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Sul Piano di governo del territorio del Comune di Milano si diranno molte cose nelle prossime settimane: la fase delle «osservazioni» durerà infatti fino al 15 novembre e siamo tutti chiamati a esprimere dubbi, critiche e proposte di modifica al Pgt. Non sarà facile in due mesi orientarsi nelle quasi mille pagine del piano, ma una cosa è certa: lo strumento che vuol mandare in pensione i vecchi piani regolatori per portare in città nuovi principi di urbanistica dovrebbe essere conosciuto da tutti i milanesi che credono nella cittadinanza attiva come leva per migliorare i propri quartieri e la propria città.

Si cercherà di scavare nelle pieghe del piano anche per rispondere alla domanda «cui prodest»?. È giusto che sia così: in una democrazia matura esercitarsi a capire chi potrà trarre i maggiori vantaggi da uno strumento che fissa le regole di governo urbanistico della città— dove, come, quanto e per chi costruire abitazioni, uffici, spazi pubblici e servizi — è sempre fonte di trasparenza.

In questo esercizio di scavo bisogna prima di tutto procurarsi un buon badile, ovvero la pazienza e la voglia di acquisire conoscenze per interpretare il piano, a partire dal nuovo principio della «perequazione»: la possibilità per i proprietari di aree di trasferire diritti di sviluppo edificatorio tra diverse parti della città. In questo ci aiuteranno le molte organizzazioni indipendenti che promettono di battere i quartieri con assemblee e incontri.

Ma è utile anche scavare nei punti giusti del documento per evitare perdite di tempo.

Il cittadino che «osserva» il Pgt dal proprio quartiere potrebbe iniziare a scavare in due zone: 1) dove il piano chiede agli abitanti di un quartiere di collaborare ogni anno con il Comune alla definizione dei servizi di interesse pubblico che mancano e che andrebbero realizzati; 2) dove il piano indica le aree della città in cui si potrà costruire «di più», con indici maggiori, sostenendo il giusto principio che si può aumentare la densità abitativa solo in prossimità di grandi assi e snodi di trasporto pubblico. In entrambi i casi, per capire «cui prodest», è importante che il Comune espliciti definizioni emisure: quali dati, informazioni e indicatori di quartiere il Comune metterà a disposizione dei milanesi in modo che tutti possano avere una fotografia aggiornata e completa della quantità e della qualità dei servizi esistenti nel quartiere? Poiché i privati potranno realizzare «identificare e realizzare» i servizi di interesse pubblico in un quartiere, fin dove si spinge il piano nella definizione di «interesse pubblico»? In quali forme concrete verrà ascoltata la voce degli abitanti dei quartieri? Se gli abitanti di un quartiere da «densificare» sosterranno che, pur d'accordo con il principio generale, l'intervento immobiliare proposto procura più danni che benefici, avranno speranza di sedersi attorno a un tavolo di lavoro con istituzioni e operatori privati ed essere seriamente ascoltati? Io ho l'impressione che per il Pgt la sfida vera sia per il Comune: dimostrare di essere all'altezza dei suoi cittadini.

ROGNO (Bergamo) — Un Comune può legittimamente dire no al progetto di una moschea, o anche solo ad un luogo di preghiera per i musulmani. Ma «un diniego legittimo deve basarsi sull’inidoneità del sito proposto, secondo le valutazioni urbanistiche».

Con questa motivazione, che esclude valutazioni di carattere politico, il Tar di Brescia ha accolto il ricorso presentato dall’Associazione centro culturale Costa Volpino (che rappresenta la comunità islamica dell’Alto Sebino) contro il Comune di Rogno che nel 2007 aveva bocciato la richiesta di cambio di destinazione d’uso nel Piano di governo del territorio (ex Prg) a un’area individuata e acquistata per realizzarvi un centro islamico.

L’Amministrazione comunale si è opposta sostenendo che la zona è sottoposta a salvaguardi ambientale e non è adatta a ospitare insediamenti come quelli ipotizzati dall’Associazione. Il Tar di Brescia ha dato ragione alla tesi della comunità islamica. Con una serie di considerazioni che, in tempi di vivaci discussioni politiche sull’opportunità di concedere la costruzione di moschee (come a Milano, dopo la recente presa di posizione del cardinale Dionigi Tettamanzi), sono destinate a far discutere. Nel merito, i giudici rimarcano che «l’edificio della ricorrente non è intrinsecamente legato ad un contesto di elevato valore naturalistico. Piuttosto si trova in un’appendice in gran parte circondata da aree produttive. Il collegamento con l’attività agricola produttiva è venuto meno da tempo…Anche il peso urbanistico causato dal numero dei frequentatori potrebbe essere diluito grazie alla vicinanza delle aree produttive e in particolare dei piani attuativi dotati di parcheggio a uso pubblico».

Ma il ricorso faceva leva anche sulla Costituzione e su una interpretazione che «non consentirebbe ai Comuni di subordinare la realizzazione dei luoghi di culto per le confessioni religiose diverse dalla cattolica a una convenzione intesa come atto di riconoscimento da parte dell’autorità amministrativa locale». I giudici amministrativi sposano questa tesi, seppur con alcune puntualizzazioni. Per il Tar «l’ambito di competenza riservato ai Comuni è quello propriamente urbanistico-edilizio e consiste in un duplice potere: accertare che la confessione religiosa abbia sul territorio una presenza diffusa, organizzata e stabile; regolare attraverso una convenzione la durata minima della destinazione d’uso dell’edificio a finalità religiose».

Se ricorrono queste condizioni, deve essere concesso il via libera. I giudici sottolineano che «una volta accertata l’esigenza di un luogo di culto la localizzazione deve necessariamente essere conforme alla proposta presentata, qualora i promotori del progetto abbiano la disponibilità degli immobili». Fuori dal linguaggio amministrativo, la sentenza riconosce alla comunità islamica dell’Alto Sebino il diritto di realizzare il centro di preghiera. Ora non resta che stipulare una convenzione tra Associazione e Comune. Sempreché, come pare si profili, la Giunta di Rogno non intenda rimanere attestata sulla linea del no a oltranza.

«L’opera servirebbe a fermare lo spopolamento delle nostre montagne» «E’ un pretesto: in futuro si vorrebbe costruire un albergo a quattro stelle»

BOLZANO. Passo delle Erbe, 7 agosto. Un chiassoso corteo funebre interrompe la festa della Svp, il partito di lingua tedesca che da 60 anni governa l’Alto Adige. In testa al gruppo c’è l’albergatore-ambientalista Michil Costa, in mano stringe una piccola bara nera. «Salutiamo il Munt de Antersasc nato 250 milioni di anni fa e morto nell’estate 2010», recita la partecipazione in ladino consegnata ai politici sbigottiti. Non è un vero funerale, ma un colpo di teatro per protestare contro la costruzione di una strada da Passo Juel a malga Antersasc, nel bel mezzo del Parco naturale Puez-Odle, uno dei siti messi dall’Unesco nella lista dei patrimoni dell’Umanità.

Questo è solo l’episodio più eclatante di quella che in Alto Adige è chiamata «la guerra di Antersasc». Su un fronte ci sono gli abitanti della valle, i Verdi e la Federazione dei protezionisti sudtirolesi; sull’altro la Provincia - che ha autorizzato i lavori - e il Bauernbund, la potente associazione dei contadini. Ieri gli ambientalisti hanno vinto la prima battaglia: il Tribunale amministrativo regionale di Bolzano, infatti, ha bloccato il cantiere. «Non avevamo dubbi - esclama con soddisfazione Costa - Antersasc è un tesoro nazionale da tutelare. Certo, questo non è un abuso edilizio simile a quelli che si vedono nel resto d'Italia, ma è una ferita in uno dei luoghi magici delle Dolomiti».

Ma facciamo un passo indietro. Nei mesi scorsi - nonostante il parere negativo della Commissione ambiente - la giunta provinciale aveva approvato la delibera che dava il via ai lavori. Il progetto prevedeva una carrozzabile larga due metri e mezzo e lunga due chilometri per malga Antersasc, che appartiene a Johann Mair, un contadino. Obiettivo: arginare lo spopolamento delle montagne garantendo le infrastrutture ad agricoltori e allevatori. «Se una baita lavora, ha bisogno di una strada, così come una casa necessita di una scala e di una porta d’ingresso», questa la similitudine usata dal presidente della Provincia, Luis Durnwalder, per motivare la decisione. E così gli operai dell’Ispettorato forestale hanno iniziato ad abbattere i larici secolari e a scoperchiare la terra con le ruspe.

Da un giorno all’altro il silenzio delle cime è stato spezzato da un rumoroso cantiere. Ma gli ambientalisti non sono rimasti a guardare: nell’ultimo mese hanno organizzato manifestazioni, assemblee, e hanno creato anche un gruppo su Facebook (1400 adesioni). Alla fine la carta vincente l’ha giocata il Wwf, che ha presentato un ricorso contro la delibera della giunta al Tar. Ora è arrivata la decisione dei giudici amministrativi: stop alle scavatrici della Provincia. «La carrozzabile - dice Costa - è solo il pretesto per costruire un albergo a quattro stelle in futuro. Una storia già vista». Hans Pircher, il pastore che da vent’anni prende in affitto la malga, ammette di lavorare senza problemi utilizzando i sentieri di montagna, ma Mair - il proprietario - sostiene di avere bisogno della strada per curare meglio l’alpeggio. La Provincia lo appoggia e non si ferma: i tecnici stanno già valutando i progetti alternativi.

«Accettiamo la decisione del Tar - spiega l’assessore provinciale all’Ambiente Michl Laimer, l’unico in giunta disposto a un’apertura -. L’iter burocratico è stato azzerato, ma studieremo una soluzione più soft»; «Nessun compromesso, lotteremo ancora per difendere le nostre montagne», replica Costa. La guerra di Antersasc continua.

I beni statali, la cui esecuzione risalga ad oltre cinquant’anni, non fatti oggetto di formale “verifica”, sono automaticamente esclusi dai trasferimenti di cui al dlgs. 85/2010.

Le dichiarazioni responsabili che hanno accompagnato l’avvio del procedimento di attuazione della delega hanno rassicurato sulla esplicita volontà del Consiglio dei Ministri di escludere dai trasferimenti previsti e disciplinati dallo speciale provvedimento legislativo tutti i beni del patrimonio storico e artistico appartenenti allo Stato. E un tale fermo proposito è ben espresso nel tenore testuale del comma 2 dell’articolo 5 del decreto che comprende “i beni appartenenti al patrimonio culturale” tra quelli (pur di diversa natura) “in ogni caso esclusi dal trasferimento”, fatta salva ovviamente la disciplina ordinaria del Codice dei beni culturali (che a certe condizioni e previe apposite autorizzazioni ammette il trasferimento dei beni appartenenti al demanio culturale dallo Stato a Regioni ed enti pubblici territoriali locali, anche in funzione di uno speciale accordo di valorizzazione).

Ebbene, il consecutivo comma 3 che rimette alle competenti Amministrazioni dello Stato la formazione (entro il termine di tre mesi) degli “elenchi dei beni di cui esse richiedono l’esclusione” non riguarda i beni culturali, come tali già obbiettivamente identificati secondo il Codice dei beni culturali e perciò automaticamente esclusi. A questi infatti, come a quelli di cui al consecutivo comma 7 (in dotazione alla Presidenza della Repubblica, nonché in uso a Camera, Senato e Corte Costituzionale), non può concettualmente riferirsi l’espressione con cui inizia il comma 3: “Ai fini dell’esclusione di cui al comma 2, le amministrazioni statali …” e ad essi non si applica per certo, con la stringente successione dei tempi, il procedimento di analitica identificazione dei beni esclusi, che vale per le altre amministrazioni e per i beni di appartenenza statale di diversa natura. Con riferimento a questi ultimi, soltanto, la identificazione in concreto è necessaria, perché implica un apprezzamento discrezionale, perciò “adeguatamente motivato” e vagliato dalla Agenzia del demanio che “può chiedere chiarimenti in ordine alle motivazioni trasmesse”, secondo le testuali espressioni del primo e del secondo periodo dello stesso comma 3.

E’ appena il caso di osservare che il patrimonio culturale di appartenenza pubblica — e segnatamente statale — è coperto dalla presunzione di cui al primo comma dell’art. 12 del Codice dei beni culturali e del paesaggio e dunque tutti i beni pubblici espressione di un’opera la cui esecuzione risalga ad oltre cinquant’anni sono assoggettati alle disposizioni di tutela (fanno cioè parte del patrimonio culturale) se non sia intervenuta una esplicita verifica negativa dell’interesse culturale. Il patrimonio culturale di appartenenza pubblica non è costituito dunque dai soli beni per i quali sia intervenuto un esplicito riconoscimento positivo, ma pure da tutti quelli (e sono la grande parte) la cui esecuzione risalga ad oltre cinquant’anni per i quali non sia stata eseguita la formale verifica (e fino cioè a un eventuale provvedimento di accertamento negativo).

Sembra dunque in pratica impossibile la formazione di un elenco analitico esauriente dei beni statali appartenenti al patrimonio culturale; e poiché, come già si è osservato, la esclusione di tali beni dal trasferimento non dipende dall’esercizio di un potere discrezionale delle amministrazioni di appartenenza, ma discende dalla cogente previsione legislativa, sulle “amministrazioni statali” non grava l’onere di richiederne la esclusione (come per certo, altra esclusione di legge, per i beni in dotazione alla Presidenza della Repubblica e quelli in uso a Camera, Senato e Corte Costituzionale). I beni culturali statali, esclusi per legge, neppure conseguentemente dovranno figurare nel provvedimento di definizione dell’elenco dei beni esclusi dal trasferimento che l’art.5, comma 3, quarto periodo, rimette al direttore dell’Agenzia del demanio.

E dai conclusivi provvedimenti del Presidente del Consiglio dei Ministri (art. 3, comma 3) che formano gli elenchi dei beni trasferibili, adottati entro il 23 dicembre 2010, saranno esclusi tutti i beni culturali come sopra intesi (pure quelli dunque la cui esecuzione risalga ad oltre cinquant’anni non fatti oggetto di formale verifica) e tale esclusione il Ministero per i beni culturali dovrà rigorosamente far valere nel previsto concerto con il proponente Ministro dell’economia e delle finanze.

Giovanni Losavio, Presidente della sezione di Modena di Italia Nostra

Postilla

In un Paese di amministrazione efficiente e rigorosa la nota di Giovanni Losavio apparirebbe pleonastica: non qui, non adesso, purtroppo.

L’equivoco su cui si gioca questa partita, ovvero sia la possibilità dei trasferimenti previsti dal federalismo demaniale per quanto riguarda il nostro patrimonio culturale rischia di trovare un’ampia sponda nell’atteggiamento generalizzato di laissez faire che caratterizza ormai l’azione del Ministero Beni Culturali almeno per quanto riguarda l’apparato dirigenziale.

All’accondiscendenza istituzionale a cui sono improntate le decisioni delle Soprintendenze territoriali si sommano, in questo caso, le ataviche lacune presenti nell’Amministrazione centrale del Ministero che, in oltre trentacinque anni di attività, non è riuscita a produrre non solo alcun catalogo del nostro patrimonio culturale, ma neppure un sistema decoroso di gestione e aggiornamento della propria documentazione.

Il Ministero non possiede, ad esempio, né a livello centrale, né a quello periferico, alcun elenco completo, aggiornato e georeferenziato dei vincoli da lui stesso emanati.

Un’ involontaria, amara ironia sembra infine connotare l’affermazione conclusiva di questa esemplare nota giuridica, laddove si dà per scontata la capacità di difesa (“dovrà rigorosamente far valere”) delle ragioni del nostro patrimonio culturale, pur costituzionalmente preminenti, nei confronti di quelle economiche, da parte di un Ministero ridotto all’assoluta irrilevanza politica.

In questa situazione il pericolo di dismissioni improprie e generalizzate diviene molto concreto e l’apparente solidità della protezione offerta dal dettato legislativo può trasformarsi in una fragile copertura facilmente superabile in re.(m.p.g.)

Il mago dei numeri Draghi: "Scegliamo chi ha davvero più chance di vincere poi le elezioni vere". L’autocandidatura dell´avvocato ha dato la scossa al Pd nella scelta dell´anti-Moratti. Il costituzionalista critica l´appoggio del partito a uno degli sfidanti: "Così si snatura tutto"

MILANO - «Il vero problema è guardarsi negli occhi, e capire chi di noi tre è in grado di dare un bel calcio nel sedere alla giunta Moratti». Così parla Stefano Boeri, architetto di fama internazionale, e da un paio di settimane candidato sindaco alle primarie del centrosinistra, fissate il 14 novembre. Problema non da poco, per come si è messa la partita a Milano, in vista del voto comunale fissato in primavera. Boeri, che stasera verrà incoronato ufficialmente dalla direzione provinciale del Pd - anche se lui, come gli altri due sfidanti, non ha tessere di partito in tasca - è stato per mesi tra i grossi nomi corteggiati dal Pd, in cerca di un anti-Moratti pescato dalla società civile in nome di quella strategia del «civismo» evocata da Pierluigi Bersani e subito abbracciata dal gruppo dirigente milanese. Ma quando l´architetto ha detto sì, superando corposi dubbi e sbarazzandosi di un possibile conflitto d´interessi (si è dimesso dalla consulta cui si deve l´ideazione del masterplan di Expo 2015), qualcuno era arrivato prima di lui. Un altro professionista della Milano che conta: l´avvocato Giuliano Pisapia, già presidente della commissione Giustizia della Camera - dov´era stato eletto nel ‘96 come indipendente di Rifondazione - che a metà luglio si è candidato a sindaco con l´appoggio di Sinistra e libertà, di pezzi di società civile difficilmente collocabili entro i confini della sinistra radicale e, successivamente, anche della Federazione della sinistra. Lui è partito prima, e nei sondaggi è in testa: quello di Mannheimer, primi di settembre, gli dà quasi venti punti di vantaggio su Boeri, e anche una consultazione online di Repubblica Milano, che ha raccolto sedicimila votanti, lo ha collocato al primo posto. «Mi sono mosso - spiega Pisapia - perché ho capito che, se non l´avessi fatto per tempo, adesso ci troveremmo in una situazione disastrosa». Cioè ancora senza lo straccio di un candidato.

Già. Un bel guaio, per il Pd, partito rimasto fino ad allora immobile e anche tentato di evitare la strada delle primarie, che la candidatura di Pisapia ha reso invece obbligata. Risultato: il Pd ha subito preso le distanze dall´avvocato, temendo che all´ombra della Madonnina si potesse ripetere quel che Nichi Vendola - e per due volte - è riuscito a fare nella sua Puglia. Così ha premuto sull´acceleratore, intensificando il pressing su Boeri, che verrà infatti incoronato ufficialmente dalla direzione provinciale in programma stasera. Con qualche mal di pancia, perché quando l´architetto ha detto sì, nel Pd sono cominciati i tormenti. Qualcuno - per esempio un paio di consiglieri comunali, ma non solo - aveva già annunciato il sostegno a Pisapia. Mentre altri, nel Pd come nella società civile, successivamente si sono mossi alla ricerca di un terzo nome, per contestare la scelta di indicare un candidato "di partito", prefigurando l´esito delle primarie. E così, lanciato da un comitato di personalità della cultura, delle professioni e dell´associazionismo milanese, si è fatto avanti il terzo uomo: il costituzionalista Valerio Onida, già presidente della Consulta, anche lui - come gli altri due - non legato ai partiti. Un´iniziativa voluta soprattutto da Riccardo Sarfatti, battitore libero del Pd, scomparso tragicamente in un incidente d´auto venerdì scorso. Ma prima di morire, il «galantuomo della politica» aveva cambiato idea, chiedendo - inutilmente - al "comitato dei 92" che aveva contribuito a mettere in piedi di appoggiare Boeri. E come Sarfatti, dentro quel comitato, adesso la pensano anche don Gino Rigoldi e un altro pezzo da novanta della Milano engagée come Guido Rossi (ieri con Boeri si è schierato pure l´architetto Renzo Piano). Onida non fa una piega e va avanti toccando un nervo scoperto: «Ritengo contraddittorio che i partiti esprimano l´appoggio a uno dei candidati prima delle primarie, ciò non fa altro che snaturare lo spirito della consultazione, che è innanzitutto uno strumento per coinvolgere gli elettori». Insomma: «Se non ci fossero le primarie, come farei a Candidarmi senza il sostegno di alcun partito?».

Il ragionamento di Onida ha fatto breccia anche nel Pd. Ecco la senatrice Marilena Adamo: «Tra noi c´è chi è per primarie vere e chi dice che bisogna indicare Boeri. Sto cercando di spiegarlo ai ragazzi di Milano: non dobbiamo commettere l´errore di marcare così stretto Boeri, sarebbe la stessa cosa che sta facendo la sinistra radicale con Pisapia». Analoghi dubbi avrebbero colto anche l´ex ministro Barbara Pollastrini, senza contare che nel Pd si sono già schierati con Onida alcuni ex popolari, come Daniela Mazzucconi. Sono divisioni che il "mago dei numeri" Stefano Draghi considera come «conseguenza inevitabile di un confronto vero». Neppure lui, però, ha ancora deciso: «Stavolta farò una calcolo cinico, non politico: non importa che il gatto sia bianco o nero, l´importante è che acchiappi il topo, quindi alle primarie sosterrò chi mi sembra abbia più chance per battere la Moratti».

Stamane il Comune di Milano depositerà per 30 giorni il documento del Piano del Territorio in visione ai cittadini che avranno a loro disposizione sino al 15 novembre per le loro osservazioni.

Scaduto questo termine, il Comune avrà 90 giorni per accoglierle o meno e dovrà presentare il nuovo testo, che terrà o no conto delle osservazioni, per l’approvazione in Consiglio Comunale e le relative votazioni. Dunque entro il 15 di febbraio, se nulla di traumatico accadrà nel frattempo, il nuovo strumento urbanistico diventerà efficace, ma viene da dubitare seriamente, vista l’arroganza indefettibile dell’assessore Masseroli ribadita domenica sera al dibattito ospitato alla festa del Pd. Dunque, a meno di una dura opposizione, il Pgt sarà approvato prima delle Comunali. Questo almeno è lo scenario più probabile.

È bene che il Pgt, nel suo testo definitivo, sia approvato con qualche anticipo sulla data delle elezioni, per molte ragioni. Una premessa: il Pgt potrà essere rifatto o modificato senza alcun limite, fatte salve le procedure e i tempi necessari e d’altro canto la mancata approvazione di quello attuale non comporta l’arresto dell’attività edilizia, come qualcuno capziosamente ha affermato, ma potrà proseguire con il vecchio piano regolatore che ha permesso di tutto ma con il limite della cosiddetta salvaguardia, ossia non in contrasto con il nuovo che comunque è certamente più permissivo del vecchio.

Perché è importante che sia approvato prima delle Comunali? Le ragioni sono almeno tre: perché è comunque un documento molto, troppo, esteso e qualunque rilettura chiede tempo per assimilarne i contenuti; perché i candidati alle primarie è opportuno che si pronuncino su un testo definitivo per chiarire quale sarà il loro futuro atteggiamento; perché il giudizio sulla giunta uscente e sulla sua capacità di capire la realtà fisica e sociale di Milano si può dare solo su un documento definitivo che sancisca inequivocabilmente l’incapacità di capire i cittadini, che sono altra cosa dai partiti e dagli interessi che si vogliono tutelare.

Un’ultima considerazione. In passato per osservazioni s’intendevano genericamente le obiezioni di natura tecnica e specifica che i cittadini proprietari facevano ritenendo di essere stati sfavoriti o addirittura danneggiati da un nuovo strumento urbanistico. Questa volta, visto l’impianto del documento e la sua natura profondamente ideologica e di parte, le osservazioni potranno e dovranno riguardare anche aspetti di quadro generale e di natura politica. Chi ha detto che la città debba essere pensata per 1milione e 700 mila abitanti? In base a quali considerazioni? È giusto privilegiare sempre e in ogni caso l’intervento dei privati? Le localizzazioni di addensamento della volumetria a che logica rispondono? Vedo con favore che molti gruppi si stanno organizzando per stendere le osservazioni: spero che si moltiplichino e che dal loro lavoro possa nascere una visione della città più vicina al sentire diffuso dei cittadini e non solo dai portatori d’interessi esclusivamente economici.

Entro nel merito del dibattito sul Piano Urbanistico di Sassari e pongo alcuni quesiti esplicitamente al Sindaco, all’Assessore all’Urbanistica e al Presidente della competente commissione. Nel PUC è previsto un consistente aumento di volumetrie. A quali tipi di domanda si vuole rispondere? A chi non ha una casa e non riesce ad accedere al mercato immobiliare esistente? Evidentemente no, perché si tratta per lo più di persone che non hanno le risorse per comprare una casa e sono escluse dal mercato inesistente degli affitti. Ciò significa che l’amministrazione comunale prevede una crescita demografica? Ma tutti gli studi ci dicono che, da qui al 2030, ci sarà un vistoso calo demografico. La conclusione più probabile è che le volumetrie previste siano ‘soltanto’ esigenze di alcune categorie economiche che, pur essendo legittime, poco hanno a che fare con l’interesse generale e collettivo. Vorrei inoltre ricordare che l’applicazione dello scellerato Piano Casa regionale di fatto sta aumentando in modo incontrollato le cubature. Senza contare il fatto che, degli oltre 2 milioni case fantasma rilevate dall’Agenzia Nazionale del Territorio, un certo numero è presente nel nostro comune e sarebbe importante sapere quanto esso sia consistente.

Nel PUC si pensa di colmare i cosiddetti vuoti urbani, ovviamente costruendoci su. Mi permetto di riaffermare un concetto da me più volte espresso: nella città i vuoti territoriali sono sempre densi sociali, in termini tanto negativi quanto positivi. Sassari è una città brutta, anzitutto per come si è costruito a partire dagli anni ’60; in secondo luogo, perché si sono via via eliminati quegli spazi aperti che inducono alla socialità e all’incontro, per cui anche i quartieri di pregio per la qualità degli appartamenti sono, di fatto, dei quartieri dormitorio, da dove si entra e si esce per lo più in automobile proprio perché privi della possibilità di costruire senso comunitario e di vicinato. Allora, non è il caso di ripensare alla città, partendo proprio da questi “vuoti” e, invece di riempirli di cemento come si è fatto finora, farne un’occasione per ricucire le lacerazioni fisiche e sociali? Ciò non va fatto a tavolino, ma interloquendo con i cittadini, a partire da quanti si sono associati, come è accaduto per difendere l’area dell’ex orto botanico. Altrove, queste associazioni sono un interlocutore privilegiato per l’amministrazione locale, tanto che ogni decisione urbanistica deve passare il loro vaglio: Freiburg in Gemania è un bel caso a cui riferirsi anche in termini di governance oltre che in termini di sostenibilità.

Il mio auspicio è che la seconda città della Sardegna diventi un modello di riferimento per tutta l’Isola, dimostrando che 1. non si consuma più territorio; 2. le politiche centrali sono quelle volte alla riqualificazione dell’esistente; 3. il rispetto delle regole è il fondamento primo per ogni buona politica. Tre piccoli principi che diventerebbero dirompenti rispetto alle logiche dissennate messe in atto dal governo nazionale, alle quali si è totalmente asservito il governo regionale.

Inseriamo il testo integrale dell’articolo che il giornale ha pubblicato con qualche taglio redazionale, che non ne altera il significato

«Non potrò neppure aprire la finestra, che vita sarà questa?». Il Pirellone bis stringe il condominio su tre lati, è una gabbia di specchi, la luce arriva solo di riflesso, il tempo è scaduto e stare alla finestra non serve. Anzi, è peggio: dal 15 ottobre inizieranno i traslochi e si riempiranno gli uffici. Gli inquilini di via Bellani 3 sono stati circondati, hanno dettato le condizioni per la resa, ma non hanno spuntato un accordo: dovranno convivere col nuovo Palazzo Lombardia, inscatolati dal cemento. La Regione avrebbe preferito un divorzio consensuale, il progetto era di acquistare e demolire, non compra più: aveva offerto 4.500 euro al metro quadro ma gli abitanti ne chiedevano almeno il doppio, il costo del mattone più il disturbo e la buona uscita. La trattativa, ora, è chiusa. Non si sono intesi, e non sfugga il paradosso: don Ettore Bellani, l’uomo della targa sul muro, educava i sordomuti.

Il gigante e la casina. Qui vivono quattordici famiglie, due appartamenti sono sfitti, il terrazzo è ben curato, colpisce il verde. In questi giorni è stata attivata la nuova antenna per la televisione satellitare, regalo della Regione: «Il grattacielo oscurava il segnale— raccontano gli abitanti —. Ma se pensano di rabbonirci così, si sbagliano». I rapporti sono tesi dall’inizio, tre anni fa, da quando la Regione inizia a tirare su la sede direzionale in zona Garibaldi: «La nostra casa è stata costruita nel 1936, non ieri. C’è gente che vive qui da decenni. Eppure, un giorno arrivano, cancellano il Bosco di Gioia e dicono che siamo di troppo».

Si parte da lì. Il Pirellone vuole comprare a «prezzi di mercato» e col «consenso unanime» dei residenti: li trova resistenti. In alternativa, ipotizza una «permuta con altre unità immobiliari di pari superficie utile, di pari valore e nello stesso ambito territoriale tra Garibaldi e Repubblica». Insomma: insiste. Anche perché nell’angolo occupato dalla palazzina dovrebbe piantare alberi e posizionare «una cella a idrogeno e servizi connessi». L’assemblea di via Bellani 3, invece, non cede alla prima, rifiuta la seconda e ignora la terza offerta: «A queste condizioni, non ne vale la pena».

Antonio Rognoni è direttore generale di Infrastrutture Lombarde spa, la holding regionale che ha costruito Palazzo Lombardia e seguito il caso Bellani: «Il piano d’acquisto è basato su una stima dell’Agenzia del territorio e ai prezzi del 2008, i più alti. Oltre non si va: gestiamo denaro pubblico, non possiamo accettare atteggiamenti speculativi».

Per altro, non c’è più tempo. Il 15 ottobre, per primi, si trasferiranno da via Pola al nuovo grattacielo i dipendenti della direzione regionale Sanità: tutti i traslochi dagli uffici periferici, secondo il programma di Infrastrutture Lombarde, dovranno essere conclusi il 30 gennaio 2011. «Se non succede nulla — annunciano gli abitanti di via Bellani— torneremo alla carica». Rognoni esclude ripensamenti: «Li abbiamo trattati con i guanti, hanno scelto loro di restare lì».

BRESCIA— «Desidererei lasciare il segno con qualcosa di bello, di simbolico. Per esempio un bel grattacielo. Sono un sognatore. Vorrei creare un giardino delle idee». Era la fine del 2006 quando Santo Galeazzi, anima della Morgante srl (società costituita dal gruppo Lonati e dal gruppo Galeazzi), non era riuscito a trattenere il suo entusiasmo presentando il progetto del centro direzionale di Brescia. Due anni più tardi, nel marzo del 2008, le tre torri della Morgante svettavano con i loro 74 metri di altezza sulla città, dividendosi il cielo con il Crystal Palace. Peccato che il «giardino delle idee» sognato da Galeazzi sia rimasto vuoto. Nessuno, negli ultimi 24 mesi, ha mai occupato gli uffici dei tre nuovi grattacieli. E adesso l’opera dell’architetto Cantarelli e dello studio «Moro & Partners» sarà frazionata e messa in vendita da Gabetti. «Troppo dispendioso tenere vuoti quei locali — dicono dal gruppo Lonati —. Meglio vendere e recuperare almeno le spese sostenute. Del resto la crisi ci ha messo lo zampino e negli ultimi due anni il mercato immobiliare non è stato dei migliori».

Ma guai a pensare che le tre torri di cristallo, diventate simbolo inconfondibile del nuovo skyline di Brescia, saranno svendute: «I prezzi saranno quelli di mercato. Il centro direzionale è ben servito e gli edifici sono altamente tecnologici, all’avanguardia».

Nelle scorse settimane si era parlato della proposta di acquisto di alcuni fondi previdenziali, soprattutto di quello di una nota banca lombarda. Come erano circolate voci insistenti anche di un interessamento da parte della Provincia di Brescia, ai tempi in cui l'ente di Palazzo Broletto inseguiva il sogno di una sede unica. Voci mai arrivate a concretizzarsi e smentite nei fatti dopo l’insediamento del nuovo presidente, il leghista Daniele Molgora, che ha escluso la fattibilità dell’operazione. Nel frattempo le tre torri in vetro, acciaio e cemento sono rimaste sfitte e invendute.

Adesso la parola d'ordine è «fare cassa» e ieri mattina la Morgante srl ha dato ufficialmente mandato alla «Gabetti Corporate» di trovare acquirenti.

Le tre torri sono alte 74 metri: 14 piani e 6.722 metri quadri di uffici oltre a 3.200 di spazi commerciali e 1.200 posti auto coperti.

«Per incentivare la vendita — confermano da Gabetti — gli edifici saranno frazionati con porzioni minime alla portata di tutti. Si pensa a uffici di 130 metri quadri».

Un solo commento dalla Loggia, il palazzo del Comune: «Da due anni curiamo l’area verde intorno alle torri— spiega Mario Labolani, assessore ai Lavori pubblici con delega ai parchi — per evitare che la zona diventi terra di nessuno. Ora aspettiamo i primi inquilini e la possibilità di animare una zona della città per troppo tempo dimenticata».

Il tallone d'Achille è sempre l'urbanistica. Anche per Variati, sindaco [di centrosinistra] rieletto nel 2008 per soli 527 voti nel ballottaggio con Lia Sartori (ex Psi, scelta da Galan, europarlamentare Pdl). All'epoca tutto ruotava intorno alla nuova base americana al Dal Molin: una sorta di referendum fra il democristiano allievo di Mariano Rumor pronto a dialogare con i movimenti e la primadonna del centrodestra (Forza Italia, An e Lega) che aveva appena abbattuto il governo Prodi&Visco. Ora si fa strada il paradosso dei due avversari diventati improvvisamente "amici". Una tesi che trova più di un riscontro politico tanto nel Partito democratico quanto nel Pdl vicentino. Di più: c'è chi si spinge fino a tratteggiare l'«amore segreto» fra il sindaco e la sua maggiore oppositrice a palazzo Trissino.

I pretesti che hanno alimentato quest'interpretazione si sono moltiplicati negli ultimi mesi. Variati ha sposato con entusiasmo il "manifesto" intitolato Verso Nord, cioè l'appello lanciato insieme da altri due ex nemici come l'ex sindaco di Venezia Massimo Cacciari e il portavoce storico di Galan, Franco Miracco. Lia Sartori, invece, si è distinta come riferimento obbligato delle lobby vicentine con conseguenti contraccolpi durante la fusione fredda fra berlusconiani e apparato di An (in particolare, Sergio Berlato ed Elena Donazzan).

La carte si rimescolano proprio con l'urbanistica. Il Piano di assetto territoriale spiana la Vicenza del futuro significativamente bipartisan. In Provincia, intanto, sono stati assegnati i nuovi centri commerciali con la bilancia ancora in perfetto equilibrio politico. Così è nato il sospetto dell'inedita convergenza di Variati e Sartori ben al di là del recinto dei rispettivi partiti.

Il primo campanello d'allarme l'ha suonato il guastatore Luca Balzi, consigliere comunale del Pd. È lo stesso che aveva annunciato di votare per il leghista Zaia presidente della Regione (con conseguente deferimento disciplinare). Continua a professarsi fedele al sindaco, tuttavia ha preferito non votare l'ultimo bilancio di Variati. E per poco non ha trasformato in rissa il faccia a faccia in aula con il capogruppo Federico Formisano.

D'altra parte, il clima è più che avvelenato. Lo dimostra la lettera, sia pur anonima, ricevuta da tutti i consiglieri comunali. Gli «elettori di Variati pentiti» soffiano sul fuoco delle polemiche, lasciando intendere che il vero governo di Vicenza passa solo attraverso i salotti buoni della finanza e dell'imprenditoria. Valeva quand'era sindaco il berlusconiano Enrico Hullweck (ora a capo dello staff del ministro Bondi) che ha sposato l'architetto Lorella Bressanello.

Nel Pdl coltivano un teorema speculare. Il capogruppo Maurizio Franzina parla esplicitamente di «melassa» in comune fra Variati e Sartori. E non esita ad esporsi sul fronte degli interessi del "partito del cemento" che anche a Vicenza attraversa banche, professionisti, imprese edili e gestori dell'immobiliarismo. È Franzina che traduce la decisione maturata in Provincia, retta dal leghista Attilio Schneck. Secondo l'esponente del Pdl, «stanno per arrivare due nuovi centri commerciali, uno voluto dalla Lega, uno da Variati». Il riferimento corre alla recente approvazione di Palazzo Nievo del Piano territoriale di coordinamento provinciale, dove spuntano due maxi operazioni urbanistiche sulle ultime aree agricole intorno a Vicenza. Accanto alla possibile conversione commerciale della cubatura privata del Centro logistico di Montebello (coinvolge il deputato leghista Alberto Filippi?), spicca il progetto Vicenza Futura, con il nuovo stadio affidato ai privati che si "offrono" di costruire il nuovo Menti a Vicenza Est in cambio di una cospicua lottizzazione commerciale.

In municipio liquidano tutto come basse insinuazioni. «Ma quali inciuci. Le fantasie malevole di Franzina sono dovute solo alla guerra intestina tra di lui e il resto del suo ex gruppo consiliare. Problemi loro. Ma che non si permettano di gettare ombre su di me» avverte il sindaco. Ma la polemica registra anche le "bordate" di Bruno Carta, coordinatore cittadino Pdl. Sedeva come assessore nella giunta Variati degli anni Novanta. E si conoscono come solo due veri democristiani Doc possono: «È stato bravo, un artista. Ha preso in giro quelli del No Dal Molin e si è preso i voti. Adesso si sposta al centro e concede tutto agli americani, confezionando anche la bufala del parco della Pace. Politicamente è stato bravissimo: li ha tenuti sulla corda, e poi ha detto: abbiamo fatto tutto il possibile, ma la base non si può fermare...».

In questo quadro si inserisce anche la vicenda denunciata da Pietrangelo Pettenò, consigliere regionale della Federazione della sinistra. Sollecita la giunta Zaia a far chiarezza sulla vicenda del Centro Intermodale di Montebello. Riguarda la Cis Spa nata nel 1988 con capitale pubblico: Provincia, Autostrada Brescia-Padova, Banca Popolare di Vicenza, Fiera, Comuni di Vicenza, Montecchio Maggiore, Brendola, Arzignano. «La Cis ha accumulato ingenti perdite, senza, peraltro, realizzare il centro interscambio merci. Per sopperire, la società ha ceduto tramite bando di gara i terreni di sua proprietà a un privato. E così, con l'arrivo del privato e l'approvazione del Pati si è assistito ad un cambiamento nella destinazione di uso dell'area: da centro logistico a megacentro commerciale».

In municipio, la ripresa dell'attività amministrativa si profila ostica. Variati conta sull'autonomia del politico in versione primo cittadino, un po' come Flavio Zanonato a Padova. Entrambi hanno rinnovato i legami con la Compagnia delle Opere: il Comune di Vicenza aveva addirittura uno stand ufficiale al meeting ciellino di Rimini, dove sono tornati in processione sindaco, vice sindaco e rettore dell'Università di Padova. E il fallimento dell'operazione Venezia 2020 ha inesorabilmente riaperto i giochi in esclusiva chiave municipale. Variati (come Zanonato) incarna il "doroteismo" transitato fino al Pd. Se mai, è Lia Sartori a doversi districare nelle trappole del centrodestra. Non può più recitare il ruolo di contraltare di Variati, perché nel Pdl vicentino si punta a girare pagina. L'ombra lunga della Lega preoccupa perfino a Vicenza, ma nessuno arriva ad immaginare un "ribaltone" clamoroso solo ed esclusivamente contro Manuela Dal Lago aspirante sindaco. Sintomatico il giudizio del capogruppo leghista in Regione Federico Caner: «È un dato di fatto che esista un sistema di potere, di persone, di lobby che fa riferimento a Galan. Per carità, capiamo: sono situazioni che si creano naturalmente in tanti anni di governo. Adesso però è arrivato il momento di cambiare».

A Venezia la voce è insistente. «I leghisti sembrano sospettare soprattutto dei mega-progetti come Veneto City, ma anche del project financing sugli ospedali e sulla viabilità. Ma tengono sott'occhio anche il Pat di Vicenza». Il tallone d'Achille?

IL PIANO

Il sindaco disegna la città del futuro

«Un'idea di città nella quale un bambino di oggi vivrà bene anche fra dieci anni». Così il sindaco Achille Variati descrive la Vicenza del futuro disegnata dal Pat approvato a fine 2009. Obiettivo: trasformare la quarta città del Veneto in un vero e proprio centro regionale. Da qui le previsioni: 5-6 mila nuovi residenti nei prossimi 10-15 anni e il superamento della soglia «essenziale» di 10 mila studenti. Imperativo categorico: togliere il traffico di attraversamento del centro storico. Ma anche ridisegnare l'impianto infrastrutturale a partire della nuova circonvallazione nord. Alta velocità e Corridoio 5 sono gli altri punti fermi. Oltre alla mobilitazione delle risorse patrimoniali liberate dalle operazioni urbanistiche in corso: il trasferimento del tribunale a Cotorossi, degli uffici comunali nel comparto del nuovo Teatro, e le operazioni relative all'ex Centrale del Latte e alla Vecchia Dogana. Le linee guida ridisegnano le aree del Villaggio del Sole e del Villaggio della Produttività: saranno collegate da una piazza, con l'interramento di un viale. Ma è "rivoluzione" per la viabilità a ridosso del centro «con la città che si ricollega al colle di Monte Berico grazie a un nuovo tunnel tra viale Fusinato e la Riviera Berica». In questo contesto si inserisce la realizzazione della dorsale metropolitana pubblica Est-Ovest, con le corsie preferenziali per i filobus su gomma e il progetto di nuovo centro culturale di livello europeo, oltre al recupero dell'area dello stadio Menti. Infine Variati prepara il riassetto del confuso agglomerato industriale di Vicenza Ovest-Altavilla-Creazzo.

È dal problema della casa e della difficoltà di trovare un´abitazione in affitto a prezzi decenti, che partirà Stefano Boeri. Per dimostrare come ci sia la necessità di dare vita a una "Agenzia per la casa" che dia risposte e coordini le politiche di assessorati ed enti. Ma soprattutto come esistano già un´infinità di «isole deserte», da riempire. «L´equivalente di 30 Pirelloni di uffici sfitti, che potrebbero essere trasformati in case, e 80mila appartamenti vuoti. Quello che dobbiamo fare è rimetterli sul mercato, a prezzi calmierati», spiega il candidato alle primarie. Senza dover tirare su altri palazzi, espandere i confini di una metropoli che dovrebbe tornare a costruire se stessa prima di consumare altro suolo. Come, invece, prevede il Pgt della giunta Moratti: «Non ha senso un Piano di governo del territorio che si basa sullo scambio dei volumi e non sulle quantità di persone», attacca.

L´esperienza a cui guardare per la casa arriva da Barcellona, dove una sorta di "immobiliare sociale", la Provivienda, da dieci anni mette in contatto i proprietari con chi, una casa, non potrebbe trovarla senza la loro garanzia: studenti, giovani coppie, migranti. Ed è questo lo schema che Boeri seguirà per comporre il mosaico del programma: facendo rete. Quella locale delle associazioni che già lavorano in città. Ma anche quella internazionale, chiamando "testimonial" che, dall´Europa agli Stati Uniti, hanno dato vita a esempi alternativi concreti. Il cantiere del 2011 è stato inaugurato.

La corsa dell´archistar che studia da candidato è iniziata. Quando, alle 15 di due giorni fa, è sceso dall´aereo che lo ha riportato a casa da Harvard - dove ha tenuto un ciclo di lezioni - è atterrato anche su un altro mondo: una campagna elettorale già infiammata. Anche se lui assicura: «Non sarà al veleno». Da allora, raccontano i suoi, non si è più fermato. La macchina organizzativa è stata avviata, una squadra di giovani, una ventina, è già operativa. Molti hanno lavorato con lui al Politecnico o su progetti come la ristrutturazione delle cascine. «Qualche ex studente mi ha chiamato dicendo che rinunciava all´Erasmus per darmi una mano». Ed è proprio a uno staff giovane che sta pensando Boeri. Nuove facce e nuove generazioni. Per mettere in moto, prima di tutto, un giro nei quartieri. Una necessità per chi ha bisogno di farsi conoscere.

E poi ci sono quelle 400 telefonate di stima che dice di aver ricevuto: da Maria Grazia Guida della Casa della carità a Severino Salvemini, da Maria Berrini (Ambiente Italia) a Luca Doninelli, Enzo Mari e il designer Fabio Novembre. Da lì si partirà per costruire il comitato. Che dovrà trovare una sede: «Mi piacerebbe che fosse in una zona viva, magari lungo un asse commerciale», dice. L´agenda inizia a riempirsi. Ieri sera la prima uscita pubblica, all´inaugurazione di MiTo alla Scala, dove c´era anche il sindaco Letizia Moratti ma i due all´arrivo non si sono incrociati. Questa mattina il debutto alla Festa del Pd: Boeri incontrerà gli inquilini delle case popolari. In attesa del 19, quando si rinnoverà l´incontro con il segretario Pier Luigi Bersani. Proprio con i dirigenti locali del Pd è già avvenuto ieri un colloquio. Nei prossimi giorni si proseguirà con tutti i partiti, dall´Udc all´Idv. Le presentazioni sono d´obbligo. Per future alleanze, si vedrà. Lui è sicuro: «Ci sono pregiudizi su di me che sono costruiti ad arte e cadranno».

La candidatura a Sindaco di Milano di S. Boeri e il probabile appoggio alla stessa del PD milanese, non costituisce un’alternativa alla Milano della Moratti e di venti anni di giunte di destra.

L’archistar del Masterplan di Expo 2015, dei giardini pensili a Garibaldi-Repubblica, ma anche del G8 alla Maddalena (quello della cricca di Bertolaso…), ben rappresenta gli interessi del sistema di potere imperante nella metropoli milanese. Il suo ruolo nell’operazione Expo, garantisce a banche, Fiera, immobiliaristi e consorteria varia, la continuità del modello basato sulla densificazione urbana, la trasformazione della metropoli in un grande polo logistico-commerciale, la rinuncia a una visione pubblica di città. Un modello che vede nell’Expo l’occasione per ristrutturare il territorio milanese, al di là della portata reale dell’evento, spartendosi le scarse risorse pubbliche rimaste, e nel PGT lo strumento normativo per completare la deregolamentazione urbanistica e la privatizzazione della città e dei servizi pubblici (con un po’ di housing sociale e di servizi in appalto a cooperative bianche e rosse).

In questi mesi, mano a mano che il fallimento di Expo diventava palese, complice la crisi economica e le lotte di potere tra i soci di Expo Spa, il PD milanese e Boeri sono state voci costanti nel chiedere risorse, leggi, accordi per garantire la riuscita di Expo 2015, quasi preparassero il terreno alla candidatura, legittimandosi agli occhi del potere economico-finanziario milanese, come garanti dell’operazione e unici in grado di portarla a compimento, magari in un contesto di pace sociale e di città disciplinata. Non ci stupiscono perciò gli apprezzamenti trasversali che Boeri potrà raccogliere, né l’ostinazione con cui il PD continua a difendere Expo 2015. Difendono l’uno gli interessi del proprio ruolo, gli altri, gli affari del blocco economico di riferimento (leggi Legacoop), peraltro sempre più sodale nel business con la “piovra economica e clientelare” che la Compagnia delle Opere rappresenta in Lombardia.

Milano ha bisogno di altro. Lungi da noi voler fare campagna elettorale per questo o quell’altro candidato, ci limitiamo a ribadire che la priorità è uscire dalle logiche che portano a Expo e che ispirano il PGT di Milano, che portano privatizzazioni e precarietà. La necessità è un’altra Milano, che rimette al centro il concetto di Pubblico, inteso come spazio, come priorità, come modalità di erogazione dei servizi e di gestione delle risorse, e non gli interessi di casta o di bottega.

Seguirà nei prossimi giorni un più dettagliata analisi sulla situazione milanese.

Dopo mesi di afasia, il Pd ha scelto Stefano Boeri per conquistare Palazzo Marino. L'architetto cool che piace alla borghesia che conta ha lavorato per cementificare la Milano dell'Expo su committenza del sindaco Moratti. Intervista a Giuliano Pisapia, avvocato, sfidante della sinistra alle primarie



Giuliano Pisapia e Stefano Boeri. Sono due persone in vista e ben educate, però adesso non potranno più evitare di partecipare al giochino che li vuole uno contro l'altro. L'avvocato e l'architetto. Una sfida a colpi di primarie per cercare di insidiare la poltrona mai così traballante di Letizia Moratti - i sondaggi la danno abbondantemente sotto la sua poco calorosa coalizione. Adesso che il super architetto Stefano Boeri ha deciso di candidarsi a sindaco, facendo finta di essere espressione della società civile (in realtà è il candidato del Pd), le primarie diventano una cosa seria. Si dovrebbe cominciare a parlare di contenuti e presto si faranno vivi altri candidati per rendere meno scontata la competizione. Ne parliamo con Giuliano Pisapia, avvocato, ex parlamentare del Prc, il primo a metterci la faccia due mesi fa, quando sinistra e centrosinistra non sapevano che pesci pigliare.

La battuta più velenosa è del sindaco. Dice che con la candidatura di Boeri la sinistra non potrà più dire che lei non sa scegliersi i collaboratori. In effetti, l'architetto era a libro paga proprio per i progetti urbanistici contestati dalla sinistra.

Per quanto mi riguarda, io in questi anni mi sono solo scontrato con tutte le politiche della Moratti, dall'ultima ordinanza fino ai problemi più gravi mai affrontati, casa e lavoro, per non parlare dell'Expo. Prima di decidere la mia candidatura ho letto tutti i cento punti del programma del sindaco, e almeno novantotto non sono mai stati affrontati. I restanti due, poco e male. Piuttosto che di Boeri preferisco parlare delle mie esperienze, e chi mi conosce sa bene che io a Milano ho svolto la mia professione di avvocato impegnandomi nella difesa dei diritti di tutti e in particolare dei più emarginati, prima come volontario e poi come parlamentare. Per questo credo di poter affrontare le primarie con umiltà ma con la consapevolezza che questo mio impegno verrà riconosciuto.

Come è possibile far passare l'archistar di Expo 2015 e dei grattacieli per i ricchi del quartiere Garibaldi come un'alternativa al centrodestra?

Il Pd ha fatto di tutto per avere un candidato alternativo cercando di farlo apparire espressione della società civile. Posso solo dire che parte di quella società, che preferisco chiamare cittadinanza attiva, si stava già misurando con me in seguito alla mia candidatura. Ricordo solo che da parte del Pd ho ricevuto reazioni durissime quando ho proposto di non acquistare i terreni dei privati per realizzare l'Expo. Ho detto che si sarebbero potuti utilizzare i tanti terreni pubblici, e questa prospettiva evidentemente non è piaciuta.

Prova a marcare qualche differenza sostanziale fra te e Boeri.

Posso solo dire che, essendo in corsa da due mesi, ho già elaborato delle schegge di programma insieme alle persone che mi hanno incontrato. Non conosco il programma di Boeri, per cui sarei costretto a dare dei giudizi unicamente sulla base di ciò che si dice di lui. Non è corretto, le differenze ci sono e si vedranno presto.

Ti va di essere etichettato come candidato della sinistra radicale o pensi che sia necessario guardare al centro? Del resto così farà Boeri, perfetto esponente degli interessi della borghesia amica del mattone.

Mi sta stretto essere il candidato dei partiti, mi sta bene essere di sinistra. Io sono di sinistra... Ma credo che per vincere sia necessario cercare altri appoggi, dai disillusi che non votano più a sinistra fino a quei voti che si sono spostati sulla lega e sulla destra.

Piuttosto complicato.

Non è difficile, basta mettere a confronto ciò che hanno fatto i sindaci socialisti e la disastrosa gestione della destra. Dobbiamo convincere le persone che la sinistra è capace di governare.

Come pensi di coinvolgere quella parte della cittadinanza attiva che non vuol sentir parlare dei partiti?

Con la mia storia politica. Per coerenza mi sono dimesso dalla Commissione giustizia alla Camera quando il Prc fece cadere Prodi, e poi ho deciso di non candidarmi quando il partito mi offrì un'altra occasione. A un certo punto è indispensabile allontanarsi dai partiti per non perdere il contatto con la realtà. In questi due mesi ho incontrato tante persone, i comitati che mi sostengono sono formati da qualche iscritto, qualche ex disilluso e molti giovani. Sono già riuscito a dare la senzazione di essere libero dai partiti.

Due mesi, cosa ti ha più sorpeso?

Una netta divisione della città in due, da una parte i rassegnati e dall'altra gli incazzati. Spero che i primi si rimettano in gioco e che la rabbia si trasformi in volontà di mobilitazione.

Non pensi sia necessario ritagliarsi un profilo più aggressivo per rianimare gli scettici che non ci credono?

Credo di essere molto duro sui contenuti, forse sul piano del linguaggio lo sono meno, ma questa è la mia modalità. Cerco di ragionare, non di urlare.

I rom. La campagna elettorale qui si avviterà. Sono anni che De Corato investe sulla caccia agli zingari. Dove il discrimine è tra umanità e disumanità, forse la sinistra, per principio, non dovrebbe essere più decisa?

Questo è uno dei motivi per cui mi impegno a vincere. Nella mia squadra ho messo una persona come Paolo Limonta, lui è sempre di fianco ai bambini dei campi quando vengono sgomberati. Non è una scelta casuale.

Sai fino a che punto è arrivata la frantumazione a sinistra. Credi di riuscire a dare il segno di una ritrovata unità, o assisteremo ai soliti giochetti?

Credo di poter parlare di unità a sinistra attorno al mio nome, a Milano. Ma è chiaro che il passaggio delle prossime elezioni è di grande importanza a livello nazionale. Il problema è ricostruire una sinistra forte, perché le persone di sinistra ci sono e sono tante.

E vero che giochi a poker?

Sì, è l'unico gioco che mi permette di non pensare, mi rilassa.

Adesso che carte hai in mano?

Una bella scala, con l'asso di cuori.

GIULIANO PISAPIA

Avvocato penalista, ex parlamentare del Prc, già presidente della Commissione giustizia alla Camera, Giuliano Pisapia da sempre si batte per la difesa dei diritti dei più deboli. La sua è stata la prima candidatura per le primarie milanesi che guarda a sinistra

STEFANO BOERI

L'«archistar» più famoso sulla piazza milanese ha un profilo professionale molto alto. Tra i tanti progetti che portano la sua firma, anche il masterplan dell'Expo di Milano. E' molto ben inserito negli ambienti finanziari che contano. E' il candidato del Pd.

Anche se quello che si eleggerà il prossimo anno sarà il sindaco dell’Expo, sarebbe riduttivo far ruotare la corsa per il Comune intorno all’evento del 2015: dalle politiche sul traffico a quelle sull’aria, dal rilancio delle periferie all’integrazione degli stranieri, fino al decoro urbano, c’è l’imbarazzo della scelta sui problemi da affrontare e risolvere per il bene di Milano. Ma il fatto che nella sfida a Letizia Moratti (che ha fortemente voluto e poi ottenuto l’assegnazione dell’Expo), sia entrato in campo l’architetto Stefano Boeri (che del progetto Expo è uno degli autori) obbliga a tener conto di ogni sussulto politico intorno alla manifestazione, perché nei prossimi mesi potrebbe condizionare, nel bene o nel male, entrambi i candidati.

Restano i problemi di fondo (si farà? Non si farà?), restano le difficoltà di budget (ridimensionato con la crisi), ma soprattutto resta il buio attorno al senso di un progetto che sul tema della fame nel mondo non è riuscito a coinvolgere il mondo produttivo e quello delle università. Oggi Expo può essere un asso vincente o una palla al piede per il sindaco Moratti, ma può anche condizionare le mosse dell’architetto Boeri, che correttamente si è dimesso dall’incarico di progettista, ma è stato fino a ieri uno dei più ascoltati consiglieri del sindaco.

Per Milano, per il bene della città, sarebbe auspicabile trovare una visione che accomuni i candidati di Palazzo Marino sulle ricadute positive di Expo: definendo subito quali e quante saranno, in concreto, se al teatrino della politica si sostituisse il gioco di squadra. Un passo in questo senso l’ha già fatto un altro candidato, Giuliano Pisapia: un segnale di stile, che forse non è stato colto.

Milano è stanca di parlare di un Expo che non si vede, che fa notizia soltanto per i ritardi o le dimissioni di qualcuno, che ha lasciato una scia velenosa di polemiche e di inefficienze. Milano chiede, anche attraverso Expo, di dare concretezza a politiche urbane in grado di migliorare la qualità della vita dei suoi abitanti, di osare con alcuni progetti di sostenibilità, di creare zone a impatto zero di traffico, di ricostruire la socialità perduta in alcune periferie.

L’ambiente, la riqualificazione urbana, musei all'altezza di una metropoli europea (vedi Brera), una città finalmente più a misura di bambini, un grande omaggio al genio di Leonardo, sono certamente temi per la campagna elettorale. Sarebbe un bel segnale se, al di là della normale battaglia politica, i candidati al Comune trovassero il modo di fare arrivare a chi cerca con fatica di traghettare Expo verso un difficile traguardo un messaggio di questo tipo: su alcuni progetti per la città, pochi e mirati, ci impegniamo a dare il nostro contributo senza farci la guerra e lo facciamo per Milano e per i milanesi. Questi progetti però devono venir fuori. Altrimenti Expo continuerà ad essere, per i cittadini, un ufo o poco più.

Milano - Tanto di cappello: quando una strategia c’è va riconosciuta, e a modo suo ammirata pure. Soprattutto se dall’altra parte non si intravede nulla, salvo innumerevoli e maldestri tentativi di imitazione, o critiche sacrosante che però, ahinoi, non si presentano (o forse non hanno davvero) col medesimo respiro millenario. La strategia, il “piano”, è quello della destra ciellino-fascista che imperversa ormai da lustri nella capitale padana, via via plasmata a sua immagine e somiglianza, almeno nel senso comune di chi ragiona o dovrebbe ragionare, salvo stridere con tutto ciò che non controlla, e trovare lì una specie di “antitesi”, di opposizione, che però ovviamente non potrà mai di per sé trasformarsi in proposta alternativa.

Avevano perfettamente ragione coloro che, intervenendo in varie fasi nella discussione sul Piano di Governo del Territorio dicevano quanto fosse sostanzialmente inutile andarne a contestare questo o quell’aspetto, se non si ricomponeva l’insieme delle critiche entro una idea di città completamente diversa, e non fatta di rattoppi a quella degli altri. Perché anche le scelte urbanistiche più “generali” e le strategie di massima a loro volta si inseriscono in un quadro più ampio, non necessariamente di ordine esclusivamente territoriale. Solo per toccarne un aspetto, di questa coerente complessità, proviamo a dare un’occhiata alle ultime politiche di “tolleranza zero”. Cosa c’entrano? C’entrano, c’entrano parecchio.

Prima c’è stata la stagione dei grandi piani di iniziativa privata, a loro volta discendenti dei più antichi documenti direttori sull’innovazione infrastrutturale e il riuso delle superfici dismesse. Non ha un particolare interesse, qui, andare a vedere se, come, e quanto quelle operazioni abbiano solo mosso capitali e aspettative, e siano naufragate fra le erbacce, la nuova fauna urbana di nutrie e leprotti, o peggio nel tragicomico delle archistar letteralmente sedute su un mucchio di veleni che tentano di nascondere con le loro tavole colorate. La cosa forse più interessante è capire che parallelamente a quei progetti si è impennato complessivamente il mercato immobiliare, con processi progressivi di espulsione dal nucleo centrale metropolitano, e di sprawl a cerchi concentrici sempre più ampi. Lasciando al loro destino i poveri neovillettari coatti, va osservato come la forma di resistenza più vistosa all’espulsione sia quella di chi si adatta – anche in mancanza di alternative – a quel che offre il convento.

Inquilini delle case popolari, finché glie le lasciano, e soprattutto neoimmigrati: non solo i disperati nascosti sotto qualche cavalcavia o fra i residui capannoni in disuso, ma la fascia intermedia più dinamica che prova a sopravvivere. Sono questi la vera opposizione al regime. In stragrande maggioranza del tutto legali e integrati, per ovvi e comprensibili motivi di relazione familiare, culturale, etnica, si ritrovano in strettissimo rapporto quotidiano, personale, a volte anche economico, con qualche sacca di illegalità. Producono anche parecchio disordine, soprattutto se per “disordine” si intende qualcosa che non si capisce, non si vuole capire, non si ha interesse a capire. Che rapporto potranno mai avere questi brandelli di città sconosciuti (sconosciuti ai rappresentanti eletti dal popolo), sia con la confusa immagine da cartolina del quartiere del tempo che fu, sia con quella altrettanto confusa di una fantascientifica popolazione di ricchi, su e giù dall’aeroporto agli attici da tre milioni euro, a produrre fantastiliardi di reddito.

Entrambe queste versioni della città futura virtuale ispirano le convergenti politiche della Falange: da un lato l’apparentemente demenziale “densificazione” a due milioni di abitanti da stipare chissà dove e chissà come; dall’altro le insinuate speranze di ritorno al bel tempo che fu, quando c’era il rispetto, la dignità, e la gente stava al suo posto … La Falange da par suo si presenta anche sul versante fisico proprio come una tenaglia, coi nuovi grandi quartieri (veri o ancora solo appiccicati sul sito web del Comune) della corona esterna pronti ad accogliere il popolo terziario avanzato, quelli intermedi in attesa del messia liberatore dal giogo dell’immigrazione, e il piccolo nucleo centrale a fungere da laboratorio-pensatoio. Basta guardare una mappa della città per vedere questo schema riprodursi ineffabile ogni qual volta l’eroe libertador di turno (a dire il vero pare sempre lo stesso, ma non mancano i comprimari occasionali di settore) lancia i suoi strali contro gli effetti nefasti della globalizzazione.

Sull’asse urbano della Padana Superiore, l’operazione coprifuoco in via Padova è scattata come un orologio appena qualcuno ha innescato la scintilla: troppa vita in quel quartiere, staccare la spina, chiudere tutto, emergenza! E qualche centinaio di metri più in periferia, i rendering degli architetti stanno puntualmente trasformando l’ex area Marelli ai confini con Sesto San Giovanni nel futuro Quartiere Adriano. Nella zona più centrale della cosiddetta Chinatown di via Sarpi, la fede nell’ineluttabile ritorno a un fumoso ambiente Vecchia Milano mai esistito si è addirittura andata a scontrare col sacro libero mercato, l’impresa, sfiorando l’incidente diplomatico internazionale con l’intervento del Console cinese. Ma se si tira una riga a scavalcare la porta nei Bastioni progettata a fine ‘800 da Cesare Beruto, ci si infila quasi subito fra le torri della zona Garibaldi, i localini post-bifolchi dove si sniffa ma non si deve dire, i boschi verticali dove si fa il mutuo solo per visitare l’appartamento.

La ricetta del panino immaginario a tre strati si è ripetuta in questa estate climaticamente anomala del 2010 anche nell’ultimo caso, quello del quartiere Lodi-Corvetto, sull’asse urbano della via Emilia. Anche qui gli eroi della liberazione dal giogo degli oppressori immigrati, verso il luminoso ritorno della Vecchia Cara Milano col cervelè all’angolo, inquadrano la direzione esatta, nel caso specifico quella di Rogoredo, su cui si affacciano le propaggini estreme dell’abortito (ma questo è un dettaglio) Santa Giulia, by appointment of his majesty Sir Norman Foster, ciumbia!

E la forza del destino che tutto travolge ha individuato da par suo il nuovo nemico: Bersani. Non il segretario del ciondolante Pd, ma il ministro che a suo tempo nel più perfetto stile italiano ha liberalizzato il commercio mettendo fine alla pianificazione di stile sovietico chissà perché approvata dai democristiani, aprendo le porte al degrado urbano. Insomma l’immigrato non si merita il libero mercato: torniamo al bel tempo che fu anche con la corporazione dei bottegai che per diritto di sangue controllano il quartiere.

Solo in questa cornice, del dispiegarsi coerente di una Urbanistica dei Fasci e delle Corporazioni, è possibile apprezzare appieno oltre vent’anni di piccoli e grandi passi sulla strada verso il futuro. Gli ultimi particolari nell’articolo riportato di seguito. Grazie per l’attenzione.

Oriana Liso, Stop a kebab e Internet point il commercio cambia regole, la Repubblica ed. Milano, 17 agosto 2010

Un piano del commercio per fissare regole severe, che impediscano il proliferare di negozi etnici, di Internet point, ma anche di bar e locali della movida. È questo il progetto di Comune e Regione, che stanno lavorando per mettere a punto un regolamento che non contrasti con le leggi nazionali, come quella (la cosiddetta Bersani) che ha liberalizzato le licenze. «Finché abbiamo questa legge non possiamo intervenire, abbiamo le mani legate», è la posizione del sindaco Moratti, che ha firmato l´estensione dell´ordinanza antidegrado - che entrerà in vigore domani - a un nuovo tratto di corso Lodi e vie limitrofe, «come chiesto dai residenti», secondo la versione di Palazzo Marino. Ed è proprio il sindaco ad annunciare: «Stiamo lavorando con la Regione per vedere se si può, con una legge regionale, mettere a punto delle misure per i negozi di vicinato e le botteghe storiche, però non possiamo andare contro una legge nazionale. Per controllare esercizi come phone center, Internet point, kebaberie usiamo anche le ordinanze».

Già il mese scorso ci sono stati i primi incontri tra l´assessore comunale Giovanni Terzi e il suo omologo regionale Stefano Maullu per stabilire un piano d´azione. Perché il problema è proprio quello di non entrare in rotta di collisione con la legge nazionale, scrivendo regolamenti che potrebbero poi facilmente essere annullati dai giudici amministrativi. Per questo, spiega Maullu, «pensiamo a una griglia operativa che dia ad ogni Comune gli strumenti per creare dei distretti commerciali armonici, dove non ci sia una concentrazione eccessiva dello stesso tipo di attività, anche grazie a criteri più rigidi per concedere le licenze». Tra i criteri, per esempio, ci potranno essere regole igieniche stringenti, o una trasparenza maggiore su proprietari e finanziatori di ogni attività, oppure, ancora, un controllo puntuale su diplomi e attestati che dimostrino la competenza di chi apre un´attività in quel settore specifico (ad esempio, i centri massaggio, i saloni di estetica, i parrucchieri).

A questo, aggiunge l´assessore Terzi, si potranno sommare anche regole sugli orari (che scoraggino l´avvio di nuove attività nelle zone già dense di locali) e che fissano distanze minime tra le vetrine. «Un criterio di distribuzione che non vale solo per i negozi etnici, ma anche per i locali della movida e per le gelaterie, vogliamo rendere armonici i quartieri, evitando superconcentrazioni di alcune categorie merceologiche a spese di altre», spiega Terzi.

L´idea di mettere le briglie alla legge Bersani non dispiace agli stessi commercianti. Tanto che Simonpaolo Buongiardino, consigliere delegato dell´Unione del commercio, attacca: «La deregulation di questa legge ha tolto la possibilità ai Comuni di fare dei piani commerciali, e quindi di porre dei limiti ad alcune attività: ma non si può pensare a periferie trasformate in suk di negozi etnici, o a zone anche centrali dove tutte le vetrine sono di abbigliamento e non si trova un supermercato». L´occhio di Regione e Comune resta puntato sulle insegne straniere, visto che - come raccontano i dati della Camera di commercio - in città sono oltre mille le imprese con titolare nato fuori dall´Italia, ovvero il 33 per cento delle ditte del settore (la media in provincia è del 26, in Italia del 9). A portare la bandiera delle attività sono i cinesi: rappresentano oltre il 55 per cento dei servizi di ristorazione stranieri.

La storia ultraquarantennale del ponte sullo Stretto di Messina dimostra quanto di oscuro e di indefinito si nasconde nelle vicende che finora si sono susseguite. Basta riflettere sul fatto che dopo quasi mezzo secolo di studi, di ricerche, di dichiarazioni di fattibilità, di modellini in atmosfere idilliache portati in giro per il mondo, di appalti di lavori con procedure inammissibili, di ridicole aperture di cantieri, ancora non vi è alcun progetto definitivo, né coperture finanziarie che ne garantiscano l'esecuzione. Mai vista una simile turlupinatura per un'opera pubblica, anche di più modeste proporzioni. Ancora oggi si fanno indagini geognostiche e geotecniche sulla base di un cosiddetto «cronoprogramma» sbandierato dal ministro Matteoli (ma già disatteso) nel quale sono elencate una serie di indagini propedeutiche alla redazione del progetto esecutivo. Le sonde, installate sulla zona abitata di Torre Faro, minacciano interi condomini, soggetti a esproprio sulla scorta di procedure inammissibili in questa fase preliminare. Non si conoscono le sorti di migliaia di cittadini che saranno privati dei loro beni e delle loro attività. E se le indagini in corso non daranno permissività alle esecuzioni delle faraoniche opere?

Eppure si continua a nascondere la verità sullo stato di fatto, sulle più volte indicate e successivamente disattese date di realizzazione del progetto definitivo e di inizio dei lavori, sulla mancanza di progetti esecutivi per la realizzazione delle numerose opere a terra, sullo sconvolgimento della durata di oltre un decennio delle due città dello Stretto e di vaste aree urbanizzate connesse. Si ignorano i dissensi, reiterati e autorevoli, sulla fattibilità in sicurezza di un'opera unica al mondo e in un'area di così alto rischio sismico, sulla sua effettiva futura utilità, sull'incidenza dei costi, seppure incerti ma non inferiori a 6,5 miliardi di euro, sui presunti benefici, sulla priorità di una simile opera rispetto alle urgenze di salvaguardia di territori soggetti a seri dissesti idrogeologici e privi di risorse. Si può rimanere inerti di fronte a tanto scempio?

Il futuro del Parco Sud si chiama agriturismo. Ne è convinto il presidente della Provincia Guido Podestà che, in vista dell’arrivo dei visitatori di Expo, lancia un progetto per aumentare le strutture e i posti letto all’interno dell’immensa area verde ai confini con la città. «Il potenziale è altissimo - dice - e noi vogliamo incentivare la ristrutturazione delle cascine in questo senso». Ma l’urbanista Beltrame avverte: «Attenti all’assalto degli speculatori».

Natura e relax, è rivoluzione cascine

di Alessia Gallione

In Toscana o in Umbria è una tradizione (e un business) da anni. Vecchi casolari trasformati, dove trascorrere vacanze a contatto con natura. Tra relax e prodotti tipici. Ed è proprio all’agriturismo che, adesso, guarda Palazzo Isimbardi per rilanciare il Parco Sud. Aprendo la strada sempre di più alla possibilità per le aziende di affiancare l’attività di produzione all’ospitalità. Ristrutturando e cambiando la destinazione delle cascine. E aumentando, anche in vista dell’arrivo dei visitatori di Expo, il numero dei posti letto. «Perché il potenziale è enorme - spiega il presidente della Provincia e del direttivo del Parco, Guido Podestà - e vogliamo incentivare la nascita di queste attività che, non solo non snaturano ma possono diventare una salvaguardia per la vocazione agricola del territorio».

È al centro dei dibattiti politici da anni: un’area immensa a rischio cemento, però, visto che le mire di molti costruttori non sono mai cessate. Per Podestà non va stravolta. Ma ribadisce: «Non dobbiamo farne un totem. Il Parco va reso penetrabile con percorsi pedonali, ciclabili, ippovie. E non dobbiamo scandalizzarci se qualche Comune pensa a realizzare sui confini una scuola, amplia un cimitero o una fabbrica». La svolta per renderlo, però, per far vivere il Parco si chiama agriturismo. E la Provincia - che sovrintende la pianificazione anche attraverso i cosiddetti "Piani di cintura" - vuole dire sì alle domande di riconversione presentate: una decina, per ora, quelle in attesa di risposta in diversi Comuni. «Oggi - dice Podestà - ci sono un migliaio di aziende, ma solo una ventina ha sviluppato una attività completa di agriturismo». In tutto 150, 180 posti. Che potrebbero moltiplicare: «Sarebbero un’ottima risposta in termini di ricettività in vista di Expo. Anche per i milanesi dovrebbe diventare un’abitudine andare ad acquistare prodotti o a pranzare nelle cascine».

Se, per ora, la possibilità di dormine in cascina non è così sviluppata, decine di aziende si sono organizzate con la vendita diretta, le fattorie didattiche, lo sport o i ristoranti. Dario Olivero, presidente del Consorzio agrituristico "Terre d’acqua" che racchiude 15 aziende tra il Parco Sud e Ticino, avverte: «Piuttosto che realizzare nuove costruzioni, siamo favorevoli a ristrutturare le strutture esistenti. Ma ci vuole un progetto di lungo periodo per capire se potrà esserci richiesta anche dopo Expo». Senza dimenticare i finanziamenti: «Per una norma dell’Unione europea l’agriturismo non è finanziabile nel Milanese. Regione e Provincia dovrebbero attivarsi con fondi propri». La sviluppo dell’agriturismo sembra piacere anche a Massimo D’Avolio, sindaco pd di Rozzano e presidente dell’Assemblea dei 61 Comuni: «Potrebbe essere un’opportunità per valorizzare la zona in chiave turistica. Sicuramente ci sono molte vecchie cascine che potrebbero essere ristrutturate».



L’altolà dell’urbanista "L’area fa gola a molti attenzione ai trucchi"

intervista di Stefano Rossi a Gianni Beltrame

Gianni Beltrame, urbanista, è fra i padri del Parco Sud, essendo stato uno dei direttori del Pim, il centro studi per la programmazione dell’area metropolitana milanese. Architetto, l’agriturismo è compatibile con il Parco Sud?

«In linea di principio sì. Tuttavia il Parco è oggetto di aggressioni edificatorie e speculative. Si deve controllare caso per caso per verificare se si tratti di iniziative di vero agriturismo».

Qual è il fattore discriminante?

«È agriturismo se si soggiorna in una cascina che svolge una normale attività agricola. Non è agriturismo se si va in un albergo o un ristorante truccato da attività agricola».

C’è un rischio reale?

«L’agriturismo è facilmente oggetto di mistificazioni. Anche le revisioni dei confini del parco su richiesta dei Comuni vanno esaminate con attenzione. Sono spesso una scusa per nuovi interventi urbanistici nelle aree protette».

Eppure molti Comuni, in primis quello di Milano, sostengono che il Parco Sud sia un’area degradata.

«Quella del degrado è una balla che il Comune di Milano racconta per arrivare a una conclusione ovvia: il Parco Sud va risanato. Come? Costruendoci sopra. Da tempo il Comune strizza l’occhio a Ligresti, Paolo Berlusconi, Cabassi, che hanno comperato anche in anni recenti dagli enti pubblici a prezzi di svendita. Sono loro i grandi proprietari e non certo gli agricoltori, che sono in affitto. Il Comune però non dice che il Parco Sud, anche se può non essere bello dal punto di vista della manutenzione, ha salvato dalla cementificazione la zona agricola più bella e sviluppata della pianura padana, una delle più fertili d’Europa. Nel Settecento e Ottocento gli agronomi inglesi e tedeschi venivano a studiare il sistema irriguo milanese».

Le aziende agricole però segnano il passo.

«Logico, se la proprietà ricatta l’affittuario con rinnovi contrattuali di due anni in due anni. È questo che ha fatto abbandonare i campi. Servono contratti più lunghi per giustificare la riqualificazione. L’agricoltura ha strutturalmente tempi lunghi di investimento e di resa».

Il Pgt, il Piano di governo del territorio adottato in prima lettura a luglio, dà garanzie per la salvaguardia del Parco Sud?

«Il Pgt ne voleva la distruzione. Vedremo dopo le modifiche in prima lettura e dopo l’approvazione definitiva. Il Comune punta a renderlo edificabile, in ossequio ai desideri dei grandi proprietari di cui questa maggioranza è portavoce. Ma non ne ha il potere, e nemmeno la Provincia, che è solo l’ente gestore. Il Parco Sud è stato istituito con legge regionale».

Regione, Provincia e Comune sono governate dalla stessa maggioranza.

«È chiaro che il Parco Sud è la più bella occasione speculativa che si offre nel milanese. La scelta di proteggere l’ultima grande fascia agricola è stata lungimirante ma, dopo aver cercato di costruire il parco per decenni, negli ultimi anni ho potuto solo tentare di difenderlo».

Si livella il terreno distruggendo le strutture sottostanti. Nessun intervento del Commissario Delegato alle aree di Ostia e Roma. Beni in rovina nel XIII Municipio e nel Comune di Fiumicino. Gli unici interventi in 2 anni: manutenzione del verde e i servizi igienici del Teatro di Ostia. Presentato esposto alla procura di Roma.

"Le aziende di 'prato pronto' che operano nell'area di Pianabella, dietro il cimitero di Ostia Antica, stanno distruggendo secoli di storia, senza che il Commissario Delegato per le aree archeologiche di Roma e Ostia Antica, Roberto Cecchi, dica nulla". Questa l'accusa di Andrea Schiavone, Presidente dell'Associzione Culturale Severiana. "L'area in questione, l'ultima tra le tante, è quella prospiciente l'Azienda Bindi. La recente preparazione del terreno per produrre il cosidetto 'prato pronto', che si impiega nei giardini privati e nei campi di calcio, ha distrutto probabilmente resti di un sepolcro romano, identificato sul posto per la presenza di un cumulo". Le foto testimoniano la notevole quantità di materiale archeologico 'grattato' via dal terreno. Anse e fondi di anfore, lastre di marmo, tegole e resti di sepolture in terracotta. In quel tratto correva infatti la Via Laurentina che, uscendo da Ostia Antica, era costellata di tombe, fino a raggiungere il ponte sul Canale dei Pescatori dove si unificava con la via costiera detta Severiana. "E' inammissibile che proprio la Soprintendenza di Ostia abbia autorizzato questo scempio, senza effettuare alcun controllo - continua Schiavone -. Domani presenteremo un dettagliato esposto alla Procura di Roma e al Commissario Delegato".

Ricordiamo che con Ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 3774/2009 l’arch. Roberto Cecchi è subentrato al Sottosegretario di Stato Guido Bertolaso (OPCM 3747/2009), dimessosi dall’incarico a seguito dell’emergenza dovuta al rovinoso evento sismico dell’Abruzzo (aprile u.s.). Il commissariamento era stato motivato per la realizzazione di interventi urgenti necessari al fine di superare la situazione di grave pericolo in atto nelle aree archeologiche di Roma e Ostia Antica. Ad oggi, per quanto riguarda il XIII Municipio e il Comune di Fiumicino (aree di competenza della ex Soprintendenza di Ostia), nessuna misura diretta alla messa in sicurezza e alla salvaguardia dei beni è stata pianificata e neppure opere di manutenzione straordinaria e consolidamento per impedire il degrado dei beni e per consentire la piena fruizione da parte dei visitatori. Le uniche voci che risultano nel secondo rapporto settembre 2009-febbraio 2010 del Piano degli Interventi, sono le seguenti: manutenzione del verde nell'area archeologica degli scavi e i 'servizi igienici del Teatro di Ostia Antica'. In totale, 129 mila euro. Intorno è degrado e distruzione.

L’idea (già in atto) è quella di costruire nella collinetta che sovrasta la spiaggia di Tuerredda, a due passi da Teulada e Capo Malfatano, un complesso turistico a cinque stelle ed ecocompatibile. Un lavoro, nelle intenzioni dei costruttori, da terminare entro il 2012.

Di questo progetto fanno parte un albergo articolato su più edifici, con terme, ristoranti, centro sportivo e piscine. Poi tante villette al massimo su due livelli, con grandi giardini che «si adegueranno al paesaggio con colta semplicità». In totale 150mila metri cubi di cemento che pian piano stanno già colando su una delle più belle e incontaminate zone della Sardegna sud-occidentale. Tutto con il beneplacito dell’amministrazione comunale di Teulada e persino della giuria del «Real Estate Awards», che ha recentemente premiato l’iniziativa immobiliare con il «Mattone d’oro».

A costruire su 700 ettari il «Capo Malfatano Resort» sarà la società Sitas, una cordata di imprese di cui fa parte la Sansedoni spa (40 per cento, controllata dal Monte dei paschi di Siena), la Benetton (25 per cento, attraverso la Ricerca finanziaria spa), il gruppo Toffano (24 per cento) e il gruppo Toti (11 per cento). La gestione dell’albergo sarà invece affidata alla Mita spa, la società dal gruppo Marcegaglia, che in Sardegna già amministra il Forte Village, a Santa Margherita di Pula, e l’ex arsenale della Maddalena.

Gianni Albai, sindaco di Teulada, non nasconde l’ entusiasmo per il progetto, che a suo parere mostra evidenti vantaggi per la collettività. L’ accordo integrativo di procedimento tra il Comune di Teulada e la Sitas, risalente al marzo scorso, prevede che i costruttori rinuncino a parte di metri cubi che inizialmente avevano proposto di edificare. «Nel dettaglio - spiega il primo cittadino di Teulada - la Sitas ci cederà 180 ettari nelle aree di Sa Calarza e di Antonareddu, dove nascerà presto un parco ambientale. Ma cederà anche - continua il sindaco Albai - le aree adiacenti alla peschiera e alla laguna di Malfatano, dove abbiamo intenzione di far sorgere un parco archeologico avente come perno fondamentale i reperti fenicio-punici di Porto Herculis».

In realtà, l’accordo mette in risalto anche i vantaggi che dal progetto potrebbero derivare alla collettività in termini occupazionali ed economici, ma riconosce pure uno speciale contributo di 200 euro a metro cubo a favore del Comune in caso di modifica delle destinazioni d’uso «da alberghiero in residenziale», riservando alla società la «possibilità di variare l’impianto planivolumetrico complessivo e il mix destinazione d’uso per le adeguarli alle attuali esigenze e aspettative del mercato turistico». In altre parole - e la cosa non è sfuggita agli ambientalisti - secondo l’accordo la società si riserverebbe di stabilire che cosa edificare e in quale quantità con criterio di un’imprecisata razionalità di progetto e di un altrettanto imprecisata esigenza del mercato turistico.

«È da tempo - spiega Stefano Deliperi, rappresentante del Gruppo d’intervento giuridico e Amici della Terra - che su questo autentico paradiso costiero incombe il tentativo speculativo. Negli anni Settanta del secolo scorso furono i lombardi Monzino a progettare su quasi 900 ettari di litorale la nuova Costa Smeralda nel sud Sardegna. Si doveva chiamare Costa Dorada: alberghi, ville, campi da golf con centinaia di migliaia di metri cubi di volumetrie. Non se ne fece quasi nulla». Soltanto la durissima opposizione legale delle associazioni ecologiste Gruppo d’Intervento Giuridico e Amici della Terra condusse alle condanne in sede penale e alla successiva demolizione delle opere abusive del tentativo speculativo nella splendida baia di Piscinnì, enclave amministrativa di Domus de Maria, portata avanti in un primo momento dal gruppo Monzino e successivamente da una società aderente alla Lega delle Cooperative.

«Ci sono parecchie ragioni - continua Deliperi - per le quali ci opponiamo alla costruzione di questo resort. Tanto per incominciare quello di Teulada è uno dei pochi tratti di costa così estesi in tutto il Mediterraneo dove nessuno ha mai costruito. In secondo luogo, le tanto sbandierate concessioni fatte dalla Sitas al Comune sono in parte obbligatorie per legge e comunque le aree cedute sono inedificabili o perché a meno di 300 metri dal mare o perché in zona archeologica». Per gli Amici della terra, poi, si poteva puntare sul turismo in altri termini. «Ad esempio - spiega ancora Deliperi - recuperando i tanti furriadroxiu della zona sino a farne una rete di tanti piccoli resort. Un’idea che avrebbe davvero attirato molti villeggianti d’élite con ricadute economiche nel paese. Mentre un resort autosufficiente alla gente di Teulada può dare soltanto posti da giardiniere e da cameriere».

Deliperi, parla anche del problema delle spiagge. «Quelle della zona sono già sovraffolate - conclude - e adesso che gli alberghi avranno le spiagge private, i cittadini normali dove andranno?»

IL SINDACO

Sarà un’occasione di sviluppo per il nostro paese

«Il resort a cinque stelle che la Sitas sta costruendo davanti a Tuerredda è una grande opportunità per la nostra zona». Giovanni Albai, 57 anni, impresario edile, dal 2005 sindaco di Teulada, ha le idee chiare sul progetto «Malfatano resort». E non teme neanche che per via del suo mestiere qualcuno lo accusi di tirare il carro dalla parte del mattone. «Impossibile - dice - la mia impresa edile è ferma da anni».

Ma perché crede tanto in questo progetto? «In primis perché è da anni che a livello comunale programmiamo un intervento ricettivo. Poi perché basta fare un giro a Teulada per capire che questo resort lo vogliono tutti. E non solo perché ci sarà una ricaduta in termini occupazionali, ma soprattutto perché ci consentirà finalmente di fare una promozione turistica adeguata alla bellezza del territorio. E sia chiaro, io non sogno la Costa Dorada che deve fare concorrenza alla Costa Smeralda, vorrei soltanto condizioni economiche migliori per la popolazione che rappresento».

Tra i vantaggi che dovrebbero ricadere sugli abitanti della zona, Albai ricorda quelli compresi nell’ accordo integrativo di procedimento tra il Comune di Teulada e la Sitas. «La società ci cederà 180 ettari nelle aree di Sa Calarza e di Antonareddu - spiega il sindaco - dove nascerà presto un parco ambientale e così metteremo la prola fine a ogni aspettativa su una zona che va assolutamente tutelata. Ma la Sitas cederà anche le aree adiacenti alla peschiera e alla laguna di Malfatano, dove abbiamo intenzione, con la collaborazione della Sovrintendenza ai beni culturali e l’Università di Cagliari, di far nascere un parco archeologico avente come perno fondamentale i reperti fenicio-punici di Porto Herculis. Inoltre, sempre con la collaborazione della Sovrintendenza e dell’Università, si potrebbero fare degli scavi archeologici che possono riservare grandi sorprese».

Ovidio Marras, pastore resistente a Tuerredda

Ottantuno anni, ha detto no alle offerte degli imprenditori che vogliono comprare la sua terra

Ha detto «no» a una cordata di facoltosi imprenditori che volevano compragli casa e terreno a qualche centinaio di metri dalla spiaggia di Tuerredda. Ed è anche per questo motivo che gli ambientalisti lo hanno eletto a simbolo della resistenza contro i «signori del mattone». Lui, Ovidio Marras, ottantun anni portanti con il fisico secco e nervoso di chi ancora si china sui campi per lavorare dall’alba al tramonto, dal suo furriadroxiu non se ne vorrebbe andare mai. Ci arrivi lasciando alle spalle migliaia di metri cubi in costruzione, infestanti, ben visibili anche dalla statale. Poi ti fermi sull’aia luminosa e nella testa ti frullano le parole promozionali della Mita resort, che parla di «colta semplicità».

Ovidio Marras, il pastore contadino accerchiato dalle imprese, alleva pecore e vacche, coltiva un orto e vive in una condizione di libertà che nessun gruppo economico, neppure il più verde, può dargli. E le parole della Mita appaiono poco verosimili, visto che gli unici elementi che con vera «colta semplicità assecondano i movimenti dolci del terreno» sono la casa di Ovidio, i suoi muretti a secco, le sue pecore polverose e i suoi pomodori rosso fiamma. Ma soprattutto lui, Ovidio, asseconda le linee della sua terra e la rappresenta alla perfezione, in armonia. È fatto in economia, Ovidio, asciutto come la terra sulla quale cammina, cotto dal sole, una faccia salmastra, è un’allegoria perfetta dei luoghi. Abita i luoghi e li rappresenta, spiega con il suo passo, i gesti secchi al limite del brusco e lunghi silenzi come quei luoghi devono essere utilizzati e rispettati. Lui, è il padrone dei luoghi. I «padovani», come li chiama lui, non lo saranno mai, anche se quei luoghi li hanno in par

Di questo progetto fanno parte un albergo articolato su più edifici, con terme, ristoranti, centro sportivo e piscine. Poi tante villette al massimo su due livelli, con grandi giardini che «si adegueranno al paesaggio con colta semplicità». In totale 150mila metri cubi di cemento che pian piano stanno già colando su una delle più belle e incontaminate zone della Sardegna sud-occidentale. Tutto con il beneplacito dell’amministrazione comunale di Teulada e persino della giuria del «Real Estate Awards», che ha recentemente premiato l’iniziativa immobiliare con il «Mattone d’oro».

A costruire su 700 ettari il «Capo Malfatano Resort» sarà la società Sitas, una cordata di imprese di cui fa parte la Sansedoni spa (40 per cento, controllata dal Monte dei paschi di Siena), la Benetton (25 per cento, attraverso la Ricerca finanziaria spa), il gruppo Toffano (24 per cento) e il gruppo Toti (11 per cento). La gestione dell’albergo sarà invece affidata alla Mita spa, la società dal gruppo Marcegaglia, che in Sardegna già amministra il Forte Village, a Santa Margherita di Pula, e l’ex arsenale della Maddalena.

Gianni Albai, sindaco di Teulada, non nasconde l’ entusiasmo per il progetto, che a suo parere mostra evidenti vantaggi per la collettività. L’ accordo integrativo di procedimento tra il Comune di Teulada e la Sitas, risalente al marzo scorso, prevede che i costruttori rinuncino a parte di metri cubi che inizialmente avevano proposto di edificare. «Nel dettaglio - spiega il primo cittadino di Teulada - la Sitas ci cederà 180 ettari nelle aree di Sa Calarza e di Antonareddu, dove nascerà presto un parco ambientale. Ma cederà anche - continua il sindaco Albai - le aree adiacenti alla peschiera e alla laguna di Malfatano, dove abbiamo intenzione di far sorgere un parco archeologico avente come perno fondamentale i reperti fenicio-punici di Porto Herculis».

In realtà, l’accordo mette in risalto anche i vantaggi che dal progetto potrebbero derivare alla collettività in termini occupazionali ed economici, ma riconosce pure uno speciale contributo di 200 euro a metro cubo a favore del Comune in caso di modifica delle destinazioni d’uso «da alberghiero in residenziale», riservando alla società la «possibilità di variare l’impianto planivolumetrico complessivo e il mix destinazione d’uso per le adeguarli alle attuali esigenze e aspettative del mercato turistico». In altre parole - e la cosa non è sfuggita agli ambientalisti - secondo l’accordo la società si riserverebbe di stabilire che cosa edificare e in quale quantità con criterio di un’imprecisata razionalità di progetto e di un altrettanto imprecisata esigenza del mercato turistico.

«È da tempo - spiega Stefano Deliperi, rappresentante del Gruppo d’intervento giuridico e Amici della Terra - che su questo autentico paradiso costiero incombe il tentativo speculativo. Negli anni Settanta del secolo scorso furono i lombardi Monzino a progettare su quasi 900 ettari di litorale la nuova Costa Smeralda nel sud Sardegna. Si doveva chiamare Costa Dorada: alberghi, ville, campi da golf con centinaia di migliaia di metri cubi di volumetrie. Non se ne fece quasi nulla». Soltanto la durissima opposizione legale delle associazioni ecologiste Gruppo d’Intervento Giuridico e Amici della Terra condusse alle condanne in sede penale e alla successiva demolizione delle opere abusive del tentativo speculativo nella splendida baia di Piscinnì, enclave amministrativa di Domus de Maria, portata avanti in un primo momento dal gruppo Monzino e successivamente da una società aderente alla Lega delle Cooperative.

«Ci sono parecchie ragioni - continua Deliperi - per le quali ci opponiamo alla costruzione di questo resort. Tanto per incominciare quello di Teulada è uno dei pochi tratti di costa così estesi in tutto il Mediterraneo dove nessuno ha mai costruito. In secondo luogo, le tanto sbandierate concessioni fatte dalla Sitas al Comune sono in parte obbligatorie per legge e comunque le aree cedute sono inedificabili o perché a meno di 300 metri dal mare o perché in zona archeologica». Per gli Amici della terra, poi, si poteva puntare sul turismo in altri termini. «Ad esempio - spiega ancora Deliperi - recuperando i tanti furriadroxiu della zona sino a farne una rete di tanti piccoli resort. Un’idea che avrebbe davvero attirato molti villeggianti d’élite con ricadute economiche nel paese. Mentre un resort autosufficiente alla gente di Teulada può dare soltanto posti da giardiniere e da cameriere».

Deliperi, parla anche del problema delle spiagge. «Quelle della zona sono già sovraffolate - conclude - e adesso che gli alberghi avranno le spiagge private, i cittadini normali dove andranno?»

IL SINDACO

Sarà un’occasione di sviluppo per il nostro paese

«Il resort a cinque stelle che la Sitas sta costruendo davanti a Tuerredda è una grande opportunità per la nostra zona». Giovanni Albai, 57 anni, impresario edile, dal 2005 sindaco di Teulada, ha le idee chiare sul progetto «Malfatano resort». E non teme neanche che per via del suo mestiere qualcuno lo accusi di tirare il carro dalla parte del mattone. «Impossibile - dice - la mia impresa edile è ferma da anni».

Ma perché crede tanto in questo progetto? «In primis perché è da anni che a livello comunale programmiamo un intervento ricettivo. Poi perché basta fare un giro a Teulada per capire che questo resort lo vogliono tutti. E non solo perché ci sarà una ricaduta in termini occupazionali, ma soprattutto perché ci consentirà finalmente di fare una promozione turistica adeguata alla bellezza del territorio. E sia chiaro, io non sogno la Costa Dorada che deve fare concorrenza alla Costa Smeralda, vorrei soltanto condizioni economiche migliori per la popolazione che rappresento».

Tra i vantaggi che dovrebbero ricadere sugli abitanti della zona, Albai ricorda quelli compresi nell’ accordo integrativo di procedimento tra il Comune di Teulada e la Sitas. «La società ci cederà 180 ettari nelle aree di Sa Calarza e di Antonareddu - spiega il sindaco - dove nascerà presto un parco ambientale e così metteremo la prola fine a ogni aspettativa su una zona che va assolutamente tutelata. Ma la Sitas cederà anche le aree adiacenti alla peschiera e alla laguna di Malfatano, dove abbiamo intenzione, con la collaborazione della Sovrintendenza ai beni culturali e l’Università di Cagliari, di far nascere un parco archeologico avente come perno fondamentale i reperti fenicio-punici di Porto Herculis. Inoltre, sempre con la collaborazione della Sovrintendenza e dell’Università, si potrebbero fare degli scavi archeologici che possono riservare grandi sorprese».

Ovidio Marras, pastore resistente a Tuerredda

Ottantuno anni, ha detto no alle offerte degli imprenditori che vogliono comprare la sua terra

Ha detto «no» a una cordata di facoltosi imprenditori che volevano compragli casa e terreno a qualche centinaio di metri dalla spiaggia di Tuerredda. Ed è anche per questo motivo che gli ambientalisti lo hanno eletto a simbolo della resistenza contro i «signori del mattone». Lui, Ovidio Marras, ottantun anni portanti con il fisico secco e nervoso di chi ancora si china sui campi per lavorare dall’alba al tramonto, dal suo furriadroxiu non se ne vorrebbe andare mai. Ci arrivi lasciando alle spalle migliaia di metri cubi in costruzione, infestanti, ben visibili anche dalla statale. Poi ti fermi sull’aia luminosa e nella testa ti frullano le parole promozionali della Mita resort, che parla di «colta semplicità».

Ovidio Marras, il pastore contadino accerchiato dalle imprese, alleva pecore e vacche, coltiva un orto e vive in una condizione di libertà che nessun gruppo economico, neppure il più verde, può dargli. E le parole della Mita appaiono poco verosimili, visto che gli unici elementi che con vera «colta semplicità assecondano i movimenti dolci del terreno» sono la casa di Ovidio, i suoi muretti a secco, le sue pecore polverose e i suoi pomodori rosso fiamma. Ma soprattutto lui, Ovidio, asseconda le linee della sua terra e la rappresenta alla perfezione, in armonia. È fatto in economia, Ovidio, asciutto come la terra sulla quale cammina, cotto dal sole, una faccia salmastra, è un’allegoria perfetta dei luoghi. Abita i luoghi e li rappresenta, spiega con il suo passo, i gesti secchi al limite del brusco e lunghi silenzi come quei luoghi devono essere utilizzati e rispettati. Lui, è il padrone dei luoghi. I «padovani», come li chiama lui, non lo saranno mai, anche se quei luoghi li hanno in parte comprati.

Qui l'articolo di Maria Paola Morittu, respnsabile di Italia Nostra per il territorio della Sardegna, scritto per eddyburg

L’inaugurazione della bretella di Pianzano da parte del Governatore Zaia ha riportato in auge la proposta di una legge obiettivo regionale già avanzata nell’era Galan dall’Assessore Chisso, e passata in commissione regionale col voto favorevole di tutti i partiti presenti. In breve, la fotocopia della proposta di legge regionale della Regione Lombardia, subito impugnata dallo stesso Governo Berlusconi in carica davanti alla Corte Costituzionale per i numerosi profili di contrasto con il dettato costituzionale e con la normativa di settore.

Il rispolvero di una proposta sulla quale si butta a capofitto l’ineffabile Assessore alle Infrastrutture Renato Chisso, memore degli stop imposti da CAT con l’aiuto dei cittadini ad opere come la “Camionabile PD-VE”, per il mancato rispetto di norme procedurali già edulcorate e largamente semplificate. Lo slogan è che “è tutta colpa di Roma e dei suoi funzionari” e che per il progresso del Veneto occorre semplificare e velocizzare di più, insomma “fare presto e bene”, come ripete il duo Galan-Chisso.

La nuova legge obiettivo prevede che, in caso di inerzia degli organi statali e del CIPE, trascorsi 60 giorni la Regione Veneto possa sostituirsi ad essi, esautorando così la commissione VIA nazionale; pressoché con il solo pensiero, magari dell’Assessore Chisso, di Zaia e pure della Segretaria del PD Filippin, le opere diventeranno seduta stante di reale interesse collettivo, di vera utilità, sostenibili e tranquillamente accettate dai cittadini che ne subiranno il peso in termini di salute e pure patrimoniali (per il bene collettivo magari di trasportatori e di imprenditori globalizzati con fabbrichette all’estero).

Opere che sentito l’altro slogan “Prima il Veneto” saranno certamente realizzate in finanza di progetto solo da ditte venete o vicine al sistema veneto. Come dire “sistema Galan”: Mantovani qua, studio Astaldi là, un pezzetto di Adria Infrastrutture della Sig.ra Minutillo (ex segretaria di Galan), Compagnia delle Opere dappertutto ed una spruzzatina di cooperative rosse.

Basterà che dalla Regione si dica un VORREI… e già vedremo fiorire nuove autostrade gestite privatamente per 40 anni anche trasformando strade o tangenziali ora percorribili gratuitamente, o nuovi ospedali che asciugheranno di ogni risorsa tutto il budget sanitario regionale per gli anni a venire.

La legge obiettivo varata dal Governo Berlusconi e immodificata da quello Prodi è di per se già un insulto per la democrazia, che espropria di fatto le comunità locali, i comuni, le province, dalla possibilità di minimamente incidere nel procedimento di approvazione e realizzazione di una opera infrastrutturale decisa sì, dal governo centrale, ma anche sulla base di indicazioni provenienti dalle Regioni.

Semplificare ulteriormente una procedura come la legge obiettivo che, invece, dovrebbe essere abolita, significa mettere ancor più in pericolo un territorio fortemente antropizzato come quello della Regione Veneto, che ha già perso molto, moltissimo, del suo fascino e della sua vivibilità e che non ha davvero bisogno che il buon governatore un bel giorno si svegli con l’idea di dire “bisogna fare l’autostrada Venezia-Monaco” (lungo il Piave, per Cortina, sotto le dolomiti di Fanes).

Perché, da domani, potrebbe essere già fatta!

Gli autori sono esponenti del CAT Comitati Ambiente Territorio Riviera del Brenta e Miranese. Informazioni sul CAT sono contenute, e continuamente aggiornate, sul sitoweb www.infocat.it

La nuova proposta choc di Gianni Alemanno è arrivata dalle Dolomiti. E cioè dallo stesso palco della manifestazione Cortina Incontra, dove appena una settimana fa aveva lanciato l’idea, poi contestata anche da una parte del centrodestra, di tassare i cortei che attraversano la Capitale. Stavolta il sindaco ha cambiato argomento: «Vogliamo demolire Tor Bella Monaca», ha detto. Un annuncio che non mancherà di scatenare polemiche. E che per adesso ha scatenato sorpresa e stupore, ma anche ironia: «Ma come? Appena eletto ha detto che voleva spostare la teca di Meier dell’Ara Pacis a Tor Bella Monaca? Adesso vuole buttare giù il quartiere? Non ha le idee molto chiare», hanno scherzato dal centrosinistra.

Il progetto Alemanno vorrebbe trovare dei terreni vicino a Tor Bella Monaca per costruire nuove abitazioni Nella foto a sinistra, Teodoro Buontempo, assessore regionale alla Casa Come riferisce l’agenzia di stampa Omniroma, il sindaco stava partecipando al dibattito «Estetica della città», quando il moderatore gli ha chiesto su quale parte di Roma si potrebbe intervenire con un drastico intervento di riqualificazione. E Alemanno, dopo averci pensato qualche secondo, ha risposto: «Sicuramente Tor Bella Monaca va demolita, rasa al suolo, non tanto Corviale, che è un altro discorso. A Tor Bella Monaca ci sono case costruite con un sistema di prefabbricazione in cui piove dentro», ha detto. E poi: «Se abbiamo terreni e aree per costruire affianco un nuovo quartiere a Tor Bella Monaca per permettere alle persone che lì abitano di spostarsi, sarebbe una scelta popolare. Chi vive dentro quelle case non vive bene e vorrebbe spostarsi».

Alemanno prima dell’annuncio choc ha affermato che «oggi con le ultime sentenze della Corte Costituzionale espropriare costa troppo. Siamo passati dall'assoluta massificazione degli anni passati a meccanismi oggi troppo restrittivi: è necessaria una nuova legge urbanistica complessiva che consenta di costruire dove c'è bisogno e non solo dove c'è interesse di privato e di società immobiliari, se no continueremo ad avere città che si espandono in zona agricola. È necessario invece demolire e ricostruire ampie aree della città, recuperando anche terreno urbano». E ancora: «A Roma ci sono molte aree delle 167 che sono autentiche cisti urbane, penso al Tiburtino 3 e altre zone». Come appunto Tor Bella Monaca.

L’idea di Alemanno, che per adesso non sembra supportata da progetti concreti di intervento, rischia di aprire un nuovo fronte di polemica interno al centrodestra. Teodoro Buontempo, grintoso assessore regionale alla Casa nella giunta guidata da Renata Polverini, appena insediato ha illustrato come uno degli obiettivi programmatici l’abbattimento del «serpentone» di Corviale e la ricostruzione di nuovo unità residenziali per gli abitanti della zona. Un progetto chiaramente in contrasto con l’idea appena annunciata dal sindaco, che ha invece escluso proprio l’abbattimento di Corviale.

Nota: si veda per un confronto la quasi contemporanea idea di "bonifica delle periferie" dell'assessore milanese Gianni Verga

È trascorsa ormai una intera generazione da quando, col famoso filmato delle cariche di dinamite a sbriciolare il complesso di case popolari Pruitt-Igoe di St. Louis, si sanciva il tramonto culturale di un’epoca. Non solo, come osservava il critico del New York Times, la “morte dell’architettura moderna”, ma la fine di un modello di quartiere di iniziativa pubblica, evolutosi dalla fine del XIX secolo fino ai grandi complessi standardizzati monoclasse che ancora oggi gravano di problemi (ma non solo) le banlieues di tutto il mondo.

Caratterizzato, questo quartiere, da una risposta “industrialista”, meramente quantitativa al problema sociale della casa, con unità abitative riconducibili per tipologia ai grands ensembles francesi, e soprattutto sprovviste dei servizi di quartiere e, pertanto, dipendenti dall’esterno, nonostante la declamata autosufficienza su cui si basavano all’epoca i progetti. Non a caso l’età d’oro, se mai ce ne è stata una per questi agglomerati, coincide con la fase della città industriale e del welfare tradizionale. Deindustrializzazione, globalizzazione, nuovi flussi migratori hanno in brevissimo tempo accelerato la crisi già in corso dei grandi quartieri di edilizia popolare del dopoguerra, trasformandoli via via in spazi di crisi e, in epoca molto recente, in luoghi di sperimentazione di politiche urbane volte al recupero e rilancio.

Le esperienze di recupero migliori si affidano alla formula del “mix”: mescolanza sociale, di attività, di modi di fruizione dell’alloggio, ovvero l’esatto contrario del modello monoclasse/monouso delle zone dormitorio a resilienza zero. Esistono come noto varie modalità di approccio al problema, ma ci mancava forse ancora quella squisitamente ideologica e marcatamente opportunista, così come ce la propone sottotono, approfittando anche della disattenzione estiva, l’assessore pidiellino alla casa del Comune di Milano, Gianni Verga.

Qual’è il suo modello? Sostanzialmente quello di risolvere il problema della casa pubblica trasformandola in tutto o in parte in residenza privata. Dovrebbero convincere della lungimiranza del progetto le promesse di “moderne infrastrutture”(?), un occhio particolare alle esigenze della popolazione universitaria alla disperata ricerca a Milano di alloggi a prezzi accessibili, alcune esperienze evocate a sproposito come quella dell’isolato in piazzale Dateo, in realtà riconquistato ad un uso misto dalle lotte sociali, dopo vari lustri di attesa e reiterati tentativi di privatizzazione da parte dell’amministrazione comunale.

Niente di nuovo sotto il sole, per di più ferragostano: chi governa Milano “sa orecchiare” dalle buone pratiche europee, o forse si avvale di suggeritori competenti. Ma la distanza fra Milano e altre grandi città europee appare sempre più siderale. Niente a che vedere ad esempio con Monaco di Baviera dove la mixité è un obiettivo lungimirante che sostanzia la pianificazione strategica di lungo periodo e il piano urbanistico della municipalità; e che si traduce in una prescrizione molto precisa cui gli operatori privati non possono sottrarsi; infatti, a Monaco tutti gli interventi di riqualificazione o di nuova edificazione nelle aree dismesse (anche le più centrali) devono realizzare una offerta abitativa così ripartita: 40% di edilizia sociale, 30% a prezzi di mercato, 30% destinata ai giovani e con fitto calmierato. Ma niente a che vedere neanche con la Francia, dove si riqualificano i grands ensembles attraverso demolizioni mirate per far spazio davvero a nuovi servizi di quartiere,a nuove attività economiche e a nuovi gruppi sociali.

Possiamo sperare nell’ennesimo ballon d’essai di chi sgoverna Milano, ma certamente gli abitanti del Sant’Ambrogio non stanno dormendo sonni tranquilli.

Dal sito del Comune di Milano: comunicato stampa del 18 agosto 2010

Mix sociale per il "Sant'Ambrogio"

L'assessore alla Casa Verga vuole dare un colpo di spugna ai quartieri-ghetto. La strategia di riqualificazione degli stabili di edilizia residenziale pubblica punta su infrastrutture moderne, locazioni a canone sociale, convenzionato e vendita a prezzi calmierati



Milano, 18 agosto 2010 – “Il Comune di Milano è impegnato a promuovere la creazione di mix sociali all’interno dei quartieri o dei singoli stabili per cambiare volto ai cosiddetti quartieri-ghetto”. L’assessore alla Casa Gianni Verga riassume così la strategia con cui avverrà la razionalizzazione e riqualificazione degli stabili di edilizia residenziale pubblica nel quartiere Sant’Ambrogio.

“Vogliamo infatti – prosegue Verga - che questa zona, caratterizzata dal progressivo invecchiamento della popolazione e dal declino delle funzioni commerciali, ritorni a essere un centro vitale, in cui si mescolano famiglie di ceto medio, anziani, studenti universitari”.

Il mix sociale è già stato sperimentato positivamente dal Comune nell’immobile di piazzale Dateo – in cui convivono canoni sociali, moderati, studenti, e l’AgenziaUni che sostiene gli universitari alla ricerca di un alloggio – e nelle nuove case in via Appennini, angolo via Gallarate, inaugurate lo scorso dicembre.

L’assessore Verga annuncia che Comune e Aler, rispettivamente proprietari del complesso Sant’Ambrogio 1 e Sant’Ambrogio 2, lavoreranno insieme per sperimentare un modello di recupero dell’area, in un’ottica di diversificazione e di integrazione. A questo scopo sarà costituito un gruppo di lavoro, composto da personale delle Direzioni Centrali Casa e Sviluppo del Territorio del Comune, e da rappresentanti dell’ Aler.

Nei due complessi residenziali verrà incrementata l’edilizia sociale e definito un mix abitativo attraverso l’articolazione dell’offerta di alloggi e mirate modalità di assegnazione per favorire l’ingresso di nuova popolazione, soprattutto giovani.

Saranno riqualificate le infrastrutture e studiati interventi volti al risparmio energetico e alla riduzione delle emissioni.

Gli alloggi situati nei caseggiati in condominio verranno venduti e i proventi saranno utilizzati per riqualificare l’ambito, i servizi o le infrastrutture.



I nuovi alloggi saranno:

- in parte in locazione perpetua a canone sociale

- in parte in locazione a canone convenzionato, anche con patto di futura vendita

- in parte in vendita a prezzi convenzionati.

Le risorse necessarie per realizzare l’intervento saranno reperite con la partecipazione ai programmi regionali e nazionali di finanziamento e, se necessario, mediante il coinvolgimento di risorse di altri soggetti pubblici e privati.



Il quartiere Sant’Ambrogio

L'area si trova nella periferia sud di Milano, tra l’asse di via Famagosta e il Parco Agricolo Sud, in prossimità dell’Autostrada dei Fiori.

Il complesso Sant’Ambrogio 1, di proprietà comunale, è stato realizzato tra il 1964 e il 1965 e il complesso Sant’Ambrogio 2, di proprietà dell’Aler Milano, tra il 1971 e il 1972.

La zona è accessibile grazie alla Linea 2 della metropolitana con la fermata Famagosta e con il prolungamento fino ad Assago.

A Milano Comune e Aler sono complessivamente proprietari di oltre 75mila alloggi, spesso coagulati in quartieri o ambiti di edilizia residenziale pubblica, caratterizzati dalla compresenza di patrimonio residenziale comunale e di Aler.

Pompei, sono due le inchieste aperte sui lavori e le condizioni degli Scavi

la Repubblica, ed. Napoli, 19 agosto 2010

La gestione emergenziale degli scavi di Pompei a firma dell'ex commissario straordinario Marcello Fiori finisce nel mirino di due inchieste aperte dalla Procura di Torre Annunziata. La prima riguarda le condizioni del sito archeologico e i lavori di restauro effettuati durante il commissariamento ed è scattata dopo la denuncia di un professionista. Le verifiche necessarie sono state affidate alla Guardia di finanza che, intorno ai primi giorni di settembre, consegnerà i dati e i risultati preliminari. La seconda concerne gli accertamenti partiti dopo la ricezione dell'esposto consegnato dalla Uil per contestare supposte anomalie gestionali attuate con il metodo della protezione civile. Nel documento sottoscritto dal segretario generale della Uil ai beni culturali, Gianfranco Cerasoli, spiccano presunte contraddizioni e perplessità, "insofferenza rispetto alle reiterate richieste avanzate in tema di trasparenza", la supposta invasività degli interventi sulla cavea del teatro Grande, "completamente costruita ex novo con mattoni in tufo di moderna fattura", la richiesta di delucidazioni in merito a conti e parametri organizzativi di staff di supporto e manifestazioni.

Accuse che, naturalmente, la magistratura analizzerà, per appurarne la veridicità. Una questione cruciale da approfondire con estrema cautela. «La tutela del patrimonio dell' intera area di nostra competenza, soprattutto dal punto di vista paesaggistico-ambientale, - dice il procuratore Diego Marmo - è un tema prioritario per noi. Così come la difesa di Pompei, una ricchezza culturale di eccezionale rilevanza, tesoro dell'intera umanità. Di conseguenza, svilupperemo le indagini con puntualità, prudenza ed attenzione. E senza fare sconti a nessuno, come sempre accade».

Pompei, ecco le nuove "rovine" - Tubi, cemento, ponteggi, martelli pneumatici: le foto degli scavi violati

la Repubblica, ed. Napoli, 20 agosto 2010

Pompei viva? «Pura spettacolarizzazione». E il Teatro grande? «Uno scempio. Non esiste più, ha subìto uno stravolgimento totale che viola il buon senso ed esula da ogni logica di restauro conservativo. Adesso sembra un’arena da villaggio turistico. Per fortuna, l’operazione è reversibile…». Antonio Irlando, architetto responsabile dell’Osservatorio patrimonio culturale, racconta da una prospettiva dura gli interventi effettuati nel sito archeologico, in due anni di gestione emergenziale. «La gradinata in tufo moderno della cavea non ha mai trovato riscontri come dato archeologico. E ora gli unici pezzi originali "superstiti" restano i tratti in pietra di colore chiaro. Il codice dei beni culturali è finito tra i piedi, per una condotta simile e in luoghi meno pregiati, cittadini comuni sarebbero stati denunciati immediatamente».

I retroscena del cantiere «svelano un approccio approssimativo e inammissibile». Invasività documentata nelle tante fotografie scattate. «L’uso diretto e aggressivo di pale meccaniche, martelli pneumatici, bobcat. Locali bagno ricavati dalla trasformazione di ambienti archeologici, posa in opera di ampi tralicci e, elemento gravissimo, la perforazione dei muri degli scavi per permettere il passaggio di cavi e tubi. Dopo una nostra lettera spedita al ministero, dove segnalavamo le devastazioni rilevate e chiedevamo ufficialmente il ripristino dello stato dei luoghi, la procura di Torre Annunziata ha aperto un´inchiesta che si affianca all´indagine partita dopo l’esposto firmato dalla Uil».

La polemica prosegue sugli esiti. «Rifunzionalizzazione, è la parola abusata dal commissario Fiori. Ma in termini di restauro non significa nulla». Tutto da rifare, in sintesi. «Sicuramente la pavimentazione del quadriportico realizzata con spesse platee di cemento, lungo i lati perimetrali. Chiamano in causa il cocciopesto ma molti professionisti nutrono seri dubbi…». E un’arena discussa. «Il progetto ordinario contemplava un investimento di 460mila euro ma si è superata la soglia dei 5 milioni, secondo le dichiarazioni rilasciate dal ministro Bondi. L’emergenza - sostiene Irlando - costituisce un’opportunità sprecata perché le decisioni si sono mosse verso percorsi rapidi, circoscritti e di impatto, sottraendo fondi e possibilità di rilancio ad attività integrate e durevoli. E lo scopo del commissariamento, in principio, doveva essere riscattare gli scavi dall’abbandono. Ma il futuro si garantisce con la conservazione, la qualità, la crescita sul lungo periodo del patrimonio e lo sviluppo del territorio circostante, non attraverso slogan, spot e ridondanze». Una frecciata al decoro urbano e al cantiere fruibile dei Casti amanti. «Non si comprende la funzionalità dei cancelli sparsi ovunque con il logo "Pompei viva" in evidenza che, fra un anno, necessiteranno di manutenzione. E lascia perplessi il bombardamento di informazioni, immagini e pannelli nella domus dei Casti amanti. Il sito è già lì. È come se si percepisse l’urgenza di dimostrare di aver speso fondi».

Ed è ancora emergenza, sulla scia di condotte che ricordano il passato. «Intere fasce di scavi versano nel degrado - accusa Irlando - la zona tra via dell’Abbondanza e via di Nola, a ridosso della casa del Menandro e di porta di Stabia. Un tempo si attendeva che nel pieno di una crisi piovessero soldi dalla Cassa del Mezzogiorno. Le consuetudini non mutano. Il modello innovativo è, invece, puntare sulla manutenzione ordinaria quotidiana». Un potenziale trampolino per l’occupazione. «Centinaia di operai specializzati, restauratori e tecnici senza lavoro potrebbero trovare a Pompei un impiego stabile - dice Irlando - formare una squadra di assistenza per fronteggiare le esigenze continue che gli scavi impongono. Invece si lanciano grandi eventi ed annunci, come quando arrivava in visita un principe o un regnante e si fingeva di scoprire un vaso o gli si dedicava una casa. Aspettiamo la venuta del presidente del Consiglio da mesi, annunciata già numerose volte. Chissà - conclude - forse per l´occasione Pompei si mostrerà davvero viva…».

Spariti in un anno 800 negozi "Niente ripresa, autunno nero"

di Laura Fugnoli

Chiusi, e non solo per ferie. In un anno sono morti 824 negozi. Un’emorragia che non conosce fine, nei primi sei mesi del 2010 il saldo tra chi apre e chi chiude è rimasto negativo, con 122 imprese in meno. E oggi il mondo del commercio travolto dalla crisi rilancia un nuovo allarme per il rientro dopo le ferie: l’autunno, è la certezza, sarà duro. Altri rischiano di rimanere soffocati dall’estate afosa e per niente generosa. Troppi rischiano di non sopravvivere al secondo anno di recessione. La ripresa non si è vista, e anche «i saldi sono stati un fallimento - ammette Renato Borghi, presidente Ascomoda - i ricavi hanno avuto un incremento di un misero 3% rispetto all’anno scorso e la delusione è diffusa».

Secondo i dati della Camera di commercio, tra giugno 2009 e giugno 2010 tra quegli 800 negozi scomparsi hanno chiuso 44 macellerie (-5,9%) e 26 panettieri (-3,7%), oltre una cinquantina i negozi con articoli per la casa. Non va meglio ai ferramenta (-3,8%), ai cartolai calati del 4,5%. Nella città della moda sono 90 i negozi di abbigliamento che hanno abbandonato l’avventura 8 - 2,6%). Si inizia con la superofferta, poi la svendita totale e si approda mestamente alla chiusura definitiva. In lieve controtendenza le attività di vendita di elettronica e telefonia, le sole ad avere un saldo positivo insieme alle gelaterie, esplose nel 2010 con ben 17 punti vendita in più.

Ma adesso spaventa l’autunno. Settembre sarà un grande banco di prova. «La riapertura dopo le ferie è un momento estremamente delicato. Con l’autunno i nodi vengono al pettine», dice Simonpaolo Buongiardino, amministratore dell’Unione del commercio. Poca fortuna sembrano avere anche i temporary shop. «Sono stati pompati come segno di dinamismo e vivacità, ma ora trovano pochi occupanti», spiega Buongiardino. Cartina di tornasole sono le scarse ristrutturazioni estive: «Questo è il tipico momento in cui chi ha un negozio in genere rinnova i locali e chiama imprese e muratori - dice Giorgio Montingelli dell’Unione Commercianti - ma ora di restyling non se ne vedono. Segno che i negozianti non vogliono, e non possono, investire». Sopravvivere è già un miracolo, dunque.

Eppure c’è chi azzarda nuove aperture, in particolare nel commercio ambulante che richiede meno impegno finanziario. Pur calate del 5,8% dallo scorso anno, le attività nei mercati hanno visto una discreta crescita negli ultimissimi mesi: dietro ai banchi di frutta e verdura, di abbigliamento e di casalinghi, però, sono quasi spariti gli italiani. «Su 5mila soci almeno il 30% ora è straniero - spiega Giacomo Errico, presidente dell’Apeca, associazione di categoria degli ambulanti - ma non mancano casi di macellai milanesi che mollano il negozio e si convertono a centri di vendita itineranti». Niente spese di affitto, basta un furgone anche usato, 3.500 euro circa l’anno per l’occupazione del suolo se si vuol lavorare cinque giorni a settimana. Tra i negozianti costretti a chiudere, c’è chi si ricicla così.

Il ceto medio è sempre meno medio, dicono i commercianti. E anche questo incide. «In viale Piave abbiamo cambiato il negozio a marchio Borghi in Outlet, con merce più a buon mercato per un target più modesto», afferma Renato Borghi. Per altri la sopravvivenza scatta con l’accorpamento o l’acquisizione. «Ci sono vie che sembra abbiano perso appeal, come Paolo Sarpi - dice Luigi Ferrario, coordinatore dell’associazione Vie dello shopping - e non sono solo gli italiani a chiudere la serranda, ma anche gli stessi commercianti cinesi. In corso XXII marzo, invece, il turnover di negozi è vorticoso, ma aprire e chiudere continuamente non è sempre un buon sintomo. La poca resistenza è spesso conseguenza delle difficoltà di accesso al credito. Le banche vogliono garanzie e in tempi bui le garanzie sono merce rara, quasi introvabile».

"Affitti d’oro e superstore così non si può reggere"

di Luca De Vito

Ilaria Parentini, lei è la terza generazione della famiglia che gestisce la "Vetreria di Empoli", in via Pietro Verri 4. Quando abbasserete definitivamente le serrande del vostro negozio?

«Questo chiuderà sabato 28 e resteremo aperti soltanto in via Montenapoleone al 22, dove abbiamo un altro spazio».

Perché chiudete?

«È stata una scelta dolorosa ma obbligata, la richiesta d’affitto per un negozio così in centro a Milano è diventata troppo alta. E poi c’è la concorrenza della grande distribuzione. Sono stata da Ikea il 13 di agosto e c’era pieno di gente: è ovvio che centri così grandi finiscono per sottrarci buona parte del mercato. E poi è anche cambiata la mentalità della clientela in questi ultimi tempi...».

In che senso?

«Adesso c’è la crisi economica e molta gente si rivolge ai centri commerciali. Uno va, si compra bicchieri e posate e viene via».

Da quanto tempo siete aperti?

«Noi siamo iscritti all’albo delle botteghe storiche e siamo in via Verri dal 1938, quando mio nonno, dopo un breve periodo in via Bigli, ha aperto il negozio. Qui la nostra azienda si è evoluta e ha modificato il suo percorso: abbiamo iniziato con i vetri a mano colorati, poi l’azienda si è ampliata e abbiamo cominciato a rivendere prodotti ai negozianti, sia in Italia che all’estero».

E adesso?

«Adesso siamo dispiaciuti di dover chiudere in via Verri, pensi che moltissimi nostri clienti ci hanno chiamato per dirci che sono disperati e che non sapranno come fare senza di noi. Non sappiamo ancora chi subentrerà, ma secondo me sarà un negozio di abbigliamento. Si vede solo moda in giro».

Però avete il negozio in via Montenapoleone.

«Esatto, e da qui in avanti concentreremo i nostri sforzi là. Abbiamo una prima sala con tutti bicchieri, un po’ particolari e decorati. Poi nel secondo salone c’è un reparto di cose antiche, per gli specialisti ma anche per chi vuole qualcosa di bello e un po’ diverso. È una specie di "mercatino", noi acquistiamo dai privati e rivendiamo. E si può trovare davvero di tutto, mi creda».

Nel futuro che cosa vede?

«Vorremmo aprire un reparto dedicato al Natale, da novembre, occupandoci un po’ del settore addobbi. E poi vorrei continuare con il servizio di riparazione. Vecchi vasi, oggetti di vetro, cristalli rotti che le persone ci portavano a far aggiustare: abbiamo il nostro artigiano, era un servizio che davamo qua in via Verri e mi piacerebbe che continuasse anche in via Montenapoleone».

"Con i prodotti di nicchia sfidiamo la recessione"

di Tiziane De Giorgio

Markus Mutschlechner, lei è uno dei soci di Delicatessen che ha due negozi che vendono specialità altoatesine. Da settembre rilanciate con un terzo punto vendita, in corso Buenos Aires, e un ristorante in via Casati.

Che cosa vi ha spinto, in un momento in cui molti commercianti sono costretti a chiudere?

«La crescente richiesta dei clienti. Abbiamo cominciato a vendere specialità altoatesine nel 2005, aprendo un negozietto in piazza Santa Maria Beltrade, dietro via Torino. Da allora le vendite sono aumentate di anno in anno, consentendoci di aprire una seconda bottega. E perfino in un anno di crisi come questo, ci siamo ritrovati con i negozi pieni. Così, abbiamo deciso di scommettere ancora una volta».

Qual è il segreto per non risentire degli effetti della crisi?

«Offriamo un servizio che gli altri negozi non danno. Siamo aperti sette giorni su sette, dalle otto del mattino alle otto di sera. Sabati e domeniche comprese. Anche d’estate, non abbiamo praticamente mai chiuso la saracinesca. Nemmeno a Ferragosto. Queste cose la gente le apprezza. Diventi un servizio sul quale si può contare sempre. In un momento così difficile bisogna offrire sempre di più: noi ci sforziamo di farlo in tutto».

Cioè?

«Le specialità altoatesine che vendiamo sono di prima qualità: chiediamo ai nostri fornitori brezel, sacher, canederli freschissimi. Questo ha un costo, certo. Ma alla fine si è ripagati e la gente viene da noi quando vuole un piatto particolare, magari assaggiato in vacanza. E poi ci siamo organizzati per fare un servizio catering, abbiamo pensato che potesse essere carino organizzare cene altoatesine dall’antipasto al dolce. E la cosa è stata apprezzata così tanto che a breve apriremo anche un ristorante. Bisogna sapersi inventare, insomma».

Tre negozi, tre affitti, però.

«Sì, vero. E sono salatissimi, visto che le nostre sedi sono tutte in zone centrali. L’affitto del negozio che apriremo in corso Buenos Aires, poi, è una legnata pazzesca. Però se a Milano non stai in una via strategica non vendi, non c’è niente da fare. Sono tanti i negozianti delle vie secondarie o periferiche che si ritrovano a dover chiudere. Con l’apertura della terza sede, però, avremo più gioco sui fornitori, aumentando gli ordini puoi strappare molto più sconto. Ma soprattutto, contiamo di essere ripagati dalla clientela stessa, come è avvenuto con l’apertura della seconda sede: quando la gente si fida, il passaparola arriva anche dall’altro lato della città».

postilla

pare quasi superfluo sottolineare come e quanto, nei medesimi giorni in cui si levano questi lamenti sul disastro del commercio di un certo tipo nell’area centrale, l’amministrazione prosegua imperterrita nella chiusura coatta di esercizi per imprecisati motivi di “ordine pubblico”. Confermando se non altro il sospetto di un preciso orientamento delle sue politiche urbane: eutanasia di ogni parvenza di articolazione e complessità sociale, e preparazione di una specie di caricatura locale delle città globali. Almeno nell’interpretazione regressiva e piuttosto squallida che ne danno gli amministratori attuali: da un lato la borghesia più o meno blindata fra boschi verticali, quadrilateri d’oro, boutiques del salamino o del sandalo di tendenza; dall’altro poche sacche di underclass o ceti comunque emarginati, a garantire lavori sporchi (dalla pulizia dei bagni della discoteche alla fornitura della polverina magica che si consuma là dentro), confinati in una sorta di post-baraccopoli precaria, priva di servizi considerati inutili per questa non-umanità senza diritti. La coerenza fra politiche urbanistiche e gestione urbana corrente, credo di averla più o meno delineata anche nell’ultimo contributo sul tema. Si tratta di stupidità, o di un lucido piano reazionario, consapevolmente perseguito? Come sempre succede in questi casi, probabilmente un po’ di entrambe le cose (f.b.)

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