loader
menu
© 2025 Eddyburg

Pgt, l’affondo dei signori del mattone

di Teresa Monestiroli

È partito l’attacco dei costruttori al Piano di governo del territorio del Comune. Sommerse fra le oltre 4.700 osservazioni che sono state presentate in novembre al documento urbanistico, ci sono anche quelle depositate da due tra i maggiori immobiliaristi della città: Salvatore Ligresti e i Cabassi. Entrambi proprietari di aree strategiche nella Milano del futuro, i costruttori battono cassa e chiedono a Palazzo Marino - come rivela l’agenzia Radiocor - piccole, ma sostanziali modifiche al Pgt. In una parola: volumetrie per costruire, nel caso di Ligresti, in terreni che con il Pgt entrerebbero nel Parco Sud, in quello dei Cabassi nell’area Expo.

In un gruppo di osservazioni presentate dalle holding della famiglia dell’ingegnere Immobiliare Costruzioni (Imco) e Altair viene contestato uno dei punti cardine del nuovo Piano di Masseroli: il trasferimento dei diritti volumetrici di Ligresti (con indice 0,50) dalle aree Ticinello, Macconago, Vaiano Valle sud e Bellarmino a quelle dell’ex Macello dietro Porta Vittoria. Stando al Pgt, quindi, l’Imco perderà la proprietà di questi terreni - che una volta passati al Comune verranno annessi al parco e quindi non saranno più edificabili - per acquistare, attraverso il meccanismo della perequazione, volumetrie altrove. L’operazione non piace a Ligresti. La sua contestazione riguarda sia la «serie di vincoli» da rispettare (una strada storica e la previsione di alcuni collegamenti a verde) che caratterizza l’ex Macello, sia «l’evidente problema di densità edilizia dell’area» (qui verranno costruiti anche nuovi edifici della Sogemi). Quindi chiede di riportare i suoi diritti volumetrici nella zona di Macconago, cioè vicino ai terreni (sempre di sua proprietà) dove sorgerà il Cerba. La risposta dell’assessore all’Urbanistica è secca: «Quelle aree fanno parte del Parco Sud e, in quanto tali, saranno governate dai Piani di cintura urbana della Provincia. L’osservazione verrà respinta e rinviata alla discussione sui piani».

Ma le critiche di Ligresti non si fermano qui. L’ingegnere chiede anche di applicare le nuove regole del Pgt ai terreni del Cerba che, essendo un servizio pubblico per la città, dovrebbe produrre volumetrie da trasferire altrove. Anche in questo caso la risposta degli uffici è dura: «Non è possibile applicare in maniera retroattiva le regole del Pgt. Il Cerba dipende da un accordo di programma antecedente e quello verrà rispettato». Infine, sempre tra le recriminazioni dell’Imco, c’è quella di avere una maggior destinazione residenziale (quindi più redditizia) in via Stephenson, l’area periferica con un indice di densificazione molto elevato (2,7) che Masseroli vuole trasformare nella Défense milanese. La risposta dell’assessore è: «Il Pgt segue il principio della flessibilità e quindi non dà alcuna destinazione d’uso alle aree. In via Stephenson il nostro orientamento è che diventi zona del terziario, ma non imponiamo nulla».

Ma non è solo Ligresti a voler costruire di più di quanto previsto nel Pgt. Anche Matteo Cabassi ha presentato una richiesta di modifica al Piano per avere un indice di edificabilità sulle aree Expo pari a 1 metro quadrato per metro quadrato, invece di 0,50. «Anche questa osservazione verrà rifiutata - risponde Masseroli - perché il consiglio comunale ha stabilito che sulle aree Expo il riferimento è l’accordo fatto dalla società e non il Pgt».



Il Cerba e i terreni nel Parco Sud

L’ingegnere vuole allungare la città

di Alessia Gallione

La città nella città che da sempre sogna di costruire inizia dove finisce via Ripamonti. È questa Ligrestopoli. Distese e distese di terre ai confini e all´interno del Parco Sud, che l´immobiliarista ha accumulato nei decenni con la pazienza di un Mazzarò. Ai suoi ospiti di riguardo, si racconta che ami mostrarle lui stesso accompagnandoli in speciali pellegrinaggi. Su molte non può costruire. Non potrebbe. E anche dove - fuori dal perimetro del verde tutelato - ha acquisito diritti volumetrici ai tempi del Piano casa degli anni Ottanta, il Pgt adesso gli chiede di spostare altrove i volumi. Ma Salvatore Ligresti, all´affare del Parco Sud, non ha mai rinunciato. Anzi. E proprio ora che il documento urbanistico è arrivato al traguardo finale, vuole passare all´incasso. E vuole farlo sfruttando la grande opportunità del Cerba, il polo di ricerca e cura che sorgerà su 620mila metri quadrati posseduti da una sua società.

È lì, sull´area di Macconago attaccata al Centro, che Ligresti vuole realizzare un nuovo quartiere da almeno 60mila metri quadrati. Senza accettare di far atterrare sull´ex Macello i suoi futuri palazzi. Perché è lì che Milano si allargherà, portandosi dietro una via Ripamonti raddoppiata, il tram 24 che partirà dal Duomo, magari una metropolitana leggera se il Comune manterrà le promesse dopo aver cancellato la linea "6": un pezzo di periferia (stralciato dal Parco Sud), destinato a diventare strategico. Perché quando il Centro sarà pronto - con le sue cliniche, laboratori, strutture ricettive e residenziali per i parenti dei pazienti e i medici, i bar, i ristoranti, il parco attrezzato da 320mila metri quadrati, muoverà insieme allo Ieo 20mila persone al giorno - diventerà appetibile tirar su in zona nuove case. Una gallina dalle uova d´oro. A delineare la visione sono le stesse società di Ligresti: «Edificare sulle aree vicine al Cerba potrebbe contribuire a dare un assetto conclusivo a questo lembo di città e si collocherebbe lungo una direttrice di trasporto pubblico per la quale il progetto Cerba ha già previsto il relativo rafforzamento».

La giunta ha appena adottato il piano del Centro per la ricerca biomedica avanzata e, a febbraio, si prepara ad approvarlo. I cantieri, che potrebbero partire in primavera, si avvicinano. Allora, le terre su cui sorgerà la cittadella scientifica e che oggi sono in pegno alle banche come garanzia per il rifinanziamento della principale cassaforte dei Ligresti, dovranno passare di proprietà. Saranno del fondo immobiliare etico che si occuperà di raccogliere i fondi necessari (1 miliardo e 226 milioni) per costruirla. Come, dovrà essere stabilito. Ma la Imco dell´ingegnere potrebbe o vendere subito la superficie o entrare con quel capitale (ancora da quantificare, ma sicuramente di valore) nello stesso fondo, incassando nel tempo gli utili.

Si torna sempre lì, al Parco Sud. Proprio da Macconago, e da un Piano integrato di intervento rimasto per anni nei cassetti degli uffici del Comune, era partita l´ultima offensiva di Ligresti sull´urbanistica. Per tre progetti (nella lista anche via Natta e Bruzzano) che non decollavano, ufficialmente, il costruttore aveva chiesto alla Provincia di Guido Podestà il commissariamento di Palazzo Marino. Tutto rientrato in extremis. Per via Macconago, che prevede case su oltre 20mila metri quadrati, la giunta è pronta a votare all´inizio del 2011. Ma all´immobiliarista non basta. Chiede altri volumi per allargare quel quartiere con vista Cerba e Parco. Ma ad avere l´ultima parola sul destino della zona sarà Guido Podestà. È il presidente della Provincia che si è aggiudicato il primo round dello scontro con il Comune per decidere la competenza: sui 40 milioni di metri quadrati di verde milanesi del Parco, compreso Macconago, saranno i suoi Piani di cintura a dover valutare le "proposte" del Comune e dire cosa fare.

Podestà mette le mani avanti "Sul Parco Sud decidiamo noi"

di Teresa Monestiroli

La Provincia dà il via libera al Piano di governo del territorio firmato dall’assessore Carlo Masseroli. Ma nel formulare la sua «valutazione di compatibilità» con lo strumento urbanistico già in vigore a livello provinciale, avverte Palazzo Marino che su quasi un quarto del suo territorio (40 chilometri quadrati su 180, cioè l’area del Parco Sud) la competenza spetta a lei. O meglio, al direttivo del Parco Agricolo Sud che, a sua volta, è presieduto dal numero uno di Palazzo Isimbardi, il presidente Guido Podestà.

Quindi, visto che il parco riguarda oltre a Milano anche i comuni di Buccinasco, Opera, San Giuliano, San Donato, Segrate e Peschiera Borromeo, qualsiasi tipo di intervento «rimane nell’ambito delle norme di pianificazione del Parco in vigore». Ben vengano dunque le proposte di Milano per il futuro dell’area verde, ma queste «dovranno essere sviluppate all’interno dei Piani di cintura urbana», documenti ancora in via di definizione che, stando alle parole dell’assessore al Territorio di Palazzo Isimbardi Fabio Altitonante, «saranno conclusi nel 2012».

Sembra un dettaglio, ma è una precisazione che crea più di un problema al Pgt ambrosiano, perché vincola ogni decisione sull’area del parco a un piano di urbanistica di là da venire, in cui la Provincia potrebbe pretendere cambiamenti anche significativi alle regole previste da Masseroli. Rimettendo così in discussione l’indice di edificabilità dell’area verde (fissato a 0,15 metri quadrati su metro quadrato) con obbligo di trasferimento al di fuori del parco. Variazioni, spiegano in Comune, che comunque dovranno ripassare per l’approvazione dai Consigli comunali coinvolti. Quindi, nel caso Podestà dovesse aumentare l’indice assegnato al parco dopo un lungo braccio di ferro nell’aula di Palazzo Marino tra maggioranza e opposizione, la discussione si riaprirebbe di nuovo, questa volta però fra i due enti entrambi governati da una maggioranza di centrodestra. Ipotesi che non sembra preoccupare Masseroli: «È un altro passo avanti nel percorso di definizione del Pgt. È di competenza della Provincia fare le sue osservazioni».

Al di là del Parco Sud, bloccare l’applicazione della perequazione in questa zona fino al via libera ai Piani di cintura urbana significa mettere a rischio l’intero impianto della borsa delle volumetrie, dal momento che uno dei bacini di maggior peso in città è proprio il parco. D’altronde, spiega Podestà, «la delibera va inquadrata proprio nell’ottica della difesa di questo polmone verde che la Grande Milano dovrebbe utilizzare per respirare meglio, senza rinunciare a crescere». Ed è proprio quest’ultima sottolineatura – «senza rinunciare a crescere» – che inquieta chi, come le opposizioni, chiede che non siano ammesse deroghe alla tutela del parco. Il capogruppo del Pd in Provincia Matteo Mauri legge la decisione di ieri della Provincia, che «contiene più vincoli e modifiche che via libera», come «la dimostrazione che continua lo scontro di potere nel centrodestra tra Moratti e Podestà, scontro che aveva avuto il suo apice qualche mese fa e che aveva coinvolto anche Ligresti».

"Il verde è in pericolo costruire nei campi è l’obiettivo di tutti"

intervista a Gianni Beltrame di Stefano Rossi

Architetto Gianni Beltrame, lei è uno dei padri fondatori del Parco Sud, avendo contribuito con il centro studi Pim a progettare l’assetto urbanistico dell’area. La Provincia e il Parco Sud (entrambi presieduti da Guido Podestà) hanno dato l’ok al Pgt del Comune di Milano anche per le aree cittadine incluse nel parco.

«In realtà, il via libera è condizionato al rispetto da parte di Milano degli accordi di programma che la Provincia farà con la Regione e lo stesso Comune sulle aree milanesi del Parco Sud con i cosiddetti Pcu, Piani di cintura urbana. Insomma, la Provincia dice diplomaticamente al Comune: ti ascoltiamo ma decidiamo noi».

Per il Parco Sud è una garanzia?

«No, perché Provincia, Comune e Regione sono intenzionati a smantellare il Parco Sud, costruendo dove la programmazione precedente non lo prevedeva. Un obiettivo non dichiarato ma ciò non toglie che il Pgt sia pensato con questa finalità, tanto che affida l’urbanistica all’iniziativa privata degli immobiliaristi».

Anche nel Parco Sud? Senza che si possa evitare?

«Un ostacolo c’è e non è cosa da niente. La legge regionale 12 sull’urbanistica dice in modo esplicito che sulle aree agricole non si può costruire».

Quante aree sono classificate come agricole nel Parco Sud?

«Secondo la nostra strategia originaria, tutte. Tranne i 61 Comuni inclusi nel perimetro del parco e una ragionevole area limitrofa di espansione. Quando i Comuni del parco lamentano di non potersi sviluppare, drammatizzano in modo scorretto la situazione. Lo spazio per crescere c’è».

La legge regionale 12 è una garanzia sufficiente?

«Poiché aggirarla è impossibile, temo che la modificheranno. Oppure si inventeranno qualcos’altro ma non si arrenderanno».

Nessuno più difende il Parco Sud?

«Carlo Petrini ha capito l’importanza di salvaguardare le ultime aree agricole in ambito metropolitano. Aree uniche, perché non ne restano altre. E storiche. La loro destinazione agricola non fu una nostra invenzione, l’hanno avuta per secoli. Finché non sono saliti al potere i cultori del cemento».

Eppure Comune e Provincia parlano spesso di degrado del Parco Sud.

«Il degrado riguarda aree marginali nel territorio di Milano. È causato scientificamente da grandi proprietari come Ligresti, Cabassi e Paolo Berlusconi. Attraverso contratti agricoli brevi si rende precaria la vita delle aziende, che investono meno».

Il Comune ha sempre assicurato che nel Parco Sud non si costruisce, gli indici edificatori generati nel parco andranno usati in altre aree. L’opposizione si è battuta su questo.

«Il centrosinistra non ha capito che, una volta accettato l’indice di edificabilità, il guaio è fatto. Poi non ha senso cercare di abbassarlo, sulle aree agricole l’indice dev’essere zero. Così i proprietari si rassegnano e l’agricoltura torna a respirare. So bene che l’attribuzione di un indice è alla base dello scambio con cui le aree del Parco Sud vengono cedute al Comune, in cambio della possibilità di edificare altrove. Ma perché il Comune dovrebbe acquisire le aree? Certo non si metterà a fare l’agricoltore, le farà deperire e poi ci costruirà o farà costruire a qualche immobiliarista».

Il poker tra sindaco e presidente

per il grande business del mattone

di Alessia Gallione

Dopo la Regione e il direttivo del Parco Agricolo Sud, anche la Provincia dà il via libera al Piano di governo del territorio di Palazzo Marino. Ma nel farlo, il presidente Guido Podestà ricorda al Comune di Milano che una buona parte del suo territorio – i 40 chilometri quadrati di Parco Sud – sono di sua competenza. E dunque ogni proposta di trasformazione di quest’area verde verrà definita all’interno dei Piani di cintura urbana, scritti il prossimo anno proprio dalla Provincia.

Il primo round l’ha vinto Guido Podestà nella sua duplice veste di presidente della Provincia e del Parco. Sarà lui a distribuire le carte e gli altri giocatori, compreso il Comune, dovranno aspettare i Piani di cintura per capire che cosa si troveranno in mano. Il Pgt, per ora, è soltanto una "proposta". E, anche se diventerà legge per la città, sarà congelato su quei 40 milioni di metri quadrati.

Ma dietro il duplice via libera al Piano di governo del territorio, si è consumato un braccio di ferro tra Comune e Provincia. Con Palazzo Isimbardi che ha provato, attraverso il parere del Parco, a far saltare il banco. Una prima versione, dagli accenti duri, cancellava di fatto le scelte del Pgt sulle aree verdi: sarebbe stato un colpo fatale all’intero strumento urbanistico perché è proprio il progetto di liberare le aree agricole, spostando altrove le volumetrie da costruire, uno dei capisaldi del documento. Per ora, Carlo Masseroli ha passato la mano. Il suo imperativo è un altro: far approvare la sua "creatura" dal Consiglio comunale. Una mediazione, almeno nei toni, è stata trovata. Ma lo scontro è pronto a riesplodere quando si entrerà nel merito delle scelte.

È corso tutto volutamente sottotraccia. Compreso l’incontro in extremis tra Masseroli e Podestà, nel giorno della riunione del direttivo del Parco. Niente a che vedere con i toni da duello aperto scatenati dal caso Ligresti e dalla richiesta di commissariamento ad acta del Comune che, un anno fa, il costruttore presentò in Provincia. Ufficialmente, al centro della guerra urbanistica c’erano tre progetti edilizi fermi da anni. Ma il vero obiettivo dell’ingegnere siciliano sarebbe stato un altro e ben più importante: il Pgt e quello strumento della perequazione che cancella la possibilità di costruire sui suoi terreni all’interno del Parco Sud. Lì, «in fondo a via Ripamonti», anche la scorsa estate Ligresti confessava di sognare «nuovi quartieri completi che devono avere le scuole per i bambini».

È questo che dice (o direbbe) il Piano comunale di quell’area: i proprietari non potranno costruire e i loro diritti volumetrici verranno spostati altrove. Un bacino immenso da cui il Pgt trae 6 milioni di metri quadrati di ipotetici edifici da far calare sulla città. Anche questo meccanismo, però, viene messo in discussione. Quanto sarà l’indice che verrà generato, in pratica, potrà variare. E a decidere come e dove sarà la Provincia. Questa la lettura di Palazzo Isimbardi, che canta vittoria. Nonostante le scelte dovranno trovare d’accordo anche Comune e Regione: un altro round, un altro scontro. Non solo. Tra i probabili punti di frizione anche la proprietà delle aree liberate grazie allo scambio di volumetrie: per il Comune dovrà rimanere in capo a Palazzo Marino; la Provincia tenterà di annetterle al Parco.

Sembrava trovato mesi fa, l’accordo tra Moratti e Podestà sul Pgt. Su tre punti: l’ippodromo – anche la Lega lo pretendeva – doveva essere stralciato dalle aree di trasformazione; nel piano sarebbero dovuti entrare progetti di housing sociale su terreni della Provincia e Palazzo Isimbardi avrebbe dovuto decidere sul Parco Sud. Le prime due condizioni si erano già risolte (anche se ieri un’osservazione della giunta provinciale chiede di garantire la salvaguardia del trotto e della pista Maura). Rimaneva irrisolta la competenza sui 40 milioni di metri quadrati di verde. E la questione è riesplosa adesso: al momento degli "ok" formali, sul traguardo finale.

Ma quale sarà il futuro dell’area? Per capirlo bisognerà attendere i Piani di cintura. Anche se il rischio che si aprano spazi per possibili costruzioni non è escluso. Podestà, adesso, si erge a difensore del polmone verde. Nessun grattacielo, nessun regalo agli immobiliaristi. Ma quelle «soluzioni condivise» che invoca dovrebbero «coniugare ambiente e sviluppo». E, in passato, non ha nascosto la sua filosofia di base: «Il Parco Sud non è un totem. Bisogna che diventi più penetrabile e più fruibile ai cittadini. Deve consentire un respiro fisiologico ai Comuni limitrofi».

Combattiva ancora oggi, con sulle spalle il «peso meraviglioso» di oltre mezzo secolo di appelli e battaglie in nome della cultura e in difesa del paesaggio, sempre più aggredito, nei decenni, da asfalto, cemento, speculazioni, condoni. Sos continui per il Bel Paese, i suoi, cominciati ancor prima di quel 1955, anno di nascita ufficiale di Italia Nostra, associazione che lei fondò insieme con gli amici di una vita Elena Croce, Umberto Zanotti Bianco, Giorgio Bassani, Pietro Paolo Trompeo e Hubert Howard, marito di Lelia Caetani. Ai quali si aggiunsero fin da subito Antonio Cederna e tanti altri tra letterati, archeologi, critici d'arte, artisti, urbanisti. Tutti diversi per generazione, stili di vita e idee politiche (liberali, liberalsocialisti, azionisti, monarchici, di sinistra): Ma tutti accumunati da una sorta di aristocrazia dei pensiero e nel nome di una battaglia di civiltà che ai tempi nessuno conduceva.

«Si trattava di ribellarsi agli sventramenti che nel dopoguerra continuavano come e più di prima, si trattava di salvare i centri storici dalla cosiddetta ricostruzione selvaggia, si trattava, ad esempio a Roma, di battersi contro l'ennesimo scempio annunciato, un'arteria parallela al Corso a partire da piazza di Spagna. E si trattava di salvare l'Appia Antica, che senza il nostro impegno sarebbe oggi uno stradone cementificato come tanti altri». A parlare è una delle cofondatrici di Italia Nostra, ultima sopravvissuta tra i protagonisti di quel lontano pomeriggio del 29 ottobre '55. La prima associazione ambientalista e di tutela in Italia nacque proprio in casa sua, piazza Cairoli, nel palazzo di famiglia dove ancora oggi vive la contessa Desideria Pasolini dall'Onda, casato nobile dal XIII secolo. Desideria, classe 1920, una miniera di ricordi e una vita spesa in prima linea in difesa del patrimonio artistico e delle bellezze naturali, accoglie ancora adesso il visitatore nella biblioteca del Palazzo, sugli stessi divani rivestiti in velluto cilestrino dove sedettero Bassani, Croce (anche don Benedetto era di casa, Elena, sua figlia, abitava al piano di sotto) e tanti altri protagonisti tra Otto e Novecento: «Vede, lei è seduto proprio dove si metteva sempre Cederna, amico meraviglioso, strambo e geniale. Bassani invece usava quell'altra poltrona». Sprizzante energia, lucidissima, impegnata con l'ennesimo lavoro (in queste ore sta preparando una conferenza proprio sulle origini di Italia Nostra) l'indomita Desideria — nei cui discorsi ricorrono senza enfasi bellissime parole quali intellettuale, impegno, etica, tutela — è stata pochi giorni fa insignita della presidenza onoraria del «Comitato perla bellezza» presieduto da Vittorio Emiliani, altro amico e sodale di battaglie in nome della Cultura.

Nella motivazione anche un breve profilo biografico di Donna Desideria, che pur in sintesi racconta l'eccezionale esistenza di questa nobile signora (aristocrazia di studi e pensiero, prima che di sangue) che fu allieva di Pietro Toesca e Cesare Brandi, studiosa di letteratura inglese, traduttrice di Stevenson e della Woolf. Da Italia Nostra, di cui la Pasolini fu presidente, è polemicamente uscita in seguito alla vendita della villa di via Porpora ai Paioli, lasciata in eredità all'associazione, per farne la sede nazionale, da Maria Luisa Astaldi, scrittrice e moglie di Sante, industriale e fondatore del gruppo (ferrovie, acquedotti) che ancora porta il suo nome: «Ribadisco, quella vendita fu un grave errore. Si trattava di un bene morale e culturale. Problemi di bilancio si potevano risolvere con un mutuo o affittando l'immobile». Che quella non fosse una casa qualunque c'è d'altronde una lunga storia a testimoniarlo. In quelle stanze passarono tanti grandi nomi del Novecento, artisti, letterati, architetti, principi del giornalismo: De Chirico, Savinio, Praz, lo stesso Bassani, Levi, Campigli, Argan, la famiglia Cecchi, Palma Bucarelli, Paolo Monelli... Ché gli Astaldi, è noto, furono anche mecenati: «Maria Luisa — ricorda Desideria — fu una delle prime a finanziare l'associazione». Ma prima di lei a sostenere il gruppo fu il leggendario banchiere-mecenate Raffaele Mattioli: «Ogni tanto ci portava a cena in trattoria. La prima volta lo contattai io chiedendo un appuntamento. Speravo in un piccolo contributo, invece firmò un assegno da tre milioni».

La brillante conversazione con Desideria scivola via tra pensieri sull'integrità dei centri storici come unicum («Fummo i primi a porre il problema), auspici per il futuro («Che la scuola torni a formare l'amore per la conoscenza») e i mille ricordi di una vita degna di una biografia: le ascendenze del casato (sua madre è una Borghese, Desideria tra i suoi avi conta il Cardinal Scipione e Paolina Bonaparte), gli incontri del suo bisnonno nella villa di Montericco con Minghetti, Ricasoli, Capponi, un'altra bisnonna, Antonietta Bassi, aristocratica milanese autrice di una raccolta sull'architettura sparita, Croce che la spinge a riscrivere parte della tesi («Aveva ragione lui») e sé stessa bimba in quei martedì quand'era ospite fisso in casa Pascarella: «Sì, una vita bellissima. Stanca? Per niente. Ho lo stesso spirito ribelle di quand'ero giovane. Paesaggio, periferie, giardini, c'è ancora tanto fare. E il vento che soffia oggi non è dei migliori».

La nomina

In questi giorni il Comitato per la Bellezza, al quale aderiscono le principali associazioni ambientaliste e dedite alla tutela, ha deciso unanimemente di attribuire a Desideria Pasolini dall'Onda, componente del Comitato stesso, la presidenza onoraria. Una attribuzione che avviene in spirito di amicizia, si legge nel comunicato, “riconoscendo all'indomita Desideria di condurre una battaglia, più che cinquantennale e senza sosta, per la tutela del paesaggio, con particolare attenzione a quello agrario (che considera quasi una sua "fissazione'), e del patrimonio storico-artistico della Nazione”. Si tratta «di una piccola cosa., ha commentato il presidente Vittorio Emiliani, che però tutti noi attribuiamo con grande piacere e calore a Desideria Pasolini.

Nelle immagini dell’«acqua granda» tornata prepotente per Natale, che stanno facendo il giro del mondo, si vede sempre e solo la piscina di piazza San Marco. Mai Musile o Bovolenta. Per certi versi è logico. Musile e Bovolenta non le conoscono nel mondo. Eppure il nuovo incubo dell’alluvione sta colpendo al cuore soprattutto la terraferma. Quella veneziana, quella veneta, quella nordestina. E sta facendo molti più danni, danni seri, danni veri, di quanti non ne faccia nella città che fu dei dogi. Al punto da far pensare che una nuova Legge Speciale, ammesso che serva, sia più necessaria per il Veneto, e per l’intero Nordest, che per la città Serenissima.

Colpa dell’abbandono in cui è stato colpevolmente lasciato da decenni il territorio. Della mancanza della più elementare manutenzione ordinaria. Dell’assenza di interventi sui fiumi e sui canali, sugli argini e sulle rive, nei fossi e nelle rogge, nel sottosuolo e sulle montagne. Colpa della scriteriata cementificazione di ogni metro quadro disponibile in nome della più brutale avidità. Colpa della dissennata costruzione di casette, villette, villaggetti, fabbrichette, capannoni e ipermercati dappertutto, anche in zone considerate a rischio, lungo le sponde e sotto gli argini, dove un minimo di buon senso avrebbe consigliato quantomeno prudenza.

Gli alluvionati dell’entroterra pagano così lustri di dissesto e di voracità dei loro governanti, ma anche loro proprie. E non è un fenomeno nuovo. Anzi si può dire, come per il ritorno dell’«acqua granda», che si tratti di una recidiva.

Quarantaquattro anni fa, al tempo dell’alluvione di Venezia del 4 novembre 1966, proprio quello spettro che oggi si riaffaccia minaccioso, quando la devastazione del territorio era solo iniziata e non ancora come oggi compiuta, successe esattamente la stessa cosa. Rimase sottotraccia nell’opinione pubblica, sconvolta ed emozionata dal dramma di città d’arte famose come Venezia e come Firenze, ma successe. E il bilancio reale, non quello mediatico, fu molto più devastante nelle città, nei paesi e nelle campagne dell’entroterra, che tra le antiche e preziose pietre di Venezia.

Il capoluogo lagunare ebbe 14 mila alluvionati, mille senzatetto, 4 morti e 40 miliardi di danni calcolati nelle vecchie lire dell’epoca. Delle quattro vittime va detto che nessuna di loro perì travolta dalle onde dell’«acqua granda». Morirono per infarto o per essere scivolati dalle scale. Nelle Tre Venezie, invece, come veniva chiamato a quel tempo il Nordest, i morti furono 78, e quasi tutti portati via dalle acque infuriate. I sinistrati furono 180 mila, i senzatetto 3 mila, i miliardi di danni 400. Venti volte le vittime e dieci volte gli alluvionati e i danni di Venezia. Si parlò molto meno del disastro della terraferma. Ma tra il Veneto, il Friuli-Venezia Giulia e il Trentino-Alto Adige i comuni colpiti dall’alluvione furono 429. Ma il mondo guardò solo alla bella Venezia e alla romantica Firenze. Solo per loro si mosse la solidarietà internazionale, solo per loro si attivarono i governi, solo per loro si pensò di stanziare dei fondi.

Del dramma di quelle campagne allagate e annegate non si occupò nessuno. Non importava a nessuno di Musile o Bovolenta. Non se ne occuparono e non se ne sono più occupati, nei quarantaquattro anni che sono passati da quel giorno, se non per devastarle e per riempirle di cemento. Ora non è la natura che si ribella, e diventa all’improvviso cattiva. Non c’è alcuna fatalità in tutto questo. E’ che bastano quattro gocce di pioggia per ferire a morte una terra che è diventata fragile, perché violentata e abbandonata indifesa. Con il rischio che, adesso che torna inquietante quell’incubo, i danni di una nuova, eventuale alluvione, siano molto più devastanti di allora.

Da sempre chi opera nel settore dei beni culturali si lamenta che gli organi mediatici riservino alle vicende del nostro patrimonio un’attenzione distratta e concentrata quasi esclusivamente sull’”evento” - la grande mostra o la scoperta archeologica eccezionale – e per lo più confinata nell’ambito degli articoli di alleggerimento.

Non così è successo il 6 novembre in seguito al crollo avvenuto a Pompei. Le immagini di quel cumulo di massi rovinosamente crollati lungo uno degli assi viari principali del sito archeologico, via dell’Abbondanza, hanno fatto il giro del mondo in poche ore e monopolizzato le cronache dei media internazionali per settimane. Un cumulo di rovine: a questo è ridotta la così detta Casa dei Gladiatori, o meglio Schola Armaturarum, un edificio destinato probabilmente a magazzino o palestra per la juventus pompeiana. Nei giorni successivi nuovi crolli – con devastante effetto domino - hanno interessato altre domus nella stessa area, rafforzando la consapevolezza di una situazione di gravissimo rischio, se non addirittura fuori controllo.

L’attenzione mondiale riservata all’evento pompeiano deriva senz’altro dall’importanza assolutamente cruciale di questo sito per la cultura non solo occidentale. Tappa obbligata del Grand Tour, la suggestione di Pompei, unicum archeologico, l’ha resa una delle matrici della nostra memoria e immaginario dell’antico, per essere trasformata, in quest’ultima fase, in location sempre più congestionata di un turismo di massa inconsapevole e smemorato.

Gli scavi di Pompei hanno subito, da duecentocinquant’anni a questa parte, ingiurie di ogni tipo, dall’incuria ai terremoti, e financo le bombe della seconda guerra mondiale, ma i crolli di cui parlano le cronache di oggi possono essere classificati come il risultato diretto della scelta di commissariare l’area archeologica campana. Fin dall’avvio di quella esperienza (luglio 2008) da molti studiosi erano stati evidenziati i rischi di tale soluzione, connessi a prerogative di deroga sistematica dalle normali procedure amministrative e dall’annullamento di verifiche e controlli propri di un’ordinanza di Protezione Civile.

La Corte dei Conti, a posteriori, ha giudicato illegittima quella Ordinanza per la pretestuosità palese delle motivazioni – la situazione di degrado del sito segnalata dai media - ma nel frattempo la gestione commissariale è continuata per due anni con un crescendo attivistico (e di spesa) impennatosi a partire dall’estate del 2009.

Da allora i fondi, non irrisori, della Soprintendenza sono stati gestiti per un affastellarsi di iniziative eterogenee e di dubbio risultato, in un climax di autocelebrazione mediatica: con questa operazione il sito campano è di fatto divenuto il primo esperimento di una gestione che si voleva “innovativa” del nostro patrimonio, il primo esempio, da esportare, di una divaricazione drastica fra patrimonio culturale di serie A in quanto di certa redditività economico-turistica (Colosseo, Pompei, Uffizi) e patrimonio di serie B, costituito dalla stragrande maggioranza dei nostri beni culturali dispersi a migliaia sul territorio a costruire quel museo diffuso che è caratteristica davvero unica del nostro paese ma destinato, soprattutto dopo i ripetuti tagli di Bilancio del Mibac, ad un incerto futuro.

Senonchè, soprattutto a partire dal gennaio 2010 (primo crollo presso la Casa dei Casti Amanti), le lacune e inadempienze gestionali del commissariamento sono venute emergendo con evidenza sempre maggiore.

Così ha suscitato le aspre critiche del mondo scientifico internazionale il restauro del Teatro Grande, giudicato invasivo e distruttivo e allestito con fretta estrema anche tramite ampio impiego di mezzi impropri, escavatrici e bobcat, per ospitare eventi di ogni tipo e per tutti i gusti. Allo stesso modo l’allestimento della Casa di Giulio Polibio con gadgets tecnologici (ologrammi e video) alquanto superati dal punto di vista dell’efficacia comunicativa, non solo è risultato costosissimo, ma non ha risparmiato la stessa domus da problemi di crolli successivi.

Sia detto senza ambiguità: Pompei soffre davvero di una situazione di degrado diffuso che è legata principalmente ad un contesto “ambientale” ad alta complessità e ad alto rischio. E tale situazione, è doveroso riconoscerlo, precede l’avvio del commissariamento: su una sua soluzione efficace, quindi, avrebbero dovuto essere concentrati gli sforzi di un intervento straordinario, lasciando nelle mani della Soprintendenza le risorse e la piena operatività delle attività di tutela, peraltro svolte fino allo scorso anno con risultati di riconosciuto prestigio e finalizzate ad un piano di restauro e conservazione dell’immenso patrimonio pompeiano graduale, ma sistematico.

L’arrivo del commissario ha stravolto tale piano, concentrando e spesso dissipando le risorse su attività di “valorizzazione” effimere e talora incongrue con le finalità di tutela: i risultati sono quelli che stanno dilagando, da alcune settimane, sui siti e le televisioni di tutto il mondo.

Il commissariamento di Pompei e i suoi esiti deludenti e addirittura negativi, rivestono però un carattere esemplare non solo perchè accadute in uno dei luoghi simbolo della cultura occidentale, ma perchè incarnano i rischi di una deriva delle politiche culturali e del nostro rapporto col patrimonio culturale in atto da molti anni e giunta probabilmente ad un punto di non ritorno.

Deriva che possiamo far risalire per lo meno ai famosi “giacimenti culturali” voluti dall’allora Ministro dei Lavori Pubblici Gianni De Michelis alla fine dei ruggenti anni ’80. Da quel momento, pur con rallentamenti, ma irreversibilmente, si è radicata, a partire dal mondo politico nostrano (e in maniera bipartisan) l’accezione di “bene culturale” come portatore di sviluppo economico (nella versione politically correct) o addirittura di “prodotto” da vendere sul mercato, in rapida espansione, del turismo culturale.

In questa trasformazione semantica, accellerata nell’ultimo lustro, ma che è fenomeno non solo italiano, indagato acutamente, fra gli altri da Marc Fumaroli, il patrimonio culturale ha quindi cessato di essere un bene in sè, finalizzato alla conoscenza, all’educazione, per divenire il mezzo – uno dei tanti – di produzione economica, tanto più apprezzabile quanto maggiormente “produttivo”.

Nella mancanza complessiva di una visione culturale che connota soprattutto l’ultimo biennio di attività del Ministero dei Beni e delle Attività culturali, unico indirizzo coerentemente perseguito è stato rappresentato dall’accentuazione esasperata delle pratiche di valorizzazione, culminate con la nomina di apposito manager e codazzo annesso di pubblicitari che, in nome del marketing, in un anno e mezzo di attività hanno saputo produrre, fra continue fanfare mediatiche, solo qualche bislacca campagna promozionale per rendere ancor più appetibili i monumenti icona del nostro patrimonio già oppressi da una pressione antropica che non ha mancato di provocare i primi segnali di rischio: i cedimenti dei mesi scorsi al Colosseo stanno a dimostrarlo.

Alla stessa visione pubblicistica (essendo il marketing vero e proprio comunque collocato su un altro livello di complessità), è ben presto risultata ispirata anche la pratica dei commissariamenti dei principali siti e monumenti nazionali.

Nati per risolvere situazioni di degrado – vere o pretestuose che fossero – caratterizzati da una gestione mediatica aggressiva quanto superficiale, sul piano della strategia culturale queste iniziative hanno ben presto evidenziato un vuoto preoccupante, rifugiandosi in operazioni di maquillage (Pompei) o di semplice manutenzione ordinaria (Roma) dei siti e monumenti. A conclusione dell’esperienza, oltre agli esiti drammaticamente evidenti per quanto riguarda la stessa integrità fisica del patrimonio, del tutto irrisolti appaiono i molti problemi di carattere amministrativo, organizzativo e culturale che affliggono non solo i siti commissariati, ma l’intera struttura del Ministero Beni Culturali, da anni avviata verso un graduale collasso, accelerato, nell’ultimo biennio, da un affastellarsi di provvedimenti spesso punitivi (tagli di bilancio draconiani) e contraddittori (riorganizzazioni e “semplificazioni”). Per tali ragioni, l’esperimento dei commissariamenti è stato equiparato al “modello Alitalia”, in quanto mirato a separare, come sopra ricordato, il patrimonio culturale a maggiore redditività (Colosseo, Pompei, Uffizi) da gestire coi privati, dalla bad company rappresentata dallo sterminato patrimonio minore diffuso sul territorio e destinato ad un gramo destino di lenta asfissia economica. Non è un caso che per il futuro di Pompei si continui tuttora a parlare di una Fondazione mista (pubblico-privato), incuranti del fatto che l’unico esempio di qualche consistenza di questo modello, il Museo Egizio di Torino, stenti da anni a trovare una decorosa identità culturale.

I commissariamenti hanno costituito, insomma, l’iniziativa più fragorosa, ma non l’unica, di un disegno di dismissione complessiva del sistema delle tutele evidente, ad esempio, anche per quanto riguarda la tutela del paesaggio aggredita da una miriade di provvedimenti legislativi tesi a favorire in ogni modo le iniziative di sfruttamento del territorio, da quelle edilizie a quelle infrastrutturali e commerciali.

Nel frattempo, le biblioteche nazionali chiudono i servizi al pubblico per mancanza di fondi, le soprintendenze archeologiche denunciano, dopo gli ultimi tagli inferti dalla manovra finanziaria, di non riuscire più a garantire lo svolgimento del loro lavoro e l’opera di monitoraggio e presidio svolta sul territorio dalle strutture periferiche del Mibac è divenuta ormai impossibile.

Con esemplare congruenza le dichiarazioni del Ministro (comunicato ufficiale del 25 novembre 2010) dopo gli eventi pompeiani identificano esplicitamente la mission ministeriale nella facilitazione coûte que coûte della funzione infrastrutturale ed edilizia del territorio non più ostacolata dai “ritardi” derivanti, ad esempio, dai ritrovamenti archeologici: in tali affermazioni è ormai chiara la tendenza al sovvertimento dei principi dell’art. 9, nella Costituzione anteposti ad ogni altro interesse che non fosse quello pubblico, il principio guida che da Benedetto Croce a Concetto Marchesi, ha ispirato i legislatori e i padri costituenti.

Non esistono scorciatoie per tutelare il nostro patrimonio nel senso più completo del termine e quindi per far sì che il numero più ampio di cittadini ne possa godere attraverso una comprensione culturalmente adeguata e costantemente aggiornata.

Occorrono risorse ingenti che non ci sono a livello pubblico e non ci saranno per molto tempo ancora: in questo senso bisognerà concentrare gli sforzi per trovare soluzioni innovative.

Ma nel frattempo, occorre almeno che questo patrimonio possa sopravvivere al degrado provocato dalla micidiale interazione di incuria e becero attivismo “valorizzatorio” e che nelle mani degli organismi tecnici sia affidata, con ampia disponibilità delle risorse residue e pieno riconoscimento istituzionale, quell’insostibuibile operazione di manutenzione programmata cui è affidata la sola speranza di salvezza.

Con significativa simmetria, nelle stesse ore in cui gli schermi ci rimandavano le immagini del primo crollo pompeiano, quelle sull’alluvione in Veneto rafforzavano, nella loro drammaticità, lo stesso assunto: come per salvaguardare il nostro territorio nel suo insieme non ci occorrono le “Grandi Opere”, ma la quotidiana, incessante opera di ripristino e contenimento del rischio idrogeologico, così per salvare il nostro patrimonio culturale non abbiamo bisogno di iniziative effimere e culturalmente risibili o addirittura controproducenti, bensì di quell’opera di manutenzione ordinaria che, in una dichiarazione di drammatica impotenza a commento immediato del crollo pompeiano, il segretario generale del Mibac, ha affermato “non facciamo più da almeno mezzo secolo”.

Ma soprattutto occorre rovesciare radicalmente l’accezione economicista ultimamente imperante che ha trasformato i nostri beni culturali e il nostro paesaggio in una risorsa da sfruttare e in una merce da vendere. Anche se rappresentano uno dei motori di una delle poche industrie in attivo, quella turistica, il patrimonio e le istituzioni culturali non debbono avere l’obiettivo di produrre ricchezza materiale, ma senso di cittadinanza e integrazione culturale e sociale. Essi rappresentano uno dei nostri beni comuni più fragili in quanto irriproducibili e assieme uno dei servizi, come l’istruzione e la sanità, sui quali si misura il livello di civiltà di un paese.

Ecco alcuni motivi per cui non ci sentiamo di difendere il Piano Strutturale adottato il 13 dicembre scorso dal Consiglio Comunale

La sbandierata ma disattesa promessa di un piano "a volumi zero". Nella realtà il Piano Strutturale adottato "sdogana" per i prossimi 15 anni 4 milioni e mezzo di mc. di volumi privati su una superficie municipale di poco più di 100 Kmq. Infatti le superfici autorizzate non ancora realizzate, ma riconfermate dal PS, sono pari a 678.000 mq., mentre il nuovo impegno di suolo dovuto al residuo del PRG equivale a 92.100 mq. A queste dobbiamo aggiungere l'incremento di carico urbanistico rappresentato dai 713.000 mq. di superfici da recupero (comprensive dei contenitori di particolare valore) di cui ben 530.150 mq. sono costituiti da residenze, 59.300 mq. da insediamenti industriali e artigianali, 57.380 mq. da funzioni commerciali di media grandezza, 26.100 mq. da turistico-ricettivo, e 40.070 mq. da direzionale. Avremo pertanto un totale di 1.483.100 mq. di superfici che moltiplicate ottimisticamente per un'altezza di 3 m. raggiungono l'imponente cifra di 4.452.000 mc.

Non si dimentichino inoltre:

- le enormi superfici pubbliche della Scuola Marescialli di Castello quasi completate;

- i 150.000 mq. di trasferimento per perequazione di edifici cosiddetti incongrui, (ma quali sono? Volumi abusivi, condonati o meno, oppure anche le recenti edificazioni autorizzate nelle corti?) col connesso premio volumetrico;

- i 200.000 mq di edifici incongrui analoghi non ancora collocati ma in odor di variante;

- il "social housing" (caserme dismesse, completamento dell'edificato e nuovo consumo di suolo);

- il completamento di alcune aree sportive in delicate aree di frangia che incrementeranno ulteriormente quelle cifre.

Le colline e il centro storico indifesi

Il Piano Strutturale appena adottato, dopo aver reso gratuito omaggio ad alcuni principi di sostenibilità energetica e ambientale, è presentato come il primo piano in Italia a volumi zero e senza consumo di nuovo suolo; in realtà consente gli incrementi volumetrici di cui sopra e il consumo di nuovo suolo mediante l'attacco alla collina, sottraendo i borghi storici collinari dalle aree a piena tutela, e conferma, senza alcun ripensamento, tutte le volumetrie di Ligresti nella Piana di Castello, mette parcheggi interrati attira-traffico sotto una decina di piazze storiche e prevede sconsideratamente 6 Km di tunnel tranviari sotto il Centro storico, senza infine negarsi un passante stradale sotterraneo da Varlungo a Careggi/Novoli immaginato "fuori Piano".

La mobilità:

un'incredibile e velleitaria macedonia di tutto quello che si potrebbe fare, senza indicazioni di priorità, scelte strategiche generali e indicazioni di tempi e risorse per la loro attuazione



Il Piano Strutturale accoglie, nonostante la guerriglia verbale del sindaco Renzi contro Ferrovie dello Stato, tutto il pacchetto Alta velocità, compresa la contestata e abusiva stazione Foster, regalando a Moretti la piena disponibilità delle "sue" aree ferroviarie.

Qui si doveva giocare l'ultima battaglia per adeguare il sistema della mobilità (il quinto per dimensione in Italia, la cui fragilità è stata catastroficamente dimostrata dalla recente nevicata) di cui si parla molto nelle relazioni di Piano. In un'area metropolitana asfissiata dalle polveri fini, da sempre al vertice italiano per indice di motorizzazione auto e moto e nella quale il ruolo del trasporto pubblico è andato progressivamente declinando con il decentramento della popolazione e con l'abbassamento del livello di servizio, la mancata salvaguardia del "canale ferroviario" (escluso dal quadro delle "invarianti") rende le considerazioni sulla creazione del Servizio ferroviario metropolitano prive di fondamento. Soprattutto se si perde l'occasione dell'AV per attrezzare importanti nodi, come le stazioni di Campo di Marte e di Rifredi, per l'utilizzo metropolitano della rete ferroviaria, per la riorganizzazione della mobilità cittadina e per la definitiva messa in sicurezza del passaggio in superficie del traffico.

Il Piano strutturale appena adottato riconferma i progetti delle linee 2 e 3 della tranvia contro i quali i cittadini si erano espressi con un referendum nel 2008, e ne prevede anche i prolungamenti; annuncia infine la creazione di tre nuove linee (per un totale di sei), due delle quali su sede ferroviaria.

Il Piano prevede anche la privatizzazione di importanti aree pubbliche come il Meccanotessile, la Mercafir, il deposito Ataf di viale dei Mille e l'istituto dei Ciechi, oltre a premi, regalie e aumenti di superfici edificabili per i privati.

La "perequazione":

ovvero come si consuma nuovo suolo rinunciando alla pianificazione del territorio

Con la perequazione che dà luogo al "credito edilizio" il PS intende favorire il trasferimento, ad esempio, del volume di un capannone abbandonato dal centro ad una zona periferica, demolendolo poi per ricavarci uno spazio pubblico, una piazza o un giardino.

Il criterio perequativo originariamente era utilizzato per garantire ai proprietari presenti all'interno di uno stesso comparto o di un "zona territoriale omogenea" pari opportunità ed equiparazione di diritti/doveri; ora viene diffuso su tutto il territorio comunale facendo sì che volumi "incongrui", sottratti da un tessuto già troppo denso, "atterrino" in altre aree producendo erosione di aree verdi, agricole o collinari, invasione di zone paesaggisticamente sensibili, generando in parole povere consumo di nuovo suolo ed espansione dell'edificato.

Ma soprattutto, compiendo uno strappo fra standard urbanistico (da individuare là dove viene demolito il volume incongruo) e nuova edificazione (nella nuova area dove si depositano le volumetrie relative all'edificio demolito), aggravaquella indifferenza alla localizzazione (e quel primato della rendita immobiliare) che è la vera tomba della pianificazione.

Si opera così anche una coartazione sul singolo abitante come titolare di un diritto a quella dotazione di superficie pubblica da utilizzare nel quotidiano in un rapporto di vicinanza con la residenza (verde, parcheggio, scuola, centro sociale, chiesa, ecc.). Il passaggio dalle convenzioni tra Comune e privati al "Registro dei crediti edilizi" rende assai problematica e incerta qualsiasi gestione di questo tipo di pianificazione.

Limitatissime le concessioni fatte dalla superblindata maggioranza di Palazzo Vecchio ai 166 emendamenti, circostanziati e propositivi, presentati dai vari gruppi durante la discussione nel Consiglio comunale. A conferma di una sottrazione della materia urbanistica, non solo alla democrazia partecipativa (mai veramente attuata e comunque subito conclusa tre mesi fa con il retorico appuntamento dei "100 luoghi"), ma anche a quelle stesse assemblee elettive tanto invocate da molti amministratori toscani contro i comitati e l'associazionismo ambientalista – che sono ormai gli unici depositari, insieme a pochissimi tecnici e consiglieri, della competenza e della consapevolezza necessaria per un governo trasparente e sostenibile del territorio.

Nonostante la disponibilità al dialogo fornita durante il dibattito in commissione e in Consiglio comunale dai gruppi di opposizione (e il voto favorevole del consigliere di opposizione Valdo Spini) il Partito Democratico ha fatto quadrato, come doveva, attorno alla rete di interessi economici che entrano in gioco in un iter di Piano. Materia troppo seria evidentemente per lasciarla in mano a semplici consiglieri o peggio a cittadini perbene e tecnici competenti.

Per tutti questi motivi siamo convinti che in Consiglio comunale l'unica scelta possibile fosse quella di un voto contrario. Crediamo però anche che si debbano utilizzare i sessanta giorni di legge per tradurre in osservazioni le nostre proposte e, in questo senso, invitiamo l'Amministrazione ad attivare un vero dibattito pubblico con i cittadini, considerato che, nella fase di adozione, il processo partecipativo è risultato estremamente compresso e carente quando non ridotto alla dimensione di sondaggio di opinione o, peggio ancora, di spot pubblicitario.

Postato da ReTe dei comitati su "News dei Comitati" il 21/12/2010

Non serve andarci, a Pompei. Quei crolli si ripetono ovunque. Il dramma della Casa dei Gladiatori si diffonde come un virus da Nord a Sud. In Sicilia pensano al noleggio di tute e bombole per lanciare la visita subacquea della colonia di Kamarina. Dopo 2.600 anni sulle terre emerse, ora se la sta mangiando il Mediterraneo. E nessuno sembra capace di fermarlo. Avanti così, secondo gli archeologi, fra pochi anni non ne resterà traccia. Come laggiù, nel resto d'Italia ogni giorno c'è una crepa che si apre, un monumento che cede, un marmo che si crepa. La colpa è solita: decenni di sperperi, incuria, soldi buttati, scarsa manutenzione. L'ultimo allarme in ordine di tempo viene da Pisa, dove il museo delle navi antiche, 30 imbarcazioni del Terzo secolo avanti Cristo riemerse dalle piene dell'Arno 12 anni fa, dopo l'inaugurazione in pompa magna con passerella di politici, è abbandonato a se stesso. Ma i casi sono decine.

Talmente tanti che non esiste nemmeno un dossier aggiornato, né una commissione parlamentare che vigili. Mentre la mozione di sfiducia che sarà discussa in Parlamento dopo le feste di Natale fa infuriare il ministro Sandro Bondi, che parla di aggressione politica e mediatica, resta il fatto che al dicastero dei Beni culturali perdono il conto dei disastri. Non sanno bene quanti e quali siano i siti a rischio: dalle mura romane corrose dalle piogge acide alle pericolanti Torri di Bologna, viviamo in una macabra lotteria nazionale. La prossima volta potrebbe toccare all'anfiteatro di Santa Maria Capua Vetere nel casertano come alla Cupola di Santa Maria del Fiore a Firenze. Potrebbe essere la cinta muraria di Aurelio a crollare sotto i colpi del traffico romano, come invece il Colosseo a cedere di nuovo, oppure il tempio greco di Selinunte.

Quello che è certo è che le falle che si aprono negli scavi archeologici sono troppe per i conti in rosso del ministero. "Non si deve intervenire con una grande guerra, ma con una lotta continua, un'azione perseverante come nelle battaglie anti-terrorismo, altrimenti finisce tutto sottoterra", spiega Andrea Carandini, presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali. Eppure solo quest'anno è stato tagliato più di un miliardo e mezzo da un budget insufficiente da almeno un decennio. Il personale è metà di quel che servirebbe. E poi chi va in pensione non viene sostituito: "Serve un commissario", replica il governo ogni volta che un crollo riporta l'attenzione sul più grande dramma silenzioso del Paese: l'eutanasia di Stato per scavi e rovine.

CROLLI A NORD

A Roselle si poteva passeggiare attorno alle mura etrusche. Enormi pietre incastonate a secco sei secoli prima di Cristo. Tre chilometri di storia sopravvissuta a guerre e saccheggi. Da lì si guardava la collina, il bosco verde scuro, addirittura la sagoma della Corsica che spuntava dal mare così come la vedevano sei secoli prima di Cristo. Adesso un'impalcatura sbarra la strada e la visuale. Se appoggi la mano alla pietra gelata senti l'acqua che le scorre nelle venature. Buchi e crepe di tre, anche cinque centimetri la fanno tremare. Le piante l'hanno infilzata con le radici legnose e, da dentro, rischiano di abbattere il muro che si oppose per secoli a eserciti e predatori. Tre chilometri di cinta che potrebbero cadere come un domino. Da quando la parete principale, lunga un centinaio di metri, è stata dichiarata pericolante. Un allarme corale, che parte dai responsabili della soprintendenza toscana, Fulvia Lo Schiavo e Carlotta Cianferoni per arrivare al sindaco di Grosseto, Emilio Bonifazi. Che dopo i crolli di Pompei ci pensa ogni notte. Inutile dire che anche qui basterebbero i soldi. Un piano di interventi metterebbe in salvo quel patrimonio dell'umanità. E invece fra ritardi, tagli e blocco delle assunzioni, chi lavora a Roselle si sente abbandonato a se stesso. Lo dicono i custodi che, dopo i crolli, non hanno visto nessuno venire da Roma. Lo ripete la gente cui non resta che sperare che "la mobilitazione per Pompei faccia ricordare a qualcuno che esistiamo anche noi".

Nel cuore di Bologna, poi, è ormai straziante il lamento della Garisenda. È la più bassa delle due Torri ed è in pericolo come la sorella maggiore degli Asinelli. Lo ha detto il sismologo Enzo Boschi. Lo ha ripetuto Legambiente. Lo ammettono pure al ministero. Ma soldi non se ne vedono. A Firenze la musica è la stessa. Il segretario della Uil Beni culturali, Gianfranco Cesaroli, lo ripete da mesi. La cupola di Santa Maria in Fiore è monitorata costantemente. L'ex convento di Sant'Orsola è abbandonato da anni. E dove l'acqua non fa paura, ci pensa invece il cemento. A Canossa l'antico insediamento gallo-romano sta per essere schiacciato da decine di condomini. È dagli anni Novanta che a Reggio Emilia si vive di emergenza. Quella spianata è stata resa edificabile ormai vent'anni fa, ma finora Legambiente era sempre riuscira a impedire che dalle parole si passasse ai fatti. Anni di pace, con gli scavi che continuavano e le aree archeologiche aperte agli alunni delle scuole. Un sogno nell'Italia che va in pezzi, destinato a diventare un incubo. E così il consiglio comunale ha adottato la variante al piano regolatore. Una delibera che trasforma un parcheggio a ridosso dell'area di Luceria in palazzine di cemento armato. Con il dubbio che fra i proprietari dell'area possano spuntare, ripetono gli abitanti di Canossa, pure i nomi di un paio di politici locali.

PERICOLO CAPITALE

Roberto Cecchi è il commissario delegato per le aree archeologiche di Roma e Ostia. Significa metà dei monumenti italiani o giù di lì. Dopo uno screening accurato, ha varato 65 interventi urgenti nell'area di Roma. E tra i tanti pericoli è ancora il Palatino a correre i rischi più gravi. Il piano di interventi c'è. E per quanto possano le tasche della Soprintendenza, è pure partito. Per il colle dei Cesari sono 15 gli interventi in corso. Una spesa di 9,6 milioni di euro e ne restano altri due da impegnare. Molte situazioni pericolose sono state sanate, sono stati aperti nuovi percorsi, scoperti luoghi sacri e affreschi mai svelati. Ma non basta mai. Resta la grande emergenza della Domus Tiberiana, il palazzo imperiale modificato nei secoli, chiuso al pubblico da trent'anni e ormai imprigionato nella rete metallica delle impalcature. Lesioni, crepe, dissesti strutturali (in profondità si scorge un metro di vuoto fra le murature) stanno impegnando a pieno ritmo architetti, ingegneri, geologi, archeologi: una situazione di instabilità, legata alla stessa conformazione del colle, che è aggravata dalla presenza di gallerie sotterranee e cavità (ora allo studio con nuovi strumenti di indagine) dove si accumulano le piogge. "L'acqua è un nemico pericoloso in un terreno sfruttato nei millenni", sottolinea Maria Grazia Filetici, architetto della Soprintendenza: "Si devono quindi evitare sia accumuli che smaltimenti errati, ripristinando, dov'è possibile, le condutture antiche".

L'acqua è anche il nemico, anzi il killer, della Domus Aurea sul colle Oppio. Il soffitto è un prato e, quando piove, l'acqua non assorbita cade all'interno. L'ultimo allarme è stato il crollo di alcuni mesi fa, che fortunatamente non riguardava le sale affrescate. L'ennesimo. Dopo che il padiglione era già chiuso da quattro anni. Certo i tecnici della Soprintendenza sono al lavoro. Ma il problema è che i soldi non bastano: "Con i cinque milioni dei primi due lotti", spiega il commissario Luciano Marchetti, "stiamo provvedendo sia a mettere in sicurezza che a impermiabilizzare questa zona, la prima a riaprire entro due anni, di più non possiamo fare. Per completare i lavori necessari occorrono ben altri investimenti, almeno 15 milioni di euro".

È la stessa storia del Colosseo. Quando, a poco più di un mese dal crollo nella Domus, una malta della struttura originaria si stacca da un ambulacro centrale e crolla al suolo. Un crollo che è anche il simbolo del fallimento del ministro Bondi, che avendo il budget prosciugato, ha aperto la caccia agli sponsor privati. Servono 25 milioni per tentare un recupero definitivo del più famoso monumento del mondo.

SPROFONDO SUD

In Sicilia è da dieci anni che esiste la "Carta del rischio dei beni culturali". È una specie di cartella clinica che traccia lo stato di salute di monumenti, siti archeologici e musei. La paga Bruxelles scucendo 4 milioni di euro. Eppure degli oltre 10 mila beni censiti, soltanto un quarto a distanza di nove anni dall'avvio del monitoraggio ha una scheda specifica. Dati parziali, ma già allarmanti. Quei documenti raccontano una Sicilia che cade letteralmente a pezzi. Tanto le aree considerate più a rischio, cioè le provincie di Palermo, Catania e Messina. Quanto Caltanissetta e Enna, ufficialmente immuni dal degrado, ma protagoniste dei peggiori crolli degli ultimi anni. Basti pensare che proprio in provincia di Caltanissetta, a metà novembre, è caduto il portale dell'antico santuario di Maria d'Alemanno, una chiesa del Tredicesimo secolo realizzata dall'Ordine dei cavalieri teutonici. Il santuario di Gela attende il restauro dal 1985, quando lo stato di conservazione era già considerato a rischio di cedimenti. Eppure rimasta senza soldi.

Anche dove i fondi alla fine arrivano, spesso restano sulla carta. Da sette anni, ormai, la villa romana del Casale di Piazza Armerina è un cantiere a cielo aperto. Dal 1997 la Villa è inserita nella World Heritage List dell'Unesco. Per salvare i cento milioni di tessere dei mosaici, disposti su un'area di oltre 4 mila metri quadri della dimora patrizia, sono piovuti oltre 18 milioni di euro dall'Unione europea e dalla Regione Sicilia. Quattrini assegnati già nel gennaio del 2003 al consorzio stabile Beni culturali di Firenze. Ma basta passarci per capire che i lavori sono ancora in alto mare, nonostante all'impresa toscana fossero stati concessi due anni per completare il ripristino. Dopo tre anni spesi a litigare per le nomine dei tecnici, con da un lato Vittorio Sgarbi nel ruolo di Alto commissario per la Villa e dall'altro gli uffici del Sovrintendente di Enna, il progetto di restauro viene finalmente approvato dalla Commissione regionale. Ma alla fine del 2006 arriva l'ennesimo stop, con la Regione che sospende l'affidamento: due delle cinque imprese non avevano i requisiti tecnici necessari. Poi i lavori partono, ma non finiscono mai. Tanto che da metà novembre Piazza Armerina è di nuovo chiusa. E la nuova data per la consegna è slittata alla primavera 2011. Stesso copione anche per il tempio di Selinunte. Dal 2007 si parla di lavori di ripristino, ora l'accesso al pubblico è limitato per evitare che i calcinacci del cemento, utilizzato per il restauro di mezzo secolo fa, vengano giù sulla testa dei turisti. È il parco archeologico più grande d'Europa e continua a sbriciolarsi con i visitatori costretti alle acrobazie tra pedane di ferro e tubi di alluminio.

A Cagliari i giganti di Is Concias sono umiliati. Prima i vandali passavano indisturbati nel nurago, adesso sono addirittura i turisti a smontarlo pietra dopo pietra. Per allestire, su quei massi antichi, i loro moderni barbecue. Le associazioni sarde da mesi denunciano lo scempio, ma la risposta del Comune è la solita: stiamo aspettando i soldi.

la Repubblica

Ultimo OK per il CERBA, i cantieri in aprile

di Alessia Gallione

Dopo cinque anni, da quando è ufficialmente partito l’iter, il Cerba si avvicina sempre di più al traguardo. Nell’ultima riunione del 2010, la giunta comunale ha adottato il piano urbanistico: un passaggio fondamentale, che può essere considerato l’anticamera dei cantieri. Tanto che, adesso, si guarda alla partenza dei lavori del nuovo polo di ricerca e cura che dovrà nascere nel Parco Sud: la prima pietra potrà essere posata già tra l’aprile e il maggio del prossimo anno, con la prima fase del parco scientifico internazionale di 620mila metri quadrati sognato da tempo dall’oncologo Umberto Veronesi che terminerà tre anni dopo.

Non è stato sempre facile, il cammino del Cerba. E non soltanto per l’opposizione degli ambientalisti che hanno contrastato a lungo la nascita del Centro europeo di ricerca biomedica avanzata all’interno del verde del Parco Sud, su terreni di Salvatore Ligresti. Lo ammise lo stesso Veronesi, nell’aprile dello scorso anno. «Ci sono stati grandi entusiasmi ma anche molte battute d’arresto», disse quando fu firmato da tutte le istituzioni l’accordo di programma che sbloccò il progetto, dopo una battuta d’arresto e un ritardo sulla tabella di marcia di un anno. Adesso - i cantieri sarebbero dovuti iniziare nel 2010 - arriva il voto della giunta.

«Un passaggio importante», lo definisce l’assessore allo Sviluppo del territorio Carlo Masseroli. L’atto di ieri, infatti, è l’adozione del programma urbanistico. Che ora, dopo il tempo a disposizione dei cittadini per le osservazioni, passerà nuovamente in giunta per l’approvazione finale, tra gennaio e febbraio del prossimo anno. Il piano, però, c’è già ed è tutto contenuto nel documento appena votato. È di fatto il via libera al maxi-polo (progettato da Stefano Boeri) per la cura e la ricerca nei campi più vari: dall’oncologia alla neurologia, dalla radioterapia allo studio del Dna. Ci sarà spazio anche per edifici residenziali e ricettivi per i pazienti, i loro parenti, gli studenti e i medici e per un parco attrezzato di 320mila metri quadrati che la Fondazione si impegna a gestire per 30 anni.

In tutto (l’intero disegno si concluderà nel 2019) costerà 1 miliardo e 226 milioni, che arriveranno da finanziamenti privati. Ed è proprio questa la sfida che ora dovrà affrontare la Fondazione Cerba: trovare i fondi. Anche se il direttore Maurizio Mauri è ottimista: «L’adozione è un passo importante perché significa che tutte le istituzioni credono nel progetto. Per i fondi siamo nella fase della raccolta, ma siamo sicuri che con l’approvazione definitiva le dimostrazioni di interesse, che sono tante, si concretizzeranno».

Corriere della Sera

Via libera al piano urbanistico Entro un anno i lavori per il Cerba

Il Cerba è più vicino ed entro il 2011 partiranno i cantieri del Polo della scienza e della salute che nascerà a sud della città. La giunta comunale ha adottato ieri il piano urbanistico per la realizzazione del Centro europeo di ricerca biomedica avanzata: ora, scattano i tempi utili per le osservazioni e, nel giro di un paio di mesi, si conta di arrivare all’approvazione definitiva. Nell’ottobre del 2009 era stato ratificato l’accordo di programma, già sottoscritto da Regione, Provincia e Fondazione Cerba. Soddisfatto l’assessore all’Urbanistica, Carlo Masseroli: «È un traguardo importante, soprattutto perché questo centro diventerà un’eccellenza internazionale e Milano si pone sempre più come capitale mondiale della ricerca e della sanità pubblica e privata» .

Il costo dell’intervento, che riguarda un’area del costruttore Salvatore Ligresti ed è un progetto dell’architetto Stefano Boeri, è di un miliardo e 226 milioni. L’area interessata, limitrofa all’Istituto Europeo di Oncologia, è di 620 mila metri quadrati, oltre la metà dei quali diventeranno un parco pubblico. Per quanto riguarda il Centro, sono previsti 45 mila ricoveri all’anno, 800 mila visite ambulatoriali, un accesso di 19 mila persone al giorno e 5 mila operatori, con la garanzia di nuovi posti di lavoro e di un indotto economico sulla città e comuni limitrofi. Per la parte della ricerca, poi l’ambizione è di dare spazio a 500 scienziati. Preoccupato il consigliere Basilio Rizzo: «Il Cerba in sé è una proposta importante. Ma farlo nel Parco Sud significa minare la salvaguardia dell’area»

Nota: il riferimento per qualche dato in più sul CERBA è all'articolo pubblicato qui a suo tempo (f.b.)

Cemento e burocrazia così i nostri fiumi diventano una minaccia

di Roberto Mania, Fabio Tonacci



VICENZA - «Vada in mona ghe se da vergognarse. Quel casso de, de…». Ce l’ha con il Bacchiglione il vecchio di Cresole, frazione di Caldogno, a due passi da Vicenza. Il fiume è lì a una cinquantina di metri, gonfio e melmoso, di nuovo prossimo alla piena. Resta ostile quel fiume. Compresso, ancora dentro gli argini indeboliti, mentre dal cielo continua a piovere. Tanto che ieri è di nuovo scattato l’allarme a Vicenza, alcune strade si sono allagate. C’è il rischio di una nuova alluvione a poco di un mese da quella di Ognissanti, quando acqua e fango entrarono violenti nella città, affondando tutta la campagna intorno, giù fino a valle alle porte di Padova. Tre morti (uno proprio qui a Cresole), danni per oltre un miliardo di euro.

Centocinquantamila animali annegati, tremila persone temporaneamente sfollate. I segni del disastro stanno scomparendo, però: ci si è messi al lavoro subito, senza aspettare gli aiuti e neanche le visite di rito dei governanti. L’antipolitica nordestina si pratica pure così. A Vicenza sono arrivate meno richieste di soldi per la ricostruzione di quanti ne siano stati stanziati. Ma perché si aspetta l’alluvione e i morti per intervenire? Perché è meglio l’emergenza anziché la manutenzione? Perché i disastri aumentano con il passare degli anni? Perché negli altri paesi è diverso?

LA RIMOZIONE

Il vecchio non ha mai amato il Bacchiglione che ha rotto solo poco più a nord e che già nel 1966 trasportò distruzione. Continua a disprezzarlo. Come un po’ tutti da queste parti. Perché c’è stata una sorta di rimozione collettiva, quasi a nasconderlo quel corso d’acqua con i suoi centodiciannove chilometri e il suo fittissimo reticolo di affluenti e sorgive. Qui, in questo pezzo della "metropoli padana" senza identità comune con un tasso impressionante di urbanizzazione, dove i capannoni e le casette con giardino si sono costruiti dovunque per aggrappare il benessere, si vive sopra l’acqua. Perché questa è la zona del Veneto dove piove di più. I paesi sono come sulle palafitte. Qui il fiume non lo vorrebbero più. Ricorda la fatica e la miseria dei secoli passati. Così l’hanno imbrigliato, rettificato, svuotato, spolpato, raddrizzato, modernizzato. Niente più anse, bensì un percorso dritto, veloce. Troppo veloce. Forse lo stanno uccidendo il fiume. Che come un animale in gabbia ogni tanto si ribella perché vorrebbe vivere, esondare e rientrare.

Ma il Bacchiglione non è altro che un fiume dell’Italia. Solo ieri sono scattati gli allarmi anche per il Piave, per il Secchia, per il Panaro. In Italia non si fa prevenzione perché alle elezioni non paga. Il nostro è il paese dove non si interviene a monte perché se ne avvantaggerebbe la popolazione a valle, dove si è imposta la strategia dell’emergenza al posto della normale manutenzione, dove si frammentano le competenze tra Genio civile, Autorità di bacino, Magistrato delle acque, Protezione civile, Consorzi di Bonifica, enti locali. Dove - certifica l’ultimo rapporto del Consiglio nazionali dei geologi - tra il 2002 e il 2010 ci sono state 35 frane e 72 alluvioni che hanno provocato 219 vittime, 126 per frane e 91 per alluvione.

Vuol dire 30 morti ogni anno a causa del dissesto idrogeologico. C’è stato un peggioramento dalla seconda metà degli anni Ottanta, e il picco nel decennio successivo. Con un costo dunque crescente: 52 miliardi nell’arco degli anni dal 1948 al 2009, pari a 800 milioni l’anno. Ma se si dividono i periodi (tra il ‘48 e il ‘90 e tra il ‘91 e il 2009) emerge che fino agli anni Novanta la media era di 700 milioni per diventare poi quasi il doppio: 1,2 miliardi a causa del non controllo. È l’Italia che produce i "disastri a km zero", tutti fatti in casa, autentici. Nulla di importato. Completamente colpa nostra. E tutti lo sanno. Da decenni e forse più.

CASE E CAPANNONI

Ancora a Cresole. In piazza della Chiesa il monumento ai caduti guarda dal basso in alto il Bacchiglione che scorre. Questa è una golena naturale. Era. Ora è un paesino che galleggia. Si tirano su le case a meno di trenta metri dal fiume. Sono previste già altre cinque palazzine a due piani. Cementificazione si chiama. Ma non è abusivismo, è tutto regolare qui. Case, capannoni e chiese. Quasi dentro il fiume. La sede della polizia municipale che un tempo ospitava la scuola elementare sta in Ca’ Alta, vuol dire strada alta. E dice tutto. Dal Duemila i residenti di Caldogno sono aumentati di mille unità, sono diventati 11.150. Si è costruito ma non si è fatto nulla per mettere in sicurezza la zona.

L’onda di Ognissanti ha buttato giù i garage, invaso gli interrati, distrutto le automobili. Da ieri si è ricominciato a tremare. Fa paura l’acqua. A novembre c’erano i sommozzatori qui in Piazza della Chiesa. Ora si ripara tutto, in fretta. Si rimuove, appunto. Perché è troppo tardi per mettere in discussione questo modello di sviluppo. Lo sa bene il sindaco di Caldogno, Marcello Vezzaro, ex Psi, eletto con una lista civica ("Amministrare insieme") formata da ex popolari, ex forzisti del Pdl. Con la sinistra e la Lega all’opposizione. L’Ici non c’è più, spiega, e gli oneri di urbanizzazione finiscono per essere una fonte importante di entrate. Costruire, allora.

Dice Michele Bertucco, presidente della Legambiente del Veneto: «Molti Comuni pensano di fare cassa non sapendo che questo porterà ad un aumento della spesa». Questa è l’Italia delle contraddizioni localiste, dei tagli ai trasferimenti dal centro alla periferia, del federalismo mal concepito, delle colate di cemento sempre e dovunque. L’Italia. E la Lega Nord? Il governo del territorio non doveva essere la risposta al malgoverno centralista di Roma?

Perché questa è anche l’Italia della Lega, del ribellismo nordista. Del rancore antistatalista. E - forse - di fronte all’acqua che avanza e alla richiesta di aiuti a Roma, del fallimento leghista.

«No, mi pare un’esagerazione parlare di fallimento», sostiene Ilvo Diamanti, politologo, cittadino di Caldogno, che ha definito «una tragedia minore» quella dell’alluvione perché consumata lontano dai «centri della comunicazione Roma e Milano». Aggiunge: «E’ piuttosto l’ evidenza che un modello di sviluppo localista ti rende vulnerabile. Ciascuno ha fatto programmazione nel proprio orto, nel proprio pezzo di terra. Si è costruito un territorio puntiforme senza programmazione comune. E questo territorio è diventato una plaga, una grande megalopoli inconsapevole. E’ Los Angeles, è Chicago. Ma tutti continuano a pensare in modo localistico». Il fiume è di tutti e allora non è di nessuno. Rimozione.

GUERRA DI LOBBY

Sul fiume si scontrano interessi, lobby contrapposte, corporazioni. Si combatte su e lungo quelle acque. Non solo contro la costruzione della nuova base militare Usa del "Dal Molin", dove a pochi metri dagli argini sono stati impiantati 3.500 piloni a una profondità di 18 metri. «Provocando un rialzo della falda di 20 centimetri», ci spiega Lorenzo Altissimo, direttore del Centro idrico di Novoledo, che del fiume, dei percorsi rettificati, delle trasformazioni di questo territorio e della sua popolazione, sa tutto.

Ci sono i contadini sussidiati dall’Unione europea che preferiscono essere espropriati dei loro terreni per destinarli alla costituzione delle cassa di espansione e si oppongono invece al meno remunerativo indennizzo, che include la manutenzione dell’argine; ci sono i "signori della ghiaia", che qui contano eccome, e anche quelli, un po’ in declino, dell’argilla con cui si fanno i mattoni. Antonio Stedile ha assistito in diretta dai campi della sua azienda alla rottura del Timonchio, affluente del Bacchiglione. I suoi campi sono immersi nell’acqua ma i danni sono stati relativi. Da venti anni provava a spiegare quanto fosse pericoloso il fiume e debole l’argine. Inutilmente. Ma lui, come gli altri agricoltori, si oppone alla cassa di espansione e alla diversa destinazione produttive dei campi. C’è un "fronte del no" guidato da Gianfranco Farina, che non è un agricoltore bensì un tecnico. Rappresenta la maggior parte dei contadini. Dicono no al progetto della cassa di espansione.

Rinviare gli interventi ci ha fatto almeno risparmiare? C’è stato un beneficio per le casse pubbliche ai vari livelli? C’è chi ha fatto qualche conto: se la cassa fosse stata realizzata trent’anni fa sarebbe costata meno di 35 milioni di euro, quasi la metà dei danni provocati dall’alluvione dei primi di novembre. Sprechi.

Cambiare le coltivazioni potrebbe essere una soluzione? Oppure: non si dovrebbero lasciare gli spazi per far esondare i fiumi? I contadini sostengono che quei terreni perderebbero di valore, che le falde sono destinate ad essere inquinate, che l’indennizzo è ridicolo e che, infine, il progetto di passare dalle attuali coltivazioni (dal mais alle erbe mediche agli alberi da frutto) a quella di alberi da legno a ciclo breve da tagliare a fini energetici non stia in piedi.

Dietro il progetto della cassa a Caldogno ci intravedono la sagoma delle imprese dell’argilla. Perché le lobby sono sempre in agguato. Dappertutto, nel paese dei mille campanili. Sono pronti - gli agricoltori di Caldogno - a ricorrere al Tar e poi agli organismi comunitari, come si fa sempre in Italia. Rilanciano allora: mini bacini a monte per ridurre la velocità del fiume. L’idea, tra le altre, è di costituirne uno su a Meda, dopo Piovene Rocchetta, sull’Astico, affluente del Bacchiglione. E’ un’idea antica. Si trattava di alzare la diga dagli attuali 23 a 45 metri. Il ricordo della tragedia del Vajont bloccò tutto - per sempre - quasi cinquant’anni fa. Mezzo secolo buttato. Ora non è neanche possibile immaginare un innalzamento della diga perché l’area è diventata industriale.

Le fabbriche, d’altra parte, sono entrate nel fiume, o il fiume è entrato nelle fabbriche. Ma è la stessa cosa. Dove c’era il Cotonificio Rossi - siamo a Debba, periferia di Vicenza - c’è ora una serie di capannoni. C’è da quasi quattordici anni anche la Sdb di Claudio Bagante, produce cavi elettrici speciali. Il fiume è lì a un passo. È entrato dentro il capannone trascinando fango e detriti. Bagante stima di aver subito un danno intorno ai 200 mila euro. Ha buttato 15 tonnellate di rame. Dieci giorni di fermo produttivo, poi ha ripreso, insieme ai suoi venti dipendenti, dopo aver rimesso in ordine la fabbrica, smontato e ripulito tutti motori dei macchinari. Circa l’80% della produzione va all’estero. «Questa - dice - è la nostra unica fonte di sopravvivenza». Prevedeva di chiudere l’anno con un fatturato intorno ai cinque milioni, saranno quattro e mezzo. «Nessuno - aggiunge - ci aveva avvisato di quello che stava accadendo».

I RIMEDI

Eppure tutto era prevedibile. Tutto. Come quasi sempre, in Italia. A Padova c’è uno dei dipartimenti di Ingegneria idraulica tra i più prestigiosi nel mondo. A guidare la "scuola padovana" è Luigi D’Alpaos, bellunese, ordinario di Idrodinamica, che da giovane assistente fece parte nella seconda metà degli anni Sessanta della "Commissione De Marchi" incaricata dal governo di individuare i rimedi per evitare i danni provocati dall’alluvione del 1966. Le proposte della Commissione stanno sul tavolo di D’Alpaos, un po’ ingiallite, alcune superate. Tutte inattuate. Decenni persi in chiacchiere, veti e controveti. Dice D’Alpaos: «Si è considerato il rischio idraulico come un accidente dal quale prescindere. Provate a trovare un sindaco che non abbia tombato un fosso per costruire una pista ciclabile! A Vicenza si lamentano ma hanno costruito la zona industriale dove passa il Retrone, affluente del Bacchiglione. Che, alla fine, è stato ingessato in maniera indecente».

Da quasi vent’anni D’Alpaos ha messo a punto un modello matematico che permette di calcolare, e prevedere, le conseguenze, lungo il tragitto, di una eventuale piena. Insomma la tragedia di Ognissanti, come tante altre, poteva essere largamente evitata. «Ma io - aggiunge D’Alpaos - non vado per gli uffici - e quali poi? - a proporre i miei studi. Non è compito mio. Tutti dovrebbero sapere quello che si fa in una università. C’è uno scollamento tra il mondo della ricerca e le istituzioni che ai diversi livelli devono decidere». Ma non è solo colpa della politica. Pure i tecnici, secondo il professore, non hanno avuto «la capacità di mantenere l’attenzione sul problema». E allora? «Servirebbe un dittatore delle acque, perché non c’è nulla di democratico nella gestione di un fiume». Ma forse è troppo tardi. Il Bacchiglione, come tutti i fiumi, statisticamente esonda più o meno ogni cinquanta anni. Ma si continua a stare fermi, ad aspettare la prossima tragedia. Bacchiglione, fiume italiano.

E a Vicenza e Padova torna la paura

di Filippo Tosatto

PADOVA - Torna l’incubo alluvione nel Veneto dove lo scioglimento delle nevi a bassa quota e le intense precipitazioni hanno ingrossato i fiumi a livello di guardia. In particolare, la possibile piena del Bacchiglione - il cui livello ha superato i cinque metri - fa vivere ore di angoscia a Vicenza, ancora ferita dalla valanga d’acqua del primo novembre. In serata sono stati allagati alcuni rioni e il sindaco Achille Variati (al quale il governatore Zaia ha conferito poteri di intervento urgente) ha esortato i commercianti a trasferire le merci in luoghi sicuri - «La nostra città non reggerebbe un altro disastro», ha dichiarato - mentre in tutti i quartieri i megafoni di vigili e volontari avvertono i residenti sui rischi di una possibile esondazione e li invitano a ridurre al minimo l’uso dell’auto. Numerose famiglie, che abitano nelle zone già colpite dall’alluvione, hanno preferito trasferirsi, magari solo per una notte, da parenti e amici, in attesa di capire l’evolversi della situazione.

Nelle vie centrali più a rischio, lo shopping natalizio ha lasciato spazio ai sacchi di sabbia mentre la protezione civile ha riaperto l’unità di crisi in prefettura. Ore d’ansia anche nella vicina Caldogno, la cittadina di Roby Baggio già messa in ginocchio dalla furia del canale Timonchio: il corso d’acqua è di nuovo al limite della tracimazione e non si escludono sgomberi nella notte. A Recoaro Terme è la montagna a spaventare: le violente piogge provocano smottamenti nel Rotolon, costringendo il Soccorso alpino a isolare la zona circostante. Nel Padovano, oltre al Bacchiglione, fa paura il Muson: «Il forte vento di scirocco - spiega la protezione civile - impedisce ai corsi di defluire regolarmente verso il mare». Strade sott’acqua a Saccolongo e a Viggiano ma anche nella periferia del capoluogo si sta lavorando a rafforzare gli argini. I veneziani, infine, trascorreranno la Vigilia natalizia tra stivaloni e passerelle: ieri le sirene hanno risuonato più volte e l’acqua alta ha raggiunto i 123 centimetri sul medio mare.

Presidente Marcegaglia, le scrivo a proposito dell' impresa a Malfatano in Sardegna, nella quale è coinvolta; perché quell'intervento sta producendo lacerazioni dolorose in un paesaggio fantastico. Scrivo a lei, immaginandola sensibile al tema della tutela dei luoghi, sul piano etico e ed estetico, e non ai suoi partners, Benetton, Sansedoni-Monte dei Paschi, Caltagirone. Magari è un pregiudizio sbagliato: ma ho idea che siano poco attenti al corpo fragile e all'anima di Malfatano. La sua intraprendenza mi sembra invece conciliante, mi auguro non indifferente ai costi sociali degli investimenti, e refrattaria all'idea che luoghi e persone diventino scene e comparse, mascherate mortificanti (penso all' umiliazione/'omologazione del corpo della donna, nel racconto di Lorella Zanardo).

E' inusuale fare appello a un'impresa perché trascuri i suoi interessi. Ma ci sono in questa speculazione premoderna aspetti che lei potrebbe non conoscere (non sempre gli investitori sanno dei loro investimenti). Non si può controllare tutto: la sua ditta produce tubi e lamiere, condensatori, scope e spazzole e si occupa anche di turismo nella versione duplice di gestione e realizzazione di attrezzature per la vacanza. Per Malfatano il programma è un mix: un po' di alberghi e molte case da vendere. Una formula che abolisce il rischio: nel ramo palazzinaro, con l'assistenza diretta di una banca, sono bravi tutti.

Se l'iniziativa si svolge nei litorali della Sardegna è una meraviglia: a scapito di paesaggi come questi si va sicuri, metti 1 e prendi 10, se va male. A basso investimento (il costo di costruzione più di tanto non cresce) corrisponde un utile inimmaginabile con la siderurgia. Il valore è dato da quel quid che mettiamo noi, il paesaggio bene comune. E siamo noi a perdere da questa impresa, che non sarebbe oggi consentita con le disposizioni vigenti in Sardegna. Il progetto è di un'altra epoca, quando la disciplina urbanistica del Comune di Teulada era conforme a sconvenienti piani per il paesaggio, poi cassati perché troppo compiacenti verso gli interessi immobiliari. Un procedimento che sta in una fase incerta su cui la Magistratura sta indagando per sapere di alcuni passaggi poco chiari.

Nel frattempo i lavori proseguono, e ogni gesto è un pezzo di Malfatano che perdiamo per sempre.

Penso che basterebbe un'occhiata: sentirebbe il rimorso, presidente, per una violenza anacronistica, che si vedrà meglio tra qualche anno. A bellezza violata e a futuro negato corrispondono promesse di lavoro precario, una trentina di camerieri e sguatteri e per due mesi all'anno, forse. I muratori che manifestano a sostegno di questa impresa – per perpetuare il ciclo edilizio – fanno tristezza, ricordano i tagliaboschi di boschi nell'Ottocento.

Ancora non è finita la conta dei danni provocati dall'alluvione che ha devastato il Veneto all'inizio di novembre, facendo due morti e gravi danni in 328 comuni e 3433 imprese, che la giunta regionale del presidente leghista Andrea Zaia ha posto le basi della più grande speculazione immobiliare che a memoria d'uomo si ricordi. Archiviati i recenti pianti di coccodrillo sulla cementificazione che provoca le alluvioni, la Lega di lotta e di cemento, ha varato col Pdl una legge regionale che modifica le norme in materia di governo del territorio e dà via libera alla possibilità di ristrutturare ruderi e baracche di pochi metri su terreni agricoli, ampliandoli fino a 800 metri cubi. Chiunque - non solo chi fa l'agricoltore - può costruirsi una villa di 270 metri quadrati o una palazzina di tre piani con tre appartamenti da 90 metri al posto di quattro sassi in croce.

I ruderi agricoli sono decine di migliaia nella regione e alcuni, posti nelle località turistiche più pregiate, sono assai appetibili. Soltanto a Cortina sono 200 e, calcolato il valore medio del metro quadrato che è tra i più alti d'Italia, la ristrutturazione selvaggia voluta dal governatore palazzinaro nel territorio comunale produrrà un plusvalore immobiliare valutato in 800 milioni di euro. Naturalmente non ci sono solo la montagna e le valli alpine, ma anche appetibili mete turistiche marine e lacustri, come Jesolo, Bibione, Caorle e il Garda. Per cui l'operazione leghista vale miliardi ed è destinata ad avverare la premonizione del poeta Andrea Zanzotto:"Una volta c'erano i campi di sterminio, adesso arriva lo sterminio dei campi". Non più capannoni eretti intorno alle ville palladiane, emblemi del miracolo industriale, dei distretti, della piccola impresa diffusa che strappava quelle terre alla endemica povertà, ma una scelta tutta palazzinara che certifica la nuova fase "economicista" della Lega, più attenta al controllo della Fondazioni bancarie e alle grandi speculazioni che ai problemi delle cosiddette partite Iva, che furono la base di partenza per la conquista del nord. Adesso vengono prima potere e affari, mentre Zaia, che ha le casse completamente vuote, prosciugate dal debito di un miliardo della sanità, si appresta a mettere le mani nelle tasche dei veneti, come direbbe Berlusconi, se non sarà Tremonti a soccorrerlo.

Il primo a denunciare ciò che la nuova legge regionale comporta è stato il sindaco cortinese di destra Stefano Verocai, che, invece dei suoi nella giunta e nel Consiglio regionale, ha accusato il Partito democratico di non essersi opposto allo scempio con forza sufficiente. Una ricostruzione che Laura Puppato, presidente del gruppo in Consiglio regionale e "uomo forte" del Pd veneto, nega con veemenza, raccontando tutte le fasi in cui lo scempio legislativo è stato coscientemente compiuto: "Il vicesindaco di Cortina se la prenda con i suoi amici della Lega e del Pdl perché noi abbiamo fatto una dura battaglia degli emendamenti, due dei quali sono stati accolti e hanno permesso di sventare altrettanti colpi di mano del centrodestra. Da un lato l'esproprio delle competenze dei consigli comunali sui Piani Urbanistici Attuativi, conferendo ogni potere alle giunte; dall'altro il tentativo di imbavagliare le soprintendenze ai beni ambientali, privandole di ogni voce in capitolo sui vincoli urbanistici".

La Puppato rivendica di aver condotto una battaglia di opposizione senza ambiguità, che ha limitato lo scempio, contrariamente agli oppositori dell'Udc che hanno bocciato l'emendamento anti-ampliamenti, contribuendo a far passare "un provvedimento indegno nato nel solco del Piano Casa della regione approvato nella scorsa legislatura sotto Giancarlo Galan e concepito per guardare agli interessi commerciali e non alla difesa del territorio".

Sarà uno degli affari immobiliari più importanti degli ultimi 20 anni: oltre 50 milioni di euro, 43 mila metri quadrati di residenziale e più di 30 mila metri quadrati per la realizzazione di una vera e propria cittadella universitaria con campus, alloggi per studenti e spazi verdi. L'asta per la vendita dell'ex ospedale Umberto I di via Solferino è stato pubblicato. Il proprietario del terreno e degli immobili, vale a dire l'azienda ospedaliera San Gerardo, ha dato via libera alle danze e attende proposte «allettanti» entro l'11 febbraio 2011, a mezzogiorno. In gioco c'è un'operazione urbanistica che promette di cambiare volto alla città.

L'area, a pochi passi dal centro storico, è compresa fra il canale Villoresi, via Solferino, via Mauri e via Cavallotti. In tutto si tratta di 18 padiglioni che saranno riqualificati in base all'accordo di programma siglato con la Regione nel 2008. Una parte del lotto sarà impiegata per costruire nuove palazzine (al massimo di 8 piani), uffici e negozi. Ma oltre all'aspetto residenziale, terziario e commerciale, il progetto prevede anche la trasformazione dei corsi universitari in Scienza dell'organizzazione aperti da 5 anni in una vera e propria università brianzola. Anzi, in una cittadella universitaria con uffici, aule, laboratori, un campus, alloggi per studenti fuori sede, parcheggi e giardini. La base d'asta indicata è 50 milioni e 150 mila euro. «Ovviamente — spiega Giuseppe Spata, il direttore —, contiamo di incassarne molti di più. Il nostro obiettivo è di investire questa somma nel piano di riqualificazione del nuovo ospedale».

Il crono-programma prevede la conclusione dell'iter di aggiudicazione entro luglio e l'apertura del cantiere entro ottobre. Nel frattempo sbarcherà in consiglio comunale la variante al Piano di governo del territorio, il documento sul quale il sindaco Marco Mariani e la sua giunta si giocano il mandato. Presentazione l’altra sera, poi una corsa contro il tempo per condurre in porto l'operazione da 4 milioni di metri cubi nel più breve tempo possibile. «Il piano — spiega l'assessore all'Urbanistica, Silverio Clerici —, prevede una crescita di 30 mila abitanti e la suddivisione della città in sei poli tematici» . E fra i nodi da sciogliere c'è anche l'annosa questione della Cascinazza. Il Partito democratico intanto ha bollato il nuovo strumento urbanistico come uno «scempio» e promette opposizione millimetrica in consiglio. Da parte loro, i costruttori brianzoli, stanchi di aspettare una variante che non arriva mai, hanno chiesto le dimissioni del primo cittadino se non ne otterrà l'adozione.

postilla

Si capisce già dall’articolo come questa operazione vecchio ospedale San Gerardo sia organica a un certo modo di concepire la città, mosaico di interessi particolari e lobbies, senza alcuna idea di spazio pubblico che non sia funzionale e sottomessa a questi. Ciò che invece non emerge affatto, ritenuto forse marginale, è l’aspetto urbanistico in senso lato dell’operazione, che forse richiede un paio di cenni storici. L’area occupata dall’ospedale non solo si caratterizza come complesso di valore, coi padiglioni ottocenteschi organizzati secondo gli schemi caratteristici della scienza medica prima che la diffusione degli ascensori sconvolgesse questi assetti spaziali (per intenderci, più o meno la stessa generazione dei carceri cellulari panottici o complessi assimilabili). C’è dell’altro. L’ospedale non è semplicemente “a pochi passi dal centro storico”, ma si inserisce in un quartiere che al centro storico è del tutto complementare, sinora sostanzialmente risparmiato (con qualche sgradevole eccezione) dagli appassionati del metro cubo duro a morire. Questo comparto urbano è il classico quartiere della stazione di impianto ottocentesco, adiacente lo scalo ferroviario anche se collocato su un terreno sopraelevato. Si compone di un viale perpendicolare alla stazione, con una piazza da cui si dipartono vie trasversali, quasi tutto ancora caratterizzato da edifici coerenti con l’impianto (salvo all’attacco del viale della stazione, storpiato proprio sull’angolo da un recentissimo intervento). L’ospedale, insieme al corso dell’ottocentesco Canale Villoresi, è parte integrale del quartiere: cosa potrò succedere di questi spazi se, con le funzioni e le trasformazioni ipotizzate, aumentassero esponenzialmente le pressioni in termini di traffico, nonché di “sviluppo” delle aree adiacenti. Già negli anni ’60 l’ipotesi poi non decollata del piano regolatore di Luigi Piccinato, di un centro terziario nell’area grosso modo fra il quartiere ottocentesco della stazione e la grande viabilità verso Milano poneva sostanzialmente i medesimi rischi. Ma nell’epoca della crescita indefinita accettata da tutti, con un piano urbanistico pensato per un capoluogo da 300.000 abitanti (oggi sono circa 120.000) forse anche queste cose potevano ritenersi accettabili. Ma oggi? (f.b.)

L’urbanista Italo Insolera è stato fra i protagonisti di quel movimento di intellettuali e di politici che portò al primo esperimento, trent’anni fa, dell’isola pedonale intorno al Colosseo. «La scelta del sindaco Luigi Petroselli fu presa dopo l’allarme lanciato dalla Soprintendenza sui danni che i gas delle macchine arrecavano al Colosseo e all’Arco di Costantino. Ma per noi – oltre a me, Leonardo Benevolo, Adriano La Regina, Antonio Cederna e altri ancora – quella chiusura era il primo passo in vista di una chiusura totale di tutta l’area archeologica romana. Avevamo in mente una soluzione urbanistica, non solo a salvaguardia del patrimonio storico-artistico».

Dunque un’isola pedonale risponde a esigenze più ampie?

«Certamente. Il primo progetto per realizzare un’area archeologica dall’inizio dell’Appia antica fino a Piazza Venezia risale al 1887. Non c’erano ancora le macchine, ma s’immaginava comunque di consegnare ai romani un grande spazio per passeggiare. Il Fascismo decise invece che da lì sarebbe partito il grande stradone che portava al mare, l’attuale via Cristoforo Colombo. Ma quando riprendemmo il progetto di pedonalizzazione la nostra idea era di impedire alle macchine di raggiungere piazza Venezia e di realizzare un profondo cuneo di verde e di storia antica».

Quel progetto si arenò?

«Sì. Rimase solo la pedonalizzazione intorno al Colosseo, ma la rimozione della via dei Fori Imperiali fu cancellata. Si è realizzato meno di un decimo di quel che si immaginava nel 1887».

Ma quanto serve, in generale, un’isola pedonale?

«Produce molti effetti sulla vita delle persone. Basta dare uno sguardo alle piazze sottratte alle macchine: sono piene di gente, sono spazi di convivenza. Il punto è che ce ne sono molto pochi perché non c’è sufficiente attenzione alla dimensione pubblica della città. Laddove questa è elevata gli effetti sono vistosi. Ogni quartiere dovrebbe avere le sue piccole isole pedonali, ma purtroppo non è fra le priorità di molte amministrazioni italiane».

Nella sua esperienza di urbanista ci sono anche isole pedonali?

«Sì, numerose. Ma una delle più significative è quella che abbiamo realizzato a Lucca: un’isola pedonale a tempo, nelle strade che i bambini percorrevano quando andavano o uscivano da scuola».

In Europa non ci sono solo isole, ma interi quartieri pedonali.

«Da noi molto meno. Un quartiere romano che potrebbe fare a meno delle macchine è la Garbatella. E poi aree interamente pedonali si possono progettare nei nuovi quartieri, evitando che lo spazio pubblico sia ridotto a centro commerciale».

«Una volta c'erano i campi di sterminio, ora lo sterminio dei campi», disse il poeta Andrea Zanzotto del suo Veneto "assatanato di cemento". I capannoni consumavano via via le campagne, assediavano le città, sfregiavano le ville palladiane, in nome del miracolo industriale del Nord Est, dei distretti, della ricchezza diffusa che sconfiggeva la povertà endemica e la pellagra. Ma mai Zanzotto avrebbe potuto immaginare che tanti anni dopo la sua accorata denuncia e le ricorrenti alluvioni in una terra cementificata e senza più capacità di assorbimento, in balia della pioggia, del Bacchiglione e degli altri corsi d'acqua, la regione leghistizzata avrebbe varato, praticamente senza significativa opposizione, una modifica alla legge urbanistica del 2004 che apre praterie sconfinate alla speculazione.

Mentre il presidente Luca Zaia si affannava alla ricerca dei primi 300 milioni necessari per far fronte al miliardo di danni dell'alluvione del novembre scorso, che colpì 328 comuni, 3.433 imprese e fece due morti, il consiglio regionale approvava con 36 presenti su 60 e con l'astensione del Partito democratico, una norma che consente a chiunque di ristrutturare edifici su terreni agricoli, ampliandoli fino a 800 metri cubi. Il che significa la possibilità di costruire una palazzina di tre piani al posto di un rudere di 30 metri quadrati.

Ciò a cui si va incontro lo ha ben sceneggiato il vicesindaco e assessore all'Urbanistica di Cortina Stefano Verocai, proiettando gli effetti della norma sul territorio del suo comune. Nei prati della città dolomitica sono censiti 200 baracche e ruderi, spesso apiari da 30 metri quadrati, che chiunque può adesso trasformare in ville da 270 metri o in palazzine con tre appartamenti da 90 metri quadrati. Fin qui, anche in seguito a un ricorso al Consiglio di Stato, la norma era limitata agli agricoltori che ristrutturavano i ruderi per insediarvi un'azienda agricola, coltivare la terra e abitarvi con la famiglia.

Dimenticato l'incentivo ai giovani coltivatori, l'ex ministro dell'Agricoltura Zaia ha preferito i palazzinari e ha scoperto le carte della speculazione.

Chiunque può fare incetta di baracche e costruirsi l'affare milionario della vita, dal momento che il plusvalore delle future nuove case nella località che ha i prezzi del metro quadrato tra i più alti d'Italia, è valutabile in 800 milioni di euro. L'ulteriore paradosso è che con questa nuova legge a Cortina si può edificare soltanto in zona agricola, mentre continua ad esserci il divieto di costruzione in zone a vocazione edilizia.

«Se non si ravvedono e non modificano la norma, inviterò il popolo ampezzano a scendere in piazza con i forconi», avverte il battagliero vicesindaco, il quale si interroga sull'indifferenza manifestata su una legge così nefasta dalla timida opposizione del Pd al governo regionale leghista, che sembra ben più interessato alle banche, alla sanità e al cemento che alla difesa del territorio. Si vede che la catastrofe ecologica come direbbe il poeta di Pieve di Soligo è non solo del territorio, ma anche delle menti.

L’altro giorno l’edizione milanese del Corriere ha pubblicato una pagina in cui era rappresentato a volo d’uccello il futuro insieme dell’area di Porta Nuova cioè dell’antico Centro Direzionale; forse una maligna illustrazione delle notizie disastrose intorno alla politica italiana che hanno dominato le prima pagine dei quotidiani lo stesso giorno. La storia di quell’area comincia quasi settant’anni or sono. In piena Resistenza, alcuni architetti del razionalismo italiano elaborarono una proposta per un nuovo piano di Milano.

Da quella data i progetti urbani sull'area si sono susseguiti tra polemiche scandali ma con un progressivo, inesorabile peggioramento: sino all'anti-progetto dei nostri anni. Non mi riferisco solo alle singole architetture (anche se con l'attuale condizione culturale a cui fanno riferimento le architetture di successo mercantile non vi è modo di sperare), ma soprattutto allo sgangherato disegno urbano che sembra persino non fare riferimento neanche a quella sciagurata «regola del caos sublime» tanto citata dagli architetti di successo mediatico globale. Sappiamo bene quanto l'ideologia della deregolazione, cioè della nozione di libertà come pura assenza di regole, abbia agito sulla città dei nostri anni: un tempo sulla decostruzione delle periferie, oggi contro i centri urbani, contro il disegno degli spazi tra le cose che è importante come le cose stesse, contro l'importanza dello spazio pubblico, come spazio della vita dei cittadini, a favore della sua progressiva privatizzazione.

Gli architetti di successo hanno rinunciato al disegno urbano per concentrarsi sulla bizzarria infondata dei linguaggi dell'oggetto singolare, trasformati in calligrafia al servizio del marketing: pubblico e privato. La violazione delle regole, anche se non vi sono più regole da violare, è diventata soprattutto una necessità di mercato e di successo mediatico degli architetti. — così non vi è molto da aspettare dalla responsabilità dei singoli architetti travolti (ma talvolta anche consenzienti) nei confronti dei prepotenti interessi immobiliari, ma certo ci si sarebbe aspettato qualche cosa di più da chi ha la responsabilità pubblica, che avrebbe dovuto avere un qualche controllo nei confronti del disegno di insieme e dei suoi obiettivi civili, un disegno nel nostro caso specifico talvolta tentato, ma incapace di resistere alle condizioni quantitative imposte dalle società proprietarie, che forse sono a loro volta affascinate dalla moda e dagli interessi nello stesso tempo.

Naturalmente bisogna anche tenere conto dello snobismo immobiliare che ha guardato soprattutto ad architetti con una forte esperienza quantitativa piuttosto che qualitativa (grossi architetti piuttosto che grandi architetti), ma assai poco sensibili alla storia in generale ed a quella culturale di Milano in particolar modo, al provincialismo dell'imitazione della grande metropoli globalizzata, all'altezza dei grattacieli come desiderio di vincere un «Guinness dei primati» . Ed il primo cattivo esempio lo ha dato, da questo punto di vista, proprio l'edificio della Regione in cui le relazioni contestuali sono le più disprezzate. Ha ragione il testo (troppo gentile e nobile) di Consonni pubblicato nelle stesse pagine del Corriere che conclude scrivendo che Milano «ha smarrito la strada dell'urbanità» .

Poco più di un mese fa, il 4 novembre una vera e propria alluvione si è abbattuta sul Veneto. 121 comuni colpiti per un totale di più di 500 abitanti; oltre 3000 sfollati, devastati migliaia di ettari di zone agricole, annegati 150 mila animali d'allevamento. La cementificazione selvaggia ha colpito duramente il paesaggio veneto, riducendolo ad un disordinato affastellarsi di capannoni industriali dismessi e ad un triste sequenza di nuovi ipermercati che stanno svuotando il tessuto produttivo delle sue meravigliose città.

E, almeno stavolta, tutti o quasi erano d’accordo nel dare la colpa al cemento. Sforzo inutile, perché proprio nei giorni delle piogge usciva il nuovo numero di ottobre-novembre del Giornale dell’Architettura che denunciava l’incombere sulle residue campagne venete una dose devastante di cemento e asfalto. Andiamo con ordine. Nei comuni di Vigasio e Trevenzuolo, vicino a Verona, attende di essere costruita Motorcity, che cementificherebbe 458 ettari di terreno agricolo (un campo di calcio misura un ettaro, per dare un’unità di misura) per farci un autodromo, ipermercati, alberghi e abitazioni per un totale di 7 milioni di metri cubi di cemento. Ad Arino, vicino a Venezia, il pretesto è la costruzione di “una vetrina di eccellenza veneta” fatta di immancabili ipermercati, alberghi e abitazioni: 56 ettari di suoli agricoli verranno seppelliti sotto 2 milioni di metri cubi di calcestruzzo. A Verve, nel Brenta, è in partenza la “città della moda”. Inutile dire che conterrà ipermercati, abitazioni e alberghi. Qui i metri cubi previsti sono 185 mila su 12 ettari. Portogruaro e Fossalta, a nord di Venezia attendono un “parco industriale integrato” da ipermercati che si svilupperà su 160 ettari per oltre 3 milioni di metri cubi, premiato addirittura dall’Inu, storica istituzione che fu di Olivetti. A San Bellino, provincia di Rovigo, 23 ettari per un parco logistico rigorosamente “ecosostenibile”, così la speculazione si è impadronita delle nostre parole, per un previsione di mezzo milione di metri cubi. Sempre in provincia di Rovigo, ad Arquà Polesine, altro polo logistico completo di ipermercati: 140 ettari e 1 milione e mezzo di metri cubi di cemento. Infine in ampliamento dell’aeroporto veneziano Marco Polo, 2 milioni di metri cubi faranno sparire 200 ettari di preziosa campagna: però sorgerà un magnifico parco giochi stile “Las Vegas” ci dicono le schede che non hanno ritegno a definirla come la “nuova porta di Venezia”. .

Più di mille ettari di suolo ancora incontaminato verranno cementificati mentre il paesaggio veneto è caratterizzato da centinaia di capannoni vuoti. Se dunque questi moderni “imprenditori” non fossero speculatori immobiliari e se esistessero ancora amministrazioni pubbliche non sottomesse al dominio del mattone, quelle attività imprenditoriali verrebbero indirizzate sui terreni già edificati e dismessi. Ma non è così. In Italia l’unico motore dell’economia sono i giganteschi guadagni che si fanno senza sforzo comprando a quattro soldi terreni agricoli per poi “valorizzarli”, tanto l’urbanistica è stata cancellata e non ci sono più regole ad arginare la speculazione.

Speculazione che è fatta di nomi impressionanti. La società Autodromo del Veneto; la Veneto city spa; Monte dei Paschi, Unicredit e San Paolo; Pirelli RE; non potevano mancare gli sceicchi della Dubai Word; la Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo e la Mip enginering; la Savem, società che gestisce lo scalo aeroportuale veneziano. Ha ragione Marco Paolini, che nel suo recente monologo “Bisogna” tenta disperatamente di denunciare questi misfatti che cancelleranno quanto resta della campagna veneta. E tutto ciò avviene in un territorio già devastato che non resiste neppure ad una pioggia più violenta del solito. La speculazione immobiliare locale e internazionale, padrona incontrastata di questa Italia senza regole, sta divorando tutto ciò che capita, compromettendo il futuro delle prossime generazioni. Dobbiamo bloccare la cementificazione di terreni agricoli e indirizzare questi investimenti -ammesso che siano veri- verso le aree già edificate da riqualificare. Lo fanno in tutta Europa.

Per farlo ci vorrebbe un’opposizione politica, visto che quella sociale esiste già da tempo e chiede il blocco dello spreco del territorio. Ma il consenso unanime verso la speculazione è testimoniato da un fatto simbolico: il candidato al Parlamento dell’opposizione (sic!) in quelle contrade era Massimo Calearo che oggi ha permesso un’ulteriore breve vita al governo che ha cancellato ogni regola urbanistica. L’aveva scelto l’indimenticabile sindaco di Roma Veltroni che prima di consegnare la città ad Alemanno ha regalato alla sua città un piano regolatore che prevede 70 milioni di metri cubi di costruzioni! Tutti uniti nel cemento, dunque, mentre l’Italia va alla deriva.

Metti un sabato di fine autunno. Dopo Cristo. Arrivi agli scavi di Pompei, che magari non rivedevi dalla gita scolastica, e già t'hanno scavato via 71 euro. Undici il biglietto d'ingresso e vabbè; sessanta di taxi dall'aeroporto di Napoli. Venti minuti scarsi di tragitto. Ma come, chiedi all'autista, il tassametro segna 29... Lui ti dettaglia tutta una serie di esoteriche maggiorazioni. Non solo. Dice che devi ritenerti fortunato. Perché, nel giro, c'è chi spinge sul pedale tariffario sino a ottanta, novanta pezzi. Con gli stranieri. Scendi senza chiedere lumi aggiuntivi e quasi contento che, per una sorta di stravolto patriottismo, ti sia stato praticato lo sconto.

Tempo pochi minuti, e Pompei riprende il lavoro di scavo. Per una visita di circa due ore - è una tabella ad avvisarti - una guida autorizzata costa 106 euro. Ma ottanta con lo sconto. Pagamento informale. Che oltrettutto, spiega l'autorizzato, ti permette di non fare file e vedere posti particolari. In che senso? Normalmente chiusi. Ergo: in forza di una stravolta sofistica, se paghi di più vedi meno e male, da livido uomo massa; se invece paghi meno, vedi meglio e di più: scorci, emozioni, intérieurs (pseudo) esclusivi.

Se è così, perché diamine pagare di più? Finisce che rifiuti ogni Führer. Tua unica guida sarà quella cartacea portata da casa. Al limite il formidabile libretto Pompei com'era/com'è, con le foto delle vestigia alle quali sovrapponi i disegni delle ricostruzioni stampati su fogli trasparenti. Effettaccio artigianale che tanto ci faceva fantasticare da ragazzini e che nemmeno le magie del digitale son riuscite a scalzare dal commercio: il volume è ancora in vendita.

Ma oggi a Pompei le attrazioni sono altre. Non tanto le rovine, quanto le rovine delle rovine. Senti turisti italiani chiedere ai custodi: Scusi, vado bene per il crollo? Sempre dritti. Per vedere cosa? Alte transenne e, in lontananza, una triste duna di detriti. Quanto resta della Domus dei Gladiatori, venuta giù il 6 novembre, e della contigua Casa del Moralista, sei-sette metri di opus incertum collassati cinque giorni dopo. Davanti alle domande dei visitatori, un guardiano nicchia omertoso. Minimizza: "Bondi? Macché, qui i crolli ci sono sempre stati". "Sì, il primo nel 79 dopo Cristo" lo sfotte un collega. Eppoi ti spiega che i cumuli di terra smottano sulle vestigia perché si gonfiano d'acqua piovana. Mancano le canalizzazioni per farla defluire. Ma la pioggia esiste da prima di Bondi, gli fanno notare. "Sì, però un tempo c'era almeno una squadra di manutenzione permanente. Muratori, fabbri, idraulici... Una trentina di persone esperte. Funzionavano come una specie di pronto soccorso. Via via sono andate in pensione. Nessuno le ha sostituite". Quanto alla preparazione del personale, aggiunge: "Per i custodi non c'è uno straccio di corso di lingua. Io l'inglese l'ho studiato da me. Perché ce le vorrai rispondere due parole a uno che ti chiede Where is the house of Polibio? O no?".

A proposito della Casa di Polibio. È tra le più famose. Ma oggi è chiusa (come il 95 per cento delle altre): visitabile solo su prenotazione. Eppure negli ultimi anni è diventata un posto animato. Con tanto di animatore vestito da antico pompeiano, che accoglie i turisti dicendo: Benvenuti. Io sono Polibio e questa è la mia casa. Poi fa strada tra i vani. "Una versione nostrana di centurioni e gladiatori che trovi davanti al Colosseo" sorride Luigi Garzillo, autoctono, da poco a riposo, ma per oltre trent'anni dirigente a Pompei dell'Azienda di cura, soggiorno e turismo. "C'è stata una deriva "Eurodisney". Fatta di folklore, operazioni di facciata. Mentre l'area archeologica avrebbe innanzitutto bisogno d'un minimo di buon senso. A partire dalle guide. Oggi sono gestite da un manipolo di società, più o meno ammanigliate con le amministrazioni. E tra loro è guerra fra bande. Corsa all'accaparramento del turista appena si materializza ai cancelli. Non c'è uno sportello, un servizio prenotazioni per lingue. A lungo abbiamo proposto di disciplinare le visite guidate: dalla Regione nessuna risposta. Qui sbarcano due milioni e mezzo di persone l'anno, nei mesi di punta ottomila al giorno. Ma il visitatore è abbandonato a se stesso". In più, i guardiani (quelli ai quali sganciavi un'umanissima mancetta per farti aprire qualche lucchetto) sono sempre meno. Adesso, di turno in tutta l'area - 66 ettari - ce ne saranno una trentina. In quattro, cinque ore di visita li incontri praticamente tutti. Stanno in capannelli, soprattutto lungo via dell'Abbondanza, a sorvegliare il neoturismo del crollo (l'altro giorno, in sopralluogo, c'era una delegazione della Cgil capitanata dal segretario Susanna Camusso, che interveniva al poco rassicurante convegno: Pompei, tra crisi e degrado).

Oppure i custodi li trovi dalle parti del Foro, in prossimità dell'unico bar ristorante dell'intera zona archeologica. Un posto moderno. Ci si mangia come in autostrada. Se non altro perché l'hanno dato in concessione alla società Autogrill. Fuori, sonnecchiano alla spicciolata alcuni cani. Randagi ma con collare. Sono, notoriamente, i nuovi abitanti della Pompei antica. Quando a sera le rovine chiudono, loro restano. Padroni del buio. Qui li chiamano cani archeologici. O archeo-cani. Li hanno dipinti come ringhianti fiere da spettacoli gladiatori. Esagerando. Se lo incontri da solo, mentre girella e grufola tra le vestigia, l'archeo-cane è generalmente mansueto. Ti sgancia occhiate gandhiane. Seguendoti o tirando dritto per i suoi oscuri destini. Casomai il bullismo scatta in presenza del branco. Il quale si forma senza preavviso, come uno scroscione d'estate. Una prova? Tra le bancarelle all'entrata, assistiamo alla scena di sei o sette bestie che, con sguardo da Arancia meccanica, costringono alla ritirata un paio di zampognari colpevoli solo d'una sciancata esecuzione di Tu scendi dalle stelle.

Anche per scoraggiare simili soperchierie è stato varato il piano (C)Ave Canem. Che con un astuto gioco di parole tra ammonimento e benvenuto, ha portato al "censimento, vaccinazione, cura e sterilizzazione" della popolazione quadrupede. Nonché all'adozione, presso famiglie, di alcuni dei suoi esponenti. Ma di animali a zonzo ne restano. E ogni tanto tornano a cedere all'hoolicanismo. Talvolta, chissà perché, innescato dalla musica: "Anni fa, una bestia salì sul podio di Riccardo Muti al Teatro Grande. Non voleva andarsene. Lui fu costretto a interrompere il concerto. Era seccato assai" ricorda Luigi Garzillo. E rilancia: "Perché, invece di un cane, non facciamo adottare una casa pompeiana, magari a fondazioni e università straniere? Qui sono sempre mancati i soldi. Non è forse venuto il momento di rendere Pompei una questione internazionale, tipo Venezia o Firenze?".

Malgrado tutto, seguiti ad aggirarti tra i ruderi con l'intatta emozione della prima volta. Quando posti come il lupanare erano ancora vietati ai minori, per via dei porno murales. La censura è ovviamente decaduta. Epperò il bordello non smette di esercitare sui visitatori una fascinazione piccantina. È forse l'angolo più richiesto di Pompei. Vedi ciceroni additare i giacigli in pietra annunciando: "Qui gli antichi lo facevano" (gridolini di stupore); poi indicare il buco della vetero-latrina: "Qui gli antichi la facevano" (risatine). All'entrata c'è scritto che nel lupanare possono entrare solo dieci turisti alla volta e che i flash sono proibiti. Dentro contiamo però una ventina di persone. Tra i lampi fotografici.

Proseguendo troviamo una strada sbarrata da transenne pre-crolli. A un signore, che non è una guida ma ha l'aria disinvolta, chiediamo: Come si fa a passare di là? Lui: "Così". Apre le transenne e ci scorta dall'altra parte. Telecamere? A Pompei non è che non ce ne siano. Ma sempre meno che in un qualunque shopping center. Poche settimane fa, un giornalista del Mattino ha raccontato di essersi portato via un bel po' di tessere del mosaico ittico che decora la fontana del Vigneto del Triclinio Estivo, vicino alla Palestra Grande. Stavano ammucchiate in un angolo. Poi le ha restituite. Perché non si fa. Ma anche a scanso d'altre rogne: sui profanatori di Pompei pende infatti una specie di maledizione alla Tutankamon. "Non sa quanti stranieri impauriti mi rimandavano indietro, per posta, le pietruzze che avevano sgraffignato" racconta Garzillo.

Fra ataviche querelles, s'è fatta ora di pranzo. E qua si disegna un dilemma. Se non vuoi mangiare all'Autogrill, che fai? Il biglietto d'ingresso non dà diritto a rientrare. Almeno in teoria, argomenta un usciere. Nella pratica, ti spiega che puoi farlo. Ma attenzione: Solo per un panino. Insomma, 'Na cosa ambress. Domanda: se non ti rilasciano una contromarca né ti timbrano l'avambraccio tipo all'uscita dalle disco, come fanno a distinguere chi s'è fatto un panino da quello che s'è attardato in crapule di paccheri e delizie al limone? Risposta: Tu nun t'a preoccupà. Ci ricordiamo le facce. Perciò usciamo facendo un'espressione "da panino". Mentre, sotto l'usato Borsalino, il dottor Garzillo ha il volto amaro del vecchio umanista meridionale smarrito in un evo incertum.

Anche al più distratto osservatore non poteva sfuggire come alcuni dei più condivisibili principi ispiratori della legge11 del 23/4/2004 (‘Norme per il governo del territorio’) fossero destinati ad una rapida demolizione. L’operazione, annunciata da vulnus tipici del diritto urbanistico regionale, é iniziata nel periodo di transizione dalla legge61/1985 con il ‘fantastico ciclo delle varianti’ [1], è proseguita con la pubblicazione degli atti di indirizzo relativi alle zone agricole [2], con le modifiche alla legge11 nel quadriennio 2006-2010 [3] e con l’alleggerimento strategico e normativo del Ptrc. Si è andata, quindi, precisando con la messa a punto di piani di assetto territoriale (Pat/i) molto costosi, ancorati a preliminari insipidi, con contraddittori quadri logici e di limitata efficacia. Pat/i si basano di frequente su uno squilibrato rapporto fra quadro conoscitivo, regole e strategie, subiscono una frammentaria quanto formale istruttoria, si prestano disinvolti alla commedia valutativa. In molti casi, come attratti da una sirena, abboccano alla ‘formale’ copianificazione [4] e avviano Piani degli interventi fortemente condizionati da pregresso, inerzie e diritti acquisiti.

A questa demolizione contribuisce la paradossale ‘assenza’ della Regione che, sollevata da incombenze ‘operative’ a livello locale e provinciale, rafforza alcune deroghe del periodo transitorio e suggerisce discutibili strategie per uscire dalla attuale crisi.

Nonostante le deroghe concesse, il cosiddetto ‘Piano casa’ [5] (adottato precocemente dal Veneto rispetto ad altre regioni italiane), non ha risposto a presunte domande abitative pregresse, non ha contribuito al rilancio delle attività di costruzione (già in crisi di sovrapproduzione), né ha svolto alcuna mitigazione anticiclica. I dati raccolti dal Consiglio Regionale con apposito monitoraggio sullo stato di attuazione del ‘piano casa’ [6], per quanto volutamente ‘poveri’, danno un’idea del bluff. Gli interventi, contrariamente alle attese, hanno interessato prevalentemente edifici residenziali non destinati a prima abitazione o immobili adibitia diverso uso. Il piano non ha stimolato incentivi a livello locale ed è stato sottoposto a limiti che ne hanno ridotto l’ipotizzata efficacia. Il 70% dei comuni non ha, infatti, adottato incentivi. Questo atteggiamento è più diffuso nei comuni piccoli (inferiori ai 15.000 abitanti), con minore densità abitativa (meno di 195 abitanti/kmq), minore reddito comunale disponibile (inferiore a 81 milioni di euro). Non sembra discriminante invece la densità abitativa misurata dal rapporto numero di abitazioni / 100 abitanti. Dal 60 al 70% dei comuni ha imposto limiti di vario genere, con riferimento preferenziale alle zone territoriali omogenee (45-70%), agli edifici (50-60%), a demolizioni e ricostruzioni (40-50%).

Il recente testo di legge, contenente ulteriori modifiche alla normativa veneta in materia di urbanistica, si posiziona con coerenza in questo contesto, causando un ulteriore indebolimento dell’impianto pianificatorio regionale. L’assessore regionale alle politiche per il territorio, esprimendo soddisfazione per l’approvazione, sottolinea che “si tratta di un provvedimento di modifica che nasce dall’unificazione di quattro progetti di legge presentati ed è stato approvato in un un’ottica di semplificazione delle procedure che interessano amministrazioni e cittadini”.

Tre modifiche nefaste



Le modifiche riguardano in primo luogo gli interventi in zona agricola. Per le case di abitazione esistenti gli interventi edilizi sono consentiti a prescindere dal fatto che il proprietario sia o meno imprenditore agricolo. La seconda modifica riguarda il regime transitorio previsto dalla legge 11. Si stabilisce che, a seguito dell’approvazione del Pat, il Prg vigente, per le parti compatibili con il Pat stesso, diventi a tutti gli effetti il Piano degli Interventi (PI) anticipando, rispetto a quanto attualmente previsto, la fine del regime transitorio. La terza modifica riguarda la proroga al 31 dicembre 2011 della deroga al divieto, per i comuni sprovvisti di Pat, di adottare varianti allo strumento urbanistico generale. In tal modo le amministrazioni comunali che non hanno il Pat approvato (la stragrande maggioranza), attraverso la predisposizione di alcune fattispecie di varianti urbanistiche ai sensi della legge 61/1985, potranno comunque fornire ‘risposte operative’ alle domande che provengono dal territorio o sollecitarle, over fossero ancora in fieri. L’art. 48 della legge11 ( Disposizioni transitorie) prevedeva che ‘fino all'approvazione del primo Pat, il comune non potesse adottare varianti allo strumento urbanistico generale vigente salvo quelle finalizzate, o comunque strettamente funzionali, alla realizzazione di opere pubbliche e di impianti di interesse pubblico’.

Si tratta di tre modifiche che rallentano l’introduzione di adeguate politiche ambientali, paesaggistiche ed energetiche e che avranno impatti territoriali la cui intensità sarà tanto maggiore quanto più rapida sarà l’uscita dalla attuale crisi economica.

Nel Veneto, diversamente da altri contesti in cui è stata più intensa la riqualificazione di aree dismesse di dimensioni considerevoli, gli i nterventi edilizi diffusi in zona agricola (soprattutto non residenziali) sono stati il volano preferito delle politiche immobiliari e finanziarie pubbliche e private. In questa prospettiva, particolare rilevanza assume la modifica dell’articolo 44, comma 5, relativamente alla sua ‘autentica interpretazione’.

Nelle intenzioni del legislatore, tale norma dovrebbe porre fine a ‘qualsiasi incertezza interpretativa ribadendo che per le case di abitazione esistenti in zona agricola gli interventi edilizi sono sempre consentiti a chiunque a prescindere dall’essere o meno imprenditore agricolo’. Com’è noto, l’articolo 44 della legge 11 riguarda l’edificabilità, potenziale implicito nel diritto di proprietà fondiaria e congiunturale leva finanziaria. La modifica del comma 5 avviene in spregio al comma 1 dello stesso articolo che vale la pena ricordare. Il comma 1 dice: ‘Nella zona agricola sono ammessi, in attuazione di quanto previsto dal Pat e dal Pi, esclusivamente interventi edilizi in funzione dell'attività agricola, siano essi destinati alla residenza che a strutture agricolo-produttive così come definite con provvedimento della Giunta regionale ai sensi dell'articolo 50, comma 1, lettera d), n. 3’. Il comma 2 limita in modo ancor più preciso l’edificabilità quando dice che ‘gli interventi di cui al comma 1 sono consentiti, sulla base di un piano aziendale, esclusivamente all'imprenditore agricolo titolare di un'azienda agricola’, regolarmente iscritto all'anagrafe regionale nell'ambito del Sistema Informativo del Settore Primario (Sisp). L’ azienda deve occupare almeno una unità lavorativa a tempo pieno regolarmente iscritta nei ruoli previdenziali dell'INPS (con l’eccezione delle aziende agricole ubicate nelle zone montane) ed avere una redditività minima definita sulla base dei parametri fissati dalla Giunta regionale. Il piano aziendale deve essere redatto da un tecnico abilitato e approvato dall'ispettorato regionale dell'agricoltura (IRA). Nel piano aziendale è richiesta la ‘descrizione dettagliata degli interventi edilizi, residenziali o agricolo-produttivi che si ritengono necessari per l'azienda agricola, con l'indicazione dei tempi e delle fasi della loro realizzazione, nonché la dichiarazione che nell'azienda agricola non sussistano edifici recuperabili ai fini richiesti. Per gli interventi con finalità agricolo-produttive il piano deve dimostrare analiticamente la congruità del loro dimensionamento rispetto alle attività aziendali’. Al di là della evidente ridondanza procedurale e della contraddittoria relazione fra politiche micro e macro nel settore agricolo, la modifica del comma 5 e gli ampliamenti concessi rafforzano il carattere edilizio dell’economia rurale, allontanandola definitivamente da visioni multifunzionali condivise dalle competenti Direzioni regionali e dal Piano di sviluppo rurale, ma presenti anche in misure del Por e in programmi strutturali a finanziamento europeo.

Non va sottaciuto il paradosso implicito nelle nuove norme, specie quando tendono a trasformare le zone rurali in strumento di sovrapproduzione edilizia, di deprezzamento dei valori immobiliari e del capitale fisso sociale.

[1] Vedi ‘Progetto di monitoraggio delle varianti urbanistiche nel periodo di transizione dalla leggeRegionale 61/85 alla Nuova leggeUrbanistica (LR 11/04) e di valutazione dei processi di pianificazione’. Lo studio è stato diretto nel 2008 da D Patassini come responsabile di convenzione fra Università IUAV di Venezia e Regione Veneto, Direzione Urbanistica.

[2] Gli atti più pertinenti in proposito riguardano il calcolo del limite quantitativo in zona agricola trasformabile in rapporto alla Sau, l’edificabilità in zona agricola e le tipologie di architettura rurale.

[3] Modifiche sono contenute nella Lr 18/2006 sulle zone agricole, nelle Lr 4/2008 e 26/2009 (entrambe collegate alla Finanziaria), nella Lr 11/2010 collegata alla legge finanziaria regionale per l’esercizio 2010.

[4] Ad oggi Pat e Pati adottati in copianificazione sono rispettivamente 62 e 9, per un totale di 71, mentre quelli approvati sono rispettivamente 40 e 15. Con procedura ordinaria sono stati trasmessi 13 Pat, di cui 9 approvati. 144 strumenti urbanistici sono stati sottoscritti dalla Direzione Urbanistica, in attesa della comunicazione di avvenuta adozione, per un totale di 280 comuni.

[5] leggeregionale n. 14 del 2009, “Intervento regionale a sostegno del settore edilizio per favorire l’utilizzo dell’edilizia sostenibile e modifiche alla legge regionale 12 luglio 2007, n. 16 in materia di barriere architettoniche”.

[6] I dati riguardano aspetti procedurali e non le attività di costruzione nei 474 (96 montani, 100 collinari e 279 planiziali) dei 581 comuni della regione. Elevato è il tasso di mancate risposte ai quesiti relativi alle modalità di attuazione del piano.

Il tunnel da Linate a Cascina Merlata non si ferma. La società Condotte ha presentato al Comune il piano di fattibilità per costruire la maxigalleria (11,5 chilometri) che attraverserà la città passando fino a 40 metri sotto terra. Un progetto da 2,5 miliardi, pagati dai privati, che la Condotte ha in programma di realizzare insieme a Impregilo, pronta a entrare in gioco al posto della Torno, recentemente fallita. Secondo i calcoli dei costruttori è possibile costruire un primo tratto di tunnel da Rho-Pero a Garibaldi entro il 2015.

È stato calcolato che da viale Forlanini a Cascina Merlata ci sono ottanta semafori. Ipotizzando di incontrare una luce verde su due, in totale assenza di traffico, per percorrere quegli oltre dieci chilometri di strada che attraversa il centro città un automobilista impiega 40 minuti. Che diventano facilmente un’ora durante il giorno, anche di più nelle ore di punta. Quando sarà terminato il tunnel che da Linate porterà fino all’autostrada dei Laghi, passando fino a 40 metri sotto terra, lo stesso automobilista impiegherà 12 minuti.

È una delle principali attrattive di quest’opera mastodontica secondo il piano di fattibilità presentato qualche giorno fa al Comune dalla società Condotte, il colosso dell’edilizia che ha partecipato al traforo del Monte Bianco e che ora cerca di accaparrarsi l’appalto per realizzare la galleria sotto Milano. Un tunnel a pagamento che, sempre secondo le stime dei costruttori, dovrebbe portare fino 110mila auto sotto terra ogni giorno, liberando le strade dal traffico e favorendo il miglioramento della qualità dell’aria (e della vita) in città. Una galleria a pedaggio (0,60-0,70 euro al chilometro) che collegherà il city airport con la nuova Fiera Rho-Pero e ancora oltre con Cascina Merlata.

Il progetto, che con l’approvazione del Piano di governo del territorio in consiglio comunale sembrava rinviato a data da destinarsi, in realtà procede. A fine novembre, infatti, la Condotte ha presentato il piano di fattibilità e ora l’amministrazione ha sei mesi di tempo per rispondere. Ma la società, già pronta a imbarcare nell’affare anche Impregilo al posto della fallita Torno, si augura che la pratica venga sbloccata prima. Secondo i calcoli dei tecnici, infatti, per costruire gli 11,5 chilometri previsti - l’ultimo tracciato è stato ridotto di due chilometri e mezzo rispetto all’originale - ci vogliono circa sei anni di lavori. Quindi, per arrivare all’Expo con almeno una prima parte realizzata - il tratto da Cascina Merlata a Garibaldi-Lancetti, pari a 4 chilometri - bisogna che gli scavi partano entro la fine del 2011. Per farlo, dice Condotte nella sua relazione, il Comune dovrà bandire la gara d’appalto non oltre l’inizio dell’anno (gennaio - febbraio). Altrimenti sarà tardi per l’appuntamento con il 2015.

Resta però il vincolo che il consiglio comunale ha approvato durante la discussione del Piano di governo del territorio, la scorsa estate. Allora il centrosinistra presentò un emendamento in cui si chiedeva di inserire il tunnel nel futuro Piano urbano della mobilità, che non verrà discusso prima della prossima primavera. Secondo Condotte, però, se il sindaco fosse davvero intenzionata (come era parso all’inizio della storia) a concludere almeno la prima parte della galleria entro il 2015, potrebbe spingere il piede sull’acceleratore sfruttando i poteri speciali per le infrastrutture legate all’Esposizione. Naturalmente non è affatto detto che Letizia Moratti acconsenta, soprattutto ora che la campagna elettorale è cominciata e il suo programma è ancora avvolto nelle nebbie: bisognerà vedere cosa sarà previsto nel capitolo traffico-inquinamento. Quel che è sicuro è che l’opposizione cercherà in ogni modo di fermarla, avendo più volte manifestato la propria totale contrarietà. Ed Enrico Fedrighini, consigliere dei Verdi, ha già espresso i suoi dubbi: «Il progetto sta marciando spedito - commenta - . Mi chiedo quali siano le ragioni di interesse pubblico per portare avanti questo intervento visto che al momento è solo una previsione nel Pgt senza alcun riferimento né nel Piano urbano della mobilità né nel Piano delle opere pubbliche».

CARAVAGGIO (Bergamo) — Poca mistica, molta politica e parecchi veleni. Da monumento alla misericordia mariana, il santuario del Sacro Fonte di Caravaggio dedicato alla Madonna — che per le cronache della fede cristiana qui apparve nell’anno 1432 — pare di questi tempi più il teatro di feroci dissidi di natura tutta terrena. E di terreno si tratta, per di più ubicato in territorio del comune confinante (e storico nemico di campanile), Misano Gera d'Adda.

Pomo della discordia, un' area di circa 160mila metri quadri proprio a ridosso del tempio, un territorio ricco di sorgive naturali e pregiate, che l'amministrazione guidata dalla sindachessa di fede padana Daisy Pirovano — figlia del presidente della Provincia di Bergamo Ettore Pirovano— avrebbe destinato via Pgt ad «area produttiva».

Apriti cielo, è battaglia aperta. A fronteggiare la prima cittadina leghista si è levato un esercito di paladini della tutela del territorio, in prima fila il Fai e quindi Legambiente, con l'appoggio dei vertici porporini della curia di Cremona, competente sul territorio caravaggino, che avrebbe sposato i timori degli oltre tremila cittadini e fedeli firmatari di un appello e sollecitato l’intervento della Sovrintendenza per i beni ambientali e paesaggistici per un risoluto (e risolutivo) «altolà».

L'area produttiva, denunciano preti, fedeli e ambientalisti, sorgerebbe a soli 600 metri dalle mura del santuario, danneggiando fortemente il luogo di culto, meta di migliaia di pellegrini, e distruggerebbe un'area di pregio naturalistico.

Sulle barricate sono saliti negli scorsi giorni anche i consiglieri regionali bergamaschi Gabriele Sola (Idv), Maurizio Martina e Mario Barboni (Pd), che hanno presentato un'interrogazione al governatore Formigoni e all'assessore al Territorio Daniele Belotti da Bergamo.

«Chiediamo al presidente e all'assessore— spiega Sola— se a loro avviso un insediamento di quelle dimensioni non sia incompatibile con le indicazioni del Piano territoriale regionale. Mi riferisco, in particolare, alla tutela dei luoghi di culto e di devozione popolare. Nei cassetti della Regione giace una proposta di legge d'iniziativa popolare che lo stesso assessore Belotti aveva firmato un paio d'anni fa». Il primo a sollevare la questione era stato un privato cittadino, Gianni Baruffi, che aveva poi allertato la compagine ambientalista.

«Considerata l'importanza naturalistica e ambientale della zona interessata — tuona Patrizio Dolcini, segretario locale di Legambiente — l'area una volta cementificata comprometterebbe seriamente il paesaggio adiacente al santuario. Il nostro sospetto è che si voglia creare un maxi centro logistico. E se qualcuno pensa che a togliere le castagne dal fuoco ci pensi l’amministrazione provinciale di Pirovano si sbaglia, non sono affari di famiglia».

E l' «affaire santuario» sembra abbia sollevato malumori anche nella giunta della rampolla leghista: giovedì scorso il vicesindaco Oscar Mor ha rassegnato le dimissioni, pare — secondo rumors— proprio perché contrario al «mostro di cemento» accanto al santuario.

postilla

la cosa che sorprende davvero (ci si sorprende ancora, e per fortuna), è che nessuno abbia ancora “blindato” spazi del genere rispetto alle classiche trasformazioni idiote e inutili, come quella raccontata nell’articolo, dell’usuale manciata di capannoni a tamponare un contingente problema di immagine consenso o bilancio. Edificazione che lì significa trasformazione brutale, affatto contingente, del tutto arbitraria, e che trascina con sé uno spazio/tempo enorme. Ovvero il tempo dell’eternità, e lo spazio del paesaggio che qui (l’avevano già notato anche i nostri antenati irsuto-gutturali, gli stessi a cui fa finta di riferirsi qualche volta il partito del sindaco) sacralizzando quell’area, che segna con la risorgiva il confine fra l’alta pianura asciutta e la bassa irrigua. Il grande Santuario è spettacolare anche perché come storicamente accade aggiunge l’immaginario cristiano a riti precedenti, occupando il medesimo spazio. Per chi non conosce l’area, basta dire che si colloca a cavallo delle ultime propaggini della strada Rivoltana (quella che a Milano comincia più o meno davanti alla Mondadori di Niemeyer), tra la linea delle Prealpi e la pianura agricola quasi intatta della cosiddetta Gera d’Adda. Uscendo dall’area metropolitana verso est, il paesaggio si “scopre” via via appunto scavalcando le schiere dei capannoni, che si diradano fino a lasciare spazio, verso Caravaggio e la linea di confine fra bassa bergamasca e alto cremasco, alla campagna aperta. Insomma per riassumere in due parole, si tratta di un caso analogo a quello già trattato qui, della lottizzazione di Montalino, dall’altra parte della megalopoli a sud del Po: una trasformazione micidiale, soprattutto perché inutile, che se proprio necessaria (cosa assai dubbia) potrebbe realizzarsi benissimo altrove, ad esempio coordinando meglio il sistema degli insediamenti produttivi a scala intercomunale. Visto che, come ci racconta l’articolo, la sindaco è figlia del presidente della Provincia, si mettano d’accordo a tavola su questa questione di coordinamento territoriale. In Italia (pardon, in padania) si risolve tutto in famiglia, no? (f.b.)

L’importanza della vittoria di Giuliano Pisapia è fuori discussione e giustamente è stato rilevato che, per tanti aspetti, assume rilievo nazionale. Da una parte, la vistosa differenza fra centro destra e centro sinistra: mentre il solo Silvio Berlusconi comunica al suo popolo la ricandidatura di Letizia Moratti, alcune decine di migliaia di cittadini hanno scelto il candidato dell’altro schieramento, e hanno scelto quello più a sinistra, il meno gradito al Pd. Questa è la seconda ragione che dà risalto alla competizione milanese. Il Pd sta sostenendo abbastanza coerentemente il ricorso alle primarie, ma a vincere, in alcuni luoghi anche assai importanti, non è il suo candidato. In Puglia ha vinto Nichi Vendola, detestato da autorevoli esponenti Pd, a Firenze ha vinto Matteo Renzi, anche lui non certo gradito allo stato maggiore dei democratici toscani. Entrambi però hanno vinto le elezioni propriamente dette. Questi risultati, più e meglio di tante analisi politologiche, dimostrano il distacco del Pd dal suo potenziale elettorato e l’incapacità di comprendere i motivi del crescente distacco dalla politica.

A Milano, correttamente, si sono dimessi i vertici del Pd e si è aperto un dibattito. La Milano democratica, che ha assistito sgomenta alla nascita della Lega e del berlusconismo, fra quattro mesi potrebbe riprendere il filo della sua storia, che va dalla Resistenza al centro sinistra a Tangentopoli. Un risultato possibile solo se si affrontano, finalmente, i nodi autentici della crisi della politica di sinistra. Chi segue questo sito sa che, da anni, abbiamo riconosciuto in Milano la capitale della rendita immobiliare e abbiamo attribuito la ripetuta sconfitta del centro sinistra all’incapacità di contrastare la mala urbanistica, della quale, anzi, il centro sinistra è stato talvolta complice. Perciò vale la pena di ricordare almeno le tappe principali della vicenda ambrosiana.

In primo luogo, il documento del 2000 “Ricostruire la grande Milano” curato da Luigi Mazza per conto di Maurizio Lupi, assessore allo sviluppo del territorio. 160 pagine in cui si recita il de profundis all’urbanistica pubblica e si trasferisce tutto il potere all’iniziativa privata. Il principio ispiratore è che i piani regolatori non servono (“i piani regolatori servono a chi non si sa regolare”, si diceva a Napoli negli anni di Achille Lauro) e sono sostituiti dalla sommatoria degli interventi edilizi. Insomma, una rivoluzione copernicana, l’urbanistica non governa l’edilizia ma ne è governata.

La seconda cosa che merita di essere ricordata è la proposta di estendere la linea milanese a tutta l’Italia. Protagonista è sempre Maurizio Lupi – intanto eletto alla Camera per Forza Italia e assiduo frequentatore di salotti televisivi – che firma il disegno di legge di riforma urbanistica noto ai nostri lettori come “legge Lupi”. Prevede esplicitamente la cancellazione del principio stesso del governo pubblico del territorio: gli atti cosiddetti “autoritativi” (quelli cioè propri del potere istituzionale) sono sostituiti da “atti negoziali” nei quali l’interesse collettivo è solo uno degli attori, insieme agli interessi immobiliari. Altri contenuti della proposta sono la cancellazione degli standard urbanistici e l’insensata incentivazione del consumo del suolo. La legge Lupi fu approvata nel 2005 dalla Camera con il voto favorevole di 32 deputati del centro sinistra (è bene non dimenticarlo), con il consenso dell’Inu e nell’assoluto silenzio della stampa, salve pregiate eccezioni. Solo eddyburg s’impegnò in un’accanita resistenza (curando anche la pubblicazione di un pamphlet, La controriforma urbanistica), e contribuì sicuramente alla mancata definitiva approvazione della legge al Senato. In effetti una vittoria di Pirro, gli stessi risultati si sono intanto raggiunti con la moltiplicazione delle leggi di deroga alla strumentazione urbanistica.

Infine, l’esempio più noto della new wave milanese: il progetto CityLife relativo all’area dell’ex Fiera con i tre grattacieli, alti fino a 218 metri (detti il Curvo, lo Storto, il Dritto) opera di grandi star dell’architettura. È l’esito di una gara vinta dal gotha dell’immobiliarismo lombardo raddoppiando l’importo a base d’asta e dimezzando gli standard urbanistici. Succede così che una scelta decisiva per il futuro della città – dal punto di vista dei pesi edilizi, dello skyline e dei servizi – non è assunta in base a regole garanti dell’interesse pubblico ma solo a beneficio della rendita immobiliare.

Com’è noto, l’urbanistica di rito ambrosiano, è stata a mano a mano imitata da molti comuni, non solo di destra. Anche il comune di Roma ha fatto propria quella linea. Per certi versi anzi a Roma è stato peggio, perché nella capitale sono state seguite le stesse procedure adottate a Milano, con l’aggravante che intanto si cercava riparo dietro l’ipocrita paravento della pianificazione ordinaria. Le conseguenze sono note. A Roma, le elezioni del 2008 il centro sinistra le ha perdute soprattutto perché non è stato capace di comprendere la delusione di vasti strati di cittadini, soprattutto delle periferie, per l’irresponsabile politica capitolina che, invece di metter mano al promesso risanamento, ha dilatato sempre di più i perimetri della nuova edificazione, attuando un’espansione senza fine, a bassissima densità, invivibile. Si sono formati centinaia di comitati, nell’assoluto disinteresse dell’amministrazione. Così, alla fine, ha vinto Gianni Alemanno.

Su tutto ciò, su Milano, su Roma, su tutti gli altri luoghi che hanno visto la degenerazione dell’urbanistica, ma soprattutto sulle ragioni politiche che ne hanno consentito lo sviluppo, ci sembra indispensabile un’ampia discussione, su questo sito e altrove, a partire dalla vittoria di Pisapia.

A Giuliano Pisapia vanno intanto i nostri auguri di cuore.

La tutela del patrimonio archeologico all’italiana: ruspe che lavorano senza sosta per realizzare dieci milioni di metri cubi di capannoni industriali e spianano le colline dove sorgeva la città sabina di Cures. Dove basta camminare nei campi per trovare resti di antiche ville, necropoli, acquedotti e templi. Siamo a Passo Corese (Rieti), a 40 chilometri da Roma: miliardi di euro di investimento per il cantiere più grande d’Italia. Un progetto voluto da centrosinistra, centrodestra e sindacati. Tutti d’accordo, tranne i comitati degli abitanti che si vedono scomparire le colline. E gli archeologi che qui speravano di poter trovare i resti della città di Numa Pompilio e Tito Tazio, antichi re di Roma.

Ormai è perfino difficile immaginare la vita degli antichi sabini, con l’immenso cantiere che stravolge il paesaggio. Allora il nostro viaggio deve partire da una fotografia: ecco una cascina, quella terra chiara che ti ricorda il sole e ti dice che sei al Sud. Poi i campi segnati da solchi precisi. È un’immagine recente, ma sembrano passati secoli. Adesso vedi soltanto caterpillar. I rilievi morbidi che segnavano il paesaggio sono spariti insieme con il profumo e i rumori della campagna. Senti soltanto quelli dei motori e voci di operai.

È il 2000 quando il Consorzio per lo Sviluppo Industriale della Provincia di Rieti (un soggetto pubblico) lancia un nuovo piano regolatore consortile che prevede un Polo Logistico a Passo Corese. Sulle mappe è una grande macchia blu a due passi dal Tevere.

Basta sovrapporre la carta a quella tracciata dagli archeologi per accorgersi che la campagna qui è una miniera: ovunque trovi antichi cocci, resti millenari. Nel 1980 Maria Pia Muzzioli dedica a queste colline uno studio nella prestigiosa collana Forma Italiae. In pochi metri quadrati sono censiti 189 siti archeologici. Il risultato di uno studio del 2000 per la British School of Rome è ancora più sorprendente: una ricognizione superficiale rivela i resti di 13 ville. Senza contare i depositi di materiale antico e i 4 insediamenti del Paleolitico.

L’area è dentro al Parco archeologico

“È un sito ricchissimo perché la presenza dell’uomo comincia migliaia di anni fa e lascia tracce fino all’epoca romana. Qui si trovava l’antica Cures, con il suo porto sul Tevere. E forse anche le catacombe di Sant’Antimo”, è convinta l’archeologa Helga Di Giuseppe che ha lavorato con la British School. “La cosa più straordinaria – racconta Muzzioli – è, anzi era, il contesto, l’insieme, che si è mantenuto integro per migliaia di anni”.

Già, fino all’arrivo delle ruspe. È Paolo Campanelli (presidente dell’associazione Sabina Futura che si batte contro il progetto) a ripercorrere le tappe: “Nel 2001 un’inserzione invita le società a manifestare il loro interesse. Nel 2003… ma c’è stata una vera gara?... arriva la convenzione con l’Ati che realizza il progetto miliardario e avrà in concessione le aree per 99 anni”.

Intanto nel 2004 viene siglato il Piano Territoriale e Paesistico della Regione Lazio (presidente Francesco Storace): l’area dei capannoni è compresa nelle mappe delle zone a “vocazione di Parco Archeologico”. Non importa: il progetto va avanti. Ma che cosa prevede esattamente? Sembra l’Eden, a sfogliare l’opuscolo con cui gli enti locali – il comune di Fara Sabina e la Provincia di Rieti, entrambi di centrosinistra – informano i cittadini di quello che sta per accadere alla loro terra. “Il Polo logistico, la nuova risorsa di Passo Corese”, è il titolo. Poi fotografie di prati verdi, dove mamme con le carrozzine si muovono felici. Intanto nel 2009 con poche righe la Regione (guidata da Piero Marrazzo) approva una variante al piano regolatore consortile che porta la volumetria dei capannoni a quasi 10 milioni di metri cubi.

A confrontare le colline spianate dalle ruspe con le immagini dell’opuscolo viene qualche dubbio. Così come colpiscono al computer: “Duecento ettari di capannoni alti 15 metri, quasi l’equivalente di una città come Rieti”, raccontano all’associazione Sabina Futura. E snocciolano i dati: “Le ruspe si stanno portando via 1.400 ulivi, 3.000 viti, 3.000 alberi da frutto, cento ettari di coltivazione a foraggio e cento a grano”.

Non ci sono solo conseguenze sul patrimonio archeologico, ma anche sull’agricoltura. I sostenitori del progetto parlano di centinaia di nuovi posti di lavoro. Possibile, ma quanti ne sarebbero arrivati (e sono invece andati perduti) se una campagna intatta e vicina a Roma avesse investito nel turismo?

L’opera porterà 4 milioni di indennizzi

Fabio Melilli, presidente della Provincia di Rieti dal 2004 e presidente dell’assemblea regionale del Pd Lazio, si dice “favorevole” al progetto. Racconta: “È un’area strategica con l’autostrada e la ferrovia, è naturale che il Polo nasca qui”. E le critiche di abitanti e associazioni? “Legittime, ma tardive. Il progetto è di dieci anni fa, se lo avessimo bloccato avremmo dovuto pagare milioni di risarcimento”. Ma i resti archeologici? “La Sovrintendenza finora non ha trovato nulla di straordinario”. Questa è una delle campagne più belle d’Italia, ogni weekend vengono migliaia di romani in cerca del verde… “Vero, siamo nella Val d’Orcia del Lazio…”. Ma in Toscana non costruiscono 300 ettari di capannoni… “Si può ridurre l’impatto del Polo con strutture più attente all’ambiente”.

Chissà. Vincenzo Mazzeo, sindaco di Fara Sabina, difende il progetto: “Frange estreme lanciano messaggi apocalittici. Il Polo porterà lavoro. Noi abbiamo preteso che fossero realizzate opere viarie e depuratori”. La sinistra anche nel Lazio è amica del cemento? “Falso, noi abbiamo stoppato il mega-progetto di un nodo intermodale delle Ferrovie”. Mazzeo, però, aggiunge: “Io non ho più l’Ici sulla prima casa, dove prendo i soldi, come risolvo i problemi? Quest’opera ci porterà quattro milioni di indennizzi”. Il sindaco, come il presidente della Provincia, spiega: “Comunque il progetto è stato avviato prima del mio arrivo”. Ammette: “Quando vedo tutta quella roba là mi si chiude il cuore… A nessuno sta a cuore la Sabina più che a me, ho investito sulla produzione dell’olio, sull’ambiente.

E da oggi cambieremo e invertiremo il ciclo”. Troppo tardi, forse.

Affare miliardario e mattone

Ma chi sta dietro il cantiere miliardario? Nella società Parco della Sabina spa che realizza l’opera sono soci (con l’1% ciascuno) la Provincia di Rieti, il Comune di Fara Sabina e il Consorzio per lo Sviluppo Industriale di Rieti presieduto da Franco Ferroni. Ma la parte del leone l’hanno i privati: tra questi – con il 44% – la Seci che fa capo al Gruppo Maccaferri, uno dei giganti emiliani delle costruzioni. Il presidente Gaetano Maccaferri è anche stato numero uno dell’Associazione industriali di Bologna. Giuliano Montagnini, presidente della “Parco della Sabina”, siede in tante società immobiliari e miliane, a cominciare dalla Edilcoop.

Nel 2008, il Silp – sindacato di polizia della Cgil – parlava di “palesi tentativi di infiltrazioni della criminalità organizzata” proprio nella zona di Passo Corese. Spuntava il nome dei Casalesi, che hanno fatto la loro fortuna con il mattone. Anche se la camorra non c’entra con le società che realizzano il Polo,qualche cautela pare doverosa.

C’è anche chi teme che il Polo possa trasformarsi in una gigantesca operazione immobiliare. Avverte Campanelli: “Sono in costruzione a servizio del Polo un depuratore sufficiente per 30.000 abitanti e un campo pozzi capace di prelevare 1.300.000 litri d’acqua al giorno, cioè il fabbisogno di 25-30.000 abitanti. Non vorremmo che attraverso qualche alchimia all'italiana, come il Piano Casa della giunta Polverini o altri provvedimenti, si riuscisse a trasformare l'area in zona residenziale. Così sulle rive del Tevere potrebbe nascere una città grande come Rieti”.

Dopo una breve «primavera» ambientalista, la Calabria è tornata nelle mani degli speculatori. Al degrado da congestione di città e centri costieri, con abusi edilizi a go go, fa da contraltare il dissesto da abbandono delle zone interne, che provoca continue frane. In un territorio a rischio sismico.

In Calabria il cambio di colore dell'amministrazione regionale non è stata una sorpresa. Troppi gli influssi negativi attorno ad Agazio Loiero e alla sua amministrazione. Alcuni forse eccessivi, visto che in alcuni settori il centrosinistra calabrese aveva segnato non pochi elementi significativi. Tra questo quello del territorio. In quell'ambito in pochi anni l'assessorato regionale (Urbanistica e Governo del Territorio) guidato dall'ambientalista Michelangelo Tripodi (Pdci), ha reso operativa la nuova Legge Urbanistica (fatto senza precedenti nella quarantennale vicenda della Regione Calabria) ed ha approvato le Linee guida di Avvio della Pianificazione, un metapiano che definiva le regole per la tutela di ambiente e paesaggio e la riqualificazione sostenibile del territorio regionale. Questo si inquadrava in una logica di programmazione dello sviluppo regionale basato su risorse locali e cultura identitaria, alternativa alle opzioni del governo centrale che condannano la Calabria alla funzione di area socialmente disponibile per il capitale oligopolistico, speculativo e globalizzato, destinato a riceversi megastrutture scomode e grandi opere inutili e dannose.

Dopo circa un secolo lo "Sfasciume Pendulo" denunciato da Giustino Fortunato è sostanzialmente ancora tale. Anzi la situazione appare aggravata da una crescita edilizia e insediativa abnorme e squilibrata, rappresentata dalle dimensioni del volume costruito - oltre 800 milioni di metri cubi per poco più di due milioni di abitanti - che si concentra in una decina di «ambiti di concentrazione dell'insediamento», che si estendono su una fascia di urbanizzazione densificata pari a meno del 20% della superficie regionale.

A fronte di questo «degrado da congestione di città e centri costieri», le aree interne e le corone collinari soffrono invece di dissesti da abbandono. Quello che erano un tempo economie e produzioni di altura e di montagna sono scomparse lasciando il campo ad un "deserto", in cui l'assenza di antropizzazione significa obliterazione e mancata cura del territorio. L'assetto idrogeologico è diventato così un'emergenza urgente ed assoluta: ogni temporale di dimensioni appena rilevati diventa una catastrofe con crolli, rotture, interruzioni di collegamenti e attrezzature e, spesso, danni anche agli abitanti.

Al rischio idrogeologico si aggiunge quello sismico: la gran parte del territorio calabrese è «soggetto a rischio sismico di primo grado», ma solo poche strutture sono state messe in sicurezza. Il Quadro Territoriale Paesaggistico aveva previsto l'avvio di un programma speciale di risanamento ecologico del territorio, razionalizzando ed ampliando l'impiego di risorse già allocate in Regione. Gli esecutivi di centrodestra, nazionali e regionali, hanno cancellato tale posizione, congelando il Quadro Territoriale Paesaggistico e il Programma Operativo Regionale e dirottando i fondi Fas su operazioni affatto diverse, tra l'altro non calabresi e neppure meridionali.

Le politiche urbanistiche degli anni scorsi tentavano di sancire la fine della Calabria «dell'abusivismo e della villettopoli costiera», per disegnare nuove regole di tutela e una riqualificazione dell'assetto fondata ancora sulle caratteristiche del paesaggio. La partecipazione della base ambientalista al processo di pianificazione favoriva la riattribuzione di un ruolo strutturante alle risorse ecopaesaggistiche nelle politiche territoriali. Così dalle Linee Guida al Quadro Territoriale, ai Piani Provinciali, alla strumentazione comunale, si guardava di nuovo alla configurazione individuata decenni or sono da grandi studiosi come Manlio Rossi Doria e Lucio Gambi: una società regionale fortemente incardinata sulla propria struttura ambientale. Tale scenario di riferimento si fonda sul sistema rilievi-costa-fiumare. I quattro massicci interni (Pollino, Sila, Serre, Aspromonte) costituiscono zone geologicamente tuttora salde, ricche d'acqua, dal patrimonio ecopaesaggistico assai rilevante, anche se reso fragile dall'abbandono dell'attività primaria. I circa 750 km di costa rappresentano anch'essi una grande risorsa ambientale, purtroppo saccheggiata da un insediamento di dimensioni clamorose, sovente abusivo, che significa degrado e dequalficazione del paesaggio litoraneo. Il terzo grande elemento ecopaesaggistico di identificazione del territorio calabrese è costituito dalle oltre 220 fiumare e fiumarelle, che hanno costituito storicamente altrettanti sottosistemi dotati di propria organicità ecoterritoriale e socio-economica, oltre che elementi di legatura e collegamento rispetto ai maggiori contesti, sistemi interni, montani e collinari, le rade pianure e i due collettori costieri. La riqualificazione delle fiumare, anche con strumenti speciali e mirati (parchi fluviali, patti, contratti di fiume) permettono la riqualificazione paesistica, anche delle grandi macchie urbane che segnano oggi il territorio calabrese. In generale la tutela delle strutture paesaggistiche favorisce la riqualificazione del territorio, dal risanamento degli ambienti rurali, alla ripresa estetica, tipomorfologica, della città e degli insediamenti costieri.

Il processo di pianificazione partecipata promosso con le politiche territoriali degli anni scorsi non si limita peraltro alla tutela del paesaggio ed al risanamento ambientale. Le risorse culturali e paesistiche vengono anzi proposte e affermate quali elementi strutturanti per la riqualificazione dei luoghi urbani e addirittura per opzioni di crescita e sostenibilità sociale. Riprendendo e allargando un approccio già contenuto nella programmazione regionale, il Quadro Territoriale Paesaggistico riconosce tra i contesti un certo numero di categorie territoriali (basate ciascuna sulla propria identità paesaggistica) e, in funzione dei caratteri di questa, avanza programmi di riassetto territoriale e di localizzazione ed ampliamento di attività culturali e imprenditorialii,anche nuove. In questo quadro il territorio regionale è suddiviso in 16 contesti di sviluppo sostenibile: tre città metropolitane, i quattro grandi massicci interni - oggi Parchi Nazionali o Regionali - un certo numero di ambienti urbano-rurali ed alcuni ambiti di riqualificazione e sviluppo turistico costiero. Le tre grandi aree urbane principali prefigurano altrettanti paesaggi di città metropolitane: si affermano le istanze della cultura e della conoscenza (Università) a Cosenza, le funzioni direzionali e terziarie a Catanzaro, le valenze ecopaesaggistiche e turistico-culturali (Stretto di Messina e Aspromonte) di nuovo collegate a conoscenza e ricerca, a Reggio.

Nei Parchi (Pollino, Serre, Sila e Aspromonte) lo sviluppo turistico si declina nell'integrazione con l'intera "filiera della sostenibilità ecoculturale", visiting sociale e ambientale, ricerca e didattica, educazione, uso culturale del tempo libero; oltre che con le nuove istanze di produzione primaria, legata alle produzioni locali, anche bio. Nelle aree ex rurali, la limitazione dell'ingombrante insediamento degli ultimi anni comporta, oltre la ripresa, specie innovativa, delle attività produttive, anche la tutela e la valorizzazione di beni immateriali (parchi ambientali in luogo di attività agricole). Negli ambiti costieri la riqualificazione paesaggistica ed il risanamento ambientale regolano e qualificano l'insediamento turistico esistente.

L'intero quadro territoriale è arricchito dal riconoscimento, affermazione e valorizzazione del patrimonio artistico, storico- culturale e archeologico, assai rilevante, esistente in Calabria. Dalle vestigia magno- greche ai centri storici greci e albanesi, ai poli religiosi, alle fortificazioni, ai beni sparsi, si possono prospettare reti che attribuiscono ulteriore qualificazione culturale e paesaggistica ai programmi e i progetti previsti per ciascun ambito territoriale. La "primavera" del territorio calabrese non tentava soltanto di segnare una svolta di per sé significativa nella gestione urbanistica, nella fruizione dell'ambiente e nella tutela del paesaggio. Prospettava ambiziosamente un modello di sviluppo sostenibile e partecipato, basato sulle risorse culturali e paesistiche, alternativo alle politiche centrali.

La svolta nella politica regionale ha bloccato tutto ciò, rilanciando invece il ruolo della Calabria come spazio socialmente disponibile per operazioni speculative, territoriali e finanziarie, promosse dai grandi interessi del capitale globalizzato, che trovano nel governo nazionale e dintorni grande spazio. Non è un caso che i primi atti dell'Ufficio Regionale siano consistiti nel blocco del Quadro Territoriale Paesaggistico descritto (già adottato in Giunta, era stato inviato al Consiglio per la definitiva approvazione) e nel rilancio della versione calabra del "Piano Casa" caro a Berlusconi, rifiutato dall'amministrazione precedente. Torna dunque la Calabria dello sfascio,delle grandi operazioni inutili e dannose - e spesso incompiute - dell'abusivismo, del "mare di cemento", dei disastri e dei dissesti. A tutto questo devono opporsi quei soggetti sociali, movimenti e associazioni,che avevano partecipato invece con grande entusiasmo alla nuova - e troppo breve - stagione della pianificazione sostenibile nella regione. E tutti coloro che hanno a cuore la difesa dei luoghi di vita, propri e altrui.

GENOVA - Si chiama "Mi Nova" e anche se sembra rimandare al nome di una stella è il più terrestre dei progetti. Il suo obiettivo è rivoluzionare il Nord ovest del Paese sfruttando le peculiarità geografiche dei territori coinvolti, il mare di Genova e la pianura padana che ha in Milano il suo baricentro, unite da un collegamento ferroviario ad alta velocità per far correre merci e passeggeri. "Mi Nova", infatti, è il prodotto della fusione fra Milano e Genova. Fusione non solo lessicale, ma economica e commerciale, e, in ultima ipotesi, anche amministrativa, se gli enti locali ne condivideranno l’operazione. A firmare il progetto Mi Nova è il presidente dell’autorità portuale di Genova, Luigi Merlo, a capo del primo scalo d’Italia (e secondo del Mediterraneo).

«Sono un uomo delle istituzioni, valuto con molta attenzione le implicazioni che possono arrivare da un’operazione di questo tipo - spiega Merlo a "Repubblica" - Ma ritengo che oggi ci siano tutte le condizioni per arrivare a una vera integrazione fra le due città, Milano e Genova, unite da interessi comuni e in grado di rappresentare, insieme, una grande realtà fatta di eccellenze e di peculiarità. Da tempo verifico con gli amministratori e i rappresentanti economici della Lombardia una sintonia sempre più forte sui progetti infrastrutturali e logistici che coinvolgono il porto di Genova. A questo punto ritengo che ci siano tutte le condizioni per fare un salto di qualità».

Il modello delle aggregazioni in chiave portuale si sta ormai affermando a livello internazionale. Non a caso, la Francia sta ipotizzando la "trasformazione" di Parigi in città portuale attraverso la creazione di un canale navigabile fino al porto di Le Havre, sul Mare del Nord. Mi Nova si muoverebbe sulla stessa scia, con un obiettivo temporale molto ravvicinato, vale a dire l’Expò 2015 di Milano. Le basi per un’integrazione sempre più spinta fra Genova e Milano, comunque, ci sono già. Basti pensare che gran parte della merce che ogni anno lascia la "Regione Logistica Milanese" (Milano e il suo hinterland) per l’estero utilizza il mare come suo mezzo di trasporto. Su 48 milioni di tonnellate di export di merce "milanese", 38 prendono la rotta del mare e 33 scelgono il porto di Genova. Da Genova a Milano, e ritorno, si spostano oltre un milione di container ogni anno. È come se il capoluogo lombardo, ogni giorno, producesse merce per riempire dodici grandi navi portacontainer. Oggi il porto viaggia al di sotto dei due milioni di container. Cifra che potrebbe triplicare, o quadruplicare con nuove infrastrutture (6-8 milioni).

La chiave di volta dell’operazione è infatti rappresentato dal collegamento ad alta velocità del "Terzo Valico dei Giovi", atteso da più di vent’anni e che, per la prima volta nelle scorse settimane, ha ricevuto il via libera dal Cipe con un finanziamento di oltre 700 milioni di euro. L’opera costa oltre sei miliardi di euro, ma l’impegno di questo governo, e di quelli che dovrebbero succedergli, è di sostenerne la realizzazione fino alla fine, prevista fra otto anni e quattro mesi. In parallelo dovrebbero proseguire i progetti di crescita infrastrutturale del porto di Genova, costo tre miliardi. Così, solo dal fronte mare, Mi Nova potrebbe muovere dieci miliardi di euro.

«È necessario creare le condizioni perché Genova e Milano diano vita a una vera e propria macrocittà, unita da un collegamento ferroviario veloce che è poi il primo anello della tratta internazionale Genova-Rotterdam - precisa Merlo - Mi Nova sarebbe la macrocittà del mare del Nord Italia». Una potenza economica e finanziaria che già oggi vale un fatturato di due miliardi e mezzo di euro (generati dai movimenti in entrata e in uscita dalla merce milanese nel porto di Genova) e che anche in chiave federalista rappresenterebbe una risposta alla voglia di affermazione dei territori. Non sfugge, infatti, al presidente Merlo, ex assessore ai Trasporti della Regione Liguria e uomo del Pd, che un progetto di questo tipo può anche avere una forte connotazione politica. «Più che di rottamatori, questo Paese avrebbe bisogno di ricostruttori - chiude il presidente dell’authority genovese - Credo che anche da un progetto come questo ci possano essere le condizioni per dare centralità, in chiave internazionale, all’economia del Nord del Paese».

postilla

anche se non ci si adegua al vecchio adagio andreottiano, del pensare male per indovinare, basta scorrere l’articolo per intuire che qualcosa proprio non va. La fascia meridionale della megalopoli padana è davvero una selvaggia prateria da occupare militarmente, col cavallo d’acciaio, i Buffalo Bill per sbrigare sbrigativamente le faccenduole locali, e dulcis in fundo un bel progetto autoritario di riorganizzazione amministrativa modellato su infrastrutture e flussi di merci?

Non basta il recente disastro sull’asse A4/TAV di alta e media pianura, con le costellazioni di scatoloni nati vuoti, di svincoli e cavalcavia a servizio esclusivo di arrancanti trattori più qualche disperata in abitino fluorescente?

Avevano ragione, quei grossi papaveri della stronzaggine nazionale, a liquidare a cavallo fra gli anni ’60 e ’70 come Libro dei Sogni il tentativo di programmare in qualche modo i grandi sviluppi territoriali! Loro si regolano perfettamente da soli, altro che grandi progetti, politica, democrazia, piani territoriali. Al massimo, quelli vengono dopo, magari cooptando qualche accademico carrierista di bocca buona. Per i superstiti, naturalmente (f.b.)

© 2025 Eddyburg