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Stadio, la Fiorentina forza la mano

di Tommaso Galgani

La Fiorentina alza il tiro delle richieste e si complica la strada verso l’approvazione della nuova convenzione col Comune per gestire lo stadio Franchi. A questo punto, visto che l’attuale accordo scade tra nove giorni, si fa strada l’ipotesi di una proroga, che potrebbe scattare in automatico e durare per altri dodici mesi. Nel frattempo l’assessore allo sport di Palazzo Vecchio, Eugenio Giani, conferma l’intenzione di portare la convenzione all’approvazione della giunta del primo luglio, e di lì poi presentarla al consiglio comunale prima di fine luglio. Anche se ormai non si sa sotto quali forme il documento potrebbe giungere al vaglio dell’aula.

Ieri infatti sono stati rimessi in discussione diversi aspetti nel corso dell’atteso incontro tra la commissione cultura e sport, l’assessore Giani e i rappresentanti della società viola, l’ad Sandro Mencucci e il vicepresidente Mario Cognigni. I due hanno mostrato i muscoli. Intanto, sulla convenzione non vogliono sentir parlare di durata inferiore a 12 anni: «Investiamo 5 milioni per ammodernare il Franchi, abbiamo il diritto di ammortare l’investimento. E niente aumenti dell’affitto (750mila euro l’anno, ndr) se facessimo fruttare la nostra imprenditorialità nella gestione dell’impianto», hanno detto. Circa la gestione degli eventi extrasportivi, Mencucci e Cognigni rimettono invece in discussione la possibilità del Comune di organizzare due serate l’anno: «Per quelli sociali non c’è problema, siamo disponibili gratis, ma non comprendiamo il motivo per cui potremmo perdere la possibilità di gestire i concerti, visto che al massimo al Franchi se ne fanno 1-2 l’anno», hanno spiegato.

Ovviamente si è parlato anche del nuovo stadio, che costituisce un altro fronte complicato tra Comune e Fiorentina. Cognigni ha ribadito che la società presenterà un progetto a luglio. «Sarà uno stadio con strutture di fruizione per tutta la città e non soltanto per la Fiorentina», ha detto il vicepresidente. Che ha però ribadito anche di non voler inserire nella convenzione nessun riferimento a impegni della Fiorentina circa la costruzione di un nuovo impianto. E che sta al Comune individuare il luogo dove potrebbe essere realizzato. Ma la commissione ha ribaltato il discorso dela Fiorentina: «Prima ci presenti uno studio di fattibilità, poi sarà dato avvio alle procedure amministrative per l’individuazione dell’area».

«Castello potrebbe essere adatto, l’Osmannoro pare di dimensioni ridotte», ha dichiarato Mencucci. Sull’ipotesi Castello, che comporterebbe una riduzione del parco da 80 ettari programmato nell’area, nella maggioranza il Pd si ritrova isolato ad aprire all’ipotesi («ma andrebbero modificati gli attuali piani urbanistici sull’area», ha precisato il capogruppo Alberto Formigli): Sd, Pdci e Verdi pensano invece che «il parco non si tocca», mentre il Ps glissa dicendo che «in quell’area sono già in progetto numerosi interventi». Non solo. Perché ieri, sulla questione nuovo stadio, si sono palesate anche le prime perplessità bipartisan: «Siamo sicuri che rappresenti una priorità per la città?» si chiedono i consiglieri Paolo Amato di Forza Italia e Anna Soldani di Sd.

Nuovo stadio a parte, ad ogni modo, le divergenze tra amministrazione e Fiorentina riguardano anche altro. Resta infatti in ballo anche la questione dei Campini, per ristrutturare i quali la società viola ha pronti due milioni di euro. Giani le ha promesso l’autorizzazione a iniziare i lavori per il 30 giugno: le emergenti difficoltà nell’approvazione della convenzione sarebbero risolte dall’assesore tramite una delibera di giunta, per non deludere la parola data a Cesare Prandelli.

Infine, resta pendente il contenzioso tra Palazzo Vecchio e Fiorentina su circa 150mila di arretrati per lo sfruttamento della pubblicità, che secondo il Comune la società dovrebbe pagare. Ma anche qui Mencucci ha parlato chiaro: «Mi vengono le bolle a pensarci. La realtà è diversa, come dimostreranno i nostri legali ai giudici».

Giorgio Pizziolo: «Ma Castello è già sovraccarica»

di Osvaldo Sabato

«Il nuovo stadio a Castello? L’area è già talmente sovraccarica, che metterci ancora un’altra funzione a scapito di quel verde che è rimasto, mi sembra veramente problematico».

È il parere di Giorgio Pizziolo, docente di urbanistica all’università di Firenze. Palazzo Vecchio apre all’ipotesi di costruire il nuovo impianto in questa parte della città e ovviamente si scatena un dibattito tra gli esperti. I dubbi del professore Pizziolo prendono spunto dal progetto che hanno in mente i patron della Fiorentina: un contenitore polifunzionale, nel quale: oltre al campo di calcio e tribune, si prevede un contorno di negozi, ristoranti, spazi fitness, come nel resto d’Europa. Ma la domanda è sempre la solita: siamo così sicuri che Castello è il posto più adatto per realizzare tutto ciò? L’urbanista dell’ateneo fiorentina è convinto di no. «Probabilmente il nuovo stadio si tira dietro tante altre cose - spiega Pizziolo - e quindi alla fine mezza città si riverserà su Castello, perché non si parla solo di uno stadio, ma di un complesso urbanistico estremamente impegnativo». Il timore è che alla fine a pagare dazio sia sempre l’ambiente, in questa area già sottoposto ad una pressione costante «il rischio è di compromettere tutto definitivamente».

Quindi per l’urbanista lì lo stadio non va bene. A meno che, aggiunge Pizziolo, l’amministrazione non decida di eliminare parte delle volumetrie già previste per fare largo all stadio. «Forse potrebbe essere una sostituzione e non un’aggiunta» osserva Pizziolo «ma sarebbe estremamente problematico lo stesso». Ma la vera questione è un’altra: perché non si inizia a pensare sul serio in termini di area metropolitana? «Tenere tutto nei confini amministrativi di Firenze è ormai impossibile» dice Pizziolo. In quest’ottica si può anche pensare ad un nuovo stadio. E allora perché non allargare davvero l’orizzonte a tutto l’hinterland fiorentino? Per quello di Firenze si prendono come esempi gli stadi delle grandi città europee, ma viene tralasciato (volutamente?) il tema della loro collocazione, quasi sempre distanti decine di chilometri dalla città, con strade a più corsie per raggiungerli e un sistema di trasporti pubblici. Non si può dire la stessa cosa per Castello e Osmannoro 2000. «Iniziamo a pensare tutta l’area intorno a Firenze, fino a Prato» insiste Pizziolo. Una provocazione? «Tra le altra cose pensiamola anche in termini di riqualificazione ambientale, altrimenti la città non resiste». In questo senso l’area di Castello, per Pizziolo ha una «funzione ecologica di ricongiungimento delle colline all’Arno». Insomma in un dibattito più impegnativo il nuovo stadio dovrebbe essere letto come un tassello di un puzzle urbanistico più ampio.

«A me sembra che qui tirino a sorte per scegliere dove fare lo stadio - insiste Pizziolo - c’è la disponibilità del parco di Castello? Ecco lo vogliono fare lì, senza nessuna riflessione generale su tutta l’area metropolitana». «Basta riempire ogni casella di qualche cosa». Parola di Giorgio Pizziolo.

Firenze Se il giorno dopo le elezioni hanno vinto tutti, figuriamoci dopo un «referendum consultivo» fatto otto anni dopo le ripetute decisioni del consiglio comunale in materia. Se poi il popolo decide a larga maggioranza di non andare a votare, diventa ancora più complicata la traduzione politica della consultazione tutta fiorentina sulle linee 2 e 3 della futura tramvia. I numeri raccontano che solo il 39,4 dei residenti si è recato alle urne. Al primo turno delle elezioni comunali del 2004 - unico raffronto possibile - erano stati il 77%. Quasi il doppio. Una sorpresa la scarsa affluenza al referendum, nonostante sia diventato un tormentone nella piccola città? Piuttosto la dimostrazione che la consapevolezza dei singoli da queste parti non è ancora diventata merce rara. Invece la sorpresa arriva al momento di scrutinare le schede. Seppur di misura (51,9 contro 48,1% sulla linea 3, 53,8% contro 46,2% sulla linea 2 che sfiora piazza del Duomo) prevalgono i contrari al sistema tramviario. Un risultato che muove all'esultanza i referendari di centrodestra (in grande maggioranza), e anche quelli di sinistra all'interno dei Comitati dei cittadini. Un risultato che soprattutto, forse per la prima volta, segnala una battuta d'arresto della pur radicatissima macchina elettorale del centrosinistra fiorentino. Che complice il referendum si era di fatto ricompattato, almeno nei suoi stati maggiori. Una quasi obbligata necessità, su cui aveva puntato tutte le sue fiches il sindaco Leonardo Domenici. Scivolato invece su una buccia di banana quando era a un passo dal traguardo. Le pentole e i coperchi.

Va da sé che, come detto esplicitamente anche prima di domenica scorsa, nulla cambia sul fronte strategico della grande opera. Votata all'epoca (era il 1999) da una rappresentanza istituzionale di due terzi del consiglio comunale. Statuto alla mano, Domenici sul punto è esplicito: «Nel referendum non è stato raggiunto il quorum del 50% più uno degli aventi diritto. Inoltre a favore della revoca delle delibere si è espresso circa il 20% dei cittadini. E nessuna amministrazione può pensare di revocare gli atti perché il 20% dei cittadini si è espresso contro». Potrebbe cambiare parecchio invece sul versante della effettiva realizzazione delle linee 2 e 3 della tramvia. Un esempio: dalla Camera del lavoro il segretario Mauro Fuso oggi fa sapere: «La stragrande maggioranza dei cittadini non è contraria alla tramvia, ma in tanti sono contrariati da tempi e modalità dei lavori: ritardi, intoppi, disagi, cambi di progetto in corsia. Per questo fin da ora rilanciamo al Comune la proposta di inserire negli appalti per le prossime linee (appunto la 2 e la 3, ndr) la possibilità di contrattare le attività su più turni. Anche notturni dove possibile». In altre parole una piccola ma non trascurabile rivoluzione dei costumi cittadini. A patto che si sia la volontà politica, s'intende.

Sempre a norma di Statuto, la mancanza del quorum eviterebbe il consiglio comunale tematico sulla tramvia. Ma nel salone de'Dugento se ne discute ugualmente. Domenici interviene, assicura l'apertura di un «tavolo sulla mobilità per arrivare a un piano integrato metropolitano», e a seguire una «concertazione tecnica sulle modalità di realizzazione dell'opera con i soggetti interessati, operatori economici e residenti». Poi il sindaco se ne va. E non ascolta Ornella De Zordo di Unaltracittà, astensionista dichiarata che replica secca: «Da otto anni in città manca un piano urbano della mobilità (il precedente fu affossato da Domenici come primo atto del suo lungo mandato amministrativo, ndr), oggi si sente parlare di un piano integrato della mobilità. Complimenti».

Le posizioni della politica

nell’articolo di Massimo Vanni

"Tramvia, dibattito su falsità"

Domenici: "Referendum assurdo e sciagurato". Anzitutto, le mistificazioni: «Questo referendum ha già prodotto un danno, quello di un dibattito esaltato e, per responsabilità dei promotori, fondato su esagerazioni e falsità». Subito dopo gli alleati del leader dei contrari Mario Razzanelli. A cominciare da Paolo Blasi: «Ex rettori dicono cose senza né capo né coda, forse avrebbero fatto meglio ad occuparsi delle condizioni finanziarie in cui hanno lasciato l’università». E per finire, «i neofascisti che affiggono manifesti». Il sindaco Leonardo Domenici partecipa alla presentazione dello studio che annuncia un aumento dei prezzi immobiliari nei quartieri attraversati dalla tramvia e, a pochi giorni dal voto, sferra uno dei suoi attacchi più decisi contro il fronte degli anti-tramvia.

«Si parla molto di progetti alternativi che non esistono, ma si sta prendendo in giro la città», aggiunge il sindaco a proposito del micro-metrò rilanciato proprio in questi giorni dal capogruppo dell’Udc Razzanelli. E il fatto sorprendente, continua Domenici, è che nel referendum sulla Coop della Ex-Longinotti votato nel 1999, anche allora un referendum richiesto da Razzanelli, «c’era la stessa compagnia di giro e si discuteva degli stessi scenari apocalittici che puntualmente non si sono verificati».

Il sindaco chiede quindi di riportare il dibattito su dati oggettivi («Contrariamente a quanto viene detto, i binari che passano dal Duomo non sono quelli di Santa Maria Novella e saranno a raso»). E invita a votare «no contro questo assurdo e sciagurato referendum» e anche «no contro chi si oppone al cambiamento».

Se oggi i cantieri comportano comprensibili disagi, «alla fine i vantaggi ci saranno», sostiene il deputato Ermete Realacci, presidente onorario di Legambiente che ha collaborato alla ricerca sulle modifiche dei valori immobiliari post-tramvia condotta da Anco-Cresme Consulting. «L’arrivo di un mezzo di trasporto come la tramvia avrà un effetto di salvaguardia sul patrimonio urbanistico, con conseguente aumento dei prezzi», sostiene Realacci. I dati saltati fuori dallo studio?

Una volta che le tre linee di tramvia saranno realizzate, secondo Anci-Cresme, il valore totale del patrimonio immobiliare della città passerà da 56,40 miliardi a 58,15 miliardi di euro. Un guadagno netto per i privati proprietari di appartamenti, negozi e uffici di 1,75 miliardi. Un aumento che sarà significativo soprattutto nelle aree periferiche, i cui valori immobiliari si avvicineranno di 3-4 punti percentuali a quelli del centro. A Novoli, che sarà attraversata dalla linea 2 (quella diretta a Peretola), il prezzo degli alloggi, secondo lo studio, si rivaluterà di quasi il 5 per cento, mentre quello dei negozi quasi del 6 (gli uffici del 6,7). Mentre a Campo di Marte, l’aumento sarà più contenuto: circa l’1 per cento. A Gavinana gli alloggi lieviteranno del 3,8, i negozi del 4,4. In qualche caso l’aumento dei valori potrà sfiorare anche il 10 per cento.

Secondo lo studio, la tramvia sarà in grado di liberare pezzi di città dal traffico privato, con la conseguenza di abbattere del 30 per cento la produzione di anidride carbonica e di contrastare la proliferazione del numero dei veicoli privati.

Il promotore del referendum Razzanelli sostiene esattamente il contrario? Sostiene che lo spazio sottratto alle auto finirà per rendere più lento e difficile lo scorrimento del traffico privato con l’effetto di produrre più inquinamento atmosferico? «Questi tesi non tengono conto di un fatto, che l’arrivo del nuovo sistema di trasporto pubblico avrà un effetto sul numero di auto in circolazione, cioè che la tramvia dovrà comportare una diminuzione», sostiene il sindaco Domenici. Secondo le stime dell’Ataf, interviene anche l’assessore all’urbanistica Gianni Biagi, «circa il 35-40 per cento degli spostamenti effettuati nelle aree servite dalla tramvia passerà dal traffico privato alla tramvia». Del resto, aggiunge Biagi, la fluidità del traffico non è determinata solo dalla larghezza delle strade: «Basta vedere Porta al Prato, dove le corsie sono state ridotte da 8 a 4 senza penalizzazioni per il traffico».

Razzanelli punta il dito sull’«effetto cappio» dei binari in piazza della Libertà e sulle complicazioni del traffico? «La piazza sarà finalmente pedonalizzata, non sarà più uno spartitraffico ma una delle piazze importanti della città», risponde l’assessore Biagi

Le ragioni dei Comitati nell’intervento di

Alberto Asor Rosa

Blocchiamo tutto e ripensiamo il progetto

Siamo risolutamente a favore del mezzo di trasporto pubblico. E nel mezzo di trasporto pubblico privilegiamo risolutamente quello su rotaia. Sempre? E dovunque?

Gli esempi estremi servono a far capire le cose semplici.

Poniamo che il progetto preveda il transito della tramvia fra il Duomo e il Battistero. Ah, no: quello non si potrebbe fare, sarebbe lesivo per l’ambiente urbano e pericoloso per i monumenti. E invece il farlo passare a qualche metro di distanza dall’uno e dall’altro, quello sì, non sarebbe nè lesivo nè pericoloso, anzi sarebbe un bene trionfale per la città e il suo prestigio?

Di equivoci, contraddizioni e goffaggini di tale natura è piena l’affannosa difesa che l’amministrazione comunale di Firenze fa del megaprogetto tramviario in vista del voto referendario del 17 febbraio.

La questione - grave, anzi gravissima, al di là dei suoi contenuti specifici - presenta due aspetti, uno di sostanza, l’altro di metodo (questo secondo forse più importante del primo, visto che lo determina).

La sostanza riguarda un po’ tutto: i percorsi, la dimensione delle carrozze, l’attuale indefinibilità e provvisorietà dei progetti (si «naviga a vista», senza uno studio d’impatto ambientale: sfido il Comune a dimostrare il contrario), l’abbattimento indiscriminato di centinaia di alberi d’alto fusto, la destinazione finale delle enormi somme stanziate (e da stanziare), il mutamento in aeternum delle caratteristiche storiche millenarie del centro storico di Firenze, ecc. ecc.

Il metodo riguarda comportamenti e abitudini del ceto politico cittadino (non farei tanta differenza fra maggioranza e opposizione) in un caso di tanta rilevanza. Il Coordinamento dei comitati cittadini di Firenze, che aderiscono alla Rete toscana (che io immeritatamente presiedo) non ha chiesto né di fermare lo sviluppo del trasporto pubblico a Firenze né di escludere da questo la tramvia.

Ha chiesto che, in presenza di un accumulo così rilevante di problemi e interrogativi, si tornasse a pensare progetti, percorsi, dimensioni e finanziamenti, secondo l’elenco più o meno in precedenza stilato.

La risposta è stata, come si suol dire, un silenzio assordante o, peggio, la ripetizione magnetofonica di alcuni slogans propagandistici.

Votare sì al referendum del 17 febbraio significa dunque due cose, una più importante dell’altra; innanzi tutto, bloccare il progetto della tramvia così come ora è; in secondo luogo, dimostrare che la democrazia rappresentativa non prevede un regime di delega, in cui gli eletti, per essere stati eletti, fanno quel che vogliono. Si chiede, in fondo, solo la possibilità di riaprire un percorso.

P.S. Ci rimproverano perché diciamo le stesse cose che dice Vittorio Sgarbi (o perché Vittorio Sgarbi dice le stesse coso che diciamo noi). Ma non ci faccino ridere, sentenziava un famoso pensatore italiano del Novecento in casi del genere. I giornali sono pieni tutti i giorni di dotti e autorevoli commenti, che ci anticipano come dopo il voto del 18 aprile sia possibile, anzi auspicabile, un incontro costituente fra i due maggiori partiti italiani, il PD e il PDL (si chiamano così?), e noi dovremmo vergognarci di pensarla come Sgarbi?

Postilla

È sempre triste contestare un tram; è una scelta grave, come l’aborto. Eppure, come l’aborto qualche volta è necessario. Il guaio del tram di Firenze è che è stato progettato in modo disastroso, e non è mai stato valutato e discusso con l’attenzione che un intervento così importante meriterebbe. È ancora possibile farlo, ed è questo che chiedono i promotori del referendum, e quanti voteranno SI alla moratoria. Ma perché mai in Italia le buone idee (il tram, ad esempio) vengano eseguite in modo sciaguratamente approssimativo, grossolano, settoriale? Un’attrezzatura come quella avrebbe richiesto una riprogettazione dell’intera sede stradale, “da muro a muro”; un’attenzione ai contesti, alle preesistenze, alle sistemazioni del traffico nelle strade circostanti.

Le parole ragionevoli del presidente della "Rete toscana dei comitati per la difesa del territorio" chiariscono le ragioni dei critici dell’attuale progetto. Quelle del sindaco rivelano una volta ancora come in Toscana accada ci detiene il potere preferisca spesso gli anatemi alle risposte di merito alle questioni sollevate.

La Rete Toscana nella sua completezza, costituita da oltre 170 Comitati e Associazioni, esprime la propria adesione all’appello a sostegno del si al referendum, redatto dai Comitati fiorentini e da Italia Nostra, e sottoscritto anche da numerose personalità del mondo della cultura, dell’università e dell’associazionismo che notoriamente non sono riconducibili allo schieramento politico del centro-destra, ritenendo che i motivi che hanno portato all’esercizio dello strumento referendario, superino di gran lunga, allo stato attuale dei fatti, la valenza degli schieramenti politici di parte di chi lo ha promosso e che i sostenitori del NO al referendum tentano ancora, propagandisticamente, di far passare contrapposti agli interessi della Cittadinanza.

La Rete, ritiene infatti che lo strumento referendario, come è nella sua natura, rappresenti attualmente, per la cittadinanza tutta, l’ultima speranza per cercare di far breccia nell’arroccamento, quasi sempre arrogante e mistificatore, espresso dalla committenza, e dall’Amministrazione Comunale, nel non voler procedere a nessuna sostanziale revisione tecnica del progetto, neppure per le linee 2 e 3, non ancora cantierizzate, come i Comitati richiedono in nome di una gran massa di Cittadini che hanno manifestato in più occasioni contro le conseguenze distruttive, immediate e future, che un progetto mai definito nei particolari, come quello attuale, possa arrecare irreparabilmente a vastissime zone della città.

La Rete Toscana sostiene ovviamente lo sviluppo del trasporto pubblico e quindi non è assolutamente contro la tramvia: ma contro questa tramvia, che ha evidenziato nel progetto i suoi limiti di condivisione con la Cittadinanza, anche a causa di un percorso decisionale non adeguatamente trasparente che ha visto prevalere i toni propagandistici, alle ragioni di fatto. Ragioni che dovevano partire da un ben definito piano di mobilità dell’area vasta, se non provinciale, la cui mancanza è aggravata dal non aver mai definito neppure un piano di collocazione delle attività pubbliche, produttive e terziarie, determinandone invece una spontanea dispersione su tutta l’area metropolitana e dei comuni limitrofi, anche di seconda cintura, che rende di fatto impossibile dare risposte di mobilità adeguate, con qualunque mezzo pubblico, che non sia il proprio ciclomotore.

Ciò premesso, questa tramvia non costituisce neppure un’occasione di riqualificazione degli spazi urbani, come normalmente è accaduto in altre realtà europee, ma semmai ne riduce la fruizione peggiorando, nella maggior parte dei casi, gli attuali standard di vita dei cittadini e delle attività che si svolgono a margine dei percorsi della tramvia.

Firenze 8 Febbraio 2008

Due sì alla moratoria per le linee 2 e 3 della tramvia

Italia Nostra, Associazione piazza della Vittoria, Associazione Linea 3, Coordinamento dei comitati dei cittadini dell’area fiorentina

A Firenze dal 2004 è stata avviata la costruzione di una linea tranviaria, la Linea 1, che collegherà la Stazione di S.M. Novella con Scandicci. La linea 2 – per l’Aeroporto - e la Linea 3 – per Careggi - sono in via di progettazione definitiva e se ne sono già avviati i lavori preliminari.

Con il Referendum consultivo indetto per il 17 febbraio dovremo dire sì o no alla sospensione delle linee 2 e 3. Lo scopo è quello di avviare un ripensamento complessivo sia del sistema tranviario che del trasporto pubblico a Firenze.

Questa Amministrazione comunale non ha mai attuato un vero confronto con i cittadini sull’opportunità o meno di costruire una tramvia, non ne ha mai discusso i tracciati e non ha mai cercato di affrontare e risolvere i disagi e i problemi prodotti da un’opera del genere.

L’assenza del confronto con la città genera mostri: infatti è possibile verificare che le sistemazioni preliminari già realizzate sono di una desolante modestia progettuale e di un devastante impatto territoriale e ambientale. A monte di qualsiasi progetto esistono invece dei vincoli inevitabili di natura ambientale, storico-artistica, urbanistica che qui non sono stati preventivamente individuati o “considerati”. Una volta che i problemi, i gravi danni al centro storico e al verde consolidato emergeranno non ci sarà più alcuna possibilità di recupero con soluzioni alternative valide.

Questo modo di procedere ha acutizzato il conflitto con una parte rilevante della cittadinanza. I nostri amministratori hanno trasformato il confronto sui fatti, da noi più volte sollecitato, in rissa ideologica che favorisce la logica degli schieramenti (destra o sinistra?) e impedisce qualsiasi sereno e serio confronto.

Gli amministratori ingenuamente attribuiscono alla sola presenza del tram il potere miracoloso di ridurre il traffico privato su gomma, senza effettuare alcuna verifica del progetto e senza affrontare il problema della mobilità nel suo complesso.

Ribadiamo: la forte politicizzazione che ha assunto il dibattito rischia di impedire la conoscenza ed una seria discussione dei progetti.

Per tutto ciò, pur non avendo promosso noi il Referendum, partecipiamo alla campagna referendaria a favore del sì considerandola comunque un’importante occasione data ai cittadini per esprimersi.

Noi siamo per il completamento della Linea 1 e per una moratoria delle Linee 2 e 3 in modo da ripensare tutto il sistema del trasporto pubblico.

A Firenze la congestione cronica da traffico è aggravata da un’alta domanda di mobilità, ben al di là della dimensione della città, sia per la presenza di un turismo globale invasivo e poco governato, sia per un’espansione edilizia incontrollata che ha disseminato abitanti e attività a grande distanza tra loro.

Noi sosteniamo il potenziamento del trasporto pubblico, ma siamo anche per la riduzione del bisogno di mobilità indotto dalla speculazione immobiliare che sta svuotando la città e condannando i suoi ex cittadini ad una vita da pendolari.

Per creare vere alternative al mezzo privato però bisogna rinunciare all’idea che esista un rimedio unico ed evitare infatuazioni o demonizzazioni per questa o quella soluzione. Non c’è esempio europeo che valga se non si parte da un’approfondita conoscenza delle esigenze della propria città.

La nostra opposizione non è alla tramvia in sé ma a questo progetto che riteniamo sbagliato, oneroso e imposto alla citta’.

Ecco 10 ragioni per rimettere in discussione le linee 2 e 3

- il sistema tranviario che si vuole realizzare è costituito da tracciati concepiti 15 anni fa per una metropolitana. è un trasporto di superficie pesante, rigido, inadeguato per la città di firenze.

- il progetto è limitato allo spazio adiacente ai binari senza riqualificare lo spazio pubblico circostante. mancano interventi contestuali sul sistema della circolazione, sul sistema della sosta e sulla rete di autolinee.

- ad opera finita avremo tre linee radiali imperniate sul nodo S.M. Novella – Fortezza che aumenteranno la congestione dell’area centrale, senza soddisfare i collegamenti con importanti funzioni metropolitane e i collegamenti intercomunali diretti (attraversamento di Firenze).

- stiamo verificando che ovunque passi questa tramvia gli alberi, anche adulti, vengono abbattuti. Il patrimonio arboreo esistente deve essere un’invariante di progetto, non la prima cosa da eliminare. Il prolungamento fino al Meyer produrrà l’ ulteriore taglio di un centinaio di alberi.

- l’abbattimento degli alberi, anche di quelli difesi da vincolo di legge, e i numerosi sottopassi, compromettono l’impianto storico del Poggi e i suoi prolungamenti moderni.

- il paesaggio urbano di Firenze ne uscirà stravolto, come già avvenuto nella zona di Porta al prato e delle Cascine.

- il tram “Sirio” di 32 m. è fuori scala per la città storica. L’impatto sarà dato sia dalla linea aerea (4 km. di fili e centinaia di pali) sia dall’ingombro e dalla frequenza dei convogli. La posa dei binari, costosa e con spesse fondazioni, è da considerarsi irreversibile per il centro storico di Firenze, patrimonio dell’Unesco.

- il tratto della Linea 2 che transita dal Duomo è dannoso anche perché finisce in modo irragionevole in piazza della Libertà dove metterà in crisi un nodo delicatissimo della viabilità cittadina, compromettendo una delle piazze più significative del Poggi.

- la diminuzione dell’inquinamento e del traffico automobilistico, che comunque alla fine non supererà l’8-10%, avverrà solo se e quando tutto il sistema della mobilità funzionerà.

- è da considerare che gli abitanti della zona Cure, dei quartieri a sud e a est non saranno serviti dalla tramvia.

la costruzione della Linea 1 con i costi raddoppiati e con ben 63 varianti dimostra che i progetti vengono elaborati in modo sommario. Questa “navigazione a vista” elevata a sistema è inaccettabile, è priva di qualsiasi studio di impatto ambientale e tale da vanificare ogni criterio di trasparenza

- l’aver affidato ad un “project financing” la delicata progettazione delle linee 2 e 3 significa addossarne il debito alla collettività, che dovrà compensare il mancato incasso alla società di gestione.

ed ecco alcune proposte alternative

- elaborare un Piano organico della mobilità di tutta l’area, anche mettendo in discussione scelte urbanistiche centralizzatrici ed invasive recentemente riconfermate dagli strumenti di pianificazione adottati

- mettere in atto una migliore utilizzazione dell’infrastruttura stradale e una razionalizzazione dei sistemi e dei servizi esistenti a scala metropolitana, da definirsi prima e non dopo la costruzione della tramvia.

- liberare il centro storico dal traffico fin da subito, limitando al massimo il suo attraversamento da parte delle linee di autobus e rinnovando profondamente il sistema di Trasporto Pubblico Locale.

- Pretendiamo il rispetto della ztl.

- prevedere il potenziamento di servizi di bus ecologici per il centro con penetrazione a staffa.

- attuare contemporaneamente tutte le misure utili al rafforzamento della mobilità elementare, in particolare di quella ciclabile, individuando una rete di aree e di corridoi ciclopedonali protetti

- verificare la necessità delle linee 2 e 3 valutando ipotesi diverse di collegamento metropolitano, basandosi sull’esteso sistema ferroviario in parte inutilizzato (si pensi solo al tratto Cascine - Leopolda), eventualmente completato da rami tranviari o utilizzando altri mezzi o infrastrutture adatte alle caratteristiche della città.

- aprire il confronto con la cittadinanza su progetti di tramvia, anche alternativi tra loro, fatti conoscere in modo semplice e comprensibile.

Anche la tramvia, da mezzo di trasporto pubblico, può trasformarsi in strumento di declino ulteriore.

La parola d’ordine di chi sostiene questo progetto, “cambiare o declinare”, la facciamo nostra: cominciamo a cambiare il progetto di tramvia, le sue modalità di costruzione e di finanziamento.

Nel XXI secolo modernità vuol dire rispetto dell’ambiente e qualità della vita

votiamo sì per fermare le linee 2 e 3!

votiamo sì per garantirsi le scelte, per garantirsi il futuro, per una vera partecipazione!

Primi sottoscrittori.Prof. Leonardo Rombai, Prof. Giorgio Pizziolo, Prof. Mariella Zoppi, Maria Rita Signorini, Arch. Luciano Ghinoi, Maria Rita Monaco, Arch. Paolo Celebre, Prof. Mario Bencivenni,Dott. Domenico de Martino, Tiziano Cardosi, Prof. Luigi Zangheri, Prof. Mauro Cozzi, Arch. Gabriella Carapelli, Arch. Rinaldo HoffmannRomano Romoli(Casa dei Tessuti, via dei Pecori), Prof. Marco Dezzi Bardeschi, Dott. Lara Vinca Masini, Prof. Rosetta Raggianti Prof. Carlo Carbone, Prof. Francesco Pardi

Postilla

L’intenzione dell’appello non è quella di rinunciare al tram, ma di ottenere un progetto decente, quindi ben diverso da quello approvato dal Comune. Forse sarebbe stato più efficace chiedere sostanziali miglioramenti del progetto anziché chiedere la moratoria, cioè la sospensione sine die dei lavori. Ma ciò avrebbe richiesto un dialogo con l’amministrazione, che non sembra esserci stato. Finché l’atteggiamento di chi governa è “prendere o lasciare”, ci sono poche speranze per una migliore democrazia e una migliore città

Palazzo Vecchio dichiara guerra alla rendita immobiliare. Lo fa con «l’avviso pubblico», il nuovo strumento urbanistico col quale progetta di sovvertire le regole edilizie fino ad oggi in uso. Durante il convegno organizzato ieri dalla commissione territorio guidata da Antongiulio Barbaro, l’assessore all’urbanistica Gianni Biagi ha annunciato che il Piano strutturale pronto a primavera conterrà proprio l’«avviso pubblico», lo strumento col quale il Comune si rivolgerà ai privati aprendo una sorta di concorso sulle opere che intende realizzare: una gara dove peserà più la qualità dei progetti che la semplice proprietà dei terreni. Una rivoluzione concettuale dell’edilizia privata che proprio a Firenze, dice l’assessore, troverà la prima sperimentazione significativa.

«L’avviso pubblico è un’idea della Regione che siamo lieti di sperimentare nella nostra città. E non a caso: finora in Italia era stato applicato solo in piccoli Comuni ma la Toscana e Firenze si confermano all’avanguardia nel dibattito urbanistico», sostiene l’assessore comunale. Mettendo fine (almeno in parte), oltretutto, alle divergenze e anche alle polemiche saltate fuori qualche settimana fa proprio sui contenuti del Piano strutturale tra il Comune e Riccardo Conti, l’assessore regionale all’urbanistica primo paladino del ricorso all’«avviso pubblico» tanto da introdurlo nel Pit, il Piano d’indirizzo territoriale che la Regione approverà in via definitiva prima dell’estate.

Come funzionerà «l’avviso»? Oggi il proprietario di un terreno che vuole costruire 100 appartamenti presenta un progetto e preme il Comune per ottenere poi la concessione. Domani tutto cambia: nel Piano strutturale il Comune dice quali opere considera prioritarie ma non dove devono essere fatte (il Piano strutturale non è più un Piano regolatore). E lancia quindi l’«avviso»: ci sono imprenditori interessati a realizzare l’idea del Comune? Il proprietario dei terreni e il costruttore devono mettersi insieme per confezionare un progetto convincente. E il Comune sceglie, tra quelli pervenuti, il progetto che più comporta vantaggi per il pubblico.

Solo a questo punto, non prima, interviene il regolamento urbanistico a dire dove deve essere realizzata l’opera. E solo a questo punto sarà chiaro quali saranno i terreni edificabili. Prima del regolamento urbanistico la rendita immobiliare non può dunque salire e dopo il Comune avrà già scelto. Da notare che il regolamento avrà una durata di soli 5 anni (nel senso che dopo decade tutto).

Quali operazioni potranno essere fatte con l’«avviso»? Secondo Conti e Biagi, «praticamente tutte»: il recupero dell’ex panificio militare di via Mariti o anche l’albergo nella ex Fiat di viale Belfiore, che ha sollevato tante polemiche dopo l’abbandono dell’architetto Jean Nouvel. Prima di tutto però il Comune dovrà decidere il pacchetto delle opere da farsi con urgenza.

«Lo faremo cominciando dal Piano strutturale - dice Biagi - il sistema dell’"avviso" consente al Comune di massimizzare i profitti e consente anche la massima trasparenza nelle procedure». Ma consente anche, aggiunge Conti, di favorire la concorrenza tra privati: «Una concorrenza sui progetti, sulla qualità, più che sulla proprietà». Senza contare che, interviene anche il capogruppo dei Ds Alberto Formigli, definire il pacchetto delle priorità pubbliche è come «assegnare quote di edificabilità». Mille miglia lontano dalla logica dei vecchi piani regolatori che stabilivano sulla carta quali erano i terreni edificabili aumentandone d’un botto il valore.

Postilla

Già a Milano si era proposta, e praticata, la soluzione di lasciar decidere alla proprietà immobiliare che cosa costruire e dove, sulla base delle “strategie”, molto generali e generiche, dell’amministrazione. La proposta era stata ripresa e perfezionata e generalizzata dalla "legge Lupi" (per fortuna sconfitta).

Adesso anche a Firenze si vuole fare così: la “strategia” la fa il piano strutturale, e il regolamento urbanistico (cioè il vero PRG, quello che dice dove si costruisce e che cosa e quanto) viene redatto dopo e sulla base delle proposte degli “imprenditori”, cioè il tandem costruttori-proprietari. Insomma, chi decide è la rendita.

Poi dicono (e il giornalista ci crede) che così combattono la rendita e la vincono. Dicono di aver vinto, e non sanno che si sono arresi.

Sono state molte le iniziative per ricordare la disastrosa alluvione di quarant’anni fa. Iniziative importanti che culmineranno, penso, nell’incontro in difesa dell’ambiente e degli ecosistemi urbani (domani in Palazzo Vecchio) nel corso del quale sarà solennemente firmato l’appello delle città di Firenze, New Orleans, Dresda, Budapest e Venezia, per la salvaguardia del pianeta e dei patrimoni culturali.

Forse, però, è mancato un ricordo importante: l’inascoltata proposta, che Giovanni Michelucci lanciò all’indomani della catastrofe, di ripartire dalla ricostruzione del quartiere di Santa Croce, uno dei più devastati, per risanare una parte importante del centro storico e riproporre così un’idea di città «aperta», non più costruita per parti separate e ghettizzanti. L’idea - già proposta all’indomani della distruzione di Borgo San Jacopo ad opera dei nazisti in fuga - era quella di un uso popolare degli spazi, le cui parti potevano essere collegate da «percorsi».

Un’idea semplice, che riproponiamo con le parole del Grande Vecchio dell’Architettura, tratte dalla conversazione raccolta nel libro Abitare la natura, edito da Ponte alle Grazie nel 1991. «Proponevo qualcosa di più di un semplice pensiero architettonico - spiegava Michelucci - Era una nuova Firenze, quella a cui pensavo. Non più separata in due parti da un fiume ostile, ma unita da un percorso che, per orti e giardini, da Boboli per San Frediano, attraverso l’Arno arrivasse all’orto di Santa Croce, nel cuore del quartiere, riscoprendo quel verde che, come ho sempre sostenuto, non si può “mettere” nella città: ne fa già parte. Pensavo di affrontare la rinascita di quel quartiere da sempre segnato dall’emarginazione, cercando oltre la sopravvivenza, anche gli elementi dinamici della storia. L’alluvione, per esempio, aveva messo in evidenza come i viali del Poggi non fossero solo un anello utilissimo di scorrimento fra la vecchia e la nuova città, ma anche un elemento di sviluppo il quale, organizzando lo spazio fra le Murate e San Salvi, avrebbe fatto assumere a Santa Croce la funzione di collegamento e di avamposto della memoria storica al di là dei viali. Altro che sopravvivenza! Era nuova una vita per il quartiere e l’intero centro storico. Era la fine della separatezza fra l'antico quartiere e la parte ottocentesca della città. Ma così non fu - concludeva amaramente Giovanni Michelucci - C’è stata un’ostilità nei miei confronti che non ho mai capito. Forse perché andavo capovolgendo la città e con essa alcuni interessi costituiti».

Probabilmente come quelli che ancora oggi sembrano dominare Firenze, ormai senza un’idea di città.

Per questo, forse, è imbarazzante ricordare il Grande Vecchio dell’Architettuta scomparso alla vigilia del suo centesimo compleanno.

Lo «scandalo» urbanistico di Firenze era prevedibile: troppe le scelte discutibili negli ultimi tempi. Il nuovo strumento urbanistico, il Piano strutturale, e diversi grandi progetti (ipermercati, aree commerciali, poli turistico residenziali, infrastrutture) non solo non rispondono alle domande sociali e ambientali della città, ma appesantiscono i problemi sul campo; come gli urbanisti della locale Università hanno illustrato nella rivista del dipartimento, Contesti. L’ex assessore comunale al ramo, tra i primi dimissionari all’esplodere dell’inchiesta, qualche mese fa apostrofava impudentemente tutto ciò come «bischerate! ». Si è anche formulata una teoria ad hoc, distorta, dello sviluppo fiorentino per giustificare una serie di macrostrutture per lo più turistico terziarie e, per l’alta velocità, il megatunnel e la grande stazione.

A fronte di un passaggio assai difficile e problematico per il sistema economico-finanziario internazionale appare, infatti, inspiegabile - secondo criteri di accettabile razionalità tecnica, programmatica e sociale - la «febbre veteromodernista» che sembra aver «investito i sistemi decisionali regionali e comunali, toscano e fiorentino».

Le ultime vicende dimostrano che questa è una pericolosa illusione, oltre che uno strumento per accentuare l'ingovernabilità del sistema socio-economico e per favorirne il crescente controllo da parte delle grandi lobby finanziarie e speculative. In questa logica si inquadra la necessità di puntare sul turismo «a alta intensità di consumo» e sulle opere pubbliche(!) per rispondere alla crisi del secondario e del terziario - settori portanti dell'economia regionale e metropolitana nel recente passato. Tale modello si istituzionalizza e informa addirittura i diversi strumenti di programmazione - tra cui il Pit e la Pianificazione locale, strutturale e strategica - e appare sbagliato. Specie per una realtà come quella toscana e fiorentina in cui - nell'era della sostenibilità e dell'high tech - sembra logico che si debba puntare sulle peculiarità esistenti - arte e scienza, storia e cultura, turismo ecosociale e paesaggio - per prospettare un'economia sostenibile e una società vivibile.

La proiezione spaziale dell'aporia economica rappresentata dal modello «Rimini più Gioia Tauro» - turismo di consumo e opere pubbliche - proposto per città e regione, comporta grande consumo di suolo e alto impatto ambientale, con intasamenti per comparti urbani già congestionati. Le «grandi opere», impattanti quanto avulse dal tessuto urbanistico, rappresentate emblematicamente anche dal sottoattraversamento, trascinano una serie di trasformazioni di aree, soprattutto ex ferroviarie e prossime alla linea (così «valorizzate»): contenitori che ampliano cementificazione e volumi edificati, inducendo degrado ulteriore nell'assetto territoriale, paesaggistico e ambientale dell'area metropolitana. Laddove servirebbero reti di verde e sostenibilità, per legare strutture culturali, artistiche a luoghi «cospicui» della città e avviare la ricomposizione del paesaggio urbano nonché la riqualificazione urbanistica dell'assetto.

Il suggello di queste tendenze critiche è rappresentato dalla proposta di nuova variante al piano strutturale per cancellare il parco di Castello, un'area di cerniera e di riequilibrio ambientale, strategica per le relazioni tra la città e il suo hinterland e per ridare «senso estetico e funzionale» all'espansione diffusa verso Sesto e dintorni.

Gli attuali problemi amministrativi possono fornire l'occasione per una svolta, a patto che essa muova dall'abbandono di scelte che sembrano dettate da una logica opposta a quella della corretta programmazione e appaiono spiegabili solo da esigenze evidentemente estranee alla buona gestione della cosa pubblica. La bonifica urbanistica può prospettare un orizzonte politico di nuovo attento ai bisogni della città.

FIRENZE - Lo stadio al posto del parco. Dalle carte dell’inchiesta sull’area Castello di proprietà di Salvatore Ligresti, che vede indagati oltre al costruttore due assessori della giunta di Firenze, salta fuori ora una "trattativa segreta" attorno alla collocazione del nuovo stadio che Diego Della Valle sogna di costruire per la sua Fiorentina. Il 26 giugno scorso il sindaco Leonardo Domenici parla al telefono da Roma con il suo assessore all’Urbanistica Gianni Biagi, ora indagato insieme al collega di giunta Graziano Cioni. Dice di stare «andando ad un pranzo riservato con Ligresti e Della Valle» e chiede a Biagi (che nel frattempo ha dato le dimissioni) informazioni sulla convenzione firmata dal Comune per Castello.

Una convenzione del 2005 che prevede che accanto alla realizzazione di 1 milione e 400 mila metri cubi di edifici pubblici e privati vengano sistemati a parco 80 ettari di terreno da Fondiaria Sai. Il documento esclude che si possa fare uno stadio in quella zona ma Domenici sembra intenzionato a cambiare gli accordi. Racconta Biagi in un’altra intercettazione riferendosi a Castello: «... Ti posso dire con certezza che Della Valle e Ligresti si sono incontrati più volte prima dell’estate... che... Leonardo e io abbiamo incontrato Della Valle il 2 o il 3 di agosto... dove ci ha fatto vedere questo progetto».

Agli occhi della città però il bozzetto disegnato da Massimiliano Fuksas appare all’improvviso il 19 settembre, quando i fratelli Della Valle lo presentano in una sala affrescata del Four Seasons dove sono invitati tutti i politici e gli amministratori fiorentini. Un’offerta "prendere o lasciare", spiega Della Valle, facendo capire alla sua selezionata platea quanto sia importante per Firenze cogliere al volo un’occasione di sviluppo che prevede oltre allo stadio negozi, alberghi, una disneyland del calcio e vari impianti sportivi. Ad ascoltarlo c’è anche il sindaco. Che subito dopo l’incontro, come si legge in un’altra intercettazione con Biagi, va da Diego: «... senti... non lo sa nessuno... ma vado un momento a chiacchierare con Della Valle... gli dico anche questa cosa qui.. che noi allora entro il 30 settembre facciamo questa roba...». Biagi: «va bene». Domenici: «cioè praticamente noi facciamo un...». Biagi: «un emendamento». E infatti l’emendamento al Piano strutturale viene elaborato. Rimaneggiando il testo al telefono, sempre con Biagi, Domenici chiarisce che non intende fare un favore a Della Valle concedendo lo stadio: «...oh! spero che tutti capiscano che il sindaco vuole toccare il parco! cioè vorrei che su questo non ci fossero dubbi.. io voglio toccare il parco... e non perché io voglio dare ragione a Della Valle.. ma perché quel parco mi fa cagare da sempre... è chiaro?». Le cose però non vanno in questo modo. Due giorni fa in una tesissima seduta del consiglio comunale lo stadio scompare di nuovo dal piano urbanistico di Firenze. La maggioranza si spacca e il Pd rimane solo a difendere l’emendamento del sindaco: l’ala sinistra vota insieme a Forza Italia, An e Udc per chiedere che restino gli 80 ettari di parco. Uno smacco vissuto male da un Pd già duramente scosso dall’inchiesta che vede indagato uno dei quattro candidati alle primarie per il sindaco, lo sceriffo Cioni, l’assessore conosciuto in Italia per l’ordinanza contro i lavavetri. Inutili finora tutti i tentativi dei vertici del partito per convincerlo a fare un passo indietro, almeno dalla corsa elettorale. «Io sono innocente e non scappo dall’accusa infamante di corruzione», spiega Cioni. A dare le dimissioni per effetto delle intercettazioni, invece, è il direttore della Nazione Francesco Carrassi: parlava al telefono con l’uomo forte di Fondiaria Sai, Fausto Rapisarda, anche lui indagato. Dalle conversazioni sembrano emergere scambi di favori.

Postilla

Magari scoprissero che si è trattato solo di “scambio di favori”, ovvero di “normale” corruzione. Temiamo invece che si tratti di una diffusa mutazione antropologica di cui almeno quei politici e amministratori sono colpiti, grazie alla quale chi governa non sa in nome di che cosa governa e a chi deve rispondere. Se è così, vadano via tutti.

L'architetta Gaia Remiddi, che sul defunto velodromo di Roma ha scritto un libro, ancora quasi non si rassegna e la butta lì: «Se volessero ricostruire il velodromo io ho tutti i dettagli. Pezzo dopo pezzo. Tutte le misure. La Sovrintendenza lo sa», dice. Ma è davvero troppo tardi, ragionevolmente. Come voluto dall'allora giunta Veltroni, il complesso architettonico hi-tech che andrà a rimpiazzare la famosa pista di ciclismo progettata dall'architetto Cesare Ligini ha ormai il suo progetto definitivo. A disegnarlo alcuni architetti e ingegneri italiani rappresentati dall'A.T.I., raggruppamento temporaneo di imprese, che hanno vinto un mese fa il bando di gara per realizzare il grandioso e lussuoso - e privato - centro dell'acqua e del benessere che riprodurrà esattamente, nella forma, quella ellissi perfetta scavata nella terra che era il famoso velodromo dell'Eur che ospitò i Giochi del '60, struttura in legno unica al mondo, così bella che una schiera di esperti - e pure, con un decreto di vincolo, la Sovrintendenza - non esitarono a definire monumento e a sollecitarne il restauro, invano.

La struttura olimpica il 24 luglio dello scorso anno, è implosa sotto le cariche di tritolo, che hanno seppellito speranze e diatribe culturali ma non il veleno dei sospetti, tant'è che su quella demolizione la Procura di Roma ha aperto un'inchiesta. Oggi si sa che quell'indagine potrebbe finire in un'archiviazione, mentre su presunte irregolarità amministrative potrebbe pronunciarsi soltanto il Tar. E' dunque forse questa l'ultima battaglia che resta ai cittadini che da sempre si dicono contro il nuovo complesso e per questo si sono costituiti in un comitato. Perché il progetto di ricostruzione dell'antica ellissi, che era e resterà grande 19.000 metri quadri ma sarà coperta, quasi totalmente - c'è una parte del tetto che si aprirà d'estate - da una volta autoreggente fatta di una rete di acciaio e vetro dalla forma evocativa di una goccia, che cadendo idealmente dal cielo si trasforma in piscine e fontane, porta con sé una delle ultime, e più spettacolari, varianti al piano regolatore di Roma, ovvero lo stravolgimento di tutta l'area circostante fino a oggi occupata da verde pubblico.

Escludendo l'impianto, parliamo di 44.500 metri quadri totali di superficie, che saranno riempiti da un albergo (6500 mq), da un centro di diagnostica e di riabilitazione (5000 mq), da uffici di gestione (500 mq), da un'area commerciale comprensiva di bar, ristoranti e negozi vari (4500 mq), da un'area destinata a servizi privati (2500 mq), da altri 21.000 metri quadri di palazzi che diventeranno uffici e, dulcis in fundo, da una piazza pubblica leggermente inclinata, in continuità architettonica con l'ellissi, più altri 5.500 mq in totale riservati a servizi pubblici, cioè un asilo nido, una scuola media, una ludoteca, uno spazio multimediale e pure un parco giochi, una pista ciclabile e percorsi per la pratica del fitness all'aperto.

Quanto al verde esistente, che diventerà meno della metà di quello attuale, dovrà essere «riqualificato», ovvero in parte smembrato e reimpiantato. Si salverà di certo il triplo filare di pini oggi esistente, che diventerà il viale di accesso pedonale. Saranno realizzati, inoltre, 61.740 metri quadri di parcheggi. Sono numeri che preoccupano i residenti di questa zona dell'Eur, già congestionata per via di un mastodontico centro commerciale che sorge a 500 metri di distanza.

La storia del defunto velodromo di Roma è una storia di malagestione e degrado. Quella del progetto di «riconversione» dell'impianto una storia di scambi e grandi affari. L'inizio della fine è l'anno 1968, l'ultima volta che il velodromo viene utilizzato per competizioni sportive, i mondiali di ciclismo. Dopo di allora il Coni, che aveva in gestione la struttura, vi effettua lavori di manutenzione, che tuttavia non ne ripristinano la funzionalità, parzialmente danneggiata (in particolare le gradinate di cemento, che seguivano l'andamento curvilineo grazie un pregevole studio dinamico) dai dissesti geologici. Così, dal '68 in poi, il velodromo serve per i soli allenamenti fino a diventare, negli ultimi suoi anni di vita, un luogo di bivacco per senza fissa dimora.

Uno studio svolto dall'università «La Sapienza» dimostra che è possibile restaurare il velodromo ma diversamente la pensano sia il Comune, proprietario di una parte dell'area che circonda l'impianto (meno di 6000 metri quadri), sia il proprietario del velodromo e dei restanti 58 mila mq di verde, l'Eur Spa, società privata a capitale interamente pubblico (90% ministero dell'Economia e delle Finanze, 10% Comune di Roma) nata sotto la giunta Rutelli dalle ceneri del vecchio Ente Eur. Così, nel 2003, Comune e Eur Spa stipulano l'accordo di programma che scaverà le fondamenta dell'avveniristico complesso architettonico: sì alla speculazione immobiliare, a patto che sull'area di proprietà del Comune (meno del dieci per cento del totale) sorgano una serie di servizi pubblici e a patto che resusciti l'antica ellissi della pista di Ligini, compresa la pensilina che un tempo copriva la gradinata principale e che ora diventerà un pannello per l'energia solare.

Il nuovo centro acquatico, a vedere il progetto, piuttosto che un impianto dedicato alla collettività appare destinato a un'elite facoltosa. Delle sei piscine coperte previste una sola è olimpionica - e dunque adatta ad ospitare competizioni sportive - mentre il resto dello spazio sarà occupato, oltre che da un bar e un ristorante, da una ultramoderna sala fitness, da una sala spinning, da un'area per l'attività cardiovascolare, da un sofisticato solarium comprensivo di «pioggia» e «nebbia» tropicali, da una sala dotata di sauna finlandese, sauna tirolese e bagno turco nonché di docce cosiddette a «secchio» e a «getto». Ci sono poi un'altra sala per massaggi e talassoterapia, un «calidarium», un «tepidarium» e un «frigidarium» . E anche una vasca per praticare nuoto contro corrente, ad altissimo consumo energetico. L'intera opera, secondo i progettisti, dovrebbe costare 104 milioni di euro e sarà realizzata in 29 mesi da una società nata ad hoc, «Acquadrom», costituita dal 51% da «Condotte», il colosso che ha già vinto l'appalto per il nuovo Palacongressi dell'Eur (la cosiddetta «Nuvola» di Fuksas) e per il 49% da Eur Spa. I soldi per la costruzione del centro acquatico, ha assicurato Eur Spa, arriveranno dalla vendita di quei 21mila mq di uffici che sorgeranno attorno all'ex velodromo e che saranno i primi ad essere edificati. I cantieri apriranno nel 2009.

Sulla discussa demolizione del velodromo di Cesare Ligini, v. anche su Italia Nostra.org

Vento che sibila nei corridoi di alberghi chiusi, gelidi come l’Overlook Hotel del film Shining. Seggiolini sballottati dalla tormenta, appesi a funi immobili. Stazioni di funivie piene di immondizie, senz’anima viva intorno. Piloni arrugginiti, ruderi che nessuno rimuove anche nei parchi naturali. Ora i numeri ci sono. Quelli - mai fatti prima - degli impianti ridotti al fallimento dal riscaldamento climatico e dalla speculazione immobiliare. Oltre centottanta nel solo Nord Italia. La metà di quelli - 350 - che sono stati chiusi finora.

Centottanta vuol dire quattromila tralicci, centinaia di migliaia di metri cubi di cemento, seicentomila metri di fune d’acciaio, cinque milioni di metri di sbancamenti e di foresta pregiata trasformata in boscaglia. Ferri contorti come i ramponi di Achab sulla gobba della balena.

Per contarli abbiamo assemblato dati da parchi e corpi forestali, attivisti di "Mountain Wilderness" e guide alpine, soci di Legambiente e della "Cipra", il Centro per la tutela delle Alpi. Dati impressionanti, che sembrano non insegnare nulla a chi in Italia - caso unico in Europa - insiste a sovvenzionare impianti a bassa quota o, peggio ancora, nei parchi nazionali, in barba ai vincoli comunitari.

Fotogrammi. Saint Grée di Viola, quota 1200, provincia di Cuneo, è un monumento al disastro. Si chiamava Sangrato, ma non era abbastanza trendy per un centro che doveva attirare sciatori da Piemonte e Liguria, e così gli hanno cambiato il nome. Prima ha perso la neve, poi i clienti, infine ha inghiottito soldi pubblici per un rilancio impossibile. Oggi sembra Beirut dopo la guerra, cemento e vetri rotti con la scritta "Vendesi".

Altri fotogrammi, nel dossier di Francesco Pastorelli, direttore di Cipra Italia. Pian Gelassa in Val Susa: piloni nel vento, scheletri di alberghi nati morti, lì da 30 anni in piena area protetta, a due passi dalle piste olimpiche del Sestrière. Alpe Bianca, nelle Valli di Lanzo: condomini vuoti, stazione della funivia con i cessi rotti e le piastrelle smantellate. E così avanti: Oropa-Monte Mucrone, Albosaggia, Chiesa Valmalenco.

Non è un viaggio: è un percorso di guerra. A Oga presso Bormio la pista - iniziata e mai aperta causa lite tra valligiani - sta franando, e la ferita è tale che la trovi anche "navigando" con Google-Earth (e non è che gli squarci delle piste "mondiali" siano meglio). In Valcanale, sopra Ardesio (Bergamo), un’ex seggiovia è segnata da cemento sospeso sullo strapiombo e una discarica nel parcheggio.

Sella Nevea nelle Alpi Giulie, orgoglio del turismo friulano: le multiproprietà che negli anni Settanta hanno devastato la conca sotto il Montasio sono così a pezzi che sono stati messe all’asta in questi giorni. A Breuil-Cervinia residenze chiuse e impianti di risalita dismessi, otto in tutto, di cui quattro funivie. Posti da dimenticare, anche in anni di nevicate come questo.

Accanto agli scheletri, i morti viventi. Impianti in rosso, a quota troppo bassa per garantire neve, tenuti in vita dalla mano pubblica. Colere, Lizzola, Gromo nelle Orobiche. Oppure Tremalzo, La Polsa, Folgaria e Passo Broccon tra Veneto e Trentino, che inghiottono milioni in generose elargizioni per l’innevamento artificiale. Impianti a rischio, che nessuno fa entrare nella contabilità di un disastro che è anche finanziario. «Perché non si dice che le piste non si pagano solo con lo skipass ma anche con le nostre tasse?», s’arrabbia l’esploratore bergamasco Davide Sapienza.

Numeri insospettabili. Quaranta funivie e seggiovie abbandonate in Piemonte, trentanove in Val d’Aosta (un’enormità per una regione di centomila abitanti), almeno venti in Lombardia, trenta tra Emilia e Liguria sul lato appenninico, trentacinque in Veneto e venticinque in Friuli-Venezia Giulia. E non mettiamo in conto gli sfasciumi lasciati dallo sci estivo, chiuso per fallimento in mezze Alpi.

Ma non c’è solo il clima nel crack. C’è anche la speculazione. La seggiovia è solo lo specchietto per le allodole per sdoganare seconde case e villini. «Meccanismo semplice», sottolinea Luigi Casanova di Mountain Wilderness. «Si compra il terreno a basso costo, si cambia il piano regolatore, poi si fa la seggiovia e si costruiscono case al quintuplo del valore ». Se il gioco è spinto, la seggiovia chiude appena esaurita la sua funzione moltiplicatrice del valore immobiliare.

Uno crede: errori non ripetibili. Invece no: si continua sulla vecchia strada, come per l’Alitalia. Miliioni di milioni di euro al vento. Come quelli che serviranno per il collegamento - approvato il 31 dicembre (!) dalla provincia di Trento - fra San Martino e Passo Rolle nel parco di Paneveggio, dove Stradivari prese il legno dei suoi violini. O per il terrificante "demanio sciabile" da 200 milioni di euro dalla Val Seriana alla Valle di Scalve (Bergamo) pronto al varo nel parco delle Orobie, contro cui s’è levata la protesta di molti "lumbard". Disastri annunciati, come il maxi-progetto sul Catinaccio-Rosengarten, che sfonda un’area che è patrimonio Unesco.

Cambiano i luoghi, ma il trucco è lo stesso. C’è un pool che compra terreni, fonda una società e lancia un progetto sciistico, con un bel nome inventato da una società d’immagine. L’idea è nobile: «rilanciare zone depresse», così chi fa obiezioni è bollato come nemico del progresso. A quel punto la mano pubblica entra nella gestione-impianti e finisce per controllare se stessa. Così il gioco è fatto. Il sindaco promette occupazione e viene rieletto: intanto parte l’assalto alla montagna. Per indovinare il seguito basta leggere la storia dei ruderi nel vento.

«Questi mostri di ferro e cemento che nessuno smantella rientrano in un discorso più vasto» spiega il geografo Franco Michieli additando lo stato pietoso dell’arredo urbano a Santa Caterina Valfurva, Sondrio. «Il legame con la terra è saltato, i montanari ormai ignorano il brutto. Piloni, immondizie, terrapieni, sbancamenti: tutto invisibile. Si cerca di riprodurre il parco-giochi, e così si svende il valore più grosso: l’incanto dei luoghi».

E intanto il conflitto tra ambiente e ski-business aumenta in modo drammatico. Servono piste sempre più lisce e veloci, così si lavora a colossali sbancamenti e si prosciugano interi fiumi per l’innevamento artificiale. E c’è di peggio: la monocultura dello sci finisce per "cannibalizzare" tutte le altre opzioni (albergo diffuso, mobilità alternativa ecc.) perché distrugge i luoghi. Vedi Recoaro, dove le gloriose terme sono in agonia, ma si finanzia un impianto a quota mille, dove nevica un anno su cinque.

Per addolcire gli ambientalisti si inventano termini nuovi, come "neve programmata" o "eco-neve", ma il risultato non cambia. Damiano Di Simine, leader lombardo di Legambiente: «In Valcamonica un contributo regionale di cinquanta milioni è stato utilizzato per costruire piste nel parco dell’Adamello, e il risultato lo si vede su Google-Maps. Squarci terrificanti». Stessa cosa sul Monte Canin nelle Giulie: cicatrici da paura.

Ruggisce Fausto De Stefani, scalatore dei quattordici Ottomila e leader carismatico di Mountain Wilderness: «Uno: tutti gli impianti sono in passivo. Due: il clima è cambiato. Tre: gli italiani sono più poveri. Basta o non basta a dire che un modello di sviluppo va ridisegnato? E invece no, siamo furbi noi italiani. Continuiamo a vivere come progresso un fallimento che ha i suoi monumenti arrugginiti in tutto il Paese».

A Novezzina sulle pendici del Baldo - il colosso inzuccherato tra Val d’Adige e Garda ? De Stefani indica i resti di un impianto per neve artificiale mai entrato in funzione. «È stato smantellato, ma la ferita è rimasta, sembra una lebbra. Roba che per rimarginarsi impiegherà secoli. Con i soldi di quell’impianto fallito si potevano ripristinare malghe, sentieri, terreni; si valorizzavano i prodotti locali. È o non è una truffa? Un’orda distrugge l’Italia e la gente tace, nessuno s’indigna. È questo che mi fa uscir di testa».

Postilla

Quello che Paolo Rumiz non ha qui avuto nemmeno il tempo di ricordare, ma solo di accennare quando parla di “cannibalizzazione” e modello di sviluppo, è quanto accade attorno a piste e impianti, per un raggio di chilometri, chilometri, chilometri …. Su queste pagine si è trattato con qualche particolare il “piccolo” caso di Piazzatorre, ma sono centinaia le località interessate da una logica sconsiderata e ricattatoria. Comuni sempre più poveri di risorse, che vedono assottigliarsi le possibilità di manovra, e d’altra parte sono letteralmente assediati da proposte più o meno identiche: il privato “salvatore della patria” di solito con un progetto “complesso”. Non c’è bisogno di sforzarsi molto per trovarne esempi eclatanti, come quello di Foppolo, proprio in una diramazione delle medesima Valle Brembana di Piazzatorre. I personaggi della tragedia sono sempre gli stessi, Comune, Montagne, Privato, e il copione è scritto dai programmi complessi, nel caso specifico quelli lombardi noti come PII. Tragicomico il tono dei cosiddetti documenti urbanistici, dove alla fine di una relazione dai toni accorati che denuncia il degrado del territorio determinato dalle seconde case, si propone …. UN NUOVO GRANDE NUCLEO DI SECONDE CASE, che in omaggio all’approccio internazionale mixed-use avrà anche un bel nucleo commercial-divertente, con annessa grande strada di alimentazione. Vedere per credere, nella purtroppo breve e schematica presentazione che allego, elaborata qualche settimana fa a solo scopo didattico (f.b.)

Caro Giorgetti,

come sai ho avuto modo, conoscendoti, di considerarti persona valida, dotata di grande intelligenza.

Non nascondo quindi il mio stupore nel leggere ancora oggi, 28 dicembre, su “La Prealpina”, la tua determinazione nel difendere l’aeroporto di Malpensa che vorresti sempre più grande e sempre in crescita.

Ben saprai che, nel 1982, sul secondo numero di “Lombardia autonomista”, foglio della Lega Autonomista Lombarda (L.A.L., così si chiamava allora l’attuale Lega Nord), apparve un articolo in cui il capo leghista (Umberto Bossi) si scagliava contro l’ampliamento dell’aeroporto di Malpensa “ deciso dalla Regione Lombardia”:

“E’ un affare colossale che rischia di far precipitare la vivibilità della zona. A chi non interessa la qualità della vita del cittadino? La salvaguardia dell’ambiente? Il bene sociale? Non interessano a quei partiti che sanno che con Malpensa gonfieranno le loro casse intrallazzando con la speculazione. Nell’interesse del popolo lombardo la L.A.L. si impegna ad intervenire perchè i mega aeroporti imposti da questa vergognosa classe politica non possano più oltre degradare l’uomo.”

Gli anni passano. Il 27 dicembre 2007 la Padania titola: “Malpensa sarà la madre di tutte le battaglie”. E il 17 febbraio la Lega scende in piazza per difendere l’aeroporto. Lo slogan è: “Votate Lega e salverete Malpensa”. L’evidenza di questi 10 anni dall’inaugurazione del 25 ottobre 1998, cioè l’alternarsi di alti e bassi clamorosi, ci dice che a Malpensa qualcosa non gira per il verso giusto. Sono sicuro che tu ben conosci tutta la storia di questo aeroporto, a partire dal P.R.G.A. non rispettato che stabiliva limiti di traffico superati del 250%, alla mancata effettuazione della V.I.A. (Valutazione di Impatto Ambientale), all’attuale Piano industriale di S.E.A. (Gestore dell’aeroporto) che prevede la realizzazione della terza pista con l’obiettivo di quadruplicare il traffico stabilito come limite dal suddetto P.R.G.A. Sai bene che 87 Sindaci delle Province di Varese, Novara e Milano firmarono, il 19 novembre 2000, la dichiarazione di illegalità di Malpensa per mancato rispetto del Piano regolatore e delle norme in materia di Valutazione di Impatto ambientale. Sai anche che l’aeroporto è un’infrastruttura che ha il compito di assicurare un servizio e lo deve fare ponendosi al servizio del territorio e invece, con il “sistema malpensocentrico” cioè il mega aeroporto, si pone il territorio al servizio dell’aeroporto portando “l’utenza al servizio” anzichè “il servizio” all’utenza. Meglio sarebbe, non lo ignori certo, la giusta integrazione di Malpensa, entro i limiti del suo P.R.G.A., nel “sistema aeroportuale del Nord”, dove vi sono 13 aeroporti, con 15 piste, più comodi perchè vicini all’utenza. E le 15 piste esistenti hanno una capacità ben oltre 100 milioni di passeggeri/anno rispetto agli attuali 50 milioni o poco più e non serve certo fare un’altra pista a Malpensa, nel cuore del Parco del Ticino, riserva della Biosfera dell’UNESCO, vera ricchezza padana da tutelare. Ma l’occupazione... Malpensa, è ora in grande evidenza, non crea posti di lavoro ma disoccupati. Non è così? E’ così, perchè l’elevata, l’esagerata concentrazione di voli, di passeggeri e di lavoratori (per oltre il 65% precari) ha creato una bolla destinata a scoppiare, ed infatti è scoppiata, facendo pagare alle categorie più deboli gli errori (ma sarebbe più giusto dire orrori) di politici ed amministratori.

Questa, caro Giorgetti, è l’evidenza di Malpensa, grande e scomodo aeroporto di Milano, questa è, in sintesi, la conseguenza dell’intrallazzo speculativo che la preveggenza del tuo capo Bossi denunciava nell’82 ma poi... errare humanum est, perseverare diabolicum!

28 dicembre 2008

Beppe Balzarini

Presidente di UNI.CO.MAL. Lombardia (Unione Comitati del Comprensorio di Malpensa per la tutela dell’Ambiente e della Salute)

In Sardegna si torna a votare. “Mi dimetto” dice il presidente dimissionario della Regione Renato Soru, poco prima di rientrare in Consiglio regionale dov’è in corso il dibattito-fiume sulle sue dimissioni. “E’ inutile proseguire, serve un Consiglio forte e non uno che galleggi” taglia corto il fondatore di Tiscali che aveva annunciato le dimissioni dopo che il Consiglio aveva bocciato a scrutinio palese (con 55 voti contrari e 21 a favore) un emendamento voluto dallo stesso Soru alla nuova legge Urbanistica. In realtà la crisi con la sua maggioranza era nell’aria da tempo, alimentata da forti tensioni nel Pd, spaccato a metà come il gruppo al Consiglio Regionale.

Dopo le dimissioni l’ex governatore aveva rifiutato ogni tipo di ricongiungimento “formale” con la sua maggioranza, mettendo sul piatto una serie di condizioni per tornare sui suoi passi: adozione dei vincoli paesaggistici nelle zone interne dell’isola, approvazione delle linee elaborate dalla Giunta per la manovra finanziaria 2009, completamento della riforma su istruzione e formazione professionale, riduzione a 80 del numero dei consiglieri, moralizzazione della politica con riduzione di sprechi e indennità aggiuntive dei consiglieri regionali.

Nel pomeriggio, poi, dall’opposizione di centrodestra, arriva un secco no all’appello bipartisan del governatore per evitare il voto. Si iscrivono a parlare in 60. Poi arrivano le parole di Soru che chiudono la questione: “E’ inutile perdere altro tempo. Ridiamo la parola ai sardi”. E consegnano l’isola al voto anticipato a febbraio.

“Le dimissioni le avevo presentate perchè ritenevo che stessimo contraddicendo quanto di importante e di buonissimo avevamo fatto nel governo del territorio. Ma oggi, al di là di richiami all’unità o di parole generiche - dice Soru in aula -, volevo sentire dell’importanza del Piano paesaggistico o della sua applicazione nelle zone interne. Così non è stato. Senza alcun dramma rivendico con orgoglio il grande lavoro fatto dal centrosinistra, mettendo al centro l’interesse della Sardegna senza tirare a campare o, a spese di tutti i sardi, cercare facile consenso”.

Dunque è ufficiale: l’ormai ex presidente della Regione Sardegna si è dimesso. La sua colpa, il suo peccato originale, è stato quello di porre un limite alla cementificazione selvaggia delle coste sarde e all’assalto alla diligenza del turismo di lusso, che ha devastato incontrastato per anni una delle zone più belle d’Italia.

Aveva pensato che il compito della politica potesse essere anche e forse soprattutto quello di creare e/o preservare quelle condizioni di vivibilità di un territorio che garantiscano una vita degna e felice alle comunità locali che le abitano e animano. La politica bipartisan della crescita infinita non poteva accettare che una cosa del genere passasse ad un livello così alto, e il voto in consiglio regionale lo testimonia in modo esemplare.

Soru si è dimesso, il suo partito ha perso l’ennesima occasione per tornare in contatto con la realtà…

Marco Boschini è il coordinatore dell'associazione dei Comuni Virtuosi

"Non si passa. E non c’è nessun responsabile con cui parlare. Qui lavorano tante ditte diverse, ognuna ha i suoi responsabili e non saprei neanche chi chiamare". La guardia giurata che difende l’enorme cantiere dell’ex arsenale de La Maddalena è una statua di

cera. Non sa nulla e non vuole sapere nulla. "E’ il mio lavoro", spiega mentre impedisce

di scattare foto al cancello chiuso. Pochi metri più in là, i locali diroccati dell’ex

area militare sono diventati alloggi per le centinaia di operai che lavorano alla costruzione delle immense opere per il prossimo G8 di luglio. Sono costretti a vivere in 4 in stanzette di due metri per cinque. Altolà. Altra guardia del corpo. Con un accento vagamente latinoamericano l’uomo in divisa si giustifica. "Non posso dirvi nulla sennò mi licenziano". Qualche centinaio di metri più in là si lavora all’ex ospedale militare.

Entro il prossimo luglio dovrebbe diventare un albergo di lusso che accoglierà i capi

di stato dei paesi più potenti del mondo. Adriano è rumeno e fa il muratore. Ma anche

lui ha l’ordine del silenzio. "Sono tutti in riunione, nessuno può parlare". Da una

radiolina all’altra si chiedono informazioni sugli intrusi che vogliono "spiare" i lavori.

I cantieri non sono chiusi solo ai giornalisti. Anche i sindacati non possono entrarci.

Venerdì scorso i carabinieri hanno perquisito l’alloggio di un dipendente della Fillea

Cgil che è stato indagato per infrazione del segreto di Stato. Il sindacalista non aveva

accesso ai cantieri, si limitava ad aspettare i lavoratori fuori dai cancelli all’uscita

del turno e a scattare qualche foto dall’esterno. Quanto basta per far scattare l’indagine

della procura della Repubblica e il sequestro di documenti. "Cgil-Cisl-Uil con

una nota ufficiale hanno chiesto al commissario speciale Bertolaso di poter accedere

– spiega Lorenzo Manca, segretario della Fillea Cgil diOlbia – tutto quello che sappiamo

ce lo raccontano i lavoratori, oppure lo filmano con i telefonini. Ci dicono anche

che gli è stato consigliato di tenersi alla larga dai sindacalisti". E’ stato proprio un

filmato "rubato" a mostrare su "YouTube" che, durante i lavori di bonifica del vecchio

Arsenale, i lavoratori hanno dovuto maneggiare amianto, non protetti.

Il 29 agosto scorso, Palazzo Chigi ha firmato il decreto che designa definitivamente

La Maddalena come sede finale della prossima riunione degli 8 grandi. Berlusconi

ha dovuto rinunciare all’idea di portare il vertice a Napoli per celebrare la sua "vittoria" sui rifiuti. Napoli è indisponibile per "problemi di sicurezza". Anche se il cavaliere

non vuole abbandonare il sogno di spostare tutti a Napoli, almeno l’ultimo giorno,

Quando il governo Prodi decise di svolgere il prossimo G8 a La Maddalena, il governatore Soru esultò: "E’ una dimostrazione di attenzione e sensibilità verso la Maddalena e la Sardegna". Lo "scoglio" infatti è appena rimasto orfano della base di sommergibili nucleari Usa di Santo Stefano. Gli americani dopo aver fatto i comodi loro finalmente se ne sono andati. Gli assetti militari mondiali sono cambiati e non avevano

più interesse a rimanere nell’arcipelago sardo. Preferiscono pretendere dall’Italia l’allargamento della base Dal Molin di Vicenza. Hanno abbandonato tutto, alloggi, case,

uffici militari. Attività che per i maddalenini volevano dire soldi e lavoro. A La Maddalena su una popolazione di 12 mila abitanti, ci sono ben 1800 disoccupati.

E allora, ben venga il G8. Perché porta finanziamenti straordinari insperati e nuovo

lavoro. Il governo Berlusconi ha stanziato 740 milioni di euro per tutti i lavori a

Maddalena e in Sardegna, che si aggiungono ai 150 milioni già stanziati dal precedente

governo. Di questi, 500 milioni dovrebbero venire spesi per i lavori nell’arcipelago.

E’ prevista la costruzione dell’autostrada Sassari-Olbia e l’allargamento dell’aeroporto

di Olbia. Mentre a La Maddalena le aree dismesse della Marina militare diventeranno

alberghi di lusso, l’ex arsenale sarà trasformato in un polo nautico con zona di

rimessaggio leggera per navi da turismo e ospiterà aree per attività fieristiche e alberghiere, oltre alla grande sala riunioni per i capi di stato: un grande parallelepipedo di cristallo e acciaio affacciato sul mare firmato dagli architetti Stefano Boeri eMario Cucinella.

I lavori sono avanti e molti carpentieri sono già stati mandati a casa.

Pare addirittura che Berlusconi, dopo aver visitato i lavori, abbia chiamato Armani

per arredare una delle suite. Il commissario Bertolaso ha assicurato che "non un

euro di quello che stiamo spendendo è destinato al solo G8 bensì al rilancio di una

delle zone più belle del Mediterraneo, dal punto di vista turistico e nel pieno rispetto

dell’ambiente". A La Maddalena, lo scorso agosto, è arrivato anche il presidente Napolitano, che, tra un bagno e un giretto sulle navi militari, ha visitato i cantieri e ha benedetto il vertice assicurando che i lavori saranno terminati in tempo.

Il 22 marzo 2008 il governo Prodi ha conferito ai lavori la "qualificazione di riservatezza e segretezza", in pratica ha imposto il segreto di stato. Significa che la sicurezza e le ragioni di stato prevalgono sugli interessi dei cittadini e dell’ambiente. Infatti il provvedimento permette deroghe a leggi statali e regionali su vincoli ambientali (l’arcipelago è un parco naturale), e procedure accelerate per le norme sulle gare d’appalto. Tanto che sono stati presentati ricorsi alla Ue che non consentirebbero di dribblare i vincoli ambientali e le norme sulla concorrenza sugli appalti, e infatti il 10 dicembre Bruxelles ha accolto il ricorso presentato degli ambientalisti.

Bisogna fare in fretta, rispondono a Roma, dunque le leggi ordinarie sono sospese.

Tutti i poteri sono nelle mani del commissario speciale Bertolaso, in contatto

con il presidente della regione Soru, che però si è dimesso. I maddalenini possono solo

stare a guardare.

Ancora una volta il loro territorio è appaltato alla ragion di stato e

agli interessi geopolitici dei grandi della terra. Una scelta molto gradita agli americani

che quest’isola la conoscono bene. In molti sono disposti a correre il rischio pur di cogliere al balzo l’occasione di fondi straordinari e di lavoro. Le imprese sarde,

però, lamentano di non essere sufficientemente coinvolte. Soru aveva promesso 75

milioni per le aziende sarde ma la Confindustria di Sassari è arrivata addirittura a minacciare lo sciopero della fame di alcuni imprenditori per il mancato "rispetto degli

accordi economici per l’attribuzione degli appalti". Per i singoli lavoratori, poi, le cose

vanno ancora peggio. Il grosso degli appalti è stato assegnato a gruppi edili romani,

su tutti CoGeCo, Anemone e laGiaFi del cavalier Carducci, già coinvolto nelle indagini

di Luigi De Magistris. La bonifica del vecchio arsenale (130 mila metri quadri di cui

18 mila coperti) completamente terminata. Si lavora 24 ore su 24 su tre turni per un

totale di 500 operai che dovrebbero salire fino a 700. L’area è illuminata a giorno da

enormi fari. Sulla banchine continua ad attraccare una nave della Ustica lines da cui

scendono merci e uomini. Molti lavoratori sono stranieri. I sardi, a quanto pare sono pochi, i maddalenini ancora meno. In cantiere Bertolaso ha promesso di istituire un presidio medico permanente e i sindacati hanno chiesto l’istituzione di una "cabina di regia" per potersi confrontare sui temi della sicurezza dei lavoratori.

Nei bar di Maddalena per molto tempo si sono visti gli operai in cerca di cibo,

perché, raccontano, quello della mensa era indecente. La Cgil, ovviamente, non

può che essere contenta dell’opportunità di lavoro offerta dal G8 nella speranza che

le opere realizzate portino anche lavoro per il futuro, ma denuncia l’estremo ricorso

al sub-appalto con relativa perdita di controllo sulle regole per la sicurezza e sul

lavoro. Si parla anche di straordinari pagati in nero. La speranza è che una volta finito

il vertice le strutture garantiscano lavoro nel turismo e nella cantieristica.

Ma le ragioni della sicurezza dei grandi otto (che Berlusconi vuole allargare a venti

paesi) sembrano venire prima di tutto. Durante il vertice due grandi navi ospiteranno

le forze dell’ordine: 16 mila uomini. Il capo della polizia Manganelli ha avvisato:

"Le strutture a terra marciano nel rispetto dei tempi previsti, così come l’allestimento

delle misure di sicurezza. La polizia italiana è impegnata perché il vertice si possa

svolgere nella massima serenità e perché il G8 di Genova possa diventare un ricordo

sempre più lontano". Con i grandi della terra blindati su un scoglio in mezzo al mare.

Procura della repubblica di Tempio Pausania. Decreto di perquisizione e sequestro

n.3885/08 - 525/08. Informazione di garanzia: "Il pubblico ministero visti gli atti nei

confronti di... persona sottoposta ad indagini in ordine al reato di cui all’articolo 256

commesso in La Maddalena il 24-10-2008 dispone perquisizione locale...perquisizione

personale...nomina il difensore d’ufficio". Firma: dott. Mario D’Onofrio. Data: 16 dicembre 2008. Il mandato è stato eseguito una settimana fa. L’indagato è un impiegato

della Cgil di Tempio che si occupava dei lavori per il G8 a La Maddalena. Il reato contestato è nientemeno che violazione del segreto di stato. Come se fosse uno 007 o un terrorista pronto a colpire. In realtà il signor Tonino si limitava ad aspettare i lavoratori fuori dai cancelli e a scattare fotografie dall’esterno ai cantieri. La Fillea Cgil Gallura lo difende: "Non ci faremo intimidire. Abbiamo ricevuto numerose segnalazioni e denunce perché in quei cantieri vi sono state ripetute violazioni di norme elementari sul salario, sull’orario e sull’igiene e sicurezza del lavoro. Si tratta di cose che avvengono sotto la distrazione, per non dire la tolleranza, del committente pubblico. Forse qualche imprenditore sentendosi disturbato dal nostro lavoro ha pensato di rivolgere qualche assurda segnalazione all’autorità di pubblica sicurezza". E l’autorità ha preferito indagare il sindacalista piuttosto che sull’enorme affare del G8.

Strada nel parco per Malpensa e gli ambientalisti insorgono

di Ilaria Carra

L’Anas ha approvato ieri il progetto definitivo per il collegamento dell’aeroporto di Malpensa con la Tangenziale ovest. Una strada a due corsie per ogni senso di marcia, lunga 35 chilometri, che da Milano attraverserà nove comuni, tagliando in due il Parco del Ticino e il Parco agricolo sud Milano. Un’opera fortemente voluta da Regione e Anas, ma che manda su tutte le furie gli ambientalisti, che ne denunciano l’inutilità, e alcuni Comuni interessati, come Albairate e Cassinetta di Lugagnano che la vivono come « un tentativo di cementificare il territorio ancora integro a sud di Milano». Contraria anche Bruna Brembilla, presidente del Parco agricolo, che dice però di aver le mani legate: «Rientra nella Legge obiettivo e ha un interesse nazionale - spiega - non possiamo farci nulla se non chiedere il massimo delle compensazioni ambientali: è un’infrastruttura però che, diminuito il peso di Malpensa, rischia di essere inutile».

Il percorso per il via ai lavori è ancora lungo. Mancano parte dei fondi (la tangenziale costerà 420 milioni ma per ora ce ne sono solo 280) e il via libera del Cipe. «La strada migliorerà l’accessibilità all’hub varesino dal sud ovest milanese - spiega Pietro Ciucci, presidente Anas - con effetti di riequilibrio e decongestionamento della rete esistente».

In tutt’altro modo la vedono, invece, Verdi e ambientalisti. «È inutile e dannosa - denuncia Carlo Monguzzi, consigliere regionale dei Verdi - stravolge l’agricoltura lombarda doc e il sistema d’irrigazione che è un capolavoro». Decisamente contraria anche Legambiente, che oltre a denunciare i rischi per la campagna milanese (specie nella zona di Abbiategrasso piena di fontanili, rogge e aziende agricole), giudica l’opera del tutto inutile: «È un’infrastruttura eccessiva destinata non a togliere ma a generare traffico - spiega il presidente lombardo, Damiano Di Simine - il collegamento con Malpensa, peraltro, c’è già su più fronti, con la Milano-Laghi e la Boffalora-Malpensa».

Il progetto prevede, nel dettaglio, il raccordo tra Boffalora Ticino, già unita a Malpensa da una superstrada, e la tangenziale Ovest milanese all’altezza di via Zurigo. La nuova strada è suddivisa in tre tratte. La prima, da Magenta ad Albairate di circa 10 chilometri, toccherà Robecco sul Naviglio, Cassinetta di Lugagnano e Albairate. La seconda prosegue per Milano, coinvolgendo anche Cisliano e Cusago, è lunga circa 12 chilometri, e per più della metà del tracciato si sovrappone al tratto esistente della provinciale 114 di Baggio e termina in corrispondenza dello svincolo di Cusago-via Zurigo della Tangenziale ovest. La terza, da Albairate a Ozzero, lunga 10 chilometri, prevede la variante sud-est di Abbiategrasso e l’allargamento di parte della statale 494.

Per la costruzione sono previsti poco più di tre anni dall’avvio dei lavori. Se l’Unesco non si pronuncerà di nuovo contro il progetto, reo di attraversare il parco del Ticino riserva della Biosfera, e la strada si farà, già però si pensa a come compensarla: «Abbiamo chiesto un risarcimento economico per l’impatto ambientale e il vincolo di fare barriere verdi ai bordi della strada - spiega Bruna Brembilla - non pannelli solari ma filari di alberi che attutiscano il rumore e aiutino la riforestazione del parco».

"È un´opera necessaria per far vivere l´aeroporto"

Intervista all’assessore regionale Davide Boni,

di Franco Vanni

Davide Boni, assessore regionale al Territorio, l´approvazione definitiva del progetto per la nuova strada fra la Tangenziale Ovest e Malpensa ha sollevato le polemiche degli ambientalisti, del direttore del Parco Sud e di alcuni sindaci. Lei è favorevole all´opera?

«Ogni volta che si progetta una nuova strada arrivano le polemiche. La verità è che la Lombardia ha un´esigenza grandissima di infrastrutture e da qualche parte bisogna pur farle. La nostra regione da sola produce il 20 per cento del Pil nazionale e siamo al quattordicesimo posto in Italia nel rapporto fra chilometri di rete e numero di abitanti. È una situazione insostenibile, bisogna aiutare la nostra economia».

Le critiche riguardano soprattutto l´impatto ambientale, la strada attraverserà due parchi. È una preoccupazione giustificata?

«Una strada ha sempre un impatto sul territorio, ma in questo caso costruirla è un´esigenza. È nostro interesse primario garantire il rispetto dell´ambiente e lo poniamo come vincolo a chi costruisce, con controlli più rigidi rispetto a ogni altra regione italiana. Ma pensare di fermare l´opera non è accettabile, non possiamo più accettare il no per il no. Ho l´impressione che ci sia chi si oppone a ogni progetto viabilistico per ragioni che hanno poco a che fare con l´ambiente».

A chi si riferisce?

«Alla presidentessa del Parco agricolo Sud Bruna Brembilla, che è anche assessore nella giunta provinciale di centrosinistra con Penati. La sua critica è pregiudiziale: prima la Brembilla autorizza nel parco la costruzione di case e palazzi che non si capisce bene a cosa servano. Poi si oppone a una strada utilissima, sia per decongestionare il traffico su Milano, che si trova ancora a essere lo snodo viabilistico dell´intera regione, sia per rilanciare l´aeroporto di Malpensa».

La Brembilla, così come alcuni sindaci, sostengono invece che la nuova strada sia poco utile proprio perché Malpensa oramai ha ridotto il suo peso strategico.

«È un argomento inaccettabile. Malpensa è molto appetibile per le compagnie aeree internazionali. E poi si ricordi che quell´aeroporto è costato più di un miliardo di euro, e lasciarlo isolato significa buttare via l´investimento fatto. A spingere perché Malpensa sia meglio collegata, e la nuova strada serve proprio a questo, c´è anche l´Expo alle porte: chi nel 2015 arriverà in aereo dall´estero cosa farà, verrà a Milano a piedi?».

"Smog, auto e cemento di qui non passeranno"

Intervista al sindaco di Cassinetta di Lugagnano

di Ilaria Carra

Domenico Finiguerra, 37 anni, da sei sindaco di Cassinetta di Lugagnano, la cittadina di 1800 abitanti dentro il Parco del Ticino, che cosa farete ora che l´Anas ha dato il via libera al progetto?

«Ci sentiamo come il villaggio di Asterix: continueremo a opporci con ogni mezzo possibile. Questa infrastruttura è una vera e propria autostrada, un asse di penetrazione per urbanizzare zone ancora integre ed incontaminate. Uno scempio».

Lo vede come il primo passo verso la cementificazione selvaggia, quindi?

«È ovvio. Chi acconsente oggi non si rende conto delle responsabilità che si assume. Già piovono richieste di costruire autogrill, outlet e capannoni. Io sono molto preoccupato perché hanno ceduto tutti, tranne Albairate».

Che è anche il comune più colpito dalla congestione del traffico. Secondo Anas la tangenziale migliorerà la viabilità. È d´accordo?

«Per alleggerire il carico bisogna intervenire in altro modo, con circonvallazioni o rotonde. Non con un´autostrada che, con un milione di tonnellate di traffico all´anno, avrà l´effetto opposto: tutti passeranno di qui anziché andare a incastrarsi a Rho-Pero».

Il progetto che cosa comporta per il vostro territorio?

«La strada passerebbe a poche decine di metri da case e cascine. Il ministero dell´Ambiente aveva chiesto che passasse in superficie per non danneggiare il canale irriguo di Leonardo. I Beni culturali, invece, vogliono che sia interrata perché siamo a 200 metri dal Naviglio grande. Non si sa nulla».

I cittadini che ne pensano?

«Già nel 2003 abbiamo raccolto 14mila firme contrarie. E altre istituzioni si oppongono».

Per esempio?

«L´Unesco nel 2003 criticò fortemente il progetto al punto di minacciare il ritiro del titolo di riserva della Biosfera. Ci sono procedure aperte con Bruxelles per il mancato rispetto delle valutazioni d´impatto ambientale. E la Commissione europea ha minacciato di aprire una procedura d´infrazione».

Che cosa farete, dunque?

«Anzitutto riproporrò l´esposto all´Unesco. Esaminerò con la lente d´ingrandimento ogni cavillo legale per evitare il primo passo verso la fine. In più, per impedire procedure d´esproprio, stiamo valutando con alcuni comitati "no Tav" di acquistare lotti di terreno in proprietà indivisa. Così che serva il parere di tutti quanti per comprarli».

postilla

il dato nuovo di questi articoli, al di là dell’allarme che oggettivamente suscitano per l’approvazione di un progetto “minore” comunque insensato, è probabilmente la contrarietà dell’assessore provinciale responsabile per il grande parco di cintura metropolitana. Non era scontata, questa posizione: sia per decisioni precedenti che interessavano la greenbelt agricola in altre zone e aspetti, sia per l’idea generale di pianificazione del territorio che queste stesse decisioni potevano lasciar intuire. Meglio così: per quanto immersa in un contesto decisionale totalmente irresponsabile sul versante dell’ambiente e del buon senso in generale (vedi le incredibili quanto prevedibili sparate del solito assessore “amazzaparchi” Boni), pare che l’unica importante amministrazione di centrosinistra interessata voglia fare il suo mestiere, ovvero quello di pianificare il territorio a scala vasta. Ma non può. Glie lo impedisce il solito metodo decisionale che crea negli anni tutte le possibili condizioni per agire in “emergenza” (Malpensa, l’occupazione, lo “sviluppo” ecc.), oltre che l’essere in minoranza in un contesto solidamente controllato dal centrodestra arrogante e ignorante che ci ritroviamo. Unico sbocco, ormai, sembra davvero essere quello della crescita dal basso di un’opinione più informata e consapevole, in grado di capire (forse parte della stampa sta iniziando ad aiutare in questo senso, ma non basta) che la terra è una cosa che si mangia, si beve, si respira, e non una superficie per piantarci bandierine, tonnellate di cemento, canne d’organo con le percentuali elettorali. Contrariamente a quanto pontificano certi sociomanti a gettone, insomma, la città non è affatto infinita: siamo invece agli sgoccioli (f.b.)

Non serviva proprio a nulla il referendum contro la legge salvacoste. Non avrebbe prodotto alcun effetto, come è stato ampiamente spiegatoanche da eddyburg nei giorni scorsi. Il vincolo temporaneo sui 2.000 metri, operato da quella legge, è stato superato dal piano paesaggistico regionale, approvato ai sensi del Codice del paesaggio.

Comunque è andata meglio delle più ottimisticheprevisioni. L'affluenza alle urne non ha superatoil 20%. I sardi non hanno votato, nonostante la campagna capillare e dispendiosa che hapotuto contare sul contributo di Confindustria, che in Sardegna è ben rappresentata dai costruttori.

Servivaalla destra lo spotpagato con denaro pubblico, utile prova generale, in vista della campagna elettorale prossima. Come ha spiegato Corrado Augias (ieri su la Repubblica)i cinque postulati della destra ( tra cui quello di “prevalenza del privato sul pubblico”) c'entrano con il caso sardo: la Sardegna è un bene comune,diciamo noi, un patrimonio d'interesse nazionale che alcunisoggetti da decenni stanno usando per fini privati con grandi tornaconti: un affarone le coste sarde nel mercato globale.Una casa in Sardegna con buona locationsi può vendere per una ventina di milioni di euro: un migliaio di queste case valgono un pezzo di finanziaria dello stato, tanto per capire i potenziali dividendi che fanno girare la testa agli immobiliaristi di tutto il mondoe prima ancora ai faccendieri di casa.

L'appello di Berlusconiai sardi per andare al voto è statoquindi disatteso, ma resta lagrave, irritualeinterferenza dello “statista”in un affare regionale, di una Regione autonoma, come se niente fosse, come se nonsi sapesse dei suoi interessi d'imprenditore nelle coste sarde, di quellasua proprietà in Gallura dove aveva progettato un mostruoso investimento edilizio che le leggi sarde hanno impedito. L'amico della Sardegna pensa anche in questo caso agli affari suoi, non agli effetti che i provvedimenti del suo governo avranno sulla povera comunitàsarda, quelli sulla scuola ad esempio.

E' andata bene, nonostante Berlusconi,anche se la nostra destra spiega oggi perché ha vinto. Non è così, eppure qualche ragione emerge. Ho già scritto della scarsa convinzione della maggioranza che sostiene Soru sulle scelte di buon governo del territorio, la poca propensione a dibattere su questi temi è spiegata conl' autoritarismo del Ppr e di Soru ( nella cui azione ci sarà qualche difetto ma non è questo il punto). Sarebbe il caso di capire una volta per tutte quanto questa questione assailucrosa –del fareo non fare altre case nelle fasce costiere – pesi nel conflitto anti-Soru. Il quadro politico sardo è confuso, specie nel centro-sinistra e ci sonozone d'ombra . Si pensi che tra le adesioni al referendum promosso dalla destra ci sono quelle del Partito Sardo d' Azione ( il glorioso partito di Emilio Lussu), ci sono i socialisti, e pure i verdi (sì, i verdi del “Sole che ride”!) che in extremis hanno dato ai loro elettori libertà di voto ( gulp!), conuna posizionemolto ambigua su un argomento per ilquale dovrebbero esistere.

A volte si ha l'impressione che latutela del territorio dagli egoismi della rendita non siapiùun valore, un attributo dei partiti e movimenti della sinistra.Rischia di essereuna antinomia di questo tempo, tra le tante. Un altro indizio della frammentazionedella società di cui parlano autorevoli commentatori: lo specchio rotto che riflette in ogni frammento interessi particolari su cui si fa abilmente rifluire l'attenzione.

Questa volta è toccato alla Corte costituzionale infliggere alla regione Lombardia un ulteriore duro colpo al “federalismo in salsa lombarda” dichiarando incostituzionale la legge regionale n 6 del 3 marzo 2006 avente per oggetto “Norme per l'insediamento e la gestione di centri di telefonia in sede fissa” (sentenza n 350 del 24 ottobre 2008).

Si tratta di una legge voluta caparbiamente della Lega Nord e da AN con la quale si dettavano specifiche disposizioni urbanistiche per la localizzazione dei centri di telefonia in sede fissa (phon center) e si definivano specifici requisiti e prescrizioni igienico sanitarie per l’esercizio di tali attività, imponendo agli esercizi già aperti tempi brevissimi per l’adeguamento delle strutture (un anno), pena: multe salatissime e la loro chiusura.

Si trattava di una normativa speciale discriminatoria, già attaccata, oltre che dalle opposizioni in Consiglio regionale anche dal TAR di Brescia, che introduceva norme non applicate per le altre attività commerciali e che mirava a portare alla chiusura molti phon center esistenti, dei quali circa l’80% erano gestiti da immigrati ed impedirne l’apertura di nuovi.

La grande colpa dei phone center era semplicemente quella di essere gestiti e utilizzati soprattutto da cittadini immigrati. Insomma, una legge speciale, fuori dallo stato di diritto e contraria al principio di uguaglianza davanti alla legge e uno dei tanti casi, forse tra i più gravi in Lombardia, di xenofobia istituzionale

E così, a seguito di questa legge molti phon center vennero condannati con apposite ordinanze da diverse Amministrazioni comunali alla chiusura «per mancata conformazione ai nuovi requisiti (in prevalenza igienico-sanitari e di sicurezza dei locali) disposti dalla predetta legge regionale» dato che i proprietari dei locali si rifiutavano di effettuare gli adeguamenti imposti. Altri invece non poterono essere aperti perché i regolamenti locali di molti Comuni introducevano disposizioni urbanistiche, in particolare per quanto riguarda i parcheggi che dovevano essere disponibili nelle vicinanze dell’esercizio, da renderne impossibile l’autorizzazione. A tal proposito il TAR di Brescia nel suo ricorso evidenziava che nella legislazione vigente non si riscontrano “prescrizioni così restrittive neanche per i locali ove vi è maggiore concentrazione di persone per un tempo di permanenza maggiore, come teatri, cinema o nei locali ove viene svolta attività di somministrazione di alimenti e bevande”.

I danni prodotti da questa legge sono stati numerosi e vasti, dato che essa è stata ampiamente applicata sin dal marzo del 2007 da tanti Comuni lombardi, compreso quello di Milano: si è infatti registrata la massiccia chiusura di legittime attività che sono passate da 2.500 a 500 - e la rovina economica dei loro gestori

Ora la Corte costituzionale, svelando la forzatura operata dalla Regione che aveva introdotto tale norma assimilando le attività di telefonia fissa (di competenza statale) alle attività commerciali (di competenza regionale), riafferma che le attività dei phon center costituiscono a tutti gli effetti attività ricadenti nel Codice delle comunicazioni elettroniche: infatti “l’attività presa in considerazione dalla legge regionale sarebbe riconducibile alla materia di competenza concorrente dell’ordinamento delle comunicazioni e, più specificamente, al «servizio di comunicazione elettronica» di cui all’art. 2, paragrafo 1, lettera c) della direttiva 7 marzo 2002, n. 2002/21/CE, recepito dal decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259 (Codice delle comunicazioni elettroniche)”. E al riguardo la Corte afferma inoltre che “non è fondata la tesi difensiva regionale secondo cui non sarebbe applicabile la nozione di “servizi di comunicazione elettronica” in quanto i centri di telefonia si limitano, svolgendo una funzione di “intermediari”, a mettere a disposizione del pubblico personal computer o telefoni e usufruiscono a loro volta dei servizi di fornitura delle reti emanati dalle varie aziende”.

La sentenza, nel demolire le tesi difensive della Regione, afferma inoltre che nei centri di telefonia “lo scambio di un servizio verso la corresponsione di un prezzo afferisce a beni ed esigenze fondamentali della persona e, nel contempo, della comunità, coinvolgendo interessi individuali (correlati alla comunicazione con altre persone) e generali (difesa e sicurezza dello Stato; protezione civile; salute pubblica; tutela dell’ambiente; riservatezza e protezione dei dati personali), diversamente da quanto accade nelle ordinarie attività commerciali di cui all’art. 4 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114 (Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell’articolo 4, comma 4, della L. 15 marzo 1997, n. 59).”

Ed ecco la stoccata finale della Corte al federalismo in salsa lombarda “Confligge, dunque, con le scelte operate dal legislatore statale in tema di liberalizzazione dei servizi di comunicazione elettronica e di semplificazione procedimentale la introduzione, ad opera del legislatore regionale, di un vero e proprio autonomo procedimento autorizzatorio per lo svolgimento dell’attività dei centri di telefonia;ferma restando la possibilità per i Comuni, tramite la loro potestà regolamentare, e le Regioni, tramite la loro potestà legislativa, di disciplinare specifici profili incidenti anche su questo settore”.

Ora le opposizioni in Regione Lombardia porranno il problema del risarcimento dei danni subiti da quei tanti gestori che, a seguito della introduzione di questa legge incostituzionale, sono stati costretti a chiudere.

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"Procedura troppo fragile, Albissola non si era neppure pronunciata" Il presidente della Regione: "Il parere tecnico è inoppugnabile"

Il parere tecnico del comitato per la valutazione di impatto ambientale sul progetto della Margonara a Savona: «è inoppugnabile». Lo dice il presidente della Regione Claudio Burlando che ha saputo del pronunciamento dell’organo tecnico solo martedì sera, a cose fatte: «come è giusto che avvenga». Ora starà ai promotori decidere se contestare formalmente il pronunciamento del comitato o cambiare il progetto. «Io avevo già chiaro che questa vicenda andava a sbattere contro una procedura approvativa molto fragile», dice Burlando, a proposito del progetto del porticciolo e della "torre" di Fuksas alla Margonara, la spiaggia tra Savona e Albissola. Burlando parla il giorno dopo il pronunciamento del comitato tecnico regionale per la valutazione di impatto ambientale che martedì sera ha detto che il progetto non ha ottemperato alle prescrizioni a suo tempo indicate dalla Via nazionale e dunque non è ammissibile. La "bocciatura" dei tecnici della Via riguarda il mancato rispetto di alcuni parametri: il primo è la tutela dello scoglio della Madonnetta, sotto cui esistono formazioni di madrepore "presenti solo in un altro sito italiano"; lo scoglio doveva restare fuori dal porticciolo, invece il progetto lo ricomprende; l’altro è l’andamento del moto ondoso che infrangendosi sui moli del porticciolo turistico potrebbe avere ripercussioni circa la sicurezza per l’accesso al porto commerciale di Savona. E ieri Burlando ha rilanciato sulle questioni procedurali, ricordando che alla fine dello scorso mese di novembre i direttori generali del territorio e dell’ambiente della Regione avevano scritto agli enti richiamando la verifica del rispetto delle procedure. «Il progetto - ha ricordato ieri Burlando - non è stato approvato dalla conferenza dei servizi, il consiglio comunale di Albissola non si è mai pronunciato. Lo ha fatto, solo recentemente, il Comune di Savona: ma quando un consiglio comunale approva un progetto stabilendo la destinazione d’uso di un edificio, in questo caso la torre di Fuksas, che è nel territorio di un altro Comune, evidentemente si tratta di una procedura fragile. La cosa in comune tra le due realtà amministrative è il porticciolo. Ma l’edificio è nel Comune di Albissola». Il presidente ha ripetuto che il parere del comitato di Via non riguarda il merito del progetto. Poi ha ricordato che finora la Regione non si era espressa non avendo ricevuto nessun atto: «e le prime cose che abbiamo fatto sono state quelle di richiamare il rispetto delle procedure e ora di prendere atto del parere del comitato di via che è inoppugnabile». La vicenda ieri ha fatto emergere la differenza di posizioni interna alla giunta. L’assessore all’ambiente, Franco Zunino ha detto che: «il parere del comitato di Via verrà adottato dalla giunta regionale entro l’anno, nella seduta del 22 o in quella del 30». L’assessore all’urbanistica Carlo Ruggeri, come si legge in questa pagina, è del parere che invece non sia il momento di fare questa delibera. E il presidente Burlando? «Poco cambia se andiamo in giunta oggi, tra un mese o due. Il parere del comitato del Via (un soggetto tecnico, autonomo rispetto a un soggetto) c’è, dice che il progetto non ha ottemperato alle prescrizioni ed è inoppugnabile. Questo indipendentemente dal dire che il porto o il grattacielo vanno bene o non vanno bene». L’assessore Ruggeri osserva: «però è contraddittorio che il Comune e i privati abbiano lavorato su prescrizioni ben note dal 2005 e abbiamo pensato di essere d’accordo». Burlando: «Ma a noi importa cosa dicono i nostri uffici».

L’architetto: "Si costruirà comunque nel mio piano nessuna speculazione"

Sono tranquillo perché sono addirittura andato oltre le norme previste Lo scoglio? Non lo avrei mai toccato

L’architetto Massimiliano Fuksas, la "grande firma" internazionale cui i promotori del progetto hanno affidato il ridisegno della Margonara, dice: «Sono tranquillo» e nega su tutti i fronti. «Non è vero - dice - che non abbiamo rispettato le prescrizioni, anzi, sono andato oltre le norme previste. Arrivato alla mia età non ho alcun interesse a mettermi a fare speculazioni edilizie. Ho accettato l’incarico perché era un tema importante da affrontare, un tema che non è solo savonese o ligure ma è italiano. Il tema è se si comincia a costruire architettura o se si va avanti come si è fatto finora. Perché anche a Savona, se non sarà Fuksas si costruirà comunque, con un progetto diverso. La mia idea è costruire un paesaggio contemporaneo, con una passeggiata pedonale da Albissola a Savona, con gli alberi, uno spazio pubblico». Il Via dice che lo scoglio della Margonara non è libero e che non si salvaguarda neppure la colonia di madrepore di cui esistono in Italia solo due siti. Fuksas sobbalza: «La Margonara? E’ la cosa più tutelata del progetto; tutti quelli che ho incontrato, almeno una volta si sono tuffati da quello scoglio. Non lo toccherei mai. Non è vero che esiste questa piantumazione sul fondo». Come: non è vero? «A me hanno detto che hanno fatto fare delle ricerche e non ci sono queste formazioni». Un’altra osservazione riguarda la garanzia che il moto ondoso, con il porticciolo, possa compromettere l’accesso al porto commerciale di Savona: manca. «No, anche in questo caso sono state fatte tutte le analisi ed hanno escluso qualunque problema del moto ondoso. L’Italia è un paese in cui si torna sempre da capo, ma finora non c’è motivo di mettere in dubbio ciò che è stato presentato». Dunque, non si arrenderà? «Se il Comune avesse approvato il progetto con una maggioranza risicata, avrei detto che io non vado contro la rappresentanza dei cittadini. Ma l’approvazione è stata larghissima».

L’assessore all’ambiente "Difendiamo quelle coste"

L’assessore all’ambiente, Franco Zunino (Rifondazione) dice che il parere tecnico del Via: «preserva uno dei pochi tratti di costa rimasti liberi». Spiega che porterà in giunta una delibera con il parere del Via entro l’anno e dice che, a titolo personale, lui è convinto del fatto che quel tratto di costa dovrebbe rimanere come è. Carlo Ruggeri, Ds, sindaco di Savona fino a quando Burlando non lo ha chiamato in giunta regionale come assessore all’urbanistica, non la pensa come Zunino. Sugli effetti del parere del Via, frena e porge dubbi, proprio riguardo agli stessi argomenti che adopera il progettista, Massimiliano Fuksas in questa stessa pagina. L’architetto dice: abbiamo rispettato le prescrizioni. E l’assessore Ruggeri dice: «Siamo davanti a prescrizioni note a tutti fin dal 2005 e ora il comitato di Via dice che non è stato tenuto conto delle prescrizioni. Secondo il Comune di Savona che lo ha approvato, il progetto risponde a quelle prescrizioni. Il Via dice di no. Mi pare che ci sia una lettura contrastante». L’assessore Zunino dice che il parere del Via andrà in giunta entro fine anno? «Io non credo. E’ un atto relativo ad una procedura che è ancora in corso». E le madrepore sul fondo del mare? «Dico che non è il momento. Poi evidentemente la questione ambientale è dirimente: per il porticciolo di Noli-Spotorno, ad esempio, quando ci hanno detto che c’è la poseidonia il progetto non si è fatto, anche se le procedure erano tutte a posto e compiute. Il parere su Margonara andrà in giunta, ma non ora, non è maturo». Il Via però si è pronunciato ora. «Noi come Regione non ci esprimiamo prima dei Comuni e in questo caso si è espresso solo uno dei due Comuni». Il Via? «Si sono portati avanti ma non è il momento che la giunta possa deliberare su questo progetto: quando ci sarà, la delibera di giunta comprenderà tutti gli aspetti del progetto. Va da sé che quello ambientale è dirimente. Per ora quello del Via è un parere tecnico in una fase ancora informale. La procedura formale è che il progetto approvato dai Comuni di Savona e Albissola arrivi in Regione: noi non lo abbiamo ancora ricevuto. Il comitato di Via ha esaminato un progetto consegnato agli enti, per fare un esame specifico che è l’ottemperanza alle prescrizioni del Via nazionale».

Le dimissioni del Presidente Soru sono piene di significati e i piccoli chimici della politica isolana che hanno mischiato i loro intrugli sino a produrre un botto, rappresentano perfettamente la condizione di implosione dell’intero Pd regionale. Forse anche quella del partito nazionale.Raffigurano un’insufficienza, una ristretta visione isolana delle cose, ridotta a uno scoraggiante “meglio pochi, meglio sconfitti, purché tutto resti tra di noi”. Quei “noi” che provengono da un partito rimasto così spesso all’opposizione da aver imparato paradossalmente a governare solo stando dall’altra parte, in una minoranza.

Era evidente nel nostro Consiglio Regionale uscente quanto i consiglieri della cosiddetta sinistra esercitassero più “potere” quando erano all’opposizione di quanto ne possedessero con il governo Soru. E ne soffrivano.

Per questo motivo quando si è arrivati alle parti vitali della legge urbanistica - edificare sembra tragicamente l’unica economia possibile da queste parti - è crollato tutto, perfino la voglia di arrivare alle elezioni di maggio 2009 e di cercare di vincerle. E abbiamo visto, tra i banchi del presunto centrosinistra, una pasciuta soddisfazione perché le dimissioni di Soru costituivano, per una parte della maggioranza, un vero obiettivo di legislatura.

Saranno salutari le elezioni di febbraio.

D’altronde la letale legge urbanistica, proposta da questa Giunta, non sarà da rimpiangere. Essa aveva ceduto tanto, troppo agli interessi edificatori. Lo stralcio, ora legge, detto “sblocca-cantieri” è stato un danno. I brevissimi e inverosimili 30 giorni dopo i quali subentra il silenzio assenso a costruire, la pretesa vocazione edificatoria del territorio, l’invenzione di un diritto edificatorio dal quale i sardi sarebbero rivestiti venendo al mondo, avrebbero indebolito il Piano Paesaggistico sul quale si era fondata un’intera buona reputazione di governo. Meglio non avere di questa legge la paternità neppure putativa.

Il Pd è imploso e chissà che non ne derivi un’azione di purificazione della politica anche se è difficile crederci.

Ora resta da sperare nel “mondo civile” – speriamo che esista ancora – che quattro anni fa aveva creduto nella capacità di Soru di innovare e non farsi risucchiare dall’orrendo pantano delle mediazioni e dei patteggiamenti. Noi insistiamo a dire che prima esistono quel mondo e quelle persone e poi, solo poi, esiste chi lo rappresenta. Non vorremmo, davvero non lo vorremmo, affrontare ora l’orribile destino, che tocca all’elettore, del voto al “meno peggio”. Non è detto che disponiamo ancora di quelle energie e quelle intenzioni che cinque anni fa hanno “bucato” la nostra vita politica rassegnata, marginale e consegnata a un fato inevitabile. Chissà se, elettori e eletti, siamo gli stessi. E ammettiamo che la politica – nel senso tossicologico del termine– alla fine ce l’ha fatta, è dilagata ed ha appestato, in modo circolare le azioni di tutti.

Dopo le discussioni alte sulla necessità di salvare l’intatto che l’Isola possiede, le coste e le zone interne, di civilizzare il commercio turistico dei due mesi anfetaminici di luglio e agosto, di limitare l’avvelenamento dei luoghi legato a milioni e milioni di turisti affollati in poche settimane, dopo aver ottenuto un Piano Paesaggistico civile, dopo tutto questo, alcuni nostri “progressisti” hanno incominciato ad utilizzare provette, alambicchi e a mischiare quello che non si doveva mischiare. Sino, appunto, alla deflagrazione.

Forse non c’è nulla da fare. E forse l’Isola è destinata alla distruzione per una sua sottomissione storica alla politica piccola fatta dai rappresentanti dei cantoni in cui la nostra terra è divisa. La politica è anche questo, certo. Ma si ammala se è solo questo.

Questo articolo è stato pubblicato anche da Liberazione, il 27 novembre 2008

Un primo dibattito pubblico sul progetto Tui a Castelfalfi, ampiamente documentato su Eddyburg, si è concluso nel dicembre 2007 con alcune raccomandazioni del Garante alla comunicazione recepite dal consiglio comunale di Montaione in una delibera dove si stabilisce (fra l’altro) .. ’che si provveda:’

- alla verifica, con il supporto e la consulenza di Acque S.p.A...., delle reali esigenze di risorse idriche e delle modalità di approvvigionamento e di gestione;

- ad un ridimensionamento dell’intervento e alla qualità architettonica della progettazione del medesimo....;

- alla formulazione di un piano industriale dell’attività della Società Tenuta di Castelfalfi....;

- che sia mantenuta l’unitarietà dell’intervento.

Per dare corso al progetto, il 31 luglio 2008 il Comune di Montaione ha adottato una variante al Regolamento urbanistico. Leggere come in questa sede siano state tradotte le raccomandazioni del Garante è anche un’occasione per una riflessione più generale sul funzionamento della normativa regionale, qui sottoposta alla prova dei fatti da un’operazione particolarmente impegnativa e complessa.

Sul sito on line del Comune di Montaione è consultabile, oltre al RU (relazione, norme tecniche, cartografia), anche una ‘Guida alla variante’; un documento importante perché elemento fondamentale di comunicazione ad un pubblico più esteso del locale e quindi veicolo di una possibile nuova forma di partecipazione sul caso Castelfalfi La Guida è articolata in tre parti, oltre ad una premessa. La prima parte contiene una sintesi della valutazione integrata. La seconda è dedicata al Verbale di intesa fra Comune e Società Tenuta Castelfalfi Spa (Tui). Nella terza sono riassunti i principali contenuti della variante..

La valutazione integrata della variante al RU ha dato esito ampiamente positivo (chi ne avrebbe dubitato?) con alcune raccomandazioni riguardanti azioni di mitigazione e compensazione da rispettare nelle fasi attuative. Ma nel merito e soprattutto per la risorsaacqua, questione assolutamente cruciale, sono ripetute, senza approfondimenti, le indicazioni della delibera. In particolare, nella valutazione si raccomanda che in sede di approvazione della Variante il promotore fornisca bilanci idrici ed energetici debitamente certificati (un passo indietro rispetto alle raccomandazioni del Garante). Si dovrebbe invece affidare ad un soggetto terzo e indipendente la redazione degli studi sui bilanci idrici; come sarebbe molto meglio da un punto di vista partecipativo, che questi bilanci fossero preparati e valutati primadell’adozione del Regolamento Urbanistico. A maggior ragione se si considera che la questione ‘acqua’ è emersa come fondamentale nel dibattito, ed è proprio a proposito dei bilanci idrici che quasi tutti i partecipanti hanno evidenziato forti elementi di criticità.

La seconda parte della Guida illustra i principi fondamentali di un ‘Verbale di intesa’ che dovrebbe regolare gli impegni tra pubblico e privato. Si tratta di un documento di intenti, si spera non troppo generici, che – dice la Guida - sarà sottoscritto prima dell’adozione della variante,e in effettinella Guida i principi dell’intesa sono tutti coniugati al futuro; d’altra parte, se l’intesa, ad adozione avvenuta, è stata già firmata, perché non renderla di pubblica conoscenza e verificarla in termini di corrispondenza con le raccomandazioni del Garante?

Infine nella terza parte vi è una sintesi delle norme di attuazione, non solo di difficile comprensione per una valutazione del carico antropico complessivo, ma anche come semplice calcolo dei volumi e delle superfici utili. Manca, come si è accennato, l’analisi della domanda e della possibile offerta di risorse idriche: i metri cubi, more solito, anticipano la sostenibilità.

Quanto alle norme di attuazione nei primi tre punti dell’art. 45, alla voce ‘Castelfalfi’ vi sono alcuni enunciati criptici di cui di seguito diamo un esempio, perché i lettori di Eddyburg ci aiutino in un’analisi logica e sintattica che non siamo riusciti a portare a termine.


NTA, pg. 55, Contenuti e caratteri del progetto complessivo

Il progetto complessivo, che sostanzierà il contenuto del PUA, risponde alle seguenti finalità:

- individua la maglia insediativa caratterizzata da case isolate e viabilità poderale, case sparse, borgo antico e sua espansione in nucleo abitato su viabilità principale, emergenze storico-insediative tipiche del paesaggio agrario, emergenze naturalistiche, secondo quanto individuato dalla valutazione integrata della presente Variante, andando a costruire uno scenario di regole insediative che costituiscono l’identità funzionale, fisica e di immagine del territorio, sul quale fonda le ipotesi di intervento, che propongono il restauro e il recupero degli edifici dotati di valore architettonico o documentale, la nuova edificazione nei limiti dimensionali ammessi dal piano strutturale vigente, secondo le regole insediative storicamente consolidate, la tutela della viabilità esistente e la sua rifunzionalizzazione per la mobilità elementare, il ripristino e il miglioramento delle risorse naturali (vegetazionali e idriche) e delle sistemazioni agro-ambientali, la tutela dei filari alberati e delle masse vegetazionali storicamente consolidati e degli habitat naturali, l’accrescimento delle dotazioni territoriali infrastrutturali.

La lettura dei documenti ancora non disponibili on line consentirà un giudizio più approfondito sulla fase attuale del progetto. Tuttavia fin da ora sono evidenti due elementi critici, ormai costanti nella pianificazione toscana. Il primo elemento è il sistematico rinvio di analisi e decisioni strategiche a qualche fase e/o strumento urbanistico successivo. Questa prassi non è innocente perché funziona come un sistema di scatole cinesi che da una parte costituisce degli ‘stati di diritto’ da cui non si può tornare indietro, dall’altra riduce in modo irreversibile le opzioni del progetto. Di fatto si crea un vero e proprio ‘imbuto’ decisionale in cui diminuiscono progressivamente e drasticamente le possibilità di partecipazione. E, ancora, a proposito di rinvii alle fasi successivi, è paradossale l’anomalia di rimandare alla convenzione contestuale al piano attuativo non solo la formulazione del piano industriale, ma addirittura la valutazione di conformità del progetto alla normativa del PIT.

Per compiere questa disinvolta acrobazia il RU si inventa una nuova categoria concettuale, decisiva per l’approvazione del RU, il cui significato tuttavia sarà spiegato – si annuncia - successivamente. Recita infatti l’art 45 alla voce Caratteristiche dell’azione territoriale complessa che ‘in tale convenzione sarà chiarito il significato della definizione di “ambito residenziale integrato al sistema complessivo turistico-ricettivo (RTR)”, che il presente articolo individua come categoria rispondente agli obiettivi del Piano strutturale comunale e del Piano di indirizzo territoriale (PIT) regionale vigenti per l’utilizzo del patrimonio collinare secondo una dinamica imprenditoriale garante della “funzionalità strategica degli interventi sotto i profili paesistico, ambientale, culturale, economico e sociale “ statuita dall’art. 21 della disciplina del PIT già citato’. Vale a dire che prima si afferma con una presa si posizione ontologica che il progetto è conforme alla normativa del PIT, poi si spiegherà come e perché.

L’altro elemento critico, collegato al precedente è, a dispetto della proclamata unitarietà dell’intervento, l’eventuale frammentazione di piano e progetto in tante parti che rischiano di rendere incontrollabile il tutto (fin troppo banale dire che la valutazione di un progetto non è uguale alla sommatoria delle valutazioni delle sue parti). Da questo punto di vista è pericolosa la possibilità prevista nel NTA di spezzare di fatto il piano attuativo unitario in tanti piani riferiti a ognuna delle 12 unità minime di intervento. Rimane da chiedersi perché per il progetto Castelfafi non sia stata applicata la procedura del Piano complesso di intervento (che viene invece usata al di fuori delle prescrizioni della legge 1/2005 da altri comuni toscani), permettendo in tale modo un’approvazione contestuale di Regolamento Urbanistico e piano attuativo.

Sarebbe un errore se il Comune di Montaione, sotto la pressione di Tui, volesse dare un’accelerazione al progetto prima di avere sciolto alcuni nodi strategici riguardanti la sostenibilità dell’operazione in termini ambientali e paesaggisitici, mettendo ‘in cascina’ (di Tui) alcuni punti edificatori fermi e immodificabili. Spesso le scorciatoie sono pericolose e a conti fatti fanno perdere più tempo di un progetto ben valutato e partecipato in tutte le sue parti.

Una modifica c’è stata. Ma non è sufficiente a rendere accettabile la riforma che Sandro Bondi vuole attuare per il Ministero dei beni culturali. Ed ha sbagliato il Consiglio superiore a dare ad essa il via libera. È la posizione dell’Associazione Bianchi Bandinelli e di chi ha promosso l’appello, sottoscritto da settemila persone, contro la nascita di una Direzione generale con poteri sia sulla valorizzazione del patrimonio sia sulla tutela (poteri poi ridimensionati e ora senza ingerenze sulla tutela) e che verrebbe affidata a un manager, Mario Resca, affiancato da Vittorio Sgarbi.

Ieri all’Accademia di San Luca è stato presentato l’appello firmato da storici dell’arte, direttori di musei - molti gli stranieri - semplici cittadini, allarmati per la concezione mercantile del patrimonio che sarebbe propria della nuova Direzione generale e soprattutto del direttore designato. Silvia Ginzburg ha raccontato come, grazie anche ai siti di Repubblica e dell’Unità, l’afflusso delle sottoscrizioni sia stato impetuoso. «I firmatari hanno capito qual era lo spirito di questa riforma e quali rischi corra in generale una cultura che non sia televisione», spiega la Ginzburg, che ha denunciato anche le pressioni subite in molte soprintendenze affinché non si sottoscrivesse l’appello (l’on. Carlucci ha chiesto le dimissioni dei funzionari firmatari). Marisa Dalai Emiliani (che al Consiglio superiore ha votato no anche alla seconda versione del decreto) ha denunciato una riforma avviata senza consultazione con gli addetti ai lavori: «Mi preoccupa il fatto che la nuova Direzione generale abbia competenza su tutto il patrimonio e non più solo sui musei, come nella prima redazione».

Pornotax, archeocondono, condoni fiscali, edilizi, paesaggistici e ambientali, multe per eccesso di velocità. Fatti e norme fra loro in apparenza irrelati, ma sintomi di una tendenza comune. La pornotax recentemente introdotta prevede un’imposta extra del 25% sui prodotti pornografici (a definire che cos’è pornografia sarà, chi sa perché, il ministro dei Beni culturali). A quel che pare il gettito (previsto in 220 milioni l’anno) sarà usato per ripristinare finanziamenti all’opera lirica, al teatro, al cinema. Insomma, in un Paese che (a differenza di altri, come Stati Uniti o Gran Bretagna) non prevede benefici fiscali per chi faccia donazioni a istituzioni culturali, il buon cittadino che voglia finanziare la Scala o il San Carlo dovrà farlo consumando pornografia.

Il condono fiscale ha una lunga storia, a partire dal quarto governo Rumor (1973), quando ministro delle finanze era Emilio Colombo (ora senatore a vita), ma ha raggiunto il culmine coi condoni del 2003 e del 2005 (governo Berlusconi, ministro Tremonti), seguiti da un condono erariale (2006) che ridusse l’entità delle oblazioni comminate da condanne di primo grado. Il principio è chiaro: cittadini e imprese che hanno evaso le tasse (cioè violato la legge) vengono invitati a confessarlo, e pagando una frazione di quello che avrebbero dovuto vengono assolti dal peccato e dalle sue conseguenze. Il procuratore generale della Corte dei conti Pasqualucci nella relazione inaugurale 2008 ha stigmatizzato queste e altre sanatorie contabili come "incuranti dei loro effetti sui bilanci pubblici"; la Corte di Giustizia Europea ha condannato l’Italia (17 luglio 2008) per aver favorito mediante il condono la frode fiscale, violando il principio di eguaglianza fra i contribuenti degli Stati europei. Ma nulla assicura che altri condoni, più o meno "tombali", non siano in agguato.

Analogo il meccanismo sanatorio dei condoni edilizi, ambientali e paesaggistici. Cittadini che hanno violato la legge e sarebbero passibili di punizioni penali e pecuniarie (nonché dell’abbattimento di edifici abusivi) vengono istantaneamente assolti su pagamento di un’oblazione. In tal modo si legittima l’abuso col sigillo della legge, incoraggiando ulteriori abusi, perpetrati in attesa del prossimo, immancabile condono. Piombate a proteggere e incoraggiare la cementificazione dell’Italia coi governi Craxi (1985) e Berlusconi (1994, 2003, 2004), queste sanatorie mostrano la loro logica in alcuni episodi illuminanti. Per esempio nel 2004, pochi mesi dopo l’approvazione del Codice Urbani che prescrive l’assoluto divieto di sanatorie paesaggistiche (art. 181), lo stesso governo Berlusconi approvava una legge (308/2004) con la totale sanatoria di ogni illecito ambientale e paesaggistico, anche i più gravi. Nessuno vorrà credere che (come scrissero alcuni giornali) questo voltafaccia fosse indirizzato a sancire abusi edilizi in una villa del presidente del Consiglio; ma nessuno ha mai spiegato come mai a distanza di pochi mesi lo stesso governo adottasse per legge due principi tra loro opposti, prima condannando l´abusivismo e poi premiandolo.

Il cosiddetto "archeocondono" è fratello (non tanto minore) di queste sanatorie, e può rispuntare a sorpresa come emendamento alla Finanziaria. Capovolgendo la legge secondo la quale il patrimonio archeologico è di proprietà pubblica, questa norma più volte presentata e finora mai approvata (un primo, timido tentativo si deve a Veltroni: Atti Camera 3216/1997), prevede che chiunque illecitamente detenga materiali archeologici possa, anziché esser perseguito dalla magistratura o arrestato dai Carabinieri, autodenunciarsi pagando un’oblazione volontaria e restando in possesso dei materiali (secondo una versione più ipocrita, la proprietà sarebbe dello Stato, che li concederebbe al collezionista, tombarolo o trafficante, in deposito più o meno perpetuo, con facoltà di trasferirlo a pagamento ad altri). Anche i reati penali legati al traffico illecito di oggetti archeologici verrebbero estinti da questa "multa". Vanificato il lavoro di magistratura, Carabinieri, Guardia di Finanza. Ridicolizzata la nostra richiesta ai musei stranieri di restituire gli oggetti scavati illecitamente.

Una ratio comune lega queste norme e questi progetti: far cassa, ad ogni costo. Non ci sono soldi per l´opera lirica? Ricaviamoli dalla pornotax. Mancano finanziamenti per ridurre l’indebitamento pubblico? Ci aiuterà qualche sanatoria edilizia o ambientale, e se sarà al costo di disastri ecologici e paesaggistici, pazienza. Anche l’archeocondono, si sussurra, produrrebbe un gettito per ridurre (di poco) la voragine aperta dalla legge 133 nei conti del Ministero dei beni culturali. Stesso fine avrebbe il deposito ai privati di opere d’archeologia e d´arte su pagamento di canoni di concessione: il primo passo verso la vendita. Intanto qualcuno già corteggia emiri del Golfo Persico sperando in "depositi lunghi", pronto cassa, di qualche Botticelli o Caravaggio "minore" (?). Anche l’intensificarsi dei controlli sulla velocità nelle strade (lettori automatici, tutor, e così via) e il moltiplicarsi delle multe per assicurare introiti ai Comuni sempre più annaspanti ha, in piccolo, la stessa logica. Vuoi violare i limiti di velocità (o la legge sul patrimonio archeologico)? Tutto ok, purché sia a pagamento. Purché si inventino nuovi eufemismi: la pornotax diventa "tassa etica", le sanatorie vengono battezzate "programmazione fiscale", l’archeocondono pudicamente si traveste da "riemersione di materiali archeologici".

Si può ipotizzare l’estensione della medesima ratio ad altri ambiti. Pochi soldi per l’università dopo la legge 133? Semplice, vendiamo qualche esame e un po’ di lauree (magari ad honorem, rendono di più). Mancano i poliziotti, o la benzina nelle loro macchine? Facile, prendiamo i reati più comuni (furto, droga, violenze varie) e decretiamo che si estinguono sull’istante mediante autodenuncia e oblazione volontaria. E si potrebbe continuare. In tal modo, proprio come nel caso dell’archeocondono, il funzionamento della legge e delle istituzioni verrebbe garantito dai soldi di chi viola la legge e offende le istituzioni. Vi sarebbero da una parte gli impuniti che si arricchiscono violando la legge e si mettono al sicuro pagando oblazioni, dall’altra la massa dei cittadini tenuti (per mancanza di soldi) al rigoroso rispetto delle norme. Alle leggi ad personam che già offendono giustizia e diritto, si aggiungerebbe un pulviscolo di leggi a benificio di determinate categorie: ieri evasori fiscali, speculatori edilizi, distruttori del paesaggio, domani trafficanti di materiali archeologici, dopodomani chissà...

Fantapolitica? Forse. Ma fantasiose sarebbero apparse a chiunque, solo dieci anni fa, troppe cose che abbiamo visto accadere, incluse quelle di cui sopra. Se non è troppo tardi, fermiamoci a pensare. È proprio sicuro che la priorità assoluta debba essere far cassa, a costo di svuotare dall´interno le leggi che regolano la convivenza civile? È giusto che pagando si possa violare impunemente la legge? Che chi ha più soldi debba farla franca? Che, poiché la crisi economica impone di far cassa, nulla (ma proprio nulla) si debba fare per ridurre la gigantesca evasione fiscale, la più grande del mondo in valori assoluti (280 miliardi nel 2007 secondo l’Agenzia delle entrate)? È giusto che si rinunci ai maggiori introiti fiscali per poi tappare il buco tagliando gli investimenti sulla cultura? Siamo sicuri che invece di reprimere e punire chi non paga le tasse è giusto reprimere e punire, mediante tagli di bilancio sferrati alla cieca, chi fa ricerca, chi fa musica o teatro, chi insegna e chi studia, chi scava o vuol visitare in pace un piccolo museo? Dov’è finito il principio di eguaglianza sancito dalla Costituzione? Nella colpevole inerzia di troppe forze politiche (di maggioranza e "opposizione"), resta un soggetto che può e deve rispondere a queste domande. Noi, i cittadini.

Che si voglia cementificare il Parco Agricolo Sud Milano rischia di non essere più una notizia. Solo pochi mesi fa scrivevamo dei tentativi, autonomi e differenti, di Provincia e Regione di rivedere i confini del Parco. La Regione attraverso la modifica alla LR12/05 e la nuova legge sui parchi; la Provincia attraverso fantasiosi criteri di revisione del perimetro. Poi la modifica alla legge regionale si è arrestata in Consiglio, mentre il tentativo della Provincia è stato bocciato dalla stessa Regione Lombardia che non ha potuto far altro che prendere atto di come questi criteri fossero in palese contrasto gli obiettivi del Parco e con la normativa vigente.

Oggi il quadro è cambiato. Mentre in Regione è ferma la proposta di modifica alla legge regionale sui parchi (che avrebbe effetti su tutti i parchi, ma in particolare sul parco sud che sarebbe costretto a rivedere la propria legge istitutiva e quindi il proprio perimetro), l’Ente Parco Agricolo Sud Milano ha approvato dei nuovi criteri. Questi contengono un’importante novità. Per poter edificare le aree oggi incluse nei confini del Parco non è più necessaria una modifica del perimetro: si consente di costruirci direttamente dentro.

Proprio così. Martedì 9 dicembre, il Consiglio Direttivo del Parco Agricolo Sud Milano ha approvato i nuovi criteri per edificare all’interno dell’area protetta. Questi prevedono sostanzialmente una variante normativa al suo piano territoriale di coordinamento con l’individuazione di una nuova categoria di territori, le “Aree di ricomposizione dei margini urbani e di riqualificazione paesistica e ambientale, di interesse pubblico e di riassetto urbanistico”. In questo modo i 61 Comuni potranno individuare aree interne al parco, cambiarne la destinazione e quindi edificarle.

Così, mentre tutti si dichiarano contrari al consumo di suolo, il parco avvia un procedimento per edificare complessivamente 500 ettari (da sommare ai 360 dei Piani di Cintura Urbana, a quelli del Cerba e a quelli non ancora quantificati dai piani di fruizione). Questa naturalmente è solo una prima indicazione visto che nei passaggi successivi (a partire dal Consiglio Provinciale, cui spetta il compito di approvare definitivamente questa procedura) non è escluso che queste cifre possano aumentare, anche significativamente. La delibera è passata con 5 voti a favore (PD, Socialisti, Sinistra Democratica e “UDC”) e 4 contrari (Forza Italia, Verdi, agricoltori e ambientalisti).

Questa procedura ha poco senso per il Parco Agricolo Sud Milano. Infatti, se aree con una simile destinazione esistono in molti altri parchi regionali (es. quello del Ticino) e non esistono nel Parco Sud il motivo è semplice: quando è stato disegnato il perimetro del Parco, invece di includere aree poi da assegnare a pianificazione autonoma da parte dei Comuni (come per altri parchi), queste aree sono state direttamente escluse. Per farsi un’idea delle loro dimensioni, basta osservare la carta del Touring Club del parco: sono piuttosto evidenti le aree “bianche”, aree esterne al perimetro (quindi di esclusiva competenza dei Comuni), dove realizzare le espansioni urbanistiche. Dobbiamo credere che tutti i Comuni del Parco, in soli otto anni, abbiano esaurito le proprie previsioni di espansione urbanistica? Difficile crederlo; quello che certamente non si è esaurita è quella miope visione di sviluppo limitata allo sviluppo urbanistico, visione che evidentemente perdura anche in chi amministra il Parco Sud.

L’approvazione di questi nuovi criteri, infatti, non fa che confermare con evidenza (se ce ne fosse bisogno) come le priorità dell’azione di questa amministrazione del Parco non coincidano proprio con quelli previsti dalla sua legge istitutiva. Non si spiegherebbero altrimenti le risorse ed il tempo spesi per cercare di mettere a disposizione dei costruttori aree fino ad oggi protette, lasciando in secondo piano quelli che sono gli obiettivi del Parco, quelli stabiliti dalla sua legge istitutiva (che la Regione si è vista costretta a ricordare agli attuali amministratori nel bocciargli i vecchi criteri. Un episodio senza dubbio imbarazzante).

Se così non fosse, il tempo, le risorse e le energie spesi per rivedere i confini sarebbero stati investiti in modo più utile e coerente con le finalità del parco, magari anche per ascoltare i bisogni, le esigenze e le proposte dei cittadini da impiegare per la redazione dei piani della fruizione e dei percorsi, i piani per far vivere il parco. Nulla di tutto questo. Questi piani, facile prevederlo, saranno invece calati dall’alto proprio in prossimità delle elezioni, magari per cercare di far dimenticare la decisione di oggi.

Quella della revisione dei confini è una lunga storia, cominciata pochi mesi dopo l’approvazione del PTC del Parco, nel 2000. Una storia significativa di quello che è un approccio purtroppo diffuso al parco sud e, in genere, alle aree protette, viste come un enorme deposito di terreni da usare all’occorrenza per edificare e, nel frattempo, da riempire con variegate iniziative di comunicazione. Ce ne siamo già occupati nel primo numero di Gragra a cui si rimanda per approfondire i criteri bocciati, criteri, lo ricordiamo, fantasiosi, incoerenti con la normativa vigente e scritti esplicitamente per permettere l’edificazione delle aree del parco (quei criteri contenevano anche un tariffario con i prezzi delle aree da stralciare: così per la prima volta un parco regionale “metteva in vendita” le proprie aree). Mai approvati dal Consiglio Direttivo del Parco, bocciati dalla Regione Lombardia, sono stati però inviati ai Comuni (anche successivamente alla bocciatura regionale). L’effetto è stato quello di creare delle enormi aspettative di revisione e hanno di fatto sollecitato l’invio di richieste da parte dei Comuni. La decisione del Consiglio Direttivo di oggi non è che un ulteriore passo sbagliato di questo scriteriato, miope percorso.

Naturalmente torneremo sull’argomento.

I recenti provvedimenti in materia di urbanistica potrebbero essere rubricati o come reati per pubblicità ingannevole o come reati di falso ideologico.

In ogni caso è reato contro la fede pubblica dire che la densificazione in quanto tale - il costruire di più sulla stessa superficie di territorio comunale - migliori sempre la qualità della vita. Pubblicità ingannevole perché si attribuiscono alle proprie delibere in materia di urbanistica qualità che esse non hanno; falso ideologico perché si afferma cosa non vera inducendo nei terzi giudizi errati. Dimostrare reati in materia di qualità della vita è cosa ardua mancando una definizione universalmente condivisa: per una mamma qualità della vita è la scuola materna dei figli, per Salvatore Ligresti è far soldi. Ma su di una cosa si è tutti d’accordo: nella qualità della vita il verde pubblico gioca una parte predominante.

Qui ci muoviamo meglio perché il verde pubblico si misura in metri quadrati per abitante e l’ha insegnato a noi per tanto tempo il vicesindaco De Corato ricordandoci sempre che il verde pubblico era in continuo aumento: l’ultimo suo dato parlava di 17 metri quadri per abitante. Dimenticava, però, di dirci che la diminuzione della popolazione giocava a suo favore: stesso verde ma meno abitanti. Calcoli più realistici come quelli fatti dal professor Antonello Boatti, escludendo cimiteri, aiuole spartitraffico e altre frattaglie, ci portano a dire che i metri sono solo 10 contro i 65 di Berlino o i 24 di Londra, città spesso citata dai nostri amministratori negli ultimi tempi. Ma voglio essere generoso: quei 17 metri quadri mi stanno bene.

Diciassette metri quadri per abitante per 700mila nuovi residenti vuol dire che Milano, prima che arrivi l’auspicata valanga demografica, deve dotarsi per tempo di 12 milioni di metri quadri di nuovo verde. Il doppio di quello oggi realmente esistente. Di verde urbano che serva ad anziani, mamme e bambini, cittadini che vogliono godersi l’aria aperta senza fare chilometri. Dunque 12 milioni di metri quadrati rispetto ai soli 9 milioni di aree disponibili il cui vincolo è decaduto (dato Assimpredil Ance), aree già destinate a standard - servizi collettivi, servizi d’interesse generale, parchi intercomunali e verde pubblico - aree che l’amministrazione comunale vorrebbe rendere invece edificabili per edilizia residenziale, come dice, con il fine di migliorare la qualità della nostra vita. Rendere edificabili queste aree è follia e dire che è un’operazione per migliorare la qualità della vita è sbagliato; oggi è solo il caso di rinnovare in qualche modo i vincoli per avere spazio di manovra. Già è del tutto insensato dismettere per edilizia privata scali ferroviari e caserme sottraendoli all’uso pubblico: quel che se ne ricava in denaro - destinato a enti notoriamente scialacquatori - è nulla rispetto a quel che perde la collettività urbana per i suoi bisogni. A Milano, la città che dovrebbe attrarre giovani coppie, oggi le mamme si domandano: «È meglio avere le auto in sosta vietata ma finanziare con le multe il Comune o rinunciare alle materne perché non ci sono i soldi?» Questa è oggi la sola qualità della vita milanese: poter scegliere il meno peggio.

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