Beni culturali, opposizione in stato confusionale. Dalle opere a Palazzo Chigi all'ok per il commissariamento delle aree romane
Un'interrogazione al ministro Bondi per chiedere informazioni sul destino delle quattro statue che il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha chiesto per sé e il suo parterre, a «decoro» delle stanze del potere a Palazzo Chigi. A perderle, sarebbe il Museo delle Terme di Diocleziano e a condurle fra gli scranni del Parlamento è stata ieri la capogruppo del Pd, Manuela Ghizzoni. Peccato che la questione del tour didattico (così come quello annunciato dei Bronzi per il G8) sia noto già da circa un mese e non si capisce perché l'opposizione se ne accorga solo in punta di primavera. Una delle statue richieste sarebbe in realtà un magnifico gruppo marmoreo, quello di Marte e Venere, rinvenuto durante gli scavi di Ostia. La «scusa pubblica» per quest'atto di spoliazione governativo è che le suddette sculture giacciono impolverate in bui depositi museali. La notizia è falsa: le opere sono allestite in sale chiuse e sprangate da tempo a causa della cronica mancanza di fondi, della carenza di guardiania e dell'impossibilità di far fronte ai costi di gestione del museo. E come ha risposto a tutto ciò il governo? Non certo offrendo alla fruizione collettiva (italiana e straniera) quei capolavori cercando di «oliare» la macchina dei beni culturali con un qualche flusso finanziario; al contrario, ha chiuso i rubinetti, tagliando ulteriormente le risorse del patrimonio culturale, lo stesso che a più riprese i suoi rappresentanti non perdono occasione di definire, con enfasi mediatica, «il grande giacimento petrolifero del nostro paese».
In più, il trasferimento delle statue, in perfetto stile napoleonico, finisce per avere un alto valore simbolico, essendo il museo interessato da quella «rapina» il primo a costituirsi dopo l'unità d'Italia. Potrebbe essere uno degli ultimi atti dell'era Bondi - corta, incisiva e nefasta - prima che il ministro prenda il volo per coordinare le attività del Pdl. Dietro di sé, lascia in eredità ai posteri il direttore generale Mario Resca (esperto in hamburger e casinò) e probabilmente un'idea di trasformare i reperti in slot machine da far fruttare a ogni giro di manovella. Sull'uso di quelle manovelle si destreggerà, come ventilato, Quagliariello? Sicuro è invece che chi salirà al timone del dicastero dovrà farsi un viaggetto a Abu Dhabi. Certo, se l'arte deve fatalmente vagabondare per il mondo, Palazzo Chigi è una mèta meno impervia e più vicina degli Emirati...
Sulle varie questioni scoppiate intorno al caso «beni culturali», la cosa pià grave è che l'opposizione sembra essere entrata in stato confusionale. Se l'archeologo Andrea Carandini, un tempo spirito libero della sinistra, risponde sollecito alla chiamata di Bondi, non perde un minuto e corre ad occupare la poltrona ancora calda dell'(ex) amico Salvatore Settis al Consiglio superiore, dall'altra parte, la Regione Lazio «crolla» sul commissariamento dell'area archeologica romana e di Ostia, ritenuta da molti un nuovo «sacco di Roma».
Dopo una lotta quotidiana - fino a ieri mattina ancora in corso - condotta dall'assessora alla cultura Giulia Rodano contro l'emergenzialità che rischia di cancellare le figure dei soprintendenti (coadiuvata da Giovanna Melandri, responsabile cultura Pd e da Cecilia D'Elia, assessora alle politiche culturali della Provincia, pronte entrambe a non accettare la messa sotto «tutela politica» di insigni studiosi e esperti di settore), il presidente Piero Marrazzo ha pensato bene di sparigliare la sua stessa giunta - e quelle «amiche» - nel tardo pomeriggio. Con un lancio di agenzia ha fatto candidamente sapere a tutti di aver dato l'assenso al commissariamento, purché a tempo limitato e purché Bertolaso rispetti le regole, non spazzi via le competenze dei soprintendenti. Una scelta avvenuta dopo il pressing del decreto della protezione civile che paventa possibili crolli nell'area del Palatino, resi più concreti dalle abbondanti piogge della stagione. A ruota, si sono congratulati con Marrazzo il sottosegretario Giro, il sindaco Alemanno, l'assessore Croppi. La sua è una posizione «non ideologica», hanno detto. Resta il fatto che la Regione non ha poteri decisionali, elargisce solo pareri. Che bisogno c'era allora di srotolare quel tappeto rosso? «L'importante - afferma Giulia Rodano - è vigilare che non venga toccato l'equilibrio dei poteri sul territorio e che, surrettiziamente, il commissariamento non sia una consegna delle aree al Campidoglio». Infatti, il commissario esiste già e non è Bertolaso: si chiama Angelo Bottini, soprintendente statale.
Era prevedibile che Soru potesse perderle le elezioni. Ma una sconfitta così pesante non era in conto. É stata sottovalutata l'onda del berlusconismo: la destra prevale tra i ceti tradizionalmente a destra e continua a fare presa su quelli popolari, fa man bassa di voti tra gli indecisi - quelli dell'ultima ora -, ed erode i bacini elettorali delle forze di sinistra.
Il successo di Berlusconi è favorito da PD e sinistra sfibrati, che sanno poco dell'elettorato dal quale non riescono a farsi capire. Questo vale anche in Sardegna a dispetto di chi si era illuso che il fiero popolo sardo fosse in parte immune dall' incantamento verso gli annunci di Berlusconi. Invece anche i sardi contano su di lui.
Berlusconi sa come colmare la distanza della politica dalla gente. E dispone di mezzi imponenti, usati ordinariamente per la propaganda dei suoi "valori" che si intensifica in ogni competizione elettorale. I suoi messaggi arrivano in ogni casa quando serve. Ogni sua mossa in Sardegna è andata in onda su televisioni molto compiacenti.
Ma vengo al punto: il tema del governo del territorio, indicato come prima causa della sconfitta. Occorre riconoscere in premessa il ritardo che su questo si registra da parte dei partiti del centrosinistra, dappertutto in Italia. Va avanti da anni: nei programmi scritti a Roma gli slogan rassicuranti (basta evocarlo "lo sviluppo sostenibile"!); in periferia si vedono ciclicamente i risvolti sciagurati quando si accondiscende oltre la soglia della decenza agli interessi dell'impresa.
In questo quadro scivoloso si è collocato il Ppr sardo, poco condiviso dagli alleati di Soru; sottoposto a continui attacchi è rimasto sostanzialmente indifeso. Una riforma innovativa è difficile che possa essere apprezzata da tutti ed è facile che susciti reazioni negative; e siccome nessuno si è speso per spiegarne i vantaggi, a parte il presidente e pochi altri, si sono evidenziati solo i difetti e prodotti numerosi travisamenti: a unire in un solo blocco speculatori, piccoli proprietari di aree, manovali. Si dirà che era difficile farsi capire, ma il consenso per le scelte di governo si determina solo se ci si impegna a sostenerle. Per questo servono i partiti. Altrimenti qualsiasi scelta si può ritorcere contro. Inammissibile, ad esempio, che il Piano sia diventato alibi per tutti - proprio tutti - i notori ritardi nell'esame di ogni pratica, tutto per colpa del Ppr di Soru.
La destra ha fatto la sua netta battaglia contro il Piano, e ha vinto perché ha offerto un progetto di governo del territorio marcatamente di destra (simile a quello patrocinato da Sarkozi in Corsica). Ha affermato con convinzione le sue tesi, e ha ottenuto consensi, pure tra quelli che non pensano esattamente che tutto il male stia nel Ppr. (Per questo aspettiamoci una linea cauta: ma una lastra di vetro si può rompere con un paio di colpi oppure si può abradere piano piano: tanti graffi la rendono opaca e comunque inservibile).
Alcuni candidati della coalizione di centrosinistra hanno affrontato la campagna elettorale assicurando la profonda revisione del mostro Ppr, gareggiando sul terreno dove la destra offre maggiori garanzie. D'altra parte autorevoli esponenti della coalizione per Soru erano i padri dei vecchi piani paesaggistici, annullati perché in contrasto con le leggi di tutela di allora. Potevano essere sostenitori convinti del nuovo corso?
C'è il capitolo degli errori di Soru su questo tema. Alcuni tattici e altri più strutturali. Nello sfondo la scelta di invadere, con un approccio estetico un po' aristocratico, gli spazi delle decisioni, anche quelli meno rilevanti (trascurabili nella economia dell'obiettivo: come la forma delle nuove espansioni urbane) e che sarebbe stato più opportuno lasciare interamente al libero arbitrio dei comuni, nel bene e nel male. Soprattutto non è stata buona la scelta del Consiglio Regionale di attribuire alla Giunta il potere di approvare il Ppr (quanto l' irrazionale tentativo di correggerla nella fase del completamento). Ciò ha reso lo strumento più debole, e ha consegnato al nuovo governo regionale la possibilità di fare tutte le varianti senza il dibattito consiliare, così che sarà molto attutito il clamore qualunque cosa accada.
C'è ora da vigilare, senza pregiudizi. Ma la recente irruzione di Berlusconi per liberalizzare l'edilizia - con un occhio di riguardo alla Sardegna - ci autorizza a pensare male e a temere che possa prevalere nella maggioranza una linea mirata a disarmare i pochi custodi di quanto resta del nostro paesaggio.
Per una coppia di sposini entrare finalmente nell'appartamento nuovo di zecca, prenotato da anni e comprato con il mutuo, dovrebbe essere una festa. Invece Caterina, nata e cresciuta a Porta Romana, commessa in Corso Como, un'Ornella Muti da giovane, più si avvicina la data del trasloco a Santa Giulia più si intristisce. «In quel deserto non ci voglio andare». Non sono capricci, quelli di Caterina (che non è un personaggio di fantasia, ma la figlia della portinaia del palazzo dove abito). Al quartiere Santa Giulia ci sono una ventina di palazzi e la nuova sede di Sky. E intorno c'è davvero il deserto: migliaia di metri quadrati di gibbosa terra battuta, non un filo d'erba, due pozze d'acqua scura su cui svolazzano i gabbiani-spazzini, unico collegamento con il resto del mondo la strada che porta al vecchio quartiere di Rogororedo e alla stazione della ferrovia e della metropolitana. Bisogna fare un chilometro per comprare il pane, altrettanto per buttare via il sacco della spazzatura. Perchè a Santa Giulia non si saprebbe dove piazzarli i cassonetti, parecchie vie che corrono tra i palazzi non sono ancora asfaltate. Per farla breve: nei 1.887 alloggi occupati dai primi pionieri lo scorso autunno arrivano acqua, luce e gas. Tutto il resto manca. Gli abitanti, che ora sono 3 mila, a regime diventeranno 5 mila. «Siamo tipi pacifici», assicura Andrea Cottica, portavoce del Comitato di quartiere Santa Giulia. Ciò nonostante sospettiamo che se qualcuno dei 5 mila inciampasse per caso in Luigi Zunino, dall'incontro l'immobiliarista-finanziere uscirebbe più ammaccato che da un summit con le banche creditrici. Che lo tengono artificialmente in vita per non rimetterci le paccate di soldi che gli hanno improvvidamente prestato.
Il quasi-fallimento di Zunino - indebitato per (almeno) 3 miliardi di euro - spiega il deserto di Santa Giulia. Il nome l'ha coniato l'ex vitivinicultore piemontese per rendere più glamour il progetto che prima si chiamava Montecity-Rogoredo, da realizzare su 1 milione e 200 mila metri quadrati dismessi dalla Montedison e dall'azienda metalmeccanica Redaelli (siamo nel quadrante Sud-Est di Milano). Risanamento spa, la finanziaria di Zunino, aveva fatto le cose in grande: un centro congressi da 8 mila posti, l'Ellisse (residenze lussuose disegnate dall'archistar Norman Foster all'insegna della domotica, delle nuove tecnologie e del parquet di rovere), parchi, giardini, scuole, alloggi per studenti, promenade commerciale, centro benessere, metrotramvia, hotel, una chiesa, parcheggi in superficie e sotterranei, svincolo della tangenziale, bretella con la Paullese. Ci saremo anche noi, annunciavano Rinascente, Esselunga, Virgin, Dolce&Gabbana... Cinque anni dopo gli unici a «esserci» sono la sede di Sky e i palazzi costruiti in edilizia convenzionata o libera dalle cooperative del consorzio "Le residenze". Questi ultimi sorgono nel pezzo di area che, in base all'accordo di programma, Zunino ha ceduto per realizzare abitazioni a prezzi abbordabili (tra i 2.500 e i 3 mila euro al mq). Gli oneri di urbanizzazione per "Le residenze" sono ovviamente a carico di Risanamento. Ma Zunino è talmente alla canna del gas da non avere neppure la somma (relativamente) modesta per asfaltare le strade, fare un po' di parcheggi, costruire un asilo. I lavori sono stati bloccati per otto mesi. Ed è qui che si è fatto sentire il Comitato di quartiere Santa Giulia. Assemblee, un forum on line, incontri a palazzo Marino e - colpo da maestri - un video su Youtube che mixa le immagini di Santa Giulia com'è con i "render" promozionali di Santa Giulia come avrebbe dovuto essere. «Santa Giulia sarà un coacervo di stili di vita, ci sarà il lavoro, ci sarà la famiglia, ci sarà il tempo libero, ci sarà vita 24 ore al giorno», recita una voce impostata. Interrotta da foto di strade inesistenti, sbarre, cantieri deserti, pozzanghere, scavi lasciati a metà.
«Qualcosa abbiamo ottenuto», dice Andrea Cottica. Il Comune, che fin qui aveva fatto il pesce in barile, è stato costretto a svolgere la sua parte quanto meno di stimolo e di controllo. I lavori sono ripresi ed entro la fine dell'anno dovrebbero essere ultimati la via pedonale che attraversa "Le residenze", i parcheggi di pertinenza e l'asilo. «Ma noi siamo come San Tommaso, finchè non tocchiamo con mano non ci crediamo», precisa l'archietto Natale Comotti, presidente del consorzio e consigliere del Pd a Palazzo Marino.
I lavori sono ripresi anche sul retro del palazzone di Sky che versa a Zunino 1 milione di euro d'affitto al mese. «Erano stati interrotti perchè Risanamento doveva 30 milioni di euro all'impresa costruttrice Colombo», ci spiega Shawky Geber, il sindacalista della Fillea Cgil che ci ha fatto da cicerone a Santa Giulia. Geber non sa se i 30 milioni li abbia anticipati Sky o se Zunino li abbia presi dal gruzzoletto che le banche gli hanno allungato alla fine del 2008 perchè facesse almeno le cose indispensabili. Le banche, la più esposta è Intesa-San Paolo, hanno congelato il 73% dei debiti di Risanamento che, di fatto, è commissariata.
«Il prossimo che salta è Zunino». Il ritornello gira a Milano da quando i «furbetti del quartierino» uno dopo l'altro sono andati a gambe all'aria. Il primo colpo a Santa Giulia l'ha dato la giunta comunale quando ha deciso di spostare il Centro congressi nell'area di Citylife (quella con i tre grattacieli storti che urtano la sensibilità del fallico Silvio), preferendo Ligresti a Zunino. Ma Zunino è riuscito a farsi male da solo, concordano i nostri interlocutori. «Troppa ingordigia, assurdo pretendere 9-10 mila euro al metro quadro per residenze di lusso in periferia. Non avrà raccolto neppure una prenotazione», dice Geber. «Idea audace pensare di fare un quartiere d'élite a ridosso di Ponte Lambro (una delle zone più degradate di Milano, ndr) e della tangenziale», rincara Cottica. «E' l'ennesimo caso di finanziere immobiliarista che gioca con i soldi e cade sui mattoni», chiude Comotti. Zunino era già messo male di suo, la crisi globale ha completato l'opera.
E adesso? Adesso tutti sperano negli «arabi». Sperano che si faccia avanti qualche sceicco, qualche fondo sovrano dei paesi del Golfo che compri Zunino e i suoi debiti. Sembrava quasi fatto l'accordo tra Risanamento e Limitless, un fondo di Dubai guidato dallo sceicco Saeed Ahmed Saeed, per la cessione dell'area ex Falck di Sesto San Giovanni (ridisegnata da Renzo Piano) su cui grava un debito di 250 milioni. Invece sono venuti fuori intoppi sia sul versante delle autorizzazioni comunali che del prezzo da pattuire tra Intesa-SanPaolo e Limitless. Bene che vada, se ne riparlerà alla fine dell'anno. Poiché anche l'emirato di Dubai ha le sue gatte immobiliarfinanziarie da pelare non è detto che l'affare vada in porto. Insomma, Santa Giulia, tagliata fuori dai progetti dell'Expo, sembra destinata a restare zitella. Ogni tanto qualcuno lancia l'idea di fare lì la cittadella della giustizia o il secondo stadio di calcio. Tutte chiacchiere.
A Santa Giulia era previsto lavoro per cinque anni. «Dopo due è tutto finito», commenta amaro Geber, «c'erano 43 gru e adesso ce ne sono solo un paio. Qui doveva sorgere una città a misura d'uomo, invece è un dormitorio». «E' quel che non vogliamo diventare», punta i piedi Cottica, «il comitato l'abbiamo messo in piedi proprio per questo». In effetti, nel deserto di Santa Giulia, l'unica cosa che crea socialità è il comitato di quartiere. Molti hanno aderito ancor prima di traslocare. «Dica alla signora Caterina di contattarci, qui c'è un sacco di lavoro da fare». In un volantone il comitato ha elencato i problemi da risolvere. 450 ragazzi in età scolare, 160 in età da nido e da asilo. Dove li mandiamo? 12 mila persone che, quando si spostano in auto, devono per forza passare da un'unica rotonda su via Rogoredo. Cosa succede se un giorno putacaso è impraticabile?
Al sabato le bancarelle del mercato si piazzano lungo via Rogoredo. Gli ambulanti dicono che la posizione è piuttosto infelice. Non potrebbero spostarsi in uno spiazzo più vicino a Santa Giulia? Allarmati da un'inchiesta aperta sulla bonifica delle aree dismesse (costi gonfiati per 14 milioni, un giallo internazionale dove non si capisce chi è il truffato e chi il truffatore) quelli del comitato hanno voluto sincerarsi se almeno la bonifica è stata realizzata correttamente: «effettuati i prescritti prelievi e campionature Asl e Arpa hanno rilasciato gli attestati di regolarità» (non per seminare il panico, ma a Geber mentre su un auto che ballonzola attraversiamo il «deserto» è subito venuto il raschietto in gola).
Resterebbe da spiegare come ha fatto il vitivinicultore Luigi Zunino a passare dalla Coldiretti di Nizza Monferrato al salotto di Mediobanca (in coppia con la moglie deteneva il 3%, supponiamo se ne sia disfatto per spegnere una piccola parte dell'incendio dei debiti). Archiviamolo tra i tanti misteri italiani e andiamoci a rileggere un'intervista rilasciata dal nostro al Corriere nel 2005 a proposito di Santa Giulia. «Sarà il nuovo centro, quello di cui Milano aveva bisogno... Sorgerà una via commerciale che farà impallidire via Montenapoleone... Sarà una boccata d'ossigeno per Milano. Con la domotica stiamo anticipando lo stile di vita dei prossimi anni... Non sarà un quartiere finto, dove dormire e passeggiare». Alla domanda «non pensa di rischiare troppo?» Zunino rispondeva: «No. Un imprenditore per essere tale deve saper rischiare. Ho investito ad oggi 750 milioni di euro in questo progetto, e non me ne sono mai pentito. Anzi, ho fatto pubblicità al Paese».
Mentre su Zunino cala il sipario, l'unica àncora di sopravvivenza per gli abitanti di Santa Giulia è Rogoredo vecchia, quella della canzone di Jannacci.
Nota: il contrappunto a queste desolate osservazioni "obiettive" è naturalmente la propaganda del comune di Milano, granitico da sempre nel sostenere l'assoluto valore dei suoi programmi di riqualificazione urbana delegati all'operatore privato anche sul versante delle grandi strategie. Qui la pagina su Santa Giuliadel settore Sviluppo del Territorio. Per chi volesse una lettura critica contestuale del progetto, metto a disposizione di seguito l'esercizio svolto dagli studenti Beatrice Miceli e Giorgio Stefanoni nell'ambito del mio corso sulla Riqualificazione Urbana del primo semestre aa 2008-2009 alla Facoltà di Architettura e Società del Politecnico di Milano (f.b.)
"Solo cemento, manca il progetto carta bianca agli immobiliaristi"
Teresa Monestiroli
Giancarlo Consonni, professore di Urbanistica al Politecnico, cosa pensa del nuovo Piano di governo del territorio del Comune?
«Mi sembra che l’amministrazione ragioni solo in termini di quantità e non di struttura della città. Invece di costruire il vero policentrismo, il Comune sta delegando il progetto di città alle società immobiliari. In questo modo si perde una grande occasione, quella di ripensare Milano dandogli una nuova ossatura non solo funzionale ma anche relazionale. Riqualificare va bene, ma bisogna governare gli interventi come è stato fatto a Parigi e Barcellona altrimenti si finirà per perdere occasioni straordinarie come è già successo nel caso di Bicocca e dell’area dell’ex Maserati».
Per quantità intende volumetrie e cemento?
«Il problema non è il cemento, ma la mancanza di progetto più ampio. Le quantità devono stare dentro un’idea di città altrimenti non si capisce che cosa distingue un ammasso informe di edifici da un luogo che abbia una qualità urbana. In questo modo finiremo per avere tante periferie incapaci di diventare centri di attrazione e che orbiteranno su un centro sempre più piccolo».
Il Piano di governo del territorio prevede l´aumento della popolazione milanese di 700 mila unità. È possibile?
«Pensare che i cittadini che hanno lasciato Milano tornino è un sogno. Se il Comune fosse veramente in grado di fare un piano di edilizia a basso prezzo sarebbe una vera e propria rivoluzione, ma gli immobiliaristi non accetteranno mai. In realtà il piano sta dando alle società immobiliari carta bianca per costruire volumetrie sproporzionate, senza più i vincoli delle destinazioni d´uso. Il tutto senza un’armatura fatta di piazze e di strade. Questo renderà le periferie dei ghetti e si alimenteranno i problemi di sicurezza».
Cosa c’entra la sicurezza con l’urbanistica?
«È la città stessa a sconfiggere l’insicurezza attraverso il naturale presidio dei luoghi da parte dei cittadini. Se non si creano le condizioni di relazione urbana si finisce per avere quartieri dormitorio o, al contrario, di lusso ma isolati dal resto della città».
L’assessore Masseroli punta alla riqualificazione degli scali ferroviari come Rogoredo e Porta Romana. È d’accordo?
«Gli scali sono una grande occasione di sviluppo. Ma ripeto, dipende da come vengono riqualificati. Se rivalutare significa accumulare volumi informi sarà un disastro».
È favorevole anche al trasferimento dell’ippodromo per realizzare a San Siro un quartiere di lusso?
«Questo è davvero sbagliato. L’ippodromo è un’area storica che andrebbe riqualificata, farci un altro quartiere non ha senso. E poi mi chiedo: in un momento di crisi come questo chi comprerà tutte queste case di lusso? La crisi economica dovrebbe spingere l’amministrazione a ripensare un modello qualitativo di intervento invece si continua con la vecchia logica. Faccio solo un esempio: il parco Sempione è il regalo che la crisi edilizia dell’Ottocento ha fatto alla città. Doveva essere un quartiere di lusso ma si è deciso di trasformarlo in area verde».
Metri cubi di palazzi, ma per chi?
Luca Beltrami Gadola
Hanno cominciato a dirlo quasi due anni fa e non aggiungono nulla. Imperturbabili. La recitazione è quella della scuola "Non lo fo per piacer mio ma per dare un figlio a Dio". Viso lievemente atteggiato al sorriso, tono di voce pacato, la devozione al pubblico interesse fatta maschera teatrale. Quello che stupisce è la capacità di dire sempre le stesse cose mentre fuori infuria la tempesta: di questo è specialista la nostra sindaca. La settimana scorsa ha riunito la giunta per un’intera giornata a discutere del bilancio di metà mandato. Al termine ci aspettavamo un documento che non c’è: un’analisi del passato - quel che abbiamo fatto o non fatto - e un documento sul futuro: cosa fare, visto che lo scenario è totalmente cambiato, altri i problemi milanesi, altre le priorità, altre le risorse. Invece no: un generico richiamo all’efficienza, una tirata d´orecchi a chi vuol fare il giocatore solitario, un appello alla coesione politica.
Due le possibilità: o il programma elettorale era una scatola piena di sole parole, o non sanno cosa pensare e questo è forse peggio. Ormai anche gran parte del mondo conservatore è convinta che dobbiamo guardare a uno sviluppo completamente diverso: le città, dove vive più del 50% della popolazione mondiale, ne sono il laboratorio. Urbanistica dunque in primo luogo. Ma qui arriva prima Berlusconi: 550 milioni per investimenti destinati alla casa. Il gruppo Citylife ne ha spesi 523 per comprare la vecchia area della Fiera, tanto per capire lo sforzo, come dire al massimo 4.000 appartamenti da 80 metri, una goccia. Poi un incremento tra il 20 e il 30% delle volumetrie edificate. Destinati a chi questi volumi se con la crisi non si vende un chiodo? Cosa vuol dire rilanciare l’edilizia in queste condizioni di mercato? Perché così poco all’edilizia residenziale pubblica che assorbe più manodopera e che ha più indotto? Per l’ambiente e per il Paese, per la bellezza e la vivibilità della città sarà un disastro. Che fine farà il piano dell’assessore Masseroli? Difendiamolo, persino meglio lui della follia berlusconiana.
Dalle case al posto dell’ippodromo ai palazzi da costruire su oltre un milione di metri quadri di stazioni e binari ferroviari, ai nove milioni di aree destinate a parchi mai realizzati. Il sindaco presenta oggi ai partiti il nuovo Piano di governo del territorio: toccherà a loro decidere quanto, e dove, costruire. E la Lega insiste: «No al cemento sull’ippodromo»
Un milione e 300mila metri quadrati dove costruire palazzi al posto di stazioni e binari ferroviari che non servono più. Altri cinque milioni e mezzo dove già è stata decisa la nascita di nuovi quartieri ma che bisogna dotare di nuove infrastrutture. Un tesoretto di nove milioni di metri quadri su cui, finora, non si poteva costruire perché destinati a parchi e servizi pubblici che però non sono diventati realtà. E la grande incognita dell’ippodromo di San Siro: un milione e mezzo di metri quadrati di verde che bisogna decidere se mantenere. È partendo da questi numeri che, dopo cinquant’anni, Milano si reinventa. Con più grattacieli per non consumare suolo. Con tre nuove linee del metrò. E con l’obiettivo, forse, di arrivare a due milioni di abitanti nel 2030.
Parte il grande business del mattone e va in pensione il Piano regolatore del 1954, rivisto già nel 1980, per essere sostituito dal Piano di governo del territorio (Pgt) degli anni Duemila. Chili e chili di carta su cui si giocherà la partita del nuovo cemento. Oggi Letizia Moratti presenterà le bozze ai partiti della sua maggioranza. Arrivare a due milioni di abitanti nel 2030, come azzardò l’assessore all’Urbanistica Carlo Masseroli? Questo il Piano oggi non lo dice ancora. La quantità sarà definita solo quando i partiti daranno il loro via libera su quanti metri quadrati si possono sbloccare e, soprattutto, quanti metri cubi si possono lasciare costruire. Quantificando per ogni area un «indice di edificabilità». La Lega, ad esempio, si presenta all’appuntamento in trincea: «Non vogliamo sentir parlare di 700mila nuovi abitanti. Per nuovo cemento non c’è spazio, Milano è già sufficientemente urbanizzata» manda a dire Matteo Salvini. Nuovi quartieri? «Non sull’ippodromo». Proprio San Siro, e il nuovo quartiere da costruire con il trasloco dell’ippica, saranno la battaglia più rilevante che si giocherà nel centrodestra di Letizia Moratti: l’assessore Masseroli, ma anche la Regione, vogliono sbloccare molto presto la zona, i partiti frenano. Almeno fino alle elezioni provinciali.
Il Piano che il sindaco presenterà oggi già cambia tutto il sistema delle regole del gioco: sparisce la distinzione tra destinazione d’uso industriale - commerciale - residenziale, restano solo le zone vincolate come non edificabili. Arriva la «perequazione» e la «borsa dei diritti volumetrici». Le «aree di trasformazione», le direttrici dove andranno nuove case e nuovi abitanti, sono però già chiarissime nel Pgt che recepisce quello che sta già avvenendo: la Bovisa e la zona ai confini con Sesto, verso ovest Cascina Merlata e tutta l’area dell’Expo, Montecity - Rogoredo, Garibaldi - Repubblica e Citylife, il Portello e quello che è rimasto della vecchia Fiera. L’assessore alla Mobilità, Edoardo Croci, assicura: «Tutte le aree di trasformazione saranno accessibili da sistemi di trasporto pubblico, garantendo una migliore vivibilità». La novità più rilevante è la rivoluzione ferroviaria: 1,3 milioni di metri quadrati per nuove case e nuovi parchi al posto di stazioni che verranno chiuse (da Porta Genova allo scalo merci Farini, da San Cristoforo a Porta Romana), o che verranno ridotte riducendo il fascio dei binari e i depositi (Lambrate, Rogoredo, Greco, Certosa). Sarà uno dei grandi business immobiliari dei prossimi anni. Con un accordo tra Fs e Comune che assicura due obiettivi: la plusvalenza dovrà essere reinvestita in nuove opere ferroviarie per migliorare l’accessibilità a Milano, mentre gli oneri di urbanizzazione finiranno in nuove metrotranvie per collegare le stesse zone al centro. Le altre grandi aree in costruzione dovranno nascere sugli assi delle nuove metropolitane, la nuova linea 4 da Lorenteggio a Linate (ma mancano i fondi per arrivare all’aeroporto) e la nuova 5 da Niguarda a San Siro (qui i soldi, per la linea che incrocerà Citylife, dovrebbero invece arrivare da Roma). L’arrivo del metrò a San Siro aumenterà ancora gli appetiti immobiliari sull’ippodromo. E intanto la prefettura ha chiesto, per motivi di sicurezza, di spostare di 200 metri la fermata prevista a fianco dello stadio.
Che l’edilizia avesse bisogno di una potente iniezione di fiducia e un quadro normativo di sostegno per poter essere rianimata è una premessa ampiamente condivisa. Come è sicuramente un’esigenza sentita da tutti la semplificazione delle complicatissime procedure urbanistiche. Le posizioni si radicalizzano invece quando si entra nel merito della filosofia dell’intervento legislativo di indirizzo. E cioé: una materia complessa e articolata come l’edilizia non può essere ridotta a una cornice “omnibus”, valida quindi per tutte le situazioni. Impossibile non percepire, per esempio, le differenze sostanziali tra interventi nei centri storici o sulle coste, tra riqualificazioni e nuova edilizia residenziale. Si tratta di un problema particolarmente sentito in una regione come la Sardegna che, guarda caso, è stata vista dal premier Berlusconi come uno dei punti di partenza per la sua “rivoluzione”. Non è infatti una semplice coincidenza il fatto che il neo governatore Ugo Cappellacci abbia partecipato all’incontro ristretto con il Cavaliere (insieme al collega del Veneto Giancarlo Galan) per dare il suo “imprimatur” preventivo al piano edilizio che approderà venerdì in Consiglio dei ministri. Eppure la Sardegna, la “sua” Sardegna come amava dire Berlusconi in campagna elettorale, è una Regione assolutamente atipica rispetto alle altre, proprio per il suo specifico che rende particolarmente delicato il fronte urbanistico. A partire dal delicatissimo rapporto tra cemento e ambiente e paesaggio, risorse straordinarie - ma anche fragili e depauperabili - per un possibile sviluppo economico e sociale fondato sull’industria dell’accoglienza.
E non è possibile non pensare alla necessità di una forte mediazione della politica per equilibrare la sostenibilità degli interventi con quella voracità per il cemento che è diventata una pericolosa costante nei comuni costieri dell’isola. La semplificazione della pericolosa equazione: più cemento, più ricchezza. La prova che le pressioni sulle coste siano fortissime è nei dati elettorali stessi. Il successo del Pdl e dei suoi alleati in 67 dei 72 comuni rivieraschi è infatti più una bocciatura alla “legge salvacoste”, fortissimamente voluta da Renato Soru, che un premio al centrodestra. Anche se, per dirla tutta, in molti comuni costieri il centrodestra incarna quella “deregulation” del mattone che tanto piace a piccoli e grandi imprenditori, ma purtroppo piace anche ai piccoli e ai grandi speculatori. E deve far riflettere proprio la dimensione del successo del centrodestra in questi comuni. A volte con risultati addirittura bulgari (anche se oggi sarebbe meglio dire cinesi). Arzachena, per esempio, sintesi perfetta di un benessere nato dal binomio cemento-turismo, la coalizione guidata da Ugo Cappellacci ha raggiunto un incredibile 73,7%. Ma gli esempi sono tanti, tantissimi. Berlusconi, che probabilmente si è dimenticato di telefonare al suo “amico” Putin per perorare la causa dell’Euroallumina o si è dimenticato dei fondi per la nuova strada Sassari-Olbia, ha sicuramente ricordato che nella “sua” Sardegna ci sono praterie di possibilità per un certo mondo dell’edilizia.
Difficile infatti immaginare che con Cappellacci abbia discusso del recupero del centro storico di Desulo, di Armungia o di Bosa come modello di sistema per agevolare un rilancio dell’edilizia. Eppure, proprio quel tipo di filosofia potrebbe offrire straordinarie possibilità alla rimessa in moto dell’edilizia e al sostegno del turismo. Basti pensare all’esempio di Tratalias, piccolo centro del Sulcis, dove il centro storico abbandonato è stato recuperato e trasformato in un bellissimo albergo diffuso, con tanto di ristoranti e bar. E soprattutto a pochi chilometri da uno dei mari più belli di tutta la Sardegna. Per concludere, sicuramente esagerano alcuni ambientalisti quando dicono, estremizzando il discorso, che aumentando del 20% le cubature sulle coste si arriverebbe a qualche decina di “masterplan”. Ma nessuno può però negare che, con la cornice disegnata da Berlusconi, si potrebbe arrivare davvero all’effetto impattante di qualche confuso “masterplan”. E per ora nessuno ha ancora parlato di come dovrebbero essere rivisitati i Puc...
Signori, si chiude. La Cultura, i Beni culturali, le Soprintendenze, la tutela del Belpaese, intendo. Mentre Obama investe, come misura anti-crisi, in cultura, Zapatero pure e Sarkozy alza a 500 milioni di euro i fondi per i restauri, Berlusconi e Tremonti tagliano le risorse ordinarie per i Beni culturali di 1 miliardo e 403 milioni di euro in tre anni (quest’anno si comincia con 498 milioni in meno). Al CIPE di venerdì l’ultimo schiaffo al fido Bondi (dato ormai in uscita dal Collegio Romano): neppure un euro ai Beni culturali dai fondi generosamente elargiti, sulla carta, ad opere grandi e meno grandi. Nel contempo però parte, contro le Soprintendenze e i vari uffici ministeriali, una campagna strumentale sui residui passivi che ammonterebbero a meno di mezzo miliardo (in realtà sono pure di più, se non ci si ferma alle contabilità speciali), comunque risultano addirittura dimezzati rispetto a pochi anni or sono. Intento della campagna?
Screditare Ministero dei beni culturali e tecnici che si lamentano dei tagli e non sono neanche buoni a spendere i fondi... «Pura demagogia, una strumentalizzazione propagandistica», la definisce Paolo Leon, docente a Roma 3, uno dei rari economisti a conoscere a fondo i beni culturali. «Quei residui passivi fanno spesso parte di somme stanziate in passato, anni e anni fa, e che sono state già impegnate. Credo che ci siano ancora residui del Fondo investimenti occupazione e addirittura dei Giacimenti culturali di De Michelis...». Quindi roba di una ventina di anni or sono. «E comunque riguardano spese in conto capitale», chiarisce ancora Leon, «cantieri che ci mettono molto ad avviarsi e che vanno per le lunghe, ma che hanno generato opere, restauri, occupazione. Magari attingendo a leggi speciali di difficile utilizzazione». Mentre coi tagli odierni la mannaia cade sulla spesa corrente, quindi su quanto rimane del funzionamento quotidiano dell’Amministrazione, che risulterà sempre più inceppata anche sul versante dei lavori, dei restauri, degli appalti, ecc. Scriveva in modo competente nel luglio scorso Antonello Cherchi sul Sole 24 Ore: «Beninteso, non è certo con tali cifre che si può pensare di risolvere i problemi strutturali del ministero. Né, tantomeno, quelle disponibilità rendono giustificabili gli attuali tagli al budget ministeriale». Ineccepibile. Pur restando l’esigenza di rendere molto più funzionale la macchina senza depotenziarla in corsa.
IL QUADRO DEL DISASTRO
Mercoledì si è tenuto il primo Consiglio superiore del dopo-Settis e i vari direttori generali vi hanno rovesciato le loro doglianze. Ben riassunte in documento della Uil-Bac riassume. Francesco Prosperetti, direttore generale per la Qualità e la tutela del Paesaggio: «La consistenza delle risorse vede una drastica riduzione tra 2008 e 2009 del 46,34 %, con un abbattimento del 35,08 per la tutela e addirittura del 93,97 per la ricerca». Roberto Cecchi, Beni architettonici e storico-artistici: «Le risorse del 2009 non saranno sufficienti a ricoprire le spese legate al quotidiano funzionamento degli Istituti, delle Soprintendenze, e dei Musei». Stefano De Caro, Beni archeologici: «La riduzione dei fondi ha indotto già alcune Soprintendenze, nel corso del 2008, a rappresentare la necessità di ridurre alcuni servizi, fino a prefigurare la chiusura di alcune sedi», cioè di talune Soprintendenze, siti e musei archeologici. Maurizio Fallace, Beni librari: «Indebolimento delle biblioteche pubbliche statali in tema di conservazione, preoccupazione per biblioteche dotate di autonomia come la Nazionale di Firenze e per il Centro per il Libro», a zero fondi. Luciano Scala: «La riduzione riguarda gli affitti di sedi di archivi e di Soprintendenze archivistiche, e gli investimenti”. Antonella Recchia, Formazione del personale: «Colpite le spese per formazione, aggiornamento e perfezionamento e la stessa Scuola di Oriolo Romano». Con la riduzione di questo capitolo fondamentale di spesa a 0,6 centesimi per dipendente. Elemosine.
Cominciano le intimazioni a pagare le bollette inevase pena il distacco della corrente elettrica: succede alla Soprintendenza di Lucca - racconta Gianfranco Cerasoli, segretario della Uil-Bac - debitrice per 90.000 euro che non ha in cassa. Presto negli uffici mancheranno i soldi per gli straordinari, per i telefoni, per la cancelleria, per i francobolli, per la carta delle fotocopie e per quella igienica nei bagni dei musei. Allegria. Mentre si parla a tutto spiano di «valorizzazione» turistica dei Musei. Mentre resta quanto meno opaca la gestione, separata e grassa, di Arcus. Mentre gira insistente la voce che si voglia commissariare, dopo Pompei e (decisione attesa da oltre un mese) dopo Roma e Ostia, Soprintendenze speciali con forti somme in cassa, anche Brera. Dove ad un esperto di recente acquisizione avrebbe dato, si sussurra, molto fastidio la vista dei ponteggi alzati per restaurare (finalmente) l’arioso cortile del Piermarini. Secondo lui, «disturbavano i turisti». Si commissariano le Soprintendenze, magari con personale della Protezione civile svilendole e svuotandole di funzioni. Mercoledì il Consiglio - convocato dal vice-presidente Antonio Paolucci, tuttora in carica - ha votato all’unanimità due mozioni: una per consentire alla Direzione generale per la Qualità e la tutela del Paesaggio di vivere; l’altra per condannare questi tagli feroci che mettono in pericolo la tutela e il funzionamento stesso dei beni culturali. Ma quanto servirà? O non occorrono azioni più incisive, anche contro questa strumentale polemica sui residui passivi?
Tagli di spesa nei Beni Culturali (in euro)
2009: - 498 milioni
2010: - 412 milioni
2011: - 493 milioni
Totale 2009-2001: - 1 miliardo 403 milioni
Taglio di spese per la tutela nel 2009
- 35,08 per cento
Taglio di spese per la ricerca nel 2009
- 93,97 per cento
Visitatori Musei, Aree archeologiche e Circuiti Museali (in unità)
1996: 25.029.755
2000 : 29.798.728
2005 : 33.048.137
2006 : 34.574.591
2007 : 34.439.011
Var. % 1996/2007 + 37,59
Visitatori primo sem. 2008 (rispetto al primo sem. 2007)
- 3,65 %
Introiti di Musei, Aree Archeologiche e Circuiti Museali (in milioni di euro)
1996: 52,7
2007: 106,0
Var. % 1996/ 2007 + 101,14
Centinaia di turisti in fila davanti al Colosseo. Ma a bocca asciutta. L’nfiteatro Flavio ieri è rimasto chiuso tutta la mattinata, insieme con Palatino, Caracalla, Foro e Museo nazionale romano. Non succedeva da anni che il Colosseo di Roma rimanesse chiuso fino a mezzogiorno. Solo in situazioni gravi i lavoratori non aprono i cancelli. Stavolta, erano tutti in assemblea. Per protestare contro il commissariamento dell’area archeologica centrale, e di Ostia, deciso dal ministro dei Beni culturali Bondi che ha indicato in Guido Bertolaso, capo della Protezione civile, il commissario.
Archeologi, impiegati, custodi, si sono riuniti ieri a palazzo Massimo alle Terme. E si sono dati appuntamento per un sit-in giovedì prossimo. Proprio davanti al Colosseo, che rischia di rimanere un’altra volta chiuso per lo stato d’agitazione indetto un mese fa. Stavolta però, sul banco degli imputati, i lavoratori della Soprintendenza speciale di Roma hanno messo anche il soprintendente Angelo Bottini, "che non ha mai convocato ufficialmente il personale né i rappresentanti sindacali - sostengono gli archeologi - per condividere informazioni e strategie sulle ipotetiche, future forme di gestione e organizzazione".
Secondo il piano del ministero - preparato dal sottosegretario Francesco Giro - il commissariamento servirà a debellare il degrado delle aree archeologiche di Roma e Ostia e a intervenire rapidamente, saltando le lungaggini delle leggi sugli appalti pubblici, sulle emergenze, come Palatino e Domus Aurea. "Queste motivazioni non sono sufficienti" hanno ribadito i dipendenti di Roma e Ostia antica. Che, tra l’altro, domandano a Bondi: "Perché è stata proposta la nomina di un commissario proprio nella riunione di insediamento della Commissione Stato-Comune, in cui si decide il passaggio della valorizzazione dei Beni Archeologici dello Stato al Comune di Roma?" Polemica con il ministro l’assessore alla Cultura della Regione, Giulia Rodano: "Non servono commissari, ma risorse agli uffici tecnici di cui lo Stato è già dotato. Ovvero, le soprintendenze archeologiche".
Baricco nei giorni scorsi si è posto, e ci ha posto, delle giuste domande, che anche la politica, quella sinceramente interessata alla cultura, dovrebbe porsi. Ma non tutte le sue risposte mi convincono. Baricco ci ricorda che le più importanti agenzie culturali del nostro tempo sono la scuola e la televisione, ci invita, dunque, a concentrare la nostra attenzione su entrambe. Lasciamo al mercato, dice poi, la produzione di un’offerta che incontri una domanda di cultura più esigente. Si può essere d’accordo con la tesi di Baricco, a due condizioni però. Primo. Non nutrire illusioni sul fatto che una ritirata dello Stato dalla promozione e finanziamento della cultura coincida con una consistente avanzata del privato. Nella mia esperienza di ministro dei Beni Culturali ho verificato che le risorse pubbliche e private o crescono insieme o insieme deperiscono.
Secondo. Non accaniamoci a colpire il bersaglio sbagliato: ovvero le scarsissime risorse che lo Stato destina allo spettacolo e alle attività culturali. In tal senso, trovo poco convincente la risposta del ministro Bondi che propone una rete Rai finanziata interamente dal canone e dedicata alla cultura. Il rischio è di ridurre uno dei canali nazionali del servizio pubblico a televisione tematica (per realizzare la quale, c’è dietro l’angolo la tanto attesa transizione al digitale terrestre). Piuttosto, facciamo un salto vero nel cuore irrisolto del sistema mediatico televisivo. Togliamo del tutto, o gradualmente, la pubblicità dal servizio pubblico. Liberiamo le risorse pubblicitarie con un meccanismo antitrust che agevoli lo sviluppo di nuovi operatori, uscendo dal giurassico duopolio Rai-Mediaset. Facciamo coraggiosamente un servizio pubblico di qualità che torni a essere la più importante agenzia culturale del nostro Paese.
Qui Baricco ha ragione da vendere. Poi, certo, innoviamo, razionalizziamo e snelliamo le procedure per l’accesso al Fondo unico dello spettacolo. Sapendo però che stiamo parlando di 320 milioni, meno cioè di quelle risorse che ogni anno vanno in fumo in residui passivi nei Beni Culturali: denaro stanziato ma non speso a causa della lentezza delle procedure amministrative. E usciamo dalle vecchie dicotomie che imprigionano le politiche culturali: conservazione versus promozione, pubblico versus privato. Uno Stato in fuga dalla Cultura, mette in fuga da essa anche i privati. L’Italia rischia di essere un Paese fuori sincrono, lontano da ciò che avviene attorno a noi. Negli Usa dopo 15 anni di riduzione Obama aumenta gli stanziamenti per la cultura. Sarkozy davanti alla crisi stanzia 100 milioni di euro in più per i monumenti, oltre ai 300 già deliberati per il patrimonio artistico. Le politiche culturali, nei tempi della crisi, non sono un problema, piuttosto un’opportunità. Allora, caro Bondi se proprio vogliamo fare come Sarkozy troviamo il coraggio di farlo fino in fondo.
A Milano si è costruito molto negli ultimi dieci anni: grandi cantieri, ma soprattutto una moltitudine di piccoli interventi. Ora il vento è cambiato. La crisi economica deprime la domanda immobiliare, crolla l’occupazione. Sogni, promesse, progetti devono confrontarsi con la realtà. Con un tessuto urbano che, tra piccole e grandi lacerazioni, non trasmette un senso di insieme. Con una città non compiuta, che si rifugia entro i confini daziari negandosi un ruolo regionale e contraddicendo la sua stessa storia, fatta di scambi, di commerci, di relazioni.
È urgente riflettere su Milano. Disconnessa dai fenomeni globali, la città stenta ad aggiornare una tradizione ambrosiana fatta di innovazione e senso della misura. Mentre la proposta avanzata per superare la crisi e costruire il futuro è a senso unico: mattoni, e ancora mattoni, sfruttando il traino di Expo 2015. Un proposta peraltro non nuova nell’urbanistica milanese degli ultimi decenni. Lo testimonia Per un’altra città, pubblicato di recente da un gruppo di docenti del Politecnico. Tra i molti spunti, colpisce l’esito deludente degli strumenti negoziali. Introdotti per assicurare flessibilità, sono stati largamente impiegati per modeste o banali lottizzazioni. Numeri alla mano, hanno generato una scarsa utilità pubblica rispetto al corrispondente vantaggio privato. Mancano all’appello molte opere-simbolo che avrebbero dovuto caratterizzarli, e persino parte dei servizi promessi, attesi o semplicemente necessari.
Il deficit più evidente riguarda la mobilità pubblica, i cui costi, economici e ambientali, sono ora sulle spalle della comunità. Sostenere che, in carenza di risorse, la negoziazione con gli operatori privati sia l’unica strada percorribile è dunque fuorviante: se non è stato possibile in questi ultimi anni, in pieno boom immobiliare, come sarà possibile in futuro, in piena crisi economica? E ancora: una cornice formale è davvero un retaggio del passato? Dal 1980, tra varianti e deregolamentazione, la qualità urbana complessiva non è certo migliorata, con il risultato paradossale di deprimere ulteriormente il mercato.
Senza un quadro strategico, vacilla anche la presunta efficienza meneghina. Due esempi. Il sistema aeroportuale, con il progetto di metropolitana e l’idea di tunnel stradale verso Linate ("city airport" da ridimensionare) in assenza di un collegamento diretto su ferro tra la stazione Centrale e Malpensa (hub da rilanciare). O il sistema fieristico, definitivamente concentrato nel nuovo polo di Rho-Pero, con la dismissione del Portello che ha poco più di 10 anni di vita.
Nell’attesa di conoscere concretamente qual è il progetto complessivo di città, e come si intende realizzarlo, i (futuri) 2 milioni di abitanti hanno già legittimato l’incremento degli indici di edificazione, intervenuto per ampie porzioni di città. E giustificheranno nel nuovo piano l’assai probabile introduzione di nuovi diritti edificatori, mediante un indice fondiario unico esteso a tutta la città. Cosa rimarrà dunque da governare all’atteso PGT, quando vedrà la luce? Potrà farlo in modo efficace, dovendo confrontarsi con la somma delle puntuali negoziazioni connesse ai singoli programmi di intervento, il cui campo di applicazione è stato esteso e potenziato?
Nuove regole urbanistiche vuol dire anche nuovi operatori sulla piazza milanese. Una scelta di mercato, che richiede però un disegno strategico, per gestire il più che prevedibile eccesso di offerta. Per evitare che l’Expo rianimi la produzione edilizia bruciando per molti anni a venire il mercato immobiliare cittadino. Si torna dunque al punto: l’urbanistica a Milano non può avere ambizioni solo quantitative, né focalizzarsi unicamente sull’incremento dei residenti, come esito dalla prospettata riduzione dei valori immobiliari. Così facendo, sottovaluta l’effetto collaterale di un diffuso impoverimento patrimoniale per gli attuali proprietari della casa di abitazione. E accantona la vera emergenza sociale che è la riduzione del costo degli affitti: specie in tempi di crisi, è questa la condizione necessaria per frenare l’ormai più che decennale processo di selezione della popolazione milanese, e per fare di Milano una città compiuta. Una città di case e di cittadini.
La Legge Urbanistica approvata martedì dalla Regione Lombardia è il primo regalo che Berlusconi, tramite Formigoni, fa alla Moratti per aver mollato il controllo della SoGE, e un compenso gradito per i tanti palazzinari e investitori immobiliari (Ligresti, Tronchetti e banchieri vari) interessati ai soldi di Expo e presenti anche nella vicenda Alitalia-Cai.
Con la nuova legge, con una legge ad hoc e in nome di Expo, si darà la possibilità di costruire sulle aree libere dove i piani regolatori e particolareggiati non abbiamo già realizzato o avviato interventi di sistemazione. La possibilità vale anche per le aree verdi, a standard o destinate a servizi. Una norma antidemocratica, perché lascia alla Giunta il compito di decidere togliendo ogni ruolo al Consiglio Comunale, ossia ai rappresentanti eletti dai cittadini. Nessun piano, nessuna analisi, si ignorano anche i dati evidenti (crisi finanziaria e dei mercati immobiliari, 90.000 alloggi vuoti, sfitti, invenduti nel Comune di Milano). Solo profitto e speculazione, dando l’opportunità a speculatori e società immobiliari di un vero e proprio sacco della città, degno del capolavoro del neorealismo cinematografico di Rosi sulla speculazione immobiliare durante il boom economico degli anni ’60.
Cemento ovunque: scali ferroviari, ippodromi, aree interne al Parco Sud, verde di quartiere, spazi di respiro della città. Un grosso regalo per Ligresti e compagnia bella. Una sciagura per una città già inquinata e congestionata a livelli insopportabili. Un disastro ambientale per un territorio consumato e costruito oltre i limiti del buon senso. Ora le deliranti previsioni dell’Assessore Masseroli su una Milano dell’Expo con 2 milioni di abitanti (ma ancora non ha detto dove andrà a prendere i 700 e passa mila milanesi mancanti a questo obiettivo) potranno trovare spazio e ad andare a braccetto con chi, da qui al 2015, avrà come unico obiettivo far girare il totalizzatore dei propri depositi bancari (quasi sicuramente in qualche paradiso fiscale... per completare l’esproprio di beni comuni). Milano, grazie a o a conseguenza di, Expo si appresta a diventare un mostro, non lo spazio pubblico pensato e progettato per rispondere ai bisogni della comunità che la vive, ma territorio di conquista, macchina da profitto, vetrina usa e getta, dove l’interesse privato e gli affari contano più dei diritti e del bene comune. Fa niente se ogni persona di buon senso suggerirebbe altre ricette per rendere più sana e vivibile Milano. Arriva Expo, bisogna far girare la slot machine!
Noi l’avevamo detto, potrebbe essere l’amara constatazione. Expo renderà peggiore la vita di noi tutti per soddisfare gli scopi e i guadagni di pochi. Expo 2015 è questo: miliardi di euro di soldi pubblici che finiranno in tasca ai privati, territori e città consumati e devastati, beni comuni privatizzati, diritti ridotti. Non è la favola buona con cui la Moratti ha incantato i milanesi, i democratici, gli ambientalisti del fare e l’associazionismo «embedded ». E non ci sono alternative all’Expo che ci stanno confezionando se non il NoExpo, non farlo e salvare Milano per salvare noi stessi. Parafrasando il titolo scelto per la rassegna «Nutrire le immobiliari – energia per la speculazione». Svegliatevi!
Comitato NoExpo
Nota: una descrizione dell'ennesimo "emendamento" alla legge urbanistica lombarda tagliato su misura agli interessi particolari, è stata riportata anche ieri da la Repubblica e ripresa da questo sito (f.b.)
Al grande pubblico e ai turisti la protesta delle Sovrintendenze archeologiche diventerà «visibile» venerdì. Monumenti chiusi, almeno dalle 9 del mattino a mezzogiorno, in tutta Roma. Gli archeologi insieme al resto del personale della Sovrintendenza si riuniscono in assemblea, promossa dalle rsu (le rappresentanze sindacali unitarie): all'ordine del giorno ancora il no al commissariamento decretato dal ministro dei beni culturali per le prestigiose aree archeologiche di Roma e Ostia. Ma non solo: anche il contestato avvicendamento tra Settis e Carandini a capo del Consiglio dei beni culturali rientra nella protesta, insieme alla politica dei prestiti di beni (a Roma è in ballo quello di quattro statue del Museo delle Terme chieste da Palazzo Chigi).
E così venerdì chiudono monumenti come il Colosseo, i Fori, il Palatino, la Casa di Augusto, le quattro sedi del Museo nazionale romano, le Terme di Caracalla, le vestigia sull'Appia a partire dalla Villa dei Quintili. Insomma tutta la grande Roma monumentale dell'archeologia classica. La protesta già in corso da un mese, scattata subito dopo la decretazione ministeriale, interessa anche Ostia Antica. Anche lì archeologi e personale si riuniscono in assemblea. L'assemblea di Roma si terrà nella sala del Museo di Palazzo Massimo. A Ostia prevista la partecipazione dei vertici del Municipio XIII. In un testo diffuso gli archeologi hanno ricordato lo smacco subito: «Nelle nostre aree archeologiche, come possono constatare i visitatori, non si trovano situazioni oggettive di degrado e di emergenza tali da giustificare il ricorso a poteri straordinari, perfino di protezione civile. Nè ravvisiamo sovrapposizioni di competenze tra stato ed enti locali che, sempre secondo il comunicato del ministro Bondi, debbano essere risolte con l'istituzione di un tavolo tecnico deputato ad individuare un “comune indirizzo di tutela, valorizzazione e promozione” ». Ancor più piccata la reazione espressa dagli archeologi di Ostia Antica. «Il preannunciato provvedimento, che, giova ricordarlo, ha per oggetto le aree archeologiche più prestigiose e considerate a più alto “reddito” della nostra regione - avevano denunciato nella scorsa assemblea - , mortifica la professionalità di tutto il personale di Ostia (dai tecnici, agli ammini-strativi, agli addetti alla vigilanza) e svuota, di fatto, di contenuti l'attività della soprintendenza».
L’assessore regionale al Territorio, il leghista Davide Boni, aveva promesso che avrebbe fatto le barricate contro una nuova colata di cemento in particolare a Milano. Ma dopo l’approvazione alla riforma della sua legge urbanistica ieri in consiglio regionale, al contrario, con la scusa dell’Expo, il sindaco Letizia Moratti avrà praticamente carta bianca sul via libera a nuove costruzioni su ogni spazio rimasto libero, anche se destinato a verde pubblico non realizzato, sul suolo milanese. Grazie a una norma ad hoc, presentata ieri proprio dallo stesso assessore Boni, che prevede che «nei Comuni interessati dalle opere essenziali previste dal dossier di candidatura Expo 2015, da ora in poi, l’approvazione dei nuovi piani attuativi spetterà solo alla giunta». Esautorando di fatto i consigli comunali. Il contrario di quanto accadrà in tutti gli altri casi e di ciò che prevedeva il testo del precedente emendamento presentato dall’assessore al Territorio del Carroccio.
Non solo. Contrariamente a quanto annunciato, i Comuni che non approveranno entro i prossimi sei mesi i Piani di governo del territorio (i nuovi Piani regolatori) non rischieranno affatto la nomina di un commissario ad acta. Basterà, infatti, «che deliberino l’avvio del procedimento di approvazione del Pgt entro il 15 settembre» e tutto si fermerà. Come prevede un secondo subemendamento presentato ieri sempre da Boni. Nel caso dei piani integrati di intervento già approvati, invece, tutto resterà come prima.
Miracoli di un accordo politico raggiunto in mattinata tra il coordinatore regionale della Lega Giancarlo Giorgetti e il segretario regionale di Forza Italia Guido Podestà, con la benedizione del governatore Roberto Formigoni. Ignota la contropartita, ma i rumor parlano di concessioni sulle candidature alla Provinciali e di promesse di posti di peso nelle future nomine. Dalla Fiera alle Ferrovie Nord. Solo per fare un esempio. «L’inusuale presenza dell’assessore comunale all’Urbanistica ciellino Carlo Masseroli durante la votazione - commenta polemico il Verde Carlo Monguzzi - è la prova lampante del forte interesse di Milano alle modifiche approvate». Lui replica ironico: «Ero in Regione per altri motivi. Certo che sono interessato. Sono l’assessore all’Urbanistica e non alla Cultura».
Un boccone imposto alla Lega pare dai piani alti del Pirellone molto pesante da mandare giù, nonostante le contropartite offerte. E infatti parte subito la vendetta. Quando proprio i banchi del Carroccio impallinano palesemente un emendamento pro-Malpensa presentato da un altro ciellino: l’assessore lombardo ai Trasporti Raffaele Cattaneo, pupillo di Formigoni. «La Lega nord tradisce Malpensa - reagisce il capogruppo di Forza Italia in Regione Paolo Valentini - gli elettori lo sappiano». Al quale, però, il suo omologo della Lega Stefano Galli risponde per le rime: «Non accetto lezioni di moralità, soprattutto quando il mio gruppo più volte si è turato il naso su questioni che non facevano parte del programma. Martedì prossimo la posizione della Lega su Cattaneo potrebbe sorprendere». Il centrosinistra, infatti, ha presentato una mozione di sfiducia contro l’operato dell’assessore. Un segnale anche questo? Si vedrà.
«La riforma mette solo ordine alla pianificazione edilizia. I programmi integrati di intervento sono bloccati a 360 gradi», si difende ora l’assessore Boni. Ma il centrosinistra attacca su tutta la linea. «Formigoni ha dato il via libera a un nuovo consumo del suolo», protesta Marco Cipriano di Sinistra Democratica, per il quale adesso c’è «il liberi tutti». «Porte aperte alla cementificazione anche di Linate», aggiunge Stefano Zamponi di Italia dei Valori. «Più che una legge - sintetizza il Pd Giuseppe Adamoli - è frutto di una trattativa sindacale tra le forze della maggioranza, una mediazione che non ha ammesso modifiche».
"Un accordo sulla pelle della gente"
Intervista al Consigliere Pd Mirabelli
Franco Mirabelli, consigliere regionale del Pd, come giudica la nuova legge urbanistica dell’assessore leghista Boni?
«Un pasticcio. E non ci vorrà molto per rendersene conto. Avevamo condiviso la decisione di prorogare i tempi per la presentazione dei nuovi Pgt. Vale lo stesso per la scelta di spingere i comuni di dotarsi al più presto di questi piani, riducendo drasticamente la possibilità di ricorrere alle varianti urbanistiche».
E allora cosa c’è che non va?
«Ci sono due elementi inaccettabili. Si sceglie di utilizzare anche le aree standard a verde per costruire edilizia residenziale pubblica, invece di preferire come avevamo suggerito noi le aree standard destinate ai servizi. Lo stesso Boni ha affermato che in Lombardia c’è un eccessivo consumo del territorio. Da ora in poi ci sarà la possibilità di consumarne altro. Siamo favorevoli ad affrontare il problema della casa, ma ad esempio inventando un uso diverso degli spazi destinati al terziario. Solo a Milano ci sarebbe lo spazio equivalente a trenta grattacieli Pirelli».
Invece?
«Si usa la scusa dell’Expo per dire che i comuni che saranno interessati ad opere collegate all’esposizione potranno decidere le varianti solo con il benestare della giunta e senza passare dal consiglio comunale. Una soluzione non solo sbagliata, ma che produrrà una valanga di contenziosi. Un accordo politico sulla pelle di Milano e dell’interesse dei cittadini».
Tra gli “istituti e luoghi di cultura”, il museo è la “struttura permanente che acquisisce, cataloga, conserva, ordina ed espone beni culturali per finalità di educazione e di studio”, così vuole il codice dei beni culturali e del paesaggio (art. 101). E il codice civile nelle “raccolte”, come insiemi inscindibili, dei musei pubblici riconosce natura demaniale (art. 822). Il vincolo unitario alla finalità esclusiva di educazione e studio (la speciale pubblica fruizione dei musei) si oppone necessariamente alla estrazione da quell’insieme di un singolo o più beni per una diversa destinazione. E deve perciò ritenersi abrogata la disposizione regolamentare (r.d. n. 1917 del 1927) che prevedeva la concessione in uso “ad altre amministrazioni” “per fini di arredamento e decoro” di oggetti anche compresi nelle raccolte museali (ampiamente praticata in passato, ha comportato una non irrilevante dispersione: converrà ora progettare il generale rientro).
E’ compito dei direttori dei musei, consegnatari, secondo il lessico burocratico, delle raccolte, assicurarne la integrità e, nella loro riconosciuta autonomia tecnico-scientifica, difenderla da ogni contraria pretesa. Anche se avanzata da superiori gerarchici (il direttore generale), da chi sia investito dei più elevati ruoli istituzionali e perfino dal presidente del consiglio. Il quale oggi, come si è appreso dalla stampa, intende arredare le stanze della propria sede in palazzo Chigi con quattro celebri statue del Museo nazionale romano delle Terme, come se ne avesse la libera disponibilità. Pretesa del tutto arbitraria (perciò resistibile) che non può certo dirsi legittimata dalla considerazione che la grande aula in cui quelle statue sono conservate non è ancora, nella operazione di generale riordino del museo, aperta al pubblico. Si è letto che la passione di Berlusconi per le statue delle Terme sia stata accesa nella occasione della conferenza stampa di annuncio del G8, ospitata appunto nell’Aula XI del complesso monumentale delle Terme di Diocleziano che vanta interventi architettonici michelangioleschi ed è sede del primo museo archeologico nazionale.
Ma l’ambizione di arredi di statuaria romana della più alta qualità per la stanza del presidente del consiglio non può essere soddisfatta per sottrazione dal Museo delle Terme, lo vietano ragioni di cultura che sono divenute interdizioni assolute del Codice dei beni culturali. E in uno stato di diritto non disperiamo che esista una autorità, sia infine un giudice, che quel divieto farà in effetti valere.
Analoga preoccupazione e sorpresa desta il progetto di convocare per il G8 all’isola della Maddalena i due “famosi” Bronzi di Riace che, dopo un restauro assai delicato e impegnativo, sono stati integrati, e sono esposti, nel Museo nazionale di Reggio Calabria. Si è letto che l’idea sia stata di Mario Resca, il manager designato alla costituenda direzione generale alla “valorizzazione” (se questa è valorizzazione). Il progetto è discusso tra Sindaco reggino (dapprima contrario, poi convinto che la cosa giova al buon nome della città che li conserva) e Ministro per i beni culturali, ma è avversato dal neoeletto presidente sardo che rifiuta l’invasione straniera e offre più pertinenti, autoctone, statue nuragiche di Monti Prama. Avvilente la schermaglia. Si odono appena le riserve del Direttore del Museo reggino, ben a ragione preoccupato per la stessa fisica integrità a rischio.
Neppure le così intese esigenze del prestigio nazionale, che si vuole esaltato con la esibizione alla adunanza dei paesi più ricchi del mondo degli unici originali bronzi greci del V secolo posseduti dai nostri musei, possono valere a superare il divieto di usare i beni dei musei (e che beni nella specie) per fini che non sian quelli di studio ed educazione. Sia convinto il direttore del Museo, di cui si intuisce il disagio, che neppure il presidente del consiglio ha il potere di superare il suo motivato e responsabile diniego alla insulsa, offensiva, pericolosa trasferta dei Bronzi di Riace.
Qualcosa tiene insieme le dimissioni di Settis e molti altri studiosi dal Consiglio Nazionale dei Beni Culturali; le spallucce con cui il ministro Bondi ha risposto; la soppressione della Darc/Parc (architettura, paesaggio e arte contemporanea) e la nomina di Mario Resca (presidente del Casinò di Campione, da cui non si è dimesso - come Umberto Broccoli, neo sopraintendente del Comune di Roma, resta giornalista Rai) a un'indefinita Direzione generale per la valorizzazione dei beni culturali; il viaggio dei Bronzi di Riace alla Maddalena per mostrarli ai «grandi della Terra»; lo spazio con cui La Repubblica ha lanciato la proposta di Alessandro Baricco di sopprimere i finanziamenti pubblici al teatro.
Il risultato è un attacco - forse più grave che nello stesso Ventennio fascista, quando Mussolini ogni tanto correggeva i vari Ojetti e Farinacci pronunciandosi per l'«arte del proprio tempo» - alla cultura intesa come interesse generale, valori condivisi, patrimonio artistico e culturale «che appartiene alle generazioni future», dunque non da preservare da operazioni pubblicitarie di dubbio gusto. In particolare alla nuova produzione artistica: Baricco poco tollera il costoso teatro di regia, per lui la musica contemporanea non deve proprio essere più eseguita perché incomprensibile; Bondi appena arrivato al Collegio Romano ha dichiarato di non capire gli artisti contemporanei...
Il bersaglio è l'autonomia delle competenze e del sapere tecnico scientifico, che devono essere rigidamente subordinati al governo e alla managerialità (un idolo che dovrebbe generare qualche perplessità nella grande crisi). Il filo dell'autoritarismo, dell'insofferenza per critiche e dissenso, lo lega ad altre grandi manovre: contro la magistratura, o contro l'Università e la scuola, cui si tagliano potere e risorse presentandole contemporaneamente all'opinione pubblica sul banco degli imputati per tutte le colpe della politica e per tutte le ragioni del declino italiano. Questo senza troppo contrasto dell'opposizione. Esemplare la vicenda del decreto Gelmini sull'università, dove sono state ottenute - esaltandole come una vittoria contro le «baronie» - farraginose nuove norme concorsuali; mentre è dovuto intervenire Napolitano per denunciare all'opinione pubblica i rischi dei tagli feroci previsti per il 2010 al bilancio delle università, che di fatto aboliscono la possibilità stessa di nuovi concorsi...
Settis ha fatto benissimo: i beni culturali non sono una merce, non da loro direttamente ma dall'indotto che generano si può sviluppare un'economia virtuosa, che non si esaurisca nella sorpresa pubblicitaria, ma sappia entrare in sintonia in modo durevole con il bisogno di produzione d'immaginario. Che potrebbe nascere ancora dai centri storici italiani. Da Roma, Firenze, Napoli, se, anziché shopping mall a cielo aperto tornassero ad essere i luoghi del desiderio per il mondo intero ( lo aveva un po' fatto William Wyler con Vacanze romane)... Vanno sottratti al mercato ed alla politica, sono patrimonio di tutti, devono autogovernarsi attraverso organi tecnici. Questo non può avvenire senza il massimo di autonomia e di libertà, la liberazione della cultura dalle pastoie della (cattiva) managerialità e politica.
Un tempo l'Italia aveva uno straordinario sistema policentrico di Sopraintendenze, sorrette da Istituti Centrali, che esaltavano il potere del sapere. Il mondo ce l'invidiava, e l'abbiamo distrutto, riducendo alla metà i bilanci, non bandendo più concorsi per rinnovare gli organici, non adeguando le retribuzioni, subordinandolo sistematicamente a controlli burocratici, pretenziosità manageriali e politiche, umiliandolo con immotivati commissariamenti (che finora non hanno risolto, vedi Pompei, nessuno dei problemi per cui sono stati istituiti).
L'opposizione non è senza gravi responsabilità. È stato Rutelli ha sottrarre al Consiglio nazionale dei Beni culturali la nomina del proprio presidente riservandola al ministro. Sono stati Bettini e Veltroni a calcare la mano (il modello Roma) sull'uso della cultura come vetrina pubblicitaria per la politica (il tappeto rosso alla Festa del Cinema). È stato Veltroni ministro a varare in pochi giorni la trasformazione dello stato giuridico degli enti lirici in fondazioni private, svendendo così al privato potere, ma ottenendo in cambio un aumento di risorse inferiore al 10%.
La storia degli enti lirici ricorda la svendita del patrimonio pubblico attraverso la Scip... Siamo abituati al terzismo degli editorialisti del Corriere della Sera; l'affare Baricco inaugura un nuovo terzismo, sulle pagine culturali di Repubblica? Baricco rovescia Pasolini, che voleva «abolire la tv e la scuola dell'obbligo«, responsabili dell'omologazione e del «genocidio culturale». Per Baricco, che cova un lungo rancore contro il teatro dai fiaschi di Davila Roa all'Argentina e dal molto modesto successo della sua Iliade senza Dei allestita dal RomaEuropa Festival, si può lasciar fare ai privati, che oggi purtroppo avrebbero «margini di manovra minimi». Davvero? «Chi oggi non accede alla vita culturale abita spazi bianchi della società che sono raggiungibili attraverso due soli canali: scuola e televisione».
Di nuovo, davvero? L'idea di una convivenza civile che si sviluppa negli spazi pubblici della città, che è fatta di esperienze e scelte dirette non mediatizzate e non necessariamente educative o pedagogiche, che è frutto del diritto all'espressione di tutti i cittadini, che produce discussione, dissenso, anche polemiche e conflitto, gli è estranea. I filmclub e le cantine teatrali romane degli anni sessanta e settanta Baricco non le ha frequentate né tanto meno comprese. Dovremmo ragionare sul perché l'Italia spende per la cultura (scuola e università comprese) le briciole residuali del proprio bilancio, anziché contribuire a presentarla come «uno spreco» da tagliare.
La vittoria alle elezioni sarde ha vieppiù accresciuto la bulimia bonapartista della destra al potere. L’ outing fascista del Cavaliere sulla Costituzione della Repubblica come documento “sovietico” non è stato, come molti hanno sostenuto, una sostanziale excusatio non petita di Berlusconi per prevenire ogni futura contestazione della più che presumibile incapacità del governo a far fronte alla crisi, che nei prossimi mesi morderà terribilmente tutto l’Occidente ed anche l’Italia. Secondo questi analisti, l’attacco berlusconiano alla carta costituzionale e al sistema di contrappesi che caratterizza tutte le costituzioni democratiche, avrebbe voluto in realtà dire che quel sistema gli impedisce di governare, bloccando ogni intervento e diminuendone la tempestività.
Nulla di più sbagliato: la violenta uscita del premier si configura come una vera e propria dichiarazione d’intenti sul futuro assetto delle istituzioni formalmente presidenziale, di fatto autoritario. Berlusconi vuole fare il presidente della Repubblica, ma da capo dell’esecutivo, non da personalità di garanzia, quale è il ruolo attuale dell’inquilino del Quirinale. Questo l’obiettivo finale del progetto.
Il suo raggiungimento tuttavia ha bisogno di conseguire una serie di obiettivi intermedi, che assicurino l’addomesticamento dell’intera società, dai telespettatori del Grande Fratello fino ai vertici del mondo accademico, un processo che passa necessariamente attraverso vari stadi e diverse forme, dall'evirazione dei sindacati (cancellata la contrattazione nazionale, hanno messo il mordacchio ai sindacati dei trasporti) all’intimidazione nei confronti di quegli intellettuali che non si possono comprare, per mettere a tacere le sempre più frequenti critiche.
Di queste tappe una è certamente quella costituita dal controllo incondizionato di tutto ciò che ruota attorno ai Beni Culturali, con particolare attenzione per il settore dell’archeologia, che del complesso di beni che costituiscono il patrimonio amministrato dallo Stato, oltre ad essere quello più ricco, è anche quello più delicato per le implicazioni che il controllo di quei beni comporta. in termini sia di vincoli alla disponibilità di suoli che di potenzialità economiche, dal turismo alla circolazione di oggetti di interesse archeologico e artistico.
Tutto il vecchio assetto del Ministero dei Beni Culturali è sotto attacco. L'offensiva è cominciata con l’articolo che Bondi ha scritto per il quotidiano di famiglia, “Il Giornale” dello scorso lunedì 23, che si configura come una durissima provocazione "a freddo", una vera e propria dichiarazione di guerra nei confronti del presidente del Consiglio Superiore per i Beni Culturali, massimo organo scientifico di consulenza del Ministero, nella persona di Salvatore Settis, Direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa, uno dei nostri più grandi storici dell’arte antica di fama internazionale.
Già nello scorso autunno Settis aveva avuto con Bondi uno scontro assai duro, solo a fatica ricomposto dai soliti pompieri dell'entourage del Cavaliere, generato dalle proteste da Settis sollevate contro i terribili tagli ai fondi del settore, 1350 milioni di euro tolti da Tremonti nel DPEF del 2008 per il bilancio del prossimo triennio. Nell'attuale circostanza, Bondi ha chiesto di fatto le dimissioni di Settis, accusandolo di manifestare pubblicamente le sue critiche all'operato del governo, nel caso specifico le due ultime decisioni, la nomina del general manager della McDonald italiana Resca all'inedita carica di Direttore Generale per la Valorizzazione (in realtà zar di tutte le mostre, con licenza di far circolare liberamente gli oggetti delle collezioni statali), il commissariamento delle soprintendenze archeologiche di Roma, in nome di una asserita incapacità di queste di gestire fondi, tutela e valorizzazione. In una parola, una soluzione autoritaria, mascherata da esigenze "manageriali", che in un colpo, nel centenario della legge di tutela, datata appunto 1909, e della prima organizzazione di tutela dello Stato, colpisce al cuore un servizio che un secolo e mezzo di lavoro dell'Italia unitaria ha creato e che molte nazioni ci invidiano.
Il commissariamento di Roma ha già dei precedenti: l'altro grande centro dell'archeologia italiana, Pompei, diretto non a caso da una grande archeologo di sinistra, Pier Giovanni Guzzo, è stato affidato ad un prefetto (che come primo atto ha distrutto un soffitto dipinto di epoca romana), così come commissariati sono gli interventi per le metropolitane di Roma e di Napoli. E altri seguiranno. Sullo sfondo ci sono vari interessi. Nel caso di Roma c'è la gestione dei beni archeologici dell'Urbe, sui quali Alemanno vuole il controllo assoluto, anche perché il Colosseo, con i suoi due milioni e mezzo di visitatori, rappresenta una gallina dalle uova d'oro che fa gola alle dissestate finanze comunali; per quanto riguarda l'intero Paese, c'è la prospettiva di una sostanziale abolizione delle soprintendenze. Il disegno è chiaro e va nel senso vagheggiato da tutte le destre, quello dello "Stato leggero": la vasta rete delle soprintendenze dovrebbe essere sostituita da piccoli uffici con pochissimo personale scientifico al centro delle regioni, una struttura prefigurata da una sciagurata innovazione del centro-sinistra, le attuali direzioni regionali, che in futuro dovrebbero essere dirette da managers e non da scomodi tecnici capaci di pensare, come accade oggi, mentre la maggior parte dei servizi dovrebbe essere esternalizzata, "messa sul mercato", come ama dire la destra.
Per realizzare questo disegno tuttavia c'è bisogno di un certo numero di intellettuali e di tecnici servizievoli, presto trovati, visto il tradizionale camaleontismo degli Italiani. Mercoledì 25 Settis non aveva finito di leggere la sua preannunciata lettera di dimissioni, che Bondi aveva già firmato la nomina a nuovo presidente del Consiglio Superiore dei BBCC di Andrea Carandini, professore di archeologia alla “Sapienza”, una figura di intellettuale emblematica della nuova situazione determinata dal trionfo della destra. Come una parte non secondaria del ceto politico del PdL, da Ferrara allo stesso Bondi, Carandini ha seguito un itinerario che lo ha condotto dall'estrema sinistra al cuore dell'attuale maggioranza. Responsabile nazionale per i BBCC del PCI negli anni 1977-80 ed autore de "L'anatomia della scimmia", edito da Einaudi nel 1978, un voluminoso saggio di scolastica esegesi del pensiero di Marx (ma si legga il duro giudizio di Carandini marxista formulato dal grande storico antico Arnaldo Momigliano, nell'articolo "Marxising in Antiquity", pubblicato nel "Times Literary Supplement" del 31 ottobre 1975, pag. 1291), lo troviamo nel 2006 esponente della Margherita: in quest'ultima veste, io stesso, in qualità di membro della Commissione per la stesura del programma dell'Unione, ho avuto la ventura di ascoltarlo, nel corso di un’audizione, vagheggiare quella che a suo giudizio sarebbe l'unica via di salvezza per i BBCC, l'abolizione delle soprintendenze.
Un futuro annunciato dunque. D'altronde, il passaggio ufficiale di Carandini ad intellettuale organico della destra al potere è stato anticipato di qualche giorno dalla sua nomina a consigliere scientifico di Guido Bertolaso, sottosegretario di Stato per la protezione civile e commissario per l'archeologia di Roma. Carandini aveva già tentato di ritagliare per sé il ruolo di padrone dell'archeologia della Capitale, sollecitando due anni or sono dall'allora ministro per i BBCC Rutelli la nomina a presidente di una commissione per l'archeologia del centro storico di Roma, che Rutelli tuttavia aveva voluto fosse solo consultiva. Ora come presidente del Consiglio Superiore può ben dire di essere al vertice dell'archeologia italiana, un ruolo paragonabile solo a quello rivestito da Giulio Quirino Giglioli durante il ventennio.
Arianna Di Genova
L'effetto terremoto nel Consiglio superiore sta procedendo a ondate successive, con una serie di dimissioni a catena. Gli "scranni" dell'organo consultivo per i beni culturali si stanno progressivamente svuotando. Anche l'economista Walter Santagata ha abbandonato il suo incarico. Se "l'epicentro" del sisma è stato il presidente Salvatore Settis, a lasciare il parlamentino dei beni culturali sono stati anche lo storico dell'arte Andrea Emiliani, Cesare De Seta, Andreina Ricci e Mariella Guercio. E per il 4 marzo, quando il Consiglio tornerà a riunirsi su convocazione di Antonio Paolucci (in odore di dimissioni), si prevede un altro scossone. Il ministro Sandro Bondi però non ha perso di lucidità, anzi. Così come aveva provveduto prontamente a sostituire il presidente Salvatore Settis con Andrea Carandini, ha tirato fuori dalla manica il suo tris d'assi di nomine nuove di zecca (evidentemente pronte da tempo).
A beneficiare della posizione saranno Elena Francesca Ghedini (docente di archeologia presso l'università di Padova nonché sorella dell'avvocato Niccolò Ghedini, difensore di Berlusconi), Emanuele Greco (professore di archeologia all'Orientale di Napoli e direttore della Scuola archeologica italiana di Atene) e Marco Romano, ordinario di estetica nelle facoltà di architettura di Venezia e Genova.
Al momento, rimangono al loro posto di resistenza, i rappresentanti degli enti territoriali (sono tre), i "sindacalisti" e gli studiosi di nomina universitaria, fra gli altri, Marisa Dalai Emiliani, presidente dell'associazione Bianchi Bandinelli e Giovanni Carbonara, docente di restauro architettonico. Il loro compito è arduo: arginare la disfatta e frenare in qualche modo quegli intellettuali che sono una diretta emanazione politica.
Il vero punto scottante che riguarda il Consiglio superiore è che ha perso del tutto la sua autonomia di pensiero e la dialettica con il ministro si è azzerata. Ma la deriva barbarica era già insita nell'ultima riforma voluta dal precedente "timoniere", Francesco Rutelli. Fu lui, come spiega Marisa Dalai Emiliani, a stravolgere la struttura del Consiglio, diminuendo i membri dei comitati di settore da cinque a quattro e cambiandone anche le modalità di elezione (due esperti scelti politicamente e due provenienti dagli ambienti scientifici e universitari; prima, c'era anche un funzionario dei beni culturali). Inoltre, il presidente, un tempo eletto democraticamente dagli altri membri del Consiglio, venne trasformato in una nomina prettamente politica, selezionato secondo i gusti del ministro in carica. "Avevo messo in guardia Rutelli sul pericolo di quella procedura - afferma Dalai Emiliani - Lui mi rassicurò, ma io gli risposi che non era eterno. Ha dato il colpo di grazia, ora si raccolgono i frutti...".
Da questa settimana, il Consiglio superiore, una volta espressione di eminenti studiosi che per una sorta di volontariato culturale mettevano al servizio del ministero le loro specifiche competenze per la tutela dei beni, si trasforma in uno scrigno politico, pronto a praticare il "silenzio-assenso".
L'archeologa Licia Vlad Borrelli manifesta una grande preoccupazione per il patrimonio e la sua gestione, anche rispetto ai "commissariamenti facili". "Come sta accadendo con la magistratura, siamo di fronte a una lenta erosione dei poteri. I commissariamenti esautorano le figure dei soprintendenti che perdono la loro autonomia di giudizio. Molto grave è anche la divisione tra valorizzazione e tutela. La nuova direzione generale istituita (quella di Mario Resca, ndr.) disgiunge i due termini e se la valorizzazione prevarica la tutela può accadere che i Bronzi di Riace, tanto per fare un esempio, vadano in giro per il mondo. I beni culturali non sono una risorsa economica solo per il presente, devono essere conservati per le generazioni future... Credo che in questo momento, tutti noi esperti del settore dobbiamo essere uniti e fare fronte".
Ma il suo collega-archeologo Andrea Carandini, neo-presidente del Consiglio superiore, non tentenna. "Io e Settis abbiamo un punto fermo in comune, che è il rispetto del Codice dei beni culturali, ma anche posizioni diverse sulla gestione del patrimonio che non possono essere scomunicate a priori".
La sua prima uscita pubblica, domani, per il settimo incontro nazionale di Archeologia Viva (al Palacongressi di Firenze), sarà l'occasione per un chiarimento riguardo la sua scelta di accettare l'incarico offertogli dal ministro Bondi, dopo le dimissioni del direttore della Scuola Normale di Pisa, Salvatore Settis.
Un diavoletto maligno sembra aver convinto il ministro Bondi che sia necessario, per gestire al meglio qualcosa, non avere di essa la minima competenza.
Di qui la scelta di affidare la nuova direzione alla valorizzazione del patrimonio ad "un manager di chiara fama come Mario Resca": per poi rammaricarsi che Salvatore Settis esprima il suo dissenso, per giunta "sulla stampa di opposizione".
Del resto, trattare i Beni Culturali come un problema di marketing, da promuovere come si fa con gli hamburger, fa il pari con il considerare l’archeologia come un affare da protezione civile: un cataclisma da affidare al maggior esperto delle calamità naturali e umane: come dire, da Chiaiano ai Fori Imperiali.
Perchè questa scorciatoia non può funzionare per i Beni Culturali?
Perchè in questo campo lo stimolo alla fruizione non nasce da operazioni di marketing, o comunque non si esaurisce del tutto in esse, bensì dalla capacità di penetrare a fondo il significato storico-culturale di ciò che deve essere valorizzato: il prodotto consiste nella diffusione di conoscenza attraverso la conservazione di un patrimonio immenso quanto fragilissimo, la cui sopravvivenza passa attraverso la protezione del paesaggio in cui si inserisce.
Un esercizio faticoso, talora ingrato, ma che non ammette scorciatoie.
Dalla forza di questo enunciato lapalissiano scaturì in G. Spadolini il convincimento che fosse necessario creare per i Beni Culturali un ministero sui generis, nel quale le pur necessarie intermediazioni di carattere amministrativo non contrastassero l’esigenza che la responsabilità finale e l’onere di pianificare il rilancio e la valorizzazione, come ripetono i nostri politici con vacuo compiacimento autoassolutorio, restassero saldamente dipendenti da valutazioni tecnico-scientifiche.
Che cosa è mancato? O meglio che cosa ha remato contro? La velleità tutta italiana di celebrare le nozze con i fichi secchi, tagliando i fondi e moltiplicando commissari e "figure nuove, con specifiche competenze manageriali", in grado addirittura "di leggere un bilancio, stilare un programma finanziario, elaborare un piano costi-benefici".
L'organico dei funzionari, archeologi, storici dell'arte, architetti, archivisti, bibliotecari, si è andato immiserendo di giorno in giorno senza che si facesse alcuno sforzo per integrare le pur stitiche piante organiche predisposte a suo tempo. Ci si è riempiti la bocca di geremiadi sulla decadenza di Pompei, o dei Fori a Roma, facendo finta di non sentire le banalissime considerazioni dei nostri Soprintendenti, tra i più qualificati tecnici del mestiere, come dimostra il caso di P.G.Guzzo a Pompei : senza tecnici, senza custodi, senza idonei stanziamenti destinati alla manutenzione ordinaria e straordinaria, senza i necessari supporti tecnologici, nessun supermanager di MacDonalds sarebbe in grado di assicurare una tenuta decente dei nostri immensi parchi archeologici.
Eppure questa tenuta è stata assicurata, e non in modo passivo: Pompei ha conosciuto una stagione di studi e ricerche senza precedenti, e l'accumulo di sapere è cresciuto con progressione geometrica: e questo grazie ai "lavori senza gloria" dei nostri funzionari di Soprintendenza, e non certo per merito di chi favoleggiava della realtà storica di Romolo.
Si poteva, con la gestione ordinaria, salvaguardare i nostri parchi archeologici? Certo che si: lo dimostra l'esempio di Ercolano, una operazione discreta di grande collaborazione internazionale con uno sponsor privato, condotta in riserbo ammirevole dalla Soprintendenza Archeologica.
Che cosa occorreva? Non certo un commissario straordinario, ma competenza, costanza e disponibilità di risorse adeguate, vera managerialità.
A che serve allora un commissario? Chiedetelo a chi confonde l'efficienza con l'autoritarismo, la valorizzazione con la mercificazione: ha visto il ministro Bondi la Mostra su Ercolano? No? Fa ancora in tempo a vederla, al Museo Nazionale di Napoli, proprio in quello che viene indicato come un luogo di sfascio e di abbandono. Forse gli servirebbe ad imparare il rispetto di chi sa lavorare senza risorse, senza riflettori, e -quel che è peggio - senza il supporto del proprio Ministero.
Ida Baldassarre, Istituto Universitario Orientale, Napoli
Bruno d’Agostino, Istituto Universitario Orientale, Napoli
Luca Cerchiai, Università degli Studi di Salerno
Il Ministro Bondi ha frainteso il ruolo del Presidente del Consiglio superiore per i beni culturali e paesaggistici. Lo considera come il consigliere del principe, a lui legato da un rapporto di solidarietà e fiducia, tenuto dunque alla disciplina e a mantener riservato l’eventuale dissenso, perché risponde al ministro che lo ha prescelto tra le "otto eminenti personalità del mondo della cultura" da lui nominati. Non ha tollerato che Salvatore Settis, da uomo di scuola e studi, cittadino civilmente impegnato, esprimesse liberamente quel che pensa degli indirizzi generali del ministero (imputabili dunque alla responsabilità politica del ministro) e della amministrazione attiva delle istituzioni dei beni culturali e lo ha accusato appunto di infedeltà, invitandolo ad andarsene con uno scoperto scatto retorico ("non potevi trovare un espediente migliore per rassegnare le dimissioni", ha in sostanza dichiarato in un’intervista). E Settis, che non era certo tenuto a dimettersi per aver perduto la fiducia del ministro, ha creduto che la pretestuosa accusa di lavorare contro le istituzioni e di muoversi secondo logiche di schieramento avesse alterato irrimediabilmente il corretto rapporto funzionale tra ministro e presidente della più alta istanza consultiva del ministero. Determinazione dettata da viva sensibilità istituzionale e a Settis va la solidarietà di Italia Nostra che ne condivide i preoccupati giudizi sugli indirizzi generali del ministero. Ma il ministero si priva di una voce di alta competenza e di disinteressato impegno. Che tuttavia, sappiamo, Settis manterrà viva nella partecipazione, che ritiene doverosa, di cittadino e uomo di cultura alla tutela di patrimonio e paesaggio.
Settis è stato sostituito con sorprendente prontezza (nelle stesse ore in cui comunicava al Consiglio le sue dimissioni) da chi aveva saputo meritare la fiducia del Ministro, assicurando pubblicamente di condividere in tutto proprio le scelte che Settis aveva contestato (come l’affidamento della direzione generale per la valorizzazione a un manager aziendale, il commissariamento di Pompei e dell’archeologia romana, la convocazione dei Bronzi di Riace al G8 della Maddalena) e di giustificare i drastici tagli al bilancio del ministero. Un presidente dunque certamente "eminente personalità del mondo della cultura", ma che offre in più al Ministro la garanzia di un sicuro allineamento.
Ha fatto bene Salvatore Settis a ricordare nella lettera di dimissioni di aver criticato allo stesso modo, quale presidente di un organismo squisitamente tecnico-scientifico, il ministro Bondi al pari dei suoi predecessori, di uguale o diverso colore. Come fece, nella stessa carica, Giuseppe Chiarante, coi ministri Veltroni e Melandri e col forzista Urbani che però lo «epurò». La storia si ripete. Per anni Norberto Bobbio ci ha ricordato che l’autonomia critica degli intellettuali dalle parole d’ordine della politica è il dato fondante della cultura democratica. Quando si pretende che essi si allineino a governi e a partiti oppure tacciano e se ne vadano, la democrazia è in pericolo.
Pochi minuti dopo aver ricevuto da Settis le dimissioni, come se dovesse cambiarsi di camicia o di cravatta, Bondi ha nominato al suo posto un archeologo non meno noto, Andrea Carandini, che negli ultimi tempi ha detto di sì, in nome della lotta contro «i Talebani della conservazione» (abbiamo capito), alla politica dei commissariamenti per le aree archeologiche di Roma e Ostia e al prestito e al trasporto di opere delicatissime come i Bronzi di Riace trattati da Made in Italy commerciale. Un subentrante già omologato. Per ora accolto da una raffica di dimissioni che noi speriamo si moltiplichino, al pari delle qualificate proteste di intellettuali. A smentire quei pochi già saltati, invece, in modo fulmineo sul carro del vincitore.
Il nodo è politico. Si confrontano apertamente due concezioni profondamente diverse della cultura e dei suoi beni: quella di chi li considera un valore «in sé» e quindi ritiene che ogni valorizzazione sia contenuta nella tutela stessa da finanziare e potenziare, e quella di chi intende fermamente «mettere a reddito» il nostro passato spremendone profitti, anche a costo di lasciar decadere la tutela. Si confrontano conservazione intelligente e attiva e commercializzazione spinta e privatistica. Quest’ultima è la strategia del centrodestra. E quella del centrosinistra?
Caro Salzano, leggo ora la lettera del ragazzo sardo, studente di architettura e la sua risposta, e innanzitutto voglio ringraziarla, e vorrei ringraziare anche quel ragazzo che ha anticipato una serie di riflessioni che volevo sottoporle. Ora la sua risposta è molto stimolante, spero che lo stesso Soru la legga e ne faccia tesoro. Ma volevo scriverle anche per chiederle in qualche modo un aiuto.
Io penso che la difesa del Ppr della Sardegna può in qualche modo avere successo solo se diventa un problema nazionale e non solo sardo; allo stesso modo come è accaduto per la difesa di Tuvixeddu, che anche attraverso il suo contributo, tutta l'italia ha potuto conoscerne l'importanza e la peculiarità storica e ambientale. Purtroppo ci troviamo in un momento di emergenza in cui bisognerebbe trovare delle forme di opposizione e lotta immediate. In Sardegna il nuovo presidente Cappellacci sta già mettendo le basi per smantellare il ppr e portare avanti i progetti speculativi sulle coste della Sardegna.
Quando parlo di questi problemi ai "continentali", ricevo risposte di grande sensibilità e amore nei confronti della Sardegna, mentre purtroppo non riscontro altrettanto dagli stessi sardi ancora residenti nell'isola. Ho capito comunque che il turismo stesso-questa specie di fetticcio così ricercato, questo mito che dovrebbe salvare l'economia e trovare le soluzioni ai problemi dell'isola- il turismo stesso dicevo, oggi va in tutt'altra direzione da quella concepita dalla destra che ora per 5 anni dovrà governare la terra in cui sono nato.
Una destra che sostanzialmente coniuga lo sviluppo turistico con quello edilizio, che considera la cultura e l'identità di un popolo come una merce da vendere al miglior offerente. Immagino per esempio che potrebbe essere importante che il ppr della Sardegna diventi materia di studio, in un seminario di una università italiana.
Bisognerebbe inoltre fare in modo che i quotidiani nazionali più disponibili su questi argomenti, dedichino ancora più spazio al problema Sardegna. Inoltre sarebbe utile aprire un dibattito nazionale su questo tema, magari partendo dal suo sito per farlo espandere nella rete. Un dibattito di denuncia che come lei stesso dice dovrebbe allargarsi a tutta l'italia e l'europa. Dibattito che infine potrebbe uscire dalla rete per organizzarsi in un comitato composto da intellettuali e politici che si renda attivo nel controllo e nella denuncia dell'operato del nuovo consiglio regionale nei confronti del patrimonio ambientale della Sardegna.
La Sardegna è un patrimonio culturale e ambientale che riguarda tutti e di cui tutti gli italiani ed europei dovrebbero preoccuparsi.
Grazie ancora.
L'immagine che mi ha inviato è la giusta icona dell'attuale situazione della Sardegna: l'imorenditore (chiamiamolo così) che vuole costruire i suoi palazzoni su Tuvixeddu-Tuvumannu, e fare della necropoli il giardino condominiale, riempie il calice al nuovo presidente della Sardegna. Grato, si suppone.
Per il resto, sono completamente d’accordo con lei. Eddyburg promuoverà un’iniziativa in questo senso. Un appello e una raccolta di adesioni non sono certo sufficienti, ma possono essere un primo passo nella direzione di ciò che bisogna fare per resistere e per prepararsi al contrattacco. Lo promuoveremo appena avremo trovato chi ci aiuta nella gestione delle adesioni.
Illustre Signor Ministro, sul Giornale del 23 febbraio, Lei mi attribuisce, citando dall’intervista di Enrico Arosio sull’Espresso, affermazioni che non ho fatto, quali la denuncia della "malagestione dei musei" e del "clima di generale frustrazione che si respira nel Collegio Romano". Non sono parole mie, semmai dell’intervistatore: basta badare alle virgolette. Rispondo invece delle cose che ho detto, e che Lei ugualmente mi rimprovera: in particolare, di aver richiamato l’attenzione del governo e dell’opinione pubblica (in un articolo sul Sole-24 Ore del 4 luglio 2008) sui pesanti tagli al Suo Ministero, con cifre incontestabili perché tratte dalla Gazzetta Ufficiale.
Mi rimprovera il "dissenso di fondo", in particolare rispetto alla futura nomina del dott. Resca come direttore generale alla valorizzazione dei beni culturali. Inoltre, mi rimprovera «sensazionalismo mediatico» e «richiamo irresponsabile della ribalta», mi etichetta «polemista di riferimento del gruppo La Repubblica-Espresso» che «inforca la polemica sulla stampa di opposizione» e «lavora contro le istituzioni», e infine mi invita a dare le dimissioni («Se avesse voluto cercare un espediente per rassegnare le dimissioni, il professor Settis non avrebbe potuto trovarne uno migliore»).
Quando, in seguito all’articolo sul Sole , il sottosegretario Giro ed altri validi esponenti della maggioranza, come l’on. Gabriella Carlucci, mi invitarono alle dimissioni, fu Lei a chiedermi di mantenere il ruolo di presidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali. Non mi colpisce il fatto che Lei abbia in merito cambiato idea. Mi colpisce la Sua convinzione (a) che le preoccupazioni che esprimo nascano non da riflessioni di natura istituzionale, ma da uno schieramento politico, e (b) che ogni pubblico dissenso dal Ministro debba esser vietato a chi ricopra la funzione di presidente del Consiglio Superiore. Nessuna di queste due affermazioni risponde al vero. Quanto alla prima, per non citare più remoti esempi, durante il governo Prodi criticai duramente (sulla Repubblica, 11 settembre 2006) la proposta di legge Nicolais sul silenzio-assenso, in termini identici a come lo avevo fatto un anno prima sullo stesso giornale (8 marzo 2005) rispetto a un’identica proposta Baccini (in ambo i casi, la proposta fu ritirata).
Quanto alla seconda affermazione, ricordo che il Consiglio Superiore è per legge un organo tecnico-scientifico e non politico. Ciò comporta, per il suo presidente come per gli altri membri, massima discrezione sui documenti riservati sottoposti dal Ministro; non comporta invece l’obbligo del silenzio sugli atti ufficiali del governo né il divieto di citare dati pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale, né tanto meno la proibizione di esprimere opinioni documentate. Non è vero che, come nel Suo articolo si trova scritto, io faccia parte dei "vertici del Ministero", né che io sia un "dirigente dei Beni culturali". E´ vero anzi il contrario: il Consiglio Superiore, in quanto organo tecnico-consultivo e non di amministrazione attiva, ha una funzione extra-burocratica, non è in gerarchia con l’Amministrazione ma rispetto ad essa ha funzione di riflessione e stimolo esterno.
Secondo la legge, il presidente è scelto tra le "otto eminenti personalità della cultura" che compongono, con altri membri, il Consiglio Superiore. Tale connotazione non solo implica ma esige piena libertà di coscienza, di parola e d’intervento sui temi generali della politica culturale del Ministero: la definizione tipologica di "eminenti personalità della cultura" non si lascia fuori dalla porta nel momento in cui si entra nel Consiglio Superiore, e anzi impone piena libertà di espressione, al servizio dei cittadini e delle istituzioni. Di fronte a una situazione sempre più grave, che per pesantezza dei tagli e assenza di turn over del personale mette in pericolo lo stesso esercizio della tutela in Italia, il mio auspicio era ed è che il Ministro (chiunque sia) e il Consiglio Superiore (chiunque possa esserne il presidente) esprimano una concorde, grave preoccupazione nelle sedi appropriate (governo e Parlamento), con massima trasparenza rispetto all’opinione pubblica.
Sui dati di fatto citati nell’intervista dell’Espresso, signor Ministro, Lei non risponde. Non nega (perché non può farlo) il taglio di oltre un miliardo di euro nel triennio ai fondi del Suo Ministero; non nega (non può farlo) che al 1 gennaio 2010 vi saranno 23 posti di dirigente archeologo in organico in tutta Italia, ma solo 7 funzionari col grado per ricoprirli. A questi ed altri segnali di degrado, Lei sembra reagire con passiva rassegnazione. Quanto alla "malagestione dei musei" (leggi: carenza di fondi e blocco delle assunzioni) e al "clima di generale frustrazione che si respira nel Collegio Romano", due affermazioni non mie ma Sue, solo il laconico tu dixisti di Matteo 26. 64 può commentarle degnamente.
Il Suo articolo, Signor Ministro, mi pone di fronte alla scelta fra la piena libertà di opinione e di parola e il silenzio che Lei, innovando rispetto alla legge, ritiene obbligatorio per il presidente del Consiglio Superiore: duro monito a chiunque ricoprirà in futuro questo ruolo. Eppure non ho lavorato "contro le istituzioni", ma, tutt’al contrario, per le istituzioni quando ne ho difeso le competenze, i campi di azione e l’oggetto stesso dagli incessanti tentativi di erosione e di vanificazione, da ultimo con l’inquietante vicenda del cosiddetto archeocondono e quella incoerente del commissariamento, in mani dotate di altra competenza, dell’area archeologica di Roma.
Di fronte alla prospettiva di rinunciare a difendere il Ministero e il patrimonio culturale, che Ella mi addita, la mia è una scelta facile. Senza la minima esitazione, continuo a ritenere incomprimibile la mia libertà di coscienza e di espressione e soprattutto a ritenerla non solo compatibile, ma pienamente convergente con l’ufficio che ricopro. La libertà di parola è la prima delle libertà. Nel recente passato ho potuto esercitarla senza ostacoli esprimendo pubbliche critiche ai governi in carica mentre collaboravo da vicino con i Suoi predecessori Giuliano Urbani, Rocco Buttiglione e Francesco Rutelli e, mi permetto di sottolineare, contribuendo più di una volta a salvaguardare le attribuzioni e le cure del Ministero e del patrimonio culturale. Continuerò a farlo come è mio dovere di cittadino, ma irrevocabilmente rassegno le dimissioni dalla presidenza del Consiglio Superiore.
Con i migliori auguri di buon lavoro.
Dopo uno stallo durato mesi, riparte il progetto per la costruzione del Cerba, il Centro europeo di ricerca biomedica avanzata del professor Umberto Veronesi, che dovrebbe sorgere in un'area del Parco Sud. Ieri, nel corso di una riunione, i tecnici di Regione, Provincia, Comune, Parco Sud e Fondazione Cerba hanno finalmente approvato il testo finale dell´accordo di programma. La novità principale è un aumento di dieci milioni di euro degli investimenti per le opere di compensazione. Che passano così da 25 a 35 milioni di euro. In particolare, sono previsti l'ampliamento dell´area di parco attrezzato, l'allargamento di alcune strade e il prolungamento della metrotranvia. Una decisione attesa dal maggio scorso e la cui mancanza aveva convinto alcuni soci privati, in particolare Mediobanca e Telecom, a bloccare i finanziamenti, vista anche la crisi economica. Ora, dopo il superamento dello scoglio burocratico, cresce la speranza che ci ripensino. E che i lavori possano finalmente iniziare alla fine di quest´anno, o al più tardi all´inizio del 2010.
Dopo la riunione di ieri, tra i tecnici sembra tornata la fiducia. Anche perché il consenso "politico" di Regione, Provincia e Comune era già stato raggiunto. L'accordo di programma tra le istituzioni e la Fondazione Cerba, infatti, era un passaggio necessario per iniziare i lavori. Ora l´accordo raggiunto ieri dovrà essere nuovamente approvato dalle giunte del Pirellone, di Palazzo Isimbardi e di Palazzo Marino e infine dal consiglio comunale. Gran parte della discussione in questi ultimi mesi ha riguardato gli oneri di urbanizzazione: un progetto come questo, non a scopo di lucro, deve essere esente dal loro pagamento o no? Alla fine ha prevalso la tesi delle opere di compensazione.
I cantieri della nuova cittadella della scienza, in realtà, sarebbero dovuti partire all'inizio dell'anno per concludersi nel 2012. La speranza è che i soci privati, che nonostante le perplessità emerse sono rimasti dentro la Fondazione, a questo punto sblocchino i loro investimenti. Rappresentano il gotha della finanza e dell'economia: da Mediobanca alle Generali, da Banca Intesa a Capitalia, da Unicredit a Pirelli. Finora hanno investito 10 milioni di euro. Ma alla fine del 2008 hanno staccato l´ultimo assegno di 150mila euro.
L'accordo raggiunto si sarebbe dovuto siglare in realtà già a maggio, dopo la decisione della Provincia di stralciare il progetto da uno dei piani di cintura del Parco Sud e il parere positivo della Regione sulla valutazione di impatto ambientale. Ora potrebbe ripartire il conto alla rovescia: la prima pietra al più tardi all'inizio del prossimo anno nel cantiere di via Ripamonti e la conclusione dei lavoro tre anni dopo. Il nuovo centro sorgerà su un'area di oltre 610mila metri quadrati accanto allo Ieo, l'istituto europeo di oncologia diretto da Veronesi. Ospiterà laboratori per l'attività di ricerca, formazione e cura dei pazienti. Oltre a una unità interdisciplinare per l'oncologia, la cardiologia e le nanotecnologie applicate alla medicina e alle neuroscienze.
Nota: ad “aggravante” del progetto Cerba, non va dimenticato il suo uso strumentale come testa d’ariete per scardinare nel metodo e nel merito la tutela della greenbelt metropolitana milanese, e in generale quella degli spazi aperti, agricoli e naturali, come ha dimostrato il dibattito sul cosiddetto emendamento ammazzaparchi (f.b.)
Se voi che leggete non siete dentro una soprintendenza o dentro il ministero dei beni culturali probabilmente non potete averne piena percezione. Però per le sorti del nostro patrimonio artistico, dei nostri musei, dei nostri scavi archeologici, archivi e biblioteche - che già soffrono come dannati, hanno una gestione centrale sbrindellata - oggi può essere una giornata gravida di dalle conseguenze pesanti. Che implicano anche il concetto di libertà di pensiero nella pubblica amministrazione, cioè nel Paese.
IL TERREMOTO
Esagerato? Vediamo un po’. Oggi pomeriggio si riunisce il consiglio superiore dei beni culturali: è organismo consultivo di esperti nominati dal ministro, comitati di settore e rappresentanti eletti dai dipendenti del ministero stesso, dalle università. Il suo ruolo è dare pareri su questioni importanti. Oggi ha, tra l’altro, in discussione i piani di spesa delle soprintendenze, e saranno dolori. Lo presiede, forse per l’ultima volta, Salvatore Settis, archeologo, preside della Normale di Pisa. Salvo sorprese si dimetterà. E con lui altri membri del consiglio.
Di sicuro ha formalizzato le sue dimissioni via fax alla segreteria ministeriale il professor Andrea Emiliani, esperto che aveva indicato Rutelli e Bondi confermato. Potrebbe lasciare Andreina Ricci. Potrebbe dimettersi Mariella Guercio, altra esperta. «Faccio quel che farà Settis. Abbiamo tenuto una linea condivisa e quindi la mantengo» . E questo lo afferma a l’Unità un nome autorevole, culturalmente «pesante», come Antonio Paolucci, già soprintendente, già ministro lui stesso nel 95-96, ora direttore dei Musei Vaticani. Come altri esperti, Settis lo aveva nominato Rutelli, Bondi l’aveva confermato. Ma Settis, per il ministro, si macchia di un peccato imperdonabile: osa criticare pubblicamente le scelte del ministero.
Critica la scelta di affibbiare un commissario alle soprintendenze archeologiche di Roma e Ostia, per di più della protezione civile, Bertolaso. Critica, Settis, la nascita di una direzione per la valorizzazione, slegata dalla tutela per di più affidata a un manager inesperto in materia d’arte o archeologia quale Mario Resca. Settis peraltro ha sempre coltivato il «vizio», se qualcuno lo ritiene un vizio, di criticare anche in pubblico le scelte di un ministro anche se lui ci lavorava a fianco. È successo a Urbani, è successo a Rutelli.
Succede con Bondi e Bondi non lo tollera. Il ministro sul Giornale attacca Settis e già, che c’è, il soprintendente di Pompei Guzzo, bravissimo archeologo, ma reo - a suo parere - di non risolvere i guai del sito.
VIA LIBERA AI «BARBARI»?
Ci sono dunque le dimissioni di Settis in ballo. Perché non è soltanto una faccenda di poltrone e travalica i confini dei beni culturali ma di libertà di pensiero? Lo riassume bene Mario Torelli, archeologo di lungo corso, curatore della bella mostra sugli etruschi aperta a Palazzo delle Esposizioni a Roma fino all’8 marzo: «Questo ministro si leva di torno i tecnici perché danno fastidio, è un atteggiamento da ministro del ventennio fascista, per "non disturbate il manovratore"». Secondo l’archeologo, il ministro potrebbe avere in mente il sostituto di Settis e indica il collega Carandini. Ma Torelli dà voce a un fatto: nel ministero e nelle soprintendenze si dice poco in pubblico quel che si pensa per paura di ritorsioni. Cesare De Seta, un altro esperto di nomina direttamente ministeriale, dice al nostro giornale di voler discuterne oggi prima con Settis e poi valutare.
Il segretario della Uil Gianfranco Cerasoli mette il dito sul dubbio che arrovella parecchi: Settis non lasci, «le sue dimissioni sarebbero un regalo ai nuovi barbari», cioè «al trio Bondi-Brunetta-Tremonti» che, svitando bullone su bullone le soprintendenze e le loro risorse, affidandole a commissari
della protezione civile e quant’altro, stanno smantellando l`impalcatura statale che ha tenuto su dall’unità d’Italia a oggi. E questo dubbio - lasciando non si rischia di non porre più argini a manovre devastanti? - arrovella Marisa Dalai, studiosa designata dal Consiglio universitario nazionale.
Un dubbio che investe sempre più persone, nel nostro paese. E non solo per l’arte. Una via d’uscita in mente ce l’ha Vincenzo Vita, parlamentare Pd: invece di Settis «si dimetta Bondi.