Il Veneto messo a rischio da tre mega-progetti immobiliari: Motor City, con uno shopping center di 195 mila metri quadrati, Euroworld, che propone l'Europa in miniatura stile Eurodisneyland e Veneto City, la «fiera delle fiere». La denuncia di Legambiente
Ecomostri, l'ultima evoluzione del cannibalismo immobiliare. Mega-progetti che alimentano la bulimia del «modello veneto». Cattedrali di cemento & affini che cancellano ogni altra linea d'orizzonte. E' il Veneto messo in cantiere dalla giunta Galan, ma anche dai Comuni che fanno cassa con il territorio. Tre operazioni concepite con la suggestione anglosassone: la New City del Veneto dopo il terremoto nei capannoni a Nord Est. Euroworld, vecchio continente in miniatura sul Delta del Po. Veneto City, super-fiera delle vanità nella Riviera del Brenta. E Motor City che fa rombare con l'autodromo anche il più mastodontico centro commerciale d'Europa, a cavallo tra Verona e Mantova. Sono l'ultimo capitolo del «saccheggio senza fine» che Legambiente ha denunciato con forza.
Il Veneto già monopolizza la classifica dei volumi edilizi (residenziali e non) autorizzati dai Comuni. Vanta poi una crescita disordinata che spaccia per sviluppo il moltiplicarsi di villette disegnate da geometri, ipermercati in stile americano, contenitori giganteschi per piccole imprese, torri e regine della cementificazione selvaggia. Oltre l'indistinta melassa dell'ex miracolo economico incombe l'ombra di tre mostruosità urbanistiche. Destinate a marchiare a fuoco il Veneto, che paga il conto salato di tre condoni edilizi in vent'anni. E' l'immobiliare che si fa stato permanente degli affari, con la politica (non solo berlusconiana) che appalta territorio e futuro. «Con il risultato che non c'è più differenza tra edilizia legale e abusiva» riassume Michele Bertucco, presidente di Legambiente Veneto, che sul tavolo offre il dossier «Cancellare il paesaggio» con i tre simboli di un incubo.
Una vera catastrofe annunciata. In pratica, il vero collasso dell'area area centrale del Veneto. E' il 25,7% del territorio e accoglie il 50,7% della popolazione nel 47,2% delle abitazioni della regione (sono ben 930 mila, di cui 80 mila senza inquilini). «Una nebulosa insediativa senza logica apparente se non quella del profitto immediato dei proprietari delle aree, con l'avvallo di amministrazioni locali compiacenti, sempre pronte ad approvare varianti e variantine al piano regolatore» sintetizzano a Legambiente.
Il quadro più impressionate lo fornisce la fotografia della provincia di Vicenza: in 50 anni la "macchia" urbanizzata è aumentata del 342%, con un incremento di popolazione limitato al 32%. Tradotto, significa che i volumi urbani della «città diffusa» sono passati da 8.647 ettari a oltre 28 mila: il cemento si è quadruplicato. Non fa differenza nemmeno Padova con il sindaco Flavio Zanonato, «sceriffo rosso» che deve aver perso di vista le leggi fisiche dello sviluppo sostenibile: «Anticipando la stessa legge regionale - con una variante di Prg approvata con i voti del centrodestra e del centrosinistra - si sono trasformati oltre 4,7 milioni di metri quadri di aree destinate a verde pubblico in aree di perequazione, delegando ai privati il progetto delle nuove lottizzazioni ed ottenendone in cambio uno spezzatino di aree di verde pubblico in mezzo o ai margini dei nuovi caseggiati» ricorda Sergio Lironi che ha seguito per cinque anni le sedute della Commissione urbanistica, presieduta dall'ex assessore socialista Sandro Faleschini.
Scelte miopi quanto dannose. Eppure, diventano perfino marginali rispetto ai tre ecomostri che fanno scandalizzare Legambiente, e non solo. In Veneto la catena di montaggio vera parte con i «cavatori» e arriva ai costruttori. Nel mezzo, l'economia del mattone va a braccetto con la politica dello sviluppo a senso unico. Una regione immobile in perenne adorazione del totem immobiliare. Con interessi speculativi che si dilatano, nutriti da progetti sempre più mastodontici.
Come Motor City che sboccia nel 1999 grazie ad una legge regionale che abbozza la necessità di un autodromo. E arriva il piano di Quadrante Europa che individua tra Vigasio e Trevenzuolo (Verona) il terreno ideale per il circuito. Sulla carta, superficie non edificabile per il 70% e gran parte dell'area destinata a parco regionale. Due anni dopo nasce la società Autodromo del Veneto: tra i soci Veneto Sviluppo, la finanziaria della Regione, e successivamente rombano anche i comuni. Nel 2004 i lavori vengono affidati a Draco Spa: nella lista dei costruttori c'è anche Earchimede SpA, finanziaria di Brescia "indagata" dalla magistratura insieme all'ex presidente Emilio Gnutti dopo la scalata di Bpi ad Antonveneta. Lo scandalo dei "furbetti del quartierino" spinge Gnutti alle dimissioni, ma «con l'entrata in scena dei soci privati inizia il turbine di varianti di leggi della Regione» ricostruiscono a Legambiente.
Dal dicembre 2004 al marzo 2005, le varianti urbanistiche trasformano l'autodromo in un "mostro" di 4,5 milioni di metri quadri, con un' area industriale di 50 ettari e il polo commerciale più grande d'Europa (altri 104 ettari), senza nemmeno coinvolgere la Provincia, I dieci centri commerciali del Veronese occupano 139.490 metri quadri. A Motor City, si immagina uno shopping center che da solo concentra a Vigasio 195.000 metri quadri pari al 140% delle superfici occupate nell'intera provincia.
Nel 2006, Earchimede viene sostituita da Coopsette di Reggio Emilia. Due anni dopo a Vigasio e Trevenzuolo vengono approvate varianti su richiesta di Autodromo del Veneto. Risultato: l'altezza delle costruzioni passa da 12 a 35 metri.
Ma ecco il secondo mostro: Euroworld che si candida a competere con Venezia come attrattiva turistica, a giudicare dalle stime di 30 mila visitatori al giorno. L'Europa in miniatura stile Disneyland che si fa strada con la "bonifica ambientale" delle valli da pesca: paludi del Delta del Po trasformate in «divertimento acquatico», con gli immancabili campi da golf, campeggi e park. Le piatte golene del Po di Maistra come base per un campus in stile universitario.
«Tutto in palese violazione della legge regionale 394/91 che ha "consegnato" il futuro della zona al parco del Delta del Po per gli alti valori naturalistici ed ambientali del territorio. L'effetto devastante sulla flora e la fauna appare scontato: la miriade di costruzioni accessorie a Euroworld modificheranno per sempre gli equilibri idraulici del territorio, tagliando le già precarie connessioni ecologiche. L'Europa in miniatura rischia di far scomparire il sistema agricolo ancorato con i cicli del fiume. E di allontanare per sempre le specie che vivono nelle garzaie, le aree stanziali per gli animali fondamentali per la tutela del territorio» prevede Legambiente.
Ultimo ecomostro, ma ancor più devastante, è Veneto City. Di fatto, la "fiera delle fiere" che cancellerebbe ogni prospettiva per le attuali strutture espositive di Verona, Padova e Vicenza. Ma anche una sorta di "mega vetrina" della produzione a Nord Est, che metterebbe spalle al muro i commercianti all'ingrosso e gli artigiani di nicchia. Un milione e 700 mila metri quadri edificabili, a metà strada fra Venezia e Padova. Un centro servizi polifunzionale capace di attirare nella Riviera del Brenta 70 mila veicoli al giorno. Uno show room del Veneto formato megalopoli dove ora si vedono ancora i campi intorno a Dolo.
«Veneto City è grande 17 volte la Fiera di Padova. Prevede centri direzionali, quartieri generali, poli di rappresentanza di enti amministrativi e aree espositive promozionali. Ma anche l'auditorium, il museo d'arte contemporanea, farmacie, banche e sale cinema. Insomma, una vera e propria città artificiale con 40 mila persone di giorno e completamente disabitat««««a di notte» sintetizza Legambiente. Il faraonico progetto della "nuova città" del Veneto è opera dell'ingegner Luigi Endrizzi che ha già trasformato il quadrante di Padova Est nel concentrato di ipermercati intorno alla filiale dell'Ikea. Al suo fianco nell'impresa, i trevigiani Giuseppe Stefanel e Fabio Biasuzzi con altri investitori minori come Olindo Andrighetti. Veneto City è nel crocevia dell'autostrada, della ferrovia e dell'innesto del nuovo Passante. Contempla un "satellite ricettivo" con mille stanze alberghiere più la torre telematica (alta 150 metri) per governare tutto il traffico della regione.
Tre ecomostri per il Veneto che ha perso la testa. E non è un videogioco...
(pdf del Dossier Legambiente scaricabile direttamente da qui)
Finalmente sapremo a che cosa servono ruderi inutili e ingombranti come il Colosseo, l’Arco di Costantino, il tempio di Venere e Roma. Il momento della verità è arrivato, e a quel che pare dobbiamo esserne grati al Comune di Roma. Quello stupido e noioso pietrame grigiastro verrà finalmente messo a buon frutto: le finali della Champions League saranno allietate (23-27 maggio) da campi di erba sintetica a ridosso del Colosseo, l’arco di Costantino in asse con una delle porte del rettangolo verde. Intorno, stand gastronomici, grappoli di gabinetti chimici, megaschermi con pubblicità, son et lumière, e infine "un’azione di Guerrilla Marketing strategicamente realizzata da 3d’esign Communication: come accade allo stadio, così durante l’evento le persone si sentiranno parte integrante della squadra di campioni Sony", sponsor dell’evento. Finalmente un po’ di modernità, finalmente sconfitti i nostalgici che vedono nella tutela dei monumenti un dovere civile. Che importa se i duecentomila tifosi previsti, compresi gli hooligans, dovessero danneggiare quel vecchiume? Che importa se in quella zona sono vietati per legge i cartelloni pubblicitari? Che importa se il Colosseo è il monumento più visitato di Roma e forse del mondo? Che importa se negli stessi giorni nella basilica di Massenzio c’è il festival delle letterature?
Questo ennesimo episodio di barbarica incuria non è isolato. Predichiamo ogni giorno contro l’inquinamento ambientale, e ogni giorno dimentichiamo che la stessa identica battaglia va combattuta contro l’inquinamento acustico e visivo, che nei cittadini crea sempre più disagio e stress. Ci parliamo addosso sulla bellezza delle nostre città, sulla ricchezza monumentale dei nostri centri storici, sulle migliaia di anni di storia di cui ci vantiamo di essere eredi: e nelle piazze più belle, nei luoghi più ricchi di memoria e d’arte portiamo impunemente folle rumorose che ne deturpano l’immagine e ne inquinano la percezione, incuranti dei cittadini che ci vivono e lavorano, ma anche dei turisti che si aspettavano di godersele in pace.
Non riusciamo più a "vedere" i nostri palazzi e le nostre chiese, i templi e gli archi e gli anfiteatri: sempre più spesso ridotti a comodo fondale per inscenare spot pubblicitari o spettacolini d’ogni sorta. Abbiamo dimenticato facilmente gli orrori del concerto dei Pink Floyd a Piazza San Marco vent’anni fa, con danni molto più costosi degli introiti di biglietteria. Non vogliamo sentirci dire che la bellezza delle nostre città e dei nostri monumenti è fragile, va protetta con la cura amorevole con cui lo fecero le generazioni passate: preferiamo accorciarne la vita, incuranti del futuro, accecando la memoria storica per meschini guadagni immediati, senza nemmeno un pensiero ai nostri posteri. Inutile accusare sindaci, assessori, soprintendenti: se non sappiamo levare la nostra voce, siamo tutti colpevoli.
Anche in un contesto così degradato (che riguarda tutta Italia), Roma è un caso speciale. E’ il sito archeologico più vasto del mondo, e fra i più importanti; ed è insieme la capitale di una grande nazione moderna. Contiene memorie storiche uniche al mondo, per esempio l’arco di Costantino, che proclamandosi cristiano, primi fra gli imperatori, segnò una svolta epocale, la stessa per cui Roma è ancora la sede dei Papi. Impone una sfida senza pari, conservare per il mondo un patrimonio che è di tutto il mondo, e farlo con gli strumenti di un solo Paese. Titolare di questo compito straordinario dev’essere lo Stato o il Comune? C’è una sola risposta possibile: tutte le istituzioni pubbliche devono far convergere i propri sforzi, perché quanto accade a Roma è sotto gli occhi di tutto il mondo, e di tutte le generazioni future. Perciò l’argomento "il Colosseo è dello Stato, la piazza è del Comune" è spazzatura. I monumenti non sono soprammobili, esistono nel loro contesto: è il contesto che va protetto, e i monumenti con esso. A questo alto dovere il Comune è tenuto non meno dello Stato.
Da qualche mese si è svolta una strana diatriba sul commissariamento della Soprintendenza archeologica di Roma, affidato a Guido Bertolaso, che dopo mille polemiche si è da poco dimesso perché sa benissimo che il suo vero posto è in Abruzzo. Molti si sono chiesti, all’estero più che in Italia, che cosa ci stesse a fare un competentissimo esperto di protezione civile come commissario dell’archeologia di Roma. Il danno all’immagine della città, e i probabili danni ai monumenti che ci sta per ammannire la kermesse calcistica in arrivo sono, e saranno, una vera emergenza. Che fosse questa la vera ragione del commissariamento, il disastro non tellurico, ma umano a cui Bertolaso doveva porre riparo?
Continua a far discutere il progetto di riqualificazione urbana del fronte mare voluto dal comune di Salerno nell'area nei pressi della spiaggia cittadina di Santa Teresa. È stato presentato questa mattina il sito www.nocrescent.it da parte del Comitato No Crescent, comitato di liberi cittadini, costituitosi all'indomani della presentazione pubblica dell'opera da parte del sindaco Vincenzo De Luca, per impedire la costruzione di quello che lo stesso comitato definisce un «ecomostro di dimensioni mastodontiche».
Nel sito sono riportati i dati ufficiali del progetto realizzato dall'architetto catalano Riccardo Bofill e presentato dal Comune alla Soprintendenza di Salerno. «Il Crescent - riferisce il comitato - sarà realizzato su area sdemanializzata con fondi del comune che poi cederà ai privati i diritti edificatori. Sarà un mega condominio con oltre 120 abitazioni private da 100 mq ciascuna. Un emiciclo, con parcheggi interrati, alto 28,10 metri, che si estenderà nel suo complesso per ben trecento metri (pari a tre campi di calcio).
Secondo il comitato, tratti emblematici del Lungomare e del centro storico di Salerno vedranno chiudersi la visuale verso il mare e verso la Costiera. Il comitato contesta tutti i dati e le misure pubblicizzate dalla pubblica amministrazione oltre che l'iter che ha portato al silenzio assenso della Soprintendenza per l'autorizzazione paesaggistica su quell'area. «In particolare - sostiene il comitato - nel progetto definitivo non sarebbero stati forniti alla Soprintendenza i rendering, foto inserimenti obbligatori per legge, ma semplici foto del plastico voluto dall'amministrazione per presentare l'opera alla città. Anche il plastico non sarebbe conforme alle misure ufficiali». Con www.nocrescent.it il Comitato lancia anche una petizione on line per fermare la costruzione del Crescent.
Il progetto «Cerba» (Centro europeo di ricerca biomedica avanzata), il polo della scienza e della salute a Sud di Milano, ingrana la quinta. L’approvazione dell’accordo di programma, ieri, da parte della giunta regionale, apre la fase operativa per realizzare la cittadella per la scienza nel cuore del Parco Sud: un grande unico istituto di ricerca che guarda alla medicina molecolare e tanti istituti di cura come satelliti intorno (l’oncologico Ieo, il cardiologico Monzino e l’Istituto europeo di neuroscienze).
E sono i numeri (cifre a sei e a nove zeri) a fotografare la portata del progetto: un miliardo e 226 milioni di euro il costo, che sarà interamente a carico di privati; 620 mila metri quadri l’area interessata, adiacente al l’Istituto europeo di oncologia, oltre la metà della quale di parco attrezzato e aperto al pubblico; 45 mila ricoveri previsti all’anno, 800 mila visite ambulatoriali; un accesso previsto di 19 mila persone al giorno; 5 mi la operatori e quasi altrettanti posti di lavoro dall’indotto sul territorio. Infine, 500 scienziati. «Milano si candida a divenire la capitale della ricerca bio medica », ha commentato con orgoglio il sindaco Letizia Mo ratti.
«Capitale europea se non mondiale», ha aggiunto il presidente della Regione, Roberto Formigoni, ricordando che «questo è il secondo progetto che abbiamo fatto partire in un mese, dopo la Città della salute. Un progetto che avrà anche positive ricadute economiche e sociali ».
Due le fasi di realizzazione: la prima entro il 2013 punta a realizzare più del 50% delle strutture di diagnosi, cura e ricerca. La seconda fase, tra il 2013 e il 2018, prevede il completamentodelle strutture e la riorganizzazione viabilistica per raggiungere il centro. E che dire dell’emozione del professor Umberto Veronesi, che del Cerba è l’anima: «Per me questo è un sogno realizzato, dopo 10 anni di un faticoso percorso. Richiameremo 'cervelli' da tutto il mondo. L’idea del Cerba— ha spiegato — è del tutto originale. Con la decriptazione del genoma umano è stata rivoluzionata la medicina tradizionale. Ormai si è nell’era della medicina molecolare e la separazionetra malattie oncologiche, cardiovascolari e neurologiche non ha più senso. Nella medicina molecolare il sapere è in continua evoluzione e s’impongo no la centralizzazione della ricerca e la personalizzazione di diagnosi e terapie».
Con Cerba si realizza una struttura unica, dove l’hardware e il software, macchine costosissime e i migliori cervelli, lavorano senza dispersione di ri sorse. E dove è trainante una visione olistica della medicina «che cura l’uomo non la malattia ». Sogno che non si sarebbe realizzato, ha precisato Formigoni, senza quei metri quadri di verde messi a disposizione da Salvatore Ligresti, che — come recita l’accordo di programma — non consegnerà semplicemente degli ettari di Parco agricolo alla Provincia ma ne farà «un parco attrezzato, come opera di compensazione e riqualificazione ambientale», aperto al pubblico, sobbarcandosi anche i costi per la realizzazione (18 milioni di euro) e la gestione per 30 anni (25 milioni di euro) dello stesso. Infine, onore al merito delle istituzioni, con Regione e Comune, la Provincia: «Chi ha progettato il Cerba (l’architetto Stefano Boeri, ndr) —ha spiegato l’assessore all’ambiente di Palazzo Isimbardi, Bruna Brembilla — ha pensato a cosa significa inserire una simile realtà in un terreno fragile e prezioso come questo Parco».
postilla
Il dispiegamento ideologico dell’articolo è tanto militarmente compatto quanto prevedibile. Dalla descrizione dei vantaggi del progetto per l’umanità tutta (vantaggi che, come implicitamente si suggerisce, sarebbero stati impossibili in posti diversi e con meno metri cubi), all’assicurazione che quello sarà, come dice già il titolo, un “maxiparco”. Peccato che il maxiparco sia esattamente la cosa sopra la quale verranno a posarsi i contenitori grandi a sufficienza per ospitare quei ricercatori e aspiranti ricoverati che accorrono da tutto il mondo. La bella operazione di landscaping circostante, ora decantata, è quanto la proprietà (Ligresti, dicono) ha sinora impedito in tutta l’area, boicottando anche le aziende agricole che volevano fare il proprio mestiere di ordinaria manutenzione del territorio (lo hanno raccontato inchieste della stampa, non le leggende metropolitane). Dulcis in fundo, l’assessora provinciale non perde l’occasione per rifilarci l’ennesima interpretazione di urbanistica partecipata d’élite, ovvero quella a cui partecipano due o tre persone al massimo. Scelte fra le più qualificate, naturalmente. Per verificare che il Cerba con tutti i suoi metri cubi sia inserito al meglio nell’ambiente, non servono quei farraginosi e obsoleti strumenti della tradizione stalinista, come scelte localizzative discusse, valutazione di alternative, inserimento in uno schema di area vasta: macché. Basta il fatto che il sensibile architetto, ci assicurano, “ha pensato”. Ah beh, allora siamo a posto. (f.b.)
QUI una sommaria descrizione del progetto e qualche link
C’è una città abbandonata dove nessuno abita, lavora, vive. È la Milano vuota, fatta di 30 mila case sfitte, di interi palazzi di uffici disabitati, di quasi un centinaio di stabili deserti, con un milione di metri quadrati di scali ferroviari dismessi e 685mila metri quadrati di aree ex industriali non riconvertite. Una Milano da ripensare e da riutilizzare per coprire la fame di spazi e case senza consumare ancora territorio con nuove costruzioni. Anche con incentivi fiscali per favorire l’affitto e cambi di destinazione d’uso più facili e fluidi, dicono gli architetti Boeri e Battisti.
Una città vuota, con circa 30mila appartamenti sfitti e almeno un centinaio di interi edifici abbandonati. Una città che occupa suolo prezioso, ma che nessuno abita e dove nessuna attività fiorisce. Un contenitore senza alcun contenuto. Migliaia di metri quadrati di ex fabbriche in disuso, appartamenti senza locatari. È la Milano abbandonata. Da ripensare. Per tanti architetti, come Stefano Boeri, anche un patrimonio sprecato su cui bisogna intervenire nella città che ha fame di case.
In città sono circa un milione i metri quadrati occupati da scali merci ferroviari da riconvertire - Farini o Romana, per citarne solo un paio - mentre altri 685mila sono coperti da aree industriali dismesse e non rigenerate. E ancora: su 677mila appartamenti in città, il 4 per cento non è abitato. Che fa circa 30mila case abitabili ma sfitte (anche se qualcuno stima che siano anche di più). E dei 47mila edifici privati censiti, alcuni adibiti ad uffici sono interamente non affittati. Mentre il Comune ha già stilato una lista di edifici completamente vuoti e in disuso, sia pubblici che privati, grandi e piccoli: sono 88. Ex scuole - in piazzale Abbiategrasso, via Baroni, Narni, Spadini - ex caserme (come quella, immensa, di viale Forlanini al 37). Ma ci sono pure l’ex galoppatoio di via Fetonte, l’ex mercato del pesce di via Sammartini, l’area ex Martinitt di via Pitteri, piuttosto che le cascine di via Anassagora, Canelli, Molinetto di Lorenteggio. Un patrimonio enorme, lasciato lì a deperire, con la fame di case e spazi di cui soffre Milano.
«Gli uffici sfitti in città sono pari a 30 grattacieli Pirelli vuoti - ripete l’architetto Stefano Boeri - . Lo sfitto nel residenziale è dovuto alla sfiducia e alla paura, ma se la cosa è gestita in maniera intelligente, con agenzie di immobiliare sociale in cui si fanno contratti che danno garanzie ai proprietari, si può sbloccare. È successo a Barcellona dove con questa formula si sono rimessi in campo 20mila appartamenti. A Torino, 1800. Invece per gli uffici c’è un eccesso di offerta rispetto alla domanda. Bisogna intervenire rendendo più fluida la destinazione d’uso, ora troppo rigida, per favorire i cambi di destinazione e arrivare a forme di residenzialità mista in cui convivano il piccolo artigiano, il laboratorio, il loft, l’abitazione. Così era, una volta, il tessuto di Milano». Ma con tutto quel che c’è di costruito e non utilizzato, ha senso costruire ancora? «Per me non ha senso costruire fuori dalla città, il modello di sviluppo di Milano sta dentro il suo perimetro, senza consumare suolo - conclude Boeri - . E l’Expo dovrebbe favorire l’utilizzo dell’edilizia esistente».
Per l’architetto Emilio Battisti «i numeri di questo patrimonio non utilizzato sono enormi. Se fosse valorizzato potrebbe contribuire a calmierare il mercato degli affitti troppo alti, una delle cause di abbandono della città. Bisognerebbe tassare pesantemente chi tiene sfitto o, per contro, offrire incentivi fiscali per affittare». Anche per Battisti «è assurdo di fronte ad un patrimonio di questa entità pensare di costruire ancora. L’Expo, per esempio, dovrebbe essere portata in città anche per attirare i giovani, invece di edificare insensati padiglioni a Rho-Pero». «Il fabbisogno di alloggi è di 70mila unità a Milano - aggiunge Stefano Chiappelli, segretario del Sunia - ma anche noi ci rendiamo conto che non si può cementificare la città. Bisogna utilizzare il patrimonio esistente, tutto quello che è a disposizione deve essere recuperato e usato. Ed è necessario mettere al centro di tutto l’affitto, con politiche fiscali premianti. La cedolare secca del 20 per cento sul reddito derivante da locazione, per esempio, e la possibilità, per l’inquilino, di detrarre dalle tasse una parte dell’affitto».
Per il Foro e il Palatino l’assessore all’urbanistica del Comune di Roma, già aspirante alla carica di commissario per il patrimonio archeologico della città, ha rivelato nel corso di un’intervista quello che sarebbe stato il suo programma: «un piano di interventi organici, perché oggi, al Foro, non ci sono neppure le indicazioni per individuare i monumenti. Lì la gente va a fare una passeggiata, le coppiette si baciano, si siedono su un sasso e non sanno neppure su che cosa si stanno sedendo».
Al di là di ogni banalità e semplificazione, che si possono pur concedere all’intervistato, viene riproposto il luogo comune del Foro privo di indicazioni idonee a facilitare la comprensione delle rovine. I monumenti recano tuttavia da molti anni targhe che ne consentono l’identificazione per dare modo al visitatore di leggerne la descrizione in una guida archeologica di sua scelta, con qualunque livello d’approfondimento e in qualsiasi lingua. Per illustrare il significato d’ogni rilevante segno della storia nel Foro Romano sarebbe necessario installare una selva di tabelloni scritti in più lingue e dotati di disegni, con il risultato di svilire inutilmente il fascino dei luoghi. Mentre tali informazioni sono facilmente reperibili in guide a stampa, l’aura infranta di un paesaggio amato e ricercato così com’è da tanti visitatori di tutto il mondo non sarebbe in alcuna maniera recuperabile.
Del resto la superficialità sembra essere di norma nelle vicende che stanno affliggendo il patrimonio archeologico di Roma. Sono state sbrigativamente adottate dal Governo, con il beneplacito della Regione, misure straordinarie previste dalla nostra legislazione per far fronte a gravi calamità nazionali. È stato necessario, per ottenere questo, rappresentare un’immagine alterata della realtà, e si è così reso ridicolo agli occhi del mondo l’impegno posto dall’Italia nella cura delle antichità di questa città. Si insiste infatti nel sostenere che il Palatino sia gravemente afflitto da problemi di stabilità, che i suoi monumenti principali, come il palazzo dei Cesari, siano a rischio di collasso, e che questo sarebbe dimostrato dal fatto che non sono più visitabili vaste aree una volta aperte al pubblico.
Ma le cose non stanno proprio così. Parte del Palatino è chiusa perché il personale di custodia non è sufficiente per il controllo dell’intera zona monumentale, la quale ha una superficie di 36 ettari. Si tratta quindi di una precisa, e antica, responsabilità governativa. In qualche caso si sono avuti distacchi di pietrisco o di frammenti di malta che, in attesa dei consolidamenti, rendono impraticabile qualche monumento senza tuttavia impedirne la piena osservazione dai percorsi di visita, che sono sicuri e agibili. Tale situazione si riscontra soprattutto per le arcate severiane, all’estremità sud-occidentale del Palatino. L’intera area palatina potrebbe essere resa accessibile facilmente e con poca spesa. Sarebbe però necessario desistere dall´incomprensibile criterio di lesinare le assunzioni del personale di custodia in un settore strategico per l´economia nazionale. La cosa è poi particolarmente insensata e miope nei riguardi di Roma.
Gravi rischi di crolli si ebbero in passato in seguito a dissesti che si erano manifestati nella domus Tiberiana sul fronte del Palatino verso il Foro e sul versante di S. Teodoro. Vi si pose riparo, con annosi, consistenti ma accorti lavori eseguiti nel rispetto dei caratteri monumentali. Non vi sono al momento preoccupazioni analoghe per le strutture prospicienti il Circo Massimo. Interventi di consolidamento restano tuttavia da fare sull’angolo nord occidentale, presso il tempio della Magna Mater.
Attualmente non sussistono per il Palatino problemi tali che possano giustificare l’adozione di procedure amministrative concepite per la protezione civile. La cura dei monumenti romani comporta cospicue esigenze di spesa per la manutenzione, per i restauri e per le opere di conservazione, come si è sempre fatto con le necessarie cautele. A queste esigenze si può oggi sopperire rendendo disponibili gli ingenti introiti che a Roma i monumenti stessi, e per primo il Colosseo, procurano con i biglietti d’ingresso e con altre forme di provento. L’elusione delle norme di trasparenza negli appalti, invocata per attuare interventi immediati in nome di un’inesistente emergenza, rischia non solo di favorire comportamenti discutibili, ma anche di provocare danni ai monumenti e ai suoli archeologici con opere ingiustificate e costose. Una fitta serie di carotaggi incautamente eseguiti alle falde del Palatino, verso il Circo Massimo, ha devastato la volta intatta e splendidamente decorata di un ninfeo già noto dal Rinascimento, ma di cui si era persa l’ubicazione esatta. Per vanità di gloria, risultata effimera e fallace, e sorvolando sui danni, il ninfeo è stato identificato con il Lupercale in una conferenza stampa tenuta il 20 novembre 2007 dal precedente ministro dei beni culturali.
Altre notizie non vere, riprese dalla stampa di tutto il mondo, riguardano presunti danni causati dal terremoto di questi giorni a una delle arcate delle Terme di Caracalla. Si tratta in realtà di una vecchia lesione consolidata definitivamente con un restauro di oltre mezzo secolo fa. La lesione sanata non è in alcun rapporto con i danni che sono stati accertati da qualche tempo e che sono dovuti alla mancanza di ordinarie manutenzioni, quali la caduta di frammenti di mattoni e di pietrisco dalla sommità di alcuni muri. Le Terme di Caracalla, come il Palatino e gli altri monumenti antichi di Roma, richiedono continuità di cure, che evidentemente in qualche caso sono venute a mancare. Non è bello, però, imputare questi danni ad eventi che altrove hanno procurato vere tragedie.
LASCIA stupiti il fervore autostradale della sinistra milanese. Il centrodestra continua la sua marcia proponendo e promuovendo opere infrastrutturali come uno schiacciasassi, convinto che l'opinione pubblica lo seguirà ciecamente. COME un ingenuo torello segue il drappo rosso: ne conosciamo la sorte, lui no. Difficile farlo ragionare e lorsignori lo sanno: non per niente il toro è simbolo folle della Borsa in rialzo. Convincere dunque il torello che si sta per infilzarlo è un compito troppo arduo per questa sinistra ondivaga. Che delle strade, tutte le strade, ci si debba occupare è vero com’ è altrettanto vero che un’ amministrazione incapace di progetti di viabilità per interi bacini si riduce a pensare alle autostrade come unico mezzo per snellire il traffico che deve principalmente alla sua lentezza il carico d’ inquinamento che dissemina lungo i suoi percorsi. Le autostrade sono un ripiego in un’ area già fortemente infrastrutturata con viabilità ordinaria. Ripiego ma anche affari e questa è la molla che fa pendere la bilancia. Autostrade dunque, sembra ineluttabile, ma come? Intanto dovrebbero essere accompagnate da una norma esattamente contraria a quella varata dalla Regione Lombardia con la legge obiettivo n° 226 del 2008 che dà mano libera all’ edificazione lungo i bordi autostradali. In secondo luogo, con questo provvedimento si sancisce anche ogni rinuncia a una pianificazione del territorio lasciando andare verso uno sbrodolamento edilizio. Non si vuol certo dire di rinunciare a finanziare le infrastrutture, le autostrade in particolare, con il recupero di oneri di urbanizzazione delle aree rese edificabili e divenute di pregio per la presenza di queste nuove infrastrutture. Le piattaforme intermodali, i centri commerciali, le stazioni di servizio, gli alberghi servono, inutile dirlo, ma servono ancora di più se non devastano a caso il Paese inseguendo solo i margini di profitto di chi ha già alcune aree o se le sta procurando. Non ne abbiamo avuto abbastanza di finanziarizzazioni? Vogliamo finanziarizzare anche tutto il territorio con la politica dei pedaggi? Perché di questo si tratta alla fine: fare investimenti privati nel settore dei monopoli naturali - le autostrade- garantendo redditi, spesso indebiti, mancando una vera regolazione. Un’ autostrada diventa indispensabile per un utente che non ha alternative rispetto a una viabilità ordinaria su strade dissestate e pericolose. Un continuo conflitto d’ interesse tra pubblico e privato: un pubblico curiosamente inattivo a favore di un privato dinamico e berlusconianamente provvidenziale. Brutta empasse per la sinistra. Ma siamo sicuri che inseguire il drappo rosso del toreador porti voti? Se lo si vuol fare, almeno lo si faccia con argomenti seri, dichiarando il gioco e sapendo di correre il rischio dei convertiti dell’ ultimo minuto: un’ irridente accoglienza
Il responsabile per l’urbanistica del Comune di Monza, nonché sottosegretario alle telecomunicazioni, onorevole Paolo Romani, ha deciso di puntare sulla partecipazione dei cittadini alla definizione delle grandi scelte che attendono il neocapoluogo brianzolo.
Dopo aver a suo tempo dichiarato di aver accettato l’incarico di assessore “per risolvere un problema che è una spina nel fianco della famiglia Berlusconi”, è passato dalle parole ai fatti, risolvendo una vicenda che si trascina dal 1980: l’edificazione di un’area di 500.000 mq agricoli in località Cascinazza.
È da quell’anno infatti che i Berlusconi, entrati in possesso dei terreni, tentano di costruirvi sopra una sessantina di edifici residenziali, una sorta di Milano 4, essendo nel Dna di famiglia operare nell’esclusivo interesse del bene pubblico.
Finalmente l’intervento risolutivo del neoassessore ha sbloccato l’iter, organizzando, per la modica cifra di 40 milioni, la vendita da parte di Paolo Berlusconi all’immobiliare Brioschi della famiglia Cabassi. Presentando una variante generale al PGT, ha eliminato il vincolo di assoluta inedificabilità, destinando l’area a un “primo utilizzo” per l’Expo 2015, cui seguirà la creazione di una cittadella del divertimento e dei servizi con ingenti cubature.
Inoltre, dimostrando notevole solerzia, non ha mancato di prevedere un “indennizzo” per i precedenti proprietari, cui i Cabassi corrisponderanno in seconda battuta un’integrazione pari al doppio o al triplo della cifra iniziale, quando dopo il 2015 il programma di “valorizzazione” sarà portato a termine.
Ed ecco che la tanto vituperata distanza fra cittadini e politici può essere facilmente superata: basta avere un assessore “partecipe” che non perde il contatto con la realtà, fondatore di Telelivorno e Telelombardia, avvocato di Paolo, ministro di Silvio.
Quando si dice “urbanistica partecipata”.
Nota: QUI un breve articolo con galleria fotografica sulla Cascinazza; nella stessa cartella altri testi raccontano l'intricata quanto miserabile vicenda (f.b.)
Alla chetichella, sono cominciate le procedure di espropriazione delle aree su cui passerà la contestata superstrada che connetterà la Statale 11 e la Tangenziale Ovest, completando l’anello di collegamento con Malpensa. L’Anas ha approvato il progetto definitivo un mese e mezzo fa e si è già portato avanti, malgrado l’ultimo semaforo verde debba essere acceso dal Cipe, una volta raccolti e vagliati i pareri di tutti enti interessati. Con una notifica a mezzo stampa, il 4 marzo scorso, l’Anas ha infatti dato conto dell’inizio dell’iter di espropriazione dei terreni. Tutti agricoli, dato che la superstrada attraversa il Parco Sud e il Parco del Ticino, compresa una "riserva Mab" (Man and biosphere), come l’Unesco definisce le zone di particolare pregio ambientale. Una qualifica, il Mab, che in Italia l’Unesco riserva solo a sei siti.
La notifica a mezzo stampa dell’espropriazione sostituisce quella individuale. La legge Obiettivo lo consente. «Io l’ho saputo pochi giorni fa grazie a un’amica del comitato No Tangenziale - spiega Renata Lovati di cascina Isola Maria ad Albairate - e poiché i proprietari hanno 60 giorni per presentare le proprie osservazioni, mi domando come faranno ad adempiere centinaia di persone interessate».
La superstrada, divisa in tre tratte, sarà lunga una trentina di km e costerà 420 milioni, dei quali solo 281 sono già finanziati. Insiste Renata Lovati: «L’impatto ambientale sul Magentino sarà enorme, con svincoli sopraelevati, viadotti e ponti. Penso a quello che si costruirà sul Naviglio di Leonardo a Cascina Bruciata. Un ponte che toglierà la visuale della Darsena e di Abbiategrasso là dove si spende in ristrutturazioni dei palazzi storici del Naviglio».
Oltre all’ambiente e alla storia, c’è l’agricoltura. La richiesta di prodotti biologici e a filiera corta è aumentata del 92% negli ultimi 5 anni, secondo i dati di Bio Bank, la banca dati del mondo eco e bio. Quanto alle necessità di trasporto, la soluzione del comitato e di alcuni Comuni è il raddoppio della ferrovia Milano-Mortara. I lavori sono in corso.
Il sindaco di Cassinetta "Faremo ricorso al Tar"
Se quel progetto passasse distruggerebbe un’agricoltura emergente
Domenico Finiguerra, sindaco di centrosinistra di Cassinetta di Lugagnano, vi aspettavate l’avvio della procedura di espropriazione a mezzo stampa?
«La legge Obiettivo permette questa procedura poco trasparente. Stiamo preparando i manifesti per avvertire la popolazione e chiameremo tutti i contadini».
È rimasto meno di un mese per presentare le osservazioni.
«La scadenza è il 4 maggio. Terremo un’assemblea pubblica per decidere come procedere, probabilmente il 28 aprile».
Come Comune prenderete iniziative contro la superstrada?
«Un nuovo ricorso al Tar, non appena il progetto sarà approvato dal Cipe. L’opera è sproporzionata».
Voi siete gli avversari più irriducibili della superstrada.
«Cassinetta, Albairate e Cisliano sono contrari da sempre, ma anche Cusago e Robecco ora hanno delle perplessità, visto il progetto definitivo dell’Anas. Ci sono raccordi e svincoli mostruosi, cavalcavia da 800 metri. Sarebbe distrutta un’agricoltura emergente, legata al biologico e alla filiera corta».
postilla
Come sempre si è colti da inevitabile stanchezza, di fronte all’ineluttabile banalizzazione che la stampa non specializzato di solito fa (senza nessuna colpa particolare, va detto) di problemi assai più gravi e complessi. Si legge di una superstrada, e dell’opposizione praticamente fisiologica di uno sparuto manipolo di simpatici campagnoli, ovviamente attenti a campi, cascine, natura e qualità locale della vita. E invece il piccolo tappo dell’opposizione di Domenico Finiguerra e Renata Lovati (nomi che non a caso poi compaiono spesso in altri più ampi contesti di dibattito) va inquadrato, un po’ come il villaggio di Asterix e Obelix, in un problema MOLTO più vasto: che dalla regione metropolitana milanese in senso allargato, si estende poi per questioni di metodo e merito alla “filosofia dello sviluppo” urbano e regionale del nostro paese. I “gallici” Finiguerra e Lovati, così come i loro più famosi colleghi a fumetti e i meno famosi ambientalisti e amministratori che li affiancano in un’idea diversa di sviluppo, non esprimono semplicemente avversione per qualche svincolo che deturpa il paesaggio agricolo, o per cantieri e opere che taglieranno a fettine le grandi campiture dell’insediamento tradizionale padano ai confini fra la (ex?) greenbelt milanese e la valle del Ticino. Hanno solo capito che i sedicenti oppositori strenui della pianificazione territoriale al governo regionale e nazionale un “piano” ce l’hanno, chiarissimo: trasformare la fascia di interposizione a spazi aperti verso il corso del Po in un equivalente insediativo della fascia pedemontana, e facendolo sperimentare nel nostro paese in forma massiccia tutte le idee di sprawl autodipendente che ancora ci siamo risparmiati.
Detto in altre parole e concludendo: l’attraversamento del piccolo territorio locale interessato dalla nuova superstrada altro non è che la demolizione di uno degli ultimi ostacoli al dilagare della Zia T.O.M. del cui braccio asfaltato settentrionale si sono da poco definiti tutti i particolari con l’avvio operativo della cosiddetta Pedemontana, riverniciata per il momento di verde fra opere di compatibilizzazione e presidente gradito al centrosinistra. Poi si esporterà altrove il know-how (f.b.)
Devo confessare che non mi scandalizza la nomina di un commissario straordinario per l'area archeologica di Roma e di Ostia antica.
Non c'è dubbio che esista, qui, un problema reale di coordinamento ed efficienza: i Fori sono divisi tra competenze nazionali e comunali, gli appalti sottoposti a leggi macchinose, i restauri eseguiti in tempi biblici. E quando occorrono procedure rapide e decisioni centralizzate, non si può negare che Guido Bertolaso abbia dimostrato grande capacità, anche nella cura di monumenti illustri come la Cattedrale di Noto.
Ma è anche evidente che la nomina a commissario del sottosegretario alla Protezione civile, con ampi poteri di deroga alla normativa vigente, non può essere giustificata dall'emergenza: il patrimonio archeologico romano, benché trascurato, non presenta drammatici problemi di sicurezza e le recenti scosse sismiche lo hanno dimostrato.
Credo che la singolare decisione si spieghi, in fondo, alla luce della ventata di «valorizzazioni» di cui i nostri monumenti maggiori sembrano avere improvvisamente bisogno. È questo il nocciolo del problema. E non riguarda solo i Fori od Ostia antica, ma l'intero patrimonio storico.
Si sta consolidando l'idea di una pericolosa distinzione tra tutela e valorizzazione, tra beni culturali «ordinari» ai quali si possono dedicare attenzioni burocratiche e tempi lunghi, e «nobili», che possono rendere, per i quali le normali leggi non valgono.
Alle soprintendenze, dunque, sono affidati la cura scientifica ed i restauri, ma per la gestione dei monumenti più spettacolari ci vogliono attenzioni e poteri speciali. Una deriva pericolosa, che rischia di minare le basi stesse di una cultura diffusa del patrimonio storico unica, è bene ricordarlo, in Europa. Non c'è dubbio che occorra una svolta radicale. Ma, piuttosto che commissariamenti, serve una ristrutturazione profonda dell'intera gestione dei beni culturali, evitare sovrapposizioni e frammentazioni, snellire le normative. Per il bene di tutti i nostri monumenti, senza distinzioni.
MILANO — La data di apertura al traffico, 2015, la fa da protagonista all’ultimo piano del grattacielo Pirelli, impressa in verde sul cartellone che è il piatto forte della scenografia di presentazione: viene alla ribalta il progetto definitivo della Pedemontana — 87 chilometri tra autostrada e tangenziali «rispettose dell’ambiente» da Cassano Magnago a Brembate at traverso 5 province e 85 comuni — la «strada per la città infinita» che aprirà i suoi primi cantieri entro il marzo 2010 per il tratto Cassano-Lomazzo. Della Pedemontana si parla dagli Anni Sessanta: e infatti, nel 1984, ilCorriereannunciava che «il collega mento Varese-Como-Bergamo,uno dei vecchi sogni del la viabilità lombarda, finalmente è risolto». Allora 750 miliardi di lire rappresenta vano l’80% dei finanziamenti, ora la spesa sarà di 4,7 miliardi di euro, suddivisi tra il progetto di finanziamenti privati in cambio di concessioni (3,5 miliardi) e fondi pubblici.
Nel salotto buono del Pirellone, per la festa alla sospirata autostrada (che, tra le opere di mitigazione prevede 90 chilometri di percorso ciclabile e pedonale dalla provincia di Varese a quella di Bergamo) si sono riuniti tutti i protagonisti dei capitoli più recenti della storia di questo progetto: il presidente della Regione Roberto Formigoni,l'assessore alle Infrastrutture Raffaele Cattaneo, il presi dente della Commissione Lavori pubblici del Senato Luigi Grillo, i presidenti delle Province di Milano, Filippo Penati, e di Como, Leonardo Carioni, e il presidente di Pedemontana, Fabio Terragni, oltre ai progettisti che hannolavorato a tempo di record (dal giugno al dicembre 2008) ai 15.700 elaborati del la versione definitiva.
Otto-nove mila posti di lavoro per cinque anni («sarà il più grande cantiere italiano anche rispetto alle opere destinate all’Expo» ha detto Fabio Terragni, presidente diPedemontana Lombarda spa); 62 mila veicoli al giorno in viaggio più veloci («abbiamo evitato che in Lombardia nei prossimi anni si arri vi al traffico marmellata, risparmiando 45 milioni di ore all’anno altrimenti passa te in coda, e diminuendo di oltre 380 mila Kg/anno il carico di inquinanti» ha sottolineato Formigoni) sono alcuni dei numeri della Pedemontana. A far accelerare il pro getto due elementi: l’accordo di programma, con «centinaia di incontri» per il confronto fra gli enti coinvolti, e la nascita della Cal — Concessioni Autostradali Lombarde —, società mista Anas-Regione «che ha accorciato gli iter procedurali». «Un metodo fondamentale per il nuovo sistema viabilistico lombardo fondato principalmente sul le tre grandi opere Brebemi, Tem e Pedemontana. E tutte e tre saranno pronte per il 2014» ha assicurato Formigoni.
Postilla
Significativo, che l’annuncio dell’apertura dei cantieri della Pedemontana avvenga parallelamente alla dismissione del Piano Territoriale della Provincia di Milano, ovvero di uno dei rari e ultimi tentativi di opposizione al modello di crescita/sprawl lombardo. Di cui queste autostrade (con buona pace delle pur ottime opere di mitigazione studiate da Arturo Lanzani e Antonio Longo) sono la struttura portante, nel classico e sperimentato modello internazionale che attraverso le grandi arterie si alimenta, riproduce ed estende. Pur nelle limitate possibilità concesse dalla legislazione lombarda alla pianificazione di area vasta, a tutto “vantaggio” delle scelte comunali, il PTP milanese tentava, se non altro, di arginare gli effetti più deleteri dell’insediamento diffuso “auto-oriented” , imponendo proprio nelle aree di interposizione fra la fascia pedemontana interessata dall’autostrada e il nucleo urbanizzato centrale compatto attorno al capoluogo, un minimo di reti aperte ed ecologiche. La trasversalità dell’entusiasmo incondizionato (almeno come raccontata dalla stampa) alla Grande Opera, conferma la rinuncia anche da parte del centrosinistra ad elaborare orientamenti diversi in materia di ambiente e territorio. Sperando in qualche smentita. (f.b.)
Si va a Tuvixeddu «come Leonida a difendere il passo delle Termopili». L’invito e rivolto alle migliaia di cagliaritani che non vorrebbero vedere la necropoli punico-romana affogare nel cemento. Di certo domenica mattina ci saranno quasi tutte le associazioni culturali ed ecologiste che da anni si battono contro i 260 mila metri cubi di edifici targati Nuova Iniziative Coimpresa. «Noi non ci arrendiamo - hanno detto ieri Vincenzo Tiana di Legambiente, Maria Paola Morittu e Fanny Cao di Italia Nostra, Luca Pinna del Wwf - e finchè esiste la possibilità di fermare quel progetto, continueremo a lottare». Come Leonida, appunto. Solo che al posto di archi, frecce e scudi i ‘nemici’ hanno usato con grande perizia le norme della giustizia amministrativa, mandando all’aria ogni tentativo di impedire per via legale l’edificazione del colle. Difficile spuntarla quando «la stessa amministrazione comunale si è schierata in giudizio con il costruttore». Un caso di autolesionismo consapevole, come se i mattoni privati rendessero più di un bene archeologico inestimabile come quello del colle punico.
Ancora più difficile quando persino l’Università, istituzione che in genere sta dalla parte della cultura, anzichè perorare la causa della conservazione «ha preso la sua parte di volumetrie». Tiana - che ha ospitato nella sede di Legambiente una conferenza stampa - ha fatto una rapida cronistoria del caso Tuvixeddu «aperto quasi vent’anni fa e arrivato oggi a una fase molto critica». Forse la fase finale, perchè dopo l’ininterrotta serie di sconfitte giudiziarie Renato Soru, il nemico pubblico numero uno di Coimpresa, ha dovuto lasciare la presidenza della Regione a Ugo Cappellacci: «E abbiamo visto tutti le fotografie del nuovo governatore - ha scherzato Tiana - che brindava alla vittoria delle elezioni insieme a Gualtiero Cualbu...». Resta qualche speranza? «Per noi sì - ha insistito Fanny Cao - perchè negli ultimi anni Tuvixeddu da luogo dimenticato che era, ha raccolto l’interesse della cultura e della stampa nazionale, ne ha scritto il Times di Londra, abbiamo visto servizi televisivi nelle maggiori trasmissioni d’informazione. C’è una nuova sensibilità per la tutela di questo sito fondamentale, possiamo ancora farcela». Se il ministro dei beni culturali Sandro Bondi se n’è lavato le mani («mettetevi d’accordo fra di voi») e l’aria politica attorno al colle vira al grigio calcestruzzo, l’ultima offensiva anti-Coimpresa resta dunque affidata alle associazioni, che nel frattempo hanno reclutato anche il Global Social Forum di Serafino Canepa («quel progetto è un’infamia, non è un problema solo nostro ma di tutto il mondo...») e gli studenti universitari del Movimento Unitario: «Questa battaglia - ha detto Giorgia Loi - non è di destra nè di sinistra, è una battaglia per la cultura».
Domenica ci saranno anche loro. Spunta l’idea, ironica ma non troppo, di un prossimo libro nero: «Potremmo scriverci quanto è accaduto negli anni attorno al colle di Tuvixeddu - sorride Tiana - coi nomi e i cognomi dei protagonisti. Così, a futura memoria». Magari un libro da allegare al fascicolo che la Procura della Repubblica sta per chiudere sulle vicende collegate al grande progetto di edificazione, dove nomi e cognomi si annunciano eccellenti. Ma torniamo alla manifestazione di domenica prossima «una catena umana per Tuvixeddu»: la richiesta rivolta alle istituzioni è di allargare i vincoli paesaggistici sull’area archeologica, con la revisione profonda del progetto Coimpresa. L’appuntamento è alle 10 sul colle, nel prolungamento di via Bainsizza. La conclusione è prevista per mezzogiorno davanti alla Grotta della Vipera in vico I Sant’Avendrace dopo un’esplorazione dell’area. Il passo successivo un contatto con Cappellacci: «Chiederemo al presidente della Regione di venire con noi a fare un sopralluogo all’interno della necropoli di Tuvixeddu - ha annunciato Tiana - vogliamo mostrargli nel dettaglio il vero, straordinario valore di tutta l’area perchè venga conservata così com’è».
COMUNICATO STAMPA
"Serve un grande abbraccio simbolico per Tuvixeddu"
Domenica 5 Aprile: UNA CATENA UMANA PER TUVIXEDDU
Dal 1991 le associazioni ambientaliste e culturali lottano perché vengano garantite adeguate misure di difesa per un sito archeologico di portata mondiale come la Necropoli di Tuvixeddu. Grazie al loro contributo, in questi 18 anni, la Coimpresa ha dovuto dimezzare le cubature del suo progetto ed è stato istituito, solo nel 1997, un vincolo paesaggistico. Aspetto paesaggistico rafforzato dall’inserimento dell’area nel PPR nel 2006. Sono 431 le nuove tombe scoperte negli ultimi 10 anni. Numeri che testimoniano l’urgenza di una tutela integrale del sito in tutti i sui 50 ettari.
"Cagliari e la Sardegna devono far sentire la loro voce per la salvezza della necropoli e del colle di Tuvixeddu". Con queste parole le associazioni ambientaliste Legambiente, Italia Nostra, Cagliari Social Forum, WWF e gli Studenti universitari di Cagliari invitano alla più grande partecipazione possibile i cittadini che hanno a cuore le sorti del Colle di Tuvixeddu e promuovono la manifestazione "UNA CATENA UMANA PER TUVIXEDDU" programmata per DOMENICA 5 APRILE alle ore 10:00 sulla sommità del colle. Esiste una parte della città che non si arrende a un destino segnato per il colle e il sito archeologico racchiuso in esso, che nonostante la serie di ricorsi persi solo per vizi procedurali, è convinta di poter ancora garantire un futuro di tutela per la più grande necropoli punico-romana del Mediterraneo. "La città domenica deve stringere il colle in un grande abbraccio collettivo,.
Le associazioni hanno già chiesto un incontro al presidente della Regione e sollecciteranno anche il Comune di Cagliari . "Il Comune resta il grande assente in tutti questi anni e ha sempre tenuto una posizione che stride con le velleità che questa città ha di candidarsi a "Capitale del Mediterraneo". Anche gli studenti universitari cagliaritani daranno il loro contributo con la mobilitazione per Domenica dei giovani da tutte le facoltà della città .
Programma Domenica 5 aprile 2009
ORE 10 – inizio della catena umana dalla sommità del colle (prolungamento Via Bainsizza);
ORE 11 – concentramento in Via Is Maglias (parcheggio facoltà di Ingegneria);
ORE 12 - conclusione in Viale S. Avendrace Vico I (Grotta della Vipera) dove sono previsti gli interventi di esponenti del mondo culturale come Giovanni Lilliu, Roberto Coroneo, Enrico Corti, Alfonso Stiglitz,Giorgio Todde i consiglieri regionali, Claudia Zuncheddu, Luciano Uras, Massimo Zedda, Chicco Porcu, i parlamentari Amalia Schirru e Francesco Sanna, in rappresentanza dell’Osservatorio parlamentare di Legambiente per Tuvixeddu, il Presidente Nazionale di Legambiente Vittorio Cogliatti Dezza.
Italia Nostra Sardegna - Legambiente Sardegna - Social Forum Cagliari
Studenti Universitari di Cagliari - WWF Sardegna
Per info. Tel/fax 070.659740 salegambiente@tiscali.it
L’Amministrazione Comunale di Firenze, dopo le recenti vicende giudiziarie che hanno visto coinvolti alcuni suoi esponenti, a sole poche settimane dal termine del suo mandato, ha in programma l’approvazione del Piano Strutturale, il nuovo piano urbanistico della città.
Questo è stato oggetto di numerose critiche e osservazioni nel metodo e nel merito.
Nel metodo, perché l’Amministrazione Comunale non ha tenuto in alcun conto le precise proposte avanzate dai cittadini nelle assemblee in cui doveva sostanziarsi il processo di partecipazione attivato dal Comune stesso, né, se non marginalmente, di qualsiasi altro contributo critico pervenuto.
Nel merito, perché il piano non riconosce il carattere internazionale e il fondamentale ruolo culturale di Firenze, ma tratta il governo della città esclusivamente in termini di mobilità e di edificabilità; e, anche in questi limiti, con scelte sbagliate, contraddittorie, in ultima analisi preoccupate solamente di assicurare ai costruttori e alla proprietà fondiaria le massime agevolazioni possibili.
Con l’ultimo colpo di coda, quello delle due “varianti” dello Stadio e dell’edificabilità delle aree ferroviarie dismesse (e con la distruzione / riedificazione speculativa del teatro comunale del Maggio Fiorentino) si supera ogni immaginazione ed ogni pudore. In questo modo si rende sempre più difficile il riequilibrio ecologico di una città asfittica e inquinata, frantumata in ogni sua struttura ambientale e per questo ormai insalubre, sgradevole, e costosissima da abitare a da usare. E si rinuncia ad aree preziose per la riorganizzazione della mobilità, senza che si sia provveduto ad un piano complessivo ed organico.
Svendere queste aree strategiche ci pare un vero e proprio scempio nei confronti della città e della qualità della vita della popolazione ed un furto per le giovani generazioni, cui si è già tolto il lavoro, la speranza, il futuro, ed ora, a Firenze, come ultimo sberleffo, anche lo spazio per la sopravvivenza e per la mobilità.
Preoccupante e slegato da qualsiasi seria valutazione della domanda (che non sia quella degli immobiliaristi) è il dimensionamento del piano che prevede più di 4,5 milioni di metri cubi aggiuntivi in una città in cui gli abitanti continuano a diminuire; metri cubi che si aggiungono alle volumetrie già previste e non conteggiate nel piano, fra cui spicca l’insediamento di Castello (1.400.000 mc) e la previsione avanzata in extremis di 435.000 mc sulle aree ferroviarie dismesse.
A ciò si aggiunge il profondo stato di malessere in cui versa l’Amministrazione in carica con le dimissioni dell’assessore all’urbanistica, raggiunto da avviso di garanzia, e del dirigente responsabile dell’elaborazione del Piano Strutturale. Anche se condividiamo pienamente la presunzione di innocenza per gli imputati, tuttavia è doveroso che il sindaco ne tragga le conseguenze per dare ai cittadini la certezza della legalità rispetto alle scelte fondamentali del Piano stesso.
Pertanto chiediamo che l’Amministrazione di Firenze, a soli due mesi dalle elezioni comunali, sospenda l’approvazione del Piano Strutturale, lasciando alla prossima amministrazione il compito di dare a Firenze un piano degno di questo nome, dove gli interessi immobiliari siano subordinati a quelli dei cittadini e degli ospiti della città.
Per aderire inviate una e-mail a:
fi.nopianostrutturale@email.it
Primi firmatari: Ornella De Zordo, Paolo Baldeschi, Sergio Brenna, Paolo Berdini.
Fra le tante previsioni che hanno accompagnato questo 2009, nell'ambito dei beni culturali una delle più facili riguardava l'arrivo dell'ennesima riforma ministeriale: negli ultimi dieci anni, fra i provvedimenti relativi al riordino della disciplina - Testo unico (1999), Codice e successive modifiche (2004, 2006, 2008) - e quelli sul riassetto organizzativo (oltre una ventina), il Ministero dei beni culturali ha vissuto in una perenne modifica degli assetti interni, oltre che del quadro giuridico di riferimento. Questa situazione di costante instabilità non ha mancato di creare difficoltà sia all'esterno - nei confronti degli interlocutori istituzionali nazionali e internazionali, costretti a interagire con amministratori che si succedevano, in taluni periodi, a ritmi vorticosi, per di più operanti sulla base di una cornice legislativa in perenne assestamento - sia all'interno, condannando di fatto i funzionari di via del Collegio Romano a operare in un clima di precarietà, sia organizzativa che normativa.
Problemi, pur gravi, che potrebbero essere controbilanciati da una effettiva e sostanziale riforma della macchina ministeriale, finalmente adeguata, come sarebbe indubbiamente necessario, ai mutamenti di assetto istituzionale (si pensi solo alla modifica del Titolo V della Costituzione), ma anche di più generale cornice legislativa nazionale ed europea (il riferimento, in questo caso, è all'adozione, da parte dell'Italia, della Convenzione sul paesaggio) e soprattutto di contesto culturale, nel senso ampio del termine. Mentre nel settore della disciplina di ambito culturale tale evoluzione è stata raggiunta, pur faticosamente e non senza critiche e rimpianti contrapposti, attraverso la definitiva approvazione del Codice dei beni culturali e del paesaggio, che dopo le modifiche dello scorso anno ha assunto una versione "definitiva" e la cui efficacia quindi potrà finalmente essere verificata sul campo, non altrettanto può dirsi per l'assetto del Ministero, che continua a essere sottoposto a fibrillazioni, aggiustamenti, ripensamenti, spesso conseguenza delle vicende elettorali o comunque risalenti all'orizzonte politico (sono sei i ministri succedutisi negli ultimi dieci anni) e in ogni caso ancora lontano, a quanto pare, dall'aver trovato un ubi consistam che ne consenta la piena operatività.
Purtroppo tale situazione non è senza conseguenze per quanto riguarda la stessa applicazione del Codice, tanto che è stato facile profeta chi (fra i primi Marco Cammelli) già nel 2004, all'epoca della sua promulgazione, individuò nella struttura ministeriale lo snodo cruciale (e il punto di debolezza...) attorno al quale si sarebbe giocata la reale efficacia di un provvedimento normativo che, superate talune forzature ideologiche del primo momento, è attualmente riconosciuto come uno strumento positivo e in grado di garantire un adeguato livello di tutela e valorizzazione del nostro patrimonio, in sostanziale linea di continuità con una legislazione che rappresenta da molti anni un punto di eccellenza a livello internazionale.
Esempio di tale strettissima interconnessione è la Direzione generale del paesaggio: creata pochi anni or sono e abbinata per alcuni mesi, con non perfetta congruenza, all'arte e all'architettura contemporanee, ha visto l'alternarsi di mezza dozzina di direttori generali in pochi anni. Nella attuale configurazione, denominata PARC, pareva avere assunto un rilievo adeguato al ruolo, strategicamente basilare, che era chiamata a svolgere, vale a dire, in primis, la redazione, in collaborazione con ciascuna delle Regioni italiane (Sicilia, Valle d'Aosta e Province altoatesine escluse), dei piani paesaggistici prefigurati dall'attuale Codice come strumento di tutela e governo del paesaggio e preordinati, nell'intento dei legislatori e secondo quanto ribadito dalla Corte costituzionale, a qualsiasi altro strumento di pianificazione territoriale.
Un formidabile strumento di intervento sul territorio, insomma, che era nato per superare i limiti e le debolezze della legge "Galasso" e che avrebbe potuto essere utilizzato, altresì, come mezzo di costruzione di quella cooperazione istituzionale Stato-Regioni vitale, non solo in questo campo, perché questo nostro Paese possa uscire dalle pastoie di una conflittualità istituzionale che ha seminato soprattutto una vittima: il cittadino italiano. Purtroppo, però, la neonata PARC sta per essere soffocata nella culla, poiché l'ultimo progetto di riforma del Ministero attualmente in discussione la destina a essere risucchiata nel magma di una nuova direzione onnicomprensiva che si occuperà di beni storico-artistici, demo-antropologici, architettonici, arte e architettura contemporanee, paesaggio: tutti insieme appassionatamente.
Non è l'unico arretramento presente: nella definizione delle direzioni generali per i Beni storico-artistici, architettonici, eccetera, e per i Beni archeologici, il ritorno alle rispettive diciture di "Belle Arti" e di "Antichità" può solo apparentemente essere liquidato come una boutade lessicale un po' ridicola; suona invece, oltre che sintomo di provincialismo rétro, quale tentativo di circoscrivere il sistema dei beni culturali nell'alveo più rassicurante di attività destinate ai cultori di un umanesimo erudito e poco incline a misurarsi con le istanze della modernità.
Sospetto, questo, avvalorato dal fatto che nel progetto di riforma non trovano invece risposta alcuna i molti problemi e le carenze di cui soffre il Ministero, acuiti esponenzialmente negli ultimi anni, a cominciare dal rapporto fra strutture centrali e organizzazione sul territorio. Ancora a dir poco ambiguo e affidato a iniziative estemporanee risulta poi l'assetto del sistema di interazioni centro / regioni / enti locali / privati, la cui definizione il Codice si limita difatti a demandare a iniziative successive; come pure irrisolti risultano i problemi sullo statuto delle istituzioni museali e dei parchi archeologici.
E infine, a ribadire il carattere arretrato del disegno complessivo, neanche un cenno a quello che dovrebbe ormai porsi come interlocutore imprescindibile e privilegiato: l'Unione europea, vero e proprio convitato di pietra che si riaffaccia nei programmi ministeriali quasi solo alla stregua di erogatore di risorse, peraltro ormai vitali per la stessa sopravvivenza del Ministero. Con questo giungiamo al problema dei problemi: l'ormai irreversibile crisi di risorse, prima di tutto economiche. Una crisi che, maturata nel corso di più legislature, va assumendo in quest'ultima un carattere di emergenza tale da far parlare autorevoli intellettuali e osservatori politici, primo fra tutti Salvatore Settis, di dismissione de facto del Ministero nel giro del prossimo triennio.
A rendere ancora più drammatico il quadro complessivo si aggiunge l'ormai cronicizzata mancanza di personale, le cui carenze di organico, solo puntellate dalle ultime tornate concorsuali, ma soprattutto tramite il ricorso generalizzato al precariato, rendono a dir poco problematico l'esercizio quotidiano dei compiti di tutela e valorizzazione prescritti, in alcuni casi resi ancor più complessi dai nuovi incarichi attribuiti dal codice (uno fra tutti, la copianificazione in materia paesaggistica) o dall'evoluzione del sistema infrastrutturale nazionale (si pensi, in questo caso, alle attività connesse all'archeologia preventiva che dovrebbero accompagnare le cosiddette "grandi opere").
Per questo la discussione, per molti versi più che altro ideologica, sulla contrapposizione Stato/Regioni - che ha visto scontrarsi fino a pochi mesi or sono i fautori del centralismo duro e puro (in nome di una pretesa maggiore capacità regolatoria dello Stato nell'esercizio della tutela) e i fautori del regionalismo (in nome di un federalismo a volte un po' velleitario e di cui si continuano a fraintendere finalità e limiti) - rischia di essere totalmente scavalcata dall'evoluzione reale, a determinare la quale, molto più delle politiche culturali espresse dal Ministero, stanno incidendo processi decisionali presi in altre sedi istituzionali, a partire da quella di via XX settembre [il Ministero dell'economia e delle finanze, ndr], e non.
La regionalizzazione di determinate deleghe in campo culturale è un approdo ormai inevitabile, comunque lo si voglia giudicare, e in alcuni casi si sta già attuando attraverso la definizione di accordi di programma, convenzioni, programmi quadro: questo processo, così determinante per gli assetti futuri del nostro patrimonio culturale, sta però avvenendo in maniera del tutto episodica e verrebbe da dire estemporanea. Frutto non di un progetto d'insieme, ma di una contrattazione giocata su base locale, questa sorta di "federalismo strisciante", privo di linee-guida politiche alte, scaturite da una progettazione culturale allargata, rischia di risultare sminuito dall'appiattimento su logiche localistiche che finiscono per usare il patrimonio dei beni culturali non come risorsa per uno sviluppo territoriale condiviso, ma come merce di scambio per altre partite politiche.
In sostanza, quest'incessante attivismo riorganizzativo - al quale non sono estranee, spesso, le connesse pratiche di spoil system che esso legittima (a ogni riforma è possibile azzerare i vertici amministrativi del Ministero) e nel quale purtroppo non si intravede un disegno complessivo frutto di una visione culturale organica, per criticabile che sia - impedisce soprattutto il maturare di esperienze amministrative di una qualche rilevanza. Esempio macroscopico è, fra tutti, quello della copianificazione paesaggistica, compito nel quale il Codice, in seguito alle ultime combattute modifiche, riassegna al Ministero una leadership che, disattesa fino a questo momento, appare problematico riaffermare sulla base dello schema prefigurato nel disegno di riforma ormai in dirittura d'arrivo.
In compenso la riforma, con un anacoluto amministrativo che non ha mancato di suscitare polemiche molto vivaci, prevede la creazione di una direzione generale preposta alla valorizzazione dell'intero patrimonio (in una prima stesura limitata "solo" ai musei, ma con compiti anche di tutela sul patrimonio museale) e sulla quale, così come reiteratamente proclamato dai massimi organi politici del Ministero, si ripongono altissime speranze per risolvere i molti problemi che affliggono le nostre istituzioni museali. Che poi il principale obiettivo in questa direzione sia, come dichiarato, rendere maggiormente appetibile al pubblico di turisti più ampio possibile la nostra offerta museale complessiva, scalando le vette della top ten dei musei più visitati (che ci vede al momento esclusi), suscita qualche perplessità.
Intendiamoci: che il nostro patrimonio sia realmente fruibile da un pubblico vasto, è un obiettivo auspicabilissimo, ma ciò deve essere piuttosto il risultato di quell'opera di reale accessibilità alla cultura sulla quale molto deve essere ancora fatto, e che è comunque un processo complesso, lento e oneroso, i cui frutti più solidi non hanno maturazione improvvisa, quasi mai scaturiscono da iniziative che si vogliono immediatamente spendibili sul piano mediatico e sicuramente hanno poco a che fare con la filosofia dei Guinness.
Eppure, per chiudere con una nota di ottimismo, pur con i molti limiti vieppiù evidenti negli ultimi mesi e nella situazione di fragilità gestionale sopra descritta, il Ministero è tuttora in grado di produrre iniziative di rilievo culturale assoluto e internazionalmente riconosciuto: valga, come esempio per tutte, la splendida mostra in corso fino al 7 giugno a Roma, al Museo nazionale romano di Palazzo Massimo alle Terme. "Scopri il Massimo" è la celebrazione, con pochi mezzi e molta intelligenza, dei dieci anni di apertura di uno dei più importanti musei archeologici al mondo: evento illustrato non attraverso la classica esibizione di decine di prestiti di altri musei, ma quasi esclusivamente con il riallestimento, il restauro, la riproposizione, e quindi la valorizzazione, di materiali già patrimonio del museo stesso, a volte provenienti dai cantieri di scavo ottocenteschi aperti sul luogo stesso su cui sorge il museo, oppure esclusi per decenni dalla fruizione al pubblico, o semplicemente riletti attraverso una nuova illuminazione, in grado davvero di rilevarne la stupefacente grandezza artistica, così come nel caso del sarcofago di Portonaccio o del sistema di illuminazione "biodinamico" che restituisce agli straordinari affreschi della villa di Livia a Prima Porta la suggestione del succedersi delle gradazioni luministiche naturali.
Il Presidente del Consiglio ha firmato il 12 marzo un'ordinanza di Protezione Civile per fronteggiare la «grave situazione di pericolo» nell'area archeologica di Roma e provincia. L'avevamo detto ed è successo. Dopo aver presentato un'interrogazione, ancora in attesa di risposta, sul commissariamento dell'area archeologica di Pompei per una emergenza «catastrofica» come l'incuria e il degrado, avevamo previsto che non sarebbe finita lì perché ormai l'uso dell'ordinanza di Protezione civile è diventato uno dei piatti più succulenti del tavolo sempre imbandito del governo della Destra di questo Paese. Tutto è cominciato il giorno dopo l'avvento del precedente governo Berlusconi, quando uno dei primi interventi del nuovo Esecutivo fu la chiusura della neonata Agenzia di protezione civile.
In realtà si tornava, con volontà di restaurazione, al Dipartimento della Protezione Civile alle dirette dipendenze del Presidente del Consiglio dei Ministri. Così Berlusconi si riservava l'utilizzo del potere di ordinanza, attraverso il quale derogare all'universo delle regole. E l'ordinanza, si sa, è sprecata se la si utilizza solo per i terremoti e le alluvioni, che si sperano rari. Allora, contestualmente alla riesumazione del Dipartimento e alla scelta di Guido Bertolaso alla sua guida, il colpo di genio fu quello di istituzionalizzare i «grandi eventi» che potevano così usufruire, attraverso il solito potere d'ordinanza, di prerogative analoghe a quelle invocabili per le catastrofi. Quello che poi successe è ben noto: con i grandi eventi si è fatto di tutto, manifestazioni religiose e popolari, regate veliche, esequie, raduni giovanili, olimpiadi della neve e altro ancora. In questi primi mesi del terzo governo Berlusconi si sono fatti ulteriori «passi avanti» nel rafforzamento del privilegio di gestire la cosa pubblica senza quegli inutili lacci e laccioli che si chiamano regole.
A Napoli, la questione rifiuti è stata «risolta» non solo con un’ordinanza in deroga a 43 norme di tutti i tipi, ma anche sottoponendo le aree di discarica e di trattamento ad una inusitata dichiarazione di «interesse strategico nazionale». Di fatto porzioni di territorio risultano così militarizzate, blindate di fatto all'accesso di chiunque, con una palese caduta dei livelli di controllo democratico nel Paese. Quindi il mondo della cultura ha avuto un sussulto per l'ordinanza su Pompei, già ricordata. Il ministro Bondi, sponsor dell'iniziativa, prima ha applaudito all'attribuzione di un fondo di 40 milioni di Euro al budget commissariale ed ora festeggia la sottrazione di 37 milioni di euro dal bilancio del suo ministero, di cui circa un milione saranno spesi per finanziare la struttura commissariale creata con l'ordinanza relativa ai siti archeologici romani e di Ostia antica. L'«emergenza» questa volta, consiste nella gestione d un po' tutto il patrimonio archeologico di Roma e dintorni, in barba ai poteri di tre Soprintendenze.
L’autore è Senatore PD
Succede nella necropoli cartaginese di Tuvixeddu, un colle dentro Cagliari Caduta la giunta regionale di centrosinistra, via libera all’edificazione
Ci sono le gru, noiose come zanzare: molestano un sonno profondo, quello dei cartaginesi, sepolti da 25 secoli in questi pozzi scavati nella roccia calcarea. Eccola, la terra dei berluscones. Palazzi sulle necropoli. Anzi, sulla più estesa e antica necropoli fenicio-punica esistente nel bacino del Mediterraneo. È il cimitero di Tuvixeddu, un colle dentro Cagliari. Significa: piccoli fori, piccole cave. Ogni cava, un morto.
Il Tar ha dato ragione alla Coimpresa, ieri per l’ultima volta, rigettando le perplessità degli ambientalisti, «ma sarà almeno la decima occasione in cui il Tribunale e il Consiglio di Stato ci legittimano a costruire», dicono dalla ditta, che adesso spianerà ed edificherà. A frapporsi - oltre ai movimenti verdi - era rimasta la volontà politica della Regione, ma il vento è cambiato con l’avvicendamento fra Soru e Cappellacci. La giunta dell’ex governatore sfruculiava regolamenti per imbastire ricorsi e scongiurare il cemento là dove c’è un po’ di storia da mostrare. Entro poco ci saranno anche 400 appartamenti nuovi di zecca: anche questo è un piano casa.
I lavori sono ripresi, il cantiere carbura piano, «ma finalmente si procede - spiega l’ingegnere Gualtiero Cualbu, titolare della società omonima, che controlla Coimpresa - e abbiamo già ceduto al Comune l’82% delle aree che ci spettavano e comunque faremo il parco». Cualbo ha le sue ragioni di imprenditore, il parco al centro del colle è la merce di scambio, per gli oppositori sarà un giardino in mezzo a 300 mila metri cubi di cemento, e la cessione al comune non dev’essere stata dolorosa. Il gruppo è quello, il sindaco Floris, l’ex assessore al bilancio Ugo Cappellacci, adesso governatore, gli imprenditori del cemento: a Cualbo è toccato un posto nel cda della Fondazione del Lirico. E fu il commercialista Cappellacci che curò il vantaggioso passaggio delle quote di Ca.sa. Costruzioni (in liquidazione) all’imprenditore. La filiera è perfetta.
Di qua dalla barricata restano gli ambientalisti, i “soriani”, e quel gruppo di studenti che ha protestato davanti al cantiere di via Is Maglias e forse la soprintendenza, che difende i vincoli nell’area dove sono emerse le tombe puniche - lì verrà il parco archeologico - ma non ficca il naso nei dintorni, proprio per affrettare la costruzione del parco stesso. «Il danno è evidente: si altera un colle che ha un valore paesaggistico enorme, per decenni sottovalutato», ricorda l’ex assessore della Regione Maria Antonietta Mongiu. Tuvixeddu nel secolo scorso divenne addirittura una cava dell’Italcementi, che ha estratto fino agli anni Ottanta. Così molte tombe andarono distrutte, non tutte, ma quello che è in gioco è più ampio: la vicenda di Tuvixeddu è emblematica dell’incertezza che regna attorno alla conservazione e valorizzazione del patrimonio ambientale. Leggi confuse, altre invece chiare eppure disattese (come quella voluta dal ministro Giuliano Urbani, che vieta edificazioni intorno ai siti vincolati). Al di là della legge: l’idea di sviluppo della regione. Il vento soffia alle spalle dei cementificatori. «Toglieremo i vincoli alla Sardegna», è lo slogan dei berluscones. Quindi, via i vincoli, sotto con le gru. E in fretta: la giunta Cappellacci ha già presentato una bozza della Finanziaria «urgente», quindi blindata da ogni discussione, appetitosa per gli affaristi. Toglie la celebre tassa sugli aerei privati in atterraggio negli scali sardi e le unità da diporto sopra i 14 metri. Quella che la stampa appellò come tassa sul lusso, «distorcendone il significato - secondo Soru - perché era un contributo chiesto a chi sfrutta maggiormente le risorse ambientali». Sempre in Finanziaria torna anche un fantasma: il ricorso ai mutui per finanziare gli investimenti. Si comincia con 500 milioni: era il metodo della giunta Pili, che chiuse i battenti con 3 miliardi di debiti, ma trovò spazi e modi per ingrassare molti costruttori. E intanto sopra il silenzio dei morti, le gru stanno a guardare.
Tutti a far festa per il Ponte. Innanzitutto Silvio Berlusconi e lo stato maggiore della coalizione di centro-destra. Poi gli “autonomisti” siciliani di Raffaele Lombardo, governatore della Sicilia e azionista di minoranza della società concessionaria per la realizzazione del Ponte, la Stretto di Messina S.p.A. (a capitale interamente pubblico). Sono ovviamente felici azionisti ed amministratori d’Impregilo, la capofila del consorzio che si è aggiudicata progettazione e lavori della megainfrastruttura. Di certo avranno brindato pure piccole e grandi cosche in Calabria e in Sicilia e forse anche aldilà dell’Oceano. È tanto il clamore sollevato sullo sblocco dei lavori e un primo finanziamento del CIPE che sembrano passati anni luce da quando organi di stampa, ambientalisti e qualche parlamentare denunciavano le tante zone d’ombra della lunga gara d’appalto.
Le cosiddette “anomalie”? Innanzitutto la partecipazione alla fase di pre-qualifica per la progettazione e realizzazione del Ponte di una società su cui sarebbe stato rilevante il controllo di una delle più potenti organizzazioni mafiose nordamericane. Poi, tutte da comprendere ancora oggi, le ragioni delle improvvise defezioni dei grandi gruppi esteri proprio alla vigilia dell’apertura delle buste. E ci sono gli innumerevoli conflitti d'interesse sorti nelle relazioni tra la società concessionaria, le aziende in corsa per il general contractor (1) e i gruppi azionari di riferimento. Per non dimenticare l’inserimento di clausole contrattuali più che benevoli con i vincitori e che prevedono una penale stratosferica (il 10% dell’importo totale più le spese già affrontate) in caso di recesso da parte dello Stato dopo la definitiva approvazione dell’opera. In ultimo l’ingiustificato ribasso del 12,33% praticato dalla cordata guidata da Impregilo (pari a 500 milioni di euro su una base d'asta di circa 4 miliardi e 425 milioni), oggetto di ricorso presso il TAR Lazio da parte del raggruppamento avversario con mandataria Astaldi.
Ponti, coppole e lupare
Ottobre 2004. La Società Stretto di Messina S.p.A. comunica i risultati della fase di pre-qualifica per la scelta del contraente generale. Alla tappa successiva, quella delle gara d’appalto vera e propria, sono ammessi tre dei cinque raggruppamenti internazionali che avevano presentato una proposta preliminare. Il primo di essi è guidato dall’austriaca Strabag AG ed è composto dalla francese Bouygues Travaux Publics SA, dalla spagnola Dragados SA, e dagli italiani Consorzio Risalto e Baldassini-Tognozzi Costruzioni Generali; segue il raggruppamento formato da Astaldi, Pizzarotti & C., CCC - Consorzio Cooperative Costruzioni di Bologna, Grandi Lavori Fincosit, Vianini Lavori, Ghella, Maire Engineering, la giapponese Nippon Steel Corporation e le spagnole Necso Entrecanales Cubiertas e Ferrovial Agroman; infine l’associazione con capogruppo Impregilo e mandanti la francese Vinci Construction Grands Projets, la spagnola Sacyr S.A.U., la giapponese Ishikawajima-Harima Heavy Industries CO Ltd. e le italiane Società Italiana Condotte d’Acqua, CMC - Cooperativa Muratori & Cementisti e Consorzio Stabile A.C.I. S.c.ar.l.. Le tre cordate vengono invitate alla presentazione delle offerte entro il termine del 20 aprile 2005, successivamente prorogato al 25 maggio.
Nella relazione presentata dalla società concessionaria viene omessa la composizione delle due associazioni d’imprese escluse dalla Commissione e i motivi di tale esclusione. Questione tutt’altro che marginale, non fosse altro perché una di esse era finita nel mirino della Procura di Roma nell’ambito dell’inchiesta sul tentativo di turbativa d’asta ed infiltrazione mafiosa nella realizzazione del Ponte da parte del gruppo criminale italo-canadese diretto dal boss Vito Rizzuto (la cosiddetta “Operazione Brooklin”).
Secondo gli inquirenti romani, Rizzuto & soci volevano assumere il ruolo di registi dell’operazione, investendovi 5 miliardi di euro provenienti in buona parte dal traffico internazionale di eroina e cocaina. «L’attenzione dell’associazione si era focalizzata nella realizzazione del Ponte sullo Stretto di Messina», si legge nell’ordinanza di custodia cautelare della Sezione dei Giudici per le Indagini Preliminari del Tribunale Penale di Roma. «L’interesse prioritario dell’organizzazione sarebbe stato quello di finanziare l’opera indipendentemente da un coinvolgimento diretto nella sua realizzazione dato che così, comunque, avrebbe potuto partecipare ai ricavi connessi alla sua concreta gestione… Per concretizzare l’affaire Ponte, Rizzuto si sarebbe valso dell’ingegnere Giuseppe Zappia, imprenditore apparentemente “pulito”, privo di precedenti penali e con una pregressa esperienza nel campo delle opere pubbliche». (2)
In vista della gara del Ponte, l’ingegnere Zappia aveva fondato una modestissima società a responsabilità limitata (30 mila euro di capitale), la Zappia International, la cui sede legale veniva fissata a Milano negli uffici dello studio Pillitteri-Sarni, titolare Stefano Pillitteri, consigliere di Forza Italia e figlio dell’ex sindaco socialista del capoluogo lombardo, Paolo. Collega di studio del Pillitteri è Cinzia Sarni, moglie del giudice Ersilio Sechi che ha assolto Marcello Dell'Utri e Filippo Rapisarda per il crack Bresciano. (3) Era a lei che Giuseppe Zappia confidava i suoi propositi. «Lei è al corrente che io voglio fare il ponte di Messina?», rivelava l’ingegnere in un colloquio telefonico del 13 giugno 2003. «Io se faccio il ponte lo faccio perché ho organizzato 5 miliardi di euro… e questi 5 miliardi furono organizzati da tempo, mi comprende? Da tempo!» (4)
L’ingegnere italo-canadese aveva allestito un team di professionisti internazionali per la gestione degli aspetti economici e finanziari dell’operazione. Consulente legale del gruppo fu nominato l’avvocato romano Carlo Della Vedova, mentre i contatti con i potenziali finanziatori esteri furono affidati al mediatore cingalese Sivalingam Sivabavanandan. Per stringere relazioni e alleanze con ministri, sottosegretari e imprenditoria capitolina, Zappia si avvalse di un ex attore televisivo di origini agrigentine, Libertino Parisi, noto al grande pubblico per aver fatto l’edicolante nella trasmissione Rai "I fatti vostri". Con Parisi vennero programmati appuntamenti e riunioni ai massimi vertici istituzionali, finanche con il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e con il ministro delle Infrastrutture Pietro Lunardi.
«Ho parlato con quelle persone che erano molto interessate del fatto che un’impresa con capitali arabo-canadesi intende costruire il ponte finanziando l’opera per intero», rivelava l’ingegnere a Libertino Parisi, in una telefonata del 5 marzo 2004. «Ho ricevuto indicazioni di mandare un fax con la proposta alla segreteria del Presidente della società Stretto di Messina». Il fax partirà quattro giorni più tardi, oggetto la richiesta di un appuntamento per discutere in «maniera riservata della costruzione del ponte con la propria impresa mediante il finanziamento di una cordata di capitali internazionali». Il 24 marzo, giorno in cui il consiglio d’amministrazione della Stretto S.p.A. approvava il bando di gara proposto dall’amministratore delegato Pietro Ciucci per la pre-selezione del general contractor (5), l’ingegnere era intercettato mentre dava le ultime istruzioni a Parisi in vista di una riunione con i vertici della società concessionaria. «Quello che io ho bisogno – affermava Zappia – è di uscire dalla riunione di questo pomeriggio con la facoltà di sedersi con il Governo e di fare l’accordo a cui posso io arrivare con i miei finanzieri. Perché, i miei finanzieri, non li svelerò a loro… Io, ho due finanzieri, uno separato dall’altro, tutti e due sono pronti a mettere non 4.500, insomma quant’è? Questo, 4 miliardi e mezzo? So’ pronti a mettere cinque miliardi di euro! È una cosa che loro non hanno, e che spero che la guarderanno un po’ fuori limite».
Il 22 aprile 2004 Zappia informava l’avvocato Dalla Vedova dell’esito di una lunga riunione con gli ingegneri e gli avvocati della Stretto di Messina e di un’altra riunione con Salvatore Glorioso, segretario particolare dell’allora ministro Enrico La Loggia ed assessore provinciale di Forza Italia a Palermo. L’ingegnere aggiungeva: «Per la legge italiana devono fare una presentazione d’offerta, ma è solo una formalità perché loro già sanno chi farà il ponte ed è un loro amico che si chiama Joe Zappia!». «Sono già stato alla sede romana della Stretto di Messina con Sivabavanandan», aggiungeva l’anziano ingegnere. «Non ti posso riferire adesso quello che ci siamo detti in quelle ore, ma hanno deciso che l’uomo che farà il ponte sarò io perché posso gestire i problemi in quell’area del Paese. Sono calabrese!».
Il sapersi muovere in un ambiente notoriamente “difficile”, la disponibilità di imponenti capitali da offrire per i lavori del Ponte, facevano di Giuseppe Zappia un uomo fermamente convinto di poter imporre le proprie regole, senza condizionamenti di sorta. Del resto società concessionaria e potenziali concorrenti manifestavano già qualche difficoltà a reperire i fondi necessari per avviare il progetto. «Il bando di concorso: chi vuole partecipare deve pagare sei milioni di euro. Una cosa ti posso dire, che loro hanno duecento... due miliardi e mezzo. E quelli lì non bastano per fare il ponte», spiegava Zappia a Libertino Parisi. «Loro non hanno diritto di chiedere sei miliardi, sono in una posizione debole, che non si sa quando si fa il ponte. Loro devono dire, prima di poter dare, che vogliono sei miliardi. Devono avere il finanziamento organizzato! La posizione mia è che io posso finanziare il ponte!».
Zappia era certo di poter andare da solo, ma provava pure a tessere possibili alleanze con i colossi mondiali delle costruzioni. Nel corso di una lunga conversazione del 19 maggio 2004 con il mediatore cingalese Sivabavanandan, Zappia mostrava un certo interessamento al gruppo franco-canadese Vinci, in gara per il Ponte. «Ho appena finito di parlare con qualcuno per il finanziamento del ponte, e mi ha segnalato lo studio Vinci», dichiarava Zappia. «Hanno costruito un ponte di 14 miglia, e l’hanno costruito, finanziato e tutto il resto, al costo di 1,5 miliardi. E lo stanno ridando al Governo per un dollaro dopo 50 anni. Sto prendendo i loro prospetti e le persone. Sono miei amici stretti, sono in assoluto i costruttori numero uno in Canada e sono italiani. Sono da molto al mio fianco, da quando ho costruito il villaggio Olimpico a Montreal. Va bene, penso che Vinci sta pensando di prendere questo ponte». Lo interrompeva il cingalese: «Vogliono farlo in maniera indipendente o vogliono andare con qualcun altro?». Rispondeva Zappia: «No, lo faranno, non con qualcun altro, lo faranno con noi. Ma dovremo organizzare questo in maniera tale che otterremo alla fine lo stesso. Noi, in altre parole, dobbiamo finanziare l’intera cosa. La finanzieranno loro, in una situazione di spalleggiamento. Ma quello di cui loro sono preoccupati è ottenere il contratto».
Una breve pausa di riflessione e Zappia aggiungeva: «Penso che dovremo usare il principe qui, con l’uomo numero uno. Questo è come lo vedo io: se loro sono stati in grado di fare quel ponte, per 1,5 miliardi, dovrebbero essere capaci di fare questo qui per 2,5 miliardi. Loro daranno una piena, completa garanzia d’esecuzione con costi e tempi. Sono a Milano e in Francia, Vinci».(6) «Penso che dovremmo cominciare a parlare con loro», suggeriva Sivabavanandan. «Lo sto facendo ma non io, il mio uomo», rispondeva l’ingegnere. «Ti dico chi è il mio uomo, è quello che lavora alla situazione del Congo, dove io ho firmato il contratto per Inga, che dovrebbe essere in tribunale adesso». Il faccendiere cingalese si dichiarava d’accordo: «Sono contento che Vinci sta entrando, se puoi prendere Vinci a bordo possiamo mettere la J&P (società di costruzioni a livello internazionale N.d.A.) e la Vinci. Tutti possono trarre beneficio da una struttura piramidale, e il lavoro andrà veloce. Se abbiamo J&P e Vinci da una sola parte nessuno può dissestare. Questo è quello che ti ho detto ieri e l’altro ieri».
Il segreto d’onore
La società franco-canadese oscillava però da un partner all’altro e l’ipotesi della grande alleanza Vinci-Zappia sembrava dover naufragare. Il 26 giugno 2004, Giuseppe Zappia e Libertino Parisi si soffermavano su un articolo apparso sul quotidiano “Il Messaggero” nel quale erano indicate alcune società in gara per la realizzazione del Ponte di Messina. L’articolo riportava, tra l’altro, che la società Vinci, dopo aver dato la propria disponibilità a partecipare al consorzio guidato dall’azienda romana Astaldi S.p.A., aveva preferito alla fine la partnership con la concorrente Impregilo di Sesto San Giovanni. «Questi Vinci, sono pronti a venire con me, ma credo che non li prenderò», commentava astiosamente Zappia. «Perché loro vogliono venire a mettere moneta e della loro moneta non ne abbiamo bisogno. Vinci, lo può fare da solo. Questo te lo posso dire io soltanto: Vinci non ha il segreto mio».
Un segreto dunque. L’asso nella manica che concerne forse l’aspetto finanziario, i soci ancora “occulti” dell’imprenditore e della sua organizzazione. Il gruppo Zappia decise così di presentarsi da solo alla pre-selezione per il general contractor. Il 14 settembre l’ingegnere informava Sivabavanandan di essersi recato dall’avvocato Dalla Vedova. «Abbiamo finito la presentazione della situazione del ponte e la consegnerà lui stesso domani mattina presto perché apriranno l’intera cosa a mezzogiorno. Per questo dovrà essere lì per le 9, le 10…». Zappia esprimeva tuttavia la sua preoccupazione: «Una cosa che sento è che se loro aprono quelle richieste i giornalisti saranno lì e non c’è dubbio che il giorno dopo tutto sarà sui giornali». Il motivo del timore di Zappia emergeva chiaramente nella risposta di Sivabavanandan: «Sì, ma è buono perché la tua partnership, la tua associazione è segreta. Così non possono scoprire il tuo partner…».
Era Libertino Parisi a redigere la lettera con cui la Zappia International avanzava la sua proposta di partecipazione alla prequalifica. Tre cartellette dattiloscritte che pare abbiano lasciato un po’ perplessi gli esaminatori della società Stretto di Messina. Non solo per la loro lunghezza. Il piano tecnico-finanziario di Zappia & Soci prevedeva infatti un costo per la realizzazione dell'opera variabile tra i tre e i quattro miliardi di dollari e la consegna del Ponte nell'arco di tre anni grazie all’impiego di turni di lavoro notturno. La società “a capitale italo-arabo-canadese” si impegnava ad eseguire i lavori con costi e tempi tecnici di realizzazione inferiori del 50%, assemblando pezzi prefabbricati all’estero e senza ricorrere a subappalti.(7) Da qui l’esclusione del gruppo Zappia.
L’odore dei soldi
Quella che doveva rappresentare l’uscita di scena dell’ingegnere italo-canadese, si rivelava invece una tappa importante, più propriamente una svolta, nel tentativo di partecipare direttamente alla realizzazione del Ponte. Sono le telefonate effettuate subito dopo l’ufficializzazione dell’esclusione a indicare che Zappia aveva partecipato alla gara pur sapendo di non possedere i requisiti richiesti. Era però riuscito a mettersi in contatto con le imprese concorrenti di ben più solida competenza tecnico-organizzativa, proponendosi come indispensabile finanziatore dell’opera. I nomi delle società con cui l’ingegnere italo-canadese aveva preso contatti “diretti” o “indiretti” sono elencati nell’ordinanza di custodia cautelare emessa dai magistrati romani: ancora una volta Vinci (in associazione con Impregilo), la francese Bouygues (partner di Strabag), «nonché la società Fincosit in A.T.I. con Astaldi, che sarebbe stata indicata come società mafiosa da vari pentiti».(8)
Erano stati questi “contatti” a convincere Zappia del fatto che le società concorrenti non avrebbero potuto far fronte alla clausola del bando di gara che imponeva al general contractor una quota del finanziamento con risorse proprie pari ad almeno il 10% del valore dell’opera. L’ingegnere – o i suoi misteriosi soci arabi e nordamericani – potevano mettere invece sul tavolo l’intero importo previsto per la realizzazione del Ponte e delle infrastrutture di collegamento. «Questa è una situazione che mi aspettavo», rispondeva Zappia all’avvocato Carlo Dalla Vedova che gli comunicava l’esito negativo nella gara di prequalifica. «Ciò che ci serve è parlare con sua altezza reale. E tenere questa situazione con l’uomo numero uno. Così possiamo andare avanti. Quello che sta facendo la Astaldi, è che non ha soldi e non ci sta mettendo soldi. I suoi uomini ci metteranno dieci anni per fare il lavoro. L’intera questione è illegale perché non hanno i soldi per fare la cosa. Se e quando parleremo con sua altezza e l’uomo numero uno e diremo “abbiamo i soldi”, questi tizi saranno tirati fuori dall’affare». Nel prosieguo della conversazione Giuseppe Zappia spiegava meglio quali sarebbero stati i successivi “passi” da attuare: «Credo che quello che dovremo fare sia chiamare Ciucci... Chiamalo e poi fra l’altro il nostro amico Sivabavanandan arriverà domani sera. Perché lui ha parlato con sua altezza che è una persona lenta e non è uno che va di fretta».
Giuseppe Zappia ribadiva anche all’amico Parisi di non essere preoccupato per l’avvenuta esclusione. «Quello che c’ha il contratto generale può dare tutto a tutti quanti; tutto dipende da quanta moneta c’è», spiegava l’ingegnere. «Ma la moneta non ce l’hanno ancora. Questi sono tutti quelli che sono pronti a spartirsi la torta e inoltre, guarda, come dice lui, in quell’affare il contraente generale non è lui che sceglie. È insomma Ciucci che sceglie tutta questa gente. Il contrattore generale non fa niente e se non vuole e se può trovare un altro che gli fa la medesima cosa per metà prezzo, che fa insomma tutto il comando Ciucci». Come sottolineano i magistrati romani, Zappia conosceva appieno il ruolo e l’autonomia decisionale dell’amministratore delegato della società Stretto di Messina che, quale concessionaria, in base alla normativa del settore, ha ampi poteri di scelta per reperire parte dei capitali necessari.
Non c’era il tempo però di firmare un qualsivoglia accordo con una delle società rimaste in gara, né di accreditarsi come inesauribile banca del Ponte di fronte al Governo e ai dirigenti della Stretto S.p.A.. Il 12 febbraio 2005, il capo della Dda di Roma Italo Ormanni ed il pubblico ministero Adriano Iassillo ottenevano dal Gip cinque provvedimenti di custodia cautelare contro l’ingegnere Giuseppe Zappia, il cingalese Savilingam Sivabavanandan, il broker Filippo Ranieri, il faccendiere franco-algerino Hakim Hammoudi ed il boss siculo-canadese Vito Rizzuto. «In concorso tra di loro e con l’apporto determinante di Giuseppe Zappia – scrivono i magistrati – con mezzi fraudolenti e collusioni, turbavano la gara a licitazione privata alla scelta del general contractor; eliminando così la libera e regolare concorrenza tra varie ditte, con evidente lesione, quindi, degli interessi della pubblica Amministrazione». (9)
L’istruttoria era rapida e il processo Brooklyn, la mafia del Ponte iniziava il 16 marzo 2006 davanti alla sesta sezione penale del tribunale di Roma. Nel corso dell’udienza preliminare Sivalingam Sivabavanandan sceglieva di patteggiare una pena a due anni di reclusione. Zappia e coimputati devono spiegare l’origine dei miliardi di euro messi a disposizione delle aziende in gara. Del loro operato rispondono solo alla pubblica accusa. La società presieduta da Pietro Ciucci (che oggi è pure presidente dell’ANAS), i suoi azionisti di Stato, la pubblica Amministrazione i cui interessi sono stati lesi dalla presunta associazione mafiosa, hanno rinunciato a costituirsi parte civile.
Una proroga sospetta
Torniamo alla gara per la definizione del general contractor. il 18 aprile 2005, quarantotto ore prima della scadenza dei termini fissati dal bando, i vertici della Stretto di Messina S.p.A. decisero di concedere ai consorzi in gara un mese di tempo in più per la presentazione delle offerte. Le ragioni della benevola proroga restarono ignote, ma numerosi osservatori finanziari la giudicarono perlomeno discutibile, anche perché i tre mesi precedenti erano stati caratterizzati da altalenanti e contraddittori contatti tra i due colossi italiani capofila delle cordate in gara, l’Impregilo di Sesto San Giovanni e l’Astaldi di Roma.
Impregilo era al centro di una grave crisi finanziaria ed i vertici aziendali erano stati azzerati da un’inchiesta della procura di Monza per falso in bilancio, false comunicazioni sociali ed aggiotaggio (il procedimento è ancora in corso presso il Tribunale lombardo e vede imputati l’ex presidente d’Impregilo, Paolo Savona, e l’ex amministratore delegato Piergiorgio Romiti). Per evitare il tracollo finanziario i principali azionisti della società avevano invocato l’intervento del governo e delle banche creditrici, auspicando l’ingresso di nuovi e più solidi soci. Nel febbraio 2005 i manager Astaldi dichiararono la propria disponibilità a fornire 250 milioni di euro per ricapitalizzare la società di Sesto San Giovanni, ma la loro offerta veniva respinta. In Impregilo fece invece ingresso un consorzio, IGLI, costituito appositamente dai gruppi Argofin (10), Techint-Sirti (11), Efibanca (12) ed Autostrade S.p.A. (gruppo Benetton). (13) Efibanca, Techint e Sirti cederanno un anno più tardi la loro quota di IGLI a Salvatore Ligresti, il costruttore originario di Paternò a capo del gruppo assicurativo Fondiaria-Sai e della finanziaria Immobiliare Lombarda.
Sfumata l’ipotesi di una compartecipazione in Impregilo, Astaldi tornava al contrattacco proponendo alla “concorrente” un’alleanza strategica per la formulazione di un’unica offerta per la realizzazione del Ponte sullo Stretto. «L’unificazione delle cordate per la gara del Ponte è un’ipotesi di buon senso», dichiarava Vittorio Di Paola, amministratore delegato di Astaldi, all’indomani dello slittamento del termine per la presentazione delle offerte. «Dopo la fuga di partner stranieri di entrambe le cordate e la scarsa convinzione degli altri – aggiungeva Di Paola – il buon senso vorrebbe che i due gruppi in qualche modo mettessero insieme le forze».
Ancora l’amministratore di Astaldi: «Quello che rimane delle due cordate non è sufficiente a realizzare un’opera come questa. Non è solo un fatto tecnico, c’è anche la necessità di prefinanziare il 20% dell’opera. La presentazione di un’offerta unica diluirebbe i rischi e servirebbe a recuperare la fiducia dei partner. Noi eravamo pronti a presentare l’offerta ma una proroga può far riflettere e favorire un processo di ricomposizione».(14)
La dichiarazione di Vittorio Di Paola non deve stupire più di tanto. Essa giungeva infatti qualche giorno dopo la decisione delle due società spagnole partner di Astaldi, la Necso Entrecanales Cubiertas SA e Ferrovial Agroman SA, di ritirarsi dalla gara per il Ponte. Inaspettatamente, anche il raggruppamento internazionale guidato dall’austriaca Strabag aveva comunicato di essersi ritirato dalla competizione. «Per noi era troppo alto il rischio che avremmo dovuto affrontare dal punto di vista legale, geologico e tecnico-finanziario», dichiarava Roland Jurecka, membro del consiglio d’amministrazione della Strabag.
Meglio soli che la turbativa
Il 2 maggio 2005, il nuovo consiglio d’amministrazione di Impregilo respingeva l’offerta di alleanza con Astaldi. Perché Impregilo ha rifiutato una proposta che avrebbe sicuramente comportato minori rischi e maggiori vantaggi di ordine finanziario e tecnico? Di certo c’è che nei giorni immediatamente precedenti alla riunione del Cda della società di Sesto San Giovanni, era stata depositata un’interrogazione parlamentare al Ministro delle Infrastrutture, a firma dei senatori Brutti e Montalbano (Ds). In essa si affermava che la presentazione di un'unica offerta da parte di Astaldi e Impregilo per il Ponte sullo Stretto «configurava un’effettiva turbativa d’asta e quindi l'irregolarità della gara».
Nell’interrogazione i due parlamentari raccontavano che dopo il ritiro della Strabag, i due raggruppamenti «iniziavano una trattativa con i buoni uffici di un noto avvocato, consulente legale dell’ANAS per la sorveglianza sui lavori dell’Impregilo, notoriamente legato da vincoli professionali ventennali con l’impresa Astaldi, per giungere, attraverso un rimescolamento delle carte, a presentare un’unica offerta in comune tra Astaldi e Impregilo, riducendo in tal modo ad uno il numero dei partecipanti effettivi alla fase conclusiva della gara stessa». Brutti e Montalbano aggiungevano che il rinvio dei termini della gara in questione «era stato fortemente sollecitato alla società Stretto di Messina da una delle due società concorrenti, indebolita nella sua composizione interna dall’uscita di un fondamentale partner francese». Sempre secondo gli interroganti, a tal fine il consiglio d’amministrazione della società concessionaria aveva inserito nel bando una clausola che consentiva di aggiudicare la gara anche in presenza di una sola offerta.
«Appare quanto meno sospetto un rinvio dei termini idoneo a far maturare un accordo tra i due concorrenti e la contemporanea decisione di modificare il bando al fine di rendere aggiudicabile la gara anche in presenza di una sola offerta, che sembra proprio spingere nella direzione dell’accordo tra i concorrenti», commentavano i senatori diessini. Infine si chiedeva al ministro Lunardi se non ritenesse che «il comportamento della società Ponte sullo Stretto sia stato gravemente lesivo degli interessi pubblici, avendo la società consentito, con il rinvio, proprio il perfezionamento dell’intesa tra i concorrenti, con un'evidente lesione della concorrenza e con danno al bilancio pubblico». (15)
Che fosse stato proprio il governo a sollecitare l’accordo tra le aziende italiane, lo avrebbe confermato qualche anno più tardi lo stesso premier Silvio Berlusconi. Nel corso di un comizio tenuto nel novembre 2008 durante la campagna elettorale per l’elezione del Governatore della regione Abruzzo, Belusconi ha dichiarato: «Sapete com’è andata col Ponte sullo Stretto? Avevamo impiegato cinque anni a metter d’accordo le imprese italiane perché non si presentassero separate alla gara d’appalto ma in consorzio... Eravamo andati dai nostri colleghi chiedendo che le imprese non si presentassero in modo molto aggressivo, proprio perché volevamo una realizzazione di mano italiana, e poi avremmo saputo ricompensarli con altre opere pubbliche». L’episodio è stato raccontato dal giornalista Marco Travaglio su “L’Espresso” del 30 dicembre 2008. Come sottolinea lo stesso Travaglio, «se le parole hanno un senso, il premier spiega di avere – non si sa a che titolo – aggiustato una gara internazionale per far vincere Impregilo sui concorrenti stranieri, invitando quelli italiani a farsi da parte in cambio di altri appalti (pilotati anche quelli?)».
Quando alla scadenza del termine, giunsero le offerte delle uniche due cordate rimaste in gara, certe “anomalie” furono sotto gli occhi di tutti.(16) In meno di un anno si erano verificati cambiamenti rilevanti nelle composizioni dei raggruppamenti. Nell’associazione temporanea a guida Impregilo, ad esempio, non comparivano più la francese Vinci, numero uno mondiale del settore, che aveva il 20% delle quote al momento della sua costituzione nel giugno 2004, e la statunitense Parsons, definita dai manager Impregilo come «l’operatore con le maggiori competenze a livello mondiale nella progettazione e realizzazione di ponti sospesi». Nella cordata a guida Astaldi spiccava invece la scomparsa di una delle due società spagnole originarie (Ferrovial Agroman SA era poi rientrata nell’ATI), della giapponese Nippon Steal Corporation e delle italiane Pizzarotti e C.C.C. – Consorzio Cooperative Costruzioni. Vere e proprie fughe provvidenziali, verrebbe da dire, dato che hanno permesso la conclusione della gara per il Ponte diradando alcuni dei i dubbi di legittimità e regolarità.
Sul comportamento di Vinci, “avvicinata” dai faccendieri internazionali legati all’organizzazione criminale di Vito Rizzuto, erano piovute dure critiche da parte dei dirigenti di Astaldi, i quali, in più riprese, avevano rivendicato di aver sottoscritto un accordo in esclusiva con la società francese proprio in vista della realizzazione del Ponte. Il forfait di Parsons evitava invece che la transnazionale finisse nella ragnatela dei conflitti d’interesse che hanno segnato la stagione delle selezioni dei soggetti chiamati alla realizzazione del collegamento stabile. La controllata Parsons Transportation Group, a fine 1999, era stata nominata “advisor” dal Ministero dei lavori pubblici per l’approfondimento degli aspetti tecnici del progetto di massima del Ponte di Messina. La stessa Parsons Transportation Group ha poi partecipato al bando per il Project Management Consultant per la vigilanza delle attività di progettazione ed esecuzione del general contractor del Ponte. Se Parsons Transportation Group avesse vinto questa gara (cosa poi puntualmente verificatasi) e la società madre fosse rimasta associata ad Impregilo, la Stretto di Messina si sarebbe trovata nella spiacevole situazione di affidare i due bandi multimilionari ad una medesima entità, in cui avrebbero coinciso controllore e controllato.
Scelta quasi obbligata quella invece di Pizzarotti. Nel 2004, la società di Parma aveva stipulato con Todini Costruzioni Generali S.p.A. un contratto di acquisizione del ramo d’azienda comprendente la partecipazione nel Consorzio CEPAV Due, incaricato della realizzazione della nuova linea ferroviaria Milano-Verona. Si da il caso che contestualmente Todini Costruzioni aveva costituito insieme a Rizzani de Eccher e Salini Costruzioni, il Consorzio Risalto, uno dei soci dell’austriaca Strabag nella fase di pre-qualifica del Ponte sullo Stretto.
Perlomeno miracolosa l’uscita di scena del Consorzio Cooperative Costruzioni di Bologna. Originariamente la Lega delle Cooperative si vedeva rappresentata in entrambe le cordate in gara per i lavori del Ponte: con la CCC in ATI con Astaldi e con la CMC - Cooperatriva Muratori Cementisti di Ravenna in ATI con la “concorrente” Impregilo. Con l’aggravante che proprio la CMC risultava essere una delle 240 associate, la più importante, della cooperativa “madre” CCC di Bologna. Ciò avrebbe comportato la violazione delle normative europee e italiane in materia di appalti pubblici, le quali escludono espressamente la partecipazione ad una gara di imprese che «si trovino fra di loro in una delle situazioni di controllo», ovverossia di società tra esse «collegate o controllate». In particolare nel Decreto Legislativo del 10 gennaio 2005 n. 9, che integra e modifica le norme previste dalle leggi per l’istituzione del sistema di qualificazione dei contraenti generali delle «opere strategiche e di preminente interesse nazionale» si stabilisce che «non possono concorrere alla medesima gara imprese collegate ai sensi dell’articolo 3 della direttiva 93/37/CEE del Consiglio, del 14 giugno 1993». Lo stesso decreto afferma il «divieto ai partecipanti di concorrere alla gara in più di un’associazione temporanea o Consorzio, ovvero di concorrere alla gara anche in forma individuale qualora abbiano partecipato alla gara medesima in associazione o Consorzio, anche stabile».
L’ipotesi di violazione di queste norme da parte delle due coop è stato sollevato, tra gli altri, dalla parlamentare Anna Donati e ripreso dai maggiori organi di stampa nazionali. Il WWF, in particolare, è ricorso davanti all’Autorità per i Lavori Pubblici e alla Commissione Europea per chiedere l’annullamento della gara. (17)
Mentre la Società Stretto di Messina sceglieva di non intervenire, alla vigilia dell’apertura delle buste per il general contractor, il Consorzio Cooperative Costruzioni scompariva provvidenzialmente dalla lista delle società della cordata Astaldi. Così la coop "madre" lasciava il campo alla coop "figlia" che si aggiudicava con Impregilo il bando di gara.
Ha vinto Impregilo!
«La gara per il Ponte sullo Stretto la vincerà Impregilo». Alla vigilia dell’apertura delle offerte delle due cordate in gara, nel corso di una telefonata con Paolo Savona (l’allora presidente della società di Sesto San Giovanni), l’economista Carlo Pelanda si dichiarava sicuro che sarebbe stata proprio l’associazione d’imprese guidata da Impregilo ad essere prescelta dalla Stretto di Messina per la costruzione del Ponte. Nel corso della stessa telefonata Pelanda sosteneva di avere avuto assicurazioni del probabile esito della gara dal senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri, già presidente di Publitalia ed amministratore delegato di Mediaset.
Sfortunatamente, il colloquio tra Paolo Savona e l’amico Carlo Pelanda è stato intercettato dagli inquirenti della procura di Monza nell’ambito dell’inchiesta per falso in bilancio e false comunicazioni sociali nella società di Sesto San Giovanni. Incuriositi dalla singolare vocazione profetica dell’interlocutore, i magistrati lombardi interrogarono l’ex presidente d’Impregilo, Paolo Savona, sul senso di quella telefonata. «Era una legittima previsione», risponderà Paolo Savona. «Il professor Pelanda mi stava spiegando che noi eravamo obiettivamente il concorrente più forte». (18)
Carlo Pelanda, editorialista del “Foglio” e del “Giornale” – quotidiani del gruppo Berlusconi – ricopriva al tempo l’incarico di consulente del ministro della difesa Antonio Martino, origini messinesi e uomo di vertice di Forza Italia. Pelanda era pure un intimo amico di Marcello Dell’Utri, al punto di aver ricoperto l’incarico di presidente dell’associazione “Il Buongoverno”, fondata proprio dal senatore su cui pesa una condanna in primo grado a 9 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. (19)
In verità, le premesse per una vittoria d’Impregilo c’erano tutte. Basti pensare ai conflitti d’interesse che avevano turbato l’intero iter di gara. Come ad esempio quelli relativi alla composizione della Commissione nominata dalla Stretto di Messina S.p.A. per valutare le offerte e disporre l’aggiudicazione della gara. La necessaria “indipendenza” della Commissione fu messa in dubbio ancora dalla parlamentare Anna Donati, che in un’interrogazione presentata subito dopo l’ufficializzazione dei vincitori, rilevò come l’ingegnere danese Niels J. Gimsing, uno dei membri dell’organismo aggiudicatore, aveva fatto parte (dal 1986 al 1993) della commissione internazionale di esperti per la valutazione del progetto di massima del Ponte sullo Stretto; Gimsing aveva inoltre lavorato ininterrottamente dal 1983 al 1998, come consulente per la progettazione di gara e la supervisione lavori per la costruzione dello Storbelt East Bridge. (20)
Coincidenza vuole che il ponte di Storbelt sia stato progettato dalla società di consulenza Cowi di Copenaghen a cui il raggruppamento temporaneo d’imprese guidato da Impregilo aveva affidato “in esclusiva” l’elaborazione progettuale del Ponte di Messina. Membro del Cowi Group è pure lo studio d’ingegneria Buckland & Taylor Ltd., con sede a Vancouver, altro progettista del Ponte sullo Stretto e di tutte le infrastrutture di collegamento similari disseminate in Canada, paese di Giuseppe Zappia. L’ingegnere Niels Gimsing avrebbe dovuto astenersi dal partecipare alla Commissione di gara per il general contractor, anche perché l’allora amministratore delegato della società Impregilo, Alberto Lina, era stato dal 1995 al 1998 presidente di Coinfra, la società dell'IRI che aveva partecipato come “fornitore” alla realizzazione in Danimarca dello Storebelt Bridge, insieme a Cowi, collaborando direttamente con il professionista danese.
L’ingegnere Niels J. Gimsing ha pure ricoperto il ruolo di membro della Commissione tecnica di aggiudicazione della gara per il ponte Stonecutters, Hong Kong. Si tratta di una struttura lunga 1.018 metri ed alta 300 che collegherà il porto commerciale di Kwai Chung con il nuovo aeroporto di Hong Kong. Ebbene, il progetto “Stonecutters” vede pure la firma dello studio Flint & Neill Partnership (Gran Bretagna) di cui è titolare l’ingegnere Ian Firth, altro componente della Commissione aggiudicatrice della gara per il general contractor del Ponte sullo Stretto. Firth aveva pure fatto da consulente per la Società Stretto di Messina per la redazione dei documenti tecnici di gara. Nel progetto di Hong Kong, il nome dell’ingegnere britannico compare come concept designer accanto a Cowi Consulting Engineers and Planners AS, controllata dall’omonimo gruppo danese, e allo studio canadese Buckland & Taylor. Ulteriore consulenza progettuale per il ponte di Hong Kong è stata pure fornita dalla società statunitense Maunsell AECOM, il cui project engineer è John Cadei, tra i membri della commissione nominata per l’aggiudicazione della gara per il Project Management Consultant del Ponte.
Un consulente autostradale
Altrettanto inopportuna è apparsa la nomina nella Commissione di gara per il general contractor dell’urbanista Francesco Karrer. Il professore Karrer è stato infatti consulente della Società Italiana per il Traforo del Monte Bianco, gestore dell’omologo tunnel, in mano per il 51% alla finanziaria della famiglia Benetton, saldamente presente in Autostrade S.p.A. e nel consorzio IGLI-Impregilo. Karrer è poi consulente di R.A.V. – Raccordo Autostradale Valle d’Aosta, realizzatore e gestore del raccordo autostradale fra la città di Aosta e il traforo del Monte Bianco. Dell’autostrada Aosta-Monte Bianco il professore di Roma ha pure svolto lo studio di valutazione d’impatto ambientale. Il pacchetto di maggioranza di R.A.V. è in mano alla stessa Società Italiana per il Traforo del Monte Bianco della famiglia Benetton, mentre tra gli azionisti di minoranza compare il costruttore Marcellino Gavio, altro importante azionista di IGLI-Impregilo e della A.C.I. S.c.p.a. (Argo Costruzioni Infrastrutture Soc. consortile), in A.T.I. con la società di Sesto San Giovanni per i lavori del Ponte.
Le consulenze professionali di Francesco Karrer sono inoltre tra le più richieste dal gioiello di casa Benetton, Autostrade S.p.A., a capo di buona parte del sistema autostradale italiano. Il professionista è stato incaricato della costruzione del primo “bilancio ambientale” della società; sempre di Autostrade S.p.A., Karrer è stato consulente per il riavvio del progetto della Variante di Valico; “incaricato“ del coordinamento scientifico dello studio d’impatto ambientale del progetto di riqualificazione dell’Autostrada A14 e della Tangenziale di Bologna; “responsabile scientifico del S.I.A.” del progetto di adeguamento dell’Autostrada A1 nei tratti Aglio-Incisa e Firenze Sud-Incisa Valdarno. L’urbanista è stato anche membro della Commissione della Regione Veneto per la valutazione della proposta di realizzazione del cosiddetto “Passante autostradale di Mestre”, i cui lavori sono stati poi assegnati ad un consorzio guidato dalla solita Impregilo.
Ma nel curriculum vitae del professore Karrer spicca soprattutto la lunga opera professionale svolta a favore del Ponte: per conto della concessionaria Stretto di Messina, Karrer ha prestato la sua consulenza per la gestione degli studi ambientali connessi alla realizzazione dell’opera, mentre su incarico dell’Istituto Superiore dei Trasporti (ISTRA) ha coordinato lo studio dell’“opzione zero” (o “senza opera”) nell’ambito del SIA del progetto di attraversamento stabile. Nel 2002 ha pure ricoperto il ruolo di componente della commissione per l’aggiudicazione dei servizi relativi allo studio d’impatto ambientale (gara affidata ad un raggruppamento temporaneo d’imprese in cui compariva Bonifica S.p.A., società di cui Karrer è stato progettista e consulente).21 Un anno prima l’urbanista aveva pure collaborato allo studio finalizzato a valutare «gli effetti di valorizzazione e riorganizzazione territoriale a seguito della realizzazione del Ponte sullo Stretto», commissionato al CERTeT – Centro di Economia Regionale dei Trasporti e del Turismo dell’Università Commerciale Luigi Bocconi di Milano. Karrer è stato infine «vincitore, in associazione con l’Università Bocconi, PriceWaterhouse e Net Engineering, della gara internazionale indetta dal Ministero dei Lavori Pubblici per l’advisor sul progetto di attraversamento stabile dello Stretto di Messina (aspetti ambientali, territoriali-urbanistici, trasportistici e di fattibilità economica)».
L’Impregilo sul Ponte
Se poi si passa ad alcuni dei professionisti che sono stati membri del consiglio di amministrazione della Stretto di Messina S.p.A., sembra esserci più di un feeling con il colosso delle costruzioni di Sesto San Giovanni.
Nell’aprile del 2005, ad esempio, venne nominato quale membro del Cda della concessionaria del Ponte, il dottor Francesco Paolo Mattioli, ex manager Fiat e Cogefar-Impresit (oggi Impregilo), consulente della holding di Torino e responsabile del progetto per le linee ad alta velocità ferroviaria Firenze-Bologna e Torino-Milano di cui Impregilo ricopre il ruolo di general contractor. Dodici anni prima dell’incarico nella Stretto S.p.A., Francesco Paolo Mattioli era stato arrestato su ordine della Procura di Torino interessata a svelare i segreti dei conti esteri della Fiat, dove risultavano parcheggiati 38 miliardi di vecchie lire destinati a tangenti. Nel maggio ‘99 arrivò per Mattioli la condanna a un mese di reclusione, pena confermata in appello e infine annullata in Cassazione per «sopravvenuta prescrizione del reato».
Nel consiglio di amministrazione della società concessionaria sedeva al momento dell’espletamento delle gare il Preside della facoltà di Giurisprudenza dell’Università "La Sapienza" di Roma, prof. Carlo Angelici. Angelici era contestualmente consigliere di Pirelli & C. e di Telecom Italia Mobile (TIM), società di cui erano (e sono) azionisti i Benetton. Edizioni Holding, altro gioiello del gruppo di Treviso - attraverso Schemaventotto - controlla la Società per il Traforo del Monte Bianco, di cui è stato consulente l’ingegnere Karrer e membro del consiglio d’amministrazione un altro “storico” del Cda della Stretto di Messina, il direttore generale ANAS Francesco Sabato. Va poi rilevato che sindaco effettivo di Autostrade-Benetton è la riconfermata sindaco effettivo della Stretto di Messina, dottoressa Gaetana Celico.
Presenze “pesanti” anche all’interno di Società Italiana per Condotte d’Acqua, altro partecipante alla cordata general contractor del Ponte. Condotte d’Acqua è quasi internamente controllata dalla finanziaria Ferfina S.p.A. della famiglia Bruno. Ebbene, nei consigli d’amministrazione di Ferfina e di Condotte Immobiliare (la immobiliare di Condotte d'Acqua) compariva nel giugno 2005 il professore Emmanuele Emanuele, contestualmente membro del Cda della concessionaria statale per il Ponte.
Dal 2002, presidente della Stretto di Messina S.p.A. è l’on. Giuseppe Zamberletti, più volte parlamentare Dc e sottosegretario all’interno e agli esteri ed ex ministro per la protezione civile e dei lavori pubblici. Invidiabile pure la sua lunga esperienza in materia di grandi infrastrutture: Giuseppe Zamberletti è stato presidente del Forum europeo delle Grandi Imprese, uno degli interlocutori privilegiati della Commissione europea, mentre da più di un ventennio ricopre la massima carica dell’Istituto Grandi Infrastrutture (IGI), il “centro-studi” d’imprese di costruzione, concessionarie autostradali, enti aeroportuali, istituti bancari, per approfondire l’evoluzione del mercato dei lavori pubblici, monitorare le grandi opere e premere sugli organi istituzionali per ottenere modifiche e aggiustamenti legislativi in materia di appalti e concessioni a vantaggio degli investimenti privati. In questa potente lobby dei signori del cemento, compaiono quasi tutti i concorrenti alle gare per la realizzazione del Ponte.
Vicepresidente vicario di IGI al tempo delle gare del Ponte, il cavaliere Franco Nobili, trent’anni a capo della società di costruzione Cogefar del gruppo Gemina-Fiat (poi entrata a far parte di Impregilo), passato poi nel Cda della Pizzarotti di Parma, che ha integrato in un primo tempo la cordata guidata da Astaldi per il general contractor del Ponte. Dal 1989 al 1993 Franco Nobili ha pure ricoperto la carica di presidente dell’IRI, l’istituto - poi liquidato - a capo dell’industria statale nazionale e di cui è stato direttore generale e membro del Collegio dei liquidatori l’odierno amministratore delegato della Stretto di Messina, Pietro Ciucci.
Tra gli odierni vicepresidenti del consiglio direttivo dell’Istituto Grandi Infrastrutture ci sono i manager delle società entrate nel business del Ponte: Alberto Rubegni amministratore delegato d’Impregilo (recentemente condannato a 5 anni di reclusione nell’ambito del processo TAV Firenze); Pietro Gian Maria Gros, presidente di Autostrade-Benetton;, Vittorio Morigi, Ad del Consorzio Muratori Cementisti; Paolo Pizzarotti, a capo dell’omonima azienda di Parma; finanche il professor Carlo Bucci (in rappresentanza dell’ANAS, azionista di maggioranza della Stretto di Messina S.p.A.), consigliere d’amministrazione della concessionaria per il Ponte nel triennio 2005-2007.
Ci sono poi le aziende presenti nel consiglio direttivo dell’Istituto. Anche qui abbondano le società che hanno concorso su fronti opposti ai differenti bandi di gara per il Ponte sullo Stretto. Tra esse, ad esempio, Società Italiana per Condotte d’Acque (nell’ATI general contractor), più SATAP S.p.A.., società autostradale controllata dalla finanziaria Argos di Marcellino Gavio (azionista IGLI-Impregilo). All’interno di IGI anche Astaldi, capogruppo dell’ATI “contrappostasi” a Impregilo, con le associate Grandi Lavori Fincosit e Vianini Lavori dell’imprenditore-editore Caltagirone.
Uno dei prossimi maggiori impegni della Stretto S.p.A. sarà quello di ritoccare l’ammontare del contratto sottoscritto da Impregilo & socie; ferro e acciaio sono cresciuti vertiginosamente nel mercato internazionale, mentre altre voci di spesa potrebbero essere state sottostimate in fase di pre-progettazione. Date affinità e cointeressenze, chissà se alla fine, per comodità, non ci si veda tutti in Piazza Cola di Rienzo 68, sede dell’IGI e dei signori del Ponte.
Note
(1) Il general contractor o “contraente generale” è la figura nata con la cosiddetta “Legge obiettivo” (n. 190/2002) che regola tutte le Grandi Opere strategiche. Questa figura gode della “piena libertà di organizzazione del processo realizzativo, ivi compresa la facoltà di affidare a terzi anche la totalità dei lavori stessi”, una libertà, che si traduce anche nel fatto che “i rapporti del contraente generale sono rapporti di diritto privato”. Fortemente contestata da ambientalisti ed operatori economici, nel giugno 2006 il general contractor è stato duramente censurato dalla Commissione europea che lo ha giudicato «non conforme» al diritto comunitario in materia di appalti pubblici e «segnatamente alla direttiva 93/37/CEE e alla nuova direttiva 2004/18/CE, della disciplina del sistema di riqualificazione dei contraenti generali delle opere strategiche e di preminente interesse nazionale».
(2) Tribunale Penale di Roma, Sezione dei Giudici per le Indagini Preliminari Ufficio 23°, Ordinanza di custodia cautelare in carcere e di arresti domiciliari nei confronti di Vito Rizzuto + 4, Roma, 22 dicembre 2004.
(3) M. Lillo e A. Nicaso, I grandi affari del Padrino del Ponte, “L’Espresso”, 22 febbraio 2005.
(4) I testi delle intercettazioni telefoniche ed ambientali riportate da qui in poi tra virgolette sono tratti da: Tribunale Penale di Roma, Ordinanza di custodia cautelare in carcere e di arresti domiciliari nei confronti di Vito Rizzuto + 4, cit.
(5) Il bando di gara per la pre-selezione del general contractor sarà pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il successivo 15 aprile 2004. Veniva fissato come termine per la presentazione delle domande di partecipazione la data del 13 luglio 2004, poi prorogato al 15 settembre.
(6) Secondo quanto raccontato da Giuseppe Zappia ai magistrati romani, il “principe” sarebbe stato Bin Nawaf Bin Abdulaziz Al Saud, uno dei nipoti di re Fahd d’Arabia, personaggio legato da antica amicizia a Silvio Berlusconi. Per gli inquirenti, il “numero uno” sarebbe invece stato il boss mafioso Vito Rizzuto.
(7) A. Perrongelli, Le mani del clan Rizzuto sul Ponte di Messina, “Corriere Canadese”, 24 maggio 2005.
(8) Nell’ordinanza non vengono specificati i termini secondo cui i “pentiti” avrebbero fatto riferimento alla presunta mafiosità della società, né tantomeno risultano indagini relative a possibili collusioni con la criminalità organizzata.
(9) Tribunale Penale di Roma, Ordinanza di custodia cautelare in carcere e di arresti domiciliari nei confronti di Vito Rizzuto + 4, cit., p.4.
(10) Argofin è una società finanziaria controllata dal costruttore Marcellino Gavio, che opera principalmente nel settore della gestione di reti autostradali e delle costruzioni. Ad Argofin risale il controllo di due delle maggiori imprese di costruzioni italiane, Itinera e Grassetto.
(11) Techint è la holding della famiglia italo-argentina dei Rocca e controlla le società siderurgiche dello storico gruppo Dalmine e importanti acciaierie in America latina, Stati Uniti, Tailandia, Giappone e Cina. Sirti S.p.A. è il gruppo leader in Italia nel settore dell’impiantistica e telefonia fissa e cellulare, attivo anche nel settore dell’Alta velocità ferroviaria e dei sistemi militari avanzati (impianti di telecomunicazione e radio, ecc.).
(12) Efibanca è la merchant bank di BPI - Banca Popolare Italiana (ex Banca di Lodi), al centro delle cronache finanziarie (e giudiziarie) per l’assalto alla Banca Antonveneta.
(13) Nei mesi successivi alla presentazione dell’offerta per la gare del Ponte, Impregilo è stata oggetto di ulteriori scambi azionari. Nell’autunno 2005, è stato il colosso statunitense Hbk Investments ad entrare nel capitale della società con una quota del 2,29%. La Consob ha poi rilevato la scalata da parte della Banca Popolare di Milano, che ha prima portato la sua partecipazione nella società al 4,72%, per poi scendere nel marzo 2006 al di sotto del 2%. Nel febbraio 2006 ha invece fatto ingresso il gruppo finanziario italo-britannico Theorema Asset Management, rilevando il 2,13% del pacchetto azionario. Gli analisti finanziari hanno pure indicato un controllo su Impregilo da parte di uno dei maggiori gruppi finanziari internazionali, Morgan Stanley, che sarebbe giunto a controllare nel settembre 2005 l’8% del capitale azionario della società (5,25% in mano a Morgan Stanley International e 2,87% a Morgan Stanley & Co.). Un’acquisizione tutt’altro che limpida e lineare: chiamata in causa dal quotidiano Il Giornale di Milano in due articoli del 19 e 20 ottobre 2005 (Stanley Morgan veniva accusato di fare da «scudo a un possibile cavaliere mascherato»), il gruppo rispondeva con un ambiguo comunicato in cui dichiarava che «nessuna società del gruppo deteneva posizioni in Impregilo per le quali fosse necessario effettuare le comunicazioni previste dalla normativa di riferimento. La partecipazione complessivamente calcolata era infatti composta da posizioni detenute per conto di terzi a vario titolo, per le quali non esiste da parte di Morgan Stanley nessun obbligo di comunicazione».
(14) ”Astaldi: unificare le cordate”, Gazzetta del Sud, 20 aprile 2005.
(15) P. Brutti, Montalbano, Interrogazione parlamentare ai Ministri delle Infrastrutture e dei Trasporti e dell'Economia e delle Finanze, Legislatura 14º - Aula - Resoconto stenografico della seduta n. 791 del 03/05/2005.
(16) A conclusione della gara furono presentate le offerte dell’A.T.I. con capogruppo Astaldi S.p.A. e i mandanti Ferrovial Agroman SA, Maire Engineering S.p.A., Ghella S.p.A., Vianini Lavori S.p.A., Grandi Lavori Fincosit S.p.A.;; e dell’A.T.I. formata dalla mandataria Impregilo S.p.A. e dai mandanti Sacyr SA, Società Italiana per Condotte D’Acqua S.p.A., Cooperativa Muratori Cementisti-C.M.C. di Ravenna, Ishikawajima-Harima Heavy Industries CO Ltd., A.C.I. S.c.p.a. (Argo Costruzioni Infrastrutture Soc. consortile per azioni)-Consorzio stabile.
(17) WWF Italia, Richiesta di annullamento della fase di prequalifica e conseguente sospensione delle procedure di valutazione delle offerte per la scelta del General Contractor del Ponte sullo Stretto per violazione dell’art. 3 della Direttiva 93/37/CEE, Roma, 28 giugno 2005.
(18) L. Fazzo, F. Sansa, «Il Ponte? Lo vince Impregilo», parola di Marcello Dell’Utri, “La Repubblica”, 3 novembre 2005.
(19) Già consigliere di Francesco Cossiga nel settennato alla Presidenza della Repubblica, il 28 gennaio 1996 Carlo Pelanda ha partecipato assieme a Marcello Dell’Utri ad una conferenza dell’associazione “Il Buongoverno” a Mondello (Palermo). De “Il Buongoverno” è pure socio l’ex ministro Antonio Martino.
(20) “Il Sole 24 ore”, 11 giugno 2005.
(21) In particolare il professore Francesco Karrer ha curato per conto dell’A.T.I. Bonifica-Roksoil-Hydrodata il progetto di variante della strada per Gressoney (sul fiume Lys), in Valle d’Aosta. Rocksoil è la società di ingegneria dell’ex ministro delle Infrastrutture Pietro Lunardi
Un disastro. La sentenza del Tar del Lazio che annulla la procedura di approvazione del Piano regolatore di Roma del 2008 avrà effetti devastanti su una città già provata dal sacco urbanistico degli ultimi dieci anni.
Chiediamoci in primo luogo come sia potuto accadere. E’ avvenuto che l’allora sindaco Veltroni doveva dimettersi anticipatamente per poter avere il diritto a partecipare alla sfida elettorale nazionale contro Silvio Berlusconi. Così quello stesso piano regolatore che è stato condotto con passo di lumaca (oltre 10 anni di elaborazione!) doveva essere approvato in pochi giorni per poter vendere propagandisticamente l’evento. Le date fanno impressione. Il 6 febbraio 2008 si chiude la conferenza istituzionale tra Comune e Regione che approva il piano. Due giorni dopo la Giunta regionale del Lazio ratifica quello stesso accordo. Il 12 febbraio il Consiglio comunale di Roma lo ratifica a sua volta. Il 13 e 14 aprile si sarebbe votato per il primo turno delle elezioni comunali.
Fosse sempre questa l’efficienza della macchina amministrativa pubblica, non avremmo rivali in tutta Europa. Ma questa accelerazione insostenibile ha trascurato un passaggio essenziale. Afferma il Tar che essendo state in quella prima sede apportate alcune variazioni, esse dovevano essere rese pubbliche alla cittadinanza. Avremo tempo per leggere la sentenza e comprenderla fino in fondo. I dati che abbiamo sono però già sufficienti per affermare che la “gioiosa macchina del piano” del cosiddetto “modello Roma” faceva acqua da tutte le parti.
La sentenza dovrà essere letta attentamente anche per un altro ben più importante motivo: comprendere come si potrà ripristinare un sistema di regole in grado di scongiurare il far west urbanistico che si annuncia. Le dichiarazioni di alcuni esponenti del centrodestra lasciano presagire un futuro pericolosissimo. Manifestano una incontenibile soddisfazione per poter rimettere le mani sulla redazione di un nuovo piano regolatore: la diffusione della rendita fondiaria è un ottimo strumento per avere consenso. E, del resto, era questo l’intento del bando Alemanno per realizzare case popolari in campagna: riaprire l’eterno gioco della speculazione. Se ciò avvenisse sarebbe il colpo di grazia per questa sventurata città in cui sono stati approvati e realizzati un centinaio di “accordi di programma” in variante di quello stesso piano regolatore che si stava costruendo.
I principi del foro e del mattone non hanno impugnato nessuno di questi scellerati atti di urbanistica contrattata: facevano diventare edificabili terreni prima agricoli, musica per le loro orecchie. In questi casi solo i comitati di cittadini, come nel caso paradigmatico di Colle della Strega, hanno cercato di difendere la legalità e il diritto ad una città umana. Appena l’urbanistica ha tentato di mettere un argine al cemento, come nel caso della Bodicea property services, i legulei hanno tirato fuori le unghie. L’obiettivo era quello di distruggere la credibilità delle pubbliche amministrazioni a governare il proprio territorio.
Ma ora la città che in questi anni si è opposta all’urbanistica liberista romana deve farsi carico del disastro. Le regole approvate non esistono più e si torna al vecchio piano regolatore. Per fortuna che su comprensori come Tormarancia erano posti in essere vincoli paesistici che la sentenza del Tar non scalfisce. Se non ci fossero stati, sarebbero tornate in vigore le enormi previsioni edificatorie contenute in quel piano. Ma se Tormarancia è salva, la città è senza difese e dovremo impegnarci a chiedere un atto urgente che ripristini la legalità.
Ma abbiamo davanti un panorama devastante. Il primo viene dal quadro nazionale. L’aumento generalizzato delle cubature degli edifici esistenti (anche di quelli dei centri storici o vincolati, come afferma il disegno di legge anticipato dalla regione Veneto) voluto da Berlusconi, rischia di dare un colpo di grazia alla bellezza delle città storiche e di quel che resta del paesaggio agricolo. A seguire c’è il rischio dell’approvazione della famigerata legge Lupi.
Il secondo viene dalla povertà culturale della giunta Alemanno. Per dare lustro alla più bella città del mondo si vogliono cementificare trecento ettari di aree agricole per realizzare il “parco a tema della Roma imperiale”. La crisi internazionale si fa quotidianamente più grave, tutti i paesi si interrogano sul futuro possibile e la risposta è un circo da strapaese.
La sfida per la cultura progressista è questa. Dobbiamo avere capacità e forza per imporre un modello di città che abbandoni il cemento e metta al primo posto la vivibilità delle periferie. Trasporti efficienti e non inquinanti. Case popolari vere da costruire dove c’è la città senza consumare altra campagna. Scuole sicure e moderne. E’ questo lo scontro cui ci chiama la sentenza del Tar.
Qualche settimana fa, nel raccontare della decisione del Cavaliere di prendere delle sculture antiche dai depositi del Museo Nazionale Romano per decorare alcune sale di Palazzo Chigi, ritenute troppo spoglie per gli splendori del nouveau régime, ricordavo che con i miei studenti mi sono servito di questa vicenda per illustrare aspetti ideologici e storici di un precedente famoso di due millenni or sono, quello costituito dal continuo uso da parte di grandi generali e imperatori romani, che solevano ordinare il saccheggio di santuari e di piazze pubbliche del mondo greco per decorare ville e palazzi dell’Urbe.
Sappiamo da una lettera famosa di Cicerone che le povere statue greche, requisite con metodi spicciativi sovente ricostruiti in dettaglio dagli archeologi, venivano ricollocate nelle nuove sedi con colossali effetti kitsch, propri di tanta parte della cultura dei conquistatori del mondo: la ricostruzione dei "programmi decorativi", ossia delle linee guida dei nuovi significati assunti dalle sculture rapinate, rappresenta uno dei temi più importanti della ricerca contemporanea di storia dell’arte romana, di grande utilità per comprendere la mentalità dei committenti, che di rado si distingue da quella dei parvenus di tutte le epoche e di tutte le latitudini.
Mi chiedevo allora quale fosse il "programma decorativo" alla base di quel "delicato prelievo" dai depositi del Museo Nazionale Romano: ho ricordato l´episodio analogo del secondo governo Berlusconi.
Protagonista l’allora ministro per i Beni e le Attività culturali Urbani, il quale inviò a Bruxelles un busto di Adriano, figura archetipica – a detta dell´allora ministro – di quel Buongoverno che era in quegli anni la parola d´ordine della destra al potere e cara, sempre secondo Urbani, al nostro premier, conquistato dalle pagine della Yourcenar.
Quando scrivevo questa mia recente nota ignoravo le scelte del Cavaliere e a maggior ragione quale fosse "il programma" del nuovo arredo imperiale. Ora il nodo è stato sciolto. I giornali di sabato 14 marzo ‘09 sono pieni di articoli che, non senza alcune imprecisioni e vaghezze, ci informano sui materiali prescelti e persino sulla futura collocazione, se non di tutte, almeno delle principali sculture.
Il pezzo forte del "prelievo" è un gruppo raffigurante Marte e Venere, le cui teste sono in realtà i ritratti di un Marco Aurelio molto giovanile e della sposa di questi Faustina Minore. Il pezzo forte è veramente tale e è lungi dall’essere opera secondaria, trattandosi di un raro pezzo di scultura che immagina entrambi gli Augusti sotto spoglie divine, un’iconografia nella quale è facile trovare uno solo dei due imperatori, ma di rado l’augusta coppia: il gruppo fu trovato ad Ostia nelle cosiddetta "Basilica" agli inizi del secolo scorso, quando la sede naturale per questi trovamenti era il grande museo romano (nulla di simile esisteva ad Ostia): ora la sua nuova sede sarà il pianerottolo dello scalone principale di Palazzo Chigi. Poi si parla di due altri ritratti imperiali, mentre il "Corriere della Sera" afferma che le altre statue sarebbero invece un Ercole e una figura muliebre.
Ma per noi, curiosi della psicologia (e dei gusti) del Capo, il silenzio sulle motivazioni della scelta resta purtroppo assordante. Fortunatamente per noi la luce ci giunge dalla lontana Catania, contenuta in un articolo apparso sempre sabato 14 sul quotidiano "La Sicilia", dovuto alla penna colta e delicata di Michele Nania, il quale spiega tutte le profonde motivazioni del "programma decorativo" concepito per Palazzo Chigi. Con un titolo che trasuda cultura ("Quanto baccano per quattro statue... "), Nania testualmente così ci informa: "tanto per cominciare le statue sono tre e non quattro come sostiene la disinformazia comunista. Imparino a contare, lorsignori: c’è un gruppo marmoreo con Venere e Marte (tema peraltro di cui il signor premier può fare scuola e doposcuola) che sarà collocato alla sommità dello scalone d’onore, dove passano potenti e capi di Stato in visita ufficiale. Poi ci sono altre due cosuzze: una statua di Marco Aurelio e una della moglie Faustina Minore (bravo presidente, la famiglia innanzi tutto), che andranno nello studio privato". Basta con "la solita opposizione cattocomunista, maldestra e disinformata", si lascia sfuggire la sobria e informata penna di Nania, il quale di sfuggita accenna che la discussa trasferta sarda dei Bronzi di Riace per deliziare gli ospiti del G 8 sarebbe ormai cosa fatta ("….. il concitato imperio e il celere ubbidir…."): a noi che credevamo che la cosa fosse ancora in discussione e soprattutto avevamo fiducia che tutti quegli archeologi da poco nominati dal ministro nel Consiglio Superiore avrebbero ben ponderato il da farsi, senza preoccupazione di dar torto al Presidente, finalmente Nania ci fa ora sapere notizie di fonte sicura e soprattutto unica. D’ora in poi la stampa, seguendo l’esempio dotto e informato de "La Sicilia", potrà esplicitare motivi reconditi delle scelte autorappresentative del Cavaliere, messe in atto con i suoi napoleonici "prelievi". Finalmente sappiamo che il gruppo di Marte e Venere è lì, al termine del solenne moto ascensionale dello scalone, per ricordare ad illustri visitatori che il nostro Presidente del Consiglio è tutto armi ed amori: come dice Nania, sul tema Berlusconi può fare "scuola e doposcuola". Ma ci assale il dubbio di essere scarsamente informati sull’augusta biografia: se l’aneddotica sulla galanteria del Cavaliere è ricchissima, confessiamo la nostra pochezza cattocomunista nel sussurrare che ci sfuggono i suoi fatti d’arme.
Alla fine l'ordinanza è arrivata. Il commissariamento dell'area archeologica di Roma e di Ostia antica è stato presentato ieri dal ministro per i beni culturali Sandro Bondi. Con l'assenso della Regione e del suo presidente Marrazzo (rivendicato più volte come «atto coraggioso» dal sindaco Alemanno) e con due aggiustamenti di tiro. Nel primo, il Comune «capitola», uscendo definitivamente dall'operazione come soggetto in causa, evitando così gli scenari più cupi prospettati nei giorni precedenti (l'annessione dei siti); nel secondo, viene ridimensionata l'idea della commissione esterna, riconsegnando così nelle mani del soprintendente (in questo caso, Angelo Bottini) la presidenza del comitato scientifico preposto a indicare un indirizzo e a coordinare le attività del commissario.
Da parte sua, il responsabile della protezione civile Guido Bertolaso entra in scena come «tutore delegato» a tutto campo, un salvatore universale, dai rifiuti campani alla cattedrale di Noto fino alla Maddalena per il G8. E qui, a Roma, con circa 40 milioni di euro al suo attivo da spendere entro il 31 dicembre 2009. «Sono un servitore dello stato, ho accettato a titolo gratuito questo incarico - ha esordito - Da normale cittadino, ho visitato il Colosseo, il Palatino e i Fori, toccando con mano quelle bellezze e la loro vulnerabilità». A sentire le parole del sottosegretario Francesco Maria Giro, il patrimonio archeologico romano somiglia a un bollettino di guerra. Esondazioni, scavi abbandonati da decenni, discariche di immondizia vicino a templi come quello di Romolo, domus pronte al crollo. Secondo Gianfranco Cerasoli della Uil, l'emergenza però sarebbe soltanto un «falso mediatico». L'obiettivo reale? «Riprodurre le tentazioni autoritarie che mirano a superare le legislazione e le regole non solo dei Lavori pubblici, ma anche dello stesso Codice dei beni culturali». E lancia un allarme: «Nell'arco di pochi mesi il soprintendente Bottini verrà pensionato d'ufficio e la gestione rimarrà nelle mani della struttura commissariale».
Per il sub-commissario, i giochi sono aperti. In realtà, il candidato del governo già esiste: è Marco Corsini (venne impiegato nella ricostruzione del teatro della Fenice quando era assessore a Venezia), ma Bertolaso ha risposto picche. «Non abbiamo nessuna esigenza di allargarci. Per gli stati di emergenza abbiamo i nostri ingegneri, gli idraulici, i geologi che si occupano di queste cose».
Se al momento si è riusciti ad evitare la prevaricazione dei funzionari e la sostituzione di ruoli, resta una incognita la nomina ministeriale (quindi politica) di altri due esperti che dovranno lavorare in collaborazione con il presidente-soprintendente. «Non c'è nessun commissariamento della soprintendenza - tiene a sottolineare Bottini - Non è come avviene per i comuni sciolti, dove si cacciano i consoli. La procedura non ci spaventa: l'avevamo già chiesta al precedente governo per la Domus Aurea. Nell'ordinanza che parte «dagli eventi climatici di natura eccezionale verificatisi nei mesi di novembre e dicembre» rimarrebbe in piedi una supervisione statale dei siti archeologici, ma si specifica anche che Bertolaso può far ricorso a liberi professionisti e destituire altri lavoratori qualora ritenuti inefficienti allo scopo. Sarà lui a individuare i soggetti e a dare gli appalti. Per i sindacati, si preannunciano tempi duri durante i mesi dell'emergenza.
Il commissario sarà un «esecutore», potrà avvalersi delle risorse economiche in maniera veloce e avviare la messa in sicurezza di zone pericolanti. Non va comunque dimenticato, spiega ancora Bottini, che fuori dall'ordinanza il tema scottante rimane «la gestione di queste aree. Il Palatino è in parte chiuso non soltanto per problemi di sicurezza dei visitatori, è inaccessibile soprattutto per mancanza di fondi. Si vogliono privatizzare dei servizi?». Per nulla scandalizzato dalla richiesta di statue di Berlusconi per le sue stanze del potere («l'abbiamo già fatto anche per la Corte dei Conti; a Palazzo Chigi avrebbero funzione di rappresentanza sculture comunque negate alla fruizione pubblica e solo per quattro anni»), Bottini chiede invece «grande prudenza» quando si parla di spostamenti di massa, come nel caso delle opere d'arte che dagli Uffizi potrebbero emigrare a Abu Dhabi. «Si tratta di collezioni organiche, non si può menomare una raccolta pubblica di tale rilevanza».
L'idea del trasloco negli Emirati è accarezzata dal direttore generale Mario Resca («lanciata» dal presidente della Regione Toscana) che ieri è finito al centro di un contenzioso fra Consiglio di stato e ministero per i beni culturali: i magistrati incaricati di sorvegliare l'amministrazione hanno restituito a Bondi lo schema di regolamento di riforma del suo dicastero, sospendendo il parere e chiedendo ulteriori chiarimenti. Se un primo rilievo riguarda il numero delle direzioni generali (c'è stata una riduzione del 20% degli uffici dirigenziali), l'altro investe proprio Resca: sarà adatto un manager di casinò e McDonald's a valorizzazione il patrimonio culturale? La domanda resta aperta, nonostante Bondi si sia dato un bel sette in pagella e abbia accettato i tagli furiosi della finanziaria.
«Interventi urgenti di protezione civile». Così recita il decreto legislativo per il commissariamento straordinario dell'archeologia romana di venerdì scorso. Ma qual era l'urgenza effettiva se è stato annunciato un mese e mezzo prima? Nel frattempo poteva crollare il Palatino e andare sott'acqua irreparabilmente la Domus Aurea. E poi, se questi sono i due punti critici, perché si parla di «grave situazione di pericolo in atto nell'area archeologica di Roma e provincia»? Dunque, non soltanto il Comune di Roma e quello di Fiumicino, ma pure Palestrina, i Castelli, Civitavecchia e chissà cos'altro ancora. L'appetito vien mangiando. Inoltre, se si chiama addirittura il capo della Protezione Civile a svolgere questo ruolo strategico, i danni saranno sicuramente ingenti. Così la pensano quanti sono lontani da Roma (e non possono constatare de visu che tutto questo disastro non c'è). Negli Stati Uniti - ne ha parlato il New York Times - penseranno che è meglio tenersi alla larga da questa Roma (e provincia) tanto disastrata. Un bel servizio reso al turismo romano che boccheggia per la latitanza di americani e giapponesi e a rianimare il quale non serviranno né il Parco tematico sulla finta romanità così tenacemente voluto dal nuovo genio del turismo, il vice-sindaco Mauro Cutrufo (e al quale anche la Regione Lazio, orrore, sembra disponibile), né i bolidi della Formula 1 che, fra qualche anno, sequestreranno l'Eur per settimane fra lancinanti rombi di motori. Grande è la confusione sotto il cielo di questa Roma affidata a Bondi, a Giro e ad Alemanno. Tanti gli annunci (spesso sballati), zero le decisioni utili. Oggi capiremo meglio cosa contiene il decreto d'urgenza per il commissariamento. Ma le previsioni promettono poco di buono. Il professor Carandini non sarà più a capo dei superesperti di Bertolaso, essendo stato premiato con altri allori. E’ già qualcosa.
È UN’IMMAGINE che bisognerà abituarsi a vedere sempre di più: capannoni nuovi di zecca con cartelli che recano la scritta "Vendesi" o "Affittasi". Le fabbriche chiudono e le zone industriali si riempiono, in maniera crescente, di fantasmi. Per capire l’entità del fenomeno non bisogna attenersi tanto ai dati ufficiali, che registrano ancora poco. La Fiaip segnala, per esempio, un calo superiore al sette per cento per quanto riguarda le compravendite di capannoni.
Nomisma dice che anche i canoni sono in discesa, meno 1,1 per cento nel secondo semestre 2008, con un punte del meno 4,4 in provincia di Bergamo. Parlando con gli operatori del settore, però, si raccoglie molto più pessimismo. Valerio Uboldi sta tentando di vendere un capannone da 13mila metri quadrati, ultimato nel 2005, a Bariana, frazione di Garbagnate. «I prezzi sono calati del dieci per cento e in alcune aree si sono anche dimezzati. Siamo tornati ai valori del 2000. Io sto mettendo su un’azienda agricola per dare un futuro ai miei figli».
Per Legambiente è anche colpa della deregulation voluta dalla Regione. «In Lombardia nel decennio 1997-2006 - spiega Damiano Di Simine basandosi su dati Istat - si sono costruiti quasi 32.000 capannoni: una media di due all’anno in ogni Comune della nostra regione. Ora rischiano di diventare un tipico segno del nostro paesaggio, dove si costruiscono moltissimi contenitori, spesso in mezzo alla campagna, preoccupandosi molto poco del contenuto». È l’eredità, continua Di Simine, di una legislazione generosa: «Programmi integrati di intervento, piani attuativi in variante, sportelli unici, varianti ex-legge 23/97... E poi anche la legge Tremonti. Tutto va bene per realizzare insediamenti produttivi senza criterio».
Ma è anche nelle città che ora rischiano di aggiungersi nuovi strati di archeologia industriale. A Bollate, a due passi dal cimitero e di fronte alla Lidl, c’è la Syntess, industria tessile che gli operai avevano tentato eroicamente di salvare dalla chiusura provando ad acquisirla e a gestirla in proprio. Non ce l’hanno fatta e ora nel cortile dell’azienda un coniglio la fa da padrone. «È il mio - racconta la signora Lucia, la custode di origini campane - lo tengo qui, mi fa compagnia». A Garbagnate, invece, è in vendita lo stabilimento della Tc sistema servizi, azienda del settore hi-tech che a luglio ha licenziato 27 dipendenti. Le fabbriche sono transeunti e in ogni angolo della Lombardia ne restano le tracce. Come a Vimercate, dove campeggiano ancora le insegne della S. A., industria di lino e canapa, memoria di un’industria tessile che non c’è più. A Carpiano, invece, quel che resta di un grande allevamento intensivo gestito da un consorzio sono quattro enormi capannoni sulla Binaschese, quattro ecomostri in piena campagna. Quelli che un tempo erano gli uffici ora sono il ritrovo delle prostitute e dei loro clienti, come dimostrano i divani e i materassi sistemati qua e là. «Quei capannoni si vendono con tutti i terreni - dice il benzinaio della Q8 - quindici milioni di euro e te li compri tutti». Più avanti c’è la zona industriale del paese. Edifici appena ultimati, alcuni con le porte ancora imballate. I cartelli con la scritta vendesi, però, ormai non si notano quasi più: sono finiti per terra, piegati dal vento e dalla pioggia.
Da Magenta ad Arcore, da Zingonia ad Arese, nei nuovi insediamenti logistici del Lodigiano, ad Agrate e a Burago, in Brianza, la crisi lascia alle società immobiliari un grande patrimonio da vendere. Ma prima di trovare un acquirente o un affittuario si aspettano mesi e mesi, e il prezzo intanto scende. E più sono grandi gli insediamenti, più è difficile piazzarli. «Il dato su cui riflettere è questo - attacca Mario Agostinelli, capogruppo di Rifondazione in Regione - in Lombardia ci sono ormai 27 milioni di metri quadrati di aree dismesse». Maurizio Martina, segretario lombardo del Pd, punta l’indice contro la legge Tremonti, che ha consentito di costruire aree industriali con meno vincoli ma senza programmazione. «Gli effetti di questa incapacità di governare il territorio ora sono visibili. Basta andare, per esempio, in alcune zone della provincia di Bergamo, per vedere quanto si sia sacrificato l’ambiente senza creare ricchezza. Non è così che si incentiva il sistema produttivo: una riflessione su alcuni errori del passato va compiuta. E per il futuro, prima di andare a toccare il verde, si riqualifichino le aree ex industriali». L’assessore regionale all’Urbanistica, il leghista Davide Boni, ammette: «In passato il problema c’è stato, non l’ho mai nascosto. Si è costruito troppo sfruttando tutte le agevolazioni esistenti sul manifatturiero. Per il futuro rivedremo tutto, ci saranno controlli maggiori: bisogna ricominciare a utilizzare i capannoni che già ci sono e ridurre le semplificazioni che hanno consentito uno sviluppo disordinato».
postilla
Altro che “da Magenta a Arcore …” eccetera, come recita l’articolo: anche scavalcando il Po, gli Appennini, e addirittura Tirreno o Stretto di Messina, salta all’occhio la criminale idiozia delle ineluttabili zone produttive che servono quasi esclusivamente a “produrre” sé stesse. Basta farci un giretto in certe mattine per capire che il valore aggiunto della cementificazione e sbancamento di terreni non sta nei posti di lavoro o nella trasformazione di materie prime in prodotti finiti o semilavorati, ma nel solito “sviluppo del territorio”. Che ora con la crisi mostra più impudiche che mai le chiappe scoperte della foia trasformatrice di certi nostrani “policy makers ”, di amministrazioni abituate a reagire in automatico a qualunque proposta di questo tipo considerandola fonte di “ricchezza”. Come poi insegnano le crisi più “avanzate”, in testa quella americana, a svuotarsi ci sono poi anche i parchi per uffici, e dulcis in fundo anche le cattedrali del consumo, tirate su in fretta e furia contro ogni logica dentro a bacini di potenziali consumatori di fatto virtuali (ogni scatolone presenta i conti come se il bacino di utenza fosse suo in esclusiva), e che ora giocoforza consumeranno ancora di meno. È troppo tardi per aspettarsi un ripensamento, magari anche solo delle logiche più perverse come la concessione delle fasce autostradali per insediamenti produttivo-commerciali FUORI dai piani regolatori? Una pensata per ora solo lombarda, ma che visti i precedenti forse non mancherà di suscitare anche l’entusiasmo di altre regioni di vari colori (f.b.)
Dopo un primo ripensamento, Leonardo Domenici, sindaco uscente di Firenze, ha annunciato di volere approvare il piano strutturale adottato nel luglio del 2007, come missione conclusiva del suo mandato. Il piano strutturale, che prevede 6 milioni e mezzo di metri cubi aggiuntivi, è il contraltare di una serie di operazioni in corso sbagliate nel merito e nelle procedure adottate. Tanto vuoto il primo, un vero lasciapassare alla rendita, tanto scoordinate e prive di una vera progettualità le seconde. Mai come questa volta è quindi vero che il prossimo sindaco di Firenze dovrà sviluppare una politica innovativa rispetto al suo predecessore, una svolta radicale.
La prima opzione del nuovo sindaco è di anteporre gli interessi dei cittadini a quelli della rendita immobiliare che, nelle sue varie forme sta paralizzando l’economia fiorentina. Si tratta di uscire finalmente dall’equivoco per cui l’edificazione sempre, comunque e a prescindere, significa sviluppo. Complementare a questa opzione è la scelta politica di porre al centro delle decisioni urbanistiche la partecipazione dei cittadini. Le consultazioni e le assemblee promosse dall’ultima amministrazione nel processo di formazione del piano strutturale non hanno tenuto conto, se non in modo del tutto marginale, dei pareri espressi, delle idee, dei progetti alternativi avanzati dagli abitanti e dai comitati. Ben lontani da una vera democrazia deliberativa ci si è mossi come se gli eletti avessero avuto una delega una tantum degli elettori. Sottovalutando, oltretutto, il fatto che un’autentica partecipazione dei cittadini è condizione indispensabile per il successo di progetti complessi, che interessano una pluralità di soggetti, in cui i benefici futuri possono essere oscurati dai costi immediati.
E qui nasce una seconda fondamentale opzione. Il grande problema di Firenze è di spendere l’eredità medicea non solo per vendere scarpe, borse e souvenir e servizi di bassa qualità ai turisti, per affittare appartamenti scalcinati agli studenti o costruire alberghi di lusso. In un territorio ormai saturo si può e si deve costruire solamente se dietro a ogni operazione immobiliare vi è un progetto che contribuisca a diversificare e modernizzare l’economia della città. Un esempio è la recente proposta di Diego Della Valle – patron della Fiorentina - di costruire il nuovo stadio di calcio e una cittadella dello sport e del commercio nell’area di Castello di proprietà della Fondiaria. Si è molto discusso e polemizzato sulle destinazioni e sul carico urbanistico. Meno ci si è chiesti se le infrastrutture esistenti e progettate (ma con quali tempi di realizzazione?) sarebbero in grado di reggere una domanda di mobilità concentrata in alcune ore di punta. Nessuno si è domandato se dietro alla proposta vi sia un serio progetto industriale: chi gestirà i futuri insediamenti commerciali e le altre attività previste; e con quali profitti e quali conseguenze sulle attività ancora presenti nella città. In sintesi: l’intera operazione porterà vantaggi ai cittadini di Firenze? una domanda cruciale ma assente nelle trattative intercorse fra vertici della Fondiaria e amministratori pubblici.
Una terza opzione riguarda la questione delle infrastrutture di trasporto, in particolare, le linee della tramvia. L’annuncio del candidato del PD, Matteo Renzi, di volere rivedere i progetti delle linee 2 e 3 è condivisibile per due motivi. Il primo è che gli attuali progetti sono in più punti sbagliati; il secondo è che comunque non sono coerenti con le scelte urbanistiche, per quanto confuse, e con gli interventi in corso nel territorio fiorentino. Valga il fatto che recentemente ci si è accorti che la tramvia, così come progettata, non avrebbe servito l’aeroporto di Peretola e l’insediamento di Castello. E’ logico perciò rivedere in modo coordinato tutte le previsioni su trasporti, parcheggi, nodi scambiatori, modalità integrazione con le linee ferroviarie e riverificarne la fattibilità non solo in termini di investimenti, ma anche dal punto di vista dei programmi finanziari e gestionali. Senza dimenticare che la costruzione di infrastrutture come la tramvia dovrebbe essere l’occasione per riqualificare le zone più sacrificate della città, per dotarle di nuovi spazi pubblici, come è accaduto in tutte le altre città europee interessate da analoghe operazioni
Infine: in attesa di sviluppare il suo programma, la prima decisione del nuovo sindaco di Firenze dovrebbe essere di arrestare il perverso processo di densificazione in cui si manifesta, anche simbolicamente, la politica pregressa. Cortili dove al posto di un qualche magazzino o stabilimento artigianale dismesso nascono palazzi multipiano, in una situazione urbanistica già congestionata, priva di servizi e di verde. Dove i soliti noti riescono a strappare, con l’ausilio degli uffici comunali, permessi a costruire nelle pieghe dei regolamenti o nell’ illegalità, come è dimostrato dal numero crescente degli interventi sanzionatori della magistratura. Una decisione che si scontrerebbe con il solito muro dei diritti pregressi e consolidati che meglio sarebbe chiamarli interessi contrattati; tuttavia, una decisione coraggiosa che alcuni grandi sindaci – a Firenze o altrove – avrebbero preso senza esitazione, sicuri di fare l’interesse della città. Ne sarà capace la nuova amministrazione? Una risposta positiva sarebbe un motivo di speranza e il segnale che realmente qualcosa di nuovo si muove nella politica fiorentina.
Per ciò che riguarda l’amministrazione uscente, cosa saggia sarebbe di lasciare alla prossima la revisione e l’approvazione del piano strutturale. Sarebbe una scelta ampiamente motivata. A meno che vi siano troppi impegni che attendono di essere onorati; ivi compresa l’opzione apparsa in extremis di una variante (proposta addirittura come controdeduzione alle osservazioni, costume riprovevole e nella sostanza illegale) che permetterebbe l’edificazione di quasi mezzo milione di metri cubi, non dimensionati nel PS adottato, in aree ferroviarie da dismettere. Il suggello finale di una gestione urbanistica che ha fatto della rendita il suo faro politico.
, così come appare chiaro dalla sequenza degli interventi riportati, appare suddivisa fra due eventi prevalenti: la vicenda Englaro usata a pretesto dell’ennesimo attacco alla carta costituzionale e quelle del commissariamento dell’area archeologica più famosa al mondo: si tratta di situazioni distanti per ambito, ma forse non così tanto per ciò che raccontano di questa triste realtà italiana al di là delle cortine fumogene di cui, entrambi, sono ammantati.
Le polemiche, infuocate, che stanno accompagnando la decisione del Ministro Bondi, di concerto con il Sindaco Alemanno, di proporre un commissariamento delle Soprintendenze di Roma e Ostia, sono state ben illustrate, nelle loro motivazioni, dagli interventi ripresi da eddyburg: dal comunicato di Italia Nostra nazionale, agli articoli sulla stampa (Emiliani, l'Unità, La Regina e Torelli, la Repubblica, ed. Roma).
A tali testi rimandiamo per l'illustrazione delle molteplici ottime ragioni che giustificano l'opposizione più netta ad una decisione di questo tipo, a partire dalle risibili motivazioni di straordinaria emergenza apportate a pretesto dell'operazione, così come successe a Pompei, come pure per le modalità prescelte, inopportune sotto il profilo amministrativo (l’assessore all’urbanistica del Comune, investito di compiti di controllo su chi, per legge, dovrebbe controllare gli atti da lui emanati) e approssimative sotto quello istituzionale (neppure un’informazione a Regione e Provincia, in spregio alle più elementari regole di collaborazione fra amministrazioni che operano sul medesimo ambito territoriale).
Ma soprattutto, la gravità di una simile operazione si cela in quel Comitato Scientifico che, affiancando il commissario, dovrebbe, si intuisce, guidarne l’azione sotto il profilo culturale (e quindi di sostanza), esautorando il personale scientifico della Soprintendenza da ogni attività progettuale e di fatto circoscrivendone le competenze a mere mansioni tecnico-burocratiche, poiché nella concezione più volte riaffermata di colui che pare indicato quale capo di tale Comitato, a questo di fatto si riduce l’esercizio della tutela.
La reazione, fermissima, del personale scientifico della Soprintendenza, dal 2 febbraio in stato di agitazione permanente, ha conseguito il primo importantissimo risultato di mettere allo scoperto le molte distorsioni sulle quali poggiano le motivazioni di una simile iniziativa, riaffermando, con giustificato orgoglio, la lunghissima tradizione di straordinari risultati conseguiti dalla Soprintendenza romana in decenni di esercizio della tutela inteso nel senso più completo e ampio del termine e riconosciuto ai massimi livelli dal mondo scientifico internazionale, pur nella situazione di costante, progressivo depauperamento delle risorse cui sono sottoposte tutte le soprintendenze sul territorio.
Prima vittima della disinformazione sulla reale situazione dell’archeologia romana ci pare proprio il Commissario designato, Guido Bertolaso, a giudicare da talune sue piccate reazioni. Il supercommissario degli italici disastri dichiara di aver ricevuto da una lettera del Ministro Bondi informazioni su una situazione "a rischio di instabilità, di degrado irreversibile, di dissesto che possono compromettere l'area più bella e importante del mondo": poiché, vista la reazione dei funzionari della Soprintendenza nel loro complesso, compresi i diretti responsabili delle aree interessate, non è certo da costoro, e quindi dai canali istituzionalmente deputati al monitoraggio dell’area stessa, che Bondi ha ricavato la documentazione che ha scatenato una decisione simile, da quale fonte provengono queste indicazioni?
Adriano La Regina, che di quelle aree e della situazione complessiva della Soprintendenza ha una certa conoscenza, nel suo articolo di domenica scorsa ha tentato di ripristinare con l’evidenza dei dati storici e delle cifre una realtà ben diversa, rivendicando, al personale da lui diretto per lunghi anni, tutte le capacità non solo gestionali, ma anche scientifiche e culturali necessarie per operare in autonomia di fronte a ogni "emergenza".
Siamo facili profeti, dunque, a immaginare che quando il Commissario procederà in primis, come dichiara, ad una ricognizione sui luoghi per verificare lo stato delle cose, avrà probabilmente qualche sorpresa e si accorgerà che le uniche situazioni, per dir così, approssimative, sono da imputare non agli scavi e alle attività direttamente condotte dalla Soprintendenza, ma a quelli generosamente e per lungo tempo dati in concessione a universitari troppo impegnati nella pubblicizzazione di presunti scoop scientifici per occuparsi di manutenzione ordinaria. Per il resto vedrà i segni dei lavori incessanti di restauri infiniti, come inevitabile in aree di così ampia estensione e di situazione geologica così compromessa come quelli dell’area centrale; opere che si potrebbero facilmente accellerare e concludere con procedure ordinarie e l’assegnazione di fondi adeguati, così come successe in anni non lontani di fronte a situazioni per lo meno altrettanto gravi.
Che poi, come nota Bertolaso, a Pompei non vi sia stata, di fronte al commissariamento, uguale reazione di protesta da parte del personale della Soprintendenza, ciò è imputabile alla presenza, alla guida del sito campano, di un Soprintendente del livello culturale e del carisma personale di Piero Guzzo, in grado quindi di tutelare gli spazi di azione e le competenze della Soprintendenza stessa, operazione nella quale è stato infatti costretto a impegnare le proprie energie per lunghi mesi, mentre, come è ormai chiaro a tutti, stampa e mondo scientifico internazionale compresi, il commissariamento non ha finora prodotto che qualche miglioria igienico-idraulica e qualche danno archeologico.
Nel suo articolo sul Corriere, Bertolaso elenca infine una lunga serie di interventi in ambito culturale cui la protezione civile è stata chiamata nel corso degli ultimi anni: quell’elenco sta a dimostrare, nella maniera più efficace, quanto sia ormai reiterata e diffusa la pratica del ricorso ad un organismo creato per altri obiettivi e di sicuro non per sostituirsi alle normali pratiche di manutenzione ordinaria, di restauro e gestione del patrimonio.
Dunque la pretesa emergenza romana può essere ricondotta all’interno di un’operazione ben più ampia che, anche se a volte appare scomposta e approssimativa nelle modalità istituzionali, è ormai diffusa in molti diversi ambiti e rappresenta il tentativo reiterato di scardinamento complessivo del sistema di regole e principi attualmente vigente sul piano della legittimità giuridica, sistema che, continuamente rimesso in discussione, soprattutto per questo risulta minato costantemente nella propria efficacia istituzionale.
Questo accade sul versante della riforma del sistema della giustizia, su quello dei diritti civili sistematicamente negati ai non cittadini, sulle questioni delicatissime della bioetica e, allo stesso modo, in quello della tutela del nostro patrimonio culturale.
I meccanismi sono assai simili: la creazione di un’emergenza fittizia che funga da pretesto per operare attraverso scorciatoie amministrative e un allentamento dei controlli ordinari. E assieme, e strettamente connesso, il tentativo di ingabbiare e svilire l’operato di chi è preposto a determinati compiti non per nomina politica ma per competenza legalmente riconosciuta (medico, giudice o archeologo che sia) e quindi non sufficientemente affidabile perché non dipendente da una volontà che non sopporta opposizioni o rallentamenti e che anzi trasforma coloro che resistono in nemici da sconfiggere e punire.
Un'ultima considerazione: in questi tempi pericolosi e difficili in cui si sta svolgendo uno scontro pesante fra chi cerca di tutelare le regole più elementari e fondanti di una civile democrazia e chi, d'altro lato, si scaglia eversivamente contro la nostra Costituzione, anche questa partita, apparentemente marginale, ci riporta al cuore di un conflitto che non appare più rinviabile.
E questa vicenda non riguarda quindi semplicemente il futuro prossimo dell’archeologia romana, né è circoscrivibile ad un ambito municipale, ma investe necessariamente il destino dell’intero patrimonio culturale nazionale.
Per questo siamo tutti chiamati a una tenace resistenza, ciascuno nel proprio ambito.
A esortazione per tutti noi, mi sembrano cupamente adeguate le parole di Eugenio Scalfari nel suo editoriale di domenica scorsa, allorchè ripercorreva, con qualche brivido, le fasi dell’ascesa della dittatura fascista:
"In quel passaggio del 3 gennaio ´25 dalla democrazia agonizzante alla dittatura mussoliniana, gli intellettuali ebbero una funzione importante.
Alcuni (pochi) resistettero con intransigenza; altri (molti) si misero a disposizione.
Dapprima si attestarono su un attendismo apparentemente neutrale, ma nel breve volgere di qualche mese si intrupparono senza riserve.
Vedo preoccupanti analogie. E vedo titubanze e cautele a riconoscere le cose per quello che sono nella realtà. A me pare che sperare nel "rinsavimento" sia ormai un vano esercizio ed una svanita illusione."
Ciascuno faccia la propria parte.
Per aderire all’appello delle Soprintendenze di Roma e Ostia contro il commissariamento