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«Non solo rinvii, si rinunci al ponte»

intervista di Angela Mauro a

Edoardo Salzano

Edoardo Salzano, urbanista da sempre contrario al ponte sullo Stretto di Messina, non è per niente impressionato dal dibattito che, dopo il terremoto in Abruzzo, si sta sviluppando intorno alla Grande opera promessa dal governo Berlusconi. «I politici italiani ragionano sempre nell'ottica immediata, mai sul lungo termine», dice Salzano a proposito di chi, anche nel Pdl, comincia a pensare che per favorire la ricostruzione in Abruzzo sarebbe meglio rinviare il Ponte sullo stretto. L'ultimo in ordine di tempo è stato il deputato del Pdl Giuliano Cazzola, imprenditore, che proprio ieri diceva a Repubblica Tv : «Se ci sono delle priorità, credo che anche il ponte possa passare in seconda fila». Meglio che niente, è il pensiero di Salzano. Ma non basta.

Sarebbe meglio rinunciare all'opera. Ma il terremoto in Abruzzo non ha portato il dibattito così lontano...

Il ponte non è una priorità e non è utile. Per il bene della Sicilia, andrebbe potenziato il trasporto via mare. Con il ponte, l'isola diventerebbe un "cul de sac", la fine di un percorso di terra. Se si potenziassero le vie d'acqua diventerebbe una cerniera di collegamento con i porti d'Europa e con quelli dell'Africa settentrionale.

Oltre che considerazioni di carattere paesaggistico e ambientale, la sua valutazione comprende anche il rischio sismico della zona del ponte.

Oltre che essere sbagliato dal punto di vista funzionale, il ponte è sbagliato dal punto di vista della sicurezza. La faglia passa proprio da quelle parti, sarebbe una struttura a rischio, i terremoti in quell'area non sono una novità. Per non parlare dell'abusivismo in zona...

Dopo il sisma in Abruzzo, il Corsera ha lanciato l'idea di rinviare la costruzione del ponte. Anche molti del Pd, prima favorevoli, ora suggeriscono di far slittare i lavori per recuperare fondi per la ricostruzione. E cominciano a pensarla così anche nel Pdl. Manca ancora però una valutazione seria e ad ampio raggio sui rischi di un'opera del genere.

I nostri politici ragionano a seconda dell'immagine immediata che le loro dichiarazioni possono avere. Non ci sono più politici che studino problemi e soluzioni nel lungo periodo. Intorno al ponte hanno messo in giro speranze e affari. Una cosa è dire: rinviamo. Un'altra è dire: non se ne fa più niente, dichiarazione che farebbe perdere voti. Le forze legali e illegali entusiasmate dal progetto sono consistenti, capisco che i politici preferiscano parlare di rinvio. In qualche modo sono schiavi degli interessi che si agitano intorno al ponte.

L'Mpa di Lombardo, governatore della Sicilia, insiste sul ponte. Mentre il presidente della Regione Calabria, Loiero del Pd, insiste sul fatto che l'opera non è una priorità. Forse Lombardo ha maggiori interessi anche elettorali, visto che alle europee debutta nell'alleanza con Storace.

Probabile. Il punto è che alla gente non si raccontano le cose giuste. C'è un immaginario collettivo per il quale il ponte è il collegamento facile tra la Sicilia e il continente, fonte di benessere per la Sicilia. Questa è una follia: la Sicilia non è solo appendice dell'Italia. Potrebbe essere cerniera verso altri continenti. C'è un municipalismo di fondo, una chiusura dialettale, una incapacità di guardare al ruolo strategico dell'isola in relazione a un territorio più vasto. Eppure la Sicilia storicamente è stata un luogo con rapporti con il mondo arabo o con la Grecia: c'è un'eredità storica che va recuperata e per farlo non ti serve certamente il ponte.

Cosa servirebbe per portare la discussione su una rinuncia al ponte?

Va detto che è meglio sentir parlare di rinvio piuttosto che di"facciamolo e basta". Serve a guadagnare tempo, ma è insufficiente. Servirebbe rendersi conto che il suolo non ha come destinazione ottimale l'ospitare case, fabbriche o autostrade. Il suolo ha un valore in sè che dipende anche dalla sua naturalità. Rinunciare a questo si può se serve a cose socialmente più utili. Ogni ettaro sottratto alla natura, lo sottraiamo agli usi indispensabili per la sopravvivenza dell'umanità. Inoltre le trasformazioni del territorio devono essere viste e decise nel loro insieme. E' profondamente sbagliato dividere in compartimenti stagni tra prevenzione, espansione delle città, mobilità, difesa dell'agricoltura, ecc. Tutte queste cose devono essere viste insieme e lo strumento per farlo è la pianificazione territoriale e urbanistica che purtroppo in Italia è considerata un impaccio, soprattutto per gli interessi immobiliari che vengono sempre favoriti a dispetto di tutto. In Italia più la città cresce, più il sindaco è contento; più le cubature aumentano, più il pil cresce. Finchè restiamo dentro questa logica, siamo fottuti.

Si può dire che il terremoto in Abruzzo abbia fermato l'ultimo scempio annunciato dal governo: il piano casa.

Sperando che l'abbia davvero fermato. In realtà, ancora prima di pensare di introdurre nelle nuove norme sull'edilizia una maggiore attenzione per i criteri antisismici, si è pensato a norme più severe per gli sciacallaggi. Questo la dice lunga... E poi la protesta dei governatori regionali prima del sisma non ha migliorato il piano.

Nel senso che le Regioni si sono limitate a difendere le proprie competenze legislative in materia?

Esatto. Non hanno migliorato il tutto, hanno solo reso possibile quello che sembrava obbligatorio. Hanno difeso le loro competenze e ora il risultato è che ogni regione potrà fare il bello e il brutto e sono poche quelle che vogliono fare il bello, privilegiando gli interessi dell'ambiente e della sicurezza sugli interessi dei gruppi edili. Una cosa su cui tutte le Regioni sono d'accordo è svincolarsi dal rispetto della pianificazione paesaggistica nazionale: stanno ottenendo di ridurre il potere delle soprintendenze, riconosciuto all'articolo 9 della Costituzione. Per questo sul piano casa parlerei di vittoria delle Regioni, non di vittoria del popolo.

21 aprile 2009

Il terremoto e la catastrofe della cultura dominante

di Piero Bevilacqua

Il piano casa del governo Berlusconi (nella sua annunciata prima versione)e il terremoto del 6 aprile, che ha sconvolto l’Aquila e i paesi vicini, sono due “eventi” in diversa misura esemplari della storia dell’Italia contemporanea. E‘ “esemplare”, drammaticamente e dolorosamente, il terremoto, perché esso è un fenomeno consueto e direi funestamente familiare nel nostro Paese. Ogni cento anni, in media, l’Italia viene colpita da circa 100 terremoti di magnitudo compresa fra 5 e 6, nonché da 5- 10 sismi di magnitudo superiore a 6. Questo ci dicono, con ricerche ponderose condotte negli ultimi decenni, gli storici italiani del terremoti, tanto stimati nel mondo quanto negletti e inascoltati in patria.

Il nostro, infatti, è un territorio geologicamente giovane, gran parte del quale è emersa da non più di 1 milione di anni. E’ sufficiente ricordare che l’Italia, unica in Europa, ospita ben 4 vulcani attivi : il Vesuvio, l’Etna, lo Stromboli e Vulcano. E vulcanismi e terremoti sono paresti stretti. Ma occorre ricordare che la giovinezza geologica della Penisola non si esprime solo con gli eventi improvvisi e imprevedibili dei terremoti.La catena dell’Appennino, che attraversa l’intera Penisola, costituisce un immenso campo di forze in movimento, perché lì l’azione delle acque e degli eventi meteorici tende a trascinare i materiali erosi alle montagne e alle colline verso le valli sottostanti e le cimose litoranee dei due opposti mari. Quelle montagne scendono.L’Italia, infatti, non soltanto è terra di terremoti, è anche un Paese di frane.Una indagine ministeriale, condotta dopo la sciagura di Sarno del 1998, ha calcolato che oltre il 45% del territorio è da considerare a rischio idrogeologico elevato o molto elevato

All’interno di un abitat così fragile, così esposto agli imprevisti della natura è ospitato un patrimonio artistico e monumentale fra i cospicui e preziosi al mondo.Si tratta, di chiese, monasteri, palazzi, piazze, fontane, statue, interi centri cittadini che custodiscono la nostra storia e la nostra identità. E al tempo stesso, non dimentichiamolo, testimoniano una cultura delle società del passato non ancora devastate dalla furia dell’economicismo insensato del nostro tempo.

Ebbene, a fronte di questo quadro naturale e storico, le classi dirigenti italiane da decenni non riescono a esprimere una consapevolezza culturale, prima ancora che politica, all’altezza della drammatica originalità del nostro caso.Esiste una cecità persistente di fronte al nostro paesaggio visibile, quello delle frane, ma anche di fronte a quello invisibile dei terremoti.Quest’ultimo – come ha scritto Emanuela Guidoboni, una delle maggiori studiose del fenomeno - «risulta nascosto da un abito culturale che tende a consolidarsi nelle fasi lunghe e delicate delle ricostruzioni: è allora, infatti, che progettualità e razionalità dovrebbero delineare i termini del successivo appuntamento con il terremoto, quando un’altra generazione dovrà raccogliere l’eredità della ricostruzione». Chi governa tende a dimenticare che ci sarà un altro terremoto, che la vita di migliaia di bambini, donne, uomini, alcuni ancora non nati, dipende da come noi ricostruiamo oggi.

E’ proprio la memoria storica e la lungimiranza di questo costruire per il futuro che latita nel comportamento delle classi dirigenti italiane. Ma il primo progetto per la casa del governo in carica, sepolto dalle critiche delle regioni e dalle macerie del terremoto abruzzese, costituisce un segnale fra i più gravi e allarmanti del grado di irresponsabilità a cui è giunto il ceto politico nazionale degli ultimi decenni. Nel nostro Paese chi dovrebbe rappresentare i cittadini italiani, continua a obbedire a una stagione del capitalismo contemporaneo ormai morta, finita nell’infamia del tracollo finanziario e del disastro industriale. Il ceto politico, sia di governo che di opposizione, per ubbidire agli imperativi di una crescita che nessuno sa a quale traguardo sia diretta, è pronta a consumare il nostro territorio come una qualunque altra merce nel mercato universale nei beni. I comuni italiani sono presi da una furia costruttiva e si vanno mangiando la campagna per edificare centri commerciali, ipermercati, seconde e terze case, capannoni industriali. Ma il territorio è una risorsa finita, in Italia particolarmente scarsa. Non solo: come abbiamo visto essa è costituita da un habitat di speciale vulnerabilità. Più che in ogni altro Paese d’Europa esso dovrebbe essere considerato, tutto intero e indivisibilmente, un bene comune. Perché lì è la sede delle nostre abitazioni, della nostre attivtà produttive, del nostro vivere quotidiano. Lì è la sede delle risorse e della vita delle generazioni dei nostri figli e nipoti. Eppure il governo Berlusconi, per il fine strumentale di accrescere il proprio consenso elettorale, per una breve stagione di dominio, si mostra pronta a dare in pasto agli appetiti disordinati dei singoli, valutati solo come eterni elettori, il bene più prezioso e più fragile del nostro Paese.

Non dimentichiamo che il governo oggi in carica non solo intende dilapidare immense risorse per finanziarie le cosiddette grandi opere, come il ponte sullo stretto, mentre manca la sicurezza abitativa in tante nostre scuole ed edifici pubblici.Il Parlamento italiano si appresta a ridiscutere il disegno di legge urbanistica Lupi, che mira a considerare il diritto di edificabilità come intrinseco alla proprietà delle aree.Si vuole aprire una nuova fase di consumo disordinato di suolo dentro e intorno alle nostre città. Il cancro dell’ideologia neoliberista, storicamente sconfitta, in Italia si appresta a dare altri colpi irreversibili al nostro territorio, a compromettere le possibilità di vita delle generazioni che verranno.

SCHEDA SUL PARCO MAURIZIANO DI CHIVASSO

Indice:

Premessa

1. La natura della variante di Prgc adottata.

2. L’esclusione della V.A.S. (Valutazione ambientale strategica).

3. Le prescrizioni (disattese?) della Regione

4. La (mancata?) trasmissione del PPE alla Provincia

APPENDICE 1: possibili fraintendimenti tra Regione e Comune

APPENDICE 2: imperfezioni contenute nella deliberazione di consiglio che ha adottato il PPE in variante

Premessa

Con delibera del Consiglio comunale di Chivasso n. 16 del 27 aprile 2009 è stato adottato il PPE in variante del vigente PRGC ai sensi dell’art. 40 comma 6 della L.R. 56/77 e s.m.e i. relativo alle aree 4.11 e 5.25 (area Mauriziano), che modifica il preesistente PEC Mauriziano. Il PPE modifica in misura rilevante il precedente PEC del 2006.

Dal 4 giugno al 3 luglio sarà possibile presentare al Comune osservazioni scritte in triplice copia (le istruzioni sono sul sito del Comune)

Si tratta di complessivi 56.000 metri cubi, ripartiti in 49.500 di edilizia residenziale (destinati a 550 abitanti) e di 6.500 di una palestra privata, il tutto su un’area di 40.000 metri quadri. L’area del PPE confina con il cosiddetto Parco Mauriziano, ampiezza 55.000 metri quadri, ex proprietà dell’Ordine Mauriziano, acquistato dal Comune nel 2004. Il vecchio Parco è l’unica area verde di Chivasso con alberi alti e ombrosi. Da qui la protesta di parte della popolazione, che si è concentrata principalmente su due aspetti: 1) lungo il Parco sarà costruita una fila di palazzi di sette piani di altezza; 2) entro l’area del PPE, ma a pochi metri dal Parco, verrà costruita una strada destinata a raccogliere molto traffico, perché fungerà da «tangenzialina Nord-Ovest» collegante la SR 11 (da Torino) e la viabilità verso Montanaro e il Basso Canavese.

Abbiamo esaminato la documentazione ottenuta dal Comune, e che riguarda gli anni dal 2006 al 2009. Si tratta di documenti del Comune, della Regione Piemonte, della Provincia di Torino e dell’ARPA. Vi si trovano molti punti poco chiari, o chiari ma discutibili. Li esporremo nelle osservazioni al Comune. Qui, per brevità, ne indichiamo solo quattro.

1. La natura della variante di Prgc adottata.

Nei documenti del Comune, dove si parla della «variante» adottata, si fa riferimento al comma 8 dell’art. 17 della vigente Legge urbanistica regionale 56 / 77. E’ il comma dedicato alle modifiche del PRGC meno importanti, quelle che apportano soltanto mutamenti assai modesti del vigente PRGC, e che infatti non sono neppure definite varianti. Una volta adottate dal Comune, queste modifiche non richiedono la successiva approvazione della Regione. Il riferimento al comma 8 desta sorpresa, perché il PPE «in variante» approvato dal Consiglio apporta mutamenti considerevoli rispetto alla versione precedente del progetto, il PEC del 2006. Ad esempio: 1) il tracciato della strada viene cambiato; 2) un’area a destinazione industriale viene trasformata in area residenziale; 3) gli edifici vengono portati da sei a sette piani fuori terra; 4) la volumetria cresce da 42.000 a56.000 metri cubi; 5) il numero degli abitanti sale da 465 a 550, portando il numero complessivo degli abitanti della città da 31.949 a 32.034. Gli ultimi due punti potrebbero far rientrare la variante adottata addirittura nella specie «variante strutturale», illustrata al comma 4 dello stesso articolo 17, e che richieda la successiva approvazione della Regione. In conclusione, poniamo una domanda formale e una di sostanza. Domanda formale: il PPE «in variante» adottato comporta una variante oppure non la comporta, come si ricaverebbe dal riferimento al comma 8? E se non la comporta, perché i documenti del Comune parlano di PPE «in variante»? Domanda sostanziale: i rilevanti mutamenti introdotti dal PPE sono congruenti con il riferimento al comma 8? Questo riferimento non è riduttivo? Oppure i mutamenti introdotti configurano una «variante strutturale» (comma 4), che in quanto tale richiede l’approvazione della Regione?

2. L’esclusione della V.A.S. (Valutazione ambientale strategica).

In seguito a due riunioni di conferenza di servizi, gli enti partecipanti (Comune, Regione, Provincia, Arpa) hanno convenuto di non sottoporre il PPE a Valutazione ambientale strategica. Ma dalla lettura della documentazione relativa si trae l’impressione che il Comune minimizzi l’entità dei mutamenti introdotti e il danno ambientale che la loro realizzazione produrrebbe. Ciò potrebbe avere fuorviato gli altri enti e averli indotti ad accedere alla decisione di escludere la VAS. Un solo esempio: Il Comune definisce la nuova strada del Mauriziano una semplice «viabilità di quartiere…senza alcuna valenza di tangenziale periferica della città». Ma chi conosce Chivasso sa bene che quella strada non sarà affatto una mera «viabilità di quartiere», poiché essa collegherà Torino con il Basso Canavese (da Stradale Torino, cioè la SS 11, al cavalcavia della strada per Montanaro). Sulla base di questo elemento, e di altri che potremmo illustrare, ci chiediamo se sia giustificata l’esclusione della VAS.

3. Le prescrizioni (disattese?) della Regione

Pur escludendo la V.A.S., la Regione ha espresso delle osservazioni relative soprattutto agli aspetti paesaggistici e agricoli del progetto, in cui si rilevano elementi di possibile criticità, poiché “gli insediamenti proposti non risultano pienamente aderenti ai caratteri distributivi dell’edificato urbano preesistente” (Piano Particolareggiato Esecutivo con contestuale Variante al Piano Regolatore Generale del Comune di Chivasso - Contributo regionale per la fase di verifica di assoggettabilità alla V.A.S…., datato 17-12-2008, protocollo 0056308/DA0800, protocollato dal Comune di Chivasso con N. 0042511 il 23/12/2008, pag. 4). Secondo la Regione, “il progetto presenta una sostanziale discontinuità rispetto all’ambito nel quale viene inserito” e chiede che “sia attentamente valutata la coerenza dell’impianto previsto rispetto all’esistente, anche in relazione alle altezze massime proposte per gli edifici” (idem). Perciò la Regione prescrive che siano “valutate, in sede di predisposizione del progetto definitivo, alternative di Piano che valutino la possibilità di ridurre le altezze per i fabbricati posti in adiacenza al Parco Mauriziano” (idem, pag.7).

La Regione rileva altre criticità rispetto alla nuova viabilita “in quanto la realizzazione del nuovo tracciato stradale può comportare consumo di suolo agricolo e frammentazione paesaggistica, favorendo la nascita di nuovi ambiti di espansione…” (idem, pag. 5).

A queste osservazioni, il Comune risponde in modo molto sbrigativo nella Relazione Illustrativa del P.P.E. (foglio 5), dicendo che non è possibile ridurre le altezze, senza spiegare perché, e senza predisporre alcuna “alternativa di Piano”, come richiesto dalla Regione. Al secondo rilievo, non risponde affatto.

4. La (mancata?) trasmissione del PPE alla Provincia.

Nel corso di un incontro tra rappresenti delle associazioni ambientaliste e rappresentanti del Comune di Chivasso, questi ultimi hanno affermato che non ritengono di dover sottoporre la delibera che ha adottato il PPE alla Provincia di Torino.

Osserviamo invece che:

a) In base alla Legge regionale 56/77 le delibere di adozioni delle «varianti parziali» vanno sottoposte all’esame della Provincia: «La delibera di adozione deve essere inviata alla Provincia che, entro quarantacinque giorni dalla ricezione, si pronuncia con delibera di Giunta sulla compatibilita' della variante con il Piano territoriale provinciale e i progetti sovracomunali approvati. Il pronunciamento si intende espresso in modo positivo se la Provincia non delibera entro il termine sopra indicato» (L.R 56/77, art. 17 comma 7).

b) Inoltre, in base ad una circolare regionale del 2002, le «varianti strutturali» vanno parimenti sottoposte alla Provincia: «I Comuni dopo l’adozione di Progetti preliminari di piani o di varianti, quando questi hanno natura strutturale, richiedono alla Provincia di esprimere il parere di compatibilità degli stessi con il Piano Territoriale Provinciale, se in vigore» (Circolare dell’Assessorato all’Urbanistica 23 maggio 2002, n. 5/PET - Legge Regionale 5 dicembre 1977, n. 56, e successive modifiche ed integrazioni. Approvazione dei Piani Territoriali Provinciali. Conseguenze sulla procedura di approvazione dei Piani Regolatori Comunali. Chiarimenti ed indicazioni).

In conclusione, la deliberazione con cui il Consiglio comunale di Chivasso ha approvato il «PPE in variante al PRGC…» deve dunque essere inviata o non inviata in Provincia? Non dovrebbero esservi dubbi: in base all’articolo 17 della 57/77 le varianti o sono parziali (comma 7) o sono strutturali (comma 4). E tanto in un caso quanto nell’altro - come si ricava dalla normativa sopra citata - le delibere di adozioni delle varianti medesime vanno sottoposte alla Provincia.

Ma quale specie di variante è quella adottata dal Consiglio comunale di Chivasso? Qui ricadiamo nella questione posta fin dall’inizio. I documenti del Comune di Chivasso parlano di PPE in «variante», ma non indicano di quale specie di variante si tratti. Né indicano chiaramente quali siano gli elementi della variante: il mutamento del tracciato della strada? La trasformazione della destinazione d’uso di un’area industriale in area per edilizia abitativa? L’innalzamento da sei a sette piani degli edifici? L’aumento della volumetria edificabile? L’aumento degli abitanti previsti?

E’ vero che nella delibera di adozione del PPE (n. 16 del 27 aprile 2009) si fa riferimento ad una precedente deliberazione di consiglio, la n. 69 del 3.12.08 con quale sarebbe stata approvata una «variante ai sensi art. 17 comma 8 della L.R. 56/77».

Tuttavia:

1) nell’elenco degli atti amministrativi pubblicati sul sito del Comune di Chivasso non compare alcuna delibera di consiglio n. 69 del 3.12.08 ;

2) forse i deliberanti intendevano riferirsi ad un atto dell’anno precedente, la delibera di consiglio n. 69 del 3.12.2007: ma questa delibera approva soltanto una «Variante al PRGC ai sensi dell’art. 17 comma 8 L.R. per adeguamento di limitata entità dell’area urbanistica 4.11 soggetti [sic] a strumento urbanistico esecutivo». Per la precisione si tratta semplicemente della correzione di un errore riguardante la perimetrazione dell’area. Dunque una modifica al PRGC di limitata entità, tanto è vero che viene ricondotta al comma 8, vale a dire a mutamenti che non sono nemmeno ritenuti varianti (Comma 8: «Non costituiscono varianti del Piano Regolatore Generale…»). Una piccola modifica che non ha nulla a che vedere con i consistenti elementi di variante introdotti con la recente approvazione del PPE: tracciato della strada, eliminazione area industriale, aumento dell’altezza dei fabbricati, aumento della volumetria e degli abitanti previsti. E che non giustifica nemmeno l’uso del termine «variante» nella descrizione dell’oggetto della deliberazione.

APPENDICE 1

Un indizio dei possibili fraintendimenti intervenuti tra Comune e Regione si trova nel già citato documento inviato dalla Regione al Comune di Chivasso e datato 17 dicembre 2007. Esaminando il PPE Mauriziano, i funzionari regionali scrivono che vi sarà realizzato «un complesso residenziale per anziani dotato di 82 alloggi (nell’ambito del Programma Casa 10000 alloggi per il 2012)» (p. 2). Qui i funzionari sono incorsi in un errore. Gli alloggi per anziani NON saranno costruiti nell’area PPE Mauriziano (aree 4.11 e 5.25) ma in quella del Podere San Marco, in Via Berruti, che è l’area 8.7. Forse la Regione ha male interpretato la documentazione fornita dal Comune, il quale, illustrando i caratteri della zona di Chivasso nella quale si trova l’area del PPE, cita di passaggio anche i futuri alloggi per anziani, che non hanno nulla che vedere con il PPE Mauriziano.

APPENDICE 2.

Imperfezioni contenute nella deliberazione di consiglio che ha adottato il PPE in variante

Le deliberazione (n. 16 del 27 aprile 2009) con cui il consiglio comunale di Chivasso ha approvato il PPE in variante contiene almeno 4 imperfezioni, seppure di natura diversa:

1) Nella delibera si parla di variante (l’oggetto della delibera è appunto: «Adozione del P.P.E. in variante del vigente P.R.G.C….») ma non si dice mai quale specie di variante sia stata adottata: strutturale, parziale, obbligatoria (sono elencate nell'art. 17 della 56/77);

2) La consigliera Assunta Desiderio è indicata tra gli astenuti, mentre ha votato contro, come i presenti hanno potuto constatare e come si dovrebbe ricavare dal verbale della seduta di consiglio;

3) la delibera 69 del 3 dicembre 08, citata in premessa al terzo puntino, non esiste: esiste invece la 69 del 3 dicembre 2007.

Questa delibera è regolare? Se ne può chiedere l’annullamento? Forse sì, almeno per quanto riguarda il secondo punto: la consigliera potrebbe chiedere l’annullamento della deliberazione, con le conseguenze del caso, e riservandosi di agire nelle sedi opportune per il falso contenuto nella deliberazione?

Nota: Per una ricostruzione contestualizzata del caso Parco Mauriziano si vedano sia l'articolo di Antonella Maiello che altri vari contributi comparsi qui su eddyburg.it reperibili digitando "Parco Mauriziano" nel motore di ricerca interno (f.b.)

A disposizione per qualsiasi chiarimento, Vi ringraziamo dell’attenzione e Vi porgiamo cordiali saluti

- Domenico Cena – Presidente del Circolo Legambiente di Chivasso

Via delle Alpi 21, CASTAGNETO PO
domenico.cena@virgilio.it

- Piero Meaglia – Pro Natura Torino

Via L. Ghiberti, 7 10034 CHIVASSO
p.meaglia@libero.it



Allegata Deliberazione del Consiglio di Chivasso n. 16 del 27 aprile 2009. Oggetto: «Adozione del P.P.E. in variante del P.R.G.C…relativo alle aree 4.11 e 5.25 (Area Mauriziano)»

Villette mono e bifamiliari più grandi del 20 per cento, fino a un massimo di 300 metri cubi per ogni unità immobiliare e complessivamente fino a 1000 metri cubi. Palazzi residenziali demoliti e ricostruiti con un incremento del volume del 30 per cento, «anche in deroga ai regolamenti edilizi vigenti». Fuori dai centri storici, a patto che vi sia «una diminuzione certificata del fabbisogno annua per il riscaldamento dell’edificio». Oppure anche all’interno, se gli edifici esistenti «non sono coerenti con le caratteristiche storiche, architettoniche e paesaggistiche della zona». Più alti addirittura del 35 per cento, se il progetto prevede un incremento del verde «non inferiore al 25 per cento del lotto interessato». In cambio, i costruttori potranno godere di uno sconto del 30 per cento sugli oneri di urbanizzazione, che potrà salire fino al 50 se gli immobili saranno destinati a «edilizia residenziale pubblica in locazione».

Questo, in estrema sintesi, il testo del nuovo piano casa del Pirellone che oggi dovrebbe essere varato dalla giunta di Roberto Formigoni, dopo lo stop della scorsa settimana provocato dalle divisioni sorte all’interno della maggioranza di centrodestra. Un piano decisamente più spinto di quello del governo Berlusconi, che dopo il terremoto in Abruzzo è stato costretto a rivedere il suo progetto. Inserendo, ad esempio, alcune restrizioni come l’introduzione della certificazione del rispetto delle normative antisismiche come condizione indispensabile per approvare qualsiasi richiesta di ampliamento, demolizione o ricostruzione.

In Lombardia, invece, per realizzare gli interventi basterà presentare la denuncia di inizio attività o la richiesta di permesso di costruire entro diciotto mesi dal 16 settembre di quest’anno.

Inoltre, tutti gli interventi «potranno essere realizzati anche in deroga ai piani territoriali dei parchi regionali, esclusi quelli naturali, e in assenza di un piano urbanistico attuativo, sia previsto, vigente o eventualmente già adottato, salvo che sull’area ci sia un vincolo di inedificabilità o l’edificio sia considerato di particolare rilievo storico», così come recita il primo comma dell’articolo 5 della bozza della legge regionale «Azioni straordinarie per lo sviluppo e la qualificazione del patrimonio edilizio e urbanistico della Lombardia», fortemente voluta dall’assessore regionale all’Urbanistica leghista Davide Boni, oggi all’esame della giunta del Pirellone. E proprio questo passaggio delle disposizioni generali per l’attuazione della legge sembra sia stato all’origine anche di alcune frizioni tra l’assessore e il gruppo del Carroccio in consiglio regionale.

Il piano casa lombardo riguarderà tutti gli edifici ultimati al 31 marzo del 2005 e esistenti prima del 13 giugno 1980 nel caso di aree destinate all’agricoltura. Entro il 15 settembre i comuni potranno comunque individuare all’interno del proprio territorio alcune aree che saranno escluse dalle nuove norme.

Lo spirito della legge è riassunto dall’articolo 1 che prende spunto dall’intesa raggiunta dalla Conferenza unificata tra Regioni e Comuni lo scorso primo aprile. Ovvero: «la promozione di un’azione straordinaria dei soggetti pubblici e privati per conseguire la massima valorizzazione e utilizzazione del patrimonio edilizio ed urbanistico presente nel territorio lombardo, attraverso la tempestiva e urgente riqualificazione dello stesso nel rispetto dei suoi caratteri identitari, e contestualmente contribuendo al rilancio del comparto economico interessato». Proprio questo passaggio sembra preoccupare non solo l’opposizione di centrosinistra, ma anche settori della maggioranza e in particolare della Lega, preoccupati dopo che l’assessore Boni ha recentemente definito l’obiettivo del regolamento della sua legge urbanistica, destinato ai Comuni in attesa dell’approvazione del nuovi piani regolatori, «un impulso per la ripresa del settore dell’edilizia»

Nuove regole anche per i parchi. La Lega: troppo cemento



Nuovo braccio di ferro nel centrodestra in Regione: proprio nel giorno in cui la giunta di Roberto Formigoni, salvo soprese dell’ultimo momento, dovrebbe approvare il piano casa. L’assessore regionale all’Urbanistica, il leghista Davide Boni, ha lavorato tutta la settimana per limare gli ultimi particolari, ma proprio il suo partito sembra nuovamente non gradire la bozza uscita dall’ultima riunione dei capigruppo della maggioranza dopo lo stop della scorsa settimana. «L’assessore Boni può dire quello che vuole - puntualizza il capogruppo del Carroccio in Regione, Stefano Galli - ma quello che conta alla fine è ciò che dice la Lega. E quando il piano arriverà in commissione lo modificheremo. Il nostro modello è il piano casa della Toscana, che non permette di intervenire nei centri storici e tanto meno permette di derogare ai piani territoriali dei parchi».

Boni preferisce non commentare, ma secondo l’opposizione di centrosinistra in palio c’è molto di più. Secondo il verde Carlo Monguzzi, ad esempio, «per incassare il via libera al piano casa da parte del Pdl, la Lega Nord darà l’ok a una norma sulle bonifiche che è un vero e proprio regalo inaccettabile ai privati. In particolare, quelli interessati alla bonifica sull’ex area Sisal di Rodano Pioltello, nel Milanese. Il tutto al solo fine di bloccare la multa di 20 milioni di euro inflitta al Pirellone dall’Unione europea sulla mancata bonifica dell’area». In commissione Ambiente, infatti, si sta discutendo del collegato ordinamentale che fra l’altro modifica una legge del 2003 sulle bonifiche, per incentivare l’intervento dei privati che non sono responsabili dell’inquinamento.

Ma in ballo ci sarebbe molto di più: il Pdl avrebbe chiesto anche di sbloccare la "legge parchi" che giace da mesi nella stessa commissione anche per il veto della Lega. «Quel progetto è troppo permissivo - ammette il capogruppo del Carroccio Stefano Galli - devono essere i sindaci, e non la Regione, a nominare i presidenti dei parchi. Poi bisognerà affrontare il nodo del conflitto di interesse tra chi approva un piano regolatore e chi deve tutelare un’area naturale». Controreplica del verde Carlo Monguzzi: «Sono in gioco i destini del territorio lombardo. Il piano casa regionale può cementificare i centri storici e, se non poniamo un argine con la legge parchi, si potrà costruire dappertutto. Speriamo che anche nella maggioranza qualcuno se ne renda conto».

Nella polemica interviene anche il capogruppo del Pdl in Regione, Paolo Valentini. «Il piano casa deve essere approvato entro fine mese per rispettare i tempi previsti dal decreto del governo - ammette - e, quanto alla norma sulle bonifiche, bisogna evitare il rischio di prendere una multa dall’Ue. Neppure la legge parchi può rimanere nel cassetto in eterno. Non c’è nessun accordo sottobanco, si tratta solo di una programmazione di provvedimenti che la maggioranza ritiene utile approvare da qui a fine luglio per dare attuazione al programma di governo».

«Prima la Val di Cornia veniva portata ad esempio, oggi è finita anch’essa sul banco degli imputati. Anche da noi si è generalizzata la politica delle varianti al piano strutturale, ridotto progressivamente il potere dei consigli comunali, quasi azzerata la programmazione coordinata». E tra la politica e la cultura sembra scoppiata «una vera e propria guerra». L’allarme viene dal professor Rossano Pazzagli, che ieri a Venturina ha moderato un dibattito sulla «politica del cemento» con Vezio De Lucia e Salvatore Settis. Urbanista e consulente dei piani strutturali dei Comuni di Piombino, Campiglia e Suvereto il primo, direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa e autore della denuncia sullo sviluppo edilizio di San Vincenzo il secondo.

Buona urbanistica contro cattiva urbanistica. Buona quella che ha portato alla nascita del sistema dei Parchi della Val di Cornia, «che non ha confronti in nessuna parte d’Italia e probabilmente d’ Europa», secondo De Lucia. Cattiva quella attuale, in cui agli atti autoritarivi dello Stato si vanno sostituendo gli atti “di negoziazione” tra pubblico e privato, con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti.

Ma l’affondo più duro è venuto ancora una volta da Salvatore Settis: «La spinta lodevole della Val di Cornia - ha detto nel suo intervento - nasceva dalla concezione del paesaggio come bene comune, oggi invece i Comuni stanno svendendo il territorio. E non è accettabile la linea difensiva di chi minimizza la situazione in Toscana prendendo ad esempio le regioni in uno stato peggiore.

Molti gli interventi dei presenti, i quali più che rivolgere domande hanno portato testimonianza degli aspetti maggiormente condannabili del cambiamento della zona, dalla persistente vicinanza dell’industria alla città di Piombino, al problema delle cave campigliesi. Sono intervenuti anche due candidati alla carica di sindaco. Massimo Zucconi, che concorre per Campiglia, ha ricordato il coraggio dell’amministrazione piombinese che eliminò 180 ettari di costruzioni abusive (che interessavano 10mila persone) dalla Sterpaia e di quanto il sistema dei Parchi sia debitore degli stralci ai piani regolatori che hanno salvato il territorio dove quel sistema è sorto.

Assurdo, secondo Zucconi, dire, come ha fatto il sindaco di Campiglia, che il padre del Parco sia la Cava di Monte Calvi. Nicola Bertini, candidato a San Vincenzo, ha lamentato l’inversione della priorità tra pubblico e privato e la “dubbia” elasticità del concetto di interesse pubblico, che pare aggiustarsi ad incastro, a suo dire, ai progetti di provenienza privata. Tra il folto pubblico in sala, poche le facce di Campiglia; una delle persone intervenute ha esclamato, suscitando gli applausi, che “gli amministratori non vengono mai a queste serate di approfondimento!” In effetti, non era presente nessun rappresentante delle istituzioni locali, neppure un consigliere comunale.

I sardi alle regionali hanno votato Silvio Berlusconi e i segnali che continuano ad arrivare da Roma non corrispondono neppure un po' alla fiducia accordata. Per ora il fiero popolo - che ci tiene tanto a queste cose («la parola data è data, una e una sola...») - dovrà accontentarsi di promesse. Quello che il premier non ha concesso e ha tolto alla «sua» isola è nel bilancio - provvisorio- che di giorno in giorno si fa sempre più pesante, irriguardoso verso i sardi tutti d'un pezzo. I sardi: scettici o diffidenti? o creduli? Si chiedevano, appunto, Mannuzzu, Fois e Todde in un recente incontro promosso dai "Presìdi del libro" a Sassari, pensando forse all'ultimo test elettorale. I politologi diranno: servirà un po' di tempo per capire. Ora si può solo fare qualche osservazione guardando le notizie che arrivano. Pensando alle ripercussioni delle politiche sulla forma del territorio, oltre che sul corpo sociale: se viene meno lo sviluppo programmato allignano in genere brutte proposte. Si sa come una disperata condizione di crisi si possa realizzare il clima che serve per fare passare le soluzioni «s'afferra afferra». La crisi ti tocca di più se ti avevano fatto sperare. E una comunità in disgrazia è più conciliante verso offerte sconvenienti (di palazzinari casualmente nei pressi, ad esempio) che in tempi migliori sarebbero almeno guardate con giusta dose di diffidenza se non respinte con sdegno. Colpisce quello che in poco tempo è accaduto: varie questioni intrecciate chiamano in causa il governo di Roma che come si capisce decide tutto.

G8. Penso che le parate dei Grandi siano un po' ridicole e troppo costose rispetto ai risultati; se si pensa a Genova si potrebbe dire di farla finita. C'è un però: La Maddalena, isoletta prestata alla guerra da sempre, è una circostanza speciale; la lunga presenza e l' uscita di scena delle basi militari, la necessità di rimettere in ordine un luogo maltrattato, al quale è sempre stato tolto senza dare nulla di durevole. Solo con una eccezionale disponibilità di risorse (che arrivano in condizioni speciali, come un terremoto) si può agevolare un processo di riqualificazione; in alternativa su connottu, i tifosi degli americani che spendono molto nei bar pronti a farsi partito. Perciò si può capire chi ha pensato di farsene una ragione del G8, oltre i pregiudizi, di adottare una tattica opportunista per prendersi i denari. Vigilare perché fossero spesi bene era un bel compito. Ancora oggi non è detto che ci sia la copertura finanziaria per finirli i lavori. Ma non stupisce il marasma: nello sfondo resta il memorabile epilogo, neppure un sms di cortesia alla Regione che apprende del G8 in Abruzzo quando lo sanno tutti, come il coniuge tradito. E se fosse capitato ai tempi di Prodi e Soru?

Fabbriche chiuse. In campagna elettorale il premier ha lasciato intravedere soluzioni pronte e strategie e contatti internazionali (la telefonata a Putin è la messinscena più nota) per scongiurare la brutta notizia della fermata di Euroallumina. Poi l'ecatombe che conosciamo, la lista delle fabbriche che chiudono si allunga con lo sguardo a Roma che dispone, dato che si è capito che la Regione non conterà nella vertenza, non sarà un soggetto antagonista: e sarà un terremoto senza soccorsi. Spontaneo pensare ai telegiornali che avevano fatto titoloni su quella telefonata, mai più ricordata nelle cronache della crisi.

Nucleare. Dicono i ministri che è sicuro: zero rischi ad averlo da qualche parte nel territorio del Paese. Il presidente della Regione aveva garantito: mai un impianto nell'isola delle vacanze. I sardi sarebbero felici se non gli toccassero l'atomo e le scorie dietro casa. Però la terra più adatta è proprio quella sarda: che non trema, c'è il mare, poco popolata. E non si capisce. Berlusconi dice che non c'è pericolo, ma il governo regionale non gradisce, pure se il suolo sardo sembra fatto apposta. Se non credono a quello che dice il premier potrebbe essere che non si fidano? Di Berlusconi o del nucleare?

Grandi opere. E' noto l'elenco delle opere strategiche, la mappa dopo il dramma d'Abruzzo poco cambia. Al primo posto sempre il ponte sullo stretto di Messina: per collegare un'isola attaccata al Continente, servita da traghetti sempre pronti a basso costo. Ecco la Regione nel cuore di Berlusconi: tre volte gli elettori sardi, molti cari amici da quelle parti. La Sardegna, qualche parlamentare, non può chiedere ponti; ha collegamenti inadeguati e costosi con la penisola e infrastrutture viarie e ferroviarie indecenti. Per il ponte in Sicilia miliardi di euro impegnati. Per la Sardegna isola vera ti aspetteresti la compensazione: invece la Tirrenia annuncia la cancellazione di tratte. Ed eccoci nel volubile mercato di arei e navi a basso costo che come sono arrivati inopinatamente, possono uscire di scena se e come dirà il mercato.

Piano casa. I presidenti delle Regioni Veneto e Sardegna sono stati a Roma per concordare il primo provvedimento «edilizia libera», quello poi ricusato che assecondava la inclinazione anarcoide del popolo. La Sardegna è in cima ai pensieri di Berlusconi imprenditore e il provvedimento è proprio quello che potrebbe dare un altro duro colpo al paesaggio sardo. Abbasso il Ppr di Soru, via i vincoli per dare retta a quelli che hanno sempre qualche blocchetto di cls in macchina, che non si sa mai. Tutti liberi! Il messaggio spiazzante, va oltre la cifra pop e costringe l'assessore regionale più competente e solitamente molto prudente a mettere dei distinguo non solamente tecnici. Vedremo.

A questo proposito una domanda a partire dalla notizia, su queste pagine, del sensibile calo di prenotazioni negli alberghi dell'isola. Da non drammatizzare, in fondo è solo un brutto segnale. Ma se fosse accaduto qualche mese fa? La spiegazione l'avreste letta su Il Giornale (Mario Giordano si è già rivolto alla ostinata sinistra del no ricordando che «la lezione di Soru, mandato a casa dagli elettori perché, fermando cantieri e turismo, aveva sclerotizzato l'isola e l'aveva condannata alla povertà, evidentemente non è servita»). Si potrebbe ora replicare, attribuendo la flessione agli annunci della Regione nuovo corso, ma sarebbe la solita propaganda che non vale, almeno per i sardi che non sono creduli fino a questo punto.

La lettera di Giovanni Mazzetti

Caro Augias, una guida turistica ricorda, in un suo libro, che dei turisti americani, alla vista del Colosseo, hanno esclamato: "Ma qui hanno copiato tutto da Las Vegas". L'episodio serviva a sottolineare i limiti del turismo contemporaneo. C'è una cosa sfuggita alla guida. Il ruolo culturale delle antiche vestigia non è un qualcosa di intrinseco. Rinvia semmai al rapporto che gli individui instaurano con esse. Da questo punto di vista, direi che l'americano ignorante aveva molta più ragione della sua guida. Abito di fronte al Colosseo, ci sono nato e cresciuto ho vissuto il lento, sistematico degrado del rapporto con quel rudere. Bei tempi quando qualche disperato ci saliva sopra minacciando di suicidarsi, salvo provvidenziale arrivo dei pompieri! Da qualche anno il Colosseo si è trasformato in un misero fondale da scenario. Concerti di Capodanno, esibizioni di star sulla via del declino, addii al lavoro di stilisti, con tanto di colonne di plastica sul tempio di Venere e Roma, concerti, si pensava addirittura a una partita di pallone. La zona si sta trasformando in un gigantesco Luna Park, in fin dei conti peggiore di quelli di Las Vegas. Chi ricorda le ripetute promesse che quest'uso dei monumenti non ci sarebbe più stato?

La risposta di Corrado Augias

Accoppio a questa lettera un brano di quella dell'ingegner Aldo Cocchiglia di Padova (aldo. cocchiglia@m31. com) il quale ha deciso di lasciare l'Italia e così, tra l'altro, motiva: " La condizione della cultura, dei sistemi di valori e dell'ambiente nella quale i giovani italiani si trovano a crescere sono stati molto negativi, negli ultimi due decenni. La classe dirigente a partire dagli anni 80 ha modellato e poi gradualmente imposto una cultura mercantile, materialistica, egoistica, superficiale, affollata dai disvalori e, in molti suoi aspetti, violenta". Di questa violenza soffrono anche le vestigia di un passato del quale siamo ormai largamente immeritevoli. Nel suo bel libro "Rovine e macerie. Il senso del tempo", l'antropologo Marc Augé scriveva: " Siamo posti oggi dinanzi alla necessità di reimparare a sentire il tempo per riprendere coscienza della storia. Mentre tutto concorre a farci credere che la storia sia finita e che il mondo sia uno spettacolo nel quale questa fine viene rappresentata, abbiamo bisogno di ritrovare il tempo per credere alla storia. Questa potrebbe essere oggi la vocazione pedagogica delle rovine". Alla possibile vocazione pedagogica s'è sostituita invece la smania di sindaci e assessori di sfoggiare quelle eredità per farsene belli con gli elettori. Lo so, così dettano i tempi, ma se all'incalzare dei tempi non si è capaci di opporre una qualche resistenza, allora davvero meglio Las Vegas. E' più comoda.

Il voto per la Provincia di Milano vale più di due miliardi di euro. Tanto costano le opere ancora da appaltare per la realizzazione della Pedemontana, controllata al 100% dalla Serravalle, che a sua volta fa capo alla Provincia di Milano che ne detiene il 52,9%. Una «base d’asta» che in tempo di crisi non passa inosservata, mentre il primo lotto di lavori, per quasi 800 milioni, è già stato assegnato a un consorzio composto da Impregilo, Astaldi, Pizzarotti e dalla Argo Costruzioni del gruppo Gavio. E’ (anche) per questi due miliardi di euro che Guido Podestà e il Pdl sfidano il presidente uscente Filippo Penati. Ed è sempre per questo non indifferente gruzzolo che imprenditoria e banche guardano al voto di Milano con particolare interesse: di certo non inferiore a quello, politico e statistico, di chi attende il destino dell’unico potere istituzionale di Milano ancora nelle mani del centrosinistra.

Attorno a un tavolo



La delicata questione ha «obbligato» a diversi incontri più o meno informali Guido Podestà, che nella fitta matassa di partecipazioni autostradale costruita da Penati ambisce ad entrare dalla porta principale. L’11 maggio, come riportato dalla Cronaca di Milano del Corriere , il candidato Pdl, accompagnato dal ministro dell’Istruzione Maria Stella Gelmini, ha infatti visto Marcellino Gavio e il suo braccio destro Binasco. E sempre Gavio era in prima fila alla cena di finanziamento per la campagna elettorale provinciale, svoltasi la settimana scorsa alla presenza di Silvio Berlusconi.

Il ruolo dell’imprenditore piemontese nella partita dell’asfalto lombardo non inizia ora. Storicamente presente in forze nell’azionariato della Serravalle, è stato proprio Gavio nel 2005 a cederne il 15% alla Provincia di Milano, all’interno di un’operazione assai discussa. Gavio incassò allora una plusvalenza superiore ai 160 milioni, mentre l’ente guidato da Penati si indebitava per quasi 250 milioni con Intesa Sanpaolo a tassi reali prossimi al 5% ed otteneva la maggioranza assoluta di una società, Serravalle, prima cogestita col Comune. Penati poi affidava la partecipazione alla holding Asam e iniziava (faticosamente) a ridurre il debito, che con Intesa è stato estinto nei mesi scorsi dopo aver però negoziato nuove linee di credito con altre banche. In questi anni, la Provincia di Penati ha annunciato e rinviato più volte la quotazione in borsa, ricevuto i ricchi introiti dell’autostrada che porta da Milano al Mediterraneo ligure, e messo la provincia al centro della grande partita per lo sviluppo infrastrutturale: a partire dalla Pedemontana che, unendo Bergamo a Varese, è la grande arteria che manca al nord produttivo. Entro l’estate si attende la formalizzazione della cessione da parte di Serravalle di una prima tranche del 32% di Pedemontana ad una cordata di banche guidata proprio da Intesa Sanpaolo, che ne rileverà il 26%. Un secondo lotto del 33% sarà invece messo in vendita perché entrino nel capitale i costruttori, e tra questi si attende la candidatura di Gavio. Alla fine del processo, la Serravalle, e quindi la Provincia indipendentemente da chi la guiderà, controllerà direttamente circa un terzo del capitale di Pedemontana. Quanto alla holding Asam, dichiaratamente finalizzata a una riduzione del debito e alla gestione delle partecipazioni infrastrutturali, è rimasta un oggetto misterioso, anche se la cessione di una quota del 20% alla nascente provincia di Monza e Brianza ha consentito a Milano di non cedere direttamente partecipazioni di Serravalle: e questa decisione del centrosinistra difficilmente dispiacerà al Pdl del capoluogo, se si troverà a governare.

Una clinica a Binasco

Mentre la politica sembrava al centro della scacchiera, però, Gavio non è stato fermo: comprando quote vaganti di Serravalle a prezzi più convenienti di quelli pagati dalla Provincia a lui, ha iniziato a reclamare un posto in consiglio. A mettersi di traverso è stato il consiglio provinciale che, seguendo il più acceso e plateale critico della Provincia d’asfalto, il forzista Max Bruschi, e votando un suo emendamento, ha interdetto l’ingresso in consiglio di Serravalle di rappresentanti di società che abbiano contenziosi aperti con la concessionaria autostradale. In questo elenco per l’appunto rientra il gruppo Gavio che intanto ha ottenuto l’assegnazione degli appalti da parte della controllata Pedemontana.

In caso di elezione di Guido Podestà, c’è da credere che la Serravalle resterà al centro della scena anche perché, proprio nel sud-milanese, il candidato del Pdl ha uno dei suoi territori di maggior radicamento. A Binasco, poche centinaia di metri dallo svincolo di ingresso e uscita per la Serravalle, c’è ad esempio la clinica Heliopolis che proprio a Podestà fa capo e — come raccontato sul CorrierEconomia del 6 aprile scorso — era stata oggetto di una lunga contesa con la Regione di Formigoni che aveva negato l’accreditamento, cioè il finanziamento regionale. La contestazione tuttavia è rientrata, visto che con delibera di giunta dell’8 aprile la Regione ha accreditato tutte le cliniche autorizzate all’esercizio: tra queste risulta Heliopolis. Intanto, lo svincolo di Binasco deve essere modificato, le competenze sono della provincia e lo studio di fattibilità è stato affidato già l’anno scorso al Pim (Piano intercomunale per la mobilità) presieduto da Vittorio Algarotti, che è vicino al centrodestra milanese e potrebbe anche essere speso in incarichi importanti, in caso di vittoria. Chi invece, per il momento, sembra meno vicino al candidato del Pdl è Max Bruschi, il battagliero e polemico forzista che negli anni ha messo sotto tiro Penati (e Gavio): al momento di scoprire le liste si è trovato — con sorpresa di molti — nella periferia profonda di Quarto Oggiaro e ha rifiutato la candidatura.

ROMA - La Commissione cultura della Camera vota sì alla riforma del ministero dei Beni culturali voluta da Sandro Bondi. Ma la maggioranza si spacca e il relatore, Fabio Granata, si dimette: l´ex esponente di An non voleva che sparisse la direzione generale destinata alla tutela del paesaggio, che ora verrebbe accorpata ai beni architettonici e a quelli storico-artistici. Alla fine Granata, insieme ad altri cinque esponenti della maggioranza, si è astenuto. Il dissenso di Granata non sembra investa solo questo aspetto del nuovo regolamento. Secondo alcune voci, egli sarebbe perplesso anche nei confronti della direzione per la valorizzazione, affidata a Mario Resca, ex amministratore delegato della McDonald´s.

L´opposizione si è schierata contro il provvedimento. Secondo Giovanna Melandri, responsabile cultura del Pd, da questo momento «gli strumenti per la difesa del paesaggio italiano vengono fortemente ridimensionati».

«Abbiamo approvato una delibera sui servizi in spiaggia per dare la possibilità ai turisti di avere piÙ servizi». L’assessore Sebastiano Sannitu non riesce a capire gli attacchi portati alla giunta da parte del Pd: «E’ iniziato l’assalto alle coste», è l’accusa. Il provvedimento, firmato martedì scorso da Sannitu che è anche il vicepresidente della Regione, (quel giorno Cappellacci era assente), stabilisce i criteri per le nuove concessioni demaniali marittime. Si tratta, in sostanza, di una delibera «di indirizzo» perché poi, materialmente, le concessioni saranno rilasciate dagli Enti locali. Anche per questo, Sannitu respinge le polemiche: «Vogliamo fare quello che hanno sinora realizzato tutte le regioni che vogliono incrementare il turismo. Credo che tutti siano d’accordo almeno su un punto: in Sardegna è opportuno migliorare la qualificazione e l’offerta dei servizi. E si tratta di venire incontro alle richieste degli operatori che da quel mestiere vivono». L’assessore al Turismo avvalora queste tesi con il giudizio di tutti gli analisti e gli esperti del settore: «I mali del turismo», afferma Sannitu, «si conoscono bene e la diagnosi è chiara da tempo. Sicuramente il primo male è la stagionalità ma la carenza dei servizi viene indicata subito dopo».

L’assessore all’Urbanistica, Gabriele Asunis, non fa mistero in tutti gli incontri territoriali che si stanno svolgendo in questi giorni sul Piano paesaggistico, che «c’è l’esigenza delle amministrazioni comunali di identificare le criticità che hanno bloccato le cose negli ultimi anni». E le concessioni per i servizi in spiaggia che dovranno essere valutate dagli Enti locali sulla base della delibera di martedì scorso fanno parte degli elementi critici da superare. «Tenete conto», avverte Sannitu, «che i paletti previsti sono rigidi». L’ex assessore all’Urbanistica, Gian Valerio Sanna, è di parere opposto: «Quella delibera è stata presa dalla giunta Cappellacci in violazione di legge. Gli ampliamenti delle concessioni già esistenti sono ingiustificati: è una scelta scellerata che mette a rischio la parte più delicata dell’ecosistema costiero. Le norme di legge transitorie, (in attesa che i Comuni approvassero i piani per il litorale), prevedevano il rilascio di concessione per le nuove attività per un periodo di sei mesi». Gian Valerio Sanna fa due conti semplici: «La giunta ha assegnato tre metri quadrati in spiaggia per ogni posto letto. Lungo le coste sarde avremo vincolati per le strutture alberghiere oltre 40 mila ettari di superficie. Lettini, ombrelloni e altre attrezzature verranno sistemati senza alcun controllo su tutte le spiaggie». E’ un ritorno al passato antecedente la giunta Soru che aveva preferito bloccare le nuove concessioni.

«Non c’è dubbio», conclude Sanna, «che la giunta Cappellacci ha ripreso l’assalto indiscriminato alle coste. Questa è un po’ la prova generale». Le norme sull’utilizzo dei litorali erano sino a martedì molto rigide e riguardavano innanzitutto la percentuale complessiva di costa da affidare in concessione. La giunta Soru aveva abbassato la soglia dal 35 per cento al 25 per cento e per accontentare più imprenditori erano state ridotte le dimensioni delle singole concessioni. Per il gruppo consiliare del Pd, guidato da Mario Bruno, il rischio «è un ritorno al passato. Prendiamo il parametro dei tre metri quadri di spiaggia per ogni posto letto alberghiero, basta una semplice moltiplicazione per calcolare quanta parte di litorale verrà privatizzata. Con buona pace dei turisti e dei residenti che si dovranno cercare un posto libero».

A giudizio di Mario Bruno la cosa più grave è poi la discrezionalità che sarà assegnata ai funzionari che dovranno rilasciare le concessioni: «E’ la peggiore discrezionalità degli uffici», afferma il capogruppo, «dal momento che nella delibera si legge la frase sempre che le condizioni della spiaggia lo consentano». Siamo alla più totale restaurazione dei vecchi metodi che, in un tempo non molto lontano, consentivano il rilascio di venti o trenta concessioni in un solo giorno. Tutto questo senza valutazione dell’impatto ambientale».

Postilla

E' un inatteso colpo di mano, a guardare bene. Senza mettere mano al Piano paesaggistico ecco la prima disinvolta mossa del governo regionale. Si consente di privatizzare, con una semplice delibera della giunta, migliaia di ettari di spiagge: aree demaniali di grande delicatezza che saranno sottratte all'uso pubblico e riservate ai clienti di alberghi e villaggi vacanze.

Il precedente governo aveva fatto una scelta diversa: bloccando nuove concessioni con l’obiettivo di alleggerire il peso di servitù - a vantaggio di pochi- su ambienti molto speciali per un'isola. Prevedendo il rilascio di concessioni solo per le nuove strutture ricettive in modo proporzionale alle dimensioni. Con questo nuovo atto, che lascia ampi margini discrezionali a chi dovrà applicarlo, il governo berlusconiano ritorna al passato, legalizzando l’occupazione intensiva e prepotente dei territori costieri che può arrivare fino al 50 per cento della dimensione complessiva della spiaggia; ed è facile immaginare che questi conteggi e i modi di occupazione saranno a vantaggio delle imprese e senza controlli; tutto nel nome dello sviluppo e con il solito argomento che dobbiamo essere più competitivi nel mercato turistico nazionale ed internazionale, per assicurare la soddisfazione di esigenze socioeconomiche ed occupazionali, eccetera. E' un inizio che fa temere pessimi sviluppi per i beni comuni della Sardegna. (s.r.)

Expo dimezzata, il piano del governo

di Giuseppina Piano

Addio ai nuovi padiglioni dell’Expo per un 2015 quasi a costo zero. La exit strategy messa in pista dal governo, causa terremoto, lavora a un 2015 totalmente diverso da quello promesso al mondo: non più un preventivo di 4 miliardi di euro ma poco più di 1,5. Con 29 milioni di visitatori accolti non in una nuova area costruita per l’occasione. Ma in quella Fiera di Fuksas aperta nel 2004. Eccolo, il coniglio tirato fuori dal cilindro da Bossi e Tremonti. Con i leghisti al lavoro per approfittare di un effetto collaterale del «piano B»: smantellare l’Expo Spa guidata da Stanca.

Addio dunque alla nuova Milano con la via d’acqua e i piroscafi sui Navigli, con una nuova linea metropolitana (la M6), con la zona di Rho-Pero rivoltata come un guanto. Addio ai padiglioni costruiti a fianco della Fiera che c’è già. Il risultato sarebbe un’Expo che non sarebbe più l’Expo. Quasi a costo zero perché circa un miliardo investito per la preparazione dell’evento dovrebbe rientrare, nel 2015, con gli affitti agli espositori e i biglietti venduti.

Non è detto che il piano riesca. Ma l’ipotesi è più che seriamente allo studio. Due le controindicazioni: Letizia Moratti proprio non può accettare di veder azzerato in questo modo la sua Expo. E assicura: «Non è possibile, va contro il dossier presentato al Bie». Ieri, in un lungo colloquio a Roma a Palazzo Grazioli con il premier Silvio Berlusconi, deve aver rappresentato tutte le sue perplessità. Ma sa altrettanto bene, il sindaco, che se Tremonti non mette i soldi, dovrà piegarsi al "piano B". Secondo, e più rilevante, problema: il Bie, il Bureau internazionale che assegna le Esposizioni universali, potrebbe davvero non accettare di vedere stravolto il progetto vincitore, tanto più che la costruzione di un nuovo sito era stata una condizione espressamente posta per la candidatura. Sarà già dura fargli digerire l’azzeramento della nuova linea M6 (costo 870 milioni, opera che il dossier di candidatura assicurava essenziale per reggere l’afflusso di 29 milioni di visitatori a Rho-Pero). Le norme che regolano le Esposizioni dicono che il Bie potrebbe ritirare l’Expo a Milano, non accettando il nuovo progetto. E incassando pure una salata penale dallo Stato italiano. Ma Berlusconi e Tremonti hanno una carta pesante da far valere oltre alla crisi economica mondiale: il terremoto in Abruzzo. E forse, maligna qualcuno, sarebbe un modo indiretto per arrivare a far saltare il banco.

Certo l’Expo del 2015 sarebbe travolto. Dei 4 miliardi preventivati come essenziali per costruire il nuovo sito, 1,2 servivano per costruire i padiglioni e il parco della nuova area espositiva; 1,8 per le nuove infrastrutture di accessibilità (di cui 870 milioni per la metrò 6 sono già stati cassati, 530 non potranno resistere per la Via d’Acqua e la Via di terra). Resterebbero da trovare i 374 milioni per potenziare quello che c’è già con nuovi svincoli e parcheggi. Il resto del budget, circa 900 milioni, servivano per pagare i sei anni di preparazione e i sei mesi di apertura: un investimento che dovrà comunque ripagarsi nel 2015. I tagli, del resto, sono assicurati anche sul pacchetto delle opere non direttamente collegate all’Expo ma comunque strategiche per il 2015, dalle nuove autostrade lombarde ai metrò 4 e 5 di Milano, alle ferrovie per Malpensa.

E la Lega? Bossi vuole aumentare il peso in Lombardia nel complicato risiko di potere che aprirà con Berlusconi dopo le elezioni di giugno. In ballo c’è la presidenza al Pirellone l’anno prossimo. Ma in ballo c’è anche, guarda caso, la Fondazione Fiera. Di certo il Carroccio sta attaccando a muso duro Lucio Stanca con ogni pretesto. E con Leonardo Carioni, contemporaneamente presidente dell’immobiliare Sviluppo Sistema Fiera e membro del cda Expo, come testa d’ariete: prima su Palazzo Reale, quindi sugli organici. «Pensano di assumere 80 dipendenti, quando alla Pedemontana lavorano 20 persone», ha dichiarato giusto due giorni fa in un’intervista. E pazienza se al Toroc delle Olimpiadi di Torino lavoravano in 900. Una strategia che mira chiaramente a costringere Stanca, arrivato a capo dell’Expo con la carta bianca data da Berlusconi, a patteggiare tutto il potere. Con la Fiera dentro agli appalti e alla gestione di quel miliardo che sopravviverebbe. E con il grande business del dopo-2015 sul tavolo di trattativa: resterebbe da definire cosa fare delle aree a Rho-Pero dove si dovevano fare i padiglioni. Si potrebbero lasciare non edificabili come non edificabili sono oggi? Difficile crederlo. Piuttosto, si dovrà decidere se svincolarle per un nuovo quartiere. O piuttosto assegnarle comunque al trasferimento dell’Ortomercato cedendo in cambio ai proprietari (Fiera e Cabassi) i 700mila metri quadrati lasciati liberi dai mercati in via Lombroso. In un caso o nell’altro, business del mattone.

Che cosa resta dell’Expo cinque lezioni per Milano

di Carlo Brambilla

Edifici bizzarri, come astronavi aliene abbandonate. Immense scatole di cemento vuote. Surreali periferie disabitate. Ardite cattedrali nel deserto urbano. Degrado. Solitudine. Silenzio. Inquietanti paesaggi da day-after. Lo sguardo di cinque grandi fotografi è andato a documentare cosa resta oggi di cinque Expo che si sono tenute negli anni recenti in Europa. Cinque reportage sulle condizioni attuali di Saragozza, Lisbona, Hannover, Siviglia e in Svizzera nei pressi del lago di Neuchatel, firmati da Gabriele Basilico, Marco Introini, Claudio Sabatino, Claudio Gobbi e Maurizio Montagna. La mostra, che verrà inaugurata oggi alle 18,30 alla Triennale, è una geniale provocazione culturale, promossa dall’Ordine degli Architetti di Milano per spingere la città alla riflessione. E porsi qualche domanda su cosa resterà a Milano dell’Expo dopo il 2015. Prima che sia troppo tardi.

Spiega Franco Raggi, architetto, curatore della mostra: «Queste immagini illustrano meglio di tanti discorsi come le ambiziose architetture realizzate per i grandi progetti fieristici debbano fare i conti con il "dopo". E come sia cruciale fare previsioni di riutilizzo o di dismissione se non si vogliono lasciare sul terreno eredità fisiche, architettoniche e urbane separate e sconnesse dalle complesse realtà urbane che le hanno ospitate. E riflettere se al posto del vecchio, anacronistico modello, di esposizione universale, gigantesca, fisica e muscolare, non sia meglio immaginare soluzioni più leggere, diffuse su tutto il territorio della città». «Cosa lascerà a Milano l’Expo nel 2016? - si domanda Daniela Volpi, presidente dell’Ordine degli Architetti. - Per rispondere a questa domanda abbiamo organizzato una serie di incontri che si concluderanno con una discussione generale in Triennale mercoledì 3 giugno, alle 21,15».

Le realtà delle cinque città in mostra sono diverse tra loro. Le esperienze di Hannover, del 2000, e di Saragozza, nel 2008, restano le peggiori. Quelle dove maggiormente risalta il senso di abbandono a loro stesse di immense aree urbane. Un po’ meglio il caso di Siviglia, del 1992. Qui l’Expo consente almeno di dotare la città di infrastrutture di cui era priva. Mentre l’esperienza più riuscita appare quella di Lisbona, nel 98, realizzata in un’area lungo il fiume Tago, di cui restano opere interessanti come la grande stazione Oriente realizzata da Santiago Calatrava, l’Expo e la città e l’acquario marino. Un caso completamente a parte, invece, è l’esposizione Suisse, del 2002. Qui gli edifici sono stati interamente smontati dopo la manifestazione. E il paesaggio è tornato a essere quello che era prima. «Un intervento forse fin troppo leggero - commenta Franco Raggi. - Perché un’Expo può essere invece un’occasione per lasciare qualche segno architettonico positivo».

«Perché perdere altro tempo per il rilancio edilizio...».



In che senso?

«Perché aspettare i ritardi del governo. È del 30 marzo l’intesa tra governo e Regioni. E tutto è ancora fermo».

Ma il piano casa è così ur gente?

«Per la Lombardia urgentissimo. La crisi sta mettendo in ginocchio il sistema edilizio. Ser ve un segnale forte».

E dunque?

«Abbiamo accelerato i tempi sul progetto di legge». Così Davi de Boni, assessore a Territorio e Urbanistica della Regione Lombardia si prepara a portare in giunta, per discussione e approvazione, il piano casa regionale. «Mercoledì. La crisi del sistema edilizio rischia di demolire l’intero tessuto socio-economico».

Partiamo dai punti di fondo del nuovo piano casa.

«Prima di tutto va specificato che interveniamo sugli edifici, non sulle aree. L’intento è quel lo di sfruttare il minor territorio per puntare sulle massime volumetrie. Così si darà anche un nuovo volto alle città».

Il pdl segue le linee dell’intesa governo-Regioni?

«Le acquisisce e le integra».



Prego?

«Il progetto di legge prevede il recupero degli spazi edilizi inutilizzati, l’ampliamento degli edifici del 20% e la riqualificazione di edilizia residenziale pubblica ».

E in che modo le integra?

«Abbiamo introdotto un’importante novità. Sarà possibile sostituire gli edifici obsoleti, con un aumento volumetrico fi no al 30%. Il pdl però non si riferisce solo agli edifici residenziali, ma anche industriali».

Industriali?

«Certo. Se c’è l’esigenza di abbattere un vecchio capannone perché non farlo? Serviva una svolta anticrisi decisa, e così sarà. Anzi si potrà intervenire, con le dovute cautele, anche su edifici rurali».

E chi ne beneficerà?

«Tutti. Il comparto edilizio lombardo oggi in grande difficoltà, i proprietari di case, le piccole e medie imprese. Senza contare l’Expo».

Cosa c’entra l’Expo?

«Le grandi imprese potranno giocarsi partite interessanti in vista dell’evento 2015».

Previsioni economiche?

«Pur con le significative restrizioni è stato stimato un impatto economico di 5,12 miliardi. A cui va aggiunto il risparmio energetico».

Già, perché gli interventi sono legati anche all’aspetto del risparmio energetico.

«In campo residenziale sono previsti interventi con qualificati requisiti di risparmio energetico. In tal senso è stato preventivato un risparmio annuo complessivo di circa 14,9 milioni di euro».



E le significative restrizioni a cui faceva riferimento?

«L’applicazione della legge avrà una durata di 18 mesi. Poi c’è l’esclusione delle aree storiche o di rilievo naturalistico ambientale. Salvo alcuni interventi ».



Come? Sarà possibile intervenire in aree protette?

«Rimangono i soliti vincoli. Ma se esistono edifici, in queste aree, incompatibili con tali contesti sarà possibile chiedere interventi di sostituzione».

Ad esempio anche in un cen tro storico?

«Anche in un centro storico, purché non modifichi la fisionomia del centro stesso».

E le autorizzazioni?

«Spetterà alla Regione auto rizzare gli interventi».



Così si scavalcano le Soprintendenze...

«La burocrazia per le concessioni delle Soprintendenze chiede tempi troppo lunghi. E lo ripeto: la crisi non permette altri ritardi».



Resta l’edilizia sociale.

«È ora di dire basta ai quartieri ghetto. Perciò stiamo pensando alle quote».

Quote?

«Case a coppie giovani, ma anche ad anziani. E solo a immigrati regolari. Ma è ancora presto per questo discorso».

Ora c’è il piano casa: una bella sfida.

«E se funziona non è detto che alcuni punti non possano essere inseriti nella legge del terri torio ».

Settis, Asor Rosa, il direttore del “Tirreno”, Frontera e Vanni, Moschini: tutti a ragionare di “politica e cemento”. Sorprende il silenzio di chi governa, come se niente fosse di loro competenza.

Colpisce la conseguenza logica tra l’affermazione del direttore «la strada del cemento è stata la scorciatoia per una politica che non solo ha smesso di pensare, ma non vuole nemmeno che lo facciano altri» e quanto scritto da Frontera e Vanni che ricordano solitudine, avversione, quindi fallimento di un responsabile tentativo di dare al territorio della provincia di Livorno uno strumento di governo pensato per fare di conto tra trasformazioni urbanistico-edilizie e risorse disponibili, applicando parametri certi, misurati e non svolgendo valutazioni letterarie.

In considerazione di ciò e dei tempi elettorali, sussiste il dovere della chiarezza, dobbiamo attestare che spesso si è cercata la scorciatoia del cemento pensando che questa potesse essere sviluppo, anche se tante volte è stato ripetuto che l’edilizia è attività di servizio alla produzione, alle attività primarie, allo sviluppo vero e duraturo. Ebbi modo di dire queste cose già in una conferenza programmatica della Cgil livornese nel gennaio-febbraio del 2005, ma tant’è.

Altrettanto è evidente che si è smesso di pensare ad un progetto di città e comunità, di territorio, che è facile inseguire centri commerciali, le grandi operazioni, spacciare come un successo la realizzazione, a scomputo degli oneri, delle opere di urbanizzazione, dimenticandosi che poi chilometri di strade, fogne, condotte idriche, impianti di illuminazione, vanno gestiti; peggio ancora dimenticando che la competitività di un territorio è garantita in prima istanza dalla qualità ambientale e paesaggistica, quindi dall’accessibilità, dalla vivibilità, dai servizi alle persone e alle imprese. E non possiamo dimenticare che una sussidiarietà forse male interpretata come acquisizione tout-court di potere, ha consegnato ai Comuni molti compiti e oneri, finito per travolgere ogni sistema di controllo, ovvero ha consentito una sorta di “co-pianificazione” che la Regione ha reintrodotto in forme non sempre chiare, soprattutto per quanto riguarda la specifica responsabilità di scelta. Cioè non ci si è assunti l’onere di assegnare a ciascun livello compiti e ruoli, senza sovrapposizione di competenze e si è creato un sistema di valori e beni - suolo, paesaggio, risorse idriche - comunque contendibili: in questo contesto, tutto appare possibile e ovviamente spesso lo è per chi, economicamente, è più forte.

È dunque evidente:

1. che molti problemi non si possono più governare negli angusti confini comunali;

2. che frammentazione istituzionale e competizione tra territori hanno prodotto la moltiplicazione degli interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia a scapito della qualità ambientale e paesaggistica;

3. che la mancata riforma della fiscalità e della contabilità locale ha fatto degli oneri di urbanizzazione un’entrata irrinunciabile;

4. che la crescita urbana equivale a futuri maggiori costi di gestione urbana (e cioè a meno risorse per scuole, servizi sociali, verde pubblico);

5. che non si vede all’orizzonte chi si faccia carico di un confronto senza tesi precostituite e ricostruisca un proficuo rapporto tra politica, amministratori, competenze e cittadini: prevale ovunque il “frazionismo” che si riassume nella sindrome di “nimby”, “non nel mio cortile”;

6. che se si crede davvero ai principi europei la valutazione ambientale non può essere ridotta a espressione letteraria, ma deve essere saldamente ancorata alle risorse, cioè a specifici limiti: se le risorse ci sono le cose si fanno, altrimenti non si fanno. Non si può pensare che comunque si debba fare e poi si vedrà;

7. che il futuro del paesaggio non può essere rimesso ad una valutazione separata, di volta in volta, di progetti edilizi, ma ferreamente connesso a specifici vincoli di tutela;

8. che territorio e paesaggio sono capitale fisso sociale, non bene soggetto alla fluttuazione e speculazione dei mercati;

9. che non abbiamo bisogno di “piani casa” e leggi ad hoc - perché norme per gli ampliamenti invece che per nuove costruzioni erano e sono possibili con un qualsiasi piano regolatore che stabilisca cosa fare e come - ma di norme sul diritto dei suoli, la determinazione delle indennità di esproprio che non possono essere definite come prezzo di mercato perché, se uno Stato è comunità, una forma di solidarietà ci deve essere.

Ma siamo maturi per tutto questo, ci sono volontà politiche di discutere e voglia di riprendere un cammino?

Ugo Cappellacci inaugura stamani alle 10, al teatro civico di Alghero, il processo di "revisione" del piano paesaggistico regionale. Prima di tutto le ragioni del metodo: il presidente della Regione ha messo in moto un sistema ecumenico nel quale affida ai Comuni le proposte cambiamento dello strumento di pianificazione territoriale. Per usare le sue parole: "Vogliamo un processo partecipativo con il territorio, per intraprendere una riflessione condivisa". La cornice filosofica di questo processo Cappellacci l’ha già anticipata in campagna elettorale. Il corollario è condensato in un’affermazione estremamente esplicita, che il presidente ha ribadito nei giorni scorsi nella conferenza stampa preparatoria alle conferenze territoriali che comunciano oggi: "Bisogna riaccendere la fiammella dell’edilizia per riavviare lo sviluppo economico nella nostra regione". Dunque, si riparte dalle ragioni del cemento.

Il Piano paesaggistico non più quindi come strumento di tutela ambientale, ma come contenitore di un’edificazione possibile nella fascia costiera. Un messaggio che era passato in campagna elettorale e che ha sicuramente attecchito, vista la risposta inequivocabile delle urne: il centrodestra ha infatti vinto in 67 dei 72 comuni costieri della Sardegna. L’interpretazione di questo dato non è poi tanto difficile: è la restaurazione di un concetto abbastanza discutibile, anche sul piano economico, secondo il quale la proliferazione del mattone è la molla dell’economia. Non importa se economisti di indubbia autorevolezza hanno bocciato questo teorema, parlando di crescita nel breve periodo, ma investimento nefasto nel ciclo economico di medio e lungo periodo. Si "consuma" la risorsa primaria, cioè l’ambiente, arrivando così a un fatale deprezzamento del capitale immobiliare. Il ciclo virtuoso del turismo, in uno scenario di forte concorrenza internazionale, va verso un pericoloso rallentamento. In estrema sintesi, si dà ossigeno al comparto edilizio attivo sulle seconde case.

Il concetto di edilizia specializzata nel recupero dei centri abitati nella fascia costiera evidentemente non risponde all’aspettativa di utili da parte di molte imprese. Un concetto che si è esteso anche a chi vive di servizi e di attività di supporto a un turismo, chiuso nella prigione della stagionalità. Le pressioni esercitate sui comuni dagli interessi del mattone sono enormi. Perciò è verosimile che, su questo terreno, Cappellacci otterrà significativi consensi nella sua politica di alleggerimento dei vincoli. Il presidente sa molto bene che, comunque, non potrà spingersi molto avanti perché troverà sulla sua strada i limiti imposti dal cosiddetto codice Urbani. Ma per il presidente e per la sua giunta il vero problema sarà quello di trovare un equilibrio tra le spinte che arrivano da grossi gruppi immobiliari (già molto attivi nell’isola) e le esigenze di piccoli proprietari che cercano di investire sulle coste. La partita si giocherà molto probabilmente su questo tavolo, ma comunque vada, si rischia di avere conseguenze permanenti nel campo della qualità ambientale. Al di là degli interessi in gioco, è poi tutta da verificare la forza di una vastissima area culturale (politicamente trasversale) che in alcuni casi ha criticato i metodi forse troppo decisionisti dell’ex presidente Renato Soru, ma che, nella sostanza, ha condiviso la filosofia che ha ispirato un’iniziativa forte come "legge salvacoste" del novembre 2004. E la conferma è arrivata dall’esito clamoroso del referendum promosso dal centrodestra proprio contro la legge salvacoste: solo il 20,4 per cento dei sardi è infatti andato a votare.

Da oggi, comunque, le conferenze territoriali cominceranno a fornire importanti indicazioni politiche. Intanto, nei giorni scorsi il Wwf ha lanciato un appello al presidente Cappellacci perché "vengano garantiti in senso e l’efficacia del piano paesaggisitico regionale". "Il Ppr - scrivono gli ambientalisti - rappresenta l’unico strumento normativo in grado di mettere al sicuro la bellezza del paesaggio e l’integrità dei valori naturalistici della Sardegna. Comprometterne l’efficacia significherebbe esporre al rischio di degrado quel grande patrimonio ambientale sul quale l’isola fonda il proprio sviluppo". Secondo il Wwf, il processo di "coinvolgimento e concertazione con gli enti locali rappresenta un passaggio importante e fondamentale per capire i bisogni e le aspettative delle comunità. Tuttavia occorre grande senso di responsabilità per non esporre il patrimonio ambientale e interessi speculativi e al rischio di una cementificazione selvaggia".

Se oggi autorevoli personaggi della cultura denunciano una crisi del paesaggio toscano e un cattivo governo del territorio una ragione ci sarà. E se negli ultimi anni centinaia di cittadini in parecchi luoghi (compresi Piombino, San Vincenzo e Campiglia) si sono organizzati dal basso per contrastare villette, cave, porti e altri episodi di cemento, non sarà certo per caso o per capriccio. Eppure il ceto politico reagisce stizzito o tace di fronte a un problema reale. Così la crisi del paesaggio ne evidenzia un’ altra altrettanto grave: quella della politica, o meglio, della politica democratica.

Salvatore Settis, Alberto Asor Rosa, Vezio De Lucia, Vittorio Emiliani, Furio Colombo e Bruno Manfellotto - solo per citare i più noti intellettuali che dai settori dei beni culturali, dell’urbanistica, e del giornalismo - non hanno esitato a parlare di un’emergenza paesaggio in Toscana. E non può consolare il fatto che altre regioni abbiano fatto peggio. Questa è semmai un’ aggravante per quanto riguarda la crescita anche qui di una politica del cemento.

Settis ha scritto sul Tirreno che “il partito del cemento ha esteso anche in Toscana i propri tentacoli, insinuandosi in Comuni d’ogni colore politico”, portando ad una situazione paradossale: mentre si parla di crisi edilizia, si moltiplicano le costruzioni (S. Vincenzo e Venturina docet). La stessa Regione ha dovuto riconoscere - come ha ricordato Massimo Morisi - che in Toscana si è costruito troppo e male, ma poi si è affrettata ad approvare il berlusconiano piano-casa.

Sono tutti “piccoli, rancorosi e smemorati”, come ha scritto il segretario del Pd di Piombino-Val di Cornia Tortolini, sempre preoccupato di bollare così coloro che si permettono di criticare? Tutela del paesaggio e libertà di pensiero dovrebbero andare a braccetto.

La Val di Cornia, che fin dagli anni ’70 aveva conosciuto pratiche di buona pianificazione urbanistica, è ora tristemente sul banco degli imputati. Essa è passata dai piani regolatori elaborati nei primi anni ’90 ai piani strutturali degli ultimi cinque anni. Ci sono errori passati che vanno corretti, ma si è assistito anche ad uno scadimento della cultura della pianificazione, con il ricorso sempre più frequente alla politica delle varianti e delle aggiunte, una riduzione del ruolo dei consigli comunali e della partecipazione dei cittadini, un arretramento sostanziale del coordinamento urbanistico tra i Comuni, a dispetto del fin troppo celebrato piano strutturale d’area e dell’annunciato regolamento urbanistico unico, che le amministrazioni uscenti non sono state in grado, in cinque lunghi anni, di portare a conclusione.

Si predica bene e si razzola male: sembra essere stato questo il motto seguito, camuffato da un neoriformismo che ha poco a che vedere con la vera tradizione riformista. “Un’armonia di contrasti da raggiungere” l’ha definita lo stesso Tortolini... Troppa grazia, cosa vuol dire? Intanto il piano strutturale registra una crescente occupazione di territorio e un consumo medio di suolo di 623 mq per abitante, con intuibili danni all’agricoltura e all’ambiente.

Le ferite al paesaggio rispecchiano anche, qui come altrove, il degrado della politica e della democrazia. Che fare? Settis, Colombo e gli altri non possono restare cavalieri solitari. Il paesaggio è un bene comune e il territorio è la principale risorsa della nostra regione. Tocca ai cittadini, alla politica diffusa fuori dai partiti, ai municipi ancora virtuosi, alle mille pieghe della società civile rivendicare un nuovo protagonismo e una vera stagione di partecipazione. Solo così, insieme ai mali conclamati che affliggono il paesaggio, potremmo cominciare a curare anche quelli incombenti della democrazia.

In questo la Toscana, per le sue tradizioni paesaggistiche e civiche, dovrebbe avvertire una “responsabilità nazionale”, come ha recentemente scritto l’urbanista De Lucia.

L’autore è docente di storia all’Università del Molise e direttore dell’Istituto di ricerca su territorio e ambiente Leonardo di Pisa

I precedenti, contrapposti, interventi sul Tirreno:

Alberto Asor Rosa, 8 maggio 2009

Bruno Manfellotto, 10 maggio

Salvatore Settis, 12 maggio

Erasmo De Angelis, 13 maggio

Giuseppe De Luca, 14 maggio

Furio Colombo, 14 maggio

Disegnare il futuro di Roma in sei mesi. Questo era il compito che il sindaco Gianni Alemanno aveva dato alla «Commissione per il futuro di Roma capitale». In 180 giorni non solo è stata rifondata Roma, ma si è rivoluzionata la storia dell'umanità. A pagina 12 del rapporto conclusivo si elencano le antiche capitali del mondo protagoniste della civiltà. Insieme ad Alessandria, Atene e Roma non compare Menfi, ma Memphis. Secoli di studi sulla civiltà egizia sono stato demoliti. Quello che abbiamo conosciuto nei primi anni della scuola dell'obbligo era falso. L'unificazione dei due regni egiziani non avvenne a pochi chilometri a sud dal Cairo, a Menfi appunto, ma nel lontano stato del Tennessee. Degli oltre cinquanta esponenti della commissione, tre volontari guidati dal presidente Antonio Marzano inizieranno tra breve una coraggiosa risalita del corso del Nilo alla ricerca degli antenati di Elvis Presley.

Antonio Marzano è attualmente presidente del Cnel, istituzione che in tempi di crisi economica potrebbe pure portare qualche contributo alla ripresa del sistema Italia. Con queste premesse dubitiamo fortemente che da lì verranno segnali. Ed anzi, visto che ci siamo, suggeriamo all'inflessibile ministro Brunetta di metterci il naso e di ampliare gli orizzonti della sua inflessibilità. Dal divieto della spesa per gli impiegati normali al divieto di dire corbellerie ai gruppi dirigenti sarebbe un buon salto di qualità.

Con queste premesse verrebbe da concludere che Alemanno aveva posto il futuro di Roma nelle mani di apprendisti stregoni e che dunque la commissione non ha cavato un ragno dal buco. Ma, purtroppo, non è vero. La più solida industria romana, la speculazione immobiliare, era ben rappresentata all'interno della commissione ed ha raggiunto tutti i suoi scopi. Del resto, era stato quello il motore del «sacco di Roma» veltroniano ed oggi prosegue indisturbata il suo ferreo dominio sulla città. Ecco alcuni esempi. Uno degli obiettivi principali è quello «di ampliare l'offerta abitativa, anche tramite l'implementazione del piano regolatore». Evidentemente l'eredità dei 70 milioni di metri cubi di cemento previsti dal prg da poco approvato non soddisfano ancora gli appetiti della speculazione.

Nel merito, dopo aver imposto la creazione del sistema direzionale occidentale invece del previsto sistema direzionale orientale (i due enormi edifici per uffici in via di ultimazione ai margini dell'autostrada Roma-Fiumicino), si intende completare l'opera. In primo luogo costruendo altri uffici e ministeri (decisione 3), poi inaugurando il sistema Roma-Civitavecchia basato su un «district park» di 80 ettari, di un aeroporto cargo e il potenziamento del sistema porto-interporto (decisione 20) e di pontili turistici (68). È del tutto evidente che se passassero queste previsioni sarebbe inevitabile mettere mano al passante autostradale tirrenico dentro la città. Anche perché nella parte sud di Roma, a Castel Romano, sta per partire la realizzazione di un polo dello spettacolo che occuperà altri 50 ettari di campagna romana.

Ma è sul fronte ambientale che vengono i maggiori rischi. Dopo aver denunciato ciò che tutti vedono, e cioè l'erosione del litorale romano, viene trovata una soluzione peggiore del male. Si afferma che «una corona di isole artificiali può fissare definitivamente una nuova linea costiera e la delimitazione di tutta l'area potrebbe essere recuperata per funzioni naturalistiche, didattiche e turistiche di qualità» (decisione 7). Tutti gli esperti del settore dicono che è stata la disinvolta costruzione del porto turistico di Ostia nel 2000 (in deroga del prg) ad aver aggravato i fenomeni erosivi. Ma per gli insensati cantori dello sviluppo senza limiti la soluzione è aumentare la dose del male: costruire addirittura isole artificiali.

Ma forse l'idea delle isole artificiali risolverebbe almeno qualche questione aperta. Proponiamo pertanto che ne siano realizzate cinque. La prima ospiterà il mausoleo di Elvis che verrà trafugato da Memphis: milioni di turisti in più. La seconda un gigantesco albergo con pista artificiale per lo sci di fondo, altri turisti. La terza la nuova sede del Cnel, compresa una lussuosa suite per il presidente Marzano. La quarta un meraviglioso luogo per le feste di compleanno delle adolescenti così da permettere al papi di tutti noi di non dovere andare a Casoria, risparmiando così tempo da dedicare al paese. La quinta infine la nuova sede del Bagaglino.

Sullo stesso argomento vedi anche l'articolo di Antonello Sotgia

Un campo di San Siro in meno ogni ora, un parcheggio per una dozzina di auto che ogni dieci minuti svanisce e a scomparire è Piazza Duomo quando le ore diventano tre. Sono solo degli esempi per rendere quanto suolo la Lombardia ceda ogni giorno all´avanzata di asfalto e cemento. «Cento metri quadrati al minuto», denunciano Legambiente e Verdi nell´appello "Metti un freni al cemento". E insieme puntano il dito contro la mancanza di leggi regionali che tutelino il suolo pubblico e lo considerino «come un bene comune». La denuncia è rivolta in particolare alla proroga di un anno concessa a metà marzo dal Pirellone a tutti i comuni per l´approvazione del piano di governo del territorio, il Pgt, che oggi, su 1547 comuni lombardi, soltanto il 18 per cento ha approvato o adottato. Cemento che avanza per colpa di strumenti urbanistici come il piano integrato d´intervento (Pii), secondo i Verdi, a cui i comuni ricorrono per "fare cassa". «E finché i costruttori potranno proporre di approvare insediamenti con procedure semplificate, in deroga ai piani urbanistici - accusa Carlo Monguzzi, consigliere regionale dei Verdi - i Comuni continueranno a dire di sì, scarsi come sono di risorse economiche, e non avranno stimoli ad approvare i Pgt». In più i paletti alla "cementificazione" legge sarebbero facilmente aggirabili. «È sufficiente che un Pii preveda 100 metri di nuova strada perché possa essere approvato» accusa Monguzzi. Proprio a tutela del suolo, Legambiente sta raccogliendo firme per un progetto di legge: «Per introdurre la compensazione ecologica preventiva - commenta Damiano Di Simine, presidente lombardo degli ambientalisti - per ogni edificazione su suolo libero il privato deve concedere al comune il doppio della superficie occupata e farla "verde"». Non condivide l´"allarme cemento" Davide Boni, assessore al Territorio del Pirellone: «Molte aree su cui si sta costruendo sono dismesse e siamo stati noi a porre dei limiti sulle aree agricole. Abbiamo la legge migliore d´Italia sulla salvaguardia del suolo che attribuisce ai sindaci la completa responsabilità per gli interventi». Con una precisazione: «Il mercato edilizio è in grande crisi tra qualche tempo dovrò fare la legge di rilancio edilizio».

Allarme cemento nel Parco Sud

di Ilaria Carra

L’asfalto di superstrade che tagliano in due il parco e la minaccia del cemento dove c’era un campo. Dieci ettari di aree agricole lombarde mangiati ogni giorno, secondo uno studio del Politecnico, e diventate strade o edifici. Con il Parco Sud che non fa eccezione: a ogni tramonto perde 0,35 ettari di campi e paesaggi, con mille ettari di terreni sottratti negli ultimi anni. A difendere il ruolo insostituibile dell’agricoltura dall’avanzata del cemento al Parco Sud scende in campo il Fai, il Fondo ambiente italiano, che in un incontro a Villa Necchi approfitta della scadenza di mandato dell’Ente parco per fare un bilancio sulla gestione e attaccare le minacce di asfalto, in particolare della superstrada voluta da Anas e Regione tra la tangenziale ovest e Malpensa, e cemento nei 47mila ettari totali a sud di Milano, di cui oltre quattromila comunali. «Un anno fa il sindaco Letizia Moratti disse che l’Expo era votato all’agro-alimentare - ricorda il presidente del Fai, Giulia Maria Mozzoni Crespi - ma nessuno parla più di parco agricolo, che oggi è abbandonato: Ligresti ha acquistato molte cascine, per questo i produttori sono scoraggiati e hanno smesso di investire nel loro lavoro, spaventati dalla prospettiva di espansione di molti "cementieri"». Sensibile al consumo di suolo anche Diana Bracco: «Sono una sostenitrice del Parco Sud», ha detto il presidente della società che gestirà l’Expo, prima di specificare però la necessità di coniugare progresso e ambiente: «Il nostro territorio necessita con urgenza di un adeguamento infrastrutturale. Opere come la tangenziale est esterna e il prolungamento della Boffalora-Malpensa sono essenziali». Propositi di conciliabilità «bizzarri e incondivisibili», per il consigliere dei Verdi al Pirellone, Carlo Monguzzi, che attacca: «La Regione non pone alcun freno a strumenti deleteri come i programmi integrati d’intervento». A Diana Bracco ribatte anche Carlo Franciosi, presidente della Coldiretti di Milano e Lodi: «Non servono collegamenti nuovi ma allargare e mettere in sicurezza quelli esistenti». Convinta che solo la città metropolitana possa assicurare una governance adeguata, e contraria alla superstrada, il presidente in scadenza del parco Sud (l’unico gestito dalla Provincia), Bruna Brembilla: «Fino a cinque anni fa il parco era un "ferro vecchio" mentre oggi è oggetto di dibattiti ma occorre garantire un reddito agli agricoltori». All’appello del Fai si uniscono anche gli accademici: «I dati che abbiamo finora arrivano al 2007 - precisa Paolo Pileri docente di Architettura e pianificazione del Politecnico - ma dagli studi non ci sembra che le cose stiano migliorando». In più la beffa: «I dati dimostrano che il quattro per cento di aree agricole urbanizzate in nove anni, fino al 2007 - avverte Stefano Bocchi di Agraria - ha la classe di fertilità più elevata».

I predatori del suolo pericolo per il futuro

di Luca Mercalli

Milano ha dimenticato in fretta che per diventare cosa è diventata, deve dir grazie alla più fertile e ubertosa campagna del mondo, che nei secoli l’ha nutrita di cereali, ortaglie e foraggi, da cui un allevamento e un’industria casearia d’eccellenza. La ricchezza industriale è arrivata dopo, quando i trasporti a lunga gittata hanno portato gli alimenti da lontano, da dove il prezzo era più conveniente. E così la città ha voltato la schiena alla sua campagna, alla quale era unita in equilibrata simbiosi, anzi, come una grande metastasi si è avventata sul suolo e l’ha rapidamente trasformato in autostrade, ferrovie, centri logistici e commerciali, abitazioni. Ora il problema sta nella mancanza di visioni a lungo termine e di senso della misura.

Nel dopoguerra le infrastrutture ci volevano e certo hanno reso più facile la nostra vita, ma la mancanza di coscienza dei limiti fisici del territorio, rende oggi la continua predazione di una risorsa non rinnovabile come il suolo, insostenibile. È un classico problema del tipo "tragedia dei beni comuni" un meccanismo di abuso di un capitale naturale descritto dal biologo americano Garrett Hardin una quarantina d’anni fa: per massimizzare il profitto individuale tutti depredano il bene fino al suo collasso, per garantirne il mantenimento a lungo termine ci vuole un meccanismo collettivo di regolazione che dovrebbe essere svolto dalla politica. Ma se la politica asseconda chi sulla risorsa fa affari, camuffati da servizi al cittadino, allora la tragedia è assicurata. Spesso si sente dire che le opere vanno fatte, certo rispettando criteri ecologici, ma vanno fatte comunque perché utili. Ebbene, nel caso del suolo, questo è solo un esercizio lessicale, in quanto lo spazio è fisicamente determinato, ci è dato una sola volta e per sempre, e la popolazione già eccede la "capacità di carico" del territorio.

Quindi l’unica soluzione è fermarsi, quantificare con cura quanto suolo resta, verificare se sufficiente a darci da mangiare oggi e domani, nonché svolgere le altre indispensabili funzioni biogeochimiche (depurazione acque, degradazione rifiuti organici, assorbimento e stoccaggio di anidride carbonica) e ludiche, e solo alla fine di un delicato processo conoscitivo e sociale, decidere di sacrificarne oculatamente ancora pochissimi lembi. Ci stiamo dimenticando che il suolo è più utile di qualsivoglia grande opera, in quanto unico sistema complesso in grado di darci da mangiare. Chi sbaglia oggi cementificandolo per un pugno di euro condanna a subire il proprio errore le generazioni dei prossimi millenni.

Sul tema dell’Expo 2015 la Fondazione Corrente di Milano ha dato vita a una mostra e a tre incontri sul tema expossible? Un'altra Expo è possibile? in cui sono intervenuti Fulvio Papi, Antonello Negri, Jacopo Muzio (curatore del ciclo) Steve Piccolo, Toni Nicolini, Gianni Beltrame, Empio Malara, Francesco Memo, Giancarlo Consonni e Claudio Onorato.

L'Expo non può essere considerata un’occasione per dare ossigeno a un modello di sviluppo che, nella crisi, mette drammaticamente in luce la sua insostenibilità. Il tema dell'Expo – Nutrire il pianeta. Energia per la vita – è veramente fecondo e di interesse mondiale. Il comitato scientifico ha lavorato bene sul terreno dei contenuti e, a questo punto, insistere sulla diatriba Expo-sì/Expo-no risulta sterile. Semmai bisogna adoperarsi perché l’Esposizione sia realizzata in modo che i contenuti non vengano traditi da scelte irresponsabili che comportino ulteriori devastazioni di un territorio e di un paesaggio già fortemente degradati. Per questo occorre chiedere con forza 1) che si costituisca quanto prima un'assise in cui si raccolgano e confrontino varie proposte progettuali, 2) che, in ogni caso, il progetto che si intende realizzare venga sottoposto a una valutazione pubblica avendo come interlocutore diretto anche il Bie (Bureau International des Expositions).

Occorre coinvolgere nell’Expo istituzioni, organismi, luoghi e paesaggi così da fare della manifestazione non un intervento/evento separato dal contesto ma un’occasione per valorizzare elementi qualificanti della città e della regione ospitanti e per mostrare effetti di politiche virtuose e buone pratiche in coerenza con il tema dell’esposizione.

Va in questo senso anche l'appello di Emilio Battisti e Paolo Deganello:

Perseguire la coerenza fra contenuti e modi di realizzazione dell’Esposizione significa dare risposta alla seguente domanda: come si presentano Milano, la Lombardia e l'Italia all’appuntamento del 2015? Sapranno essere all’altezza mostrando i risultati di politiche in linea con i problemi al centro della manifestazione, oppure il tema è solo uno specchietto per le allodole mentre il vero cuore dell'operazione è rappresentato dalle speculazioni immobiliari? Non ci sono scappatoie: le amministrazioni locali (Milano, Provincia e Regione) e il Paese ospitante devono dimostrare di saper organizzare una manifestazione in modo coerente con il tema proposto su un doppio versante: il suo assetto e il suo lascito.

La decisione di occupare un'area agricola per ospitare l'Expo 2015 rappresenta già una forte incrinatura nella coerenza.

Si obbietterà che in questo caso l’amministrazione del capoluogo lombardo cerca di fare i conti con il lascito permanente dell’intervento temporaneo. Ma lo fa a suo modo, imbastendo un’operazione in due tempi:

1) lo spostamento dell'Ortomercato a Rho/Pero sul sito occupato dall'Esposizione Universale, una volta conclusa la manifestazione;

2) la nascita della cosiddetta “Città del Gusto” sulle aree liberate dall'Ortomercato e date in contropartita all’immobiliarista Cabassi che, bontà sua, mette a disposizione l’area agricola scelta per l’Expo.

Lo scambio è senza alcuna contropartita sostanziale per l’interesse collettivo. L’amministrazione comunale di Milano si accontenta di innescare un processo su una linea seguita da tempo: espulsione nella periferia metropolitana di funzioni “vili” (con occupazione di suolo agricolo) e accentramento di attività ritenute qualificanti. Tra gli effetti che non vengono messi in conto c’è il dilatarsi degli spostamenti obbligati dei clienti dell’Ortomercato: un onere aggiuntivo permanente in termini di tempo e di costi di trasporto che avrà contraccolpi negativi soprattutto per la piccola distribuzione (negozi e banchi dei mercati rionali). Tutto il contrario dell’obbiettivo da più parti sbandierato di accorciamento delle filiere nell’approvvigionamento alimentare (un tema questo che, c’è da scommettere, sarà fra le parole d’ordine dell’Expo).

La “Città del Gusto” è perfettamente in linea con un insieme di diverse altre operazioni di trasformazione urbana all’insegna della speculazione immobiliare. Va in questo senso la proposta di spostare l’Ippodromo su aree del Parco Sud-Milano (così da realizzare nell’attuale sede un nuovo quartiere di lusso), per non dire del recupero degli Scali ferroviari. Operazioni considerevoli che si aggiungono a quelle da tempo approvate e che si apprestano a essere realizzate sull’area dell’Ex-Fiera e sull’area Garibaldi-Repubblica. Questa massa gigantesca di volumi edificabili autorizzano l’assessore all’Urbanistica Masseroli a parlare di una crescita programmata di 700.000 mila abitanti per la città di Milano. Una scelta rivoluzionaria, se fosse credibile; ovvero se le nuove abitazioni del capoluogo fossero immesse sul mercato a un prezzo in grado di competere con la produzione edilizia dell’hinterland strettamente intrecciata con la fuga di popolazione da Milano (oltre mezzo milione di abitanti).

In realtà si perseguono contemporaneamente la disseminazione degli insediamenti e la iperdensificazione delle aree pregiate. Per chi attualmente ha responsabilità di governo del territorio il controllo della tendenza insediativa è l’ultima delle preoccupazioni. L’unico obiettivo è sostenere la speculazione edilizia ovunque e comunque. Siamo a un liberismo privo di un qualsiasi obiettivo sociale e che punta sulla crescita ad ogni costo con l’idea conclamata, e tutta da dimostrare, che ne deriverebbero benefici per tutti.

Nel contempo sia a Milano che nell’hinterland metropolitano cresce a vista d’occhio l’invenduto e lo sfitto, ma questo non sembra indurre a ripensamenti. Il Pgt del capoluogo mette in campo la realizzazione di quantità spropositate di residenza e uffici dando per scontato che gli operatori immobiliari si rivolgano a una fascia sociale alta (o molto alta). I prezzi di mercato arrivano ormai fino a oltre 4 volte il costo di costruzione. Si assisterà dunque inevitabilmente a un ulteriore allargamento della forbice fra offerta e domanda. Per ora il ‘castello’ si regge, per una fetta, sul sostegno delle banche (il cui portafoglio è pericolosamente appesantito dall’esposizione verso il settore immobiliare) e, per un’altra, sull’apporto di capitali di provenienza illecita capaci di reggere immobilizzi infruttiferi di quote spropositate di capitali per periodi molto lunghi.

Si fa sentire la sostanziale mancanza di lavoro critico da parte delle istituzioni di ricerca (le autocelebrate università milanesi) così come si è del tutto dissolta l’opera di sorveglianza dei maggiori quotidiani. La stampa si fa anzi cogliere con le dita nella marmellata: forme di pubblicità occulta, come quella contenuta per esempio in un recente servizio che dava notizia di 800 prenotazioni per l’acquisto di appartamenti di lusso (ancora sulla carta) nei mostruosi grattacieli in programma per l’area dell’ex-Fiera. Come a dire: «Correte ad accaparrarvi gli attici più prestigiosi dagli ottomila-dodicimila euro al metroquadro».

Tutto questo mentre assai poco si fa per rispondere alla domanda di edilizia sociale unanimemente riconosciuta come un’emergenza. Molti pubblici amministratori preferiscono continuare a giocare con la bolla immobiliare sull’orlo di un baratro.

Del tutto sottovalutato è il problema dell’accessibilità al luogo scelto per l’Expo. Si preferisce stupire come in uno spettacolo di magia. Un primo coniglio estratto dal cappello è la nuova “Via d'acqua” pensata per collegare la Darsena milanese con il sito della esposizione. I proponenti non si sono nemmeno posti il problema da dove attingere l’acqua (visto che non può certo scorrere in salita) né di come superare il dislivello fra Milano e Rho/Pero, per non dire dei guasti prodotti sui luoghi attraversati. Con lo slogan «Potrete raggiungere Rho, la Fiera e l'Expo in battello!» si punta su scenari alla Disneyland per un popolo non di cittadini, ma di bambinoni di ogni età.

Ma il culmine della devastazione prossima ventura può venire dal secondo coniglio estratto dal cappello: il tunnel sotterraneo di collegamento tra Rho-Pero e l'aeroporto di Linate. Di quest’opera faraonica si celebrano il basso impatto sull’ambiente e il paesaggio. Come se le emissioni delle auto non venissero comunque sparate nell’aria e come se le 8 uscite previste con tutti gli svincoli connessi non producano ferite rilevanti. Si tratta in realtà di un vero e proprio Passante automobilistico. L’intento non dichiarato è infatti collegare la Brebemi (di prossima realizzazione) con le autostrade a Ovest e a Nord-Ovest di Milano.

Nessun investimento significativo è invece destinato al miglioramento effettivo della mobilità metropolitana, quando il potenziamento del sistema delle ferrovie regionali (non solo radiali sul capoluogo) sarebbe, questo sì, un bel lascito dell’Expo in un contesto al collasso.

Ma vale la pena tornare sulla scelta dell’area. Un città e una metropoli che avessero un piano di riassetto territoriale farebbero dell’Expo una risorsa per la sua realizzazione. Nell’operazione Expo entrerebbero progetti di riqualificazione urbana e metropolitana, di valorizzazione dei beni culturali e di rilancio dell’agricoltura conservativa. Oltre alla parte espositiva concentrata in uno specifico insediamento, andrebbero predisposti degli itinerari complementari in cui far entrare il sistema delle abbazie, delle cascine, delle ville e dei centri storici dell’hinterland milanese.

Per quanto si è potuto vedere l’Expo del 2015 è concepito solo in termini anti-urbani. Lo dicono la scelta localizzativa messa in campo e quanto si è visto nelle restituzioni virtuali del gruppo 5+1.

In netta alternativa a questa impostazione si dovrebbe puntare sulla saldatura fra la dimensione metropolitana e quella urbana. Per raggiungere questo obiettivo il progetto Expo andrebbe pensato in chiave ‘archeologica’. E mi spiego. La struttura dell’esposizione andrebbe concepita in un’ottica di disegno urbano, avendo cura di assicurare il pronto adattamento e riuso di quanto prodotto per la manifestazione temporanea, almeno quanto all’impianto. Per questo la sfida è pensare contemporaneamente un complesso atto a ospitare l'esposizione e facilmente trasformabile in un pezzo di città integrato ad altre parti urbane e dotato di un’elevata accessibilità. Solo dando vita a una parte di città non si sarà sprecato denaro pubblico e si eviterà che il giorno successivo le strutture che hanno ospitato l’Expo, alla chiusura della manifestazione, si trasformino in un cimitero.

In questa prospettiva, invece di dislocare l’Expo in un’area agricola, andrebbero vagliate attentamente le opportunità offerte dalle maggiori aree industriali dismesse. Si pensi a un’area come quella delle ex-Falck di Sesto San Giovanni le cui dimensioni si avvicinano a quelle richieste per l’Expo. Se fossero attrezzate per ospitare la manifestazione, l’aree ex-Falck potrebbero ricevere un impulso per il recupero che difficilmente potrà arrivare da un progetto come quello redatto da Renzo Piano (un progetto di impronta vetero-corbusiana, ovvero concepito in una logica post-urbana).

In conclusione, le scelte relative all’Expo vanno valutate sulla base di questa alternativa: attivano processi di riqualificazione urbana e rurale, rilanciando lo spazio del convivere e la difesa dei paesaggi o puntano a creare concentrazione disurbane (con consumo di suolo agricolo e investimenti infrastrutturali che non migliorano il quadro della mobilità)?.

OLBIA. Accusato di fare leggi su misura per Berlusconi, Niccolò Ghedini si sta ora occupando delle forme della Sardegna. Quanti chilometri di costa, quanti metri cubi edificati ed edificabili. L'avvocato numero 1 del premier ha una missione: applicare il piano casa, a cominciare dall'isola. Con un impegno: «Niente cemento nei 300 metri dal mare». E così, alla Certosa, ha convocato Cappellacci e Asunis.

Il summit segreto si è tenuto venerdì scorso. Berlusconi non c'era: era impegnato a Roma, a palazzo Grazioli, con le nomine per la Rai e, poi, è volato in Abruzzo. Il delicato compito di far partire il piano casa senza intoppi, né giuridici né politici, l'ha affidato a lui, Niccolò Ghedini, uno che solitamente lo tira fuori da altri guai: quelli giudiziari. L'avvocato di Padova (e deputato del Pdl) ha ampia autonomia, per via della sua competenza. Sicché ha chiamato a Porto Rotondo sia il presidente della Regione che l'assessore all'Urbanistica. A Cappellacci e Asunis, Ghedini ha spiegato come stanno le cose. «Il piano è pronto, dopo l'intesa alla conferenza Stato-Regioni. Ora il consiglio dei ministri lo approverà, dopodiché la Sardegna, come tutte le altre regioni, avrà tre mesi di tempo per recepirlo». Questo è il ragionamento generale. Quello particolare, Ghedini l'ha fatto, secondo alcune fonti, molto direttamente: la prima Regione che dovrà applicarlo è la Sardegna.

Per Berlusconi, ovviamente, sarebbe un doppio colpo. Da una parte sbloccherebbe l'edilizia, e dunque l'economia, nel giro di pochi mesi. Dall'altra, lancerebbe un segnale chiarissimo: mantenendo fede a un impegno elettorale con i sardi, cambierebbe il piano paesaggistico fatto dall'odiato Soru e aiuterebbe i settori imprenditoriali a lui elettoralmente più vicini.

Cappellacci e Asunis hanno capito il messaggio, adesso dovranno tradurlo in un atto politico e amministrativo. Non a caso, due giorni fa a Cagliari, parlando a un convegno sull'edilizia, l'assessore all'Urbanistica ha detto che il «piano casa sarà pronto entro l'estate». In due mesi la Regione dovrà fare quello che Berlusconi desidera, dunque. Possibilmente, senza mal di pancia degli alleati. Toccherà a Cappellacci, come capo della maggioranza, evitare le polemiche. Con i numeri di cui dispone in consiglio regionale, non dovrebbe avere problemi. Quelli arriveranno dall'opposizione e dall'esterno, specialmente dalle associazioni ambientaliste che temono una colata di cemento sulle coste.

«Sì, ho incontrato Cappellacci e Asunis - conferma Ghedini alla Nuova -. Abbiamo avuto uno scambio di idee sul piano casa, che sto seguendo personalmente. Nessuna imposizione, nessuna volontà cementificatoria. Sia il governatore che l'assessore sono per il massimo rispetto dell'ambiente».

La domanda è: come si fa a costruire subito, se c'è il piano paesaggistico accusato di aver ingessato la Sardegna? Ghedini è abituato ai codici e a interpretarli sempre a proprio favore. «I vincoli permaranno ancora, nella fase di adeguamento - spiega l'avvocato-deputato -. Lo dico con chiarezza: la fascia dei 300 metri dal mare non si tocca, lì non si faranno ville. Ma, siccome l'obbiettivo è costruire case per le famiglie, troveremo una soluzione legislativa per sbloccare i cantieri immediatamente».

Nel giro di pochi giorni il "Tirreno" ha ospitato due interventi di alto spessore e di grande rigore, quelli di Salvatore Settis e di Alberto Asor Rosa, due massimi studiosi - l’uno del mondo antico, l’altro della letteratura e della politica del mondo contemporaneo - che non riescono a immaginare il loro ruolo di intellettuali disgiunto da un forte impegno civile.

Settis ha preso spunto dallo scempio edilizio di San Vincenzo, da quella arrogante collina cementificata che si para dinanzi al viaggiatore che percorra l’Aurelia da sud a nord. Su quella scia, Asor ha allargato la sua indagine con un breve viaggio che lo ha portato anche a Campiglia, Rosignano, Castiglioncello. Ma è evidente che, viaggiando e osservando, l’uno e l’altro pensavano a tutta la Toscana che solo pochi anni fa fu definita "felix" (proprio da Asor Rosa!) e alla china lungo la quale si è ora messa a correre.

Devo immaginare che sindaci e assessori abbiano accolto quelle parole - e queste poche righe, se sono arrivati fin qui... - con malcelato fastidio. Perché questo è il sentimento che li pervade ogni volta che qualcuno provi a riflettere su ciò che è stato fatto e si fa in Toscana: lo tacciano con disprezzo di radical chic, a volte di vip. E corrono a posare un altro mattone. Perfino Riccardo Conti, che ha speso tempo e risorse alla ricerca di un serio testo di legge regionale che tenesse insieme sviluppo e rispetto del territorio, davanti a queste critiche non riesce sempre a conservare la pazienza.

Forse è la reazione di chi può fare poco e fatica ad ammetterlo: l’assessore discute, suggerisce, legifica ma - ahimè - non riesce ad arginare i mille amministratori locali che progettano opere invasive e spesso ingiustificate. Meglio il silenzio.

Io invece vorrei insistere, provando a leggere questi fatti attraverso una diversa ottica. Mettiamola così. La strada del cemento è stata la scorciatoia più facile per una politica che non solo ha smesso di pensare, ma non vuole nemmeno che lo facciano altri. Specie se si tratta di intellettuali che tenacemente ci provano. Cosa sia successo è semplice da spiegare. In Toscana, ma non solo, si è risposto alla crisi economica e dell’occupazione, figlie anche di una lenta ma inesorabile deindustrializzazione, con massicci piani di sviluppo urbanistico ed edilizio. Tutto qui. Con evidenti vantaggi: i cantieri portano occupazione immediata.

E questo sia nelle fasce più basse della popolazione (immigrati compresi), sia nell’esercito di fornitori, costruttori e piccole imprese dell’indotto; i soldi che girano sono tanti e l’economia cresce; la politica, poi, ci guadagna due volte: prima governando il flusso delle risorse e delle licenze edilizie, poi incassando i tributi locali.

Perché spezzare il cerchio? Perché ci sono anche gli svantaggi: l’edilizia è come una fiammata che scalda molto, ma dura poco e che produce nel tempo costi crescenti, quelli che discendono dal maggiore inquinamento e dal consumo di risorse pubbliche (acqua, energia, territorio). In più, alla lunga produce non reddito, ma rendita. Che di fatto la collettività è chiamata ad alimentare pagandone costi e servizi.

In Toscana, poi, c’è un’aggravante: in una zona a forte vocazione turistica, questo tipo di politica economica produce reddito (rendita) solo per pochi mesi l’anno; in più, tutto avviene all’ombra di un paradosso: la continua distruzione proprio di quel capitale che ne ha fatto per anni un’oasi ambìta dal turismo culturale e vacanziero. È come fare un falò dei soldi che ci ha lasciato il nonno.

Finora di queste cose si è discusso, diciamo così, all’italiana. Cioè dividendosi, attaccandosi, disprezzandosi: scapoli contro ammogliati, favorevoli e contrari, partito dei geometri e partito dei vip. Senza cominciare invece a interrogarsi se non esista un modo diverso di affrontare la questione, e se non si debba finalmente cominciare a pensare a forme alternative di sviluppo, di crescita, se non altro più eque e più durature. Per capire che è il momento, non c’è bisogno di chiamarsi Barack Obama.

Cagliari ha tremila anni. I fondatori scelsero questo sito perché, quaggiù, a novanta miglia dall'Africa, trovarono un golfo sul palmo di un dio, promontori e colli di roccia bianca dove vivere era facile.

Alle origini, i nuragici, artigiani indecifrabili del bronzo e della pietra.

Da allora tutto arriva dal mare. I Fenici tracciano le rotte del Mediterraneo e fondano Cagliari. Poi la città diventa Punica e poi romana per molti secoli. E' un porto importante. La storia va avanti. I Vandali, Bisanzio e i due evi medi. L'epoca dei Giudicati. Le invasioni moresche, i Pisani e i Genovesi. Eleonora d'Arborea e il suo nuovo ordinamento, la Carta de Logu. Poi, a lungo, gli spagnoli e la decadenza.

Quindi i Savoia, il Regno di Sardegna e la modernizzazione ottocentesca. Le rivoluzioni europee si sentono anche da queste parti.

Antoine Valery nel 1834 ed Edouard Delessert nel 1854, due francesi originali, arrivano a Cagliari. Fuori dal Grand Tour. Scrivono diari di viaggio e Delessert fotografa la città. Sono le prime immagini della nostra storia.

A Cagliari giungono gli echi del Risorgimento.

Il XX secolo. Antonio Gramsci, il fondatore del Partito comunista italiano, fa il suo liceo a Cagliari. Ma la carneficina della Grande Guerra travolge anche l'isola. Pastori e contadini, riuniti nella Brigata Sassari sono mandati a morire sul Carso e Emilio Lussu li racconta in "Un anno sull'altipiano". Il fascismo, la tragedia e le macchiette locali sono narrati dallo stesso Lussu, eroe di guerra e antifascista.

Poi la seconda guerra, l'occupazione tedesca senza dolore, i bombardamenti anglo-americani del 1943 e tanto sangue che spiega l'antiamericanismo degli anziani di oggi.

La città inizia la sua ricostruzione e l'inurbamento è pressante, feroce.

Nasce dalla ricostruzione una nuova classe dirigente insieme ai nuovi brutti quartieri, anni Cinquanta e Sessanta, che la raffigurano. L'edilizia dimentica l'architettura. Impresari e commercianti disegnano la città sulla propria immagine e producono una generazione politica conformata, come un calco di gesso, alla loro visione materiale delle cose.

I cosiddetti intellettuali si rifugiano, nostalgici, in un mondo sognante vicino all'infanzia, lontano dalle azioni e pauroso delle conseguenze.

Ma qualcosa cambia negli ultimi decenni. Si smette di masticare i fiori di loto che danno amnesia. La memoria ritorna nella testa di alcuni. La città si guarda, finalmente si riconosce e vede la propria identità, prima di tutto, nei luoghi.

Si risveglia un'anima critica che comunica, osserva ed è interessata alle proprie origini. E ricava energia dal passato senza essere passatista. Guarda indietro per essere moderna perché quando uno sa di cosa è fatto e da dove viene non ha bisogno di altro per stare al mondo. E si oppone alla disastrosa frenesia del fare a tutti i costi, agli scimmiottamenti di metropoli lontane e alla visione immobiliare del territorio e dell'esistenza

Però l'altra anima, quella mercantile, resta forte. E la città, intanto, cresce senza una filosofia del costruire. Rimuove il passato. Arriva a ricoprire di asfalto e cemento il suo contado agricolo e lo chiama hinterland. Deturpa la sua spiaggia abbagliante. Insidia con bitume e palazzi gli stagni sconfinati, meravigliosi, a est e a ovest. E tutto questo lo chiama "sviluppo".

Ma è accaduto nel frattempo che l'abbandono e la dimenticanza - le sole scappatoie all' ingordigia delle imprese - avessero salvato molti luoghi preziosi.

C'è a Cagliari un sito unico e sublime che si chiama Tuvixeddu, la collina dei piccoli fori. La più grande necropoli punica del mondo. I fori sono migliaia di pozzi scavati nel calcare bianco che conducono a camere funerarie profonde. Un luogo sovrumano. Il passaggio dalla luce al buio. Una città all'inverso, in parte distrutta perché sfruttata come cava sino agli anni settanta. Ma anche il paesaggio della cava, nel frattempo, è divenuto bello, felice perché lasciato a sé, lontano dagli architetti capricciosi. Falchi, orchidee, iris, asfodeli, cieli perfetti, tramonti violenti, la vista degli stagni, il colle resta un luogo sacro. E si conserva.

Però la città è arrivata sin qui e la speculazione, nella forma più organizzata, ha messo gli occhi sul colle di Tuvixeddu.

Migliaia di sepolcri sono rimasti integri, altri ce n'è da scoprire e l'area, di oltre quaranta ettari, è proprio dentro Cagliari, assediata da una periferia squallida e palazzi costruiti sulle tombe. Le metastasi del cancro edificatorio stanno divorando Tuvixeddu e i resti dei nostri antenati fenici, punici e romani.

Una parte di opinione pubblica locale e nazionale cerca di salvare la collina soprannaturale dove un'impresa vuole palazzine dozzinali, un intero nuovo quartiere. Il nuovo Presidente della Regione blocca le costruzioni. I Tribunali, però, danno ragione alle imprese. Ricorsi. Nuovi blocchi. Una selva giuridica. Perfino il Times di Londra dedica una pagina alla necropoli. Gli intelletti locali sono usciti dall'infanzia.

Tuvixeddu è una metafora compiuta che spiega la forza delle nostre origini - quando ce le ricordiamo - e dimostra che la protezione dei luoghi coincide esattamente con la modernità, quella buona. Dimostra che esiste una modernità pericolosa e tossica, che distrugge il "bello" senza il quale non si può vivere. Dimostra che una città assonnata può svegliarsi e difendere un patrimonio tanto unico che non è neppure dei sardi ma è universale. Dimostra che quando la politica si mescola con l'impresa ci si ammala di una malattia contagiosa che si chiama "sviluppite". Una forma deviata e mortale dello sviluppo. E Cagliari è un'incubatrice di questa malattia.

Ma una società raccolta, come quella di un'isola, è alle volte un laboratorio dove tutto è più chiaro perché è rimpicciolito. Di colpo i simboli si svelano e l'allegoria di Tuvixeddu spiega molte altre città, avvilite dallo sviluppismo.

Cura, serve. Anche la nostra Costituzione dice che il bene culturale deve prevalere sull'interesse economico. Chi viene in città deve cercare con cura il tesoro mascherato sotto una patina di "nuovo" dozzinale uguale a tanto altro "nuovo" sparso per il mondo. E un occhio curioso scoprirà che ciascuno dei tremila anni di storia ha lasciato a Cagliari una traccia ostinata anche se vedrà il "moderno" palazzo dello stesso architetto che ha prodotto lo stesso palazzo sotto cieli diversi. Lo stile unico planetario che si vede ma non si guarda.

La storia è incancellabile. I luoghi resistono e mettono in movimento gli avvenimenti. I morti della necropoli di Tuvixeddu possiedono la forza dell'assoluto e ancora determinano conseguenze. La rocca medievale resiste ai tentativi di renderla "progredita" con scale mobili e ferraglia. L'anfiteatro romano rivolto al mare durerà più delle impalcature che oggi lo sfigurano. Il promontorio sacro della Sella del Diavolo resterà intatto anche se la città famelica gli gira intorno. L'immensa spiaggia luminosa che è stata annerita dal tentativo di ricostituirla e dalla mania del "fare" tornerà ad essere il fonte battesimale dei nati in città. I quartieri antichi reagiranno a chi li vuole "valorizzare" - "valorizziamo" è il grido di guerra degli sviluppisti - e ritroveranno il patrimonio del silenzio perché la malinconica imitazione di movide e notti bianche metropolitane passerà.

Passeranno anche gli autori dei danni alla città però resteranno nella memoria come le epidemie, le invasioni di locuste, i bombardamenti e i disastri della nostra storia. E guardare all'antico sarà l'unico progresso possibile di questa città metaforica.

Oggi, il cielo alto e pulito dal vento rettilineo di maestro, la luce bianca che non finisce mai, Cagliari è un luogo molto più lontano di un'ora d'aereo dal continente.

Con la privatizzazione dei siti vesuviani, un intero patrimonio di saperi rischia l'estinzione. Ma un altro modello - pubblico, gratuito, refrattario alla monetizzazione della cultura - è possibile. Parla Annamaria Ciarallo, direttrice del laboratorio di ricerche applicate della Soprintendenza archeologica di Pompei

La grotta di Seiano sembra marcare il confine tra Napoli e un altro mondo. Attraverso gli ottocento metri di penombra scavata nel tufo, si sbuca sulla costa di Posillipo, si cammina ancora un po', lasciando alle spalle le villette dei veri ricchi, e si arriva ai due teatri romani sistemati sull'ultimo costone a precipizio sul golfo. L'odeon principale è fornito addirittura di una vasca per gli spettacoli acquatici, esemplare unico insieme al suo gemello in Turchia. Scenario da sogno per le notti del governatore Vedio Pollione, liberto della corte di Augusto, ricco e potente al punto da potersi permettere una villa sospesa nel mare, sull'isolotto della Gaiola, raggiungibile attraverso una scaletta immersa tra lecci e cespugli di lentisco, lasciata poi in eredità al suo augusto protettore. Oggi l'isolotto è area marina protetta, in passato però è appartenuto agli Agnelli e al miliardario americano Paul Getty.

«È un posto bellissimo, l'abbiamo sempre tenuto aperto, ma ora abbiamo risistemato i sentieri, messo la segnaletica e ripristinato il verde originario, invece di farci mandare olivi centenari dalla Grecia, come sembra essere di moda», racconta Annamaria Ciarallo, direttrice del Laboratorio di ricerche applicate della Soprintendenza archeologica di Pompei. In effetti, la villa di Pollione potrebbe richiamare alla memoria quella di Berlusconi in Sardegna, ma il recupero è avvenuto riportando alla luce l'acquedotto e due tempietti, salvaguardando le specie autoctone e la biodiversità. I fondi sono stati reperiti grazie ad «Archeologia e natura nella Baia di Napoli», un progetto che ha coinvolto i siti tra Pozzuoli e Punta Campanella, dieci percorsi tra natura e archeologia, con letture di classici affidate alle attrici Cristina Donadio e Iaia Forte. «Abbiamo avuto 200 mila euro dai Por europei attraverso l'assessorato regionale al Turismo - spiega Annamaria Ciarallo - e li abbiamo sfruttati per ripristinare la vegetazione, sistemare la segnaletica e fornire guide cartacee in italiano e in inglese. La manifestazione dura fino al 2 giugno ma gli interventi fatti servono a rendere i siti fruibili sempre, speriamo che ci facciano continuare a lavorare».

Continuare a lavorare sembra, invece, la cosa più difficile da ottenere da qualche anno a questa parte. Si potrebbe cominciare dal novembre 2007, quando venne creata la Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Napoli e Pompei. Organismo periferico del Ministero per i Beni e le attività culturali, riunisce sotto un'unica gestione i siti vesuviani di competenza dell'ex Soprintendenza archeologica di Pompei (si tratta di miniere d'oro come le aree di Pompei, la più visitata al mondo, Ercolano, Stabia, Oplontis, e il museo di Boscoreale) accanto al Museo archeologico nazionale di Napoli, i siti archeologici dell'area flegrea e della penisola sorrentina, precedentemente gestiti dall'ex Soprintendenza archeologica di Napoli e Caserta. Una macchina da guerra in grado di fruttare moltissimo, che Berlusconi e i suoi ministri sembrano intenzionati a svendere ai privati.

Così nel 2008 parte la campagna a mezzo stampa che segue la denuncia del governo che si scaglia contro la scandalosa incuria in cui è lasciata Pompei. «Erbacce e cani randagi infestano i percorsi», tuonava l'esecutivo; «stato d'abbandono», titolavano i giornali. A luglio arriva puntuale la nomina del commissario straordinario con una dotazione di 40 milioni di euro, la soluzione standard del governo per ottenere i propri scopi. Non c'è Bertolaso, questa volta, in versione Batman dell'archeologia, ma l'ex prefetto Renato Profili (sostituito dopo appena otto mesi da Marcello Fiori). Non servono competenze tecniche ma manageriali, sottolinea il ministro per i Beni culturali Sandro Bondi, che tuona: «Il commissario serve a dire basta a una situazione che definire intollerabile è dire poco». Il nuovo incaricato, poi, dichiara a cuor leggero ai giornali: «Gli scavi da troppi anni sono stati gestiti con una certa artigianalità». E come primo atto cerca di affidare ai privati il servizio di vigilanza esterna, progetto bloccato dai sindacati e dal soprintendente Pietro Giovanni Guzzo, mentre il governo studiava quali pezzi pregiati della collezione Farnese spedire alla Maddalena per il G8. «Possiamo credere, vista la tendenza del contesto relativo ai Beni culturali in generale, che questa struttura miri a sostituirsi alla tradizione della Soprintendenza. Ma, a giudicare da quanto finora si è visto - dichiarava a settembre Guzzo - quello che manca alla struttura del commissario è la conoscenza, e la critica delle conoscenza, delle situazioni sulle quali è stato chiamato ad operare, in deroga a tutte le norme».

Si potrebbe cominciare dal 2007 oppure tornare indietro nei decenni: «Quando ho cominciato a lavorare a Pompei venti anni fa - racconta la Ciarallo - c'erano laboratori di falegnameria, c'erano fabbri, idraulici, giardinieri e operai specializzati, pagati dallo stato, che provvedevano alla manutenzione ordinaria. Se si rompeva una porta o una fontana la riparavano, l'impressione generale era di un sito curato. Poi hanno cominciato ad andare in pensione senza nuove assunzioni. Da undici giardinieri siamo arrivati a uno. Perché? Per far entrare i privati. Così se si rompe una porta bisogna aspettare che si arrivi a mille e poi fare una gara, intanto per due o tre anni rimaniamo con le porte rotte ed ecco che appare l'incuria».

Un intero patrimonio di saperi rischia l'estinzione, per fare posto a società che spesso non hanno le competenze necessarie e costano di più. A Pompei c'è la maggiore estensione al mondo di mosaici all'aperto: «Se ne occupavano addetti specializzati - prosegue - che li hanno mantenuti intatti per decenni. L'ultimo mosaicista rimasto, non potendo fare il lavoro da solo, li copriva con la sabbia in autunno e li scopriva in primavera. Poi anche lui è andato in pensione, il risultato è che si stanno rapidamente deteriorando. Lo stesso per gli affreschi, non c'è più nessuno che ci passi la cera. Ma la manutenzione ordinaria non fa notizia, al governo interessano solo le conferenze stampa plateali in cui annunciare mega restauri, come la Casa dei Vettii, soldi sprecati se poi non c'è chi li cura».

E le erbacce che infesterebbero Pompei? «Una polemica così sciocca che hanno dovuto smetterla subito. Il nostro laboratorio lavora a ripristinare la flora di duemila anni fa, rimettendo a dimora il verde autoctono, in grado di resistere meglio agli stress ambientali, oltre a salvaguardare la biodiversità. Si tratta di un prato spontaneo mediterraneo e non di un prato all'inglese, si risparmia acqua e basta un po' di pioggia perché diventi di una bellezza smagliante». Negli anni '70 c'era un'unica via accessibile, il resto era infestato da erbacce, oggi sono stati liberati dai rovi 44 ettari sui 66 complessivi: «Nella serra coltiviamo 20 mila piante, 10 mila impiegate per sistemare le aree archeologiche, evitando di ricorrere all'acquisto esterno, un risparmio di 40 mila euro all'anno». Rosmarino, lentisco, salvia, e poi vigneti, peschi, limoni, piante per unguenti, un patrimonio storico prima che botanico.

Il ministero, intanto, ha firmato un accordo di programma con la regione Campania affidandole gestione e valorizzazione dei siti dei Campi Flegrei, di Capri e dell'isolotto della Gaiola, sottraendoli alla Soprintendenza, a cui resterebbe la tutela. In molti, a cominciare dal soprintendente per il polo museale di Napoli, Nicola Spinosa, leggono la manovra come il primo atto dell'ingresso dei privati, e in particolare della Scabec, società mista regionale costituita nel 2003, il 51% pubblica, il 49% in mano a Electa Mondadori, Fiore Costruzioni, Pacifico, Nuova Lince. Si tratterebbe di siti-attrattori di prima grandezza come la Certosa, Villa Jovis, Villa di Tiberio, Villa di Damecuta e la Grotta Azzurra di Capri, il castello di Baia o il Rione Terra di Pozzuoli, l'isolotto della Gaiola di Napoli, accanto ad altri di minor fascino commerciale che finirebbero inevitabilmente gravemente penalizzati.

«Secondo me tutti i siti dovrebbero restare in mano agli enti pubblici, accessibili a tutti e senza biglietto d'ingresso - conclude Annamaria Ciarallo -, del resto al British Museum si entra gratis. La monetizzazione della cultura provoca la distinzione in siti di fascia A e B, anticamera della dispersione del patrimonio storico e culturale. Il guadagno deve arrivare dall'indotto che i beni culturali producono». L'isolotto della Gaiola, adesso, è uno scoglio piantato nel mare, tra il borgo di Marechiaro e la baia di Trantaremi, il giallo del tufo, l'azzurro del mare, il rosso del corallo. Archeologia e fauna in un'area marina protetta, il parco sommerso si estende per 41,6 ettari a stretto contatto con la città. Per ora il Csi Gaiola onlus gestisce le ricerche e le visite guidate: biologi, archeologi, naturalisti che, tra bird o sea watching, escursioni in barca e itinerari via terra, salvaguardano l'ecosistema. Ma non sono tranquilli, cominciano già a diffondersi le prime voci di linee di traghetti per i turisti e, magari, ipotesi di fitto per matrimoni da favola.

Edilizia, mani libere dalla Regione ai Comuni. La giunta del Pirellone ha approvato ieri i criteri per il via libera ai progetti per riqualificare le aree dismesse o abbandonate anche nei centri storici. Per costruire basterà una dichiarazione firmata dal progettista. Protesta l´opposizione di centrosinistra: «È una presa in giro. Solo il via libera a una nuova colata di cemento». Replica l´assessore regionale all´Urbanistica leghista Davide Boni: «Non è vero, è un piano per rilanciare il settore dell´edilizia in crisi». Soddisfatto l´assessore comunale Carlo Masseroli: «I criteri sono assolutamente ragionevoli e assomigliano a quelli approvati dal consiglio comunale»

Basterà una semplice dichiarazione di «congruenza» firmata da un tecnico progettista del piano integrato di intervento che garantisca che si tratta di infrastrutture di interesse pubblico, e da ora in poi i Comuni potranno avere mani libere nella riqualificazione delle aree degradate con nuovi quartieri. Per l´assessore regionale all´Urbanistica leghista Davide Boni l´obiettivo del provvedimento approvato ieri dalla giunta del Pirellone è solo quello di «rilanciare il settore dell´edilizia, che subisce come altri gli effetti della crisi». Per l´opposizione di centrosinistra, al contrario, è un via libera a una nuova colata di cemento sulla Lombardia.

Si tratta dei criteri e delle modalità per l´approvazione, in assenza dei Piani di governo del territorio che dovranno sostituire i vecchi Piani regolatore, di «Programmi integrati di intervento in variante non aventi rilevanza regionale». In pratica, qualsiasi nuovo quartiere, qualsiasi operazione immobiliare che i privati vogliano fare in un Comune. La circolare che la Regione doveva emanare entro sessanta giorni dall´ultima modifica alla legge urbanistica del 10 marzo scorso, per chiarire quali opere possono essere considerate «infrastrutture pubbliche o di interesse pubblico di carattere strategico ed essenziali per la riqualificazione del territorio» e come tali sfuggire al divieto imposto ai Comuni «di dar corso ai programmi integrati di intervento in variante, meglio noti come Pii». Una norma di grande portata visto che tanti piani sono ancora bloccati, che solo 107 Comuni lombardi hanno già approvato i Piani di governo del territorio, 172 li hanno già adottati, ma ben 758 hanno appena avviato la procedura o stanno per farlo.

Nel testo della delibera si precisa genericamente che «il termine infrastruttura comprende quell´insieme di opere, servizi e attrezzature necessarie alla vita di relazione e alla struttura economico-produttiva di un territorio». In particolare si stabilisce che i progetti dovranno riguardare «prioristicamente le aree degradate o dismesse, soprattutto se collocate all´interno di centri abitati» e il loro recupero. O interventi «volti a riqualificare e migliorare l´immagine urbana e la creazione di infrastrutture per l´accoglienza e la sosta nelle principali "porte" di accesso delle città».

Oltre ai progetti per l´edilizia residenziale pubblica, per avere il via libera ad altre opere edilizie, basterà inserire nel progetto «la realizzazione di parchi urbani attrezzati e naturali, anche esterni al comparto d´intervento».

Protesta il consigliere regionale del Pd Franco Mirabelli: «Alla fine è stato un imbroglio, si è passati da proibire tutto a consentire tutto. Solo poche settimane fa sembrava che la Regione volesse usare grande rigore con i Comuni. Ma ora, con i criteri applicativi, tutto torna esattamente come prima tranne una norma, palesemente illegittima, che permette a Milano di approvare i propri progetti direttamente in giunta, senza la discussione pubblica in Consiglio. In un momento in cui si decide non solo sull´Expo, la giunta di Milano si trova nella condizione di approvare tutto nelle segrete stanze».

L´assessore comunale all´Urbanistica Carlo Masseroli commenta soddisfatto: «I criteri approvati dalla Regione sono assolutamente ragionevoli e assomigliano molto ai criteri che il consiglio comunale ha già approvato a dicembre con il Documento di inquadramento urbanistico». L´assessore Boni chiude: «La nostra legge è più restrittiva di quanto voleva Milano. Con questo provvedimento abbiamo tempestivamente individuato i casi in cui c´è la possibilità di approvare i piani contribuendo anche a rilanciare il settore dell´edilizia».

Monguzzi: " È una presa in giro i progettisti controllano se stessi"

Carlo Monguzzi, capogruppo dei Verdi in consiglio regionale, perché non vi piace il regolamento approvato ieri dalla giunta del Pirellone?

«Formigoni incentiva i "Pii", i programmi integrati di intervento, anziché frenarli, smentendo come al solito promesse e impegni: altro cemento potrà continuare a colare su tutta la Lombardia, tra le regioni italiane che detengono il triste primato nel consumo di suolo».

Perché?

«Invece di porre un freno ai Pii, come richiesto nella modifica della legge urbanistica votata dal Consiglio nel marzo scorso, la delibera produrrà l´esatto effetto opposto».

Cioè?

«Non ci sarà alcun freno a una delle scorciatoie urbanistiche più utilizzate in questi anni per realizzare case, capannoni, centri commerciali. Si tratta di una presa in giro».

In che senso?

«I costruttori utilizzeranno ampiamente le nuove disposizioni approvate ieri dalla giunta per continuare a edificare, tenendo in scacco i Comuni che, privati di fondi per i servizi ai cittadini da Berlusconi e Tremonti, continueranno ad avallare i Pii per fare cassa con gli oneri di urbanizzazione».

L´assessore regionale all´Urbanistica Davide Boni, però, sostiene che le nuove prescrizioni, in realtà, sono più restrittive. E che il provvedimento ha l´obiettivo anche di rilanciare il settore dell´edilizia messo in ginocchio dalla crisi economica.

«Nella delibera preparata dalla giunta si sfiora il ridicolo».

Faccia qualche esempio.

«Per dare il via libera a un Pii basterà inserire nel progetto la realizzazione di un giardinetto attrezzato, oppure "servizi e attrezzature necessarie alla vita di relazione", oppure ancora "strutture per la sicurezza dei cittadini".

A patto di riqualificare aree abbandonate o dismesse.

«Al rispetto dei "criteri" stabiliti dalla giunta penserà infine il progettista, cioè colui che preparerà il Pii».

Il tema dell’Expo milanese sarebbe incentrato sull’agricoltura e l’alimentazione, sui beni primari per l’umanità. Sarebbe, scrivo, perché osservando gli avvenimenti di Milano e dintorni si notano piani e realizzazioni estranei al tema, anzi rivolti a contrastarlo, a seppellirne le motivazioni originali, a ingannare chi avesse imprudentemente dato fiducia ai promotori, invece sospettabili truccatori di carte. Ora il quadro è in piena luce. Basta radunare le informazioni della stampa negli ultimi mesi, basta aggirarsi in eddyburg fra gli articoli, la posta, gli interventi per sapere che la realtà corre verso un’Expo marchiata da edificazione speculativa intensa come mai: che significa cancellazione di territori agricoli e di aree urbane libere vincolate a verde o a servizi sociali, cementificazione di aree ferroviarie dismesse, costruzione esorbitante di strade e autostrade pura violenza verso spazi agrari irrigui e paesaggi di campagna storica. Altro che opposizione al consumo di suolo dichiarata anche da sindaci, assessori e presidenti. Edificazione distruttiva come moderna rapallizzazione metropolitana (conventrizzazione significò difatti totale distruzione), devastazione di quelle risorse che il falso programma Expo indica destinate ad assoluta tutela e forte aumento. Tutto questo per decisione delle istituzioni pubbliche, Regione, Comune di Milano, certi altri comuni, persino Parco Sud e Provincia di centrosinistra sebbene quest’ultima cerchi di coprire il consenso alla speculazione immobiliare nel Parco trascinata dall’operazione Cerba (Centro europeo di ricerca biomedica avanzata) rivendicando presunte cautele ambientali del nuovo Ptcp. Ad ogni modo la solida piattaforma per tutte le operazioni è l’accordo con i maggiori immobiliaristi e proprietari fondiari, che consiste nelle loro proposte e immediata accettazione degli enti, capintesta la giunta morattiana. Come fa da tre lustri, Milano continua a precedere le proposte di legge urbanistica in parlamento (ce ne sono quattro compresa la vecchia Lupi) basate sull’impari negoziazione fra i privati e l’ente pubblico. E tutto questo indipendentemente dagli effetti della definitiva deregolamentazione voluta oggi dalla destra (solo?) attraverso il dissennato “piano casa”.

D’altronde. Non sono terreni agricoli vincolati quelli su cui sorgeranno le opere dell’esposizione? Non sarà tolto il vincolo affinché a manifestazione terminata i proprietari costruttori Ligresti e Cabassi portino a conclusione l’affare rimpinzando di cemento gli immaginati poveri del mondo cui l’expo destinerebbe il buon cibo propagandato in figura?

Panorama metropolitano disastroso rispetto ai principi e modelli che stanno a cuore a eddyburg, all’urbanistica in cui abbiamo creduto, alla battaglia senz’armi sufficienti (p. es. bravi politici alleati) che cerchiamo di combattere in difesa del piccolo residuo di giustezza e bellezza nel territorio aperto e nelle città. Eppure, avendo studiato la condizione dell’area milanese e la sua trasformazione, avendo assistito al tradimento della mirabile costituzione storica valsa fino alla guerra (territorio policentrico, centri urbani e centri rurali divisi da ampie fasce di terreni agricoli), ho provato a riguardare insieme a bravi giovani la metropoli d’oggi nella parte esterna alla città centrale, ossia il territorio che definiamo nuova periferia per distinguerla anche nominativamente dalla periferia urbana storica addossata e compenetrata alla parte consolidata della città. Insomma l’hinterland, il circondario “dei cento comuni” attorno a Milano. Riguardo al problema del verde agrario preteso e tradito dall’Expo proponiamo, in maniera semplificata ma non astratta, un nostro modello d’azione utopica come potendo da subito far cessare la colata di materia edile che appunto sta colando dappertutto. Questa corona circolare intorno alla città centrale può essere esaminata secondo due semi corone molto diverse.

Semi corona settentrionale: la sua condizione storica contraddistinta da agricoltura povera su terreni asciutti e poi, anche per questo, da vocazione industriale accompagnata da un fitto sistema infrastrutturale non ha consentito, per così dire, alcuna difesa dalla gigantesca trasformazione degli anni Cinquanta e Sessanta, dalle ulteriori espansioni e dagli incessanti tumulti edificatori pervasivi, inoltre dalla complicità degli enti pubblici e compiacenza di troppi urbanisti. Qui è il mondo del più spiaccicato sprawl.

Semi corona meridionale: la permanenza di agricoltura irrigua intensiva e più tardi anche la creazione del Parco hanno preservato in buona parte la struttura policentrica e di conseguenza il vasto spazio aperto. Non si sono instaurati gli stessi processi che a nord, quelli costituiti da migliaia di episodi edilizi; l’agricoltura forte è servita a evitare il rivestimento edilizio della terra come se la città centrale esplodesse. Tuttavia si sono insediati sparsi fronti edificatori particolarmente aggressivi. Il policentrismo storico è ancora riconoscibile, il territorio evidenzia ancora il valore dell’agricoltura di tradizione capitalistica, ma certe violenze dotate di supporti nuovi hanno provocato conseguenze laceranti. Qua e là si è assistito al passaggio non da una produzione a un’altra (da agricola povera a industriale) ma da agricoltura altamente qualificata, seminativo irriguo di forte produttività, a grandi insediamenti terziari o residenziali sostenuti dalla finanza dei misteri. Il primo fu l’incredibile insediamento di Sesto Ulteriano (San Donato), un’accozzaglia di duecento capannoni, per lo più magazzini deserti, cittadella di stoccaggio che dobbiamo attraversare quando vogliamo andare dall’abbazia di Chiaravalle a quella di Viboldone. Apparve l’insensato Quartiere Zingone a Trezzano sul Naviglio. Piombò il fallimentare complesso “Girasole” sulla campagna di Lacchiarella. Cabassi realizzò i torvi benché colorati fabbricati per uffici ad Assago detti “Milanofiori” (ora sappiamo che vuole aggiungere lì, in quella campagna, una “Milanofiori 2”). Il fratello di Berlusconi fondò “Milano 3” per 10.000 abitanti surclassando il piccolo comune di Basiglio e i suoi antichi campi irrigui. Ligresti costruì diversi gruppi di edifici alti per uffici con i due ultimi piani abusivi. Altro seguirebbe nell’elenco. E i nuovi pericoli dovuti alla liberalizzazione diciamo istituzionale di aree vincolate in comuni del Parco? Dobbiamo però sapere che sono i processi strutturali a provocare i danni irreversibili. Infatti la trasformazione consiste nell’abolizione di fior di aziende capitalistiche o a conduzione diretta efficiente a causa della proprietà già caduta nelle mani di potenti società immobiliari.

Nel territorio dello sprawl (e anche nelle sacche meridionali di forte espansione edilizia, per esempio Rozzano), non è possibile in quasi tutto lo spazio il rilancio di un’agricoltura per un’effettiva produzione. Tuttavia resistono in zone ancora irrigate, soprattutto a est verso l’Adda, modesti assetti aziendali non del tutto degradati. Qui potrebbe fondarsi una ripresa agraria al fine di custodire il paesaggio storico, opporre fronti produttivi alla devastazione dell’ambiente in qualsiasi modo possa essere minacciata. (Dicono che in urbanistica e in edilizia noi siamo il partito del no. Di certo, lo siamo, e dovremmo rafforzarne il principio. Il modello utopico si basa sul blocco completo delle costruzioni in tutte le aree libere del circondario milanese in esame). Invece nella parte più diffusa e confusa della conurbazione la terra libera si distingue da una parte per poche ma non trascurabili aree dove la vecchia coltivazione ridotta a gerbido non potrà più riprendere vigore, da un’altra per numerosissimi interstizi fra le edificazioni e le infrastrutture, specie fra i confini irriconoscibili di insediamenti dotati degli antichi nomi comunali. Il programma utopico consiste nella determinazione di una politica del grande verde per gli spazi privati e pubblici. Un piano totalizzante e preciso per una vasta piantumazione. Salvate le aree aziendali ancora adatte al seminativo irriguo (est/sud-est della semi corona) costruiamo l’architettura di una foresta metropolitana partendo da masse alberate erette nelle aree a gerbido, proseguiamo l’impianto in tutte le superfici interstiziali libere, inseriamolo poi capillarmente nell’edificato più o meno aggregato dei comuni come filare di strade o magari boschetto urbano in angoli dimenticati. Un fiume selvoso con i suoi emissari, sia per crescita da piante pioniere secondo proposta degli agronomi sia per applicazione di un disegno geometrico a griglia o a linea. Spetterà agli agronomi la scelta delle essenze, specialmente riguardo alle piante pioniere. Per noi sarebbero benvenuti dappertutto alberi come quelli più resistenti e belli di Milano, parte di quei centosessantamila sopravvissuti alla guerra del traffico, dello smog, degli impresari edili, della stessa amministrazione comunale: platani, bagolarie, aceri, ippocastani. Quanti? Non possiamo conoscere il totale degli spazi liberi nei comuni. Calcoliamo la possibilità di piantarne almeno cinquecento per ettaro di terra nuda e uno ogni quattro metri al massimo nei filari. Valutando un modesto incremento della superficie grazie ai margini meno compromessi di nord ed est, è plausibile un obiettivo di un milione di piante, unica possibilità di parziale riscatto del territorio in causa. Sarebbe interessata una superficie complessiva di circa duemila ettari in una miriade di episodi, però realmente o idealmente collegabili fra loro. Poco, rispetto alla semi corona settentrionale dell’hinterland? O troppo, rispetto al fastidio istituzionale (e popolare?) verso le piante, i boschi, i viali alberati, i parchi, i giardini?

Per il territorio meridionale il progetto utopico non lo è troppo giacché non può che scegliere la strada dell’incondizionata protezione del paesaggio agrario esistente, salvo applicare il medesimo modello di piantumazione nei luoghi contrassegnati dai citati insediamenti ivi caduti come estranei ultracorpi dallo spazio. Il progetto significa qui riscoperta e rilancio dei valori di un’architettura proveniente dalla vocazione umana alla lavorazione della terra in maniera coerente alle risorse naturali o reperite, e dalla costituzione dei suoi fondamenti strutturali (aziende capitalistiche o a conduzione diretta su fondo di misura adeguata). Cos’era una marcita dagli undici sfalci annuali se non un eccezionale esempio di architettura del suolo e dell’acqua? E vuol dire difesa e sostegno delle aziende la cui attività assicurano produzione e produttività, restauro degli spazi agrari, partecipazione dell’agricoltura alla vita della metropoli. Questo è il nodo non da sciogliere ma da tener ben stretto: appartenenza necessaria del paesaggio agrario alla metropoli, solidità del principio che se la metropoli lo interiorizza, così come interiorizza la foresta, salva la parte residua ma importante della propria storica conformazione policentrica indispensabile alla sua stessa vita.

Da una parte la forestazione, dall’altra l’agricoltura vera, non imbalsamata quale mera reminiscenza, avanzano come il bosco del Macbeth per abbattere gli schemi concettuali e le abitudini progettuali che contraddistinguono l’urbanistica e l’architettura divise e subalterne ai loro committenti pubblici e privati: considerare l’espansione edilizia “sviluppo”, misurare gli spazi liberi agrari e no come “vuoti” da riempire. È lo spazio aperto vivo, vegetale, non degradato che può impedire la fine della metropoli. Il problema sollevato dall’economista statunitense Henry George centoventicinque anni fa si è enormemente aggravato e descrive la nostra mortale separazione dal paesaggio naturale o umanizzato: “Le numerose popolazioni di queste grandi città sono del tutto frustrate dei gradevoli influssi della natura. La maggior parte di esse non riesce mai, tra un anno e l’altro, a camminare sulla terra” (1884).

Milano, 15 marzo 2009

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