti per le mie idee quando ho indicato la necessità di un cambio di rotta radicale nella gestione di uno dei siti archeologici più importanti del mondo. Mi hanno attaccato, c'è chi ha ironizzato, qualcuno mi ha preso per matto. Bacchettoni di ogni genere sono scesi in campo per difendere una situazione insostenibile fatta di sciatterie, corporativismi, piccole e grandi illegalità».

Esulta Velardi. E accusa i «bacchettoni di ogni genere» riferendosi soprattutto a professori e opinionisti che su diversi giornali lo hanno attaccato a ripetizione: «Il governo ha preso una decisione importante e coraggiosa proclamando lo stato d'emergenza nell'area e scegliendo di intervenire seriamente in difesa della legalità e del decoro di Pompei. Ma non solo. Con questa scelta si gettano anche le basi per una gestione innovativa e moderna del sito».

Intesa Governo-Regione che, del resto, è indicata esplicitamente nel comunicato ufficiale di Palazzo Chigi dove si legge: «Il Consiglio dei ministri ha deliberato lo stato di emergenza nell'area archeologica di Pompei (come richiesto dal ministro per i beni culturali Sandro Bondi, dal prefetto e dalla Regione) per intervenire con mezzi e poteri straordinari in difesa dell'immenso patrimonio artistico, minacciato da crescenti e gravi criticità».

«Ad un'azione indispensabile di ripristino della civiltà - conclude l'assessore Velardi che ha commentato la vicenda sul suo blog battezzato "Mission impossible" - dovrà poi seguire un grande progetto di sviluppo in cui coinvolgere importanti risorse pubbliche e private, italiane e internazionali. Se si lavorerà bene insieme sarà possibile fare di Pompei in pochi anni un sito in grado di accogliere degnamente milioni di turisti con informazioni adeguate, servizi efficienti, percorsi fruibili. Per l'intera area che va da Pompei a Stabia si presenta una grande occasione di crescita e sviluppo del turismo. Non ce la dobbiamo fare sfuggire. Istituzioni centrali e periferiche, imprenditori, operatori turistici».

Spazio ai privati, dunque. Claudio Velardi rilancia e Gianni Lettieri, presidente degli industriali napoletani, raccoglie l'assist: «Sono d'accordo con l'assessore. Se Pompei, in queste condizioni, è uno dei siti più visitati al mondo, figuriamoci cosa si potrebbe fare coinvolgendo i privati. Sono d'accordo con Velardi. È evidente che con i privati la gestione degli Scavi funzionerebbe molto meglio e io credo che a Pompei ci siano tutti i presupposti per questo passo in avanti. Un discorso che, ovviamente, vale per l'archeologia così come per tanti altri campi dell'economia».

Il governo di destra dichiara lo stato di emergenza e non solo l'assessore regionale Velardi ma anche il sindaco di Pompei Claudio D'Alessio, esponente del Partito democratico di area Margherita, approva la decisione presa dal Consiglio dei ministri: «Il degrado dell'area archeologica di Pompei è di tale evidenza da giustificare un provvedimento mai adottato nella storia d'Italia quale la dichiarazione dello stato di emergenza. Sulla deprecabile situazione dell'area archeologica, del resto, la nostra amministrazione comunale ha più volte espresso da tempo una posizione critica, sottolineando la pervicace volontà della Sovrintendenza nel rifiuto di qualsiasi collaborazione utile a valorizzare il patrimonio culturale del territorio cittadino».

Secondo il sindaco Claudio D'Alessio «Il degrado degli Scavi incide negativamente anche sull'aspetto della città moderna, come dimostrano i lavori senza fine lungo il margine meridionale della città antica con l'ingombro di impalcature lungo i marciapiedi di via Plinio, estesi fino a piazza Anfiteatro, da dove si ammirano gli ingombranti volumi di costruzioni moderne edificate sul suolo archeologico, immediatamente a ridosso delle antiche mura». Per non parlare della «carenza dei servizi minimi essenziali, quali punti di accoglienza e di ristoro».

Un luogo che comunque, tra degrado e assenza di servizi minimi essenziali, continua ad avere un richiamo fortissimo. Pompei, nonostante un calo dovuto all'emergenza rifiuti che ha penalizzato tutta la Campania, resta infatti il primo sito al mondo per numero di visitatori.

Un'area in cui ha lavorato a lungo il giornalista Luigi Necco, amministratore dal 2002 al 2006 dell'azienda di Soggiorno e turismo di Pompei, che è però molto scettico sulle reali possibilità di ripresa legate alla decisione del Consiglio dei ministri: «Non credo che questa decisione del governo vada verso la privatizzazione della gestione degli Scavi e, a mio parere, l'assessore Velardi in queste ore esprime solo la gioia che il presidente della Regione Antonio Bassolino gli ha detto di esprimere. Il punto è che il male di Pompei è negli Scavi ma non si esaurisce negli Scavi. I nomi dei custodi di Pompei, quelli che non aprono i cancelli ai turisti, che non tutelano il sito e fanno ammucchiare torme di cani selvaggi anche per disturbare gli spettacoli notturni, sono gli stessi nomi dei bancarellari che serrano in una morsa gli Scavi e che strozzano il turismo».

Luigi Necco rispolvera quindi un piano di sviluppo per rilanciare Scavi e turismo. Un piano messo a punto negli anni scorsi e mai decollato: «Stavamo per avviare un grande progetto con un palazzo messo a disposizione dalla Curia e con fondi delle Regione stanziati dall'ex assessore Marco Di Lello per realizzare il grande Museo di Pompei, Ercolano, Stabia e Oplonti che, con 15 milioni di euro, avrebbe fatto compiere un salto di qualità enorme all'intera area. In più, puntavamo a trasformare in hotel a cinque stelle il "Seminario" e l´albergo "Rosario" chiuso ormai da decenni e di proprietà della Curia che era d'accordo. Tutto sembrava pronto, poi dalla sera alla mattina fui mandato a Napoli in un'altra azienda, un'azienda di turismo carica di debiti e quel progetto svanì»

Stato d'emergenza a Pompei: un commissario per gli scavi

Alessandra Arachi - Corriere della Sera, 5 luglio 2008

Il provvedimento di Palazzo Chigi ieri è stato un decreto, espresso: dichiarazione dello stato di emergenza per gli scavi di Pompei. Non era mai successo. Che un governo italiano trattasse un sito archeologico come fosse uno tsunami. «Ma non si poteva più tollerare oltre la situazione di degrado di un bene incommensurabile come quello di Pompei», garantisce Sandro Bondi, ministro per i Beni Culturali. Che ha persino faticato a credere a quanto scritto e documentato proprio sulle pagine del Corriere, qualche giorno fa.

«Sono grato alla denuncia del Corriere sullo stato deprimente in cui versano le rovine », dice Bondi, spiegando che ieri mattina il provvedimento dello stato di emergenza per gli scavi archeologici di Pompei non ha avuto soltanto l'unanimità del Consiglio dei ministri: «È stata un'approvazione entusiastica ».

Incuria, degrado, furti, sfregi, danneggiamenti: bisogna girarli gli scavi di Pompei per crederci e capire. Un patrimonio dell'Umanità (e dell'Unesco) che il mondo ci invidia, sta andando alla deriva come una zatterina in preda al maremoto. Ed ecco lo stato di emergenza: durerà per un anno. Ecco l'arrivo di un commissario straordinario. Sarà nominato mercoledì prossimo dal ministro Bondi, insieme con i sottosegretari alla presidenza Gianni Letta e Guido Bertolaso, con un decreto che ne preciserà anche le competenze.

Il nome che è più circolato in questi giorni è quello del prefetto Mario Mori, ex capo dei Ros e del Sisde. «Vogliamo una personalità autorevole che abbia poteri di emergenza concreti, reali», dice il ministro Bondi. E spiega: «Il commissario dovrà occuparsi della gestione e dell'amministrazione. Ma anche, e soprattutto, delle questioni legate all'ordine pubblico e alla sicurezza. Verranno impiegate le forze dell'ordine per tutelare l'intera area. Ci sono anche le mani della criminalità organizzata sopra gli scavi di Pompei».

Quarantaquattro ettari di scavi e altri ventidue ettari di beni archeologici mai portati alla luce che oggi sono in balìa dei tombaroli. Ma non solo: sopra quei 22 ettari mai scavati di Pompei, negli anni, si sono accumulate discariche abusive e, in più, sono state costruite le serre di contadini che con acqua e concimi potrebbero aver definitivamente deteriorato il patrimonio rimasto ancora sotto terra.

«Questo commissariamento è stato concordato con la Regione Campania, con Antonio Bassolino, con il quale c'è assoluta condivisione», garantisce il ministro dei Beni Culturali. E aggiunge: «Ho anche telefonato al soprintendente Giovanni Guzzo, al quale va la mia stima personale e che rimarrà a Pompei a ricoprire il suo ruolo, quello di archeologo». Convenevoli a parte, il ministro Bondi è molto molto deciso: «Voglio lavorare su Pompei come il presidente Berlusconi sta lavorando su Napoli».

Non mancano certo le cose da fare. E anche, o soprattutto, le cose da capire. Come quei 70 milioni di euro nel bilancio degli scavi: come mai non sono stati mai spesi? Ce ne erano altri 30 di milioni di euro: nel 2006 l'allora ministro ai Beni Culturali Buttiglione decise di riprenderli indietro, chissà se infastidito dagli sperperi.

Ma adesso si cambia registro. L'attuale titolare dei Beni Culturali non ha dubbi: «Questo grande interesse del governo su Pompei deve servire a dirottare sulle rovine tutte le risorse possibili. Quelle private, innanzitutto, anche straniere. Per questo andrò io, di persona: il prossimo 18 luglio sarò alle rovine di Pompei insieme con il nuovo commissario straordinario».

Anche Claudio Velardi, assessore regionale al Turismo, aveva pensato di aprire gli scavi di Pompei ai privati. E dalle colonne del Corriere del Mezzogiorno aveva annunciato di aver già preso contatti con colossal come Google e Microsoft per sponsorizzazioni e partnership.

Non c'è molto tempo da perdere: tra le rovine di una delle Sette meraviglie del mondo se ne è già perso fin troppo. Basti pensare ai trent'anni che non sono stati sufficienti per ultimare i restauri dell'Antiquarium, il museo. O ai ventuno trascorsi senza che venissero conclusi gli ultimi scavi fatti a Pompei, quelli della Casa dei Casti Amanti.

Tutto questo è bastato a Roman Polanski per fuggire a gambe levate dalle rovine. Con un paradosso davvero triste: il suo film su Pompei, il regista lo sta girando in Spagna.

Pompei, Bondi benedice la «rivoluzione»

Intervista di Carlo Franco all'assessore Velardi Corriere del Mezzogiorno, ed. Napoli, 5 luglio 2008

Assessore Velardi, vuole darci il nome del Commissario di Pompei?

«Non scherziamo, nessuno è in grado di farlo».

Neanche lei?

«Io posso dire solo che si tratterà di un Prefetto».

È già molto, basta a far partire la caccia al reggente. La fantasia galoppa: garantisce Claudio Velardi, l'assessore con la maglietta. Il piglio con il quale risponde al cronista è quello dei giorni migliori: «Questo, dice, non è che l'inizio, la precondizione, faremo pulizia della gestione ordinaria, metteremo ordine nei conti, poi preparemo l'ingresso dei privati e il vero salto di qualità».

L'annuncio del commissariamento di Pompei segue i tempi della «rivoluzione » anticipata al nostro giornale dal responsabile regionale della politica turistica, ha provocato, insomma, uno sconquasso. Solo il Soprintendente Piero Guzzo conserva imperturbabile il suo aplomb e a chi gli chiede se si sente «commissariato » replica: «No, rafforzato perché finalmente potrò lavorare alla tutela del sito che è il vero lavoro di un archeologo, lontano dalle scartoffie». Tutti, a Roma e a Napoli, gli confermano la stima, ma i sindacati picchiano duro: Gianfranco Cerasoli, segretario generale della Uil, avanza dubbi sulla gestione Guzzo e sulla stessa strada si pone l'Unsal che chiede anche l'istituzione di una polizia di settore per salvare non solo Pompei ma anche Paestum, i siti dell'Etruria meridionale e del Palatino.

Ma torniamo a Velardi. L'assessore, che ha sentito il Governatore Bassolino ricevendo tutte le coperture del caso, ha nomi altisonanti da proporre. «Affideremo la gestione dei diritti d'immagine ad una azienda di carattere internazionale, la Pixar o la Warner Bros. Pompei deve diventare un laboratorio vivo, quando avremo ottenuto le giuste condizioni di sicurezza e di agibilità, i privati ci faranno fare il salto di qualità. Grandi eventi ma sempre dopo aver ottenuto garanzie sull'uso corretto del territorio e degli straordinari monumenti ospitati. C'è tanto da fare, compreso operazioni di marketing e di merchandising ».

La «pratica» cammina veloce. Mercoledì il Ministro Bondi s'incontrerà con Velardi per siglare un accordo istituzionale, sulla falsariga di quello stipulato con il sottosegretario al Turismo, Michela Brambilla.

In cosa consiste l'accordo?

«Stabiliremo le condizioni per strategie comuni che avranno come unico obiettivo quello di migliorare la produttività di Pompei gravemente offuscata».

È vero, chiediamo a bruciapelo, che esistono venti milioni di euro non spesi?

«Non lo so, risponde l'assessore, ma ne sarei felice perché significherebbe che avremmo anche i soldi per partire. Parliamo, invece, delle cose possibili, cioè dei passi che faremo. Dopo l'accordo con il Ministero incontreremo la Tess e i Comuni che gravitano su Pompei: dobbiamo procedere insieme, finora ognuno è andato per conto suo e i risultati si vedono».

Si dice anche che la Scabec, l'azienda regionale che gestisce alcuni siti museali, sarà della partita. Le risulta?

Breve pausa per riordinare le idee, poi la risposta: «Potrebbe occuparsi della gestione delle biglietterie che in questi anni è stata particolarmente carente e si è tirata addosso molte critiche».

Ha visto il Soprintendente Guzzo?

«No, ma non ce n'è bisogno, Guzzo sarà il garante culturale di tutta l'operazione».

Un'ultima informazione al limite del paradosso: la National Galleryof Art di Washington sta lavorando al lancio di una mostra sugli scavi che si inaugurerà ad ottobre. Servirà a rilanciare in America l'immagine di Pompei: speriamo che si arrivi in tempo.

Le mani dei privati sui beni culturali

Nino Alongi – la Repubblica, ed. Palermo, 6 luglio 2008

Da qualche tempo sullo scenario politico nazionale la Sicilia è tornata a far notizia. E questo accade anche grazie al livello dei suoi uomini insediatisi (provvidenzialmente, dice qualcuno) nei palazzi romani del potere. Sono in molti in Italia a riconoscere l'«equilibrio» del presidente Renato Schifani, specialmente adesso nel suo nuovo ruolo, ma anche l'fficienza e la dedizione del giovane ministro Angelino Alfano, la discrezione, fino al silenzio più assoluto, della ministra Stefania Prestigiacomo e l'ntusiasmo dirompente del ministro della difesa (o della guerra?) Ignazio La Russa. Il futuro ci dirà quanto la loro presenza in quei palazzi sia utile e proficua per la Sicilia.

Intanto registriamo che l'Isola ha un posto di rilievo nel panorama nazionale anche per l'attività, mai banale e sempre piena di eccessi, del suo parlamento, l'Assemblea regionale guidata adesso da Francesco Cascio del Pdl, succeduto al leader forzista della prima ora Gianfranco Miccichè. Nella settimana che ci siamo lasciati alle spalle, malgrado la cronaca parlamentare nazionale sia stata ricca di colpi di scena, due notizie provenienti dalla nostra città hanno bucato d´incanto lo schermo dei telegiornali con l'effetto straordinario di sorprendere i telespettatori evidentemente non ancora del tutto assuefatti alle intemperanze della casta. È successo che, mentre il procuratore generale della Corte dei conti relazionava sul bilancio catastrofico della Regione, gravato dall'ulteriore aumento delle retribuzioni dei deputati che affollano Sala d'Ercole - ben 70 su 89 godono di gettoni aggiuntivi - l'assessore regionale ai Beni culturali Antonello Antinoro, per nulla turbato dalla requisitoria del giudice contabile, prendeva una clamorosa iniziativa.

E proponeva candidamente, per risanare gli esausti bilanci del suo assessorato, di trasferire ai privati la gestione dei beni culturali esistenti nell'Isola. Per di più il governatore Lombardo rincarava la dose. Ipotizzando - certo con involontaria ironia - la «cessione» dei siti archeologici in Val di Noto alla compagnia petrolifera russa Lukoil e l'affidamento della Venere di Morgantina (il cui ritorno in Sicilia è previsto per il 2010, dopo un contenzioso durato anni) al Paul Getty Museum: cioè all'stituzione pescata con le mani nel sacco per averla acquistata da un ricettatore. Il Paul Getty, nel vaneggiamento estivo di Lombardo, dovrebbe costruire un museo ad Aidone.

Una mera coincidenza, ma le due notizie messe insieme sono rivelatrici di una tendenza politica portata avanti dalla classe dirigente isolana con lucidità suicida. A fronte di una spesa pubblica che cresce in modo incontrollato (è salita a 15 miliardi di euro) e con un «parco impiegati» che ha raggiunto la modica cifra di 21.104 persone di cui 2.245 dirigenti, l'amministrazione regionale pensa non a tagli drastici, non a una gestione finalmente rigorosa, ma a nuove risorse da cercare e da bruciare con la faciloneria di sempre.

E così, dopo aver contribuito a privatizzare le coste, desertificare i boschi, abbandonare l'agricoltura e inquinare parti rilevanti del territorio, la Regione vuole adesso liberarsi dei Templi di Agrigento, del Teatro greco di Siracusa, dei vari siti archeologici sparsi per la Sicilia, dei musei e delle città d´arte, cioè liberarsi dei beni rimasti.

Non ci vuole molto a comprendere che privatizzare significa entrare nella sfera delle leggi di mercato, passare dalla cooperazione alla competizione, dalla fruizione al profitto. Una forma particolarmente significativa della mercatizzazione - sostiene Giorgio Ruffolo - è il declino dei beni collettivi rispetto si beni privati. Il mercato tende a favorire nettamente la produzione e il consumo di beni competitivi rispetto a quelli collettivi anche perché la loro gestione incontra un aumento insostenibile di costi molto prima di raggiungere un grado diffuso di soddisfazione.

«Ben vengano i mecenati - ha sostenuto il presidente Raffaele Lombardo d'accordo col suo assessore - non vedo nulla di straordinario se un privato, con i propri soldi, vuole valorizzare una parte del nostro patrimonio culturale che oggi è sottoutilizzato». In giro, però, più che mecenati disposti ad impegnare risorse si vedono speculatori alla ricerca di profitti. «L'importante è intendersi - aggiunge Lombardo per nulla turbato - su quello che si deve fare e su come farlo. Tutto è chiaro deve avvenire sotto il controllo del pubblico, cioè della Regione». Il presidente si ferma qui, non spiega a esempio come la Regione, che non riesce a governare neppure la sua struttura interna, possa domani controllare il rispetto dei contratti di beni culturali dati in concessione. Le reazioni a queste proposte e non solo da parte dell'opposizione non si sono fatte attendere. Speriamo bene.

Si sono intanto concluse, purtroppo nell'indifferenza generale, le ultime procedure elettorali. Tra le poche novità emerse dalle urne, va sottolineata la elezione a sindaco di Salemi di Vittorio Sgarbi. Una scelta interessante, il paese potrebbe ricavare da questa nomina indubbi vantaggi e non solo sul piano dell´immagine. Sgarbi ha esperienza amministrativa e un'ottima preparazione artistica. Le sue prime dichiarazioni, tuttavia, ci hanno sorpreso. Egli ha detto: «Il nome del paese d'ora in poi non sarà più associato alla mafia o al terremoto del 1968. Grazie a me, Salemi uscirà dall´isolamento». Gli ricordiamo che nell'Isola, per antica consuetudine, non si è mai creduto ai salvatori della patria. I siciliani, come tutti sanno, hanno molti difetti, ma non sono creduloni. Lo sanno bene: o si salvano da soli o non si salveranno mai. A Sgarbi consigliamo di guardare, andando in giro per l'Isola, le bellezze artistiche e naturali, ma anche le croci numerose che segnano il nostro impegno civile.

Valle dei Templi: una faccenda privata

Vittorio Emiliani – l'Unità, 4 luglio 2006

Povera Sicilia, povera Valle dei Templi, quale altra offesa si prepara per voi (e quindi per noi)? Per ora, c’è questa idea genialissima di affidare a privati la Valle agrigentina, e il Teatro greco di Taormina, affinché la Regione Sicilia ne tragga un pingue canone. Così altre infrastrutture (eliporto incluso) potrebbero venire costruite dentro o nei pressi di una fra le più strepitose aree archeologiche del mondo intero già violentata da una strada che l’attraversa, da numerose case, anzi ville, abusive con piscina- per le quali si è parlato di “abusivismo di necessità” - con un paesaggio urbano che incombe come un incubo sui templi antichi e solenni. È la proposta, sfornata calda calda dall’assessore alla Cultura della Regione Sicilia, Antonello Antinoro (Udc), nella giunta presieduta dall’iperautonomista Lombardo. Sostenuta dal neo-sindaco di Salemi, Vittorio Sgarbi che, per renderla meno indecente, la gira subito al Fai. Ovviamente riceve un secco “no” da Giulia Maria Mozzoni Crespi, presidente del Fondo per l’Ambiente Italiano, la quale si augura al contrario che «lo Stato non abdichi ai suoi doveri primari».

Lo Stato, in questo caso, non è il ministero: la tutela dei beni culturali isolani spetta infatti alla Regione Sicilia in forza di una specialissima autonomia concessale nel 1947, prima di votare la Costituzione, temendo che il movimento separatista potesse prevalere. Così abbiamo un caso, pressoché unico (le altre Regioni a statuto speciale si comportano in genere più saggiamente della Sicilia), di tutela, si fa per dire, e di gestione autonoma regionale del patrimonio storico-artistico-paesaggistico.

oi risultati disastrosi che sono sotto gli occhi di tutti: coste devastate da un abusivismo ormai pluridecennale, oasi naturali invase dal cemento, i mosaici di piazza Armerina danneggiati dai vandali, nessun piano paesaggistico, musei archeologici, come l’ “Orsi” di Siracusa, per la cui realizzazione ci sono voluti vent’anni e «oggi abbiamo difficoltà enormi a tenerlo aperto. Ci sono gravi carenze nello staff tecnico-scientifico. Mancano archeologi, restauratori, geometri, fotografi, custodi. Ogni giorno è una scommessa». Parole scolpite dal soprintendente siracusano di lungo corso Giuseppe Voza in una recente intervista. Quando allo stesso professor Voza, archeologo, l’intervistatore ha chiesto dei privati, ha così risposto: «Sono favorevole all’intervento dei privati, ovviamente nel rispetto di alcune regole dettate dal superiore interesse pubblico. In trentacinque anni, però, l'offerta più cospicua che ho ricevuto in Sicilia ammonta a cinque milioni di lire. Buoni per la birra...».

Ecco il quadro, impietoso ma realistico, dipinto da uno dei soprintendenti di spicco che già dieci anni fa, ad un convegno sulla ricostruzione di Noto, mi confidava tutte le difficoltà e le ambasce di una amministrazione tecnico-scientifica sottoposta alla pressione ravvicinata dei politici regionali. Ne sa qualcosa l’archeologa Graziella Fiorentini, tempo fa soprintendente, la quale patì persino l’arresto per essersi opposta ad altre devastazioni nella Valle dei Templi. A lei Desideria Pasolini dall’Onda, presidente nazionale di «Italia Nostra», volle attribuire in Senato il prestigioso premio Umberto Zanotti Bianco.

Di recente la stessa presidente del Fai, Giulia Maria Mozzoni Crespi ha guidato un lungo elenco di intellettuali e di politici (pochi) illuminati i quali chiedono al Presidente della Repubblica, Napolitano, di evitare lo scempio di un enorme rigassificatore a Porto Empedocle, insediato proprio sull’Altipiano delle argille azzurre dove sorge la casa natale di Luigi Pirandello (con parco debitamente vincolato), direttamente nel paesaggio verso il mare che si ammira dalla Valle Templi. Il cui disastroso abusivismo, così giustamente avversato, «al confronto del suddetto mostro sarebbe poca cosa» poiché «in questo scorcio di mare e di terra potremmo vedere la fila di navi gasiere di 350 metri ciascuna posizionate di fronte alla contrada Caos e le torri-torcia di circa 40 metri di altezza con fiamma perenne». Un altro disastro paesaggistico.

E adesso arriva bel bello l’assessore Antonello Antinoro a completare l'opera (che potremmo intitolare «Come ti concio uno dei più straordinari siti del mondo») con la proposta di rinunciare a tutelare la Valle dei Templi dandola in gestione a privati che però costruiscano strade, alberghi di lusso, eliporti e quant’altro ancora si può coi piccioli ricavati. Del resto, non l’ha ripetuto tante volte il Cavaliere che “ognuno è padrone a casa sua”? L’assessore siciliano l’ha preso in parola e, forte dell’essere temporaneamente “padrone” (o “padroncino”) dei beni culturali siciliani, ha pensato bene di cominciare a privatizzarne uno o magari due. Dei più straordinari naturalmente. Per il nuovo ceto di potere il passato è business e basta. A quando l’idea di cedere il Colosseo ai privati come centro di un mega luna-park? Ci siamo vicini: il neo vice-sindaco di Roma, Mauro Cutrufo, ha già proposto un enorme “parco divertimenti” ispirato all’antica Roma. Geniale, da gemellare subito con l’assessore Antinoro.

Coi risultati disastrosi che sono sotto gli occhi di tutti: coste devastate da un abusivismo ormai pluridecennale, oasi naturali invase dal cemento, i mosaici di piazza Armerina danneggiati dai vandali, nessun piano paesaggistico, musei archeologici, come l’ “Orsi” di Siracusa, per la cui realizzazione ci sono voluti vent’anni e «oggi abbiamo difficoltà enormi a tenerlo aperto. Ci sono gravi carenze nello staff tecnico-scientifico. Mancano archeologi, restauratori, geometri, fotografi, custodi. Ogni giorno è una scommessa». Parole scolpite dal soprintendente siracusano di lungo corso Giuseppe Voza in una recente intervista. Quando allo stesso professor Voza, archeologo, l’intervistatore ha chiesto dei privati, ha così risposto: «Sono favorevole all’intervento dei privati, ovviamente nel rispetto di alcune regole dettate dal superiore interesse pubblico. In trentacinque anni, però, l'offerta più cospicua che ho ricevuto in Sicilia ammonta a cinque milioni di lire. Buoni per la birra...».

Ecco il quadro, impietoso ma realistico, dipinto da uno dei soprintendenti di spicco che già dieci anni fa, ad un convegno sulla ricostruzione di Noto, mi confidava tutte le difficoltà e le ambasce di una amministrazione tecnico-scientifica sottoposta alla pressione ravvicinata dei politici regionali. Ne sa qualcosa l’archeologa Graziella Fiorentini, tempo fa soprintendente, la quale patì persino l’arresto per essersi opposta ad altre devastazioni nella Valle dei Templi. A lei Desideria Pasolini dall’Onda, presidente nazionale di «Italia Nostra», volle attribuire in Senato il prestigioso premio Umberto Zanotti Bianco.

Di recente la stessa presidente del Fai, Giulia Maria Mozzoni Crespi ha guidato un lungo elenco di intellettuali e di politici (pochi) illuminati i quali chiedono al Presidente della Repubblica, Napolitano, di evitare lo scempio di un enorme rigassificatore a Porto Empedocle, insediato proprio sull’Altipiano delle argille azzurre dove sorge la casa natale di Luigi Pirandello (con parco debitamente vincolato), direttamente nel paesaggio verso il mare che si ammira dalla Valle Templi. Il cui disastroso abusivismo, così giustamente avversato, «al confronto del suddetto mostro sarebbe poca cosa» poiché «in questo scorcio di mare e di terra potremmo vedere la fila di navi gasiere di 350 metri ciascuna posizionate di fronte alla contrada Caos e le torri-torcia di circa 40 metri di altezza con fiamma perenne». Un altro disastro paesaggistico.

E adesso arriva bel bello l’assessore Antonello Antinoro a completare l'opera (che potremmo intitolare «Come ti concio uno dei più straordinari siti del mondo») con la proposta di rinunciare a tutelare la Valle dei Templi dandola in gestione a privati che però costruiscano strade, alberghi di lusso, eliporti e quant’altro ancora si può coi piccioli ricavati. Del resto, non l’ha ripetuto tante volte il Cavaliere che “ognuno è padrone a casa sua”? L’assessore siciliano l’ha preso in parola e, forte dell’essere temporaneamente “padrone” (o “padroncino”) dei beni culturali siciliani, ha pensato bene di cominciare a privatizzarne uno o magari due. Dei più straordinari naturalmente. Per il nuovo ceto di potere il passato è business e basta. A quando l’idea di cedere il Colosseo ai privati come centro di un mega luna-park? Ci siamo vicini: il neo vice-sindaco di Roma, Mauro Cutrufo, ha già proposto un enorme “parco divertimenti” ispirato all’antica Roma. Geniale, da gemellare subito con l’assessore Antinoro.

In otto anni a Roma sono stati aperti ventotto giganteschi centri commerciali. Altri quattordici sono in corso di realizzazione. Nessuna altra città del mondo è stata sottoposta ad una così irresponsabile politica commerciale per numero e dimensione. Roma è stata colonizzata dai grandi monopoli della distribuzione internazionale, Panorama, Auchan, Mediaword, Ikea, Ipercoop e tanti altri. Questa follia è avvenuta soltanto a Roma perché la capitale ha decretato la morte dell’urbanistica e di ogni forma di programmazione. Si è affermato che la città doveva diventare nel suo complesso “offerta di mercato”. Coerentemente con questo assunto, i responsabili dell’urbanistica romana hanno spensieratamente frequentato in questi anni le maggiori fiere della speculazione immobiliare internazionale, affittando stand giganteschi rispetto alle altre capitali europee.

Oggi la città raccoglie i frutti di questa irresponsabile politica. I centri commerciali sono nati e nasceranno dovunque, sfruttando le infrastrutture stradali che esistono o che vengono finanziate con soldi pubblici proprio per mitigare gli effetti di quelle aperture. Lungo l’autostrada per Fiumicino per far funzionare i giganti del commercio nati nella zona di Ponte Galeria –oltre che la limitrofa nuova Fiera- sono stati realizzati chilometri di nuove autostrade, svincoli e cavalcavia. I soldi per realizzare quelle opere li ha messi la collettività. Lungo il tratto urbano dell’autostrada per L’Aquila i centri commerciali aperti –per collegare uno di questi sono state aperti svincoli in una curva autostradale!- si sta per realizzare una gigantesca viabilità complanare. I soldi li metterà la collettività.

E’ scontata, a questo punto, la rituale obiezione degli ex amministratori severamente puniti nella recente tornata elettorale comunale. Roma ha approvato un nuovo piano regolatore e fa dunque parte dei comuni virtuosi che programmano il territorio. Sono i quarantadue giganteschi centri commerciali a rappresentare la più clamorosa smentita di questa tesi: negli elaborati del nuovo piano non c’è una riga sul fatto che si voleva realizzare un così insostenibile numero di centri commerciali. Nessuno ha potuto mai vedere esplicitato questo folle disegno. Come sono stati dunque realizzati i grandi centri commerciali? E’ naturale: attraverso lo strumento dell’accordo di programma che, al riparo di ogni procedura trasparente, ha cambiato volta per volta le regole che il consiglio comunale tentava faticosamente di approvare.

Questo modo di procedere ha posto una incalcolabile ipoteca sul futuro della città. A vederli sulle foto satellitari, i centri commerciali realizzati sembrano infatti corpi alieni calati a forza sul tessuto della città. Non hanno alcuna relazione con i tessuti urbani circostanti e si caratterizzano per la enorme dimensione di fabbricati circondati da un mare di posti auto. Essi sono stati dunque pensati per l’automobile. Mentre il petrolio si avvia a superare il valore di 150 dollari al barile, a Roma si è disegnata la più insostenibile città dal punto di vista della mobilità. Anche questa prospettiva non era contenuta negli elaborati del piano regolatore, dove invece abbondava una vuota retorica sul “primato del trasporto su ferro”. Nei fatti si è invece condannata una città intera a dipendere dall’automobile per compiere anche le normali azioni quotidiane come fare la spesa.

Ma non basta, perché in tempi brevi si produrrà anche una seconda gravissima conseguenza. Se si aprono grandi superfici commerciali che possono, come è ampiamente noto, praticare prezzi minori rispetto ai “normali” negozi di quartiere, è evidente che tra poco tempo chiuderà qualche migliaio di piccole botteghe. Il presidente di Confcommercio ha lanciato un drammatico allarme proprio in questi giorni, stimando in diecimila il numero dei negozi di vicinato che a Roma chiuderanno tra breve tempo i battenti. E’ del tutto evidente che la fascia di popolazione anziana, quella che ha le maggiori difficoltà nell’uso dell’automobile, subirà le maggiori conseguenze di questo inevitabile fenomeno. I responsabili dell’urbanistica romana nel loro delirio mercatistico non avevano pensato a questa prevedibilissima conseguenza mentre parlavano diffusamente della riqualificazione dell’immensa periferia romana? Tra non molto avremo periferie sempre più povere di funzioni e di complessità urbana. Più insicure e tristi. Altro che recupero delle periferie.

E infine un ragionamento più generale che riguarda le caratteristiche delle derrate alimentari che arrivano sulla tavola dei romani. E’ nella logica delle imprese transnazionali privilegiare le produzioni provenienti dal proprio paese d’origine e da quelli con cui si sono instaurate convenienti relazioni economiche. La prevalenza dei colossi del settore commerciale romano è francese. Ovvio che molti prodotti vengano da quel paese a tutto detrimento di quelli italiani. Non ne faccio, ovviamente, una vuota questione di bandiera. Dietro a questo modello produttivo c’è un insostenibile modello di alimentazione: si privilegia la filiera lunga e si mettono in ginocchio le produzioni locali. Le derrate alimentari arrivano sulle nostre tavole dopo un impressionante tragitto che utilizza – anche in questo caso con costi sempre crescenti - il trasporto aereo. Seppure ricchi, siamo parte integrante della rapina che si sta perpetrando verso i paesi poveri del mondo spingendoli verso la fame.

La vicenda dei quarantadue giganti del commercio internazionale nati alla chetichella in questi anni sono la più evidente dimostrazione del fallimento del pensiero debole dell’urbanistica romana di questi anni. Mentre le altre città europee programmano .con tutti i limiti che ciò comporta- lo sviluppo del proprio territorio, a Roma con l’ossimoro del “pianificar facendo” si è tolto ogni freno alla speculazione fondiaria. Mentre nelle altre città europee il mondo sviluppato tenta di sostenere con adeguate politiche le produzioni alimentari di prossimità, tentando così di arginare i processi economici globalizzati, da noi il tanto “modello romano” ha guardato al passato ed ha prodotto un risultato di grave arretratezza culturale e urbana. E mentre nelle altre città d’Europa si tenta –sulla base di mirate politiche- di arginare il consumo di suolo agricolo, a Roma è stato compiuto il più grande sacco urbanistico della storia della città.

E non c’è all’orizzonte alcun barlume di ripensamento. I quartieri centrali di Roma sono tappezzati di manifesti del centro destra che parlano di una città più sicura. Tanto entusiasmo, spiega il manifesto, deriva dal fatto che non solo sono stati identificati molti pericolosi clandestini, ma sono state sequestrate merci contraffatte. Niente paura: potremo trovarle in offerta speciale nei quarantadue mostri di cemento.

Assediato da 2,5 miliardi di euro di debiti, l’immobiliarista Luigi Zunino si arrende ai creditori (le banche): l’area ex Falck di Sesto San Giovanni e probabilmente anche Santa Giulia a Rogoredo sono in vendita al miglior offerente. Una trattativa è già ben avviata, con il fondo Dubai Limitless, per l’area di Sesto San Giovanni ridisegnata da Renzo Piano, mentre per la città di Norman Foster nella zona Sud Est di Milano le manifestazioni di interesse sono numerose. E Zunino non ha ancora perso le speranze di riuscire – con i proventi della cessione dell’area Falck – a condurre in porto il progetto Rogoredo. Il sindaco di Sesto Giorgio Oldrini mette le mani avanti: «I futuri proprietari non tocchino il progetto di Renzo Piano. E il Comune vuole continuare ad avere un ruolo da protagonista».

Anche gli imperi costruiti sui mattoni rischiano di sgretolarsi per il peso dei debiti. E così Luigi Zunino, professione immobiliarista, che lo scorso anno è entrato nel salotto più buono di Milano, vale a dire nel consiglio di sorveglianza di Mediobanca, si trova in balia dei creditori e potrebbe essere costretto a vendere alcuni dei gioielli della sua Risanamento per saldare il conto con le banche. Dopo un tourbillon di indiscrezioni, il suo gruppo Risanamento è stato costretto - dalla Consob - a confermare che il consiglio di amministrazione ha dato via libera alle trattative con il fondo Dubai Limitless Lcc che ha offerto circa 1,5 miliardi per le aree Falck di Sesto San Giovanni e Santa Giulia a Rogoredo. La Borsa, ovviamente, ha festeggiato con uno spettacolare rialzo del 46%.

A fine marzo Risanamento aveva accumulato 2,5 miliardi di debiti, tanti in valore assoluto e troppi rispetto ai canoni percepiti dagli affitti. Se il patrimonio del gruppo ha un valore stimato di ben 5 miliardi, sono infatti pochi i palazzi che sono stati messi a reddito. Su questa mole d’indebitamento Zunino paga interessi superiori rispetto ai canoni che riscuote dai palazzi di via Bigli e di corso Vittorio Emanuele a Milano, dal grattacielo di Madison Avenue a New York, per finire con gli edifici parigini sugli Champs-Elysées e in Avenue Matignon. Nel primo trimestre di quest’anno Zunino ha infatti pagato alle banche 41 milioni di interessi sui debiti, e ne ha riscossi 48 dagli affitti e dalle plusvalenze per la cessione di alcuni asset immobiliari.

Ma c’è di peggio. Perché la specialità di Zunino è quella di portare avanti importanti progetti di riqualificazione e in particolare quello dell’area un tempo occupata dalle industrie Falck di Sesto San Giovanni e quella a Sud Est di Milano di Santa Giulia. Per entrambi, Zunino si è avvalso di alcuni tra i più famosi architetti al mondo: per l’area Falck Renzo Piano, per Santa Giulia Norman Foster. Tuttavia, forse l’eccesso di ottimismo tipico degli imprenditori, ha portato Zunino a mettere troppa carne al fuoco, senza fare i conti con un mercato immobiliare che dopo anni di boom inizia a scricchiolare anche per colpa della crisi finanziaria legata ai mutui ipotecari americani. E così lui, che fino a qualche mese fa era in gara per ogni asta immobiliare e per tutti i principali appalti (ha partecipato anche all’asta per Citylife, stata vinta da Generali e Ligresti) ora è costretto a vendere anche i progetti che gli stanno più a cuore per far fronte alle pendenze con i creditori. Prima fra tutti l’area della Falck, sui cui la sua Risanamento ha intrapreso una trattativa in esclusiva con il fondo di Dubai, che a breve dovrebbe formalizzare un’offerta. Ancora prima di ricevere le autorizzazioni per costruire e posare la prima pietra a Sesto San Giovanni, Zunino si è infatti indebitato sull’area Falck per circa 260 milioni. Inoltre Risanamento ha bisogno di nuova liquidità per portare avanti il progetto di Santa Giulia, che pur essendo già stato approvato deve ancora essere sviluppato in toto, tranne per l’edificio che diventerà la sede di Sky che da solo ha un valore stimato in circa 300 milioni.

Ma adesso a determinate condizioni Zunino potrebbe vendere anche il progetto di Santa Giulia, proprio perché tra gli investimenti che devono essere ancora fatti e i debiti che la società ha già accumulato, sarà difficile per il gruppo immobiliare portare a termine i lavori in queste condizioni finanziarie. E per Santa Giulia sarebbero arrivate a Risanamento una serie di offerte. Oltre al fondo Limtless, anche il gruppo olandese Multi e la Colony Capital di Tom Barrack, uno degli uomini più ricchi al mondo e affittuario di Zunino nel palazzo sulla Madison a New York che è di proprietà di Risanamento.

Oldrini avvisa i futuri proprietari "Il progetto di Piano non si tocca" (intervista al sindaco di Sesto San Giovanni)

di Rodolofo Sala

Per il sindaco di Sesto non si tratta di un fulmine a ciel sereno. «Da tempo - dice Giorgio Oldrini - eravamo al corrente delle difficoltà economiche del gruppo Zunino».

Siete preoccupati?

«Non possiamo certo impedire che sull’area Falck sbarchi un nuovo proprietario. Ma in questa partita naturalmente vogliamo dire la nostra, per continuare a svolgere un ruolo da protagonisti. Anche perché su quest’area realizzeremo un progetto per la produzione di energia pulita con una società che abbiamo costituito assieme ad A2A».

Insomma, ponete delle condizioni?

«Voglio essere chiaro: per noi è irrinunciabile mantenere nella sua unitarietà il progetto elaborato da Renzo Piano».

Temete lo spezzatino?

«Quello di Piano è un progetto enorme e complesso, che interessa un’area di oltre un milione e 300mila metri quadri dove sorgerà una città nella città. Università, centri di ricerca, residenze di pregio e case popolari, la nuova stazione».

E se la nuova proprietà dovesse decidere di rinunciare al progetto di Piano?

«Per esaminarne uno nuovo avremmo bisogno di moltissimo tempo. Non certo perché siamo pigri, ma perché gli interventi sull’area sono immensi e complessi».

È un messaggio ai nuovi acquirenti?

«I tempi lunghi non convengono a nessuno. Il progetto Piano è pronto, a primavera potremmo già cominciare gli scavi. Noi abbiamo tutto l’interesse a fare tutto in fretta e bene».

La società di fondi di Dubai è avvertita...

«Noi sappiamo che quella è solo una delle ipotesi in campo. E che sotto il profilo economico e finanziario il pallino ce l’ha Banca Intesa, il maggior creditore di Zunino».

Questi altri potenziali acquirenti vi garantirebbero di più?

«Di certo non siamo indifferenti: per noi un compratore non vale l’altro».

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