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«Stop al piano strutturale. La giunta degli scandali urbanistici vorrebbe concludere il lavoro, accampando motivi di ordine economico e di occupazione. Impediamo loro di fare altri danni». Lo chiedono i Comitati dei cittadini di Firenze, che fanno parte della rete di Alberto Asor Rosa. Insieme con Italia Nostra, con il Comitato per la tutela paesaggistica del Galluzzo e con il Comitato ex Panificio Militare (Novoli e Rifredi), sollecitano la moratoria del piano strutturale fiorentino: che - accusano - prevede tre milioni di metri cubi di edificazioni in più (il 25% dei quali su nuovo suolo, il resto su aree dismesse, fra cui quelle ferroviarie), oltre all´enorme operazione speculativa di Castello, alla rinuncia al disegno pubblico della città grazie a una sorta di prelazione agli imprenditori privati attraverso l´istituto dell´avviso pubblico, alla manomissione delle colline.

«Il nuovo piano strutturale - spiega Maria Rita Signorini di Italia Nostra - introduce il nuovo concetto di collina urbana ed extraurbana. Molte aree collinari, sinora inedificabili, sono state incluse nell´abitato. Così fra il Galluzzo e San Gaggio, così anche Rocca Pilucco e la collina delle Romite, il che fa pensare che saranno inzeppate di funzioni. Addirittura il parco ottocentesco della Villa dei Grandi Invalidi è stato diviso in due, una parte lasciata a parco urbano, l´altra annessa ad abitato denso. È una cosa totalmente nuova, che fa rabbrividire».

Secondo Italia Nostra e i Comitati, la salvaguardia delle colline - un punto fermo sin dal primo piano regolatore fiorentino, ribadito con l´istituzione del parco delle colline - è messa a rischio dal nuovo piano strutturale, all´interno del quale è stato denunciato anche l´innalzamento della quota altimetrica del limite inferiore del parco delle colline. Peraltro - accusano i Comitati - l´aggressione è già in atto da tempo a suon di varianti e di piani di recupero che sfruttano la possibilità, prevista dall´attuale regolamento urbanistico, di demolire i cosiddetti edifici fuori contesto (vecchie manifatture, autorimesse, depositi di materiali, le cosiddette classi 6) e di sostituirli costruendo nuovi immobili con un «premio» in termini di aumento di volumi. In questo settore la società di progettazione Quadra, fondata nel 2000 dall´ex capogruppo del Pd in Palazzo Vecchio Alberto Formigli e dall´attuale presidente dell´Ordine degli architetti Riccardo Bartoloni, è stata straordinariamente feconda. I Comitati si chiedono se ciò non dipenda dal fatto che durante la giunta Primicerio l´architetto Bartoloni fu uno dei consulenti incaricati, fra l´altro, di individuare gli immobili «fuori contesto».

Al Galluzzo, in aree agricole di particolare pregio o nel centro storico minore dove non si può neppure aprire una finestra a tetto, la Quadra sta costruendo 18 villette a schiera in via del Podestà (il consiglio comunale ha approvato una variante al piano regolatore per consentirglielo), un edificio detto il radiatore (9 appartamenti) in via Silvani, un palazzo di 18 appartamenti in via Buondelmonti (in un´area originariamente destinata a verde pubblico) e un edificio commerciale progettato personalmente da Formigli in via delle Bagnese, dove c´è chi non riesce neppure ad ottenere il permesso di installare un cancello. Lo ha raccontato il presidente del Comitato del Galluzzo Maurizio Toma, che ringrazia il consigliere di An Giovanni Donzelli per le sue battaglie per la salvaguardia delle colline. Sui quattro interventi Quadra del Galluzzo, i Comitati, Italia Nostra e alcuni residenti hanno presentato una serie di esposti, chiedendo il sequestro dei cantieri.

l’Unità

E ora Bertolaso farà anche l’archeologo?

di Vittorio Emiliani

Campidoglio e Collegio Romano hanno confezionato ieri un altro “pasticciaccio brutto”, un colpo di mano dei più clamorosi, stavolta in tema di archeologia romana. Il ministro Bondi e il sindaco Alemanno hanno concordato di proporre al governo la nomina di un commissario straordinario e di un vice-commissario, pure straordinario ma “attuatore” (entrambi con poteri che vanno quindi al di là delle leggi vigenti), per “l’intera area archeologica di Roma e di Ostia antica” nelle persone del sottosegretario alla Protezione civile, Guido Bertolaso, e dell’assessore capitolino alla pianificazione Marco Corsini. E la Regione Lazio (assessore alla Cultura, Rodano)? Dimenticata. E la direzione generale regionale dei BCA (Marchetti)? Svuotata, assieme alle Soprintendenze statali ai Beni archeologici di Roma (Bottini) e di Ostia Antica (Moretti) e a quella Capitolina (Broccoli). Spunta invece un superconsulente nella persona dell’archeologo Andrea Carandini che ambisce ad un Museo dell’antichità romana (ma non c’è già Roma?). Ed è sempre in agguato l’ombra di Cutrufo coi centurioni, le bighe e il parco tematico sulla romanità.

Quali i motivi di questo clamoroso commissariamento? Forse un dissesto idrogeologico stile Calabria? Neanche per sogno. Fra l’altro il comunicato ufficiale parla di poteri straordinari “anche” di protezione civile. “Anche”, attenzione. Ci sono stati alcuni cedimenti sul Palatino, ma basterebbe finanziare seriamente la Soprintendenza. Siamo ad una emergenza tale da scomodare Bertolaso? Non scherziamo. Si sa che le piogge eccezionali hanno prodotto infiltrazioni d’acqua nella Domus Aurea, ma è arcinoto che, fino a quando non si taglieranno i pini del parco soprastante che con le loro radici portano in basso acqua e umidità, il problema non verrà risolto. Nominiamo per questo Bertolaso? Ma per favore. Se esistono problemi di sicurezza per i Fori e per i loro monumenti durante la notte, ci mandiamo di pattuglia il capo della polizia Manganelli? Con questa logica diventa possibile. Ci sono problemi di custodi? Problemi non mancano mai, però, forse, ad affrontarli basta il sottosegretario Giro, mentre il ministro Bondi scrive poesie e recensioni.

Non stiamo a prenderci in giro (nella lingua del Belli sarei più drastico), siamo vecchi del mestiere: si crea il solito tavolone di lavoro, tecnico e affollatissimo, lo si riunisce una volta, e intanto supercommissario e vice fanno quello che vogliono coi loro poteri straordinari. Non a caso ci hanno messo due figure di nomina strettamente politica - un sottosegretario e un assessore comunale – il secondo chiaramente incompatibile, tagliando fuori, di fatto, i tecnici delle Soprintendenze e i loro uffici ai quali per ora spetta, in toto, la tutela. Non solo: il patto di ieri passa fra governo centrale e Comune di Roma lasciando seccamente fuori la Regione Lazio infischiandosene del Codice per i beni culturali e paesaggistici e del Titolo V della Costituzione. Regolarmente approvati e vigenti entrambi, mentre il disegno di legge sul federalismo fiscale che contiene le norme (pasticciate) per il futuro Ente Roma Capitale è, per ora, passato, a fatica, in prima lettura al Senato, e ne ha un bel po’ di strada da fare. Ma il sindaco Alemanno vuole mano libera e con lui il vice-sindaco Cutrufo. Per “valorizzare Roma”, per “rendere riconoscibili i luoghi” (i turisti, si sa, dentro i Fori si perdono, a migliaia, e lì vagano smarriti per mesi). Magari con una spettacolare illuminazione per il prossimo Natale di Roma. Nel contempo vogliono organizzare all’EUR un fragoroso circuito di Formula 1 così i residenti imparano a convivere con l’urlo dei bolidi e l’immagine futuristica di Roma trionfa nel mondo, in competizione con Shangai e Montecarlo, regni dei grattacieli e del cemento. Ma dove siamo precipitati in pochi mesi? In quale abisso sottoculturale? Intellettuali romani e italiani, battete un colpo se ci siete. Opposizione, svegliati.

Campidoglio e Collegio Romano hanno confezionato ieri un altro “pasticciaccio brutto”, un colpo di mano dei più clamorosi, stavolta in tema di archeologia romana. Il ministro Bondi e il sindaco Alemanno hanno concordato di proporre al governo la nomina di un commissario straordinario e di un vice-commissario, pure straordinario ma “attuatore” (entrambi con poteri che vanno quindi al di là delle leggi vigenti), per “l’intera area archeologica di Roma e di Ostia antica” nelle persone del sottosegretario alla Protezione civile, Guido Bertolaso, e dell’assessore capitolino alla pianificazione Marco Corsini. E la Regione Lazio (assessore alla Cultura, Rodano)? Dimenticata. E la direzione generale regionale dei BCA (Marchetti)? Svuotata, assieme alle Soprintendenze statali ai Beni archeologici di Roma (Bottini) e di Ostia Antica (Moretti) e a quella Capitolina (Broccoli). Spunta invece un superconsulente nella persona dell’archeologo Andrea Carandini che ambisce ad un Museo dell’antichità romana (ma non c’è già Roma?). Ed è sempre in agguato l’ombra di Cutrufo coi centurioni, le bighe e il parco tematico sulla romanità.

Quali i motivi di questo clamoroso commissariamento? Forse un dissesto idrogeologico stile Calabria? Neanche per sogno. Fra l’altro il comunicato ufficiale parla di poteri straordinari “anche” di protezione civile. “Anche”, attenzione. Ci sono stati alcuni cedimenti sul Palatino, ma basterebbe finanziare seriamente la Soprintendenza. Siamo ad una emergenza tale da scomodare Bertolaso? Non scherziamo. Si sa che le piogge eccezionali hanno prodotto infiltrazioni d’acqua nella Domus Aurea, ma è arcinoto che, fino a quando non si taglieranno i pini del parco soprastante che con le loro radici portano in basso acqua e umidità, il problema non verrà risolto. Nominiamo per questo Bertolaso? Ma per favore. Se esistono problemi di sicurezza per i Fori e per i loro monumenti durante la notte, ci mandiamo di pattuglia il capo della polizia Manganelli? Con questa logica diventa possibile. Ci sono problemi di custodi? Problemi non mancano mai, però, forse, ad affrontarli basta il sottosegretario Giro, mentre il ministro Bondi scrive poesie e recensioni.

Non stiamo a prenderci in giro (nella lingua del Belli sarei più drastico), siamo vecchi del mestiere: si crea il solito tavolone di lavoro, tecnico e affollatissimo, lo si riunisce una volta, e intanto supercommissario e vice fanno quello che vogliono coi loro poteri straordinari. Non a caso ci hanno messo due figure di nomina strettamente politica - un sottosegretario e un assessore comunale – il secondo chiaramente incompatibile, tagliando fuori, di fatto, i tecnici delle Soprintendenze e i loro uffici ai quali per ora spetta, in toto, la tutela. Non solo: il patto di ieri passa fra governo centrale e Comune di Roma lasciando seccamente fuori la Regione Lazio infischiandosene del Codice per i beni culturali e paesaggistici e del Titolo V della Costituzione. Regolarmente approvati e vigenti entrambi, mentre il disegno di legge sul federalismo fiscale che contiene le norme (pasticciate) per il futuro Ente Roma Capitale è, per ora, passato, a fatica, in prima lettura al Senato, e ne ha un bel po’ di strada da fare. Ma il sindaco Alemanno vuole mano libera e con lui il vice-sindaco Cutrufo. Per “valorizzare Roma”, per “rendere riconoscibili i luoghi” (i turisti, si sa, dentro i Fori si perdono, a migliaia, e lì vagano smarriti per mesi). Magari con una spettacolare illuminazione per il prossimo Natale di Roma. Nel contempo vogliono organizzare all’EUR un fragoroso circuito di Formula 1 così i residenti imparano a convivere con l’urlo dei bolidi e l’immagine futuristica di Roma trionfa nel mondo, in competizione con Shangai e Montecarlo, regni dei grattacieli e del cemento. Ma dove siamo precipitati in pochi mesi? In quale abisso sottoculturale? Intellettuali romani e italiani, battete un colpo se ci siete. Opposizione, svegliati.

la Repubblica

Archeologia a Roma. Il ministro Bondi manda i commissari

di Francesco Erbani

Dopo Pompei anche Roma avrà il suo commissario. Il ministro per i Beni culturali Sandro Bondi, d´accordo con il sindaco Gianni Alemanno, proporrà al governo di nominare Guido Bertolaso, capo della protezione civile, e l´assessore all´urbanistica del Comune di Roma, Marco Corsini, commissario e vicecommissario per l´area archeologica non solo di Roma, ma anche di Ostia. Bertolaso e Corsini, si legge in una nota, avranno «poteri straordinari, anche di protezione civile».

Quali siano nel dettaglio i poteri ancora non si capisce. Ma qualcuno legge questa vicenda insieme alle norme per Roma capitale contenute nel provvedimento sul federalismo fiscale, che potrebbero trasferire alla capitale competenze sul patrimonio storico-artistico che ora sono dello Stato. Il sindaco di Roma spinge strenuamente in questa direzione. La nomina di Corsini come vice di Bertolaso pone anche un problema di compatibilità visto che molti provvedimenti dell´assessorato all´urbanistica sono sottoposti al controllo della Soprintendenza archeologica di Roma.

Per il sottosegretario Francesco Giro si tratta di «una svolta epocale», perché consentirà di abbattere «il muro fra Governo centrale e Comune di Roma che spaccava in due anche materialmente l´area archeologica centrale». Ma anche questa esigenza, da molti condivisa, non spiega il perché sia stato investito il capo della protezione civile, quasi che l´area archeologica romana fosse abbandonata a una gravissima incuria che sfiora lo stato di calamità. A meno che l´obiettivo vero non sia di poter operare rapidamente e in deroga a tutte le leggi, cosa che è consentita alla protezione civile. Al nuovo commissario, aggiunge Giro, sarà affiancato un comitato scientifico guidato dall´archeologo Andrea Carandini.

La Repubblica, ed. Roma

Fori, Bertolaso supercommissario.

Braccio di ferro Comune-Governo

di Carlo Alberto Bucci

Un medico e un avvocato per curare l’intero patrimonio archeologico di Roma: il parco dei Fori, ovviamente, ma anche l’area di Ostia antica e quella dell’Appia. Sarà il capo della Protezione civile Guido Bertolaso, affiancato dall’assessore all´Urbanistica Marco Corsini, a occuparsi della valorizzazione di tutti i monumenti e i resti di epoca romana rinvenuti nella capitale e dintorni. Mettendo così fine a quello spezzatino di competenze, comunale e statale, spesso sovrapposte e in conflitto fra loro. «Il primo segno di questa nuova era», spiega il responsabile della Cultura Umberto Croppi, «sarà visibile il 21 aprile, Natale di Roma, quando verrà abbattuto il muro che ancora divide la parte di Foro di pertinenza comunale da quella statale».

La decisione è arrivata ieri, al termine della prima riunione del tavolo tecnico Città-Stato presieduto dal sottosegretario ai Beni culturali Francesco Giro. È stato il ministero a rendere noto, in un comunicato, l’intenzione del ministro Bondi di proporre al premier, d’intesa con il sindaco Alemanno, «una specifica ordinanza che preveda poteri straordinari, anche di protezione civile, per risolvere le problematiche dell’intera area archeologica di Roma e di Ostia Antica» attraverso la nomina di Bertolaso «quale commissario straordinario» e di Corsini «quale soggetto attuatore». Un ticket che in realtà nasconderebbe l’ennesimo conflitto tra il governo centrale e quello locale: con Alemanno che, contrario all’ipotesi Bertolaso con cui nei giorni dell’emergenza maltempo ebbe più di uno scontro, avrebbe voluto al vertice un suo uomo, l’assessore Corsini; e il sottosegretario Giro che sin dal sopralluogo compiuto ai Fori il 30 dicembre aveva caldeggiato «una legge speciale per l’area archeologica centrale» e «il coinvolgimento di Bertolaso». Esattamente quel che è avvenuto ieri, grazie anche alla mediazione di Gianni Letta.

Si tratta dunque di uno schiaffo al sindaco Alemanno? «Volevo l’eccellenza e ho avuto l’eccellenza» glissa con eleganza Giro: «Uniamo al carisma di Bertolaso la grande competenza di Corsini che, quand’era assessore a Venezia, ha fatto risorgere la Fenice ed è un avvocato dello Stato esperto in appalti pubblici. Sarà un subcommissario con altrettanti poteri. Capace anche di governare la contabilità speciale dell’ufficio, dove confluiranno i fondi della soprintendenza archeologica, della Arcus spa e delle Fondazioni bancarie». È trionfante il sottosegretario ai Beni culturali: «Da oggi lavoreremo insieme, in modo condiviso e unitario, per rilanciare la zona archeologica più celebre del pianeta». Protesta però l’assessore regionale alla Cultura del Lazio: «La Regione, che deve esprimere un parere vincolante, non è stata consultata». E mugugni per lo scippo subìto giungono pure dalla soprintendenza, che tuttavia «resterà nella pienezza dei suoi poteri» rassicura Corsini: «La tutela continuerà a essere esercitata da Bottini». Detto questo, «si tratta di un’impresa storica», conclude l’assessore: «Perciò il governo ha previsto una dotazione all’altezza della missione: mettere fine a decenni di degrado e abbandono di un tesoro che non appartiene solo a Roma ma al mondo intero».

Italia Nostra

Comunicato sul Commissariamento

della Soprintendenza Archeologica

Il comunicato del MiBAC in data 30 gennaio con cui si rende pubblica la decisione del Ministro Bondi, in accordo con il Sindaco Alemanno, di proporre la nomina di Guido Bertolaso, capo della protezione civile, e dell’assessore all’urbanistica del Comune di Roma, Marco Corsini, quali commissario straordinario e vicecommissario (“soggetto attuatore”) per le aree archeologiche di Roma e di Ostia Antica, suscita in Italia Nostra più di un motivo di preoccupazione se non di sconcerto.

In attesa di conoscere nel dettaglio i poteri attribuiti ai commissari, si rileva come prosegua, da parte del Ministero, la pratica dei commissariamenti dei propri organi di tutela sul territorio, le Soprintendenze, così come già accaduto per Pompei, con risultati di modestissimo impatto rispetto alle dichiarate finalità, così come rilevato concordemente dagli organi di stampa e dagli studiosi nazionali e internazionali.

Poiché, ancor più che per il sito campano, le ragioni di “protezione civile” addotte per il provvedimento per le aree archeologiche di Roma e Ostia appaiono del tutto inconsistenti, trova spazio il sospetto che l’obiettivo principale di una simile decisione sia da annettere alla facoltà, spesso connessa al ruolo dei commissari, di deroga rispetto alle normative correnti, a partire da quella sui Lavori Pubblici e quindi, in buona sostanza, la facoltà di agire da stazione appaltante con corsie “privilegiate” rispetto alle regole vigenti.

Italia Nostra, oltre a respingere queste modalità tese a creare situazioni di emergenza fittizie allo scopo di operare in assenza di vincoli e controlli, sottolinea la gravità della decisione ministeriale che di fatto viene ad esautorare i propri organi territoriali, le Soprintendenze, ponendole “sotto tutela” di figure peraltro completamente prive di ogni seppur minima competenza nell’ambito del patrimonio archeologico, della sua tutela e della sua gestione, a tal punto che lo stesso Ministero ha ritenuto necessario, contestualmente, affiancar loro un Comitato scientifico, ancora una volta esterno alla Soprintendenza che, quindi, viene di fatto completamente delegittimata anche sotto il profilo culturale.

A queste considerazioni si aggiunge il fatto che il “soggetto attuatore” o vicecommissario Marco Corsini è contestualmente Assessore del Comune di Roma, e dunque il provvedimento, accogliendo la rivendicazione del sindaco Alemanno, in pratica trasferisce alla amministrazione della capitale i compiti di tutela archeologica, perciò municipalizzata. Per altro Corsini è assessore all’Urbanistica, in questo ruolo chiamato quotidianamente ad assumere provvedimenti sui quali la Soprintendenza archeologica ha l’obbligo di esercitare controlli ed esprimere pareri: sovrapposizione questa, che rende assolutamente incompatibile, sotto il profilo di opportunità istituzionale, l’esercizio contestuale della doppia funzione.

La stessa estensione del provvedimento, oltre che all’area capitolina, a quella di Ostia Antica, rende più che opportuno necessario, anche da un punto di vista territoriale, il coinvolgimento di organi istituzionali di area vasta quali Regione e Provincia; a meno che l’ampliamento al sito costiero non stia a prefigurare, quasi una prova generale, il progetto di una futura annessione della Soprintendenza Ostiense a quella di Roma, cancellazione determinata non da ragioni di ordine scientifico-culturale, bensì dai diktat del Ministero dell’Economia.

Italia Nostra nel richiedere al Ministro di recedere della proposta, lo invita piuttosto ad attivarsi per recuperare quelle risorse finanziarie, ma non solo, che, sottratte al Ministero da lui diretto, sono i veri e soli strumenti di cui le Soprintendenze di Roma e Ostia hanno assoluto e urgente bisogno per operare e garantire quei livelli di tutela che, pur in condizioni di difficoltà così gravi come quelle attuali, hanno saputo garantire fino a questo momento.

Costata 208 milioni per 18,6 km di percorso con 16 gallerie, due viadotti e otto svincoli, la bretella Malpensa-Boffalora della statale 336 è percorsa oggi da poco più di 10mila veicoli al giorno contro una portata di 90mila. Effetto dell’incapacità della Regione, secondo le accuse degli ambientalisti, di programmare le strade dove servono. E anche quando servono, visto che la bretella, pensata per collegare l’aeroporto all’autostrada Milano-Torino, è stata completata dieci anni dopo l’apertura di Malpensa 2000 e addirittura inaugurata a fine marzo del 2008, in coincidenza con il taglio dei voli deciso da Alitalia. Di qui le preoccupazioni ecologiste per il programma di infrastrutture previste nella regione, otto progetti per un totale di quasi 470 km. «Polemiche strumentali», risponde dal Pirellone l’assessore alle Infrastrutture, Raffaele Cattaneo.

Le possibilità per la bretella di recuperare a breve redditività con un maggior utilizzo appaiono scarse. L’altro pezzo della 336, da Busto a Malpensa, percorso da 80mila veicoli al giorno quando lo scalo della brughiera andava a pieno regime, è sceso a 50mila. Il che, di per sé, non è un male, visto che era giunto praticamente alla saturazione. Tuttavia secondo Dario Balotta, per anni segretario regionale Cisl dei Trasporti e ora esperto per Legambiente, «occorre fare attenzione al consumo inutile di territorio. A cosa ci servono i 68 km della Broni-Mortara e i 67 della Cremona-Mantova, autorizzate dalla Regione? E la stessa Brebemi, altri 55 km, che a dieci km di distanza ha la A4, ormai decongestionata grazie alle quattro corsie fino a Bergamo?».

«Oggi la bretella Malpensa-Boffalora, che già è costata moltissimo, è del tutto sproporzionata rispetto alle esigenze - insiste Balotta - ci passa un’auto ogni tanto. Ricordo che il Malpensa-Express ha lo stesso problema: 54 treni al giorno che nemmeno nel periodo migliore sono andati oltre la metà dei seimila passeggeri previsti per convoglio. Con l’aeroporto nelle condizioni che sappiamo, non possiamo lasciare 54 treni vuoti. Apriamoli ai pendolari riducendo il biglietto e aumentando le fermate».

Il quadro delle infrastrutture promosse da Regione e Anas è completato dalla Pedemontana (87 km), dal tratto lombardo della Tibre, la Tirreno-Brennero (85), dalla Tangenziale est esterna (35), dall’autostrada della Valtrompia (35) e dalla Boffalora-Milano (35). Quest’ultima è la strada prevista nel parco del Ticino che prosegue la bretella, scendendo a sud da Boffalora verso Magenta, Robecchetto sul Naviglio e Cassinetta di Lugagnano e da Albairate a Milano si converte in riqualificazione della provinciale 114. «Inutile, anzi dannosa - la bolla il sindaco di Cassinetta, Domenico Finiguerra - il traffico dalla nostra zona a Malpensa non è mai stato eccezionale eppure la si vuole rendere praticabile a 120mila veicoli al giorno». Anche Albairate e Cisliano avevano fatto ricorso al Tar.

Tutte critiche «strumentali», per l’assessore Cattaneo: «A parte Cassinetta, gli altri Comuni sono tutti favorevoli. Il collegamento da Malpensa a Boffalora e la sua prosecuzione in funzione dello sbocco sulla tangenziale Ovest garantiscono un anello autostradale attorno a Malpensa, un secondo asse se l’Autolaghi è bloccata. Opere che hanno un valore in sé per un aeroporto che rimane il principale del Nord, nell’intendimento della Regione e nei numeri».

Nota: il riferimento, al solito (per chi non fosse ancora stremato dallo spettacolo) è al grande anello autostradale a servizio di auspicati (dalla maggioranza di centrodestra & altri) insediamenti diffusi o sprawl, che abbiamo soprannominato a suo tempo Zia T.O.M. (f.b.)

La prima a defilarsi è stata Esselunga, l’unica tra gli interessati che a suo tempo aveva addirittura già comprato l’area su cui aprire un punto vendita. Il supermercato a Montecity-Rogoredo, dopo che il consiglio di amministrazione del gruppo ha deliberato la vendita dell’area, invece non si farà. Un segnale preoccupante per quell’ambiziosa "città nella città" con case e negozi di lusso promessa dal progetto Milano-Santa Giulia della Risanamento di Luigi Zunino, che allo stato attuale è ancora un’incognita. E di cui peraltro a settembre il gruppo Zunino ha annunciato la vendita.

I ritardi accumulati dal progetto, che doveva essere concluso non oltre il 2011, hanno modificato i programmi anche di altri operatori che in questa nuova sfida aveva mostrato più che un interesse. A scoraggiare le grandi aziende, in parte, c’è anche la decisione del Comune di costruire al Portello il grande Centro congressi per 8mila persone previsto anche nel progetto di Norman Foster per Santa Giulia. Una mossa che se non esclude quantomeno fa sorgere qualche dubbio sulle chance di costruzione di un gemello più grande, ora che anche i contratti con i progettisti, tra cui anche Jean Nouvel, sarebbero scaduti.

Un rovesciamento di piani che è alla base della decisione di Esselunga di non investire più in questa sfida. Ma il gruppo guidato da Bernardo Caprotti non è l’unico ad aver cambiato idea. La Feltrinelli, che puntava a dotare il nuovo quartiere di uno store di libri e musica, ha dato forfait e non sembra lasciare margini di trattativa. «Non siamo più interessati a quel progetto», fa sapere senza mezzi termini la casa editrice. Il progetto che doveva contribuire a cambiare il volto di Milano, e che aveva dato un motivo in più per acquistare casa alle migliaia di persone che si trasferiranno a breve nei palazzi di edilizia convenzionata a firma Paolo Caputo, senza essere partito ha già due defezioni nette.

Altri operatori non nascondono invece di essere ancora interessati alla faccenda, ma con dei limiti. Come Rinascente, che ha un contratto con precise scadenze per consegna e apertura ma dall’ampio margine temporale: «Per il momento è nostra intenzione partecipare al progetto - commenta Vittorio Radice, amministratore delegato di Rinascente - . Essenziale è che venga realizzato con la misura e qualità in cui è stato concepito». Come dire, se le carte in tavola e gli attori cambiano non assicuriamo di esserci. L’azienda di moda Hermès fa sapere di essere ancora molto interessata all’apertura di boutique nell’area, ma nella categoria dei dubbiosi è entrata anche Uci cinema Italia, che a Santa Giulia vorrebbe aprire 12 sale: «Siamo ancora dell’idea - spiega l’ad Andrea Stratta - ma ci riserviamo di decidere definitivamente solo dopo aver visto il restyling del progetto».

"Abbiamo lasciato costruire villaggi fantasma e reso fantasmi i nostri paesi". Questa amara contraddizione la sottolineò Renato Soru allorché decise di varare in Sardegna il decreto salvacoste. Una contraddizione che riguarda un po’ tutto il Sud e in generale le coste italiane dove, fra villaggi turistici, seconde e terze case, abitate soltanto poche settimane l’anno, si è distrutto un patrimonio ingentissimo senza dar vita ad un turismo e ad altre attività socio-economiche stabili e armonizzate con l’ambiente.

Coerentemente la Regione Sardegna, unica in Italia, ha fatto seguire al decreto salvacoste i piani paesaggistici costieri. Stava per approvare una nuova legge urbanistica quando si sono manifestate, pure nel PD, resistenze e dissensi che hanno indotto Soru a scegliere il chiarimento del voto anticipato. La partita che si gioca in Sardegna è quindi strategica. A Renato Soru, governatore pianificatore e programmatore, si contrappone, non il candidato Cappellacci, bensì lo stesso presidente del Consiglio Berlusconi. Il quale, da immobiliarista privato, non vuole avere vincoli sul territorio. A scapito, ovviamente, dell’interesse generale. Una logica che in Sardegna diventa di tipo "coloniale". Berlusconi l’ha confermato ieri attaccando in modo scomposto e volgare il governatore uscente, come imprenditore, come politico, come sardo. Segno evidente che ne teme la riconferma.

Nell’isola, prima della elezione di Soru, si costruiva a tutto spiano, a pochi metri dal mare, distruggendo dune e macchia mediterranea. Fra 2000 e 2003 i permessi di costruzione accordati erano poco meno che raddoppiati (+ 84 %). Cifra da capogiro se pensiamo che quel cemento rimane inutilizzato per la maggior parte dell’anno, dopo aver distrutto per sempre un patrimonio irripetibile. Le grandi spiagge della Costa Verde sono ancora intatte, con dune che si spingono anche per 2 Km nell’entroterra fra pini e pinastri, cisto, lentischio, ginepro, corbezzolo. Dobbiamo lasciarle spianare dalle ruspe? Berlusconi ha affermato ieri che il decreto salvacoste ha depresso le quotazioni dei terreni costieri e aperta alla speculazione la corsa nelle aree interne: dimentica di dire che i piani paesaggistici in programma avrebbero riguardato anche l’interno e che la legge urbanistica avversatissima dal PdL avrebbe regolamentato l’isola intera. Fra i suoi argomenti c’è l’accusa a Soru di aver bloccato l’economia, di aver soffocato il turismo. Bugie smentite dalle cifre: in un Sud bloccato o in regresso, nel 2007 la Sardegna ha incrementato i propri occupati quasi dell’1 %. In quell’anno arrivi e presenze hanno segnato + 15 e + 18 %. Nell’estate del 2008, rispetto al calo di tante regioni italiane, la Sardegna ha segnato un + 4,42 %.

Il Cavaliere è impegnatissimo in una personale "battaglia di Sardegna". Lo è, frontalmente, in prima persona. La posta in gioco è alta: o si affermano l’idea e la pratica di una pianificazione virtuosa che salvi ed usi al meglio, saggiamente, i beni primari dell’isola, oppure torna la barbarie della "colonizzazione" della Sardegna a base di sempre nuovo cemento. A danno dei sardi, dei loro figli e nipoti.

Caro direttore, ricordo la mia geografia notturna di Roma negli anni Sessanta: il Doc di via dell’Oca a parte, alle due di notte c’era Mario a via della Vite (dal vino bianco troppo chiaro) o lo Zaffiro al Corso; fino alle quattro era aperta la trattoria frequentata dai tipografi del "Tempo" e del "Popolo" a piazza Navona; il Settebello vicino al "Messaggero" ed il bar di Salita de’ Crescenzi fino all’alba. Oggi si tira mattino in dimensioni di massa, alla ricerca dello sballo uguale per tutti, senza individuali velleità di epifanie joyciane. Ma lo spazio pubblico, lo spazio di tutti, della polis, dei valori condivisi e della politica, sembra essersi improvvisamente ristretto. Le periferie tornate al tempo della Roma dei sette Sindaci democristiani. Dove c’è vita notturna, la vitalità dell’estate romana, dell’Auditorium, delle stesse Notti Bianche, si è trasformata in bulimia e ripetizione coatta. Scomparse assieme alle zone di pausa e di segretezza, sorpresa e meraviglioso urbano. La vita notturna romana rivela oggi, come ai tempi delle cantine e dei cineclub, identità in formazione, progetti, speranze di un futuro migliore? La città è più buia, l’illuminazione pubblica dimezzata dalla nuova Acea dei costruttori (mentre si costruiscono i primi enclaves residenziali recintati e sorvegliati). La Roma notturna degli anni settanta aveva sostituito piazza Navona col Pantheon, quella degli anni ottanta con piazza delle Coppelle e piazza della Pace. Oggi c’è l’asse delle bevute piazza Trilussa - ponte Sisto - Campo de’ Fiori, dove si parla più inglese che italiano.

Già Alessandro Manzoni ha chiuso i conti con la cultura delle grida, sanzioni che si sa non saranno applicate. A intervenire sugli effetti, si pesca l’acqua con le reti. Come ritrovare un’idea condivisa di spazio pubblico, d’interesse generale, di vita collettiva? Comprendendo che la democrazia si nutre di diversità. Non ha molto a che fare con ciò che è omologato. Bisogna imparare di nuovo a coltivare il pluralismo. C’è stato un momento in cui Roma è stata davvero un modello per il mondo. La città di Los Angeles mi ha invitato per capire come realizzare, partendo dall’sperienza romana, una Los Angeles after dark, dopo il tramonto.

Se l’obiettivo è una Roma attraente, competitiva in Europa, come Parigi o Barcellona, perché non usare l’urbanistica? Le effettive nuove centralità romane sono l’Auditorium, San Lorenzo, Testaccio, in parte l’Ostiense. Ahimè, tutte espansioni a macchia d’olio del centro già esistente. Perché non reintrodurre almeno - partendo da zone come Campo de’ Fiori - il controllo delle destinazioni d’uso sostenibili? Qualcosa di analogo ai vecchi piani del commercio, che Rutelli abolì negli anni Novanta, senza pensare di aprire la strada alla trasformazione del centro in uno shopping mall a cielo aperto, con bar e ristoranti.

Basterebbe averlo visto almeno una volta il degrado del quartiere del Quartaccio per capire i motivi della violenza che ci circonda. I giardini pubblici che si affacciano sulla valle sottostante sono ricolmi di ogni genere di rifiuto urbano. I marciapiedi e gli stessi passaggi pubblici sotto gli edifici non invitano a percorrerli neppure di giorno. Figuriamoci in una notte d’inverno. La notte, al Quartaccio come in migliaia di luoghi simili sparsi in tutta la periferia romana, conviene stare in casa. Anche perché l’illuminazione è scarsa e fatiscente Se si torna dal lavoro, come l’altra sera è capitato alla donna scesa al capolinea del 916, si rischia di essere violentate.

Ormai di tragici episodi di violenza sessuale ne accadono in continuazione, dalla nuova fiera nella notte di capodanno all’episodio de La Storta sfruttato dalla destra in campagna elettorale. Che ci siano buoni livelli di illuminazione o meno –ed è ovviamente auspicabile che ci siano-, la caratteristica che accomuna tutti quei teatri di violenza è l’assoluta mancanza di città. Di un luogo che era in grado di difenderci dalle paure perché caratterizzato da elementi di convivenza e di vita sociale.

Questa città non esiste più. I luoghi in cui avvenivano incontri e osmosi sociale, dalle scuole ai centri civici, sopravvivono a stento dalla scure dei tagli alla spesa pubblica. I quartieri di edilizia pubblica, come il Quartaccio, versano in uno stato di abbandono vergognoso, non ci sono i soldi, rispondono ancora. I negozi di vicinato che rappresentano spesso gli unici luoghi di incontro o sono completamente chiusi o la sera abbassano presto la serranda. Stanno chiudendo uno dopo l’altro, perché la concezione liberista della città ha consentito che aprissero in otto anni ventotto giganteschi centri commerciali, oltre i quattro che già esistevano. Stime prudenti parlano della chiusura a breve termine di oltre tremila negozi di vicinato: ecco i motivi del deserto urbano. Che ci sia o meno l’illuminazione pubblica.

Chi dunque riduce anche questo ennesimo episodio di violenza ad un problema di illuminazione non è in grado di cogliere il dramma che sta vivendo la periferia romana. Invece di concentrare la opportunità di riqualificazione urbana all’interno della città costruita così da creare luoghi di aggregazione, si spendono fiumi di denaro per costruire urbanizzazioni e inseguire la folle strada dell’espansione senza fine. E come se non bastasse la cementificazione di nuovi quindicimila ettari di terreni agricoli (sei volte l’estensione del meraviglioso parco dell’Appia Antica!) previsti dal recente piano regolatore, la nuova amministrazione Alemanno vuole aggravare ancora la situazione.

Trecento ettari di terreno agricolo sono a rischio per la realizzazione del “parco tematico di roma imperiale” (sic!). Mille ettari serviranno per la costruzione di case a medio reddito che si potrebbero realizzare agevolmente dentro la città. Infine si vogliono costruire due nuovi stadi, uno per la Roma e uno per la Lazio. E, visto che quelli esistenti si riempiono una o due volte all’anno, le nuove realizzazioni serviranno soltanto per consentire nuove speculazioni: alberghi, uffici e, ovviamente, centri commerciali. Così faranno chiudere altri negozi in periferia, aggravando lo stato di disagio della città. Altro che illuminazione. Il problema sta nel fatto che il futuro della città è lasciato in mano alla speculazione fondiaria.

Asfalto e cemento nei parchi: la rivolta degli agricoltori

di Ilaria Carra

Non solo il Fai, i sindaci e gli ambientalisti. Adesso a difesa del Parco Sud scendono in campo gli agricoltori. Cia e Coldiretti contestano non solo la superstrada che collegherà Malpensa alla tangenziale Est ma soprattutto il via libera alle nuove costruzioni all´interno del territorio. «Il Parco Sud non è il serbatoio dell’edificazione ma un patrimonio da valorizzare. Ci vogliono vincoli più chiari e un’attenzione maggiore». E il Fai fa un appello ai politici. «Il verde e il Parco Sud sono una fonte importantissima per la città, non scherzate perché se date il via libera al cemento poi indietro non si torna più».

Un fronte compatto come mai prima, che rivendica il ruolo fondamentale che gioca l’economia della terra e che al consumo di suolo si oppone con fermezza. Alle barricate alzate dagli ambientalisti guidati dal Fai, con consumatori e qualche sindaco, come quello di Cassinetta di Lugagnano, a difesa del verde e in particolare del Parco agricolo Sud scendono in campo anche gli agricoltori. Duri oppositori non solo della bretella (approvata dal Cipe ma orfana di 140 milioni di finanziamenti) che per collegare a Malpensa la tangenziale Est taglierà a metà oltre che il Sud anche il Parco del Ticino. Ma anche della variante normativa al piano territoriale del Parco Sud, che già con il via libera del Parco e dei 62 Comuni permette ai sindaci di costruire sull’1,5% del territorio comunale che rientra nel parco, per un massimo di 15 ettari. Aprendo così all’edificabilità altri 470 ettari, oltre ai 400 già previsti dai Piani di cintura urbana da poco definiti. Certo, devono essere interventi di interesse pubblico. Però la sostanza è una: se la deliberà verrà approvata anche da Provincia e Regione a una parte di verde si sostituirà del cemento. E i contadini non ci stanno.

«Il Parco Sud non è il serbatoio dell’edificazione - precisa Paola Santeramo, presidente milanese della Cia che rappresenta gli agricoltori - è un’area di produzione di eccellenze, un patrimonio da valorizzare anche in chiave Expo». Se per la Coldiretti «servono vincoli più chiari e un occhio di riguardo maggiore», spiega il presidente Carlo Franciosi, i contadini del parco criticano l’estensione, a tutti i Comuni, della possibilità di costruire, indistintamente: «Così si incentiva a costruire anche chi non ne ha bisogno», afferma Dario Olivero che rappresenta gli agricoltori al consiglio del Parco. Che poi, sulla bretella precisa: «Ci sono già due collegamenti per Malpensa, solo le ferrovie possono dare una svolta agli accessi». Dal Fai un monito al mondo politico: «Attenzione a intervenire su aree di valore inestimabile per la città - è l’invito del direttore generale Marco Magnifico - perché poi, indietro, non si torna più».

Tribunale, il maxitrasloco finisce nel verde e il nuovo San Vittore costerà un miliardo

di Davide Carlucci

Rispetto a quelli che serviranno sono poca cosa. Ma sono i primi soldi stanziati per la Cittadella della giustizia: 1 milione e 150mila euro. Serviranno per lo studio di fattibilità del mastodontico progetto di trasferimento degli uffici giudiziari e di San Vittore a Porto di mare

In quell’area a sud della città, la Cittadella occuperà un milione e duecentomila metri quadrati. Una parte saranno all’interno del Parco agricolo Sud: perché siano utilizzabili, però, bisogna che sia rimosso il vincolo ambientale, e questa è una partita ancora tutta aperta.

A stanziare i fondi per i nuovi uffici giudiziari sono stati i ministeri delle Infrastrutture e della Giustizia (500mila euro in tutto), la Regione e il Comune (300mila a testa), la Provincia (50mila). Per cominciare a capire come (e se) sarà possibile realizzare l’opera e soprattutto quanto costerà. Tantissimo, ipotizzano sin da ora i tecnici che se ne stanno occupando: almeno un miliardo di euro (ma forse qualcosa di più). E allora c’è un’altra domanda alla quale l’analisi dei costi dovrà dare risposta, nel giro di sei mesi: come recuperare tutta questa montagna di denaro di cui le casse pubbliche non dispongono?

La soluzione al quesito arriverà da Infrastrutture Lombarde spa, la società individuata dalla Regione (che sta coordinando i vari enti interessati) come destinataria dei fondi per questa fase preliminare di analisi. Una società che, per ironia della sorte, in questo momento è al centro dell’attenzione dei magistrati che dall’attuale Palazzo di giustizia si dovranno trasferire nel nuovo: il sostituto procuratore di Potenza John Woodcock, infatti, ha trasmesso a Milano un fascicolo nel quale si ipotizzano una serie di reati, tra i quali la corruzione, a carico dei dirigenti della società per la realizzazione del nuovo Pirellone. Gli avvocati dei manager in questi giorni si sono precipitati dal pm Frank Di Maio per chiarire la loro posizione (e non è escluso che presto la loro posizione possa essere valutata come penalmente irrilevante).

Nel frattempo, però, sono loro a doversi occupare di aspetti decisivi come la «valorizzazione» del patrimonio giudiziario milanese. Ovvero, della vendita di alcuni immobili per far cassa. Se si tolgono però il Palazzo di giustizia, il tribunale dei minorenni e l’ex Beccaria, vincolati dalla Soprintendenza, non rimane molto. Anche San Vittore, per il quale s’ipotizza una destinazione commerciale, non è totalmente disponibile: la parte più antica del carcere va preservata. Per il tribunale - che sarà riportato alla sua struttura originaria degli anni Trenta, eliminando i piani costruiti in anni recenti - s’ipotizza la destinazione «museale». Ma anche immaginarlo come sede della Beic, la Biblioteca europea d’informazione e cultura - o come una specie di Centre Pompidou in stile Ventennio che ospiti anche gallerie d’arte e librerie - rischia di rivelarsi un esercizio di fantasia debole sul piano economico.

Il percorso verso la realizzazione della nuova Cittadella della giustizia, insomma, è pieno di ostacoli. Durante una delle prime riunioni organizzate nella commissione manutenzione della corte d’Appello, per esempio, si è sollevato il problema della presenza sul posto di una vecchia discarica abbandonata e di fontanili nel sottosuolo. «La discarica non dovrebbe essere un problema - replica Mario Benaglia, il vicedirettore generale della Regione che sta curando per conto del governatore Roberto Formigoni i dettagli tecnici dell’operazione - perché lì sopra non dovrebbero sorgere palazzi ma un prato. E comunque si tratta di un’area molto limitata». Altre incognite riguardano la reale entità degli spazi. L’ipotesi di dimensionamento preparata un anno fa dal ministero non è considerata abbastanza attendibile dai magistrati - non terrebbe conto delle nuove esigenze di organico - ed è contestata dai sindacati dei dipendenti: «Solo 400mila metri quadrati su 1,2 milioni sono destinati alla nuova struttura giudiziaria, il resto è indotto commerciale - dice per esempio Umberto Valloreja, della Cisl - se si considera che solo il Palazzo di giustizia occupa 105mila metri quadrati e che bisognerà ospitare anche altri uffici come il giudice di pace e il tribunale dei minorenni e il nuovo carcere, la Cittadella nascerebbe già pericolosamente insufficiente».

La situazione dei beni culturali e ambientali sprofonda sempre più nei tagli e nella confusione. Da una parte il Ministero crea la figura accentrata di un supermanager alla valorizzazione del patrimonio storico-artistico, dall’altra, in Senato, viene approvato – per ora in commissione - l’emendamento alla legge sul federalismo fiscale, col quale si decentrano, molto confusamente, al Comune di Roma compiti sin qui nazionali, o nazionali e regionali, fra i quali 1)"valorizzazione dei beni storici, artistici, ambientali e fluviali"; 2) "valutazione dell’impatto ambientale" (sia pure in collaborazione con Ministero e Regione); 3)"pianificazione territoriale".Facendo così di Roma Capitale un ente controllore di se stesso, controllore e insieme controllato. Sarà infatti il Consiglio comunale ad approvare i regolamenti di attuazione delle nuove competenze. Un’autentica "rivoluzione" attuata con un emendamento e senza il lavoro preparatorio di alcuna commissione di studio tecnico-scientifica.

Sono misure, difatti, che non rispondono ad alcun disegno strategico generale: da un lato si accentrano funzioni di valorizzazione tipicamente regionali e locali, dall’altro se ne municipalizzano altre che riguardano beni culturali, ambientali, fluviali, ecc. i quali richiedono invece una dimensione di intervento di livello superiore (come la già esistente Autorità nazionale del Tevere). Né si capisce se questi provvedimenti riguardino i beni archeologici e la loro gestione (quella del Colosseo, per esempio, dove esponenti del Comune hanno già ipotizzato di realizzare combattimenti coi gladiatori). Inoltre il livello della politica locale si avvicina sempre più alle Soprintendenze le quale devono invece poter controllare, in piena autonomia e sulla base di criteri tecnico-scientifici, l’attività degli enti locali e regionali, per esempio sul piano paesaggistico, dotate (e lo sono sempre meno) dei necessari strumenti di indagine e di valutazione.

Le associazioni firmatarie rivolgono dunque un pressante appello alle massime istituzioni della Repubblica, al Parlamento stesso, affinché una materia così vasta, così delicata e così preziosa non venga affrontata con un sbrigativo e confuso emendamento. Il problema, oggi, è, più che mai, quello di attuare il dettato dell’articolo 9 della Costituzione, "la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione", potenziando e non frantumando l’intervento pubblico in un patrimonio già tanto manomesso e dissipato.

Associazione "R. Bianchi Bandinelli", Assotecnici, Comitato per la Bellezza, Italia Nostra, Legambiente, Wwf Italia, eddyburg

L’ipotesi dell’assessore milanese (Carlo Masseroli) allo “sviluppo del territorio” (titolo significativo al posto di “urbanistica”) è: 700.000 abitanti in più nella città. Intanto lui decide subito l’aumento dell’indice di fabbricazione da 0,65 a 1 mq/mq.

Tale massa di popolazione dovrebbe trovar posto all’interno del territorio comunale di 181 kmq. Richiederebbe 70 milioni di metri cubi di edifici, 20 kmq di area coperta ma 60 kmq di superficie fondiaria totale, a cui se ne dovrebbero aggiungere altri 20 di verde pubblico, servizi sociali, attrezzature tecniche; poi le infrastrutture di trasporto: si arriverebbe a circa 80 kmq. Partendo dal dato della densità demografica attuale, meno di 7.200 ab/Kmq e applicandolo alla nuova popolazione si ha la conferma: oltre 97 kmq tutto compreso, come in un saldo. Non potendoli reperire si potrebbe sopraelevare tutta la città del 52 per cento, stante che la popolazione aggiuntiva sarebbe il 52 per cento dell’attuale. L’aumento dell’indice di fabbricazione guarda caso è del 54 per cento. La doppia proposta non sembra mettere in rapporto i due termini ma l’assessore, che non è un pazzo, ha un disegno chiaro. Non gl’importa la dimensione demografica della città, gl’importa garantire al mercato immobiliare una colossale crescita delle possibilità edificatorie e gettare le aree ancora libere in mano agli immobiliaristi. Infatti è andato avanti sul piano pratico dell’edificazione pressoché immediata sfruttando la pressione dell’Expo: disponibili 9 kmq di aree a standard e altri 6 di vario tipo, basta sopprimere i vincoli: suoli privati di riqualificazione, aree industriali dismesse, scali ferroviari, aree per servizi tecnologici, eccetera: 15 kmq in totale, pronti per (dicono) 160.000 residenti (noto, 10.700 ab/kmq). Infine il nostro sta promuovendo l’operazione immobiliare sulla zona degli ippodromi in base a un accordo di programma. Non una parola sulla possibile riconquista delle case sottratte alla residenza dalla quarantennale deregulation urbana in favore di una terziarizzazione insensata. E gli edifici nuovi o seminuovi per uffici rimasti vuoti in parte o totalmente? Osservazioni di passaggio perché il tema porta lontano, indietro nel tempo dapprima.

Il discorso dell’assessore e di quelli che lo attorniano è falso, ma insidioso poiché sembra sfruttare certe discussioni del passato che lo stato attuale della metropoli (quantomeno comune di Milano e circondario “dei cento comuni”) fa ritenere morte benché, allora, fondate su analisi e valutazioni ragionevoli. La città, dopo aver toccato il vertice di popolamento, 1.745.000 residenti nel 1973 (1.732.000 al censimento 1971), cominciò a perderne con eccezionale rapidità; nel 1981 ne contava già 140.000 di meno: quello fu il momento in cui avrebbero dovuto essere ascoltate le voci di chi non si rallegrava davanti al fenomeno. Meno gente abita a Milano uguale a meno problemi, sosteneva certa sociologia; al contrario, uguale a più problemi rispose certa urbanistica insieme alla demografia sociale. Lo spopolamento, o meglio la cacciata dei residenti verso l’hinterland e altrove a causa dei noti processi economico sociali produttivi e riproduttivi è stato travolgente, non ha trovato ostacoli e gli abitanti contati dal censimento 2001 erano solo 1.182.000 unità. L’aumento recente (1.302.000 abitanti al 2008) è dovuto esclusivamente all’arrivo di stranieri, non al rientro di vecchi residenti o giovani provenienti dal circondario. L’aver trascurato completamente la questione delle abitazioni, in specie delle case popolari o comunque a regime locativo o proprietario controllato, è la colpa gravissima delle amministrazioni d’ogni colore che si sono succedute. Una questione milanese delle abitazioni doveva essere affrontata come problema residenziale in senso lato inserendo nella prospettiva di nuova città la città storica in primo luogo, poi la città nuova conforme a un piano moderno delle destinazioni sociali.

Il punto di incontro o scontro doveva essere non solo la quantità di popolazione ma anche la struttura demografica e sociale giacché la città stava perdendo quei caratteri che ne facevano una entità equilibrata. L’enorme pendolarismo sconvolge l’equilibrio storico e moderno. Si aggrava in maniera non sopportabile dalle strutture e infrastrutture urbane la contraddizione, per così dire, fra città del giorno e città della notte, fra la città del lavorare studiare vendere comprare e quella del risiedere. Attualmente entrano ogni giorno dai confini comunali dalle 500 alle 800.000 automobili. Alcune centinaia di migliaia di lavoratori arrivano con la Nord e altre linee di trasporto pubblico. Quanti abitanti dunque avrà la città del giorno? Non meno di un milione in più dell’altra. Qual è la città vera? Quale la città giusta? Né l’una né l’altra.

La città notturna è vuota di senso sociale, è priva dei ceti (perché non diciamo classi?) che ne designavano positivamente il carattere e il destino: la famosa borghesia industriale illuminata, la classe operaia antagonista con cui doveva fare i conti. La città notturna presenta una struttura (piramide) per età tutta gonfia verso l’alto, ricca di anziani e vecchi e scarsa di giovani. La popolazione non si riproduce e i rapporti di produzione sono poveri, non presentano articolazioni efficaci. L’industria urbana è sparita, domina il terziario di ogni tipo. Questo è il fenomeno distruttivo della città non resistibile: che le ondate di terziario succedutesi hanno allagato gli spazi residenziali e non si trattava affatto di quel settore “avanzato” con cui i fautori sarebbero disposti a giustificare la demolizione di Sant’Ambrogio. È proceduto senza soste alla conquista della città residenziale un settore economico tutt’altro che innovatore: tradizionale, capillare, nascosto, persino nero, meri uffici e negozi multipiano che scalzavano abitazioni. Forme operanti nel campo delle rendite finanziarie e fondiarie, dei commerci a-qualitativi sia di massa che di élite, di servizi privati mediocri sostitutivi di servizi pubblici. Intere case o parti rilevanti sono state destituite della loro funzione. Il permissivismo circa il mutamento di destinazione faceva parte del gioco, favorito dallo stesso regolamento edilizio. Che dire poi della pratica diffusa e tollerata di affittare le abitazioni come uffici?

La città diurna è un pasticcio, un pudding mal riuscito. Non funziona, vive da malata. Una Milano in cui domina il commercio (in primis quello del denaro) e che perciò dovrebbe, dicono, assicurare la massima dinamica degli spostamenti, trascorre le giornate sconvolta da un traffico privato al limite del blocco perenne. I cittadini residenti ne hanno solo svantaggi. I padroni della città commerciale, i modisti, non sembrano toccati, dispiegano i prodotti nelle loro fortezze (i magnifici palazzi destrutturati). L’autorità pubblica pare sottoposta in pieno agli interessi che provocano l’effetto traffico senza subirne troppo danno.

È passato oltre un quarto di secolo e ciò che sarebbe stato giusto discutere allora, cioè una politica di ripopolamento della parte centrale dell’area metropolitana, è diventata un’idea apparentemente balzana poiché irrealizzabile per mille motivi denunciati da tante associazioni e singole persone. Idea invece perfettamente coerente al disegno neoliberale e neo conservatore di liberare, appunto, la città dagli strati sociali residuali a minor reddito e di trasformarla definitivamente nella città del consumismo smodato. Gli edifici che si costruiranno nelle ultime aree libere prima vincolate a funzioni sociali o comunque utili a cittadini e a commuter resteranno in parte vuoti (cosa irrilevante per gli speculatori), in parte saranno uffici inutili o gestiti dalle mafie di ogni genere, in ultima parte saranno destinati a qualche migliaio di nuovi abitanti chissà da dove provenienti ma in grado di pagare prezzi d’acquisto da 10.000 euro in su al metro quadro o affitti annuali in proporzione. Milano non presenterà nemmeno un metro quadro di superficie pubblica volta al bene sociale, diventerà sempre più invivibile per i milanesi resistiti e per i pendolari costretti a usufruire ogni giorno di una non- città, un mostro disurbano e disumano. Persa per sempre la città funzionante, affabile, bella; durata, pur in mezzo a vicende difficili, fino all’inizio degli anni Settanta.

Milano, 5 dicembre 2008

Le ultime vicende riguardanti il progetto di Castello nell’area di proprietà Fondiaria SAI (1.400.000 mc su 186 ha) suggeriscono riflessioni più generali sul governo del territorio in Toscana. Nella lettura dei colloqui fra maggiorenti della politica urbanistica fiorentina e rappresentanti privati ciò che colpisce non è tanto l’ipotesi di corruzione, tutta da dimostrare, ma qualcosa che induce a pensare che, tutto sommato, sarebbe meglio che le indagini della magistratura dimostrassero che in effetti corruzione vi è stata - vi sarebbe almeno un movente per il ‘delitto’. Quello che emerge con tutta evidenza e non ha bisogno di ulteriori prove, è molto più preoccupante ed è devastante da un punto di vista politico: gli amministratori pubblici fiorentini, in primis l’assessore all’urbanistica agiscono come brasseurs d’affaires, quasi dipendenti di Salvatore Ligresti che, sia detto per inciso, non rappresenta il meglio del già mal rappresentato capitalismo nostrano. In tutti i colloqui pubblicati non vi mai alcun accenno ad un qualsiasi interesse pubblico dell’operazione; i nostri si preoccupano soltanto di come mandar in porto il progetto senza che gli interessi dei privati vengano intaccati; tutto ciò sotto gli occhi impassibili del sindaco, il vero convitato di pietra.

Torniamo un passo indietro, al Piano Strutturale di Firenze adottato nel luglio 2007 e leggiamo nella relazione generale che: “Una ...questione rilevante è che con la legge 1/2005 si è affermata in Toscana una concezione dialettica anziché gerarchica ... della pianificazione territoriale. La pianificazione del territorio nella regione si fa ormai attraverso la dialettica tra contributi e spunti che vengono dai Comuni, dalle Province e dalla Regione in un processo di reciproca e dialettica integrazione. Con la procedura dell’accordo di pianificazione la Regione fa proprie le istanze della pianificazione territoriale della Provincia o del Comune, così come la Provincia modifica il proprio Piano territoriale di coordinamento in relazione alle integrazioni provenienti dai Piani strutturali dei Comuni”

In sintesi: dialettica e concertazione invece della vecchia logica basata sui controlli e i pareri di conformità. Il tutto secondo quell’afflato etico-politico che pervade il Documento del PIT, ben sintetizzato nella dichiarazione che “la governance (che sostituisce il governo del territorio, mia interpolazione) darà testa e gambe a quel nuovo “patto” che il Pit vuole rappresentare. Infatti, solo se ogni livello di governo fa propria - sul piano politico - e accetta - in termini tecnici ... una semplice ma discriminante domanda: «...qual è il mio contributo al bene della mia Regione visto che da es­so dipende gran parte di quello della mia comunità?», allora la governance non regredisce al mero rito negoziale del do ut des....(Documento PIT, p. 28).

L’affaire Castello è la prova evidente, fattuale di cosa significhino nella realtà vera e non nella retorica dei documenti di piano, ‘governance, dialettica, concertazione,. Concertazione sì, ma con i privati. Dialettica intesa come pressioni nei riguardi di Regione e Provincia perché facciano la loro parte in un’impresa che ha ormai bisogno dei denari pubblici per essere profittevole (per il privato, s’intende). Governance intesa come contrattazione sottobanco. Governance che trova nello strumento dell’accordo di programma il suggello giuridico e il grimaldello per variare a piacimento le cosiddette invarianti strutturali.

Ci troviamo dunque di fronte a delle vere e proprie macerie politiche che non riguardano solo i diretti interessati, ma gran parte del gruppo dirigente del PD e mostrano ancora una volta che la famosa scommessa innovativa del governo regionale è una scommessa persa in partenza (ma la si voleva realmente vincere? e chi dovevano essere i vincitori?). In un paese normale, sindaco e assessori fiorentini avrebbero l’obbligo di dimettersi e il PD rinnoverebbe radicalmente i propri quadri dirigenti. Ma è fin troppo facile scommettere che invece ci si arroccherà sulla presunzione di non colpevolezza degli amministratori rispetto alle imputazioni penali (presunzione che condividiamo) e ci sia autoamnistierà da una pesantissima condanna politica già pronunciata.

Il caos avanza nei beni culturali e ambientali. Alemanno, nei giorni scorsi, esulta per l’emendamento di nuovo appiccicato, fuori sacco, alla legge sul federalismo, col quale passano a Roma Capitale, cioè a lui, tutela e valorizzazione dei beni culturali e ambientali. Ne risulta scardinato lo storico sistema nazionale della tutela dei beni culturali e ambientali. Il ministro Bondi mette in moto Gianni Letta, incontra Alemanno e precisa, il 15 gennaio, che soltanto la "valorizzazione" potrà "essere assegnata anche agli Enti Locali". Alemanno ha dovuto rassegnarsi a stralciare la parola "tutela" dall’emendamento approvato al Senato dalle commissioni riunite. Resta la valorizzazione dei medesimi beni (anche fluviali). Restano la "difesa dall’inquinamento", la "valutazione dell’impatto ambientale" (bontà loro, "in collaborazione con il Ministero e con la Regione Lazio"), la "pianificazione territoriale"e altri poteri ancora. Da esercitare, badate, "con regolamenti adottati dal consiglio comunale". Tutto in famiglia. Inoltre, quale "valorizzazione" sarà e per quali beni? Anche per quelli archeologici mai nominati nel testo e che a Roma sono un po’ tanti? Mistero.

Con questo emendamento, anche se in parte modificato, nasce in ogni caso il Super Comune controllore di se stesso. Eppure Bondi aveva accentrato, poche settimane fa, in un supermanager tutta la valorizzazione del patrimonio storico-artistico. Da una parte si accentra e dall’altra si decentra: non è forse il Partito delle Libertà? In realtà, tutto ciò che è pubblico deve essere devitalizzato, polverizzato, e poi disperso, nel caos. Col grimaldello di un emendamento, si introducono simili impegnative (storiche, secondo il sindaco di Roma) misure. Tanto in basso è caduta la democrazia parlamentare nel nostro Paese. Cancellata la tutela (per fortuna), rimangono tante spine allarmanti in quell’emendamento. La valutazione d’impatto ambientale, riservata, in prima battuta, al Comune che così può cementificare quello che gli pare, dove e come gli pare. La pianificazione territoriale, scippata alla Regione Lazio e al controllo (Codice Rutelli) delle stesse Soprintendenze. Pure il Tevere verrà tutelato dal solo Campidoglio. Ma non c’è una Autorità nazionale di bacino? Che importa, si "municipalizza" pure lui. Sul Tevere, del resto, sforna idee brillanti qualche componente della commissione Marzano: le banchine diventino parcheggi di automobili (così, con le piene, vanno tutte al mare), oppure "l’isola della salute", cioè l’Isola Tiberina, dedicata ad Esculapio e da secoli ad ospedali come l’Israelitico e il Fetebenefratelli, sia trasformata in un polo di divertimenti. Il tutto senza controlli tecnico-scientifici di sorta? Ma sì, nella massima confusione fra Collegio Romano e Campidoglio, fra la debolezza di Bondi e le ambizioni sbagliate di Alemanno e Cutrufo, può anche succedere.

L’assessore regionale alle infrastrutture Riccardo Conti certo non perde il vizio di avere una sua visione del tutto personale della realtà. Leggendo mercoledì le sue risposte alle domande del “Tirreno” ci siamo divertiti a rilevare almeno nove ricostruzioni arbitrarie sulla vicenda dell’autostrada Tirrenica. Vediamole in sintesi.

1. Conti dice che il ministro Matteoli, scegliendo la soluzione costiera «è venuto sulle posizioni della Regione Toscana»: posto che la soluzione costiera è stata anch’essa ampiamente corretta dalle osservazioni fatte dalla Regione Lazio (confermando che la posizione della Toscana non era proprio ottimale), è mai possibile che si riduca a trattativa politica una procedura tecnica di valutazione di impatto ambientale concepita per vagliare in piena autonomia tutte le alternative?

2. Apprendiamo poi che l’Europa guarderebbe, in piena crisi petrolifera, con favore la costruzione di autostrade per garantire lo sviluppo, tra l’altro, del porto di Livorno: quando è noto che dal 2004 sono stati escluse dalle reti transeuropee (TEN-T), e quindi dai finanziamenti comunitari, proprio le autostrade, a favore del trasporto via mare e su ferrovia.

3. Nell’intervista c’è anche un vero scoop. Apprendiamo che il progetto definitivo di adeguamento in sede dell’Aurelia a tipologia autostradale «non piacque al ministero dell’Ambiente». Al contrario, sul progetto definitivo Anas presentato in procedura di valutazione di impatto ambientale nel giugno 2001, c’era un orientamento assolutamente positivo da parte dei tecnici della Commissione Via che si erano limitati a chiedere nel novembre 2001 solo migliorie puntuali nel tratto tra Ansedonia e Fonteblanda.

Ma nel 2001 si insediò il terzo governo Berlusconi e, tornata in auge l’autostrada e azzerata la Commissione tecnica di Via che aveva chiesto le migliorie, non si ebbero più risposte dall’Anas.

4. Risibile è poi che l’adeguamento in sede dell’Aurelia taglierebbe in due la Maremma (verrebbe da domandarsi allora cosa succederà da Cecina a Grosseto Nord, secondo il progetto Sat) e che gli ambientalisti non abbiano proposto sin dal 2004 una forma di pedaggiamento aperto e selettivo, per favorire anche il traffico locale, senza bisogno di una infrastruttura chiusa e della costruzione di nuove strade complanari.

5. Come è incredibile che il progetto costiero non avrebbe problemi di finanziamento quando ancora la Sat non è stata capace ad oggi di presentare un piano economico-finanziario che non faccia ricadere sugli utenti dell’autostrada, con tariffe spropositate, o sullo Stato, con l’allungamento abnorme della concessione, i costi nascosti della sua disponibilità a realizzare l’autostrada con fondi propri.

6. Inoltre non è vero che le «strade di servizio» (complanari) debbano essere costruite per forza ex novo e che non si possa derogare, fatto salvo il rispetto della sicurezza, dagli standard autostradali «in specifiche situazioni locali, ambientali, paesaggistiche, archeologiche ed economiche» quale indubbiamente è la Maremma: il Codice della strada vigente prevede entrambe le cose.

7. Non so cosa intenda poi l’assessore per «autostrada ambientalizzata». So solo che il progetto di autostrada costiera - ora, a quanto si sa, rivisto - nella sua versione originaria sostenuta a spada tratta dalla Regione Toscana prevedeva la costruzione di sette barriere-svincoli o punti di esazione di tipo chiuso (Grosseto Sud, Talamone-Fonteblanda, Orbetello-Monte Argentario, Capalbio, Montalto di Castro, Tarquinia, Civitavecchia), di 24 viadotti e di 14 gallerie (di cui 8 artificiali) e l’apertura di 46 cantieri per almeno cinque anni.

8. Fa piacere che l’assessore sia così attento alle aziende agricole: è forse per questo, che come calcolato dai Comitati locali, solo nel tratto toscano: 6 casali verranno abbattuti, 105 fabbricati e 47 aziende compromessi, e 110 saranno gli ettari di terra chiusi tra Aurelia e autostrada.

9. Infine, l’assessore annuncia l’inizio dei cantieri entro il settembre di quest’anno. Auguri, visto che si deve aggiornare la valutazione di impatto ambientale su un progetto cambiato sostanzialmente e che ci sarà sempre qualcuno/a, come noi, che continuerà a difendere in tutte le sedi gli interessi economici, sociali e ambientali del territorio e una più saggia politica dei trasporti.

L’autore è responsabile dell’ ufficio legislazione Wwf Italia.

Che si tratti di Capalbio e l’autostrada, di Castello e dintorni, ma anche di altri ‘casi’ più o meno noti non è facile dare a questo dibattito che riguarda la pianificazione del territorio toscano un senso più generale. Da tanti frammenti ancorchè significativi è complicato, infatti, risalire ad un contesto regionale e nazionale. Eppure questo è un passaggio obbligato se non vogliamo restare sul bagnoasciuga dei problemi. D’altronde vorrà pur dire qualcosa se in Sardegna la crisi si è aperta sulla legge urbanistica. E segnali dello stesso tipo registriamo in altre regioni.

Si prenda – per cominciare- una questione all’apparenza minore che appare già accantonata; il nulla osta previsto dal nuovo Codice dei beni culturali che è passato dai parchi ai comuni senza colpo ferire e alla chetichella. I parchi davano il nulla osta sulla base di una valutazione non frammentata ma riconducibile quasi sempre ad un piano e in ogni caso nell’ambito di un contesto ambientale più ampio. Anche le relative risorse che andavano a rimpinguare il bilancio del parco dovevano essere investite nell’ambiente e per l’ambiente. Il comune non potrà dare il nulla osta seguendo i criteri del parco perché non ha la competenza e la visione del parco, per di più potrà utilizzare quelle risorse per cose certamente importanti ma non finalizzate all’ambiente e al paesaggio.

Non è una differenza da poco e non averne tenuto conto risulta tanto più assurdo dal momento che il collaudato sistema degli anni scorsi era stato voluto e previsto da una legislazione regionale innovativa anche sul piano nazionale. Peccato che non si sia ‘approfittato’ del dibattito sulla nuova legge regionale sui parchi per fare meno pasticci.

L’Irpet ha pubblicato recentemente uno studio su ‘Le trasformazioni territoriali e insediative in Toscana’, di Chiara Agnoletti. E’ l’annoso problema del consumo del territorio e sulle cui percentuali si polemizza da tempo. Un dato parla da solo; il 46% delle abitazioni in Toscana è localizzato nel 26% della superfice regionale ovvero nella Valle dell’Arno. Abbiamo inoltre un 19% di tessuti urbani discontinui che presentano enormi problemi di mobilità e di raccordo nei vari servizi.

Fermiamoci qui non senza ricordare che negli stessi giorni sono stati forniti una serie di dati dell’Apat relativi ai nostri fiumi e corsi d’acqua dai quali emerge un quadro estremamente allarmante sia in ordine allo stato delle acque (inquinamenti vari), al cuneo salino e alla condizione ecologica (vegetazione perifluviale etc). Ma dati più precisi sono stati forniti da Greenreport proprio il 31 dicembre scorso e a questi rimando. Cosa significa? Significa che per l’Arno come per il Serchio ma vale anche per altri corsi d’acqua ‘minori’ nonostante le celebrazioni dell’alluvione di 40 anni fa, oggi non possiamo parlare di una vera pianificazione. L’impressione è che i fiumi siano ancora considerati unicamente o quasi sotto il profilo della sicurezza idraulica e non come quel patrimonio ambientale e paesaggistico di cui parla(va) la legge 183 poi manomessa dalla Commissione Matteoli.

Non è un caso che a differenza anche di una regione a noi contigua come la Liguria noi non abbiamo parchi e aree protette fluviali mentre per il Magra versante ligure vi è un parco regionale che opera in stretta connessione anche pianificatoria con l’autorità di bacino che peraltro è unica e riguarda anche la Toscana.

Ora – e veniamo così al paesaggio su cui si è riaperta la discussione anche in Toscana- pensare che questa complessa realtà possa essere ricondotta unicamente ad ambiti pianificatori comunali, provinciali e regionali non sta nè in cielo né in terra. E che per quanto riguarda il paesaggio tutto ciò sia riconducibile ai 38 ambiti di paesaggio previsti dal PIT è un’altra di quelle ipotesi di cui è arduo cogliere la razionalità. Chi ha anche frettolosamente dato un’occhiata alle Schede sul paesaggio che con una insistenza degna di miglior causa si continuano a definire ‘istruzioni per l’uso’ non può non aver provato imbarazzo. Io l’ho fatto per il territorio del parco di San Rossore perché lo conosco meglio e francamente mi chiedo a cosa cavolo possono servire schede che tra l’altro dimenticano le dune viareggine.

Credo che se vogliamo ripartire con il piede giusto dobbiamo innanzitutto vedere non solo cosa prevedono i piani regolatori comunali ( come fa la Agnoletti) ma anche i PTC delle province, i piani dei parchi e delle aree protette regolarmente approvati dalla regione anche i parchi nazionali dell’Arcipelago e delle Foreste Casentinesi, vedere cosa c’è in pentola per l’Arno (stando al PIT poco) e così per gli altri fiumi. Lì c’è già molto sicuramente molto di più di quello che troviamo nelle schede zeppe di ‘belle visioni’ , ma assai scarse di quelle istruzioni per l’uso di cui pure si chiacchera, tanto che ricorre frequentemente l’avvertenza ai navigatori che non sono state fatte ipotesi concrete operative per evitare il rischio di sbagliare.

Ma chi pianifica rischia sempre meno comunque che se rimane con le mani in mano. E’ un dibattito come è facile intuire non solo urbanistico anche se l’urbanistica di questi tempi finisce sempre di più sulle prime pagine.

Cerchiamo di non perdere l’autobus.

Nelle vicende politiche che hanno caratterizzato gli eventi sfociati nel rimpasto della giunta Iervolino aleggiava, anche se non esplicitato, un problema di fondo: l'avversione, covata in ambienti di destra e di sinistra, nei confronti del Piano Regolatore vigente che ha bloccato la speculazione edilizia. Dalle prime forme di intolleranza da parte di numerosi architetti, spesso altresì docenti universitari, si è passati alle interessate nostalgie di costruttori e politici per i progetti del cosiddetto "Regno del Possibile" (estesi sventramenti del centro storico, tutelato dal predetto P. R. e dall'Unesco), e riproposti con nette e perentorie dichiarazioni ("Corriere Mezzogiorno" 21-2-2007) da Lettieri, presidente, ora confermato, dell'Unione industriali. Progetti quindi destinati ad approdare nel programma politico-amministrativo dello stesso Lettieri, quale candidato sindaco di Napoli per la destra, designato dallo stesso presidente del Consiglio dei ministri.

Come accennato, anche nell'ambito del centrosinistra non mancano gli affossatori vecchi e nuovi del Piano Regolatore, definito quanto meno vincolistico dimenticando che Napoli è la città più cementificata d'Italia. Qualche esempio: l'ex potente assessore al bilancio, Cardillo, ha pubblicato nel 2006 un libro (Napoli, l'occasione postindustriale da Nitti al piano strategico ) in cui afferma che "il primo e il maggiore errore della sinistra" era stato quello di aver prima appoggiato e poi demolito il Regno del Possibile. Quindi, per Cardillo, evviva gli sventramenti e la speculazione edilizia invece bloccati dal Piano Regolatore. Cardillo si è poi dimesso perché incriminato nella vicenda Romeo. La catena di Sant'Antonio di Romeo, ma al di fuori dei problemi giudiziari, comprende anche l'assessore regionale Velardi, che non perde occasione per sentenziare che il Piano Regolatore è una gabbia e "va cambiato perché non crea sviluppo" ("Corriere Mezzogiorno" 11-12-2008). Sviluppo-speculazione edilizia è l'equazione sconcertante ma non insolita nella visione anche di persone considerate "intelligenti". Più ambigue e pericolose le idee di sociologi come Paola De Vito, la quale si diletta di urbanistica e noncurante dell'esistenza del P. R. propone tra l'altro ("Repubblica" 27-11-2008) per definire una identità del centro storico di "osservare "buone pratiche" di rigenerazione urbana e dei centri storici (rilevo che è ancora una volta la terminologia adottata dal Regno del Possibile per gli sventramenti) in uso in altre città europee e del mondo e trarne degli insegnamenti".

Tornando al sindaco Iervolino, essa ha invece dimostrato di aver un buon intuito, del resto tipicamente femminile, tenendosi lontana dalle trame delle operazioni politico-affaristiche, meglio definite di "corruzione ambientale" dai pubblici ministeri della Procura di Napoli. Insomma questa signora per bene, considerata influenzabile e condiscendente, dove si va a impuntare? Nella difesa a spada tratta del Piano Regolatore. In una città per tanti versi improponibile, la Iervolino è stata ed è consapevole che un merito fondamentale non può essere negato alla giunta da lei guidata. E cioè l'approvazione, dopo dieci anni di intenso dibattito, di un Piano Regolatore improntato a una idea forte per il rilancio della città: il restauro conservativo del centro storico, la tutela delle superstiti aree verdi, il rinnovamento di periferie e aree industriali, il completamento della rete metropolitana per garantire la mobilità. E mal gliene incoglie al vicesindaco Santangelo per aver dichiarato a sua volta ("Repubblica" 21-9-2008): "Il Piano Regolatore non si tocca. Non consentiremo un altro sacco della città". Non a caso, infatti, da parte di dirigenti del Pd era stato chiesto che Santangelo non venisse riconfermato nella carica di vicesindaco.

Completiamo il quadro. Non si può non riflettere sulla circostanza che è senza precedenti l'attuale scontro tra "Il Mattino" e la Iervolino. Il sindaco ha dichiarato ("Repubblica" 19-9-2008) che il Forum delle culture del 2013 non può diventare un nuovo sacco della città tornando alla sua cementificazione, e ha aggiunto: "Via i faccendieri dalla politica". Non ha fatto nomi, ma rispondeva all'industriale Lettieri che aveva chiesto le sue dimissioni attraverso le pagine de "Il Mattino". Poi, in un'intervista rilasciata su "Repubblica" (edizione nazionale 5-12-2008) ha denunciato "gli appetiti per un nuovo Piano Regolatore che condizionano l'informazione e le opinioni di alcuni organi di stampa", riferendosi al costruttore Caltagirone, editore del "Il Mattino". Sul quotidiano si sono susseguite infine le dichiarazioni di uomini di cultura di grande prestigio, quali Biagio de Giovanni e Aldo Masullo, i quali, a sostegno della campagna del giornale, hanno chiesto le dimissioni del sindaco. Essi dovrebbero però sapere ("Repubblica" 28-12-2008) che esiste un contenzioso tra il Comune di Napoli e la Cementir di Caltagirone per i suoli industriali di Bagnoli di proprietà della società. Un'ordinanza del sindaco del 24-4-2008 impone la rimozione, dai suoli del sito industriale non attivo, dei materiali che risultano cancerogeni (amianto) con "conseguente pericolo per la popolazione". La Cementir non ha ancora adempiuto all'ordinanza e il Comune si è riservato di trasmettere le carte alla Procura di Napoli.

Insomma siamo tutti consapevoli che l'amministrazione comunale di Napoli esce, come è stato detto, da "un campo di macerie", ma non si può non accordare il tempo necessario per valutare con quale progetto politico-amministrativo si presenta la nuova giunta in cui è stato assicurato anche l'auspicato impegno della società civile. Nel persistere invece nella critica acrimoniosa nei confronti della Iervolino sembra che una sindrome del cupio dissolvi si sia impadronita di alcuni uomini di cultura di sinistra, ai quali indirettamente ha risposto Pietro Soldi della scuola di Francesco Compagna ("Repubblica" 30-12-2008): "C'è rischio di consegnare la capitale meridionale nelle mani della destra nel momento a lei più favorevole". Soprattutto è innegabile che il primo atto dell'eventuale nuovo sindaco di Napoli (Lettieri o non Lettieri) sarà quello di cestinare il Piano Regolatore. Si può essere così ciechi da non rendersi conto che stiamo dando l'avallo a un nuovo sacco edilizio di Napoli?

L’autore è Presidente di Italia Nostra Napoli

Ha un sogno: "Trasformare la Sardegna nella più grande oasi ambientale del Mediterraneo". Questo ha confessato Berlusconi lanciando la corsa del suo amico Ugo Cappellacci a candidato governatore. L'ha detta così grossa che ha dovuto subito rasserenare gli amici palazzinari: "Mettendo vincoli a costruire, Soru ha chiuso l'Isola. Noi toglieremo quei lucchetti, e apriremo la Sardegna al turismo". Due concetti opposti. Più vero il secondo del primo, perché i "colonizzatori" si riconoscono da lontano, dal mare. Dove è facile avvistare la mastodontica Villa Certosa, residenza del premier. Un monumento del loro programma di governo: si è costruito in barba alle regole. Poi Tremonti condonò (Silvio pretese la fiducia) e la villa ora può essere mostrata nella sua interezza ai capi di stato stranieri.

AMICI E CONDONI

Da 30 anni Berlusconi fa affari in Sardegna, grazie al socio prestanome Romano Comincioli, plurindagato, assolto spesso dalle leggi ad personam volute per l'amico e ripagato alla maniera del Cavaliere: con il seggio al Senato. Gli affari di Comincioli passano dallo studio di commercialista del padre di Cappellacci. E su Tremonti basta ricordare l'idea alla Totò: "Dipendesse da me, per fare soldi venderei tutte le spiagge del Sud".

"Contro la Sardegna dei vincoli" è lo slogan del gruppo Berlusconi. Vuol prendersi la Regione, e con essa le terre che Soru ha provato a blindare. Fu il governo Berlusconi, nel 2005, ad impugnare davanti alla Consulta la salva-coste. Quella legge ha imbrigliato la mitica, faraonica Costa Turchese, evoluzione di quell'Olbia 2 che Berlusconi, Cappellacci sr. e Comincioli già avevano in mente a fine anni 70. Eccola, la loro oasi: 525.000 metri cubi di cemento su 450 ettari di terreno, 385 ville, due alberghi da 400 posti letto, 995 appartamenti in residence, 1 centro commerciale sulla costa nord-est. Tutto rispolverato allorquando il Tar rivelò un quadro normativo lacunoso sui piani urbanistici. Quella sentenza insieme ai condoni di Tremonti si spansero come l'odore del sangue che scatena la belva. Fu la Finedim di Marina Berlusconi che ripropose l'idea, con una "chicca": lo sventramento della spiaggia per realizzare un canale navigabile per collegare il mare con un porticciolo da costruire ex novo. Quel lacunoso quadro normativo è stato puntellato da Soru, e così si è impedita la più violenta colata di cemento a memoria d'uomo. Nella foto di gruppo a ridosso del palco a sostegno del Grande Sconosciuto ci sono anche altri due amici storici del Cavaliere: l'editore Zuncheddu e il sindaco di Cagliari Floris. Sono due candidati "mancati", ma non portano rancore. L'editore pubblica il quotidiano più letto dell'Isola, l'Unione Sarda, che da 4 anni picchia durissimo sull'inventore di Tiscali. Ieri il ringraziamento del premier, che ha rilasciato al quotidiano un'intervista a tutta pagina firmata dal direttore. Controlla anche le tv regionali e Videolina ha per Cappellacci la cura che la Pravda aveva per Breznev. Zuncheddu è un Berlusconi in sedicesimo. Come l'altro, parte dall'edilizia. A Capoterra, su un terreno che nel 1969 fu trasformato da paludoso a edificabile e che due mesi fa ha scontato con alluvioni e morti quell'affronto alle leggi della natura, Zuncheddu ha spadroneggiato con le centinaia di case costruite dalla sua cooperativa sullo stagno di Santa Gilla. Su quei terreni che i cagliaritani usavano per i capanni utili nella caccia e che d'incanto si rivalutarono, era già ingrassato Mario Floris, padre dell'attuale sindaco di Cagliari, con la sua Agricola immobiliare srl.

IL CERCHIO È CHIUSO

Si dirà: il candidato ha la faccia nuova e pulita. Ma è vaccinato pure il piccolo Ugo: è stato per anni al comando della Sardinia Gold Mining, che ebbe nel 1998 in concessione dalla Regione 400 ettari di territorio dei comuni della Marmilla. Si cercava l'oro, e il prezzo per la multinazionale fu ridicolo: 20 milioni di lire l’anno. Sono state estratte 10 milioni di tonnellate d'oro, per circa 100 milioni di euro di ricavo e una modestissima bolletta di 100 mila. Ma un enorme danno ambientale: la Sgm s'è divorata 3 milioni di tonnellate di colline. A metà di questo periodo Cappellacci andò via, "qualcosa non mi convinceva, c'era un maleodore... ". Era forse il cianuro usato per sgretolare il terreno e far luccicare l'oro?

Se fossimo quel Paese civile che in molti sogniamo, se il buon senso delle persone ragionevoli guidasse l’analisi dei problemi per trovarne le soluzioni adatte non saremmo, da dieci anni ormai, tra alti e bassi incredibili, nel pantano di Malpensa.

Tranne i pochi con memoria storica, tranne qualche “addetto ai lavori” che però glissa, i più, condizionati dal battage pubblicitario del “Partito del Nord”, ignorano che Malpensa doveva essere semplicemente l’aeroporto point to point affiancato a Linate per assorbirne il traffico aereo in eccesso rispetto alla sua capacità operativa, crescendo fino al limite stabilito nel P.R.G.A. (Delibera del Consiglio Regionale Lombardo N. IV/274 del 03/06/86) di 100.000 voli/anno ossia, all’incirca, 12 milioni di passeggeri. Per un insieme di motivi che è più semplice definire “malgoverno” (del territorio, del sistema aereo, ecc.) i fatti si sono svolti diversamente e, già in data 19 novembre 2000, ben 87 sindaci delle province di Varese, Novara e Milano firmarono “Ticinia”, un manifesto “Contro illegalità e soprusi di Malpensa”. Ma siamo ormai a questi giorni di ira leghista e nordista per le scelte di C.A.I. in materia di aeroporti e slot. Vorremmo proporre una riflessione su Malpensa, ovvero sulle ragioni in base alle quali ne viene rivendicato, dal “Partito del Nord”, un particolare ruolo.

“Malpensa è il motore dello sviluppo del nord”, “E’ l’hub degli affari”, “E’ la madre di tutte le battaglie”: questi ed altri slogan sono e sono stati parole d’ordine che hanno affascinato gli elettori e prodotto effetti evidenti nei risultati elettorali dello scorso anno. La difesa di Malpensa premia!!!

Il primo tema che proponiamo è dunque: chi o che cosa stabilisce il ruolo, la capacità operativa, di un aeroporto? Quali destinazione collegare, quale numero di frequenze quotidiane e settimanali? Prescindendo dalle leggi in materia di Valutazioni di Impatto Ambientale e dal P.R.G.A. (cosa che è puntualmente avvenuta nel caso di Malpensa) la risposta è: il mercato. Dunque Malpensa, che nei suoi dieci anni ha vissuto alti e bassi sorprendenti, si è di volta in volta adeguata al mercato? Per quanto riguarda la crescita del traffico, avendo seguito con attenzione le vicende del decennio, troviamo una risposta negativa.

La crescita del traffico a Malpensa è derivata da trasferimenti forzati di voli da Linate, da Fiumicino e da altri aeroporti del centro nord nell’obiettivo di un sistema “malpensocentrico” asservito al business che la grande concentrazione di voli e passeggeri veniva a creare: operazioni contrarie al mercato. Dietro alle riduzioni di traffico a Malpensa troviamo invece sempre la scure impietosa del mercato: così è stato già nel 2000. In quell’anno il Ministro dei Trasporti Bersani, dopo aver autorizzato con un suo primo decreto il trasferimento di ulteriori 160 voli da Linate a Malpensa, forse capendo che qualcosa non andava per il verso giusto, rialzò con un successivo decreto il limite operativo di Linate, precedentemente abbassato da 30 a 10 movimenti/ora, e lo portò a 18. I 18 movimenti/ora furono immediatamente occupati da voli che... invertirono la rotta, lasciando Malpensa. E contro il mercato il “partito di Malpensa” riuscì persino a far scrivere, in una mozione approvata dal Consiglio regionale lombardo il 28/10/2006, la richiesta di tasse aeroportuali più alte a Linate e più basse a Malpensa, (testualmente: “la riarticolazione dei diritti di scalo tra Linate e Malpensa”), giusto per far capire cosa pensasse del mercato. Veniamo al Piano industriale di Alitalia firmato da Maurizio Prato nel 2007. Dopo il primo tentativo di vendita di Alitalia, andato a vuoto per i troppi “paletti”, tra cui il mantenimento di due hub, l’Azionista Padoa Schioppa capì che per raggiungere l’obiettivo serviva un Piano industriale secondo il mercato, cioè il ridimensionamento di Malpensa a favore di Fiumicino, ponendo fine alla catastrofe economica dei due hub, fonte solo di doppi costi. Il de-hubbing di Malpensa stava per produrre il risultato voluto ma poi, per i motivi che sappiamo, Air France lasciò la partita e così, invece di 2000 esuberi con i francesi, l’italianità di C.A.I. lascia a terra 10.600 disoccupati. Abbiamo poi visto cosa ha prodotto il mercato a Malpensa quando sono state tolte “protezioni” da paese d’oltrecortina. A proposito dell’occupazione abbiamo scritto da tempo: “ L’abnorme concentrazione di voli e di lavoratori (per il mancato rispetto dei limiti del PRGA) costituiva a Malpensa una bolla destinata scoppiare. E’ infatti scoppiata facendo pagare ai più deboli (i precari) o, nella migliore ipotesi, ai contribuenti (per chi va in CIG) gli errori, anzi gli orrori, di Politici, Amministratori e Sindacati” e tutti questi insistono nell’errore...

Tralasciando il fatto che noi, da anni, proponiamo che Malpensa venga inquadrato nel “sistema aeroportuale del Centro-Nord”, 18 aeroporti più comodi perchè più vicini all’utenza e con altre peculiarità come tante volte abbiamo già scritto, quale proposta di traffico formulare per Malpensa? Proprio per questo auspichiamo il buon senso delle persone ragionevoli di cui dicevamo. Con una semplice analisi origine/destinazione dei passeggeri si potrebbe calcolare quali e quanti voli servano a Malpensa. Ci chiediamo da anni, visto che l’hub italiano era ed è Fiumicino, perchè Milano ne dovesse avere anche uno suo, un tentativo di hub bocciato dal mercato.

Milano e la Lombardia avevano già raggiunto da anni un livello economico importante quando fu inaugurata Malpensa. Quindi Milano era Milano anche prima di Malpensa. Ora però il ruolo di Malpensa, sicuramente importante, sembra essere irrinunciabile. Servono dunque uno o più voli da Malpensa verso una o più destinazioni continentali o intercontinentali? Se l’indagine origine/destinazione dice che i passeggeri ci sono, si istituiscano i voli. Se i passeggeri esistono ma in un bacino molto ampio, vadano all’hub di Fiumicino. I voli che Alitalia riportò col de-hubbing a Fiumicino, oltre a costituire numerosi doppioni, cioè voli in doppio su Linate e Malpensa e su Malpensa e Fiumicino, cioè raddoppio dei costi, avevano spesso bassi coefficienti di riempimento: nei giorni del de-hubbing lo scrisse persino il Corriere della Sera (“Le rotte in perdita di Malpensa”, A. Baccaro). Sottolineo la sentenza del mercato: con due hub Alitalia non interessò a nessuno, con solo Fiumicino ad Air France interessò.

Un ricco, in quanto tale, non si limita ad una sola auto, una sola casa... ecc. Milano è così ricca da dover avere un aeroporto con tali e tanti collegamenti verso tutto il mondo (l’accessibilità aerea: ma cosa significa?) senza che ci sia reale giustificazione di traffico, cioè un vero motivo trasportistico? In questi tempi le Compagnie aeree operano in sinergia in alleanze che permettono di abbattere i costi, tagliano o riducono le frequenze dei voli sulle destinazioni meno remunerative ed hanno tutti gli occhi sui bilanci. Alitalia, per la dabbenaggine di pochi (o forse di molti?), ha continuato a rinviare la soluzione del proprio problema, continua a costare cifre enormi al contribuente ed è ancora in balia del dualismo Air France- Lufthansa, di chi parla di “multi-hub” (che è una cosa che non esiste) e di chi la vuole a Milano piuttosto che a Roma oppure sia a Milano che a Roma.

A Malpensa, ultimo ma non il meno importante, c’è il problema ambientale. Non ci stanchiamo di ricordare che l’aeroporto è interamente nel Parco lombardo della Valle del fiume Ticino, che si progetta di ampliarlo con una terza pista e con altri terminal per i passeggeri e che viene sistematicamente e colpevolmente coperto da silenzio che l’inquinamento, sia acustico che atmosferico, è oltre i limiti tollerabili. La recente sentenza Quintavalle, emessa dal Tribunale di Milano (che obbliga S.E.A. ed il Ministero dei Trasporti a versare un indennizzo di 5 milioni di Euro alla “Tenuta 3 Pini” che si trova a Somma Lombardo sotto una rotta di decollo) ha finalmente rotto il muro di omertà e silenzio e speriamo che altri procedimenti confermino questa tendenza. Sotto alle 5 rotte di decollo ci sono, nel raggio di 10 km, 38 Comuni, non certo sorti dopo Malpensa e, nel raggio di 15 km, i Comuni sono 88, gli abitanti 500.000. Contano solo gli affari e non la salute di mezzo milioni di persone? Possibile che ci sia un fronte bipartizan, tutti in sintonia con il “Partito (degli affari) di Malpensa? Possibile che anche il centrosinistra dica le stesse cose che dice Formigoni? Se il centrosinistra vuole proporsi come forza politica alternativa a Formigoni dovrà anche proporre un programma politico alternativo a quello di Formigoni: se dice le stesse cose perchè mai l’elettore dovrebbe cambiare?

L’attuale crociata in difesa di Malpensa ci conferma che c’è chi è determinato a sacrificare l’Ambiente allo sviluppo incontrollato ed immotivato di Malpensa: dilapidare un patrimonio come il Parco del Ticino, dichiarato dall’UNESCO “Riserva della Biosfera”, è un lusso che ci possiamo permettere? Gallarate, 7 gennaio 2009

UNI.CO.MAL. Lombardia

Il Presidente

Beppe Balzarini

Le posizioni della politica

nell’articolo di Massimo Vanni

"Tramvia, dibattito su falsità"

Domenici: "Referendum assurdo e sciagurato". Anzitutto, le mistificazioni: «Questo referendum ha già prodotto un danno, quello di un dibattito esaltato e, per responsabilità dei promotori, fondato su esagerazioni e falsità». Subito dopo gli alleati del leader dei contrari Mario Razzanelli. A cominciare da Paolo Blasi: «Ex rettori dicono cose senza né capo né coda, forse avrebbero fatto meglio ad occuparsi delle condizioni finanziarie in cui hanno lasciato l’università». E per finire, «i neofascisti che affiggono manifesti». Il sindaco Leonardo Domenici partecipa alla presentazione dello studio che annuncia un aumento dei prezzi immobiliari nei quartieri attraversati dalla tramvia e, a pochi giorni dal voto, sferra uno dei suoi attacchi più decisi contro il fronte degli anti-tramvia.

«Si parla molto di progetti alternativi che non esistono, ma si sta prendendo in giro la città», aggiunge il sindaco a proposito del micro-metrò rilanciato proprio in questi giorni dal capogruppo dell’Udc Razzanelli. E il fatto sorprendente, continua Domenici, è che nel referendum sulla Coop della Ex-Longinotti votato nel 1999, anche allora un referendum richiesto da Razzanelli, «c’era la stessa compagnia di giro e si discuteva degli stessi scenari apocalittici che puntualmente non si sono verificati».

Il sindaco chiede quindi di riportare il dibattito su dati oggettivi («Contrariamente a quanto viene detto, i binari che passano dal Duomo non sono quelli di Santa Maria Novella e saranno a raso»). E invita a votare «no contro questo assurdo e sciagurato referendum» e anche «no contro chi si oppone al cambiamento».

Se oggi i cantieri comportano comprensibili disagi, «alla fine i vantaggi ci saranno», sostiene il deputato Ermete Realacci, presidente onorario di Legambiente che ha collaborato alla ricerca sulle modifiche dei valori immobiliari post-tramvia condotta da Anco-Cresme Consulting. «L’arrivo di un mezzo di trasporto come la tramvia avrà un effetto di salvaguardia sul patrimonio urbanistico, con conseguente aumento dei prezzi», sostiene Realacci. I dati saltati fuori dallo studio?

Una volta che le tre linee di tramvia saranno realizzate, secondo Anci-Cresme, il valore totale del patrimonio immobiliare della città passerà da 56,40 miliardi a 58,15 miliardi di euro. Un guadagno netto per i privati proprietari di appartamenti, negozi e uffici di 1,75 miliardi. Un aumento che sarà significativo soprattutto nelle aree periferiche, i cui valori immobiliari si avvicineranno di 3-4 punti percentuali a quelli del centro. A Novoli, che sarà attraversata dalla linea 2 (quella diretta a Peretola), il prezzo degli alloggi, secondo lo studio, si rivaluterà di quasi il 5 per cento, mentre quello dei negozi quasi del 6 (gli uffici del 6,7). Mentre a Campo di Marte, l’aumento sarà più contenuto: circa l’1 per cento. A Gavinana gli alloggi lieviteranno del 3,8, i negozi del 4,4. In qualche caso l’aumento dei valori potrà sfiorare anche il 10 per cento.

Secondo lo studio, la tramvia sarà in grado di liberare pezzi di città dal traffico privato, con la conseguenza di abbattere del 30 per cento la produzione di anidride carbonica e di contrastare la proliferazione del numero dei veicoli privati.

Il promotore del referendum Razzanelli sostiene esattamente il contrario? Sostiene che lo spazio sottratto alle auto finirà per rendere più lento e difficile lo scorrimento del traffico privato con l’effetto di produrre più inquinamento atmosferico? «Questi tesi non tengono conto di un fatto, che l’arrivo del nuovo sistema di trasporto pubblico avrà un effetto sul numero di auto in circolazione, cioè che la tramvia dovrà comportare una diminuzione», sostiene il sindaco Domenici. Secondo le stime dell’Ataf, interviene anche l’assessore all’urbanistica Gianni Biagi, «circa il 35-40 per cento degli spostamenti effettuati nelle aree servite dalla tramvia passerà dal traffico privato alla tramvia». Del resto, aggiunge Biagi, la fluidità del traffico non è determinata solo dalla larghezza delle strade: «Basta vedere Porta al Prato, dove le corsie sono state ridotte da 8 a 4 senza penalizzazioni per il traffico».

Razzanelli punta il dito sull’«effetto cappio» dei binari in piazza della Libertà e sulle complicazioni del traffico? «La piazza sarà finalmente pedonalizzata, non sarà più uno spartitraffico ma una delle piazze importanti della città», risponde l’assessore Biagi

Le ragioni dei Comitati nell’intervento di

Alberto Asor Rosa

Blocchiamo tutto e ripensiamo il progetto

Siamo risolutamente a favore del mezzo di trasporto pubblico. E nel mezzo di trasporto pubblico privilegiamo risolutamente quello su rotaia. Sempre? E dovunque?

Gli esempi estremi servono a far capire le cose semplici.

Poniamo che il progetto preveda il transito della tramvia fra il Duomo e il Battistero. Ah, no: quello non si potrebbe fare, sarebbe lesivo per l’ambiente urbano e pericoloso per i monumenti. E invece il farlo passare a qualche metro di distanza dall’uno e dall’altro, quello sì, non sarebbe nè lesivo nè pericoloso, anzi sarebbe un bene trionfale per la città e il suo prestigio?

Di equivoci, contraddizioni e goffaggini di tale natura è piena l’affannosa difesa che l’amministrazione comunale di Firenze fa del megaprogetto tramviario in vista del voto referendario del 17 febbraio.

La questione - grave, anzi gravissima, al di là dei suoi contenuti specifici - presenta due aspetti, uno di sostanza, l’altro di metodo (questo secondo forse più importante del primo, visto che lo determina).

La sostanza riguarda un po’ tutto: i percorsi, la dimensione delle carrozze, l’attuale indefinibilità e provvisorietà dei progetti (si «naviga a vista», senza uno studio d’impatto ambientale: sfido il Comune a dimostrare il contrario), l’abbattimento indiscriminato di centinaia di alberi d’alto fusto, la destinazione finale delle enormi somme stanziate (e da stanziare), il mutamento in aeternum delle caratteristiche storiche millenarie del centro storico di Firenze, ecc. ecc.

Il metodo riguarda comportamenti e abitudini del ceto politico cittadino (non farei tanta differenza fra maggioranza e opposizione) in un caso di tanta rilevanza. Il Coordinamento dei comitati cittadini di Firenze, che aderiscono alla Rete toscana (che io immeritatamente presiedo) non ha chiesto né di fermare lo sviluppo del trasporto pubblico a Firenze né di escludere da questo la tramvia.

Ha chiesto che, in presenza di un accumulo così rilevante di problemi e interrogativi, si tornasse a pensare progetti, percorsi, dimensioni e finanziamenti, secondo l’elenco più o meno in precedenza stilato.

La risposta è stata, come si suol dire, un silenzio assordante o, peggio, la ripetizione magnetofonica di alcuni slogans propagandistici.

Votare sì al referendum del 17 febbraio significa dunque due cose, una più importante dell’altra; innanzi tutto, bloccare il progetto della tramvia così come ora è; in secondo luogo, dimostrare che la democrazia rappresentativa non prevede un regime di delega, in cui gli eletti, per essere stati eletti, fanno quel che vogliono. Si chiede, in fondo, solo la possibilità di riaprire un percorso.

P.S. Ci rimproverano perché diciamo le stesse cose che dice Vittorio Sgarbi (o perché Vittorio Sgarbi dice le stesse coso che diciamo noi). Ma non ci faccino ridere, sentenziava un famoso pensatore italiano del Novecento in casi del genere. I giornali sono pieni tutti i giorni di dotti e autorevoli commenti, che ci anticipano come dopo il voto del 18 aprile sia possibile, anzi auspicabile, un incontro costituente fra i due maggiori partiti italiani, il PD e il PDL (si chiamano così?), e noi dovremmo vergognarci di pensarla come Sgarbi?

Postilla

È sempre triste contestare un tram; è una scelta grave, come l’aborto. Eppure, come l’aborto qualche volta è necessario. Il guaio del tram di Firenze è che è stato progettato in modo disastroso, e non è mai stato valutato e discusso con l’attenzione che un intervento così importante meriterebbe. È ancora possibile farlo, ed è questo che chiedono i promotori del referendum, e quanti voteranno SI alla moratoria. Ma perché mai in Italia le buone idee (il tram, ad esempio) vengano eseguite in modo sciaguratamente approssimativo, grossolano, settoriale? Un’attrezzatura come quella avrebbe richiesto una riprogettazione dell’intera sede stradale, “da muro a muro”; un’attenzione ai contesti, alle preesistenze, alle sistemazioni del traffico nelle strade circostanti.

Le parole ragionevoli del presidente della "Rete toscana dei comitati per la difesa del territorio" chiariscono le ragioni dei critici dell’attuale progetto. Quelle del sindaco rivelano una volta ancora come in Toscana accada ci detiene il potere preferisca spesso gli anatemi alle risposte di merito alle questioni sollevate.

La Rete Toscana nella sua completezza, costituita da oltre 170 Comitati e Associazioni, esprime la propria adesione all’appello a sostegno del si al referendum, redatto dai Comitati fiorentini e da Italia Nostra, e sottoscritto anche da numerose personalità del mondo della cultura, dell’università e dell’associazionismo che notoriamente non sono riconducibili allo schieramento politico del centro-destra, ritenendo che i motivi che hanno portato all’esercizio dello strumento referendario, superino di gran lunga, allo stato attuale dei fatti, la valenza degli schieramenti politici di parte di chi lo ha promosso e che i sostenitori del NO al referendum tentano ancora, propagandisticamente, di far passare contrapposti agli interessi della Cittadinanza.

La Rete, ritiene infatti che lo strumento referendario, come è nella sua natura, rappresenti attualmente, per la cittadinanza tutta, l’ultima speranza per cercare di far breccia nell’arroccamento, quasi sempre arrogante e mistificatore, espresso dalla committenza, e dall’Amministrazione Comunale, nel non voler procedere a nessuna sostanziale revisione tecnica del progetto, neppure per le linee 2 e 3, non ancora cantierizzate, come i Comitati richiedono in nome di una gran massa di Cittadini che hanno manifestato in più occasioni contro le conseguenze distruttive, immediate e future, che un progetto mai definito nei particolari, come quello attuale, possa arrecare irreparabilmente a vastissime zone della città.

La Rete Toscana sostiene ovviamente lo sviluppo del trasporto pubblico e quindi non è assolutamente contro la tramvia: ma contro questa tramvia, che ha evidenziato nel progetto i suoi limiti di condivisione con la Cittadinanza, anche a causa di un percorso decisionale non adeguatamente trasparente che ha visto prevalere i toni propagandistici, alle ragioni di fatto. Ragioni che dovevano partire da un ben definito piano di mobilità dell’area vasta, se non provinciale, la cui mancanza è aggravata dal non aver mai definito neppure un piano di collocazione delle attività pubbliche, produttive e terziarie, determinandone invece una spontanea dispersione su tutta l’area metropolitana e dei comuni limitrofi, anche di seconda cintura, che rende di fatto impossibile dare risposte di mobilità adeguate, con qualunque mezzo pubblico, che non sia il proprio ciclomotore.

Ciò premesso, questa tramvia non costituisce neppure un’occasione di riqualificazione degli spazi urbani, come normalmente è accaduto in altre realtà europee, ma semmai ne riduce la fruizione peggiorando, nella maggior parte dei casi, gli attuali standard di vita dei cittadini e delle attività che si svolgono a margine dei percorsi della tramvia.

Firenze 8 Febbraio 2008

Due sì alla moratoria per le linee 2 e 3 della tramvia

Italia Nostra, Associazione piazza della Vittoria, Associazione Linea 3, Coordinamento dei comitati dei cittadini dell’area fiorentina

A Firenze dal 2004 è stata avviata la costruzione di una linea tranviaria, la Linea 1, che collegherà la Stazione di S.M. Novella con Scandicci. La linea 2 – per l’Aeroporto - e la Linea 3 – per Careggi - sono in via di progettazione definitiva e se ne sono già avviati i lavori preliminari.

Con il Referendum consultivo indetto per il 17 febbraio dovremo dire sì o no alla sospensione delle linee 2 e 3. Lo scopo è quello di avviare un ripensamento complessivo sia del sistema tranviario che del trasporto pubblico a Firenze.

Questa Amministrazione comunale non ha mai attuato un vero confronto con i cittadini sull’opportunità o meno di costruire una tramvia, non ne ha mai discusso i tracciati e non ha mai cercato di affrontare e risolvere i disagi e i problemi prodotti da un’opera del genere.

L’assenza del confronto con la città genera mostri: infatti è possibile verificare che le sistemazioni preliminari già realizzate sono di una desolante modestia progettuale e di un devastante impatto territoriale e ambientale. A monte di qualsiasi progetto esistono invece dei vincoli inevitabili di natura ambientale, storico-artistica, urbanistica che qui non sono stati preventivamente individuati o “considerati”. Una volta che i problemi, i gravi danni al centro storico e al verde consolidato emergeranno non ci sarà più alcuna possibilità di recupero con soluzioni alternative valide.

Questo modo di procedere ha acutizzato il conflitto con una parte rilevante della cittadinanza. I nostri amministratori hanno trasformato il confronto sui fatti, da noi più volte sollecitato, in rissa ideologica che favorisce la logica degli schieramenti (destra o sinistra?) e impedisce qualsiasi sereno e serio confronto.

Gli amministratori ingenuamente attribuiscono alla sola presenza del tram il potere miracoloso di ridurre il traffico privato su gomma, senza effettuare alcuna verifica del progetto e senza affrontare il problema della mobilità nel suo complesso.

Ribadiamo: la forte politicizzazione che ha assunto il dibattito rischia di impedire la conoscenza ed una seria discussione dei progetti.

Per tutto ciò, pur non avendo promosso noi il Referendum, partecipiamo alla campagna referendaria a favore del sì considerandola comunque un’importante occasione data ai cittadini per esprimersi.

Noi siamo per il completamento della Linea 1 e per una moratoria delle Linee 2 e 3 in modo da ripensare tutto il sistema del trasporto pubblico.

A Firenze la congestione cronica da traffico è aggravata da un’alta domanda di mobilità, ben al di là della dimensione della città, sia per la presenza di un turismo globale invasivo e poco governato, sia per un’espansione edilizia incontrollata che ha disseminato abitanti e attività a grande distanza tra loro.

Noi sosteniamo il potenziamento del trasporto pubblico, ma siamo anche per la riduzione del bisogno di mobilità indotto dalla speculazione immobiliare che sta svuotando la città e condannando i suoi ex cittadini ad una vita da pendolari.

Per creare vere alternative al mezzo privato però bisogna rinunciare all’idea che esista un rimedio unico ed evitare infatuazioni o demonizzazioni per questa o quella soluzione. Non c’è esempio europeo che valga se non si parte da un’approfondita conoscenza delle esigenze della propria città.

La nostra opposizione non è alla tramvia in sé ma a questo progetto che riteniamo sbagliato, oneroso e imposto alla citta’.

Ecco 10 ragioni per rimettere in discussione le linee 2 e 3

- il sistema tranviario che si vuole realizzare è costituito da tracciati concepiti 15 anni fa per una metropolitana. è un trasporto di superficie pesante, rigido, inadeguato per la città di firenze.

- il progetto è limitato allo spazio adiacente ai binari senza riqualificare lo spazio pubblico circostante. mancano interventi contestuali sul sistema della circolazione, sul sistema della sosta e sulla rete di autolinee.

- ad opera finita avremo tre linee radiali imperniate sul nodo S.M. Novella – Fortezza che aumenteranno la congestione dell’area centrale, senza soddisfare i collegamenti con importanti funzioni metropolitane e i collegamenti intercomunali diretti (attraversamento di Firenze).

- stiamo verificando che ovunque passi questa tramvia gli alberi, anche adulti, vengono abbattuti. Il patrimonio arboreo esistente deve essere un’invariante di progetto, non la prima cosa da eliminare. Il prolungamento fino al Meyer produrrà l’ ulteriore taglio di un centinaio di alberi.

- l’abbattimento degli alberi, anche di quelli difesi da vincolo di legge, e i numerosi sottopassi, compromettono l’impianto storico del Poggi e i suoi prolungamenti moderni.

- il paesaggio urbano di Firenze ne uscirà stravolto, come già avvenuto nella zona di Porta al prato e delle Cascine.

- il tram “Sirio” di 32 m. è fuori scala per la città storica. L’impatto sarà dato sia dalla linea aerea (4 km. di fili e centinaia di pali) sia dall’ingombro e dalla frequenza dei convogli. La posa dei binari, costosa e con spesse fondazioni, è da considerarsi irreversibile per il centro storico di Firenze, patrimonio dell’Unesco.

- il tratto della Linea 2 che transita dal Duomo è dannoso anche perché finisce in modo irragionevole in piazza della Libertà dove metterà in crisi un nodo delicatissimo della viabilità cittadina, compromettendo una delle piazze più significative del Poggi.

- la diminuzione dell’inquinamento e del traffico automobilistico, che comunque alla fine non supererà l’8-10%, avverrà solo se e quando tutto il sistema della mobilità funzionerà.

- è da considerare che gli abitanti della zona Cure, dei quartieri a sud e a est non saranno serviti dalla tramvia.

la costruzione della Linea 1 con i costi raddoppiati e con ben 63 varianti dimostra che i progetti vengono elaborati in modo sommario. Questa “navigazione a vista” elevata a sistema è inaccettabile, è priva di qualsiasi studio di impatto ambientale e tale da vanificare ogni criterio di trasparenza

- l’aver affidato ad un “project financing” la delicata progettazione delle linee 2 e 3 significa addossarne il debito alla collettività, che dovrà compensare il mancato incasso alla società di gestione.

ed ecco alcune proposte alternative

- elaborare un Piano organico della mobilità di tutta l’area, anche mettendo in discussione scelte urbanistiche centralizzatrici ed invasive recentemente riconfermate dagli strumenti di pianificazione adottati

- mettere in atto una migliore utilizzazione dell’infrastruttura stradale e una razionalizzazione dei sistemi e dei servizi esistenti a scala metropolitana, da definirsi prima e non dopo la costruzione della tramvia.

- liberare il centro storico dal traffico fin da subito, limitando al massimo il suo attraversamento da parte delle linee di autobus e rinnovando profondamente il sistema di Trasporto Pubblico Locale.

- Pretendiamo il rispetto della ztl.

- prevedere il potenziamento di servizi di bus ecologici per il centro con penetrazione a staffa.

- attuare contemporaneamente tutte le misure utili al rafforzamento della mobilità elementare, in particolare di quella ciclabile, individuando una rete di aree e di corridoi ciclopedonali protetti

- verificare la necessità delle linee 2 e 3 valutando ipotesi diverse di collegamento metropolitano, basandosi sull’esteso sistema ferroviario in parte inutilizzato (si pensi solo al tratto Cascine - Leopolda), eventualmente completato da rami tranviari o utilizzando altri mezzi o infrastrutture adatte alle caratteristiche della città.

- aprire il confronto con la cittadinanza su progetti di tramvia, anche alternativi tra loro, fatti conoscere in modo semplice e comprensibile.

Anche la tramvia, da mezzo di trasporto pubblico, può trasformarsi in strumento di declino ulteriore.

La parola d’ordine di chi sostiene questo progetto, “cambiare o declinare”, la facciamo nostra: cominciamo a cambiare il progetto di tramvia, le sue modalità di costruzione e di finanziamento.

Nel XXI secolo modernità vuol dire rispetto dell’ambiente e qualità della vita

votiamo sì per fermare le linee 2 e 3!

votiamo sì per garantirsi le scelte, per garantirsi il futuro, per una vera partecipazione!

Primi sottoscrittori.Prof. Leonardo Rombai, Prof. Giorgio Pizziolo, Prof. Mariella Zoppi, Maria Rita Signorini, Arch. Luciano Ghinoi, Maria Rita Monaco, Arch. Paolo Celebre, Prof. Mario Bencivenni,Dott. Domenico de Martino, Tiziano Cardosi, Prof. Luigi Zangheri, Prof. Mauro Cozzi, Arch. Gabriella Carapelli, Arch. Rinaldo HoffmannRomano Romoli(Casa dei Tessuti, via dei Pecori), Prof. Marco Dezzi Bardeschi, Dott. Lara Vinca Masini, Prof. Rosetta Raggianti Prof. Carlo Carbone, Prof. Francesco Pardi

Postilla

L’intenzione dell’appello non è quella di rinunciare al tram, ma di ottenere un progetto decente, quindi ben diverso da quello approvato dal Comune. Forse sarebbe stato più efficace chiedere sostanziali miglioramenti del progetto anziché chiedere la moratoria, cioè la sospensione sine die dei lavori. Ma ciò avrebbe richiesto un dialogo con l’amministrazione, che non sembra esserci stato. Finché l’atteggiamento di chi governa è “prendere o lasciare”, ci sono poche speranze per una migliore democrazia e una migliore città

Palazzo Vecchio dichiara guerra alla rendita immobiliare. Lo fa con «l’avviso pubblico», il nuovo strumento urbanistico col quale progetta di sovvertire le regole edilizie fino ad oggi in uso. Durante il convegno organizzato ieri dalla commissione territorio guidata da Antongiulio Barbaro, l’assessore all’urbanistica Gianni Biagi ha annunciato che il Piano strutturale pronto a primavera conterrà proprio l’«avviso pubblico», lo strumento col quale il Comune si rivolgerà ai privati aprendo una sorta di concorso sulle opere che intende realizzare: una gara dove peserà più la qualità dei progetti che la semplice proprietà dei terreni. Una rivoluzione concettuale dell’edilizia privata che proprio a Firenze, dice l’assessore, troverà la prima sperimentazione significativa.

«L’avviso pubblico è un’idea della Regione che siamo lieti di sperimentare nella nostra città. E non a caso: finora in Italia era stato applicato solo in piccoli Comuni ma la Toscana e Firenze si confermano all’avanguardia nel dibattito urbanistico», sostiene l’assessore comunale. Mettendo fine (almeno in parte), oltretutto, alle divergenze e anche alle polemiche saltate fuori qualche settimana fa proprio sui contenuti del Piano strutturale tra il Comune e Riccardo Conti, l’assessore regionale all’urbanistica primo paladino del ricorso all’«avviso pubblico» tanto da introdurlo nel Pit, il Piano d’indirizzo territoriale che la Regione approverà in via definitiva prima dell’estate.

Come funzionerà «l’avviso»? Oggi il proprietario di un terreno che vuole costruire 100 appartamenti presenta un progetto e preme il Comune per ottenere poi la concessione. Domani tutto cambia: nel Piano strutturale il Comune dice quali opere considera prioritarie ma non dove devono essere fatte (il Piano strutturale non è più un Piano regolatore). E lancia quindi l’«avviso»: ci sono imprenditori interessati a realizzare l’idea del Comune? Il proprietario dei terreni e il costruttore devono mettersi insieme per confezionare un progetto convincente. E il Comune sceglie, tra quelli pervenuti, il progetto che più comporta vantaggi per il pubblico.

Solo a questo punto, non prima, interviene il regolamento urbanistico a dire dove deve essere realizzata l’opera. E solo a questo punto sarà chiaro quali saranno i terreni edificabili. Prima del regolamento urbanistico la rendita immobiliare non può dunque salire e dopo il Comune avrà già scelto. Da notare che il regolamento avrà una durata di soli 5 anni (nel senso che dopo decade tutto).

Quali operazioni potranno essere fatte con l’«avviso»? Secondo Conti e Biagi, «praticamente tutte»: il recupero dell’ex panificio militare di via Mariti o anche l’albergo nella ex Fiat di viale Belfiore, che ha sollevato tante polemiche dopo l’abbandono dell’architetto Jean Nouvel. Prima di tutto però il Comune dovrà decidere il pacchetto delle opere da farsi con urgenza.

«Lo faremo cominciando dal Piano strutturale - dice Biagi - il sistema dell’"avviso" consente al Comune di massimizzare i profitti e consente anche la massima trasparenza nelle procedure». Ma consente anche, aggiunge Conti, di favorire la concorrenza tra privati: «Una concorrenza sui progetti, sulla qualità, più che sulla proprietà». Senza contare che, interviene anche il capogruppo dei Ds Alberto Formigli, definire il pacchetto delle priorità pubbliche è come «assegnare quote di edificabilità». Mille miglia lontano dalla logica dei vecchi piani regolatori che stabilivano sulla carta quali erano i terreni edificabili aumentandone d’un botto il valore.

Postilla

Già a Milano si era proposta, e praticata, la soluzione di lasciar decidere alla proprietà immobiliare che cosa costruire e dove, sulla base delle “strategie”, molto generali e generiche, dell’amministrazione. La proposta era stata ripresa e perfezionata e generalizzata dalla "legge Lupi" (per fortuna sconfitta).

Adesso anche a Firenze si vuole fare così: la “strategia” la fa il piano strutturale, e il regolamento urbanistico (cioè il vero PRG, quello che dice dove si costruisce e che cosa e quanto) viene redatto dopo e sulla base delle proposte degli “imprenditori”, cioè il tandem costruttori-proprietari. Insomma, chi decide è la rendita.

Poi dicono (e il giornalista ci crede) che così combattono la rendita e la vincono. Dicono di aver vinto, e non sanno che si sono arresi.

Sono state molte le iniziative per ricordare la disastrosa alluvione di quarant’anni fa. Iniziative importanti che culmineranno, penso, nell’incontro in difesa dell’ambiente e degli ecosistemi urbani (domani in Palazzo Vecchio) nel corso del quale sarà solennemente firmato l’appello delle città di Firenze, New Orleans, Dresda, Budapest e Venezia, per la salvaguardia del pianeta e dei patrimoni culturali.

Forse, però, è mancato un ricordo importante: l’inascoltata proposta, che Giovanni Michelucci lanciò all’indomani della catastrofe, di ripartire dalla ricostruzione del quartiere di Santa Croce, uno dei più devastati, per risanare una parte importante del centro storico e riproporre così un’idea di città «aperta», non più costruita per parti separate e ghettizzanti. L’idea - già proposta all’indomani della distruzione di Borgo San Jacopo ad opera dei nazisti in fuga - era quella di un uso popolare degli spazi, le cui parti potevano essere collegate da «percorsi».

Un’idea semplice, che riproponiamo con le parole del Grande Vecchio dell’Architettura, tratte dalla conversazione raccolta nel libro Abitare la natura, edito da Ponte alle Grazie nel 1991. «Proponevo qualcosa di più di un semplice pensiero architettonico - spiegava Michelucci - Era una nuova Firenze, quella a cui pensavo. Non più separata in due parti da un fiume ostile, ma unita da un percorso che, per orti e giardini, da Boboli per San Frediano, attraverso l’Arno arrivasse all’orto di Santa Croce, nel cuore del quartiere, riscoprendo quel verde che, come ho sempre sostenuto, non si può “mettere” nella città: ne fa già parte. Pensavo di affrontare la rinascita di quel quartiere da sempre segnato dall’emarginazione, cercando oltre la sopravvivenza, anche gli elementi dinamici della storia. L’alluvione, per esempio, aveva messo in evidenza come i viali del Poggi non fossero solo un anello utilissimo di scorrimento fra la vecchia e la nuova città, ma anche un elemento di sviluppo il quale, organizzando lo spazio fra le Murate e San Salvi, avrebbe fatto assumere a Santa Croce la funzione di collegamento e di avamposto della memoria storica al di là dei viali. Altro che sopravvivenza! Era nuova una vita per il quartiere e l’intero centro storico. Era la fine della separatezza fra l'antico quartiere e la parte ottocentesca della città. Ma così non fu - concludeva amaramente Giovanni Michelucci - C’è stata un’ostilità nei miei confronti che non ho mai capito. Forse perché andavo capovolgendo la città e con essa alcuni interessi costituiti».

Probabilmente come quelli che ancora oggi sembrano dominare Firenze, ormai senza un’idea di città.

Per questo, forse, è imbarazzante ricordare il Grande Vecchio dell’Architettuta scomparso alla vigilia del suo centesimo compleanno.

La vicenda di via Arnoldi nella quale un gruppo di abitanti, proprietari dell’unica via di accesso ad uno dei cantieri di cui si sta riempiendo la città, sono costretti a difendersi da provvedimenti di imposizione dell’Amministrazione Comunale, è solo l’ultimo atto di un'aggressione al territorio portato avanti da alcuni costruttori di Firenze, con l’assenso dell’Assessorato all’Urbanistica e la compiacente distrazione della Provincia e della Regione.

Ricordiamo di che cosa si tratta:

Nel 2002 il Comune pubblica un bando per la costruzione di appartamenti secondo il programma nazionale denominato “20.000 case in affitto” ? Decreto Ministeriale 2522 del 27 Dicembre 2001? per la costruzione in aree degradate di alloggi da cedere a canone concordato.

Nel corso del 2005, l’Amministrazione Comunale, invece di partecipare al bando in prima persona, e senza avviare alcuna seria iniziativa per il recupero di aree all’interno delle previsioni del PRG, accoglie in tempi brevissimi progetti per ben 688 alloggi. Delle 9 aree interessate una era a destinazione industriale, mentre tutte le altre, erano riservate a servizi, a funzione agricola o, come nel caso di via Arnoldi, appartenevano al Parco storico della collina e dell’Arno, in cui vige il divieto assoluto di edificare.

Da quel momento tutti i servizi previsti in quelle aree (verde pubblico, servizi sociali, parcheggi, ecc) sono automaticamente cancellati.

Si sottraggono beni e risorse pubbliche per ottenere case con affitti di poco inferiori a quelli correnti sul mercato, permettendo ai privati di ricavarvi ingenti profitti. In pratica i proprietari hanno la possibilità di scegliere, al di fuori di qualsiasi previsione di piano, i terreni su cui investire, ridisegnando l’intera città con la costruzione alla fine di 668 appartamenti.

Le innumerevoli agevolazioni per la proprietà privata in quest’operazione:

- finanziamento statale tramite la Regione del 45% dei costi di costruzione degli alloggi da affittare a canone convenzionato (se la locazione è permanente) e del 25% (se invece è a termine per almeno 10 anni)

- rimborso del 40% dell’ICI per 10 anni

- abbattimento del 40% degli oneri di urbanizzazione

- dilazione del pagamento della restante somma per un periodo di 5 anni

- aumento dei massimali di affitto concordato dal 65 al 75%, poi ulteriormente ritoccati in modo da annullare quasi la riduzione.

- eliminazione degli oneri concessori relativi al costo di costruzione

E soprattutto

un incremento notevole della rendita urbana realizzato attraverso il cambio di destinazione del terreno, reso edificabile, con possibilità di realizzarvi oltre ai 368 alloggi in affitto, anche 300 appartamenti in vendita a prezzo di mercato.

Altro che aree degradate!

Si calcola che con questa speculazione immobiliare i proprietari, a fronte di un costo contenuto per costruire gli alloggi in affitto convenzionato, possano realizzare, solo sugli immobili oggetto di vendita, un profitto del 500%, circa 100.000.000,00 di Euro!

Berlusconi e il senatore Lupi avrebbero saputo fare di meglio?

Nel caso di via Arnoldi i soggetti promotori, giungendo in tempi record a concludere i diversi iter burocratici, ottengono:

- una variante al Piano Territoriale di Coordinamento provinciale

- una variante al PRG del Comune di Firenze

- il parere positivo della Commissione comunale per il paesaggio

- il parere positivo della Soprintendenza ai BB.AA.

- l’approvazione del Piano Urbanistico Convenzionato

Di fronte alle legittime proteste dei proprietari prospicienti l’area, che nel frattempo ricorrono al TAR e presentano anche un esposto alla Procura della Repubblica, l’impresa Le Quinte s.p.a. tenta di forzare i tempi di apertura del cantiere con il pieno accordo del Comune che invia in suo soccorso la Polizia Municipale.

Se l’Amministrazione comunale non esita a diffidare questi cittadini, quella provinciale irride le loro legittime rimostranze, dipingendole come difesa del privilegio di pochi a fronte dell’urgente necessità di alloggio in città.

La Provincia per giustificare, una variante al Piano Territoriale di Coordinamento che va contro ogni sua precedente previsione, arriva ad affermare che quel Piano (PTCP) è “uno strumento totalmente inventato e creato dalla Provincia di Firenze”, che “non ha valenza di uno strumento di tutela paesistica”. Quasi, cioè, una pura e semplice “boutade”.

Si giunge insomma al paradosso per il quale il privato si trova a difendere, contro l’Amministrazione, lo strumento di programmazione da questa creato!

A fronte di amministratori pubblici ostili o latitanti, che per di più non difendono risorse essenziali per la città, è il cittadino a dover garantire interessi giuridicamente protetti di natura urbanistica e a ricoprire il ruolo di difensore di un bene culturale comune!

Questo è ciò che avviene a Firenze!

Le forzature della Società privata e dell’Amministrazione non sono però riuscite ad intimidire gli abitanti i quali, con un presidio stradale, hanno impedito per ora l’inizio dei lavori in attesa degli esiti della sentenza del TAR.

Il progetto prevede la costruzione di tre edifici subito al di là dei giardini privati che separano la zona edificata di via di Soffiano da quella aperta e classificata in precedenza nel Parco.

Si tratta di tre nuovi blocchi la cui altezza giunge fino a tre piani fuori terra, con un volume di 10.400 mc. Essi comprendono 20 appartamenti in locazione, tre in locazione temporanea e 23 in vendita sul libero mercato.

L’edificio, progettato dall’arch. Bartoloni, risulta poco compatibile con il contesto per tipologia, materiali e colore, ma soprattutto, se osservato dai varchi esistenti nell’edificato di via di Soffiano, copre ciò che ancora si può vedere della celebrata collina di Bellosguardo, che oggi si profila a poco più di 500 metri senza alcun ostacolo.

La vicenda di via Arnoldi, oltre che significativa per il tipo di resistenza civile che ha innescato, è esemplare anche perché rivela in quale scarsa considerazione sia tenuto da questa Amministrazione lo straordinario patrimonio territoriale e culturale delle colline circostanti la città, e dell’asta dell’Arno che le generazioni precedenti e innumerevoli battaglie politiche dello scorso secolo, ci hanno consegnato.

Già si parla di un altro terreno da edificare nella stessa zona.

In tutto il territorio comunale i casi di riperimetrazione, di arretramento dei confini, di eccezioni al Parco, sia in collina che sulle rive dell’Arno si stanno moltiplicando. La pressione degli interessi immobiliari è enorme dati gli altissimi valori in gioco ed ogni cedimento dei poteri pubblici, anche limitato, può diventare un segnale per l’attacco generalizzato al regime di vincolo da parte della speculazione edilizia.

La vicenda di Soffiano del resto si lega a quella del Ponte alla Badia, sotto la collina di Fiesole, dove il Consiglio comunale, con apparente leggerezza, ha approvato una variante al PRG, rendendo edificabile un’area fragilissima.

Se a Soffiano e altrove l’alibi è quello delle case in affitto, sotto la Badia Fiesolana la copertura è data dall’Istituto Universitario Europeo, che vuole costruirsi lì il proprio campus, e alle cui richieste l’Amministrazione si accoda zitta e buona, senza neanche uno straccio di convenzione che impedisca in futuro un utilizzo speculativo di quei 60 appartamenti.

Ormai in molti l’hanno capito: questa Amministrazione non si oppone, non propone, non svolge alcun ruolo di difesa degli interessi collettivi!

L’ Assessorato all’Urbanistica non è certo il solo, ma sicuramente è il principale responsabile di questa situazione ormai insostenibile.

Come molti cittadini hanno potuto verificare da lungo tempo questo Ufficio, nelle figure dei suoi principali responsabili, si distingue per arroganza dirigistica, risultati discutibili sotto il profilo della competenza, poca trasparenza, sollecitudine ai poteri forti e chiusura nei confronti di qualsiasi rimostranza, anche ragionevole e perfettamente motivata, che provenga dai comuni cittadini.

Fatto salvo l’impegno quotidiano di numerosi volenterosi consiglieri comunali, tecnici e funzionari dell’Amministrazione, e senza pensare di risolvere facilmente i problemi strutturali degli Enti locali, noi crediamo che l’allontanamento dal loro incarico di quei dirigenti e responsabili politici che in queste ultime vicende si sono distinti per scarsa competenza e arroganza, sarebbe un primo significativo segno, da parte dell’Amministrazione comunale, di voler veramente procedere a quel confronto con la cittadinanza che continuamente proclama.

Per questi motivi e alla luce delle recenti vicende i Comitati dei Cittadini di Firenze chiedono:

- Le dimissioni dell’Assessore all’Urbanistica Gianni Biagi

- Lo spostamento dell’attuale Direttore della Direzione Urbanistica Maurizio Talocchini

- La riorganizzazione degli Uffici che si occupano della pianificazione e della gestione del territorio comunale attraverso la valorizzazione del patrimonio di competenze e professionalità ancora esistente al suo interno

- Il riavvio di un confronto aperto su tutte le scelte di politica urbanistica della città

Anche un articolo dell'Unità del 30 giugno e la Opinione di Lodo Meneghetti

Tre palazzine di cemento di quattro piani, che ospiteranno in tutto 46 appartamenti, ai piedi di una delle colline più belle di Firenze, Bellosguardo, situata nel cuore di una zona protetta considerata da 50 anni area rurale storica di interesse culturale. Una zona in cui, fino a un paio di anni fa, non si potevano costruire nemmeno delle serre o piantare alberi ad alto fusto, figurarsi costruire dei condomini. Da Palazzo Vecchio però non si sono persi d’animo, e pur di concedere la licenza edilizia un paio d’anni fa è stato modificato il piano regolatore. Ma non è stato possibile fare nulla per fermare le proteste dei residenti della zona che quando due settimane fa sono iniziati i lavori di costruzione delle palazzine, hanno organizzato un picchetto in via Arnoldi, l’unica strada che porta al cantiere. Così da dieci giorni ruspe, camion e scavatrici ogni mattina alle sette arrivano a pochi passi dal cantiere ma sono costretti a fermarsi davanti al singolare picchetto dei cittadini, messo in piedi senza striscioni o bandiere, ma munito di ombrellone e sedie per ripararsi dal sole. Ieri mattina a fermare la protesta ci hanno provato anche una ventina di agenti, metà vigili e metà Carabinieri, ma non c’è stato niente da fare, «il picchetto - hanno proclamato i cittadini - va avanti».Di usare le maniere forti non se ne parla nemmeno: infatti i residenti della zona hanno tutto il diritto di bloccare via Arnoldi perché è una strada privata, di proprietà proprio dei cittadini in rivolta. Sembra addirittura che la protesta stia dando i suoi frutti: gli operai del cantiere ieri hanno annunciato che l’azienda costruttrice è intenzionata a fermare i lavori fino alla decisione del Tar, a cui i cittadini del picchetto si sono rivolti da tempo. Le tre palazzine in questione rientrano nel programma approvato da Palazzo Vecchio 20mila alloggi in affitto, che prevede la creazione di appartamenti a prezzi calmierati. In realtà però solo la metà degli alloggi avrà questa destinazione, mentre i restanti 23 saranno venduti a normali prezzi di mercato. A rendere la situazione ancor più ingarbugliata c’è il piano territoriale della Provincia, che continua a considerare la zona non edificabile. Ieri la questione è entrata anche in discussione a Palazzo Vecchio, con le consigliere del Prc De Zordo e Nocentini che in un intervento hanno preso posizione a favore della protesta dei cittadini. In serata però è arrivato un fermo altolà alle speranze dei cittadini del picchetto. L’assessore all’Urbanistica Gianni Biagi ha infatti affermato perentoriamente che «i lavori non si fermeranno perché non ce n’è motivazione. Il Comune - ha proseguito l’assessore - ha già sentito i pareri necessari, compreso quello della soprintendenza, ed erano tutti positivi». Il destino della collina sembra quanto mai incerto. Se il Comune non riuscirà a far cambiare idea ai cittadini si prospetta una lunga battaglia da combattere su fronti diversi: tanto nelle aule di tribunale quanto sotto l’ombrellone del picchetto, ormai considerato il simbolo della protesta di via Arnoldi.

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