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». il manifesto, 4 aprile 2017 (c.m.c.)

La sala convegni del Parco Regionale di Colfiorito è strapiena e contiene a malapena le circa 70 persone accorse all’incontro «Gasdotto e terremoti. Diritti delle popolazioni e tutela del territorio». Ciascuno in rappresentanza di movimenti, comitati, associazioni e realtà che a vario titolo combattono una battaglia contro un nemico comune: il gasdotto Rete Adriatica Brindisi-Minerbio. Sono tutti qui per la costituzione del Coordinamento nazionale No Tubo.

Il progetto di metanodotto proposto nel 2004 dalla società Snam Rete Gas, classificato come «strategico» e inserito nei Progetti di Interesse Comunitario nel 2013 dalla Commissione europea, incontra infatti fin dal principio la fiera opposizione di tante realtà che con questo primo incontro nazionale hanno deciso di unire tutte le battaglie. «Perché – dice a il manifesto Cristina Garofalo, dell’associazione Mountain Wilderness, tra i principali organizzatori dell’evento – Grande Opera, Grande Vertenza».

La necessità di fare rete è la grande protagonista dell’evento, evocata da quasi tutti i partecipanti tra cui il rappresentante del collettivo Altreventi, della Valle Peligna: «Dopo più di un anno che seguo questa lotta solo oggi ho conosciuto i compagni dell’Umbria che fanno il mio stesso lavoro», spiega. Ma se un simile tavolo è stato convocato solo oggi, dopo oltre un decennio di vertenze locali e isolate, è soprattutto perché ora è chiaro a tutti che gasdotto ed eventi sismici costituiscono un binomio che rischia di essere devastante. E il progetto del gasdotto Snam, di 687 km, interessa praticamente l’intero sistema di faglie attive dell’Appennino Centrale.

Arcangelo, del comitato civico Norcia per l’Ambiente, ricorda :«Ci accorgemmo fin da subito che il progetto attraversava il 60% di aree protette Sic e Zps, passando su zone sismiche. Snam ci rispose che in caso di terremoto, la fuoriuscita di gas sarebbe stato il nostro ultimo problema. Ci dissero che non c’era pericolo, ma la galleria in cemento armato di Forca Canapine (sopra a Norcia, ndr) si è spostata di 70 cm. Una galleria si sposta e i tubi del gas no? Eppure entrambi starebbero sulla stessa faglia».

Ad approfondire i rischi derivanti dalla costruzione del metanodotto Snam in queste zone provvede il geologo Francesco Aucone, esperto di effetti di vibrazioni del terreno e conseguenze di eventi sismici, che esponendo il suo studio condotto sul tratto di gasdotto tra Foligno e Sestino, afferma: «Snam sostiene che una struttura interrata come i tubi del gas subisce meno vibrazioni, ed è vero, ma è anche vero che non tutti i terremoti sono uguali.

Ad Amatrice ad esempio è rimasta in piedi la torre civica di 25 metri, mentre a subire più danni sono stati gli edifici più bassi. Inoltre – aggiunge – una simile opera, rigidamente ancorata al terreno, è più sensibile alla fagliazione, e non c’è struttura umana in grado di sopportare lo sforzo tettonico: miliardi di miliardi di tonnellate in movimento. Siamo di fronte a un’opera strategica e andrebbe fatto uno studio di risposta sismica locale, che manca. Al suo posto – spiega ancora Aucone – è stato usato l’approccio semplificato, basato su dati bibliografici, con pochissime indagini fatte, una sottostima della vulnerabilità sismica del territorio, un’insufficienza di indagini geomeccaniche e geochimiche e nessuna indagine sugli effetti della fagliazione».

Nel seguire i tracciato del metanodotto si incontrano alcune delle località più colpite dal recente sisma, come Norcia, Visso, Cascia, Preci, L’Aquila. Ma non solo. A Sulmona è prevista una centrale di compressione del gasdotto. Il sito prescelto è a soli 2 chilometri dalla faglia del monte Morrone, silente da oltre 1900 anni.

A Norcia, tra due mesi, ci sarà il prossimo appuntamento del neonato Coordinamento Nazionale No Tubo, con la precisa volontà di arginare lo spopolamento dell’Appennino dopo il sisma. Un fenomeno – spiegano – che bisogna arginare in ogni modo anche perché indebolisce la resistenza al progetto Snam.

. Il Fatto Quotidiano online, 2 aprile 2017 (p.s.)

Non c’è regione in Italia che possa contenderle il triste primato. Che siano 149, come si legge nell’elenco regionale, pubblicato dall’ufficio speciale di coordinamento delle attività tecniche e di vigilanza sulle opere pubbliche della Regione, o 113 come registrato sul sito del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, poco importa. La Sicilia è l’indiscussa leader delle infrastrutture nazionali incompiute. Nelle campagne di Caltagirone, al confine tra il territorio di Aidone in provincia di Enna e quello di Mineo nel Catanese, sul fiume Margherito, c’è uno di quei relitti. La diga di Pietrarossa, l’infrastruttura che avrebbe dovuto potenziare la copertura di irrigazione dei campi della Piana di Catania, è lì, da 27 anni.

Incompleta e abbandonata. Ma non dimenticata. Hanno promesso di portarla a termine non solo Rosario Crocetta, l’attuale Presidente della regione siciliana, ma anche Raffaele Lombardo e Totò Cuffaro, i suoi predecessori. Gli agricoltori dei Consorzi di bonifica che sono nell’area ne chiedono il completamento, la politica regionale s’impegna. A parole. Così a febbraio la questione è riproposta da Nello Musumeci, deputato della Lista Musumeci verso Forza Italia, che presenta un’interrogazione «al governo regionale per completare i lavori». Insomma sembra proprio l’ennesima storia di un’opera pubblica mai terminata che invece sarebbe utile completare. Non è così. «La diga di Pietrarossa è un’opera pubblica abusiva, che va demolita, con il conseguente ripristino dei luoghi e uno studio archeologico dell’intera zona, finalizzato al pieno recupero dei reperti dell’insediamento romano venuti alla luce in contrada Casalgismondo», proponeva nel 2010 Sebastiano Russo, presidente del circolo “Il Cigno” di Legambiente di Caltagirone.

«La diga di Pietrarossa è un’opera da demolire. Oltre a essere un abuso in un sito archeologico, si caratterizza per irregolarità e violazioni di legge». Roberto De Pietro, l’ingegnere autore di un particolareggiato studio sull’opera, è categorico. Eppure la diga è stata realizzata al 94,61% e sono stati spesi 75.147,869 euro stanziati dalla Cassa per il Mezzogiorno. «La diga è stata pensata in un periodo in cui opere simili si realizzavano in Sicilia, violando leggi, a volte in modo sfacciato», spiega l’esperto. Il lungo iter dell’infrastruttura inizia nel 1988, prima con lo stanziamento dei soldi pubblici e dopo con la Lodigiani spa – CO.GE.I spa che si aggiudica l’appalto. E’ il 1990 quando i lavori lavori affidati al Consorzio di Bonifica 7 Caltagirone, in regime di concessione dall’Agenzia per la Promozione dello Sviluppo del Mezzogiorno, iniziano. «Senza autorizzazioni, sprovvisti del preventivo nullaosta della Soprintendenza di Enna e senza essere sottoposti a una valutazione di impatto ambientale», scrive De Pietro.

Nonostante la procura di Enna abbia avviato un’inchiesta già da tempo, il cantiere subisce un primo stop soltanto nel 1993. Già perché nel frattempo è stato scoperto un vasto insediamento romano, solo parzialmente indagato. Il fermo dura poco. I lavori riprendono per poi arrestarsi definitivamente nel 1997 quando i magistrati di Enna emettono il provvedimento di sequestro della diga e dodici avvisi di garanzia per abuso, rifiuto di atti d’ufficio, deturpamento di bellezze naturali e archeologiche.

Due anni prima, un altro capitolo della storia. Sulla struttura si rilevano alcune lesioni. La Lodigiani-Cogei chiede un nuovo finanziamento. Ulteriori 20 miliardi di lire per provvedere ai lavori imprevisti. Colpa del sisma del 1990, afferma l’impresa. Ma non è così. Un’inchiesta della procura di Caltagirone accerta che i danni danni sarebbero dovuti a errori nella costruzione e che l’impresa avrebbe tentato una truffa. Il fermo lavori del 1997 non è senza conseguenze.

L’impresa di costruzioni Imprepar-Impregilo Partecipazioni spa, subentrata alla Lodigiani-Cogei, avvia una causa di risarcimento per danni subiti a seguito della sospensione. Una sentenza del Tribunale di Catania ne quantifica un credito nei confronti del Consorzio di Bonifica 7 Caltagirone pari a circa 4,7 milioni di euro. Nel 2014 con un atto di Pignoramento notificato presso la Regione Sicilia la società Imprepar-Impregilo Partecipazioni spa ha pignorato tutte le somme a qualsiasi titolo dovute dall’Assessorato regionale dell’Agricoltura al Consorzio di Bonifica 7 Caltagirone. Non è tutto. Il Consorzio a sua volta avvia una causa civile contro l’impresa. Il Motivo? Risarcimento danni.

Pubblichiamo il contributo di un lettore di patrimoniosos che ha analizzato in maniera puntuale ed esaustiva i gravi rischi che il patrimonio culturale della Nazione correrà se verrà approvato l'articolo 68 della legge annuale sul mercato e sulla concorrenza (sulla quale verrà posta la fiducia il prossimo 5 aprile). patrimonioSOS, 1 aprile 2017




Legge annuale per il mercato e la concorrenza in approvazione con voto di fiducia alla Camera il 5 aprile 2017.
Disposizioni riguardanti i beni culturali che mettono in grave pericolo il patrimonio culturale nazionale

Segnalazione e appello urgente affinché dalla legge si stralciato l'articolo 68

Premessa

Il disegno di legge è giunto ormai al terzo passaggio alla Camera che avverrà il 5 aprile e sarà blindato con voto di fiducia. È dunque assolutamente necessario che l’articolo, il 68 del testo finale, sia stralciato dalla legge e non venga approvato, soprattutto con voto di fiducia.

L’articolo è stato inserito nel disegno di legge in itinere mediante un emendamento discusso la scorsa primavera durante il passaggio al Senato avvenuto presso la Commissione Decima Industria, con parere favorevole dato dalla Commissione Cultura. La versione attuale è quella che corrisponde al testo numero 3.

L’emendamento è stato inserito su richiesta e pressione diretta del gruppo d’interesse Apollo 2 che rappresenta case d'aste internazionali, associazioni di antiquari e galleristi di arte moderna e contemporanea e soggetti operanti nel settore della logistica di beni culturali, rappresentato dall’avvocato Giuseppe Calabi di Milano, avvocato di fiducia di Sotheby’s, che ha materialmente redatto il testo della legge concordandolo, come si legge in un trafiletto uscito su Plus24 del Sole24 n. 667 del 13 giugno 2015, direttamente con l’allora Presidenza del Consiglio e l'attuale Ministro.

La legge annuale per il mercato e la concorrenza è strumento nuovo introdotto dalla «legge sviluppo» del 2009, al fine di rimuovere gli ostacoli regolatori, di carattere normativo o amministrativo, all’apertura dei mercati, di promuovere lo sviluppo della concorrenza e di garantire la tutela dei consumatori, anche in applicazione dei principi del diritto dell’Unione europea, nonché delle politiche europee in materia di concorrenza (vedi nota alla fine del'intervento).

Non è dunque la sede adatta per infilare di sottecchi e mediante un colpo di mano che ha evitato qualsivoglia discussione nelle sedi deputate, una norma che incide in maniera così profonda e irreversibile sul patrimonio culturale nazionale cambiando in maniera sostanziale l’oggetto della tutela, definito dall’articolo 10 del Codice dei beni culturali, con il falso e ridicolo pretesto di “semplificare le procedure relative al controllo della circolazione internazionale delle cose antiche che interessano il mercato dell'antiquariato”.

Commento

L’articolo innova infatti in maniera sostanziale l’articolo 10 del Codice dei beni culturali che individua il patrimonio culturale da assoggettare a tutela, innalzando l’età minima che un oggetto deve avere per farne parte, che passerà dai 50 anni (termine per altro vigente in tutta Europa e negli USA, ad esempio) ai 70 anni, e introducendo, per ora limitatamente alle norme riguardanti l’uscita dal territorio nazionale (ma il Codice dei beni culturali è costruito in modo tale da prevedere simmetria assoluta fra l’articolo 10 e il 65 che stabilisce cosa vada sottoposto al controllo del Ministero in caso di uscita dal territorio) il pericoloso, scorrettissimo e quanto mai aleatorio, ondivago e soggettivo concetto del valore economico quale indice (primario fra l’altro) di valutazione dell’interesse culturale. Cosa che evidentemente non può essere.

L’articolo, restringendo gli ambiti di applicabilità del Codice dei beni culturali, di fatto elimina dal patrimonio culturale della Repubblica, costituzionalmente protetto dall’articolo 9, un’ampia e importante fetta di beni mobili e immobili (che peraltro nulla hanno a che vedere con la circolazione internazionale) che oggi vi rientrano e/o possono rientrare. Tutti i beni, ivi compresi quelli di proprietà pubblica ed ecclesiastica, che oggi hanno fra i 50 e i 70 anni e gli immobili di proprietà privata che oggi hanno fra i 50 e i 70 anni, non saranno più protetti né proteggibili.

L’articolo senza procedere a un esame coordinato e strutturato della legge di tutela, senza il necessario contraddittorio sull’argomento con il Parlamento e con i cittadini, depaupera in maniera indiscriminata e irrimediabile il patrimonio culturale che è di tutti, a solo ed esclusivo vantaggio di una minima parte di essi, i mercanti internazionali di arte e le grandi case d’aste. L’articolo viola la Costituzione. L’articolo va stralciato dalla legge in approvazione perché la tutela e anche la valorizzazione del patrimonio culturale nulla hanno a che vedere con il mercato e la concorrenza.

Quelli che si cerca di fare passare per inutili controlli paralizzanti il mercato antiquariale sono in realtà controlli sostanziali volti a verificare se fra le cose presentate a uno dei 18 uffici esportazione del Ministero vi siano potenziali beni culturali prima incogniti all’Amministrazione. Qualora tali beni, sulla base di un’approfondita disamina tecnico-scientifica, siano riconosciuti come tali, vengono fermati e assoggettati al regime di tutela che, fra le altre cose, comporta l’inclusione in forma espressa nel patrimonio culturale nazionale e il divieto di uscita definitiva dai confini del territorio.

L’articolo in parola, restringendo in forma massiva e indiscriminata l’ambito delle cose che necessitano di autorizzazione all’uscita, di fatto depaupera in maniera irreversibile il patrimonio culturale nazionale. Il tutto senza più avere l'obbligo di presentazione degli oggetti in uscita alla visione diretta degli uffici esportazione e solo dietro autocertificazione da parte dei richiedenti (ci si domanda peraltro come si possa autocertificare un prezzo ai sensi del DPR 445/2000 che non lo prevede).

L’articolo mette dunque in pericolo il concetto stesso di patrimonio e l’articolo 9 della Costituzione della Repubblica e va soppresso.

L’eliminazione a monte della possibilità di controllo all’uscita da parte del Ministero di tutti gli oggetti che abbiano meno di 50 anni e di tutti quelli di qualsiasi età, tipologia ed epoca (ad esempio, dipinti, disegni, sculture, mobili, opere di design, oreficerie, libri, stampe, incisioni, manoscritti, documenti, beni etnografici, strumenti musicali, archivi, carteggi, ecc.) che abbiano un valore economico sotto i 13.500 euro, sulla base di una semplice autodichiarazione, è inaccettabile.

Dettaglio

Le norme relative alla circolazione internazionale hanno quale unico scopo quello di evitare l'uscita definitiva dal territorio della Repubblica, e dunque la perdita, di beni culturali. Rispondono al principio della tutela del patrimonio culturale sancito dall’articolo 9 della Costituzione. A tal fine gli uffici esportazione del Ministero dei beni culturali svolgono un controllo preventivo sulle cose che, in base a determinate caratteristiche, sono potenzialmente suscettibili di essere beni culturali.

Attualmente i requisiti che rendono obbligatorio il passaggio negli uffici esportazione (articolo 65 del Decreto Legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 recante il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio) per l’uscita definitiva sono l'interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, ecc., l'essere opera di autore non più vivente, l'esecuzione da oltre 50 anni. Gli stessi che, come è ovvio, presiedono all'individuazione dei beni culturali in generale (articolo 10 del Codice).

L’articolo in questione, oltre ad innalzare la soglia di obbligatorietà (e, per simmetria, anche i criteri per l'individuazione di tutti i beni culturali, compresi gli immobili) ai 70 anni, introduce - solo nella disciplina della circolazione internazionale - un nuovo parametro, mai prima preso in considerazione dalla normativa nazionale, quello del valore economico, sottraendo al controllo degli uffici esportazione tutte le cose che, indipendentemente dalla loro età ed interesse culturale, stanno sottosoglia.

La norma stabilisce che sia l'età che il valore venale sono autocertificati dal richiedente e che su tali dati il rilascio degli attestati e certificati avvenga in automatico: non si dà alcun potere agli uffici esportazione di controllare tali dati, di stabilire se la somma indicata è congrua, di vedere se davvero il bene ha gli anni dichiarati. Ciò è del tutto folle e troppo sbilanciato a disfavore della Pubblica Amministrazione e rende davvero inutile l'esistenza di un ufficio.

Nella disciplina attuale, il valore venale dei beni non costituisce un indice d'interesse culturale, come è giusto che sia visto che gli andamenti del mercato sono ondivaghi, spesso legati a fenomeni esterni che nulla hanno a che vedere con il reale valore culturale del bene. Il mercato ha leggi diverse. Il mercato è influenzato dalle mode e dai gusti.

Il valore di mercato non è dunque un elemento oggettivo, dato una volta per tutte, ma oscillante e mutevole nel tempo e nei luoghi. Il mercato è fatto da chi compra e chi vende. È dunque un parametro troppo empirico ed aleatorio per pretendere di affidarvi il discrimine fra ciò che è bene culturale e ciò che non lo è. Quello che il mercato stabilisce infatti non è il valore dell'opera, ma la sua quotazione, ovvero la stima probabilistica che le attribuisce chi compra e scambia. Una sorta di spread, di indice di credibilità e affidabilità che nulla ha a che vedere con il valore culturale. E nemmeno con quello venale visto che può capitare che opere stimate sottosoglia vengano poi vendute in asta con valori superiori.

Oggi il valore venale è autodichiarato in sede di richiesta di rilascio dell'attestato di libera circolazione al solo scopo di avere un prezzo sulla base del quale effettuare l'eventuale acquisto coattivo per le raccolte dello Stato.
Poiché il valore venale sarà dichiarato mediante autocertificazione, il risultato pratico sarà l'uscita definitiva della stragrande maggioranza dei beni che costituiscono il patrimonio culturale del nostro Paese, senza alcuna possibilità di controllo.

Il patrimonio culturale diffuso, quello che rende l'Italia unica, sarà depauperato in brevissimo tempo, senza alcun vantaggio per il mercato che, dalla sovrabbondanza di offerta risulterebbe soltanto deprezzato e svalutato, e con reale perdita per il Paese, di certo meno attrattivo in termini di turismo e sviluppo economico. La norma in esame di fatto deprime i territori, le autonomie locali, il turismo, ed è espressione di una visione ristretta e passatista del patrimonio culturale del tutto contraria all'incentivazione del mercato che pretenderebbe di favorire.

Se davvero si volesse rilanciare il mercato italiano dell'arte altri dovrebbero essere i provvedimenti da adottare. Anziché modificare la normativa di tutela, bisognerebbe intervenire sulle aliquote IVA e doganali all'importazione che in Italia sono maggiori che negli altri Paesi. La semplificazione dovrebbe essere strutturata in modo tale da attirare nel Paese il mercato internazionale dell'arte e non da farlo fiorire unicamente fuori dai nostri confini. Di fatto quello che si incentiva è l'uscita e non l'entrata. Allungare il periodo già individuato quale soglia per l'uscita dal territorio nazionale non è misura per rilanciare il mercato italiano ma soltanto per deprimerlo ulteriormente e depredare il patrimonio di tutti.

Stabilire che d'ora in poi il patrimonio culturale della Nazione non potrà più comprendere beni che abbiano meno di 70 anni è cosa gravissima: vuol dire negare in blocco tutta la cultura italiana del Novecento a partire dal secondo Dopoguerra. Non solo sotto il profilo mobiliare ma anche sotto quello immobiliare, visto che l’articolo impone il termine dei 70 anni anche per le cose immobili di proprietà privata, che oggi hanno i 50 anni.

Si arriva così all’assurdo che mentre il mercato internazionale cerca in tutti i modi di approvvigionarsi di opere e pezzi di design italiano degli anni ’50 e ’60, il Paese di provenienza se ne libera dimostrandosi incapace di comprenderne il vero valore culturale e venale. Difficile credere che sul lungo periodo una così scarsa "autostima" possa giovare al mercato internazionale dell'arte.

Il sistema dell’acquisto coattivo all’esportazione ha consentito allo Stato di acquisire talvolta per poche migliaia di euro di pezzi molto importanti che sono diventati patrimonio dei musei.
D’ora in poi questa possibilità è impedita all’origine, viceversa è offerta su un piatto d’argento ai musei esteri.

Il regime dell'autocertificazione non consente più di procedere in tal senso: è infatti applicabile solo per i beni che necessitano di autorizzazione per uscire e quindi che abbiano valore venale superiore ai 13.500 euro. Quello che invece era ed è, e sarebbe ancora, interessante è la possibilità di fare acquisti coattivi sui beni poco costosi (politica che si è sempre tenuta) comprare ad esempio disegni e sculture di grandi maestri e dunque eccezionalmente importanti per il patrimonio, ma anche dipinti, magari di nomi meno conosciuti ma fondamentali per la storia dell'arte, perché facenti parti di pale, polittici, opere che un tempo ornavano chiese, cattedrali, grandi palazzi, per poche migliaia di euro.

Riflessioni ulteriori

Le norme relative alla circolazione internazionale hanno quale unico scopo quello di evitare l'uscita definitiva dal territorio della Repubblica, e dunque la perdita, di beni culturali. Si tratta di un obbligo costituzionale sancito dall'articolo 9. L'articolo 10 del Codice dei beni culturali e del paesaggio definisce i beni culturali e i criteri per individuarli facendo riferimento a tre elementi esterni oggettivi e facilmente conoscibili: assetto proprietario, età, paternità (autore non più vivente). I controlli sull'uscita definitiva stabiliti dall'articolo 65 del Codice sono dunque conformi e simmetrici al dettato dell'articolo 10 e hanno quale unica ratio quella dell'individuazione e salvaguardia di beni culturali non ancora riconosciuti come tali perché sino a quel momento incogniti all'amministrazione.

L'articolo 68 della Legge in approvazione introduce in maniera asimmetrica, vale a dire soltanto in relazione alle norme che regolano la circolazione internazionale, un elemento sinora mai preso in considerazione dalla nostra legislazione e in ogni caso non inserito nell'articolo 10 dal quale il 65 discende e consegue: il valore venale. Al di là del merito, già discusso più sopra, per cui non pare possibile affidare il discrimine fra cosa può o non può essere bene culturale a un dato presuntivo, non oggettivamente misurabile e soprattutto mutevole nel tempo e nei luoghi quale la quotazione economica, se l'articolo 10 stabilisce che determinate cose sono beni culturali indipendentemente dal prezzo e la Costituzione sancisce il principio secondo cui la Repubblica tutela il patrimonio culturale della nazione, il fatto che la nuova formulazione dell'articolo 65 del Codice dei beni culturali ammetta la perdita di beni culturali individuati ai sensi dell'articolo 10, soltanto perché autocertificati con un prezzo inferiore ai 13.500 euro, è del tutto anticostituzionale.

Pare schizofrenico, contrario a ogni logica ed egualmente anticostituzionale che la stessa identica cosa possa essere bene culturale ai sensi dell'articolo 10 del Codice e non esserlo ai sensi dell'articolo 65. E dunque essere dichiarata d'interesse culturale e sottoposta a tutela a termini del procedimento di cui all'articolo 10 e seguenti del Codice ad eccezione del caso in cui in cui l'amministrazione ne sia venuta a conoscenza in virtù di una richiesta di uscita definitiva dai confini nazionali. Con le ovvie e inevitabili disparità di trattamento fra cittadini (a disfavore dei proprietari e a favore dei mercanti) e con l'ancora più nefasta conseguenza che basterà munirsi di un attestato di libera circolazione ottenuto in automatico autocertificando un valore sottosoglia e poi rientrare sul territorio nazionale chiedendo la certificazione in ingresso prevista dall'articolo 72 del Codice dei beni culturali che comporta la non applicabilità della legge di tutela, per sottrarre in forma legalizzata e inappellabile al patrimonio culturale nazionale beni che nell'attuale ordinamento avrebbero potuto, e dunque dovuto, farne parte.

Nota: Il Ddl attualmente all’esame della Camera è stato il primo ad essere presentato dal governo dal 2009. In base alla «legge sviluppo» del 2009 (art. 47, legge 23 luglio 2009, n. 99) le segnalazioni dell’Autorità garante per il mercato e la concorrenza (antitrust) costituiscono la base per la predisposizione, da parte del Governo, del disegno di legge annuale per il mercato e la concorrenza. A seguito di tale innovazione normativa, l'Autorità dal 2009 ha inviato al Parlamento e al Governo, ai sensi degli artt.21 e 22 della legge n. 287/90, segnalazioni generali su proposte di riforma pro-concorrenziale del quadro normativo e regolatorio. Ebbene, nessuna delle segnalazioni dell’Autorità, l’ultima delle quali risale al 2014 reca traccia di provvedimenti inerenti la semplificazione del commercio internazionale dei beni culturali. Per fare un esempio fra i settori indicati dall’Autorità, vi sono: le assicurazioni, con particolare riguardo al campo della RC Auto; i fondi pensione; le comunicazioni; i servizi postali; l’energia e la distribuzione in rete di carburanti per autotrazione; le banche; le professioni; la distribuzione farmaci, ecc.

Art. 68.
(Semplificazione della circolazione internazionale di beni culturali)
1. Al fine di semplificare le procedure relative al controllo della circolazione internazionale delle cose antiche che interessano il mercato dell'antiquariato, al codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) all’articolo 10:
1) al comma 3, dopo la lettera d) è inserita la seguente:
«d-bis) le cose, a chiunque appartenenti, che presentano un interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico eccezionale per l'integrità e la completezza del patrimonio culturale della Nazione»;
2) il comma 5 è sostituito dal seguente:
«5. Salvo quanto disposto dagli articoli 64 e 178, non sono soggette alla disciplina del presente titolo le cose indicate al comma 1 e al comma 3, lettere a) ed e), che siano opera di autore vivente o la cui esecuzione non risalga ad oltre settanta anni, nonché le cose indicate al comma 3, lettera d-bis), che siano opera di autore vivente o la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquanta anni»;
b) all’articolo 11, comma 1, lettera d), la parola: «cinquanta» è sostituita dalla seguente: «settanta»;
c) all’articolo 12, comma 1, la parola: «cinquanta» è sostituita dalla seguente: «settanta» e le parole: «, se mobili, o ad oltre settanta anni, se immobili» sono soppresse;
d) all'articolo 14, comma 6, è aggiunta, in fine, il seguente periodo: «Per le cose di cui all'articolo 10, comma 3, lettera d-bis), la dichiarazione è adottata dal competente organo centrale del Ministero»;
e) all'articolo 54:
1) al comma 1, lettera d-ter), la parola: «cinquanta» è sostituita dalla seguente: «settanta»;
2) al comma 2, lettera a), la parola: «cinquanta» è sostituita dalla seguente: «settanta» e le parole: «, se mobili, o ad oltre settanta anni, se immobili,» sono soppresse;
f) all'articolo 63, comma 2, dopo il primo periodo, sono inseriti i seguenti: «Il registro è tenuto in formato elettronico con caratteristiche tecniche tali da consentire la consultazione in tempo reale al soprintendente ed è diviso in due elenchi: un primo elenco relativo alle cose per le quali occorre la presentazione all'ufficio di esportazione; un secondo elenco relativo alle cose per le quali l'attestato è rilasciato in modalità informatica senza necessità di presentazione della cosa all'ufficio di esportazione, salva la facoltà del soprintendente di richiedere in ogni momento che taluna delle cose indicate nel secondo elenco gli sia presentata per un esame diretto»;
g) all'articolo 65:
1) al comma 2, lettera a), la parola: «cinquanta» è sostituita dalla seguente: «settanta»;
2) al comma 3, lettera a), la parola «cinquanta» è sostituita dalla seguente: «settanta» e sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: «, il cui valore, fatta eccezione per le cose di cui all'allegato A, lettera B, numero 1, sia superiore ad euro 13.500»;
3) il comma 4 è sostituito dai seguenti:
«4. Non è soggetta ad autorizzazione l'uscita:
a) delle cose di cui all'articolo 11, comma 1, lettera d);
b) delle cose che presentino interesse culturale, siano opera di autore non più vivente e la cui esecuzione risalga ad oltre settanta anni, il cui valore sia inferiore ad euro 13.500, fatta eccezione per le cose di cui all'Allegato A, lettera B, numero 1.
4-bis. Nei casi di cui al comma 4, l'interessato ha l'onere di comprovare al competente ufficio di esportazione, mediante dichiarazione ai sensi del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, che le cose da trasferire all'estero rientrino nelle ipotesi per le quali non è prevista l'autorizzazione, secondo le procedure e con le modalità stabilite con decreto ministeriale. Il competente ufficio di esportazione, qualora reputi che le cose possano rientrare tra quelle di cui all'articolo 10, comma 3, lettera d-bis), avvia il procedimento di cui all'articolo 14, che si conclude entro sessanta giorni dalla data di presentazione della dichiarazione»;
h) all'articolo 68:
1) al comma 4, le parole: «dal Ministero» sono sostituite dalle seguenti: «con decreto del Ministro»;
2) al comma 5, la parola: «triennale» è sostituita dalla seguente: «quinquennale»;
i) all'articolo 74, comma 3, le parole: «sei mesi» sono sostituite dalle seguenti: «un anno» e la parola: «trenta» è sostituita dalla seguente: «quarantotto»;
l) all'allegato A, lettera A, nel numero 15 e nella nota (1), la parola: «cinquanta» è sostituita dalla seguente: «settanta».
2. Il Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, con proprio decreto da adottare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge:
a) definisce o aggiorna gli indirizzi di carattere generale cui gli uffici di esportazione devono attenersi per la valutazione circa il rilascio o il rifiuto dell'attestato di libera circolazione, ai sensi dell'articolo 68, comma 4, del codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, nonché le condizioni, le modalità e le procedure per il rilascio e la proroga dei certificati di avvenuta spedizione e di avvenuta importazione, ai sensi dell'articolo 72, comma 4, del medesimo codice;
b) istituisce un apposito «passaporto» per le opere, di durata quinquennale, per agevolare l'uscita e il rientro delle stesse dal e nel territorio nazionale.

«Le mani sulla città di Francesco Rosi sono davvero poca cosa: a Volla l’edilizia locale continua ad espandersi a dismisura senza alcuna programmazione per la realizzazione di servizi». Il FattoQuotidiano online, 1 aprile 2017 (p.s.)
Preoccupazione? neppure a parlarne. Il Consiglio comunale farà il proprio dovere. Nessuna sorpresa. Manca poco. Ci siamo quasi. Eccoci. "Permesso a costruire in deroga". E’ l’ottavo punto all’ordine del giorno, l’ultimo. Curiosa la circostanza: l’assemblea relega questa decisione, non da poco, a fine lavori consiliari preferendo, ad esempio, affrontare prima le complesse sfaccettature del regolamento dei nonni civici. Ci sono delle priorità. E’ vero, questa è una pura formalità. Come volevasi dimostrare.

Con nove voti a favore e otto contrari è approvato il nuovo progetto edilizio che prevede la realizzazione di due blocchi destinati al terziario-direzionale. E’ il 31 gennaio di quest’anno. Siamo a Volla, comune della provincia orientale di Napoli, con 28mila abitanti, 40 bar e un record da Guinness dei primati come certifica nel bollettino statistico ancora Bankitalia: elevato numero di sportelli bancari e costante incremento dei depositi sui conti correnti. Qualcuno sospetta che Volla sia una zona cuscinetto della camorra e un paradiso per i suoi prestanome.
Malelingue, detrattori, gufi invidiosi. Ciro Perdono, patron dell’impero immobiliare, è nella sala attigua l’aula consiliare, si trova a suo agio. E’ stato più volte consigliere comunale nella vicina Casalnuovo per il Pdl, conosce le liturgie della ‘politica’. Non molla un attimo lo smartphone e mostra di continuo le foto del suo progetto che, in attesa dell’approfondimento dell’Anac, a breve realizzerà. Il suo è un cognome pesante e legato al cosiddetto ‘sacco di Casalnuovo‘. Uno scandalo che fece il giro del mondo conquistando addirittura i media internazionali come France 2.

Fu un caso nato grazie ad alcuni controlli dei carabinieri per la sicurezza sul lavoro. Mentre effettuavano un sopralluogo i militari scoprirono – siamo a gennaio 2007 – dal nulla un intero rione composto da una settantina di edifici, costruiti senza permessi alle porte di Napoli e precisamente nell’area Casarea, un piccolo paese, nato dallo scorporo di Afragola. La cittadella si reggeva su di una montagna di carta straccia, la fabbrica degli atti falsi funzionava h24: certificazioni fasulle che facevano rientrare gli immobili nella sanatoria edilizia del 2003. Insomma, i costruttori esibirono documenti costruiti ad arte. Non servirono a nulla. Le case erano abusive. Ciro Perdono fu condannato a 5 anni di carcere mentre un altro costruttore Domenico Pelliccia a 9.
Sono cose che accadono. Occorre rialzarsi e andare avanti. Il Gruppo Perdono nelle sue tante declinazioni societarie è sempre sulla cresta dell’onda. Non manca il chiacchiericcio, le insinuazioni e perfino l’indagine denominata “Argine” e condotta dai carabinieri di Castello di Cisterna. Elementi investigativi che confluiranno e saranno parte della relazione del luglio 2004 della Commissione di Accesso che porta allo scioglimento del Consiglio comunale di Volla. Motivo? Sono attivi fenomeni di infiltrazioni e condizionamenti di tipo malavitoso. In particolare sotto la lente d’ingrandimento dei commissari nominati dalla Prefettura di Napoli finisce l’ufficio tecnico comunale: le indagini rilevano come la camorra abbia rivolto le proprie mire criminali nel settore dell’edilizia privata.

Sono trascorsi ormai 13 anni. Adesso le cose saranno cambiate? Con un atto di generosità Ciro Perdono dopo aver incassato il semaforo verde dal Consiglio comunale annuncia di voler costruire ed arredare a sue spese una piazza e donarla alla città. Poi dicono che mancano i valori.

Eppure le cose sono molto più semplici di quelle che malevolmente appaiono. Compri due pezzi di terra, presenti regolare progetto edilizio e l’ufficio tecnico accorda un veloce ok. Tocca al Consiglio comunale concedere il permesso in deroga agli strumenti urbanistici. Sì, perché Volla è uno straordinario laboratorio mattonaro. Le mani sulla città di Francesco Rosi sono davvero poca cosa: a Volla nonostante il piano urbanistico comunale abbia esaurito i suoi effetti da ormai più di un decennio, l’edilizia locale continua ad espandersi a dismisura senza alcuna programmazione per la realizzazione di servizi, sotto-servizi e nuove infrastrutture sulla carta.

Il rilascio delle autorizzazioni edilizie è surrettizia e ottenuta con applicazioni discutibili e continue forzature del cosiddetto “piano casa” ma anche mettendo in pratica una serie di trucchetti volti a bypassare e raggirare qualsiasi legge e regolamento. Basta fare quattro passi per le strade di Volla e notare i tanti cantieri aperti e i mega cartelloni delle attivissime società immobiliari legate ai costruttori che pubblicizzano i prossimi nuovi parchi di edilizia residenziale. I nomi sono originali: Mariasofia, Artemide, Farin, Hollywood, Florenzio, Partenope, Athena. Centinaia tra appartamenti, abitazioni e villette a schiera costruite rigorosamente in deroga. Una colata di cemento a pochi chilometri dal Vesuvio e nonostante la vicinanza con il vulcano, il comune di Volla, ‘stranamente’ non rientra per la Protezione civile nella nuova zona rossa dell’aggiornamento del Piano nazionale di emergenza.

Rotta la tregua, ricomincia all’alba l’espianto degli alberi nell’area del microtunnel per il gasdotto. Alta tensione tra il movimento No Tap» e l’ingente schieramento di poliziotti». il manifesto, 2 aprile 2017 (c.m.c.)

il manifesto
DALLA PARTE DEGLI ULIVI ,
LA RIVOLTA DI MELENDUGNO
di Patrizio Gonnella

L’ennesima giornata di passione vissuta a Melendugno inizia alle prime luci del giorno. Quando un imponente spiegamento di forze dell’ordine arriva al cantiere dei lavori, sospesi per due giorni, scortando i camion della ditta incaricata dal consorzio Tat di espiantare i 211 ulivi nell’area in cui dovrà arrivare il microtunnel del gasdotto (sino ad ora sono già 183 quelli sradicati), una conduttura sotterranea lunga circa un chilometro e mezzo, destinata a connettersi con il tratto sottomarino del tubo ad una distanza di circa 800 metri dalla costa.

Una ripresa dei lavori di cui la società aveva avvisato la prefettura di Lecce soltanto nella tarda serata di venerdì, ottenendo il via libera dalla questura, cogliendo di sorpresa i manifestanti, in presidio continuo all’esterno del cantiere. Una rottura di una tregua che secondo gli umori degli ultimi giorni sarebbe dovuta durare almeno sino a domani.

Così, alle 9 del mattino, con i lavori iniziati da alcune ore e altri 30 ulivi espiantati (diciannove piante cui se ne aggiungono altre undici parcheggiate negli spazi della società di vigilanza Almaroma), in centinaia arrivano dalla campagna per bloccare l’uscita del cantiere e al tempo stesso per impedire ad alcuni camion già usciti su strada, di raggiungere l’area della Masseria del Capitano, ceduta da un privato alla società Tap, dove le piante vengono messe in mora e custodite in attesa di essere reimpiantate nell’area del cantiere a lavori ultimati. Il blocco maggiore viene effettuato proprio all’esterno dell’area dove vengono parcheggiati» gli ulivi. La tensione è altissima: anche perché questa volta il blocco di persone che si frappone ai camion è costituito soprattutto da donne, bambini, anziani. Gente di Melendugno e dei paesi limitrofi accorsi per dar manforte ai manifestanti e ai tanti sindaci presenti sul luogo e in prima fila, in tutto una quindicina, primo tra tutti Marco Potì, primo cittadino di Melendugno.

A quel punto, l'obiettivo diventa quello di trovare una mediazione evitando altre tensioni: inizia così un lungo dialogo telefonico tra il sindaco di Melendugno, il prefetto di Lecce Claudio Palomba, la questura e il ministero degli interni. Dopo un paio di ore, viene deciso che i quattro camion rimasti bloccati su strada, faranno ritorno con il loro carico di ulivi all’interno del cantiere: altri sei camion pronti a partire a quel punto sono rimasti fermi. Al netto di quelli già espiantati e ancora da portare alla Masseria del Capitano (in tutto 25 piante) sono soltanto 18 gli ulivi ancora da sradicare per rendere operativo il progetto. Una decisione salutata con giubilo dai manifestanti, che però appare più una vittoria simbolica che altro. Non fosse altro perché l’accordo raggiunto tra le istituzioni, garantiva una tregua valida soltanto per la giornata di sabato. Già da questa mattina infatti, o al più tardi lunedì, i lavori potrebbero ripartire.

Intanto, in attesa di capire quel che accadrà, i sindaci del territorio salentino hanno realizzato un appello da far sottoscrivere a tutti i cittadini, indirizzato al presidente della Repubblica, al presidente del Consiglio ed al governatore Michele Emiliano. Nell’appello, oltre ad evidenziare ancora una volta la totale contrarietà al progetto che se realizzato determinerà una violenta ed irreversibile ferita ad un territorio unico», si chiede la convocazione urgente di un incontro tecnico-politico propedeutico all’avvio di un’attività di ricerca di soluzioni più avanzate». In attesa dell’assemblea pubblica di questa sera nella centralissima piazza Sant’Oronzo a Lecce.

il manifesto
È STATO UN VERO BLITZ,
MA I CITTADINI HANNO RISPOSTO
COMPATTI E PACIFICI»
di Giammario Leone

Intervista. Parla il sindaco di Melendugno, Marco Potì, in prima linea insieme ai cittadini contro il gasdotto Tapl sindaco di Melendugno Marco Potì è in prima linea a difendere il suo territorio, fianco a fianco ai manifestanti, sin dal primo giorno.

Sindaco, è stata un’altra giornata vissuta sul filo della tensione. Non ve l’aspettavate.
Quello di questa mattina (ieri per chi legge, ndr) è stato un vero e proprio blitz. Nessuno, né la società Tap, né la prefettura e la questura, ci aveva avvertito che questa mattina sarebbero ripresi i lavori. La polizia è arrivata ancora una volta in un numero spropositato ancor prima dell’alba, scortando i mezzi e gli operai delle ditte addette ai lavori per conto di Tap e attuando blocchi al transito veicolare e pedonale di tutta l’area.

Lei anche nei giorni scorsi ha sottolineato l’ingente dispiegamento di forze dell’ordine, che di certo non contribuisce a rasserenare gli animi.
Assolutamente sì. Tra l’altro, lo ribadisco ancora una volta, siamo ancora alla fase zero di un progetto che dopo l’espianto degli ulivi dovrà fermarsi, in quanto per la realizzazione del microtunnel è stato riaperto il procedimento e quindi i lavori non possono partire: la militarizzazione del territorio e l’uso della forza nei confronti degli abitanti di questo territorio e di chi lo rappresenta, come il sottoscritto, la trovo davvero spropositata e inutile. Così come il blocco totale delle strade limitrofe al cantiere, che impediscono la libera circolazione dei cittadini.

La giornata di ieri si è conclusa con una vittoria simbolica dei manifestanti: questo anche grazie alla mediazione da lei attuata insieme a questura, prefettura e ministero degli Interni.
Voglio sottolineare innanzitutto che quella di oggi (ieri, per chi legge, ndr), a differenza degli altri giorni, è stata una manifestazione del tutto spontanea. Sono arrivate donne, bambini, anziani, semplici cittadini che ogni giorno incontro in piazza o al bar a Melendugno. I manifestanti hanno deciso di andare a presidiare il luogo dove vengono messi in mora gli ulivi espiantati, che dista 8 km dal cantiere. La partecipazione alla manifestazione è cresciuta di numero con il passare delle ore. Insieme a me c’erano altri 15 sindaci: a quel punto la priorità era garantire l’incolumità di tutti quei cittadini. E, d’accordo con le istituzioni e la società Tap, per fortuna ci siamo riusciti, riportando i camion all’interno del cantiere e sospendendo i lavori in corso.

La tregua, però, rischia di durare sino alle prossime 24 ore. Così come l’abbassamento della tensione generale anche tra i manifestanti.
L’accordo che abbiamo raggiunto riguarda soltanto la giornata odierna (ieri per chi legge, ndr). Da domani potremmo essere di nuovo punto e a capo. Vorrei però sottolineare che sino ad oggi le proteste sono state più che pacifiche. Basti pensare che molti manifestanti hanno aiutato gli autisti dei camion bloccati sulla strada, a dissetarsi visto il gran caldo. Siamo sempre riusciti ad isolare e ad evitare comportamenti violenti, anche se è chiaro che la tensione tra i cittadini salentini è altissima (sono in corso indagini da parte della questura per appurare l’origine delle due bombe carta esplose la scorsa notte all’esterno dell’hotel Tiziano di Lecce che ospita le forze dell’ordine impiegate al cantiere, ndr).

Cosa pensa della posizione di Emiliano che vuole spostare l’approdo in provincia di Brindisi?
L’approccio del governatore è sicuramente diverso da quello del suo predecessore Vendola. Emiliano vuole ottenere compensazioni ambientali, non economiche, dalla grandi aziende per risanare le ferite della Puglia in campo ambientale e sanitario: non so se ci riuscirà.

L’obiettivo, comunque, resta lo stop definitivo ai lavori?
Saremo sempre contro la realizzazione di quest’opera, che per noi non è né utile né strategica. Forse lo poteva essere quando fu presentata nel 2003, non più oggi. Abbiamo scritto un appello da far sottoscrivere ai cittadini, perché la nostra battaglia per la difesa del nostro territorio non si fermerà.

Piano paesaggistico della Sardegna: il PD, che con Soru l'aveva formatoo e approvato, sotto il berlusconiano Cappellacci difeso, ora con il PD Pigliaru lo smantella. La Nuova Sardegna, 1° aprile 2017


Non mi piace il disegno di legge sull'urbanistica. Non mancano ideeinteressanti tra i 113 articoli, ma purtroppo lo spirito selvaggio delpiano-casa è un tratto caratterizzantela proposta del governo Pigliaru. E non a caso si sta parlando soprattutto di questo. Berlusconi non avrebbe mai immaginato un successo tanto strepitoso delformat inventato nel 2009 (da lui in persona). Né che la sua tesi sullosviluppo eccitato dall'edilizia libera, sarebbe stata fonte d'ispirazione, e non solo a destra. E chissàla gioia: una legge sarda della sinistra che alimenta il sogno di spolpare l'odiato Ppr di Soru(2006).


Prevedibile dalle capriole dellacoalizione a guida PD. Prima schierata contro il piano-casa di Cappellacci –“piano villetta”, “grande inganno”,“illegittimo” (resoconto del Consiglio n. 41- 25/9/2009). Poi principale artefice di un piano-casa2, tramolte turbolenze.
Memorabile l'incidente nel corso del dibattito sulla legge n.8/2015, l'emendamento di FI – obiettivo la lievitazionedelle case nelle zone F turistiche – approvato con il voto segreto di consiglieri della sinistra.
Quindi il dietrofront imposto da Pigliaru; la figuraccia compensata dalgiuramento di salvaguardare la “fasciacostiera”, non solo la parte più vicinaal mare. E invece rieccolo nel Ddl il rinnovato “entusiasmo contro il tabù dei 300 metri” – ha scritto un attento conoscitore dellaSardegna come Manlio Brigaglia. “Con la scusa del turismo hanno fatto più dannidi undici secoli di invasioni moresche”.
Il turismo non cresce a trainodell'edilizia: inutile l'ampliamento ciclico delle dotazioni ricettive ascapito di luoghi tutelati. Nessunagaranzia che gli alberghi, ingranditi con SPA o balere pop, rimangano aperti oltre l' estate. Tant'èche pure quelli più attrezzatati chiudono a sttembre. Aspirazione realizzabile, si sa, incrementando i mezzi di trasporto a costiragionevoli.
Si rischia insomma di sbagliarela mira, da tenere “assai più alta” come sapevano gli arcieri prudenti diMachiavelli. Ma pure di eludere sentenze recenti della Consulta sul primatodella pianificazione paesaggistica rispetto ad altre attività economiche nelterritorio. Ed è possibile che nel Ddl ci siano vari articoli concontraddizioni, meritevoli di approfondimenti da parte del Consiglio.
Uno in particolare necessità di una tempestiva attenzione. È l'art.43: secondo il quale “programmi e progettiecosostenibili” possono essere promossia giudizio della Giunta. Destabilizzante fin d'ora, e si pensi all'uso che ne potrebbefare domani un governo spregiudicato.

Temo, al di là dei titolirassicuranti, che i “programmi eprogetti ecosostenibili” possano avere la dominante edilizia nonostante gliauspici della Giunta. So che saranno voluminosi e verosimilmente in contrastocon il Ppr. Per cui occorrerà addomesticarlo, aprendo varchi dove/quando serve.Confidando nel via libera del Mibact che difficilmente potrà concorrere allacolpa (e al ridicolo) di fare eccezioniin un quadro paesaggistico omogeneo.
Sarebbe meglio non caderci nell'abissodella deregolazione forever, semprecondannata dagli studiosi fuori e dentro le accademie (ora non so). Ancheperchè non ci mancano esperienze importanti. Come la disavventura dei piani territorialipaesistici di una ventina di anni fa, il flop degli “accordi di programma”nella cornice della sfigata LR 23 del 1993. Per farsi un'idea basta scorrere lesentenze di CdiS e Tar (ricorso di Grig): i Ptp cassati per altotradimento dei principi di tutela.

Spero che i “programmi e progetti ecosostenibili” non stiano in quelsolco, impegnando la politica in un estenuante conflitto (ricordate il masterplandi Costa Smeralda ?). Il buon senso suggerisce di evitare che ogniterritorio rivendichi il proprio piano oprogetto in deroga; e che la giostra si metta a girare con tutti i rischi. Tracui l'effetto domino temuto negli anniNovanta.

Sarebbe il caso di ritirarlo quell'articolo controverso. Aiuterebbe ilconfronto, utile per migliorare il Ddl a partire dalle norme sul territorio agricolo. Meglio una legge lungimirante, per “lasostenibilità di lungo periodo”, come consiglia il prof. Pigliaru nei suoilibri; e chiusa alle ingerenze degli illusionisti di questi brutti tempi.

Probabilmente a tutti noi, per un motivo o l'altro, capita di attraversare qualche volta il mercatino o mercatone rionale che si svolge vicino a casa, sfiorando o schivando una o due bancarelle di frutta, verdura... (segue)

Probabilmente a tutti noi, per un motivo o l'altro, capita di attraversare qualche volta il mercatino o mercatone rionale che si svolge vicino a casa, sfiorando o schivando una o due bancarelle di frutta, verdura, vestiti o paccottiglia varia. Altrettanto probabilmente, però, non ci è mai successo di ascoltare ad esempio una delle signore che frugano nel cestone delle offerte, sbuffare a proposito di «impianto normativo come fattore abilitante dello sviluppo». E nemmeno di orecchiare casualmente il ragazzo figlio di immigrati, che aiuta con le cassette della frutta, lamentarsi perché ci vorrebbe proprio una «ottimizzazione dell'assetto viabilistico e mobilità». Certo qualunque cliente del mercato ve ne potrebbe raccontare a decine, di consapevolissimi problemi legati alle regole di crescita della città, farraginose e che li hanno penalizzati anche gravemente in un momento o nell'altro della vita. E qualunque bancarellaro di quelli che state sfiorando nel vostro attraversamento, sa per esperienza quanto carente sia il sistema stradale urbano, quello dei parcheggi e delle piazzole per la sua attività, e poi le consegne, gli spostamenti per lavoro, le forniture. Ma certo non pensano ai propri problemi in termini di «fattori abilitanti dello sviluppo», e nemmeno di «assetto viabilistico»: non è il loro linguaggio, sono parole che significano poco o nulla, gli nascondono anziché evidenziare i concetti, li respingono anziché coinvolgerli. Allora perché mai, rivolgersi a loro con quel linguaggio a dir poco inadeguato?
Eppure è esattamente quel che sta succedendo col Questionario per il nuovo Piano di Governo del Territorio di Milano, secondo «Linee Programmatiche, che pur ponendosi in continuità con le precedenti, imprimono un carattere nuovo alle politiche urbane […] ponendo tra le priorità l’ascolto della città e i processi di partecipazione» (come recita testualmente la Delibera di avvio del procedimento per un nuovo strumento urbanistico). Si vogliono stimolare e gestire processi di inclusione, ma come ha osservato recentemente Luca Beltrami Gadola, lo si fa formulando «domande che sono solo un elenco di titoli e non una richiesta di opinione ed è difficile capire quale nesso abbiano molte domande rispetto alla determinazione di una scelta di natura urbanistica». Vorrei andare anche oltre questa critica di impianto e obiettivi, per aggiungere che al cittadino medio, diciamo pure alla quasi totalità dei cittadini, risulta difficilissimo capire addirittura il senso, di quelle domande, che sembrano compilate da un tecnico specializzato, o comunque da qualcuno addentro alla questione, con termini, costruzioni, accostamenti, che il cittadino medio può al massimo provare a interpretare, giocando al Piccolo Urbanista Dilettante. In altre parole, più che di inclusione o partecipazione il processo innescato pare essere una sorta di tentativo di cooptazione, dove l'uomo della strada si avvicina gradualmente alla mistica della programmazione del territorio assimilandone il linguaggio. Come se non fosse possibile esprimersi in altro modo.
Foto F. Bottini
Nel seminale Rapporto Skeffington britannico sulla partecipazione in urbanistica (1969), pur non rinunciando certo del tutto a questa peraltro discutibile «cooptazione linguistica», le amministrazioni istruivano un processo di piano idealmente e letteralmente formando nuovi cultori della materia, provenienti da ogni classe sociale e di età, attraverso varie forme di comunicazione divulgativa. Se certamente la strategia di sviluppo territoriale urbana o ancor di più metropolitana era cosa complessa, impossibile da ridurre a qualche benintenzionato slogan o scarabocchio progettuale, allora meglio spiegarla in modo dettagliato organizzando addirittura «corsi o conferenze tematiche nei fine settimana, magari in collaborazione con altri enti o associazioni anche nazionali». Oltre naturalmente a pianificare e alimentare canali più tradizionali di comunicazione divulgativa, dalla stampa di informazione, a mostre, filmati, programmi radiofonici e televisivi, dibattiti pubblici, insomma una vera e propria alfabetizzazione. Cosa ben diversa, dal pretendere (non mi viene un verbo diverso) che la nostra dirimpettaia appassionata di fiori, o il barista che ci mette da parte l'ultimo cornetto alla crema, colgano al volo il senso di domande del tipo: «Quale importanza assegna, all'approccio integrato e sistemico, sul riassetto della componente geologica, idrologica e sismica»? Diciamo che si può, e si deve, fare di meglio, di molto meglio.

* Qui, per chi volesse ripassarsi alcuni passaggi chiave del Rapporto Skeffington sulla partecipazione in urbanistica, un estratto in italiano

* Qui, naturalmente (e caldamente consigliato in lettura critica) il Questionario del Comune di Milano per il Piano di Governo del Territorio: potete anche legittimamente compilarlo come «city user», per inciso

L'Italia dei Renzichenecchi e dei Franceschini è un paese nel quale l'utilità sociale dei beni culturali si misura sulla quantità degli incassi. Ecco alcuni esempi di ciò che stanno dissipando. E più degli esempi preoccupa la direzione del vento che essi indicano. la Repubblica, 30 marzo 2017

«Confrontare l’opere con le scritture»: questa fulminante definizione del compito della storia dell’arte si deve a Raffaello. Ed è tuttora verissima: non comprendiamo le immagini senza la conoscenza della loro storia. Nell’Italia di oggi, tuttavia, sembriamo pensarla al contrario. I nostri politici scrivono che quando la bellezza muore «al massimo può essere storia dell’arte, ma non suscita emozione». Così nella scuola l’”arte” e la “creatività” prendono il posto della storia dell’arte. E le biblioteche vengono “mangiate” dalle immagini, mostre, eventi.

Il caso simbolo è quello della biblioteca di un grandissimo storico dell’arte Giuliano Briganti. Diciottomila volumi e 50 mila fotografie che furono saggiamente acquistati dal Comune di Siena e destinati al grande complesso medioevale del Santa Maria della Scala. Era il primo stadio di un progetto ambizioso: qui dovevano arrivare anche i libri di altri storici dell’arte (Giovanni Previtali, Luciano Bellosi, magari anche quelli di Enzo Carli), qui doveva trasferirsi la Pinacoteca della città, qua anche il dipartimento di storia dell’arte: avremmo così avuto un centro di ricerca formidabile. Senza eguali in Italia.

Purtroppo quel progetto è stato risucchiato dalla grande crisi (economica, ma prima politica e culturale) della città del Palio, e qualche giorno fa un avviso ha informato della chiusura al pubblico della Biblioteca Briganti «almeno per il mese di marzo 2017»: ma di fatto senza un giorno certo per la riapertura. Ufficialmente la colpa è di certi lavori di manutenzione, ma quel che moltissimi senesi dicono (rigorosamente a “microfoni spenti”) è che la biblioteca sarà portata via dalla Scala, e confluirà in quella Comunale, venendo smembrata.

Perché? Il complesso della Scala è stato dato in gestione al gruppo Civita, che lo usa come contenitore per mostre ed eventi: una destinazione per la quale una biblioteca non solo non serve, ma intralcia. Il vento soffia in questa direzione. Nella non lontana Pisa la grande biblioteca della Sapienza (cioè dell’università, ma così importante da appartenere al Ministero per i Beni culturali) è chiusa da cinque anni, e ora i libri sono chiusi in casse, a Lucca: anche in questo caso furono all’inizio invocati danni all’edificio provocati dal terremoto dell’Emilia. Ma una vasta parte della importante comunità intellettuale pisana sostiene che il vero obiettivo era «sgombrare il palazzo della Sapienza dalla presenza di ospiti indesiderati: i libri» (Chiara Frugoni). Anche un’università può, dunque, scegliere di usare un palazzo storico come location di eventi, sfrattando gli strumenti della conoscenza. Una tendenza, ormai: nella stessa Pisa, la Domus Mazziniana era già stata svuotata dai libri, e ridotta a esposizione permanente di cimeli.

D’altra parte, il successo delle istituzioni culturali si misura ormai con i biglietti staccati. E in un’epoca in cui si paga anche per entrare in chiesa, le gratuite biblioteche appaiono irritanti, oltre che inutili. A Torino, qualche tempo fa, la Fondazione Musei ridusse da cinque a due giorni l’apertura della biblioteca della Galleria d’Arte Moderna per recuperare risorse per le mostre: e furono gli studenti a insorgere fino a riottenere l’accesso ai libri. Un bell’esempio di mobilitazione civile, che in questi giorni si replica a Cosenza, dove la gloriosa Biblioteca Civica non paga gli stipendi da quattro mesi perché la Provincia è stata cassata dalla Legge Delrio, e la Regione non ritiene di dover subentrare nei pagamenti. E così un’associazione di cittadini ha lanciato un messaggio assai chiaro: «La Città di Cosenza non può affrontare il futuro senza la sua Biblioteca».

A Napoli – dove i 300 mila libri di Gerardo Marotta sono ancora chiusi in casse – la Biblioteca dei Girolamini (sopravvissuta a un devastante saccheggio) è stata conferita al Polo Museale invece che alla Biblioteca Nazionale: e i progetti che circolano immaginano la grande Sala Vico come un’attrazione museale, e non come un luogo di studio e ricerca. La stessa cosa è successa a Modena, dove la gloriosa Biblioteca Estense è stata sottomessa alla direzione della Galleria: con il risultato che è stata chiusa una sala di consultazione per destinarla a ulteriore luogo espositivo, e che si pensa di smembrare le collezioni librarie storiche. Aggiungiamo che, nel 2018, le tre bibliotecarie dell’Estense andranno in pensione: un problema che riguarda tutti i libri pubblici italiani, visto che nei prossimi quattro anni «circa il 60% dei bibliotecari in organico lascerà il servizio», come ricordò l’anno scorso Giovanni Solimine dimettendosi dagli organi consultivi del Mibact.

Librò, il nuovo “esclusivo” bar della Biblioteca Nazionale di Roma, si autodefinisce «lo spazio ideale per tutti coloro che vogliono condividere emozioni e sogni », e vanta i suoi «arredi moderni, con inserti che richiamano una vera e propria biblioteca».

Tra un’emozione e un sogno, una mostra e un evento, dovremmo ricordarci che i libri non sono un arredo che possiamo spostare, imballare, smontare: senza le biblioteche, non solo i musei e le mostre, ma perfino i sogni e le emozioni, diventeranno presto incomprensibili.

Il Fatto Quotidiano, 29 marzo 2017

Una bozza di decreto che, nel tentativo di adeguare l’iter per la valutazione d’impatto ambientale alle direttive europee, favorisce e facilita in realtà la vita di petrolieri, imprenditori e costruttori: è all’esame delle commissioni Ambiente, Politiche Ue e Bilancio della Camera (che dovranno esprimersi entro il 25 aprile) e rende molto più semplice e veloce ottenere permessi per ricercare idrocarburi, trivellare o costruire. La Via. In pratica, tutto ciò che riguarda attività che hanno un impatto sull’ambiente deve ricevere la Via, la valutazione di impatto ambientale. È una sorta di autorizzazione a operare. Si vuole sondare il sottosuolo per scoprire se c’è il petrolio? Bisogna ottenere la Via. Si vuole fare un pozzo? Bisogna fare la Via. Si vuole costruire una centrale idroelettrica? Bisogna ottenere la Via. È, insomma, una procedura tecnico-amministrativa che ha lo scopo di individuare e valutare preventivamente gli effetti delle opere sull’ambiente e sulla salute, nonché di identificare le misure per prevenire, eliminare o renderne minimo l’impatto. Studi, progetti preliminari, pareri, previsioni di tutela ambientale e confronto con la popolazione: solo dopo essersi accertati che tutto questo sia in regola, si può procedere.

Il favore. -Se però fino ad oggi alla Via doveva essere sottoposta gran parte dei progetti che hanno un impatto sull’ambiente, il decreto fa saltare diversi vincoli: in molti casi basterà infatti richiedere la cosiddetta “verifica di assoggettabilità alla Via”. Si potrà decidere se un progetto debba o meno richiedere la via. E in caso negativo, l’opera potrebbe iniziare con la sola assoggettabilità. Non sono più necessari quindi tutti i vincoli e i controlli ambientali richiesti dall’iter completo. “Ad esempio, viene prevista la sola verifica di assoggettabilità per tutte le prospezioni in mare con airgun (metodo controverso che utilizza potenti getti d’aria, ndr) o con gli esplosivi – spiegano dai Comitati no triv e dai Movimenti per l’acqua – E anche per progetti petroliferi di coltivazione di giacimenti con produzione fino a 182.500 tonnellate di petrolio o 182 milioni di Mc di gas: in sostanza, la gran parte di quelli del Paese”. Se con la Via obbligatoria bisognava poi depositare i documenti del progetto preliminare e uno studio preliminare ambientale (una decina di pagine generiche), seguiti da una fase di 45 giorni per le osservazioni del pubblico, con il nuovo decreto basterà solo lo studio preliminare. Inoltre è prevista una sorta di sanatoria per le opere iniziate senza aver chiesto la Via: le società scoperte in fallo avranno il tempo per mettersi in regola. Ma intanto potrebbero già aver provocato danni all’ambiente. E a supervisionare? Una commissione tecnica di 40 membri nominata senza concorso pubblico, con poltrone assegnate dal ministero dell’Ambiente.

Eccezioni. - Un altro punto riguarda invece la possibilità del ministero dell’Ambiente, in casi eccezionali, di esentare un progetto dalla valutazione di impatto ambientale qualora questa ostacoli il progetto stesso. “Purtroppo si tratta di un ‘potere’ di non poco conto – spiega Enzo Di Salvatore, professore di Diritto costituzionale a Teramo ed estensore dei quesiti del referendum no Triv – in questo modo si accorda al ministero un potere pressoché discrezionale, che si riassume nel far prevalere le ragioni delle finalità dei progetti sulle ragioni della tutela ambientale”. La possibilità è certo prevista dalla direttiva europea. “Ma si tratta appunto di una facoltà e non di un obbligo – spiega Di Salvatore – Il decreto del governo deve, inoltre, rispettare i principi e i criteri fissati dalla legge delega del Parlamento (la 114/2015), tra i quali c’è il ‘rafforzamento della qualità della procedura di valutazione di impatto ambientale’. E l’attribuzione di un potere discrezionale di quel tipo finisce, a mio avviso, per vanificare la volontà del Parlamento”. Piattaforme. Altro elemento scivoloso è nell’articolo 25. Nelle disposizioni per smontare le piattaforme petrolifere giunte a fine produzione – nonché gasdotti o oleodotti – si parla di un decreto con il quale si dovranno stabilire le linee guida per la cosiddetta dismissione mineraria. Ma c’è anche l’ipotesi di una “destinazione ad altri usi” di quelle stesse piattaforme abbandonate in mare. “Già immaginiamo i mille e fantasiosi usi che verranno proposti per queste strutture – spiegano i comitati –. In realtà è un vantaggio di centinaia di milioni di euro ai petrolieri, visto che ci sono decine di piattaforme da smantellare e centinaia di chilometri di tubazioni posate sul fondo marino da bonificare”. D’altronde, non è un mistero che la promozione governativa dell’astensione al referendum no triv serviva a evitare ai petrolieri anche questo fastidio.

«Quel che è in gioco non è il destino di alberi e spiagge, è il ripristino di una linea di comando. Le comunità, i territori, le autonomie locali non devono più ostacolare le decisioni centrali ma piegarsi e obbedire». il manifesto, 30 marzo 2017 (c.m.c.)

Le radici strappate alla terra sembra vogliano urlare: cresciute scavando e strisciando nel sottosuolo e ora innaturalmente sospese e accatastate. Imponenti, impotenti. E’ un’immagine straziante, che più d’ogni parola o pensiero o ragionamento racconta il massacro in corso in questi giorni sulla spiaggia di San Basilio, località San Foca, Comune di Melendugno.

Stanno espiantando 271 ulivi secolari per far posto a un impianto di raccolta che accoglierà il lunghissimo gasdotto proveniente dal Mar Caspio. Una scelta che con caparbia ostinazione, con malevola ottusità si è deciso che solo su quel placido litorale debba essere realizzata. Non qualche chilometro più a nord, per esempio, tra le centrali e le raffinerie di Brindisi, come proposto dalla Regione Puglia: purtroppo invano.

No, proprio lì, tra la Riserva naturale Le Cesine, dove spuntano le orchidee selvagge e i gigli di mare, e la Grotta del Poeta, dove un Adriatico esausto si riposa tra davanzali rocciosi e piscine naturali. In uno dei luoghi più suggestivi e rarefatti del Salento. Un territorio incompatibile con lo stoccaggio e la distribuzione di idrocarburi. Un territorio sostanzialmente integro, che proprio grazie alla sua meravigliosa natura e alla sua antica cultura è riuscito a valorizzare se stesso e ad avviare ragguardevoli processi di crescita economica.

Si consuma così un altro capitolo della furia devastatrice di un’economia rapace e violenta. Come succede nella vicina Basilicata dove si estrae il petrolio tra pascoli, frutteti e piantagioni. O come succede nella più lontana Val di Susa, dove per l’alta velocità si perforano montagne e vallate. E non si sentono ragioni. Si va avanti con i cantieri e i manganelli, e chissenefrega della gente, dei contadini, dei montanari, dei pescatori. Di chi cerca di spiegare che c’è un altro modo per garantire sviluppo e benessere: senza consumare risorse naturali, senza sciupare l’ambiente, senza violare diritti e mortificare sensibilità. Da giorni proseguono proteste e manifestazioni, brutalmente represse. Con i sindaci e le loro fasce tricolori in prima linea. Ma la razzia continua, le macchine strappano i tronchi, i tir se li caricano e se li portano via.

Ci si dice che sradicare quei pochi ulivi di Melendugno non è un gran danno: in Puglia ce ne saranno milioni; e poi resusciteranno, verranno reimpiantati poco lontano. Ma quel che è in gioco laggiù non è il destino di alberi e spiagge, è il ripristino di una linea di comando. Simbolicamente ed effettivamente. Le comunità, i territori, le autonomie locali non devono più ostacolare le decisioni centrali ma piegarsi e obbedire.

Non era in fondo questo uno degli obiettivi della revisione costituzionale, laddove stabiliva che nei casi di controversie istituzionali sarebbe prevalso l’indirizzo dello stato centrale sulle amministrazioni decentrate? Quella revisione è stata sonoramente bocciata dal referendum di dicembre, ma la si applica ugualmente: con le cariche della polizia.

«Mentre si rafforzano l’opposizione al progetto per il riuso degli Scali Ferroviari e le iniziative di contrasto di un comitato di residenti del quartiere di Città degli Studi sempre più numeroso e agguerrito, il Comune di Milano avvia le consultazioni per il nuovo PGT. E la partecipazione civica?» Arcipelagomilano.org, 29 marzo 2017.(m.c.g.) con postilla

L’ultima entrata a gamba tesa delle Ferrovie dello Stato sarà l’annunciata esposizione con presentazione degli architetti e dibattito dei suoi progetti per gli Scali ferroviari nel quartiere clou del Fuorisalone del Mobile, vicino al nuovo passaggio che collega il Piazzale della Stazione di Porta Genova con la zona di Via Tortona: il Comune portato al guinzaglio da FFSS. Ma andiamo oltre per non indignarci troppo.

Il destino delle aree di Arexpo – con la collegata questione del trasferimento della Statale da Città studi -, gli scali ferroviari e l’avvio del percorso che porterà alla presentazione del nuovo Piano di Governo del Territorio sono i tre temi caldi del dibattito urbanistico in città e che, se non lo si fosse capito, son tre episodi che dimostrano quanto sia necessario fare chiarezza e abbandonare la strada sin qui seguita, se si è ancora in tempo, prima del classico naufragio sugli scogli della contestazione.

La contestazione è la più immediata conseguenza dell’assenza di autorevolezza di chi ha ruolo di governo e non, si badi bene, l’isterica manifestazione di un’opposizione preconcetta che affonda le sue radici nella durezza dello scontro politico.

L’osservazione attenta delle forze in campo vede nelle truppe della contestazione molta trasversalità, sia si tratti di professionisti dell’urbanistica e dell’architettura, della sociologia urbana o dell’economia territoriale, sia si tratti di comuni cittadini.

La mancanza di autorevolezza è a sua volta figlia della percezione che la platea degli interessati ha del modo di procedere, tra proposte estemporanee e spesso contraddittorie, malamente supportate da argomenti poco incisivi e non convincenti, e nutre la convinzione che si proceda sostanzialmente tra quello che chiamo “urbanistica delle emozioni” e l’urbanistica degli interessi forti non collettivi.

L’urbanistica delle emozioni ha le sue parole guida: verde, economia di suolo, compatibilità ambientale, densità edilizia, edilizia sociale, qualità della vita.

L’urbanistica degli interessi forti non collettivi ne ha altre: valorizzazione immobiliare per le Ferrovie dello Stato, sistemazione di buchi finanziari di Expo e Arexpo – con contorno di banche-, lotta all’interno del mondo della ricerca tra pubblico e privato, lotta di potere all’interno del mondo universitario e accademico.

La politica ha anch’essa una sua parola chiave, il passe par tout foglia di fico: partecipazione.

La composizione di questi interessi, quali del tutto legittimi e quali oltre la soglia del legittimo, devono trovare una composizione indispensabile per risolvere due problemi contigui: da un lato la necessità di regolare/autorizzare le trasformazioni territoriali con una velocità compatibile con un adeguato sviluppo economico e sociale del Paese, dall’altro lato allargare il più possibile la base di consenso per limitare le sacche di dissenso spesso strumentalizzate ai soli fini di lotta politica.

Il problema riguarda la formazione degli strumenti di politica urbanistica, il loro procedimento, i tempi, la correttezza metodologica, la condivisibilità e l’efficacia, sia si tratti di strumenti generali, il PGT, sia si tratti di strumenti attuativi come gli Accordi di Programma o persino grandi convenzioni tra pubblico e privato.

L’annuncio dato dal Comune dell’apertura delle consultazioni per la formazione del nuovo PGT e il lancio di un questionario indirizzato alla città pongono un problema metodologico urgente.

Un corretto approccio non può prescindere dalla redazione e assunzione da parte della pubblica amministrazione (PA) di un “protocollo” per la formazione degli strumenti delle politiche urbanistiche, accettato e condiviso dagli stakeholder e dai cittadini, in un ambiente trasparente e basato su di un’accessibilità facile e abilitante.

Come per qualunque protocollo di ricerca si dovrà individuare la materia e il risultato o i risultati attesi, e poi, solo a titolo di esempio, l’individuazione degli attori e gestori del processo, i dati disponibili, quelli da ricercare, la formulazione di prime ipotesi di lavoro, l’individuazione delle fasi e delle attività e la loro successione temporale, le consultazioni, l’adozione di momenti di partecipazione, l’eventuale predisposizione di simulazioni, la redazione del prodotto di ricerca, la sua presentazione per la discussione, la redazione finale.

Alcune delle fasi che ho indicato sono previste per legge: ad esempio per la redazione del Piano di Governo del Territorio, dove esemplarmente non si dice con chiarezza a che punto dell’elaborazione da parte degli uffici della PA debba avvenire la “consultazione”, spesso confusa con la partecipazione. Detto per inciso, chi è consultato deve sapere a che punto del percorso si chieda un suo intervento per dare la risposta appropriata.

Perché la discussione sia produttiva, la pubblica amministrazione deve chiarire cosa intenda per consultazione e partecipazione, attività distinte ma con ricadute reciproche fortissime.

Senza la presunzione di esaurire minimamente la questione largamente dibattuta, basta pensare ai tipi di consultazione open-call o selected-call, due segmenti del crowdsourcing*, oggi messe in atto dal Consiglio Comunale in maniera casuale sul tema del PGT e sul tema degli scali, legati entrambi alla strategia della democrazia partecipativa, detta anche inclusiva, e, per finire, alla “remunerazione” di chi partecipa attivamente alle operazioni di crowdsourcing.

Una prima notazione a proposito del questionario indirizzato ai cittadini: domande che sono solo un elenco di titoli e non una richiesta di opinione ed è difficile capire quale nesso abbiano molte (troppe?) domande rispetto alle determinazione di una scelta di natura urbanistica.

Meglio sarebbe dire che si tratta di un questionario generale dal titolo “la città che vorreste”, ossia ben al di là del perimetro dell’urbanistica come comunemente viene intesa.

Sugli obbiettivi e sull’uso di questo questionario deve ancora essere detto tutto.

* crowdsourcing significa affidare un compito a un vasto e indefinito gruppo di persone (crowd, la folla), tramite una open-call o una selected-call, ovvero una chiamata aperta cui chiunque può rispondere in quanto cittadino (open) o in quanto categoria di cittadini (selected).

Postilla

«Mentre si rafforza l’opposizione di accademici e professionisti al progetto per il riuso degli Scali Ferroviari e mentre, contro il trasferimento delle Facoltà scientifiche dell’Università Statale dal quartiere di Città degli Studi nelle aree exEXPO, si sviluppano le iniziative di contrasto di un comitato di residenti sempre più numeroso e agguerrito ("Salviamo città studi"), il Comune di Milano avvia le consultazioni per il nuovo PGT. E la partecipazione civica? Sarà affidata a un questionario, al quale i cittadini dovranno rispondere entro il 14 aprile (!). Il questionario è organizzato su tematiche generiche e astratte (attrattività e inclusione, rigenerazione urbana, resilienza, qualità degli spazi e dei servizi per il rilancio delle periferie, semplificazione e partecipazione); e, all’interno di ciascuna tematica, su una serie di quesiti dettagliati ai quali rispondere con una valutazione da 1 a 4 (quesiti rispetto ai quali nessun cittadino dotato di buon senso o di un po’ senso civico potrebbe astenersi dall’attribuire un punteggio alto). Insomma: una iniziativa retorica, inutile e particolarmente irritante, perché finalizzata a occultare la forte conflittualità che si sta manifestando nei confronti dell’amministrazione comunale da parte della cittadinanza attiva. Che ormai da decenni partecipazione e trasparenza siano considerate dall’amministrazione di Milano, una procedura meramente retorica la prima, e un inutile orpello la seconda (e, purtroppo, non solo a Milano,vedi l'articolo di Enzo Scandurra , La benedetta partecipazione) già lo sapevamo. Ma in questo caso, l’iniziativa dell’Assessore all’Urbanistica e del suo team di ‘esperti’ sfiora il ridicolo»

«Si tratta di una legge che rischia di portare l'Italia indietro di 40 anni e passerà alla storia come la più grave speculazione mai fatta sulle aree verdi italiane». il manifesto, 28 marzo 2017 (c.m.c.)

Ieri nell’aula di Montecitorio, dopo l’approvazione al senato, si è aperto il dibattito sulla riforma della legge 394/91 sui parchi italiani e le aree protette (relatore Enrico Borghi del Pd). Stando alle reazioni stizzite di quasi tutte le associazioni ambientaliste – sostenute da Sinistra italiana – viene da dire che dopo 26 anni di attesa forse il governo poteva sforzarsi di prestare più ascolto.

Solo Legambiente prova a vedere il bicchiere non proprio mezzo vuoto: il testo della legge 4144 sarebbe stato «migliorato» rispetto al passaggio al senato, eppure, dice la presidente Rossella Muroni, «non è la migliore riforma possibile, anzi a dire il vero non si capisce perché è stato necessario riaprire la 239/91 per introdurre queste modifiche». La sua sensazione è che si sia «persa un’occasione importante per aprire un confronto ampio e approfondito su come vada tutelata e gestita la biodiversità in Italia nel 2017». Più netta, invece, la bocciatura di chi sostiene che con questa legge i parchi diventerebbero «terreno di conquista per partiti e potentati» (Dante Caserta, vicepresidente del Wwf).

Tra gli ambientalisti di vecchia data Ermete Realacci (Pd) – oggi presidente della Commissione ambiente e territorio e lavori pubblici alla camera – intervenendo in un’aula deserta ha detto che questa legge è «un passo avanti per l’Italia che guarda al futuro». Sarà. Ma tra gli addetti ai lavori con referenze green sembra l’unico convinto che questa «riforma» renda le aree protette «un modello di sviluppo per l’intero paese, incrociando natura e cultura, coniugando la tutela e la valorizzazione del territorio e delle biodiversità con la buona economia».

Nonostante il giudizio complessivo non proprio esaltante, alcune note positive – non condivise da altri gruppi ambientalisti – vengono sottolineate da Legambiente, la sua ex associazione di cui è ancora presidente onorario.

In sintesi: sarebbe buono il piano nazionale triennale per le aree naturali protette che ripristina un luogo di concertazione tra regioni e governo con 10 milioni l’anno di finanziamenti, così come la destinazione di almeno il 50% delle risorse disponibili alle aree protette regionali e alle aree marine e anche la norma sulla parità di genere nelle nomine (su 23 parchi nazionali sono solo tre le donne con funzioni da direttore); funzionerebbe anche il rafforzamento di alcuni divieti (eliski e attività di estrazione di idrocarburi), il rispetto della normativa sull’uso dei prodotti fitosanitari, il divieto di introdurre cinghiali nel territorio e la proposta di una conferenza nazionale sui parchi da tenersi ogni tre anni.

Il problema dei problemi, secondo tutte le associazioni ambientaliste, Legambiente compresa, riguarda però la governance dei parchi, ovvero chi decide cosa e sulla base di quali priorità e criteri (o pressioni) di tipo economico.

A questo proposito le critiche al governo si fanno pesantissime. «La riforma – sostiene Italia Nostra – passerà alla storia per la più grande e grave speculazione mai fatta sui parchi e le aree verdi italiani. L’ennesimo piatto da spartire per garantire poltrone e favoritismi politici a danno di un patrimonio unico al mondo».

L’associazione, inascoltata al pari di Wwf, ProNatura, Mountain Wilderness, Lipu, Enpa, Cts e Vas, sostiene che «il presidente resta di nomina politica e per la sua designazione non è richiesta nessuna competenza specifica e riconosciuta in materia ambientale e culturale».

Inoltre, la rappresentanza dello stato, dice Italia Nostra, sparisce dal consiglio direttivo per far posto a rappresentanze degli amministratori locali e «degli interessi produttivi»; e in più gli articoli sull’iter per gli interventi edilizi «non sono per niente chiari e rischiano di generare confusione di interpretazione».

E ancora, la legge riconosce royalty una tantum e non annuali quale contributo compensativo per lo sfruttamento delle realtà industriali che operano nei parchi (multinazionali delle acque minerali e petrolieri, per dire dei rapaci più aggressivi).

Il Wwf aggiunge che le aree marine protette saranno governate da un sistema frammentario disomogeneo e «fortemente condizionato dagli interessi locali» e che la gestione della fauna, non essendo ancorata alle direttive comunitarie, aumenta la possibilità di coinvolgere i cacciatori per gli abbattimenti selettivi.

Fulvio Mamone Capria, presidente della Lipu, ne è convinto: «Il cosiddetto controllo faunistico è interamente affidato ai cacciatori».

La presidente del Wwf, Donatella Bianchi, lancia un appello a tutti i deputati – e ai cittadini affinché si appellino ai presidenti di camera e senato – per convincerli ad accogliere modifiche che gli ambientalisti ritengono fondamentali. Per non «stravolgere il sistema delle aree protette e indebolire la natura».

la Repubblica, 28 marzo 2017 (c.m.c.)

Il Consiglio di Stato blinda il progetto del gasdotto Tap, che approderà in Salento, bocciando i ricorsi della Regione Puglia e del Comune di Melendugno e chiudendo il contenzioso amministrativo iniziato nel 2014. Dopo tre anni di ricorsi e controricorsi, la parola fine arriva nel momento in cui a Melendugno una piccola sollevazione popolare ha bloccato i lavori di costruzione dell’opera. L’espianto di 231 ulivi — primo passo per realizzare il gasdotto — è iniziato il 17 marzo e si è fermato il 21, dopo che circa duecento persone hanno posto i propri corpi davanti a camion e ruspe che avrebbero dovuto portare via gli alberi.

La tensione tra forze dell’ordine e manifestanti ha costretto il prefetto di Lecce Claudio Palomba a chiedere una sospensione a Tap e un parere sulla regolarità autorizzativa al ministero dell’Ambiente. La risposta positiva viaggia da Roma verso il Salento e consentirà alla Trans Adriatic Pipeline di ricominciare i lavori, forte anche della sentenza del Consiglio di Stato, che non influenza direttamente la questione relativa agli espianti ma ribadisce, in 68 pagine, la piena regolarità dell’Autorizzazione unica rilasciata dal ministero dello Sviluppo nel maggio 2015 e della Valutazione di impatto ambientale del ministero dell’Ambiente nel settembre 2014.

Non c’è stata alcuna irregolarità — scrivono i giudici di Palazzo Spada — nelle procedure con cui il Consiglio dei ministri ha preso in capo la questione gasdotto, non avendo raggiunto l’intesa con la Regione Puglia su un’opera che era stata dichiarata strategica a livello nazionale e comunitario. Né — aggiunge la sentenza — era necessario applicare al progetto la normativa Seveso o cercare altri approdi, dopo che erano state vagliate 11 soluzioni alternative a Melendugno.

Proprio la scelta di quel punto d’arrivo, in un’area a forte vocazione turistica, ha causato la levata di scudi di numerosi sindaci salentini, che si sono uniti alla crociata del primo cittadino di Melendugno, Marco Potì, alla quale partecipa da lontano anche il governatore pugliese Michele Emiliano, convinto che l’espianto degli ulivi non abbia ricevuto tutte le necessarie autorizzazioni regionali.

Per Tap, invece, le carte sono a posto e, incassata la sentenza del Consiglio di Stato, si attende solo la nota del ministero dell’Ambiente. Poi sarà tempo di espianti, ai quali — hanno fatto sapere gli attivisti che presidiano il cantiere — ci si continuerà ad opporre fermamente. L’appuntamento è all’alba, ad aspettare i mezzi Tap per provare a fermarli di nuovo. Il timore delle forze dell’ordine è che la tensione possa nuovamente salire, fino ad arrivare agli scontri.

«Per creare le condizioni di autonomia rispetto agli interessi locali, è necessario ricostituire quella dialettica tra funzioni comunali e sovracomunali, tra pianificazione urbanistica e di area vasta». millenniourbano, 28 marzo 2017 (c.m.c.)

Nel corso del 2016 alcuni comuni di province confinanti fanno sapere, con atti dedicati o attraverso modalità informali, di essere interessati ad entrare nel territorio amministrato dalla Città metropolitana di Milano. La bocciatura del referendum di dicembre ha reso il processo di modifica dei confini più complesso, ma viene da domandarsi guardando alle difficoltà in cui si muovono le città metropolitane (non solo Milano) se convenga realmente ad un comune entrare nella Città metropolitana.

Le province sono rimaste nella Costituzione, e anche se molto alleggerite nelle risorse (sia bilanci che personale) continuano a gestire funzioni importanti. Con gli amministratori comunali negli organi provinciali sono ora rappresentati i territori, più che i gruppi politici, e per via del voto pesato ponderalmente sugli abitanti sono il comune capoluogo e i comuni più grandi a contare veramente. Tuttavia anche i piccoli possono farsi sentire se riescono tra loro ad aggregarsi secondo alleanze territoriali.

Nelle città metropolitane invece il doppio incarico del Sindaco, imposto dalla legge, colloca il comune capoluogo in una situazione di assoluto dominio, ben diversa da quella primus inter pares del comune capoluogo negli organi delle province. Alcuni comuni di confine sono attratti dal passaggio alla città metropolitana immaginando facilitazioni nell’accesso a finanziamenti nazionali ed europei, che però saranno in gran parte intercettati dal Comune capoluogo e destinati ai propri cittadini.

Dopo un primo momento di disorientamento, successivo all’approvazione della Legge Delrio, i Sindaci delle città metropolitane, anche quelle dove lo statuto ha previsto l’elezione diretta, hanno cominciato ad apprezzare il potere che deriva loro dal doppio incarico, e difficilmente se ne priveranno, o permetteranno al legislatore nazionale di sottrarglielo. Dispongono di fatto di un territorio molto più ampio, oltre i confini amministrativi, da utilizzare per soddisfare i bisogni dei propri cittadini elettori andando a scaricare gli effetti indesiderati sui cittadini di altri comuni, e sui relativi Sindaci, ai quali quei cittadini rivolgeranno le proprie lamentele. Dispongono inoltre di un potere politico ampliato, anche oltre la semplice somma dei due incarichi, che proietta questi doppi sindaci verso il protagonismo nella futura scena politica nazionale.

Il documento con le linee di indirizzo per l’avvio del procedimento del nuovo PGT (Piano di Governo del Territorio) del Comune di Milano ha contenuti generici (1), e mancano indicazioni su alcuni dei temi oggi più caldi, come le aree degli scali ferroviari, l’edilizia sociale, l’inquinamento atmosferico, o inquietanti, come la scalata di ferrovie al metrò M5 o il rinnovato interesse dell’Amministrazione per la riapertura dei Navigli. Se nel documento poco si dice sulle questioni locali, praticamente assenti sono quelle sovracomunali.

A monte si dovrebbe, secondo logica, prima fare il piano della Città metropolitana, fissando obiettivi, riferimenti e azioni prioritarie sugli aspetti di area vasta, e solo dopo i PGT dei comuni (il piano strategico approvato la scorsa primavera non ha alcuna funzione utile a tale fine). Per contare nel sistema decisionale transfrontaliero e transcontinentale, che si sta formando tra le grandi città del mondo bisogna entrarci con il sistema metropolitano tutto, non con il solo comune capoluogo. Ma bisogna prima pensare a ristabilire condizioni dialettiche, tra due istituzioni, il capoluogo e la città metropolitana, che dovrebbero collaborare pur restando autonome, svolgendo ognuna in modo indipendente le funzioni che le sono proprie.

Pensare ad un’unica struttura che sviluppa sia il PGT del Comune capoluogo sia il PTM metropolitano, che ovviamente sarebbe in capo e controllata dal Comune (come ci insegna l’esperienza del Piano strategico dell’anno scorso), rischia di aggravare il cortocircuito istituzionale, già creato dal doppio incarico di Sindaco sulla stessa persona, confondendo le funzioni comunali dell’urbanistica con le funzioni sovracomunali di pianificazione della Città metropolitana. Le decisioni sugli aspetti di area vasta, di competenza dell’ente intermedio secondo la legge, devono essere prese da un organismo indipendente, autonomo rispetto agli interessi locali.

L’iniziativa del comune capoluogo non è di per se stessa un male, anzi. I problemi sono casomai generati dal doppio incarico imposto per legge. In alcune Province il Sindaco del Comune capoluogo è anche Presidente, ma è una scelta dei comuni, ed è revocabile. Quindi più facilmente negli organi provinciali possono mettersi in moto meccanismi di compensazione o correzione in caso il comune più grande mostri tentazioni egemoniche. In mancanza di organi politici eletti direttamente, che prima rappresentavano i cittadini dell’intera provincia, sono oggi le città capoluogo i quasi unici soggetti ad avere la forza politica e tecnica per promuovere iniziative aggregative all’interno degli organi provinciali.

A Milano si è invece stabilito con legge che l’incompatibilità tra cariche non esiste, qualunque cosa accada. Ma non è l’unico problema, a Milano non solo il capoluogo, ma la stessa Città metropolitana è molto più piccola, almeno in termini di superficie, del sistema metropolitano reale, che si estende fino ad includere polarità urbane e parti consistenti delle province confinanti, anche quella di Novara che si trova in Piemonte. Neppure il PTM sarebbe dunque luogo adeguato (figuriamoci dunque il PGT !) da cui partire per definire il futuro del sistema metropolitano, del quale il capoluogo Milano è motore e indiscusso riferimento nelle relazioni nazionali e internazionali, ma con il quale Milano è anche inestricabilmente connessa, tanto da non potere sopravvivere come soggetto internazionale senza il supporto dei territori con i quali vive in simbiosi (2).

Di tutto questo non si trova riscontro nel documento di linee guida. Da nessuna parte si parla del sistema metropolitano reale, forse anche perché il doppio sindaco non può su quest’ultimo esercitare il potere assoluto che invece gli compete sulla Città metropolitana. E quindi di questo il documento semplicemente non fa cenno, dimenticando che è stata l’OCSE, non un organismo qualunque, ad evidenziare già nel 2006 che il sistema metropolitano è molto più esteso dei confini della vecchia provincia.

L’avviso di avvio del procedimento e le allegate linee guida seguono un’impostazione generica e minimale nei contenuti, adempiendo secondo lo stretto necessario a quanto previsto da una legge regionale che vede l’avvio del procedimento e la relativa consultazione come un mero provvedimento amministrativo senza coglierne, o volutamente ignorando, le potenzialità di coinvolgimento dei cittadini.

La legge non chiede nulla in più di quello che Milano ha fatto, ma uno sforzo in più ci poteva stare visto che si tratta del primo importante atto di pianificazione successivo alla storica istituzione della Città metropolitana a gennaio 2015. Si poteva anche essere un po’ più innovativi nel metodo, oltre che un po’ meno avari nei contenuti. Le linee guida potevano essere basate su un serio rapporto di monitoraggio del PGT in vigore. Il monitoraggio è obbligatorio per legge, ed era stato programmato nella VAS del PGT vigente.

Con i dati del monitoraggio si sarebbe potuto costruire un rapporto per rendere conto sull’evoluzione del territorio e dell’ambiente, sullo stato di attuazione degli obiettivi del PGT vigente, sulla verifica di efficacia delle strategie del piano approvato nel 2012. Tutte informazioni che sarebbero state preziose per coinvolgere su questioni concrete, non su dichiarazioni retoriche, i rappresentanti degli interessi organizzati, i cittadini tutti, per valutare cosa ha funzionato e cosa no dell’esperienza precedente e proporre misure correttive.

Tornando alla discrasia tra Sistema metropolitano e Città metropolitana è evidente che prima del PGT, ma anche del PTM, bisognerebbe pensare a modalità e strumenti di governance che includano nelle scelte di grande scala le polarità urbane che sono esterne alla Città metropolitana ma interne al Sistema metropolitano. Una governance del sistema metropolitano che potrebbe magari essere promossa unitamente dal doppio Sindaco con la Regione, che si farebbe carico di garantire la partecipazione delle polarità urbane delle province confinanti, e potrebbe per Novara collegarsi con la Regione Piemonte.

Potrebbe essere un modo per ricostituire, non solo in via teorica, quella dialettica tra funzioni comunali e sovracomunali, tra pianificazione urbanistica e di area vasta, che è necessaria per creare le condizioni di autonomia rispetto agli interessi locali. Per passare dalla teoria all’operatività bisognerebbe capire se la Regione sia in grado di assumere un ruolo di coordinamento territoriale, funzione che ad oggi non ha mai svolto, a parte qualche tentativo ancora acerbo e preliminare nei piani territoriali regionali d’area e nella variante del PTR attualmente in discussione in Consiglio. Ma questo è un altro discorso, che lo spazio di questo intervento non consente di affrontare (3).

Note

(1) Come bene evidenzia Pierluigi Roccatagliata nel suo intervento su Arcipelago Milano del 22 marzo 2017, a commento delle linee guida che il Comune di Milano ha pubblicato per la consultazione formale di avvio del procedimento che si conclude il 31 marzo.

(2) Sulla discrepanza tra dimensione amministrativa e dimensione reale dei sistemi metropolitani vedere anche l’intervento dell’autore su Millennio Urbano del 4.11.2016 e nello specifico del caso Milanese gli interventi sempre dell’autore su Arcipelago Milano del 14.9.2016 e del 11.5.2016

(3) Il tema dell’adeguatezza del livello regionale nella funzione di coordinamento territoriale è trattato in un intervento dell’autore su Millennio Urbano del 14.04.2015.

». la Repubblica, 27 marzo 2017, con postilla

Un vento nuovo soffia sulle città: il respiro delle rovine urbane e della loro rigenerazione. Tre sono le cause principali che vanno seminando le città di rovine: la deindustrializzazione, con la sua scia di fabbriche abbandonate, ma anche di quartieri residenziali che si svuotano quasi da un giorno all’altro; l’abbandono dei centri storici, sempre più dedicati allo shopping e all’intrattenimento; infine, il crescere delle nuove povertà (che includono gli immigrati ma anche gli emarginati), con la conseguente formazione di ghetti urbani. In tutti questi casi, mentre la città perde la sua forma storica e si espande indefinitamente, sorgono nel suo vivo tessuto nuove barriere: i confini della città diventano confini nella città, dove gli abbienti s’insediano in aree più confortevoli, e gli altri si concentrano nei suburbi.

Potenti meccanismi di rimozione collettiva ci impediscono di cogliere questo processo nella sua preoccupante estensione; solo qualche volta ne vengono a galla aspetti che colpiscono l’immaginazione, come in quella che fu la capitale americana dell’automobile, Detroit, dove dopo le rivolte urbane del 1967 e una crisi che continua fino a oggi, i grattacieli del centro convivono con le baraccopoli tutto intorno, e intanto centinaia di abitazioni abbandonate crollano via via, e la campagna guadagna spazio sulla città, in una sorta di imprevisto ritorno alla natura.

Anche nello stato di New York (per esempio a Buffalo) sono numerosissime le zombie homes, abitazioni abbandonate da chi, dopo la “bolla immobiliare”, non riusciva a pagarne il mutuo e ha preferito sparire nel nulla. Ma «nelle rovine si nasconde la ricostruzione», come ha scritto Béla Tarr (Le armonie di Werckmeister), e nelle città più colte (e più prospere) il recupero delle rovine urbane genera progetti ed esperienze del più grande interesse. L’esempio migliore è lo High Line Park a West Manhattan. Corre lungo la West Side Line, una linea ferroviaria che per cinquant’anni servì una zona di New York a forte densità industriale, poi cessò di operare verso il 1980, e parve destinata alla demolizione. Ma dopo oltre vent’anni di abbandono se ne è fatto un bellissimo, funzionale parco urbano, poco più largo dello spazio occupato dai binari ma lungo oltre due chilometri; una delle destinazioni più popolari di New York, che contribuisce anche alla conoscenza della città, osservata dall’alto.

I binari sono stati lasciati in vista lungo quasi tutto il percorso, e questa preesistenza “archeologica”, insieme con le vedute sulla città e sul fiume, dà alla passeggiata lungo la High Line il gusto e il tono di un’esplorazione della memoria, ma anche di una promessa per il futuro. Non v’è città al mondo che abbia rovine urbane più di Roma; e non penso qui alle baraccopoli e ai suburbi, che pure vi sono, ma proprio alle rovine della Roma antica. Monumenti che sono lì non da vent’anni, ma da venti secoli, ma stiamo rischiando di non vederli più (un antico sottosegretario ai Beni Culturali ha chiamato il Colosseo «un inutile dente cariato »).

La lunghissima convivenza con i resti della Roma pagana e imperiale ha finito col farle apparire come una sorta di quinta teatrale, senza una vera funzione se non quella di alimentare sogni imperiali; e infatti i principali rimaneggiamenti nell’area dei Fori furono fatti in occasione della visita di Carlo V (1536), poi in epoca napoleonica, e infine da un governo fascista che vantava, a vuoto, il ritorno dell’impero sui colli fatali di Roma. Ma non siamo mai riusciti a venire veramente a patti con l’intensa presenza delle rovine, che a Roma penetrano in ogni quartiere, anche nelle periferie. Attorno alla nuda pietra, per citare il titolo di un bel libro di Andreina Ricci (Donzelli), non siamo riusciti a costruire un progetto urbano che integri quelle rovine nello spirito e nella vita della città. Parliamo astrattamente della loro tutela, ma non di come integrarle nella città, da cui anzi ritagliamo con burocratica cecità “parchi archeologici” e aree vanamente “protette”, senza che il cittadino comune sappia nemmeno bene perché.

Sarà forse più facile intervenire su una ferrovia abbandonata a New York che su rovine vecchie di secoli in Europa? Ma allora perché ad Atene sono riusciti a trasformare tutta l’area intorno all’Acropoli in un mirabile parco urbano, una trama di sentieri che raggiunge i Propilei e si snoda lungo le antiche mura, ma anche verso il monumento di Filopappo, secondo il geniale disegno di Dimitris Pikionis? In Italia questo esempio è stato sì riconosciuto (premio Carlo Scarpa della Fondazione Benetton, 2003), ma non capito né preso a modello. La sua sostanza è presto detta: traformare un’“area archeologica”, che come tale rischia di essere uno spazio dell’esclusione, in un vero e vivo pezzo di città, prezioso ma per tutti, senza biglietto di accesso; e dunque farne uno strumento di conoscenza per i cittadini, che è la sola base per una vera tutela.

C’è un nesso fra questa cura sottile, colta, mirata delle preesistenze archeologiche e la recente decisione delle autorità greche di vietare (per quanto ben pagata) una sfilata di moda sull’Acropoli, perché incompatibile con la dignità del luogo? Sì, il nesso c’è: perché fra coltivare la memoria storica mediante i rituali della cittadinanza (una passeggiata intorno all’Acropoli, o sulla High Line) e svendere i monumenti al migliore offerente, considerandoli un’inutile scatola vuota da riempire di “eventi”, c’è davvero un bivio radicale. A Roma, la scelta è: integrare pienamente le rovine nella città facendone patrimonio di conoscenza dei cittadini, o ritagliarle come pompose scenografie di un qualche business da quattro soldi?

postilla

Peccato che Salvatore Settis dimentichi il grande sogno, alimentato da uomini illustri, esponenti di numerosi saperi e animati da profonde passioni (ricordiamo solo Adriano La Regina, Antonio Cederna, Italo Insolera, Vittorio Gregotti, Leonardo Benevolo, Vezio De Lucia) che reiteratamente proposero di fare della ricostituzione dell'unità dei Fori il fulcro d'una rigenerazione dell'intera città, e il grande sindaco Luigi Petroselli che avviò la relizzazione di quel sogno, finalmente divenuto progetto. Si vedano su eddyburg i numerosi articoli contenuti in proposito digitando "progetto fori" nello spazio a sinistra della piccola lente, magari cominciando dall'articolo di Vezio De Lucia Antonio Cederna, Luigi Petroselli, il progetto Fori e dalla sua lezione alla Scuola di eddyburg 2009: L'Appia Antica e il Progetto Fori

Arboreto salvatico. doppiozero online, 26 marzo 2017 (c.m.c.)

Questo, per me, è il tempo del faggio: ogni mattina entro nella legnaia dove ho riposto la legna secca dopo che per un anno era rimasta accatastata al sole e al riparo dalla pioggia al muro sud della casa. Ora il faggio brucia con chiara fiamma dentro la stufa donandomi un tepore sano e buono; così che alzando la testa dal tavolo e vedendo l’inverno sulle montagne e sui boschi è ancora più piacevole riprendere la lettura o un foglio bianco per scrivere a un amico.

Ho incominciato da ragazzo a “sentire” il faggio come albero felice agli dei, e non lo sapevo. Avevo forse dieci anni, quando per la prima volta seguii i famigliari e mio padre nel bosco per aiutare a raccogliere i polloni e i rami dell’assegnazione d’uso civico. I forti cavalli nell’autunno portavano i pesanti carri verso le case degli uomini e davanti a ogni abitazione, nei cortili o nella strada, stavano i mucchi in bell’ordine. Con i segoni a due manici, abbandonati qui dalla Grande Guerra, si segavano i pezzi a misura del focolare e delle stufe e poi con la scure, anche questa residuato bellico, si aprivano i pezzi in quarti. Per il paese e per le contrade era tutto un fervore, e dove c’erano vedove o vecchi c’era sempre qualcuno che dava una mano a preparare la legna.

Con il fratello del nonno, che da poco era ritornato dall’America, anch’io segavo i lunghi tronchi appoggiati su un cavalletto. Ma volevo anche essere rivolto verso un poggiolo dove c’era una ragazzina che usciva a guardarmi. L’odore buono del faggio, anzi della segatura che usciva dal taglio (seppi più tardi che era dovuto ai fenoli dai quali si ricava il prezioso creosoto), si confondeva con quello della neve che dalle montagne a nord si avvicinava al paese.

Da particolari tronchi, dovevano essere diritti e a venatura compatta, venivano conservati i pezzi vicino alla base che poi, spaccati con precisione lungo la venatura, venivano messi a stagionare sotto il portico appesi a uno spago. Da questi pezzi uscivano i manici per ogni uso: scuri, mazze, martelli, picconi, scalpelli perché il faggio è il legno che meglio di ogni altro si adatta alle mani dell’uomo, e ben lo sapevano i veneziani che saggiamente amministravano le faggete per avere gli alberi da remi per le loro navi.

Dove un bel ramo si innestava al tronco con giusta inclinazione, il pezzo veniva scelto per costruire la slitakufa, slittastorta: dal tronco smussato in punta si ricavava lo scivolo e il ramo faceva da stanga, tutto in un unico pezzo. Se poi si mettevano su un asse di ferro e due ruote si otteneva un carrettino per uso di bosco o di campo. Ma noi ragazzi si cercava tra i tronchi quello da cui, segato in tavole e dopo due anni di stagionatura, Giacometto Bhet, il falegname, ci avrebbe ricavato gli sci.

Forse per tutti questi ricordi ho voluto che nel brolo trovassero il loro posto anche tre faggi. Li avevo trapiantati dal bosco comunale una primavera piovosa, prima che comparissero le foglie; erano alti meno di un metro, e siccome è specie che ama l’ombra e l’umidità li ho messi a dimora tra gli abeti e i sorbi. E lì crescono portando i rami verso l’alto; poi, quando gli abeti saranno giunti al punto che dovranno essere diradati, anche i faggi allargheranno la loro chioma, prendendo quell’aspetto rotondiforme che li farà solenni. Ma a godere di questo spettacolo della natura saranno i miei nipoti.

L’anno scorso in autunno, perché questa è la stagione più bella per la foresta di latifoglia, sono andato a visitare forse la più classica faggeta d’Europa. Si trova in Jugoslavia dalle parti dei laghi di Plitvice; e lì tra quelle fustaie eccelse ho voluto raccogliere una manciata di faggiole appena cadute dai rami. Portate a casa e messe in un vaso a fior di terra (sono epigee), questa primavera hanno germogliato; ora le piantule sono alte pochi centimetri ma tra cinquant’anni richiameranno l’attenzione dei passanti.

Il Fagus silvatica L. è albero socievole ed è dotato di facoltà pollonifera, ossia dopo essere stato reciso rigenera dalla base. Il fusto è diritto e regolare, nel bosco i rami sono raccolti nella parte superiore, ascendenti; negli alberi isolati i rami sono più grossi e la chioma è arrotondata. La corteccia è di colore grigio chiaro, liscia, sovente chiazzata di licheni biancastri e, verso il pedale, da muschi dal verde intenso. I rami più giovani tendono al grigioverde. Le foglie sono caduche, lunghe cinque–dieci centimetri, ovali e brevemente appuntite, leggermente ondulate, di colore verde brillante nella parte superiore, più pallide e un po’ pelose nella pagina inferiore. Quando fuoriescono dalla gemma hanno un colore verde tenerissimo e qualche volta, nel ricordo di una fame tra le montagne dell’Austria, le mastico e le mangio come lattuga. Le gemme sono lunghe e sottili, ricoperte da squame brune. Ma è nell’autunno, tra l’ottobre e il novembre, che le faggete prendono quel color giallo rosso squillante che rallegra la selva.

Le radici del faggio sono ben sviluppate e ben “radicate”. Qualche volta, da noi, avvolgono i sassi, penetrano tra gli interstizi della roccia, si sprofondano a cercare la vita dove il tempo ha fatto l’humus con l’aiuto delle specie pioniere. I ceppi di questi faggi ci danno una legna da bruciare compatta e soda, di grande resa: ceppi da notte di Natale.

L’albero del faggio è monoico: gli amenti maschili sono giallastri, penduli dai rametti; gli amenti femminili sono invece eretti e raccolti. I frutti maturano alla fine dell’estate; sono a cupola chiusa, un po’ spinosa, a quattro valve coriacee che contengono da uno a tre acheni di forma trigona, lunghi circa un centimetro e mezzo.

L’areale di questa latifoglia è tipicamente oceanico e non continentale; dalla Norvegia scende al mar Nero e dalle Alpi Transilvaniche si estende sino in Italia; lo troviamo anche sugli Appennini e sui monti della Sicilia; ancora sui Pirenei, in Francia, in Inghilterra. Le caratteristiche del faggio hanno consentito agli studiosi di definire un’area fitoclimatica particolare: il Fagetum che sta tra il più caldo Castagnetum e il più rigido Picetum.

Le foreste possono essere pure ma anche miste con l’abete bianco e altre latifoglie; ma si associa anche al larice, al peccio, al pino silvestre. Preferisce i terreni sciolti, permeabili e freschi, e per le sue qualità di crearsi le condizioni vitali, il terreno della faggeta è uno tra i più fertili. Il faggio si costruisce e conserva la foresta!

la Repubblica, 25 marzo 2017

«È un intervento a gamba tesa della vecchia politica: vogliono trasformare i parchi in un pensionato per notabili a fine carriera. E il sistema è semplice: basta far saltare le competenze tecnico-scientifiche e il gioco è fatto. Fuori i naturalisti, fuori i biologi, fuori gli esperti, dentro chi è pronto a tutto pur di non scontentare i potentati locali». È dura l’accusa di Francesco Mezzatesta, l’ex segretario Lipu che è stato tra i protagonisti della battaglia per la legge quadro sui parchi.

Oggi quella legge, la 394, porta i suoi 26 anni con qualche ruga. I parchi hanno perso un po’ di slancio. Hanno giocato bene in difesa: quando erano assediati dal cemento si sono validamente difesi. Ma adesso bisognerebbe passare all’attacco: fare della natura protetta il motore di un’economia leggera, a basso impatto ambientale. Dunque una riforma sarebbe opportuna, ma quella che lunedì sarà discussa dall’aula di Montecitorio ha suscitato una rivolta nel mondo ecologista. «È una pietra tombale sulla natura italiana», protesta Fulco Pratesi, presidente onorario del Wwf. «I parchi danno fastidio perché costituiscono una barriera contro gli interessi delle lobby locali pronte a dare il via libera a un albergo in zona franosa o a trasformare un sentiero in pista da motocross in cambio di un pugno di voti».

Al centro delle polemiche c’è la governance dei parchi. Le associazioni ambientaliste chiedevano parametri più rigorosi per la nomina dei presidenti. È avvenuto l’opposto. I presidenti continuano a essere di nomina esclusivamente politica e s’indebolisce la figura chiave del direttore: oggi è scelto all’interno di un albo riservato a figure rappresentative della difesa della natura; con la riforma l’obbligo di competenze naturalistiche salterebbe.

«Il direttore verrebbe eletto dal presidente del parco su proposta di una commissione a maggioranza indicata dallo stesso ente parco: sarebbe invece più corretto un concorso con un vincitore secco eletto per titoli», osserva Antonio Nicoletti, responsabile Legambiente per le aree protette. «Quanto al presidente, la riforma prevede di escludere i parchi dalla legge Severino: così potrebbe essere eletto anche un parlamentare in quiescenza, cioè con il vitalizio. Peccato, perché la legge è stata migliorata durante il passaggio in commissione Ambiente».

Se a questi punti aggiungiamo la mancata creazione del parco nazionale del Delta del Po, si ottiene il quadro degli elementi che hanno scatenato la protesta. La valutazione però non è unanime. Federparchi appoggia la norma sottolineando gli aspetti positivi: 10 milioni di risorse finanziarie; un piano triennale che include i parchi regionali e le aree marine protette; il rafforzamento delle sanzioni contro gli abusi; la conferenza triennale sulla Natura dell’Italia.

«Sul profilo ambientale delle persone che assumono la guida dei parchi serve una modifica del testo che spero passerà nel voto in aula», afferma Ermete Realacci, presidente della Commissione Ambiente di Montecitorio. «Ma io difendo questa legge. I sindaci non sono per definizione un nemico: bisogna creare un dialogo. Inoltre viene introdotto il divieto di trivellazione e di eliski ed è stato eliminato l’emendamento che aumentava la pressione della caccia nelle aree contigue ai parchi». Resta però irrisolto il nodo della governance. Da lunedì toccherà al Parlamento decidere.

I

l Mercato divora tutto. I suoi padroni e i suoi servi sono diventati sempre più abili: trasformano i gioielli del nostro patrimoni storico e artistico in lustrini da appiccicare sulle sue merci, e le fragili menti drogate dei consumatori penseranno che quella è la loro unica ragione di essere. il Fatto Quotidiano online, blog di Manlio Lilli, 23 marzo 2017

«Abbiamo condiviso la necessità di sviluppare un sistema di relazioni più efficace e di stipulare un accordo finalizzato a qualificare e rendere più competitiva l’offerta turistica territoriale. Il fine è anche sensibilizzare e coinvolgere tutti gli attori locali e le comunità promuovendo e diffondendo i principi legati alla “cultura di sistema” e alla “cultura dell’accoglienza turistica” con l’obiettivo di incentivare e sostenere la pianificazione e la riqualificazione territoriale in relazione alle esigenze di sviluppo turistico. È necessario incrementare i flussi turistici attraverso l’attuazione di una politica di sviluppo più efficiente e indirizzata a favorire la destagionalizzazione delle presenze». A parlare così è Domenico Casagrande, direttore del Palmanova Outlet Village, il villaggio commerciale appena oltre il casello di Palmanova (Udine) lungo l’autostrada A4.

Cosa c’entri “il primo outlet del Nord-Est dell’Italia e il primo a richiamare visitatori non solo dall’Italia ma anche da Slovenia, Croazia e Austria”, con “l’offerta turistica territoriale” e “lo sviluppo turistico”, è presto detto. Un comunicato del Comune, celebre per la fortezza cinquecentesca a pianta poligonale a stella con nove punte, chiarisce tutto. “Il Palmanova Outlet Village, la città di Palmanova, candidata Unesco, e la Fondazione Aquileia, che opera al fine di valorizzare la città romana, uniscono le forze e guardano alla promozione dello sviluppo turistico regionale a beneficio dei cittadini … È stata, infatti, siglata una convenzione (durata 3 anni) tra Palmanova e l’Outlet Village, che prevede lo sviluppo di strategie e l’organizzazione di eventi d’interesse per la collettività”.

Diversi soggetti uniti per valorizzare il patrimonio storico-artistico-archeologico di un comprensorio ricco di potenzialità. Un progetto condiviso di sviluppo del territorio. “Ogni accordo e strumento che permette di far conoscere, a livello nazionale e internazionale, la bellezza e unicità di Palmanova è valutato positivamente dall’amministrazione comunale. In sintonia con il Palmanova Outlet Village e Aquileia pensiamo di far crescere turisticamente il territorio”, ha commentato il sindaco di Palmanova, Francesco Martines. Insomma, nessun dubbio. Evviva l’accordo. Con questa accezione la notizia è pubblicata da diversi quotidiani e rilanciata anche dall’Ansa.

D’altra parte ci sarà anche una serie di iniziative “in occasione dei principali eventi in programma nella città stellata”. E sono proprio queste iniziative che possono permettere di farsi un’idea più precisa. Di verificare la bontà dell’operazione. Quindi avanti con il “Palmanova Shuttle”, che vedrà impegnati il Comune di Palmanova, l’associazione “Palmanova Città da Vivere”, il Palmanova Outlet Village e la Fondazione Aquileia. Si tratta di “un’operazione turistico-culturale che proporrà, per i mesi di giugno e luglio, ogni martedì, un tour culturale-esperienziale. Si parte la mattina in pullman da Grado per arrivare nella città stellata dove si ammireranno Piazza Grande, Borgo Cividale, la Fortezza e le fortificazioni. Nel pomeriggio una visita ai siti archeologici della città di Aquileia, quindi il ritorno a Grado. Tutto totalmente gratuito. Alle guide che accompagneranno le comitive provvederà il Comune, al pullman l’Outlet. Ma non è tutto.

Il tour-culturale-esperienziale prevede altro. “Alle 12.30 partenza per il Palmanova Outlet Village dove la struttura metterà a disposizione dei turisti un menù a prezzo agevolato/convenzionato in uno o più ristoranti”. Poi, fino alle 16 “i clienti potranno fare visita agli store dello shopping center friulano, beneficiando di particolari sconti grazie alla carta fedeltà”. Così il pacchetto è pronto. Già, perché, nonostante i toni entusiastici del sindaco di Palmanova, del direttore dell’Outlet e di quello della Fondazione Aquileia, un dubbio rimane. Più che legittimo.

E’ proprio sicuro che il “Palmanova shuttle” valorizzi il patrimonio culturale di quella provincia? L’impressione è che piuttosto di un viaggio attraverso il patrimonio culturale di Grado, Palmanova e Aquileia sia una di quelle gite a prezzi stracciati che qualche anno fa andavano di gran moda. Con poca spesa si andava in pullman in varie località italiane. Anche in quelle occasione era prevista una sosta. Per l’acquisto di set completi di pentole, articoli per la casa o enciclopedie. Anche in quelle occasioni era previsto il pranzo. Tutto compreso, allora come ora.

Qualcuno penserà che si tratti di snobismo elitario. In realtà si tratta di qualcosa di molto diverso. Soprattutto più democratico. Il timore che le visite ai monumenti si possano trasformare in viaggi organizzati. Per fare shopping all’outlet di zona.

La Nuova Venezia, 22 marzo 2017 (m.p.r.) con riferimenti

Vicenza. Nuovo blitz degli ambientalisti a Borgo Berga, il “mostro” urbanistico costruito sull’area ex Cotorossi a Vicenza, alla confluenza dei fiumi Bacchiglione e Retrone e all’ombra delle ville palladiane. Un gigante di cemento che rischia di trascinare nel fango anche il tribunale costruito proprio su quell’area, ora al centro di un’inchiesta: domani, il tribunale del riesame si dovrà pronunciare sulla richiesta di sequestro dell’area, che il gip ha bocciato. Proprio per questo ieri attivisti del gruppo “Vicenza si solleva” si sono barricati nella gru che svetta nel complesso residenziale a pochi passi dalla Rotonda. Altri invece si sono incatenati all'interno del cantiere per bloccare i lavori nel mirino della procura, la quale ha chiesto il sequestro dell'area per presunti abusi edilizi.

Quello di ieri è solo l'ultimo di una serie di raid che “Vicenza si solleva” ha compiuto nell’area in cui sorgono il nuovo tribunale, un supermercato, palestra, negozi e appartamenti. La presenza di manifestanti dentro l’area è stata confermata dalla polizia, presente con due pattuglie e con i dirigenti della Digos, che identificheranno i manifestanti. Da quanto si è appreso, i responsabili della società “Cotorossi” proprietaria dell'area, non hanno richiesto lo sgombero del cantiere. Sulla vicenda ha preso posizione il senatore Enrico Cappelletti (M5S): «Alcuni cittadini hanno manifestato all'interno dei cantieri di Borgo Berga per bloccare i lavori, cosa che avrebbe dovuto fare la politica vicentina che invece si è dimostrata totalmente incapace di fermare la più grande speculazione edilizia mai realizzatasi nella città di Vicenza. E' assurdo come si sia consentita una cementificazione. Ci siamo battuti per anni assieme a numerosi comitati di cittadini ed associazioni perché venisse detta una parola di verità sulle numerose irregolarità che hanno connotato la realizzazione di questo autentico sfregio alla città. L’amministrazione se ne deve assumere tutta la responsabilità» continua il senatore M5S.
«Ora grazie al lavoro della Procura abbiamo la ragionevole certezza che l'opera sia abusiva, realizzata in violazione delle distanze dai corsi d’acqua, dei vincoli storico-architettonici, delle norme sugli appalti, e dell’obbligo della valutazione ambientale. Sappiamo che oltre alla devastazione del territorio e al rischio idrogeologico vi sono stati danni milionari al Comune derivanti dalle cessioni di terreni pubblici e dalla costruzione delle opere di urbanizzazione. Ci auguriamo che l'amministrazione prenda finalmente le misure necessarie per porre fine a questo scempio ed avviare le procedure di demolizione» conclude il senatore Enrico Cappelletti.

riferimenti

Francesca Leder era intervenuta su eddyburg sulla vicenda urbanistica Borgo Berga a Vicenza: il grande inganno della riqualificazione urbana, e sulla questione delle responsabilità politiche e sul ruolo degli intellettuali Veneto 2014: il sacco del territorio e il silenzio della cultura con postilla. Sulla vicenda giudiziaria si veda Urbanistica, procura Vicenza mette sigilli al cantiere di Borgo Berga di Francesco Erbani, che aveva scritto anche Basta costruire gli architetti ora rigenerano e “Un tunnel sotto le ville del Palladio” Rivolta a Vicenza

Ampia analisi dei problemi che pongono a Firenze e ai suoi cittadini il turismo sregolato di massa e la svendita della città al turismo "ricco". la città invisibile, 21 marzo 2017 (c.m.c.)

«Il testo è la trascrizione dell’intervento al convegno promosso dall’Assemblea dei Comitati Fiorentini e dalla ReTe dei Comitati per la Difesa del Territorio, Città pubblica vs città oligarchica. Vita immaginata e desiderata, politica subìta, Firenze»

La riflessione che segue tenta di dare delle prime risposte, certamente molto perfettibili, a tre domande fondamentali:quali sono le caratteristiche quantitative e qualitative del turismo a Firenze, chi ne trae i benefici e chi ne paga i costi, tenendo conto che l’impatto del turismo sulla vita dei cittadini varia in ragione dell’età e del luogo di residenza; quali sono alcuni caratteri peculiari della popolazione residente e come sono distribuiti nelle varie parte delle città; infine; quali politiche potrebbero o dovrebbero essere attuate per migliorare la qualità dei vita dei fiorentini (e anche dei turisti-ospiti).

Turismo

Quanti sono i turisti che vengono a Firenze?

Nel 2015 sono stati registrate ufficialmente oltre 9.200.000 presenze, con quasi 7 milioni di stranieri, mediamente di oltre 25.000 unità giornaliere. La spesa annuale delle sole presenze registrate è superiore a 1 miliardo e 200 milioni [1] ed è interessante chiedersi dove va a finire questo fiume di denaro, quante tasse siano pagate e quanto torni alla città, di fronte ai costi diretti dei servizi forniti ai turisti e a quelli indiretti legati all’uso della città.

Tuttavia questi dati sottostimano l’impatto turistico, perché non sono conteggiate né le presenze in nero degli affittacamere che lavorano con Airbnb o Homelidays, né il turismo “mordi e fuggi” che arriva a Firenze con i pullman. Inoltre, la distribuzione delle presenze turistiche varia stagionalmente e in certi periodi può superare le 50.000 unità, una popolazione dello stesso ordine di grandezza dei residenti nel Quartiere 1 (67.000 abitanti), ma concentrata sul quadrilatero centrale, quello che va da Piazza del Duomo ai Lungarni e da via Verdi a via Tornabuoni, con un’appendice Oltrarno. Le conseguenze sono note.
La prima è una progressiva desertificazione delle attività al servizio dei residenti, i negozi della “quotidianità”, sostituiti da negozi di lusso e comunque rivolti alla domanda turistica nell’area più centrale e una proliferazione pervasiva della somministrazione di cibo e bevande con l’occupazione dello spazio pubblico da parte dei dehors e la conseguente movida nelle aree circostanti: secondo stime di Confcommercio, negli ultimi 25 anni hanno chiuso oltre 30 mila attività legate alle tradizioni [2].

La seconda è una torsione del mercato immobiliare a favore degli affitti brevi a visitatori stranieri; ne segue che, come a Venezia, una parte consistente del patrimonio immobiliare è destinata a una domanda “ricca” cui non possono competere né i fiorentini, né altri tipi di utenti più deboli, come gli studenti universitari che costituiscono una popolazione considerevolmente numerosa e sicuramente una linfa vitale per la città: sono circa 50.000, di cui il 30% fuori sede (15.000).

In sintesi, tutto il mercato immobiliare, sotto la spinta dell’amministrazione fiorentina, si sta orientando verso il lusso e i clienti ricchi, mentre ci si dimentica del disagio abitativo che interessa gli strati più deboli della popolazione, né viene messa in cantiere alcune azione concreta per colmare il gap tra richiesta ed offerta di edilizia sociale; quest’ultima relegata come contentino per rendere accettabili presso l’opinione pubblica le operazioni speculative.

I cittadini di Firenze

Il turismo affidato solo al mercato è certamente una causa del deterioramento della vivibilità della città, sia da un punto di vista strutturale, per le distorsioni nel mercato immobiliare, degli affitti e dell’offerta commerciale, sia dal punto di vista della quotidianità, per l’occupazione e l’uso dello spazio pubblico.

Ma chi sono i fiorentini, accettando in prima approssimazione di identificarli con i residenti a Firenze? E quali sono i punti di maggiore attrito con i flussi turistici che ormai raddoppiano la popolazione nell’area centrale? Infine, quali sono le politiche per migliorare la qualità di vita dei fiorentini, ora paradossalmente sempre più estranei alla loro città?

La prima considerazione è che le politiche urbane non agiscono indifferentemente sulle varie fasce di età (oltreché reddituali, ma non abbiamo dati a questo proposito). Ciò che può essere gradito ai giovani (la movida, ad esempio) può essere estremamente fastidioso per gli anziani; la domanda di mobilità e l’uso dei mezzi di trasporto possono essere altrettanto diversificati tra ragazzi, giovani, classi centrali e classi anziane.

L’età è quindi un fattore fondamentale per l’orientamento e il gradimento delle politiche urbane. Come è distribuita da questo punto di vista la popolazione fiorentina?

I dati aggiornati al 2016 ci mostrano una popolazione fiorentina molto più anziana (65 anni e oltre) della media nazionale (il 26% contro il 21% della popolazione italiana), con un indice di vecchiaia pari a 213 punti contro una media nazionale di 161 punti. Significa che per ogni fiorentino nell’età da 0 a 14 anni vi è un numero più che doppio di ultra sessantaquattrenni. Da notare che la distribuzione della popolazione per fasce di età non è omogenea per quartiere: gli indici di vecchiaia variano da quartiere a quartiere con un massimo nei Quartieri 2 (Campo di Marte) e 3 (Gavinana-Galluzzo), per scendere leggermente nel Quartiere 4 (Isolotto Legnaia) un po’ più marcatamente nel Quartiere 5 (Statuto -Novoli), mentre la popolazione è decisamente più giovane nel Quartiere 1 (centro storico) e ha perciò anche un indice di dipendenza molto più basso (circa il 50%, mentre negli altri quartieri si attesta tra il 61% e il 68%)

Questo dato è interessante e dipende dal fatto che la classe degli ultra sessantaquattrenni nel centro storico è meno numerosa rispetto al resto della città, in particolare i quartieri 2 e 3, ciò che non può che essere dovuto a un deflusso della popolazione più vecchia e più debole a favore dell’affitto agli stranieri o dei cambi di destinazione. Analogo è l’andamento dell’indice di dipendenza strutturale. Sulla composizione demografica sicuramente hanno avuto un peso i movimenti migratori, soprattutto provenienti dall’estero.

Firenze, negli ultimi 14 anni ha contato 223.586 immigrati contro 156.692 emigrati, con una componente straniera di oltre 63.000 unità e un numero complessivo di residenti a Firenze nati all’estero pari a 67.115 unità. In sintesi il 18% della popolazione residente a Firenze è nata all’estero e si concentra soprattutto nel centro storico, dove è un quinto della popolazione residente (nel Quartiere 1). Riassumendo: la popolazione residente a Firenze è molto più anziana rispetto alla media nazionale e non è distribuita in modo omogeneo nei diversi quartieri. Il centro storico ha subito un processo di ringiovanimento per effetto dell’immigrazione dall’estero e dell’allontanamento o la non sostituzione della popolazione anziana. Un sesto della popolazione fiorentina è costituita da immigrati dall’estero, con una distribuzione non uniforme per quartiere.

La città attuale

Le politiche del Comune di Firenze nell’ultimo decennio, non hanno tenuto in alcun modo, né della struttura demografica (quindi anche sociale) della popolazione residente, né dei problemi di vivibilità che la pressione turistica creava sulla città. Non solo il turismo viene gestito dal mercato, ma l’amministrazione fiorentina ha seguito e incoraggiato il mercato in una tendenza evolutiva sempre più a favore della domanda ricca, conseguenza a sua volta di una distribuzione della ricchezza sempre più ineguale a livello mondiale.

Questo è avvenuto fondamentalmente in tre direzioni. La prima è stata quella di accentuare il ruolo di “salotto buono” del centro di Firenze, con la destinazione di risorse e con la pedonalizzazione dell’area più interna; pedonalizzazione [3] che (in assenza di una politica decente dei trasporti) ha spostato il traffico sulla cintura immediatamente circostante e in qualche strada “disgraziata”. Inoltre in alcune aree limitrofe si sono spostate attività lecite, ma fastidiose o illecite o “border line” come il gioco d’azzardo. Un esempio emblematico è la situazione di via del Palazzuolo descritta in modo molto puntuale ed efficace in uno scritto di Marta Baiardi che andrebbe riletto con attenzione: «Spaccio, risse, violenza, ludopatia, illegalità diffusa sono esperienza quotidiana di chi qui vive e lavora, con un restringimento di spazi di vivibilità per tutti e un abbassamento della qualità della vita inquietante».

La seconda direzione è quella della vendita effettuata o promossa dal Comune di immobili pubblici dismessi con Variante incorporata verso la destinazione di alberghi o residenze di lusso e in subordine, di attività commerciali sempre di lusso: un centro di Firenze tutto destinato al mercato più ricco. Vale a dire che via via che edifici e complessi pubblici vengono dismessi – si pensi al tribunale di Firenze, alla scuola militare di Costa San Giorgio, alla Manifattura Tabacchi, alle Murate, alle Poste centrali di Michelucci, al Panificio militare, ma vi sono decine di esempi – le nuove destinazioni sono scelte esclusivamente sulla base dei desiderata dell’eventuale compratore, cioè delle preferenze del mercato.

La terza direzione è complementare alla precedente e consiste un sostanziale abbandono delle periferie (che fine ha fatto il progetto concorso per 10 nuove piazze di Firenze e successivamente gli ulteriori concorsi, ad es. piazza dell’Isolotto?). Meno traffico in centro, più traffico nelle periferie, martoriate anche dalle linee della tramvia veloce progettate come binari e non come occasioni di riqualificazione dello spazio pubblico. Inoltre, la tramvia consente a una quota di pendolari di rinunciare all’uso dell’automobile (il 25% a seguito dell’entrata in esercizio della linea1, con una media giornaliera tra i 30.000 e i 40.000 passeggeri), ma non risponde alla domanda di spostamenti interni che ha bisogno di mezzi più distribuiti, più capillari e più flessibili.

Le vicende di Villa Fabbricotti potrebbero (lotteremo perché ciò non avvenga) essere esemplari di una politica che considera complessivamente la città come merce da vendere al migliore acquirente. Villa Fabbricotti, di proprietà della Regione e con destinazione a uso pubblico, è stata recentemente messa in vendita. L’iter è il solito: vendita alla Cassa Depositi e Prestiti e da questa a qualche investitore privato con Variante “a la carte” del Comune di Firenze. L’ipotesi non tanto peregrina è che il complesso sia trasformato in albergo o residenze di lusso e il parco venga privatizzato. Attualmente il parco ha un altissimo valore d’uso, perché utilizzato da centinaia di cittadini (e dai loro cani). Il cambio di destinazione farebbe crollare il valore d’uso – da molti a pochi utenti – mentre aumenterebbe in modo simmetricamente opposto il valore di scambio: quella che viene chiamata “valorizzazione” non è altro che la trasformazione del valore d’uso in valore di scambio, con qualche spicciolo di compensazione.

Questo è comunque l’iter seguito finora e che l’amministrazione di propone di proseguire. La radice è di natura politica e prima ancora culturale, di chi non vede altra via di sviluppo se non quello immobiliare e infrastrutturale, nell’offerta di contenitori vuoti che non possono che essere riempiti dal mercato, vale a dire da investitori con orizzonti temporali e “opzionali” assai limitati, perché il circuito investimento-profitto deve essere più breve possibile. Perciò la risposta di un’opposizione che voglia diventare governo non può che essere prima di tutto culturale e politica. Questo convegno e un primo passo in questa direzione.

La città desiderata
Una città amica di anziani, donne e bambini
Una pianificazione urbanistica attenta ai mutamenti sociali e demografici dovrebbe tenere conto di tutto ciò, sia nelle scelte infrastrutturali, sia nelle politiche della casa e dei servizi, sia nell’organizzazione dello spazio pubblico (v. punto seguente).

Un primo fattore di cui tenere conto è che invecchiando sempre meno si usa l’automobile individuale, a maggior ragione nel congestionato traffico della città, sempre si più amano gli spostamenti a piedi o in bicicletta (otre che con un efficiente trasporto pubblico). Il modello urbanistico fatto di grandi attrattori decentrati, in primis i centri commerciali raggiungibili solo con mezzi di trasporto privati e, in generale, un sistema di spostamenti da casa basati sull’automobile, non solo consolida le fonti di inquinamento, ma è obsoleto perché basato sulla struttura demografica tipica degli anni ’60, fatta di famiglia giovani con figli numerosi, mentre nel 2016 a Firenze la famiglia media è costituita da due persone.

A distanza di 50 anni, l’idea di crivellare la città con parcheggi sotterranei, oltre a quanto si è accennato in precedenza, si rivela una scelta non a favore degli abitanti ma degli interessi immobiliari – salvo casi particolari – e rende permanente il traffico attorno alle aree pedonalizzate. Significa fin da ora rinunciare a una prospettiva, non certo immediata ma possibile, di una città sempre più libera dalle automobili e dal traffico.

Un secondo ordine di considerazioni riguarda la popolazione più giovane. Fino a dieci anni fa vi era in alcune città italiane (non a Firenze) una certa attenzione alle problematiche della “città dei bambini” e in alcuni casi le buone intenzioni sono state tradotte in esperienze concrete. Non deve stupire che una città amichevole e fruibile dai bambini sia anche particolarmente adatta per le persone anziane (spesso le due figure si accompagnano, quando i genitori sono al lavoro). Le implicazioni sociali e urbanistiche sono da una parte un’estesa pedonalizzazione che renda sicuro e piacevole camminare in città, dall’altra una localizzazione di servizi e di attività commerciali che sia ben distribuita e che non implichi la necessità di spostamenti in macchine per gli acquisti o le prestazioni di servizio di tutti i giorni: il contrario della tendenziale (e in molte aree già attuata) desertificazione delle attività a supporto dell’abitare a favore di quelle rivolte al turismo.

E poiché sono spesso le donne che reggono sulle spalle l’assistenza agli anziani e la cura dei bambini, una città amichevole per entrambi è amichevole anche verso le donne, ne rende meno stressante la vita e forse, costituisce un incentivo alla natalità più che operazioni pubblicitarie o mance una tantum. Centrale, in questo recupero della città in favore dei bisogni e della qualità della vitta dei cittadini e il ruolo dello spazio pubblico sia da un punto di vista quantitativo che – soprattutto – qualitativo.

Una città che recupera ed estende lo spazio pubblico

Lo spazio pubblico di Firenze è il risultato di una grande costruzione collettiva durata vari secoli e arricchita dalle generazioni che via via hanno abitato la città. Lo spazio pubblico costituisce la “struttura” della città che ne tiene insieme le varie parti, non solo collegandole funzionalmente, ma integrandole e arricchendole di edifici collettivi e monumenti. Caratteristiche precipue dello spazio pubblico, così come si è venuto configurando storicamente, sono la sua multifunzionalità (essendo contemporaneamente spazio economico, commerciale, religioso, politico), la sua “continuità”, rendendo permeabile e percorribile l’intera città, la sua gerarchizzazione, essendo le emergenze collegate e orientate verso il centro in modo da essere fruibili da tutti i cittadini: qualità tutte negate dalle trasformazioni degli ultimi decenni e neanche prese in considerazioni dalle politiche urbanistiche più recenti che, invece, favoriscono consapevolmente la privatizzazione dello spazio collettivo.

Una politica di ricupero e valorizzazione dello spazio pubblico esistente e di costruzione dello spazio pubblico dove questo manca come nelle recenti periferie, implica una riduzione del traffico automobilistico e una conseguente pedonalizzazione della città, soprattutto nelle zone dove piazze e strade sono diventate parcheggi di superficie. Significa, in modo complementare, valorizzare gli spazi aperti residui nel tessuto urbano, anche quelli interni agli isolati (di cui l’amministrazione Domenici ha promosso colpevolmente la saturazione) recuperandoli all’uso pubblico, preferibilmente come giardini o spazi naturali. L’obiettivo finale è una città “permeabile”, dotata di uno spazio pubblico continuo, fatto non solo di piazze, parchi e giardini, ma anche di spazi minori, più intimamente legati al quartiere in cui sono collocati, fruibile a piedi o in bicicletta per mezzo di una rete di percorsi protetti e dove possibile, indipendenti da quelli destinati al traffico motorizzato. La costruzione delle linee della tramvia veloce era un’ottima occasione per integrarne la progettazione con quella dello spazio circostante, promuovendo, come è accaduto in Francia in analoghe circostanze, un’ampia ristrutturazione della città dove questa è particolarmente carente di spazi di socializzazione.

Un’occasione non solo persa, ma neanche presa in considerazione dall’amministrazione fiorentina, dove tutto viene progettato e gestito in modo settoriale e scoordinato. Una politica di (ri)costruzione dello spazio pubblico implica un’estesa e effettiva partecipazione di cittadini alle scelte urbanistiche a monte e una progettazione condivisa e contestuale delle infrastrutture di supporto. La partecipazione promossa dall’amministrazione fiorentina è stata finora solo la ricerca di consenso su opere già decise o un inutile esercizio perché le proposte dei cittadini e associazioni non sono state prese in considerazione, né hanno lasciato traccia nelle successive politiche. Inutili concorsi hanno solo rappresentato uno spreco di risorse (come quello per la creazione di una serie di piazze periferiche, mai realizzate, sotto l’ironica etichetta di “progettare insieme”).

Un’idea di città e il ruolo di Firenze. Il Sindaco La Pira pensava a un ruolo di Firenze come ambasciatrice della pace nel mondo. A prescindere dai contenuti utopici della proposta, La Pira aveva compreso che la fama di Firenze, il suo prestigio artistico e culturale, offrivano alla città la chance di ritagliarsi un ruolo di livello internazionale e che la sua attrattività poteva essere una carta da giocare per obiettivi più “alti” dello sfruttamento banale del turismo. Nel periodo che ha separato gli anni ’60 dai nostri giorni, una proposta innovativa e intelligente sul ruolo di Firenze è venuta negli anni ’80, durante l’amministrazione Bogianckino, da Giacomo Becattini, economista di grande caratura, che ha sostenuto, in varie occasioni e con ampie argomentazioni, la grande opportunità della città di diventare un laboratorio culturale di livello mondiale.

Da una parte, si proponeva di mettere in rete e potenziare le numerose istituzioni culturali, pubbliche e private, operanti a Firenze, come dipartimenti universitari italiani e stranieri, musei, centri di ricerca, opifici, biblioteche, gallerie, per creare un sistema collaborativo e aperto (si noti che senza internet, all’epoca l’impresa era molto più ardua di quanto possa essere adesso).

Dall’altra si trattava di riconvertire, almeno parzialmente il turismo di massa, che doveva essere gestito e rieducato, in un turismo “stanziale” di studio e di ricerca, cui avrebbero potuto contribuire anche imprese multinazionali in cerca di sedi fiorentine gradite ai loro quadri tecnici e dirigenziali. Patrimonio culturale, qualità della vita urbana, bellezza delle architetture e del paesaggio, potevano costituire la base sinergica e “strutturale” su cui progettare un nuovo e importante ruolo culturale e scientifico di Firenze.

Questa proposta, accolta inizialmente con favore, ma solo a parole, dalle forze politiche, è stata completamente dimenticata; di più: nessuna proposta alternativa, nessun disegno di pari livello è stata fatta negli ultimi trenta anni e l’argomento è stato abbandonato. Ne sono prova le ultime campagne elettorali, dove gli obiettivi proposti ai cittadini sono la realizzazione di infrastrutture come uniche produttrici di reddito e di occupazione e come se non esistessero altre chances e altre opportunità. Di nuovo gli strumenti, in questo caso le grandi opere, sono proposte quali finalità ultime, indipendentemente dal fatto che siano utili o meno. Nessun disegno complessivo per Firenze, i cui destini sono lasciati al mercato, di cui il Sindaco stesso è diventato promotore e facilitatore.

Il disegno di Firenze come grande laboratorio culturale aperto al mondo non ha perso la sua validità e potrebbe guidare le destinazioni da assegnare agli edifici dismessi in un disegno organico, a seconda delle obiettive opportunità urbanistiche, come l’accessibilità, le possibilità di integrazione con altre attività, lo stato dei luoghi, il tessuto sociale in cui si inseriscono. Perciò una importante rivendicazione da avanzare è la richiesta di un disegno organico e innovativo per una Firenze che diventi luogo di ospitalità per un turismo colto, di studio e ricerca, oltre che di affari e di convegnistica.

Le varie opportunità si integrano e possono benissimo mettere d’accordo interessi pubblici e privati, senza la distruzione del tessuto sociale e fisico della città.

Note al testo

[1] Distribuiti alla popolazione fiorentina equivarrebbero a 3.200 euro pro-capite.

[2] Spiega Aldo Cursano, presidente toscano Federazione pubblici esercizi: «Ha retto soltanto il dieci per cento delle botteghe storiche». Uno stillicidio. Una città sempre più a misura di visitatore, poco attenta ai residenti. «Prima, uscendo di casa, salutavo tutti, e tutti salutavano me — racconta un ex residente —, oggi invece non conosco più nessuno e se ho bisogno di una mano, nessuno mi aiuta».

[3] Il cuore di Firenze, dopo che l’allora sindaco Renzi decise a sorpresa di pedonalizzare piazza Duomo e cancellare il contestato passaggio della linea 2 accanto al Battistero, dal 2009 è rimasto senza un servizio di trasporto pubblico forte.

». il manifesto, 22 marzo 2017 (c.m.c.)

Frutto del generale decadimento culturale, stiamo assistendo a una progressiva banalizzazione del ruolo delle aree protette, considerate a volte semplici agenzie di sviluppo locale, a volte nuovi enti intermedi da amministrare secondo le logiche della politica locale.

Si rischia così di annullare il loro autentico ruolo che è quello di esprimere e di tradurre in concreto una visione alta dei problemi che riguardano il territorio e la conservazione della natura.

Il rischio è ormai prossimo. È in corso in un Parlamento distratto, e con un’opinione pubblica ignara, un processo diretto a modificare l’attuale ottima legge-quadro (la 394 del 1991) che rappresenta una vera e propria controriforma. Siamo alle battute finali: in questi giorni la Commissione ambiente della Camera ha votato gli emendamenti a un pessimo disegno di legge approvato a novembre dal Senato e certo non lo ha migliorato; la discussione in Aula è già stata calendarizzata per il 27 marzo; dopo di che la proposta tornerà al Senato per il probabile voto finale.

Fortissima è l’opposizione del movimento ambientalista che in questi mesi proprio su tale questione ha ritrovato l’unità: grazie al “Gruppo dei Trenta”, che è riuscito a interrompere una posizione troppo attendista, e alla determinazione di due donne, le presidenti del WWF e di Legambiente, ben 16 associazioni ambientaliste stanno lottando contro questa controriforma. Sollecitate dall’apparente interesse e dalle richieste del presidente della Commissione Realacci e dal relatore Borghi, hanno anche presentato precise proposte con due rivendicazioni centrali: organi di governo dei parchi nazionali qualificati; pari dignità tra parchi nazionali e aree marine protette, perché queste costituiscono l’anello debole del sistema.

Nessuna delle proposte più significative è stata accolta e per di più il presidente ha impresso una forte accelerazione al processo nell’evidente intento di chiudere ogni discussione, creando oltre tutto grave imbarazzo in quella parte del movimento (Legambiente) che a lui fa riferimento.

Eppure le critiche delle associazioni sono più che fondate. La proposta, pur se contiene alcune misure positive, cancella proprio gli ingredienti che hanno decretato il successo della legge-quadro e che riguardano i parchi nazionali: sapiente dosaggio tra interessi nazionali e interessi locali, significativa presenza della rappresentanza scientifica, effettiva partecipazione delle comunità locali. Ma ciò che appare più grave è proprio l’assoluta dequalificazione degli organi di governo: il presidente è sufficiente che sia un soggetto di generica «comprovata esperienza nelle istituzioni o nelle professioni»; per il consiglio direttivo, fino a oggi composto dai rappresentanti degli interessi generali, si prevede, per un verso, l’ingresso delle organizzazioni professionali degli agricoltori e dei pescatori , cioè degli interessi corporativi, e, per altro verso, l’esclusione del mondo scientifico.

Certo, la proposta prevede il possibile inserimento di un rappresentante delle «associazioni scientifiche maggiormente rappresentative», ma tale previsione tradisce ipocrisia e incultura: infatti quel rappresentante è inserito in alternativa all’Ispra, che istituto scientifico non è; la scelta è frutto non dell’autonoma designazione del mondo scientifico (Accademia dei Lincei.
Università, Cnr), come era stabilito originariamente dalla legge-quadro, ma della diretta indicazione del ministro dell’ambiente; e soprattutto la proposta dimostra scarsa consapevolezza, se non disprezzo, del ruolo della scienza della quale offre, con il riferimento a un’impossibile maggiore rappresentatività, una concezione di tipo “politico-sindacale”. Viene così mortificato quel mondo che ha illustrato la storia oramai secolare dei parchi nazionali italiani e il cui contributo oggi diventa necessario perché i problemi della gestione del territorio e della conservazione della natura esigono sempre di più un approccio autenticamente scientifico, fondato cioè sul principio dell’autonomia.

Completano questo degrado le norme sul direttore, nominato a seguito di selezione pubblica. I titoli sufficienti per partecipare alla selezione sono la laurea in una qualsiasi disciplina nonché una «particolare qualificazione professionale» e una «comprovata esperienza di tipo gestionale», espressioni queste insignificanti; non si richiedono altri titoli né esami. Se poi si considera che viene selezionata una terna e non un vincitore, che la commissione valutatrice è scelta per due terzi dal consiglio direttivo e che la nomina compete al presidente del parco, diventa ovvia la conclusione: se la proposta verrà approvata i Parchi nazionali saranno gestiti esclusivamente in base alle scelte e ai condizionamenti imposti dalla politica locale.

Trapela da queste norme un’aberrante visione confermata dalla soppressione, nascosta nelle pieghe dell’articolato, della Carta della natura: viene così rovesciato il significato delle aree naturali protette, tradita la centralità della natura, alterato il sistema di valori che in tutto il pianeta è alla base della istituzione e della diffusione dei parchi nazionali.

Ha ragione Vittorio Emiliani quando nel suo appello al presidente Gentiloni scrive: «Ciò che non riuscì ad Altero Matteoli e a Stefania Prestigiacomo sta riuscendo al Pd e al governo».

«Un trasloco problematico per la città. Ma chi decide?» ArcipelagoMilano, 15 marzo 2017 (m.c.g.)

Vorrei tornare sulla questione del trasferimento delle Facoltà della Università Statale all’area Expo e del destino di Città Studi, riguardo al conflitto tra interesse del cittadino e interesse finanziario.

Rimando alle documentate argomentazioni già pubblicate su ArcipelagoMilano prodotte dall’associazione “Che ne sarà di Città Studi?” e dal Municipio 3 per chi ne volesse sapere di più, limitandomi qui a riassumerle per sommi capi ad uso di chi ancora non le conoscesse.

L’Università Statale ha intenzione di spostare le sue numerose facoltà dislocate nel quartiere Città Studi nelle aree di Arexpo, ove creerebbe un nuovo campus universitario. Ciò tra l’altro avverrebbe in concomitanza con il trasferimento altrove dell’Istituto Tumori e del Besta, liberando così complessivamente nella zona circa 350.000 mq di edifici. Il che vuole anche dire che almeno 20.000 persone, studenti e impiegati, cesseranno di usare quei servizi diffusi in tutto il quartiere, dai mezzi di trasporto alle attività commerciali e residenziali, che ne fanno ora un quartiere ottimamente servito e vitale.

È evidente che una così massiccia dismissione, con poche o nessuna prospettiva di rioccupazione degli edifici abbandonati per gli anni a venire, produrrà con certezza un lungo periodo di gravissimo degrado per l’intero quartiere. Mentre 20.000 persone saranno trasferite in una zona molto più periferica, che per un certo tempo difficilmente garantirà loro lo stesso livello di servizi disponibili a Città Studi.

Perché tutto ciò avviene? Per quanto è riassunto nella lapidaria considerazione del Rettore della Statale: per ristrutturare le attuali sedi storiche del quartiere «Avremmo costi di circa 1.500 euro al metro quadro. L’investimento complessivo sarebbe analogo a quello necessario per il trasferimento sulle aree Expo».(Il Fatto Quotidiano 19 luglio 2016)

Dunque per il Consiglio di Amministrazione dell’Università è ovvio che il gioco non vale la candela, conviene abbandonare Città Studi e trasferirsi in una nuova sede sui terreni di Arexpo, così risolvendo anche parte del problema di quest’ultima: come far fruttare la sua faraonica e per ora deserta urbanizzazione.

Proprio questo è il punto. È ormai cosa arcinota e acquisita da molto tempo che il “valore” di una città o di una sua parte non è costituito solo dai suoi edifici e dalle sue infrastrutture, ma anche e soprattutto dalla linfa che dà loro un senso: la presenza di attività umane e del loro intrecciarsi in un legame di reciproca necessità e valorizzazione. Senza questa linfa edifici e infrastrutture perdono ogni valore, e il degrado si estende a tutto l’intorno. Dunque è questa linfa che conferisce il “plusvalore” anche ai beni privati, e che in buona sostanza rappresenta ciò che si può definire “bene comune”, in quanto immateriale e generale generatore di valore.

Inoltre negli ultimi decenni la capacità dell’uomo di creare artificialmente qualità urbana dovunque lo si decidesse si è dimostrata una pericolosa illusione, che a fronte di pochissimi casi felici ha generato moltissimi mostri, di cui sono piene le periferie.

E a Città Studi, che ha già sofferto per i molti vuoti lasciati dalle scelte tecnico-finanziarie dei decenni precedenti (vedi zona Rubattino – Lambrate ma non solo), ci è voluto più di mezzo secolo per creare una fitta e solida rete di attività di commercio e servizi legate alla presenza quotidiana di studenti, docenti e impiegati. Il che ne fa una zona di Milano attiva, un corpo vivo, parte sana della città .Un perfetto esempio di “bene comune”, amplificato dalla qualità della sua urbanistica ottocentesca, con molto verde, e dagli edifici di cui è composta, comprese le sedi accademiche, alcune di valore storico.

È dunque ormai diffusa la consapevolezza che per la qualità di vita in una città è importante preservarne il tessuto insediativo recuperando il più possibile sia gli edifici esistenti che la delicata sinergia di funzioni che si è nel tempo creata tra essi e con le infrastrutture circostanti più significative . Conservare e ridensificare anziché dismettere e delocalizzare, anche quando questa operazione comporta investimenti maggiori di quelli necessari per nuove edificazioni, è la base di ogni politica insediativa moderna rispettosa dell’ambiente e delle persone.

Le pressioni del Governo per dare un senso all’operazione aree ex Expo hanno condizionato gli organi decisionali dell’Università Statale, spingendoli a ragionare come banali operatori immobiliari: se a me conviene delocalizzare lo faccio, e del bene comune chi se ne frega.

Peccato che questo messaggio sembri arrivare da una Università che si fregia del titolo di “Statale”, quasi considerasse privo di qualsiasi valore quello che sarebbe invece opportuno insegnare a tutti i suoi studenti, ovvero il rispetto per il bene comune.

Ma certo che una logica più virtuosa non si instaura mai se mancano indirizzi, incentivi e regole. Quindi ancora più deprimente è notare che il Comune e i suoi Municipi non mostrino alcun interesse alla questione, e non prendano posizione, colludendo di fatto con la visione opportunista di Arexpo.

Un’Amministrazione pubblica evidentemente poco interessata ad assumersi l’unico ruolo che le spetterebbe, ovvero quello di guardiano del “bene comune” nell’interesse di cittadini, non di questo o quell’imprenditore ancorché pubblico. Dunque per ora il destino di Città Studi sembra segnato. Viene da paragonare i responsabili di questo scempio annunciato a un ‘equipe di illustri chirurghi di indiscussa professionalità che si preparano a trapiantare un rene (le facoltà universitarie) da un donatore vivo (Città Studi) a un malato (Arexpo, che se no non ce la fa a riempire le sue preziose aree deserte).

Peccato che si siano dimenticati di chiedere al donatore se è d’accordo, e pronti a concludere: il trapianto è stato un successo, il paziente è vivo, sfortunatamente il donatore è morto.

«Il problema principale dello sviluppo, e del turismo, non è l’assenza di musei, di centri storici o di parchi archeologici, ma è la scomparsa del paesaggio, la distruzione di un sapere collettivo». il manifesto, 18 marzo 2017 (c.m.c.)

L’Italia possiede un bene ineguagliabile che è rappresentato dall’enorme Patrimonio culturale stratificatosi per più di trenta secoli e in maniera capillare nell’ordito armonico delle nostre antiche città, dei nostri musei, delle chiese, dei siti archeologici, dei palazzi dei nostri centri storici immersi nel paesaggio. Il paesaggio è l’immagine, lo specchio della ragione e come tale presuppone – in coloro che vi lavorano, erigono palazzi, costruiscono piazze, strade e scuole modificandone il volto – un’intima partecipazione al diritto di goderne, di gioirne e di apprezzarne la bellezza.

La devastazione della gran parte del paesaggio e delle città soprattutto del Mezzogiorno è, purtroppo, la dimostrazione che il riconoscimento e la produzione della bellezza sono attività che i cittadini, soprattutto quelli meridionali, non hanno esercitato, compreso ed interiorizzato da troppo tempo. I cittadini e la classe dirigente del Mezzogiorno non hanno ancora compreso, non hanno voluto comprendere, che con la scomparsa del paesaggio e delle antiche città si scardinava un fondamentale nesso psicologico di formazione identitaria perché la stabilità dei luoghi garantisce alle società un senso di perpetuità, in grado di conservare l’identità individuale e collettiva.

In una temperie culturale nella quale i valori estetici tendono a essere antifunzionali e antieconomici perché di ostacolo all’efficienza e alla misurabilità economica, la consapevolezza che una città del Mezzogiorno, Matera, sia stata scelta come capitale europea della cultura infonde, a noi meridionali, una speranza.

Il paesaggio agrario del Mezzogiorno che sembrava, alla fine della seconda guerra mondiale, ancora immoto agli occhi di Silone e persino di Pasolini, a partire dagli anni ‘50 viene, invece, devastato e consumato in maniera sempre più impetuosa. Dagli anni ’80 del secolo scorso il processo di riduzione a merce del suolo e del paesaggio agrario subisce un’ulteriore e violentissima accelerazione.

In Italia, fra il 1990 e il 2005, ben il 17% della superficie agricola utilizzata è stata cementificata o degradata e, per esempio, la Calabria è in cima a questa classifica negativa con oltre il 26% del suolo consumato, subito dopo la Liguria, prima con il 27% (Istat), con l’inevitabile dissesto idrogeologico che ne consegue. Un’altra statistica (Ispra 2014) ci dice che, al 2001, ben 7 vani su 10 del patrimonio edilizio italiano erano stati costruiti nei soli 55 anni precedenti, ma anche che il consumo di suolo per abitante nel 1950 era di 178mq., nel 1989 di 286mq. e nel 2012 di 369mq.

Le Regioni meridionali contribuiscono più delle altre all’enorme consumo del suolo, prime fra tutte la Calabria con 1.243.643 alloggi, di cui 482.736 vuoti, per poco meno di 2 milioni di abitanti, con la conseguente percentuale più alta di alloggi vuoti: il 38% (Istat). E se in Lombardia ci sono 5 abitanti per edificio, in Toscana poco più di 4, nel Lazio circa 5, nelle regioni meridionali, invece, abbiamo meno di 3 abitanti per edificio in Sardegna e in Sicilia e, addirittura, solo 2,5 abitanti in Calabria. L’aumento più evidente dell’abusivismo edilizio si osserva in Molise, Calabria e Basilicata che registrano, fra il 2002 e il 2010, indici medi intorno al 35% delle nuove abitazioni (25% in Basilicata). La Calabria ha 798 chilometri di coste dei quali ben 523 (il 65% del totale) sono urbanizzati, trasformati da interventi antropici legali e abusivi: gli abusi lungo la costa calabrese, secondo una ricerca dell’Università di Reggio Calabria, erano ben 5210: uno ogni 153 metri!

I dati sopra riportati mettono in evidenza quanto l’attuale incapacità da parte dei meridionali di distinguere, salvaguardare, e di produrre, la bellezza sia una condizione patologica della psiche, individuale e collettiva. La bruttezza genera disarmonia, produce incapacità di distinguere il bello dal brutto, il vero dal falso, il giusto dall’ingiusto, produce assuefazione all’assenza di regole estetiche e morali, genera immoralità diffusa e, quindi, ‘ndrangheta, camorra e mafia.

Il problema principale dello sviluppo, e del turismo, del Mezzogiorno non è l’assenza di musei, di centri storici o di parchi archeologici da visitare, ma è la scomparsa del paesaggio, la distruzione di un sapere collettivo che dovrebbe essere rappresentato dall’enorme Patrimonio culturale che deve interagire, sistemicamente, con un sostrato eno-gastronomico ancora ricco e vivo, con la tradizione millenaria della nostra biodiversità agricola, con una ricettività alberghiera adeguata e con un mare non inquinato. Bisognerebbe, insomma, che una nuova classe dirigente del Mezzogiorno, portatrice di questo sapere intellettuale collettivo, riuscisse a concepire ed a realizzare un gigantesco e capillare piano di risanamento dei territori, dei mari, dei boschi, dei fiumi e delle coste che impegni, da subito, alcune decine di migliaia di giovani.

Uno dei primi atti del new deal di Franklin Delano Roosevelt fu quello di progettare e finanziare un gigantesco piano di restauro del territorio che impegnò, a partire dal 1933, alcune centinaia di migliaia di ragazzi fra i 18 e i 25 anni. Negli anni che seguirono due milioni di giovani lavoratori, chiamati “L’armata degli alberi di Roosevelt”, piantarono 200 milioni di alberi, rifecero gli argini dei torrenti, allestirono laghetti artificiali per la pesca, costruirono dighe e strade di collegamento, scavarono canali per l’irrigazione, gettarono ponti, combatterono le malattie degli alberi, ripulirono spiagge e terreni incolti.

Ecco cosa ci vorrebbe per il Mezzogiorno: un new deal fondato sul restauro dei paesaggi naturali e storici, dei paesaggi agrari e urbani; un new deal nel quale la “redditività” del nostro patrimonio storico e naturale non risieda solo nella sua commercializzazione, ma in quel profondo senso di appartenenza, di identificazione, di cittadinanza che creerebbe la ricomposizione materiale ed immateriale dei luoghi, dei paesaggi.

Relazione introduttiva al convegno "Ex Scali ferroviari: la parola ai cittadini". Un tema decisivo per il futuro della metropoli lombarda: vinceranno gli affari immobiliari o le condizioni di vita degli abitanti di oggi e di domani? Milano, 18 marzo 2017



“Ex Scali ferroviari: la parola ai cittadini.
Convegno dibattito sull’uso delle ultime aree libere di Milano"
Palazzo Marino, Milano. 18 marzo 2017


Milano dispone ormai di poche risorse in termini di aree prevalentemente o totalmente non edificate e inutilizzate ma intercluse nel tessuto urbano. Tra queste principalmente gli scali ferroviari, la Piazza d’armi, la Goccia di Bovisa, le caserme ed altre minori.

Per quanto riguarda gli scali ferroviari si tratta di 1.250 000 mq, di cui 1.053.000 in trasformazione. L’accordo di programma destinava circa la metà di queste aree all’edificazione, con la possibilità di realizzarvi 674.00 mq di SLP per funzioni residenziali e terziarie, pari a 2.022.000 mc convenzionali e circa 4.000.000 mc reali vuoto per pieno, oltre ad eventuali servizi pubblici e privati in aggiunta, lasciando a verde circa 525.000 mq.

Lo scopo della giornata odierna è riflettere sulla opportunità che venga data rapida attuazione a previsioni urbanistiche di questa natura, più o meno rivisitate, come sembra sostenere la giunta o invece riconsiderare queste scelte, anche alla luce della prospettiva, comunque già avviata, della revisione dell’intero piano di governo del territorio. Cercando di valutare la questione non soltanto dal punto di vista degli aspetti procedurali, di diritto e societari come è stato già fatto in altre occasioni, ma primariamente dal punto di vista propriamente urbanistico: cosa può sperare, volere, ottenere la città dalla trasformazione di queste aree?

Solo un accenno alle principali motivazioni di chi caldeggia il rapido varo del progetto: dare un futuro ad aree da tempo inutilizzate e in qualche parte degradate, alimentare con offerte qualificate il mercato immobiliare, utilizzare parte dei proventi immobiliari per realizzare vari tipi di servizi, tra i quali la cosiddetta “circle line”, finalizzata ad incrementare l’utilizzo del trasporto pubblico. Argomentazioni largamente pubblicizzate, ad esempio nel workshop di FS di dicembre, sulle quali perciò non pare necessario soffermarsi oltre.

Da parte mia svilupperò invece le ragioni del dubbio e delle necessità di approfondimento, che mi paiono consistenti.

Partiamo dall’aria che respiriamo. L’Italia (a causa di Milano in primis) è sotto procedura di infrazione per la persistente violazione dei limiti europei sulla qualità dell’aria. La Commissione europea ha inviato all’Italia testualmente un “ultimo avvertimento” il 15 febbraio 2017, intimandogli di provvedere con adeguate misure. Dopo gli avvertimenti scatteranno le sanzioni che saremo noi cittadini a dover pagare. E’ chiaro e fuori discussione che la densità edilizia e di traffico nell’area urbana sono le cause di tale situazione di inquinamento atmosferico, date le condizioni geografiche e meteo climatologiche che non sono modificabili dall’uomo. Primo dubbio allora: non si ritiene opportuno fermare o almeno rinviare ogni ulteriore densificazione edilizia, come quella ipotizzata sugli scali e su altre aree dismesse, fino al raggiungimento di uno stabile miglioramento della qualità dell’aria, o almeno all’ avvio di un efficace piano di risanamento? In particolare le funzioni attrattive (cioè caratterizzate da presenze prevalentemente o esclusivamente diurne, dunque uffici, commercio, servizi pubblici e privati, etc.) generalmente contribuiscono alle emissioni più di quelle residenziali, per ragioni sia di richiamo di traffico che di caratteri funzionali e tipologici. D’altro canto il mercato milanese e le non-norme urbanistiche vigenti tendono a spostare il mix funzionale delle iniziative immobiliare verso tali funzioni. Non si ritiene dunque di dovere in particolare contenere l’ulteriore intensificazione nella città di tale gruppo di funzioni, invece largamente ipotizzate e auspicate sugli scali?

L’ulteriore addensamento di funzioni attrattive nella città centrale accresce le criticità nei comuni di cintura e in particolare in quelli dove pure esistono sia risorse territoriali dismesse sia centri terziari sviluppatisi nei decenni passati, che talvolta presentano ormai condizioni critiche dal punto di vista dell’utilizzo. Non si ritiene dunque di dover riconsiderare la deriva in accrescimento di tali funzioni a Milano anche per ragioni di equilibrio sociale ed economico rispetto al resto dell’area metropolitana? Altrimenti si corre il rischio che la crescita di Milano, invece di essere sviluppo armonico, si trasformi in qualcosa di molto diverso: concorrenza sleale, (al limite del parassitismo) nei confronti dell’hinterland. Dunque prima di avviare nuove grandi operazioni terziarie milanesi si misuri bene lo stato di salute, sotto questo profilo, della cintura metropolitana.

L’entità dello stock edilizio inutilizzato o invenduto, da sommarsi a quello non ancora realizzato ma già convenzionato o concesso è, a Milano, certamente molto rilevante, benché ad oggi non precisamente quantificato. Non si ritiene opportuno sospendere decisioni che legittimino nuova produzione edilizia fino all’accertamento dell’entità di tale patrimonio e soprattutto all’assunzione di misure efficaci per il suo “smaltimento”, posto che l’ulteriore alimentazione di un mercato immobiliare sovraccarico potrebbe avere effetti ulteriormente depressivi e, quel che è peggio, distorsivi rispetto a diverse e più moderne e corrette direzioni di investimento?

Il sistema del trasporto pubblico milanese è stato storicamente conformato da una cabina di regia strettamente urbana, con conseguente sotto dotazione infrastrutturale e funzionale dell’hinterland, come dimostra la pronunciata sproporzione del taglio modale tra trasporto pubblico e privato, nella cintura rispetto al capoluogo. Non si ritiene sia giunto il momento di correggere questo squilibrio, spostando la cabina di regia dalla città alla metropoli reale (dunque Monza compresa)? E di valutare se la priorità di investimento non debba essere data a prolungamenti esterni delle linee metropolitane, alla protezione del trasporto pubblico, al potenziamento in genere del servizio extraurbano, particolarmente su ferro, alla organizzazione degli interscambi ed altro ancora, piuttosto che alla realizzazione della Semicircolare milanese, affetta da limiti funzionali non piccoli ( solo un treno ogni 20 minuti nella tratta nord più densamente edificata) e che comunque aumenterebbe invece di diminuire il differenziale di accessibilità tra città centrale e hinterland ( non dimentichiamo che la stazione di Porta Romana è a soli 2km da piazza del Duomo) ? E poi esisterebbero davvero le risorse per fare la Semicircolare? Il vecchio ADP vi destinava 50 milioni, considerati sufficienti per alcune delle sistemazioni di stazione, utili per Ferrovie indipendentemente dalla attivazione di una linea urbana. E il resto del progetto quanto costa e chi lo finanzia? Nella documentazione non risulta esservi risposta.

Chi sostiene la bontà della trasformazione ipotizzata sugli scali (concentrazioni volumetriche di funzioni attrattive e più trasporto pubblico) la argomenta con il miglioramento della percentuale traffico pubblico / privato che si otterrebbe. Ma di solito non considera che la riduzione del valore percentuale della gomma sul ferro sarebbe pagata con un aumento del suo valore assoluto, con esiti finali altamente incerti e potenzialmente anche negativi: cioè con un possibile aumento assoluto del traffico. Non sembra opportuno approfondire assai bene la non semplice questione prima di prendere decisioni irrevocabili?

Gli scali ferroviari sono invece una potenziale risorsa basilare per il futuro sviluppo di una logistica urbana non inquinante: arrivo delle merci su ferro molto vicino alla destinazione finale e ultimo miglio su mezzi elettrici di varia tipologia. Si tratta naturalmente di una prospettiva che presuppone una trasformazione profonda del sistema di trasporto merci nella regione e anche nel paese, che tra l’altro è ormai auspicata anche dalle Ferrovie. Data l’insostituibilità delle aree in questione per ospitare queste possibile attrezzature, non si ritiene obbligatorio far precedere ogni ipotesi di trasformazione degli scali dalla messa a punto degli schemi progettuali per il loro utilizzo come piattaforme logistiche urbane innovative, in modo da non bruciare per sempre questa opportunità? E ciò non modificherebbe il perimetro stesso delle aree in dismissione?

La Milano compatta ha una dotazione di verde ancora pressoché limitata ai parchi ottocenteschi centrali, nonostante nel frattempo siano completamente cambiate l’entità, le esigenze e la sensibilità ambientale dei cittadini. Non si ritiene che, oggi, verde urbano voglia dire anche orti urbani ed agricoltura di prossimità, land art, grandi spazi attrezzabili per attività del tempo libero, creazione di paesaggio ed altro ancora e che per tali funzioni gli scali e le altre aree dismesse, a maggior ragione se fortemente urbane e collegabili al sistema del verde metropolitano, siano una risorsa irripetibile, imperdibile e in realtà di enorme valore non solo ambientale ma anche economico strategico, proprio come è stata, ad esempio, la creazione del Central Park a New York? Gli effetti della trasformazione a verde di queste aree sarebbero clamorosi: con gli scali la dotazione di verde della città centrale e semicentrale (per intendersi entro o a diretto contatto con la circolare 90/91) crescerebbe del 57%. Una quantità già apprezzabile persino da un punto di vista strettamente ecosistemico/ambientale (qualità e temperatura dell’aria). Analogamente l’utilizzazione a verde della Goccia e di Piazza d’armi avrebbero un valore simile, e persino più radicale, dotando la fascia urbana compatta semiperiferica di grandi parchi di cui è oggi quasi del tutto priva, essendo quelli esistenti situati solitamente in cintura, cioè all’esterno del continuo edificato. Il sistema verde Bovisa- Farini, avrebbe poi il carattere di una penetrazione di verde quasi continua dai parchi di cintura al centro terziario di Porta nuova: un vero Central Park milanese.

Non mancano nel mondo esempi di grandi parchi realizzati specificamente su scali ferroviari dismessi. Ad esempio il Central Park di Valencia, il Millennium Park di Chicago, il Rail Deck Park di Toronto, il Park Spoor Nord di Anversa, lo State Historic Park e il Taylor Yard River di Los Angeles, il Park am Gleisdreieck e il Schöneberger Natur-Park Südgelände a Berlino. Da notare che di solito, grazie alla geometria fusiforme queste nuove aree verdi presentano il vantaggio di un grande allungamento degli affacci: il che moltiplica gli effetti di riqualificazione urbana. Anche a Milano i fronti direttamente riqualificati sarebbero assai rilevanti.

Gli scali, la piazza d’armi, la Goccia della Bovisa, ed altre ancora, sono aree sostanzialmente pubbliche, e come tali da non doversi nuovamente ripagare con altri soldi pubblici. Non si ritiene che tali aree debbano essere perciò destinate principalmente alla creazione dei nuovi parchi e di eventuali altri servizi necessari e richiesti dalla popolazione, limitando la nuova edificazione alla quantità occorrente per pagare il costo delle opere di sistemazione a verde e di eventuali altri servizi o dell’edilizia residenziale pubblica (oltre che degli smantellamenti, delle bonifiche necessarie, e della sistemazione delle stazioni)? Quale può essere l’ordine di grandezza della nuova edificazione occorrente in tale ipotesi? Il PGT stima ufficialmente l’utile immobiliare medio a Milano in 1.000 €/mq SLP. A Farini, Genova e Romana, i valori immobiliari sono notevolmente superiori alla media e dunque superiore è l’utile immobiliare, che potremmo prudenzialmente valutare in almeno 2.000 €/mq. Se quantifichiamo gli extra costi che si vogliono coprire nella misura indicata dal vecchio ADP e vi aggiungiamo quello della sistemazione a parco, si giunge ad un extra costo totale di circa 314 mln €, corrispondente all’utile immobiliare di 157.000 mq SLP contro i 518.000 dell’edilizia libera prevista nel vecchio ADP: meno di un terzo. Questo ridimensionamento consentirebbe di lasciare e sistemare a verde circa l’80% delle aree in dismissione. Ora, è del tutto evidente che i conti non si possono fare con questa grossolana approssimazione, sufficiente solo per determinare l’ordine di grandezza delle variabili in gioco, ma questi sono i ragionamenti che vorremmo veder sviluppati ed affinati dal Comune per tentare di definire un possibile accordo con FS che sia nell’effettivo interesse pubblico.

Il vecchio ADP è molto lontano da questo modello. Non mi soffermo su questo punto perché un altro intervento entrerà nel merito dello squilibrio tra utilità pubblica e privata nel vecchio ADP.

Quale procedura adottare? Solo un accenno: sembrerebbe di poter dire meglio e quasi obbligatoriamente all’interno della revisione del PGT e comunque e soprattutto con approccio metropolitano, data la vastità delle implicazioni extra situ, che difficilmente possono essere trattate di striscio ed accidentalmente in un ADP.

Chi deve rispondere a tutte queste domande? Certo gli amministratori con adeguati supporti tecnici. Ma su tali questioni, benché non semplicissime, vorremmo che i cittadini fossero bene informati e direttamente chiamati ad esprimersi. La città è dei cittadini e quando sono in gioco grandi questioni e risorse irriproducibili è giusto che possano influire direttamente sulle decisioni. L’urbanistica ai cittadini! Questa è la rivoluzione che oggi viene proposta.

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