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La tramvia di Desio va in pensione. Oggi, dopo 130 anni, i vagoni che hanno trasportato generazioni di studenti e lavoratori dalla Brianza a Milano si fermeranno dopo l’ultima corsa delle 23.10. Carrozze vecchie di quarant’anni e rotaie senza manutenzione da due anni l’hanno reso «pericoloso per gli utenti», ha sentenziato il ministero delle Infrastrutture in una relazione di sei mesi fa. I Comuni attraversati dal tracciato, Desio e Nova Milanese su tutti, però non ci stanno e annunciano battaglia.

Dal centro della cittadina brianzola fino al capolinea a Milano, in via Ornato, in zona Niguarda, le rotaie in alcuni punti sono così malmesse che i conducenti devono procedere alla velocità di cinque chilometri all’ora. «La linea non viene chiusa, solo sospesa per disposizione del Comune di Milano e di Atm. Mantenerla in attività non aveva senso, in gioco c’è l’incolumità dei passeggeri», taglia corto Giovanni De Nicola, assessore provinciale ai Trasporti. Per ora, al posto delle carrozze scende in campo un servizio sostitutivo di autobus, che si dovrà fare carico dei mille pendolari che ogni giorno usano il tram. «Bus di 18 metri che finiranno per congestionare ancora di più il traffico - replica Roberto Corti, sindaco di Desio - . Ancora non ci hanno nemmeno fornito il percorso e non sappiamo dove sono previste le fermate».

Entro marzo dovrebbero partire i lavori per spostare la vecchia linea che passa dal centro della cittadina brianzola per portarla in periferia, in via Milano. Il progetto, 230 milioni di investimento, è pronto da dieci anni. Il 60 per cento dell’opera è già stato finanziato dal governo, il restante 40 è da suddividere tra Regione, Province di Milano e Monza e Comuni interessati. «Col Patto di stabilità voglio vedere dove troveremo i soldi», si domanda Corti. «In primavera partiranno i lavori e per giugno 2014 tutto sarà a posto», assicura l’assessore. Ma il primo cittadino di Nova Milanese, Laura Barzaghi, è scettico: «Nel 1981 a Vimercate tolsero il tram dicendo che a breve sarebbe arrivata la metropolitana, tutto era pronto. A distanza di trent’anni i cittadini aspettano ancora che inizino gli scavi. Non siamo disposti a fare la stessa fine».

postilla

Quella di smantellare artificiosamente le reti di linee tranviarie di superficie usando via via motivazioni tecniche per modernizzazioni, sicurezza, diseconomicità e compagnia bella, è una pratica iniziata verso la metà del ‘900 dalle grandi compagnie automobilistiche americane a livello nazionale, che faceva tra l’altro anche, localmente, il gioco di alcuni speculatori immobiliari. Là si acquisiva la maggioranza azionaria della compagnia e poi con sotterfugi di vario genere (finanziari, accordi apparentemente vantaggiosi con la pubblica amministrazione, ricerche addomesticate ..) si arrivava al classico trionfo del mezzo privato, e comunque della rete stradale con la sua controparte di “indifferenza localizzativa” e impossibilità di politiche pubbliche territoriali serie. Non è un sospetto da urbanisti dietrologi, ma un fatto documentato da parecchie ricerche storiche negli archivi delle compagnie colpevoli. Si veda ad esempio il bell'articolo di Al Mankoff sul sito istituzionale Trasporti New Jersey.

Noi, indipendentemente da modi e tempi, seguiamo a ruota: ha senso, in un’epoca di discussione su mobilità dolce, spazi condivisi, primato del trasporto su rotaia in diretto collegamento agli spazi pubblici centrali e alla multifunzionalità, cancellare, e/o decentrare una linea del genere? Credo che la risposta non sia necessaria, e neppure un esercizio di dietrologia. Al massimo, di psichiatria (f.b.)

MILANO — Dopo mesi di parole su Expo arriva un segnale importante dal mondo delle aziende. Un segnale che vale 43 milioni di euro e che dimostra, in un momento di crisi mondiale, che i privati cominciano a farsi avanti. Per la prima volta nella storia dell'Esposizione del 2015 un'azienda mette risorse per contribuire alla realizzazione dell'evento, in una logica di partnership. Per dirla con l'ad di Expo, Giuseppe Sala, «i privati ci credono». Così come ci credono i Paesi del mondo: già totalizzate 53 adesioni e si punta ad arrivare a 70 entro dicembre.

A fare da apripista tra i privati (Sala è sicuro che questa collaborazione rappresenta la prima di una lunga serie) è Telecom Italia, che ha vinto la gara d'appalto per la scelta del partner tecnologico di Expo. Il gruppo telefonico doterà il sito di infrastrutture e tecnologie avanzate, investendo 12 milioni di euro cash e oltre 30 nello sviluppo di reti fisse in fibra ottica e wi-fi, reti mobili anche di quarta generazione e altre soluzioni d'avanguardia che resteranno in dote alla città. «Le infrastrutture, sia fisse sia mobili — ha confermato l'amministratore delegato di Telecom Italia, Marco Patuano — rimarranno anche successivamente». In cambio, il gruppo avrà l'esclusiva merceologica, uno spazio commerciale dedicato e potrà sfruttare i diritti d'utilizzo del logo e delle immagini.

Ma con l'arrivo delle risorse private si delinea indirettamente anche il progetto. Sul sito dell'esposizione sorgerà la prima «Smart City» del futuro, con un tandem tra tecnologia avanzata e sostenibilità ambientale e con servizi che consentiranno ai visitatori di cogliere rapidamente tutte le opportunità dell'evento e agli amministratori di risparmiare sui costi di gestione. Qualche esempio? Luci e lampioni potranno essere controllati dai computer. Sarà possibile pagare l'ingresso o il parcheggio con il cellulare, programmare il proprio itinerario tra gli stand, ma anche esplorare i padiglioni dai banchi di scuola o da un letto d'ospedale. Anche questo caratterizzerà la «Città intelligente» nella quale, grazie all'investimento di 43 milioni, si trasformerà l'area dell'esposizione.

«È uno dei giorni più felici della storia di Expo», ha sottolineato Giuseppe Sala annunciando la nuova partnership. «Al mondo delle aziende chiediamo di partecipare con infrastrutture e in conto economico per circa 400 milioni di euro — ha aggiunto — In passato potevano esserci perplessità, oggi ci siamo assicurati un grande partner e circa il 10% di quel budget». Già individuate altre aree tematiche per lanciare nuovi appalti: dai sistemi di sicurezza all'illuminazione, dalla mobilità al settore finanziario.

Intanto si parte. Con una «tappa nuova e importante per la costruzione dell'esposizione», come ha precisato il presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni, commissario generale di Expo. Per il governatore, la partnership con Telecom «ribalta la concezione di Expo come perennemente rachitica, bisognosa di sovvenzioni e di vitamine» e «va contro quel perdurante scetticismo e pessimismo». L'impegno dei privati per Expo ieri è stato anche al centro di un incontro a Palazzo Marino, dove il sindaco Giuliano Pisapia ha ricevuto il presidente di Telecom Italia, Franco Bernabé, e l'amministratore delegato Marco Patuano.

In queste settimane si è riacceso il dibattito sui gravi rischi che stanno per abbattersi sul paesaggio sardo. I goffi tentativi della Giunta Cappellacci di camuffarli con parole come identità, salvaguardia e rispetto, connesse, però, a “revisione del PPR”, “legge sui 25 campi da golf” e “proroga del Piano casa”, ben chiariscono quanto sia coerente questa Giunta in materia di cementificazione del territorio secondo un’ottica privatistica di governo. Alcuni di noi hanno parlato di questi rischi più volte e credo che a nulla siano valse le nostre riflessioni per modificare quest’ottica, così come credo che a nulla varranno le considerazioni di illustri studiosi, da Salvatore Settis a Michele Salvati, da Fulco Pratesi a Edoardo Salzano. Seppure sconfortata da questa consapevolezza sono convinta che tacere oggi equivalga ad essere corresponsabili di quel che si sta abbattendo sulla Sardegna. Ed eccomi qui, ancora una volta, a sostenere perché le regole, i vincoli e dire No al consumo di suolo siano la vera strada da percorrere per dare ossigeno all’economia sarda.

Ma perché questa Giunta regionale è così sorda a qualunque richiamo di buon senso? Perché è questione di buon senso non rovinare il paesaggio, non solo perché la società presente ha il dovere di trasferirlo indenne alle generazioni future, ma anche perché se lo roviniamo per quale ragione i turisti dovrebbero venire fin qui? Nel VII congresso dell’Associazione Mediterranea di sociologia del turismo, da molte ricerche nazionali e internazionali è emerso con chiarezza che la ragione primaria per cui i turisti visitano la Sardegna, nonostante le difficoltà di trasporto e i costi elevati, è data dall’unicità e irriproducibilità del paesaggio sardo; semmai, i veri problemi sono legati all’accessibilità, alla riqualificazione del patrimonio esistente, alla professionalità del comparto e alla messa in rete delle risorse. Perciò, se modifichiamo il paesaggio cementificandolo o trasformandolo, che futuro si prospetta per il turismo sardo? Lo sanno bene i veri operatori turistici che poco hanno a che vedere con quanti costruiscono ville nella pineta di Badesi, o Resort mostruosi in mezzo alla macchia mediterranea di Capo Malfatano.

Ma il buon senso non rientra nell’orizzonte di questa Giunta, non tanto perché non sia consapevole anch’essa che far costruire a ridosso delle coste e attorno a fantasmagorici campi da golf non equivalga a benessere sociale, quanto perché deve rispondere, in primis Cappellacci, alle pressioni di un blocco sociale costituito da proprietari di suolo e imprese che facilmente riescono a trascinare su questo terreno i tanti disoccupati. È evidente che questi ultimi non hanno responsabilità degli scempi compiuti ma sono l’anello più debole, usati come ostaggio e grimaldello per scassinare il territorio. Non mi stupisce che dei disoccupati, pur di lavorare qualche mese, siano pronti a scendere in piazza dietro la fascia tricolore del sindaco di turno (Arzachena o Teulada che sia) o a firmare appelli, ma mi indigna che degli amministratori del bene pubblico siano così sensibili ai richiami degli interessi privati, talvolta molto forti come quelli della Marcegaglia o di Tom Barrack. Ci sono però altre ragioni perché questa giunta si sta muovendo con così tanta fretta per modificare le regole del PPR, e queste sono sì di tipo elettorale, ma sono anche il bisogno di dare una risposta legale ai tanti abusi che si sono verificati nonostante i vincoli del PPR. Inoltre, vi sono esigenze provenienti dai tanti comuni che hanno piani urbanistici in itinere o hanno appena approvato e che non solo prevedono volumetrie ingiustificabili se si rapportano alle esigenze sociali, ma molte di queste non sarebbero giustificabili neppure dagli strumenti di piano vigenti, a partire dal PPR.

Questo blocco sociale è destinato a scomporsi nel momento in cui le case costruite rimarranno invendute e avranno arricchito soltanto pochi speculatori, mentre i disoccupati continueranno a rimanere tali e il territorio sarà irrimediabilmente compromesso.

Saldi di fine stagione per paesaggio e patrimonio artistico. Nell´Italia devastata dal berlusconismo e dal secessionismo leghista, impoverite non sono solo le nuove generazioni, condannate alla disoccupazione o al precariato perpetuo. Impoverito è lo Stato, cioè noi tutti, borseggiati da chi governa il Paese svuotando il nostro portafoglio proprietario di cittadini e i valori di una Costituzione fondata sul bene comune. Questa erosione del patrimonio e dei principi della Repubblica ha preso la forma della rapina. Rapina, letteralmente, a mano armata: armata dei poteri residui dello Stato, cinicamente usati per smontare lo Stato e spartirsi il bottino.

Nel grande (e irrealizzato) progetto che si incarnò nella Costituzione del 1948, l´idea di un´Italia giusta, libera e democratica s´impernia sulla condivisione di beni comuni, intesi come proprietà di tutti i cittadini e garanzia di attuabilità del disegno costituzionale. Tali sono prima di tutto i beni del Demanio, elemento costitutivo di uno Stato sovrano; tali sono i beni pubblici indirizzati a scopo di utilità sociale (per esempio per scuole, ospedali, musei); tale è l´ambiente e il paesaggio, scenario della nostra vita individuale e sociale e strumento di salute fisica e mentale (o di patologie); tale è il patrimonio artistico come memoria storica. Di qui l´articolo 9 della Costituzione, secondo cui «la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione», e deve farlo in modo identico dalle Alpi alla Sicilia. Essenziale alla legalità repubblicana, questo principio si lega ai «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» (art. 2), al «pieno sviluppo della personalità umana» (art. 3), alla tutela della salute «come fondamentale diritto dell´individuo e interesse della collettività» (art. 32). Il bene comune non comprime, ma limita i diritti di privati e imprese: alla proprietà privata deve essere «assicurata la funzione sociale» (art. 42), la libertà d´impresa «non può svolgersi in contrasto con l´utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana» (art. 41). Contro questa architettura di valori è in atto un feroce attacco. Smontando l´art. 41 si vuole una libertà d´impresa senza limiti: e dunque anche in contrasto con l´utilità sociale, anche se calpesta sicurezza, libertà, dignità umana. L´indegna farsa del "federalismo demaniale" già devasta l´orizzonte dei beni comuni.

Un esempio, Agrigento. Atto I: il 4 agosto la Regione Sicilia annuncia che lo Stato ha ceduto alla Regione la Valle dei Templi, che diviene «patrimonio dei siciliani». Atto II: il 31 agosto il sindaco mette all´asta la Valle dei Templi, con l´idea di «cederla ai privati, affittarla a grandi multinazionali, a griffe internazionali». Ma di chi erano i templi di Agrigento prima della "legittima restituzione ai siciliani"? Erano di tutti gli italiani, dai siciliani ai veneti; come le Dolomiti (ufficialmente valutate 866.294 euro) erano proprietà dei veneti, ma anche dei siciliani. Lo spezzatino dei beni pubblici, ridistribuiti su base regionale o comunale per favorire il secessionismo leghista, svuota il portafoglio proprietario degli italiani, ci rende tutti più poveri.

Massimo simbolo della cultura italiana della tutela è l´ordine del Real Patrimonio di Sicilia del 21 agosto 1745, che simultaneamente impose la conservazione delle antichità di Taormina e dei boschi del Carpinetto ai piedi dell´Etna: prima norma al mondo in cui la tutela del paesaggio e quella del patrimonio artistico sono tutt´uno, secondo una linea che giungerà fino alla Costituzione. Eppure la Regione «intende privatizzare, per far cassa, il patrimonio boschivo e forestale siciliano» (La Sicilia, 23 agosto). In questa generale devastazione, il depotenziamento delle Soprintendenze mediante il blocco delle assunzioni e il taglio dei fondi (ne ha scritto su queste pagine, l´8 settembre, Francesco Erbani) colpisce la tutela alla radice.

Ma che cosa c´è da aspettarsi da un Ministero che ormai espressamente invita non a proteggere il paesaggio, ma a genuflettersi davanti alle imprese? Lo dice chiaro e tondo un documento del 13 ottobre 2010, che in materia di autorizzazione paesaggistica invita sfacciatamente i soprintendenti a «pervenire ad espressioni di pareri la cui formulazione si configura come una prescrizione di buone maniere», evitando come la peste «pareri che siano in contrapposizione alle proposte progettuali».

Esempio estremo di questa deriva (auto)distruttiva è, nella Toscana un tempo "rossa", la vicenda di uno scavo archeologico a San Casciano in Val di Pesa. Importanti resti di edifici ad uso abitativo e agrario di età etrusca e romana, ancora inediti, sono emersi durante i lavori per l´estensione di uno stabilimento della multinazionale Laika Caravans. Fino a pochi anni fa una scoperta come questa avrebbe comportato la salvaguardia dei reperti in situ, e obbligato la ditta a spostare altrove i suoi capannoni. Ma il Comune (governato da una giunta di "sinistra") ha adottato la cultura delle "buone maniere", cioè della resa alle imprese, e ha stretto con Laika un accordo per sfrattare l´archeologia in favore dei capannoni, smontando fattoria etrusca e villa romana per spostarle in un "parco archeologico" fasullo che i comitati locali hanno subito battezzato "archeopatacca". Il modello è chiaro: si applica all´area archeologica lo scambio di volumetrie già previsto da perfidi codicilli del recente decreto sviluppo, il principio di «libera cubatura in libero Stato», secondo il quale ogni terreno, anche inedificabile, è per sua natura dotato di una "capacità edificatoria" virtuale che può formare oggetto di diritti, essere venduta o scambiata con nuove edificazioni. Così, ha commentato Il Sole (24 agosto), «in nome della giustizia economica, sui terreni agricoli piomberanno d´incanto milioni di euro di nuove cubature». Anche sui terreni archeologici, a quel che pare: basta rimontare i ruderi altrove, come assemblando mattoncini Lego. Alla cultura della tutela si sostituisce il più volgare mercatismo parassitario, e sfrattare gli Etruschi diventa una virtù. Interessante principio: che anche i Templi di Agrigento, finalmente "restituiti ai siciliani" a cui gli italiani li avevano rubati, possano essere smontati e trasferiti da una multinazionale, regalando ai "legittimi proprietari" qualche scampolo di "capacità edificatoria"?

La crisi del debito non ha insegnato nulla: in Italia si continua a tagliare tutto, eccetto che gli sprechi sulle infrastrutture. Un sollievo per i (pochi) sostenitori del Ponte sullo Stretto di Messina, la “grande opera” che, in più di quarant'anni (33 governi e 12 legislature), ha già dilapidato circa 400 milioni di euro di fondi pubblici. “Per la costruzione del ponte dello Stretto mancano ancora delle risorse economiche, ma noi le recupereremo”, è la promessa che ieri ha fatto a Messina l’amministratore delegato della società responsabile del progetto, la Stretto di Messina, Pietro Ciucci (che è anche numero uno dell’Anas). Come? Se lo Stato non paga, lo faranno gli imprenditori, con la solita formula del project financing (in cui, alla fine, paga poi sempre lo Stato): “Dovremo recuperare il 60 per cento dei fondi dell’opera da privati, ma siamo sicuri di riuscirci”.

Per i giudici della Corte dei Conti, solo tra il 1986 e il 2008, il ponte sarebbe costato agli italiani 200 milioni di euro. Un importo che potrebbe raddoppiare tra assunzioni, pubblicità, formazione e “strutture compensative”, oltre alle infinite consulenze (21,3 milioni tra il 2001 e il 2007). Senza considerare il denaro speso prima della nascita della società Stretto di Messina (Sdm), la concessionaria del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti fondata nel 1981 e tenuta in vita dall’ex ministro Antonio Di Pietro, nonostante il ponte non rientrasse nel programma dell’Unione di Prodi. Una scelta a lungo contestata, che nel 2008 ha permesso a Berlusconi il rilancio del progetto e, due anni dopo, la propagandistica “posa della prima pietra” a Cannitello, lungo la costa calabra dello Stretto.

Anche se l’opera quasi certamente non si farà mai (manca perfino il progetto esecutivo), il bancomat di Stato continua a erogare denaro. “Migliaia di euro saranno spese per le operazioni di esproprio dei terreni interessati dai cantieri, anche se non si conoscono con precisione costi e tempi”, dice al Fatto la deputata radicale Elisabetta Zamparutti, prima firmataria di un’interrogazione parlamentare che chiede di fermare gli espropri, annunciati negli scorsi giorni dalla Sdm. L'ultima parola spetterà al Comitato interministeriale per la programmazione economica, il Cipe, che a dicembre dovrà sancire se il ponte rientra tra le infrastrutture di “pubblica utilità”, in seguito alla richiesta di Eurolink, l’associazione di imprese (con Impregilo capofila) che nell’ottobre del 2005 vinse l’appalto per costruire l’opera. Ma intanto accelerano gli espropri, anche se i soldi per l’opera proprio non ci sono. Lo ha certificato anche il VI rapporto sullo stato di attuazione delle Legge Obiettivo: al momento sono disponibili solo 2,5 miliardi di euro sui 7,2 necessari .

Sul progetto, però, sia il governo che la Stretto di Messina non intendono tornare indietro. “Il ponte è già in fase di realizzazione: abbiamo firmato contratti con chi ha il compito di procedere alla sua costruzione”, ha ricordato Pietro Ciucci, annunciando l’inizio dei lavori entro 12 mesi e l’apertura al traffico nel 2019.

Intanto alle mille schede di esproprio pubblicate e ai relativi rimborsi, si sono aggiunti i 500 mila euro stanziati dalla Regione Calabria per finanziare un bando sui corsi di formazione professionale delle maestranze attraverso la società CalabriaLavoro. Anche le Università di Messina e Reggio Calabria si sono lanciate nella “grande opera”, attivando tirocini formativi per laureandi che si concluderanno a novembre. Una frenetica accelerazione difficile da spiegare, alla luce del dissesto delle finanze pubbliche e alla difficoltà di trovare investimenti privati stranieri. “L’interesse del fondo sovrano cinese China Investment Group si è subito affievolito, a causa dei costi eccessivi”, sostiene l’onorevole Zamparutti, smorzando gli entusiasmi seguiti all’incontro tra il gestore cinese Low Jiwel e i ministri Altero Matteoli e Giulio Tremonti, per discutere su un’eventuale partecipazione al project financing dei privati, attraverso il quale si vorrebbero coprire le spese.

Ad affossare l'opera è stata però la Commissione Europea, quando lo scorso luglio ha bocciato l’intervento, cambiando la geografia delle grandi infrastrutture. Nella proposta di bilancio “Europa 2020”, inviata dalla Commissione all’Europarlamento, vengono infatti ridefiniti i “Ten”, ovvero i grandi corridoi europei. La priorità non va più all’asse precedente Berlino-Palermo, ma al network Helsinki-La Valletta: dalla Finlandia si scenderebbe così a Bari, per poi proseguire fino a Malta lungo “un’autostrada del mare”. Un percorso che renderebbe inutile la costruzione del ponte sullo Stretto di Messina.

Continuano anche le proteste. I comitati “No Ponte” da anni spingono per trasferire i fondi agli interventi contro il dissesto idrogeologico dell’area, oltre a denunciare il rischio di infiltrazioni della malavita. Gli enti locali del messinese minacciano di non firmare l’accordo di programma con la Sdm senza finanziamenti alle opere “compensative”, cioè senza altri soldi pubblici sul territorio.

Il Wwf ha fatto due conti, ieri, su quanto costa nel complesso al Paese l’illusione di collegare Reggio Calabria e Messina: “Non ci possiamo permettere di destinare a una singola opera, insostenibile dal punto di vista economico-finanziario e ambientale, risorse pari ad oltre mezzo punto di Pil”. Cioè, appunto, oltre 7 miliardi. In crescita, nota il Wwf: “Non è in alcun modo giustificato un aumento dei costi in un anno di oltre il 34% chiesto dalla concessionaria pubblica Stretto di Messina S.p.A. al momento dell’approvazione del nuovo Piano economico-finanziario”. Ma anche se l’opera fosse cancellata, non si fermerebbero comunque gli sprechi. In caso di recesso, una penale riconosce ai costruttori dell’Eurolink una somma corrispondente al 10 per cento sui 4/5 del valore contrattuale: altri 400 milioni di euro versati dai contribuenti italiani.

Box: Svimez 2011, la crisi ha affossato il Sud Italia

La crisi economica ha aggravato la situazione già precaria del Sud del Paese: è quanto emerso dal rapporto Svimez sull’economia del Mezzogiorno presentato a Roma. Un’area in forte recessione che non riesce a crescere con gli stessi ritmi del Centro-Nord: il Pil è infatti aumentato solo dello 0,2 per cento, distante un punto e mezzo rispetto alle stime relative al resto del Paese (+1,7%). Nella classifica delle regioni più ricche, al Sud riescono a difendersi Abruzzo, Molise e Sardegna, mentre è la Campania a registrare l’indice più basso. Altra situazione grave è quella relativa al mercato del lavoro, dove pesa l’elevata presenza degli irregolari. Ufficialmente al Sud lavora meno di un giovane su tre (31,7 per cento, 25 punti sotto la media nazionale), con un tasso di disoccupazione reale al 25 per cento. Un’assenza di prospettive di lavoro che si traduce facilmente nella “fuga” dei cervelli verso l’estero e il Nord d’Italia. Il rapporto denuncia così il rischio “tsunami demografico”: nel 2050 gli over 75 potrebbero aumentare di 10 punti percentuali, trasformando il Sud in un’area anziana ed economicamente dipendente dal resto del paese. Un nuovo progetto per il Sud è secondo lo Svimez l’unica strada per invertire la tendenza: il rapporto invita così a puntare sui settori più innovativi, come la geotermia e le rinnovabili. Altro che ponte sullo Stretto di Messina. (al.so.)

A Modena, per la costruzione del “secondo più grande parcheggio sotterraneo d’Italia”, con licenza delle sempre sollecite soprintendenze, è stato distrutto l’ottocentesco Ippodromo, dichiarato bene culturale, ed è stata svuotata, dicono che è archeologia preventiva, la sottostante area archeologica. Ora l’assessore propone di vendere un po’ dei troppi reperti che sono affluiti nei depositi comunali.

Prima che su un divieto di legge, l’eccezione opposta alla vendita dei reperti archeologici, che si presumono seriali, raccolti nei depositi dei musei è fondata su ragioni di cultura che crediamo insuperabili. Non tutti gli oggetti custoditi nei musei possono e debbono essere esposti al pubblico. I depositi sono una sezione fisiologica di cui ogni museo non può fare a meno, perché è lì che si esercita quella attività assidua di studio e revisione critica che è la vita della speciale istituzione e l’alimento anche delle sezioni in esposizione. Quel che sta nei depositi non sempre ha interesse neppure per il pubblico colto, mentre presenta un alto valore per gli studiosi specialisti. Sono considerazioni perfino ovvie. I musei civici modenesi si sono assunti fin dalla costituzione il compito di ricevere in deposito ed ordinare gli oggetti di interesse archeologico emersi via via nel tempo anche dagli scavi occasionali nel sottosuolo non soltanto della città. E’ un servizio essenziale che il museo svolge pure nell’interesse dello Stato cui per legge quei reperti appartengono. Ed è un servizio di grande responsabilità e molto oneroso non solo di spesa, perché comporta l’impegno di classificazione e studio.

La vendita non è una soluzione e il ricavato sarebbe acquisito allo Stato proprietario, non alle casse comunali. Certo è che neppure per gli oggetti apparentemente ripetitivi si può parlare di doppioni, per l’ovvia ragione che prima della produzione industriale di serie ogni reperto anche fittile è un unicum e la quantità in archeologia, è stato detto, è un elemento essenziale di qualità. I reperti che costituiscono un insieme contestuale di oggetti della stessa natura non possono essere perciò dispersi con la vendita o la concessione in deposito d’uso ai privati, pur se dei singoli elementi fosse assicurata, come si dice, la tracciabilità, perché ne andrebbe perduto il senso che è dato dalla appartenenza a quell’insieme. Mentre l’offerta al mercato va ad alimentare una generica passione antiquaria per una sempre impropria destinazione ad arredo domestico di prestigio e accredita una concezione patrimoniale dei beni culturali. Su quali mai mercuriali è stato fatto l’apprezzamento economico (una cifra astronomica) di quanto conservano i depositi dei musei civici modenesi? Questa proposta, non nuova in verità neppure nel panorama nazionale (ma fino ad ora sempre respinta), di liberare i depositi dei musei dagli oggetti di ritenuto minore interesse è stata in questi giorni ripresa da un amministratore del Comune (che non ne è –già si è detto- proprietario) di fronte all’imponente afflusso nei musei civici di reperti estratti dal vasto scavo dentro il parco Novi Sad. Italia Nostra, è ben noto, ha espresso una valutazione severamente critica sulla distruzione dell’area archeologica che rimaneva protetta sotto l’ottocentesco Ippodromo.

Lì è stato applicato, lo hanno assicurato, il metodo della archeologia preventiva che in fretta rimuove ogni traccia dei sottostanti millenari insediamenti, del tutto poi indifferente alla destinazione che sarà data al vuoto così sollecitamente creato. Come se si trattasse di un terreno inquinato da bonificare. Si legga il bel servizio di Francesco Erbani su La Repubblica di un numero di fine luglio, che racconta come ha funzionato a Modena l’archeologia preventiva messa alla prova nello scavo del Novi Park. Di quanto lì è stato trovato e rimosso, i depositi del museo sono stati letteralmente inondati, con la preoccupazione che ha indotto a immaginare una campagna di vendite. La distruzione di quell’area, che la soprintendenza non ha voluto come tale vincolare (non c’è vincolo archeologico è stato ripetutamente assicurato), non potrà certo essere risarcita dalla artificiale costruzione del parco archeologico pensile, cioè adagiato sul tetto della pubblica autorimessa, tra griglie di aerazione e rampe che sprofondano. Vi saranno esibiti i più significativi e selezionati oggetti portati su dal profondo, parte incorporati nel sottile strato che copre la soletta di cemento di culmine del parcheggio e sistemati tutti allo stesso livello pressappoco sulla medesima linea verticale, parte raccolti in appositi padiglioncini di mostra. Una approssimativa simulazione che indulge al superficiale fascino dell’antico e se non giova alla promozione della cultura archeologica, forse inconsapevolmente offre una buona ragione a chi vorrebbe, piuttosto, vendere tutto. Se questa è la tutela archeologica.

A Modena, per la costruzione del “secondo più grande parcheggio sotterraneo d’Italia”, con licenza delle sempre sollecite soprintendenze, è stato distrutto l’ottocentesco Ippodromo, dichiarato bene culturale, ed è stata svuotata, dicono che è archeologia preventiva, la sottostante area archeologica. Ora l’assessore propone di vendere un po’ dei troppi reperti che sono affluiti nei depositi comunali. In vendita la Mutina trovata sotto l’Ippodromo?Prima che su un divieto di legge, l’eccezione opposta alla vendita dei reperti archeologici, che si presumono seriali, raccolti nei depositi dei musei è fondata su ragioni di cultura che crediamo insuperabili. Non tutti gli oggetti custoditi nei musei possono e debbono essere esposti al pubblico. I depositi sono una sezione fisiologica di cui ogni museo non può fare a meno, perché è lì che si esercita quella attività assidua di studio e revisione critica che è la vita della speciale istituzione e l’alimento anche delle sezioni in esposizione. Quel che sta nei depositi non sempre ha interesse neppure per il pubblico colto, mentre presenta un alto valore per gli studiosi specialisti. Sono considerazioni perfino ovvie. I musei civici modenesi si sono assunti fin dalla costituzione il compito di ricevere in deposito ed ordinare gli oggetti di interesse archeologico emersi via via nel tempo anche dagli scavi occasionali nel sottosuolo non soltanto della città.

E’ un servizio essenziale che il museo svolge pure nell’interesse dello Stato cui per legge quei reperti appartengono. Ed è un servizio di grande responsabilità e molto oneroso non solo di spesa, perché comporta l’impegno di classificazione e studio. La vendita non è una soluzione e il ricavato sarebbe acquisito allo Stato proprietario, non alle casse comunali. Certo è che neppure per gli oggetti apparentemente ripetitivi si può parlare di doppioni, per l’ovvia ragione che prima della produzione industriale di serie ogni reperto anche fittile è un unicum e la quantità in archeologia, è stato detto, è un elemento essenziale di qualità. I reperti che costituiscono un insieme contestuale di oggetti della stessa natura non possono essere perciò dispersi con la vendita o la concessione in deposito d’uso ai privati, pur se dei singoli elementi fosse assicurata, come si dice, la tracciabilità, perché ne andrebbe perduto il senso che è dato dalla appartenenza a quell’insieme. Mentre l’offerta al mercato va ad alimentare una generica passione antiquaria per una sempre impropria destinazione ad arredo domestico di prestigio e accredita una concezione patrimoniale dei beni culturali. Su quali mai mercuriali è stato fatto l’apprezzamento economico (una cifra astronomica) di quanto conservano i depositi dei musei civici modenesi?

Questa proposta, non nuova in verità neppure nel panorama nazionale (ma fino ad ora sempre respinta), di liberare i depositi dei musei dagli oggetti di ritenuto minore interesse è stata in questi giorni ripresa da un amministratore del Comune (che non ne è –già si è detto- proprietario) di fronte all’imponente afflusso nei musei civici di reperti estratti dal vasto scavo dentro il parco Novi Sad. Italia Nostra, è ben noto, ha espresso una valutazione severamente critica sulla distruzione dell’area archeologica che rimaneva protetta sotto l’ottocentesco Ippodromo. Lì è stato applicato, lo hanno assicurato, il metodo della archeologia preventiva che in fretta rimuove ogni traccia dei sottostanti millenari insediamenti, del tutto poi indifferente alla destinazione che sarà data al vuoto così sollecitamente creato. Come se si trattasse di un terreno inquinato da bonificare. Si legga il bel servizio di Francesco Erbani su La Repubblica di un numero di fine luglio, che racconta come ha funzionato a Modena l’archeologia preventiva messa alla prova nello scavo del Novi Park.

Di quanto lì è stato trovato e rimosso, i depositi del museo sono stati letteralmente inondati, con la preoccupazione che ha indotto a immaginare una campagna di vendite. La distruzione di quell’area, che la soprintendenza non ha voluto come tale vincolare (non c’è vincolo archeologico è stato ripetutamente assicurato), non potrà certo essere risarcita dalla artificiale costruzione del parco archeologico pensile, cioè adagiato sul tetto della pubblica autorimessa, tra griglie di aerazione e rampe che sprofondano. Vi saranno esibiti i più significativi e selezionati oggetti portati su dal profondo, parte incorporati nel sottile strato che copre la soletta di cemento di culmine del parcheggio e sistemati tutti allo stesso livello pressappoco sulla medesima linea verticale, parte raccolti in appositi padiglioncini di mostra. Una approssimativa simulazione che indulge al superficiale fascino dell’antico e se non giova alla promozione della cultura archeologica, forse inconsapevolmente offre una buona ragione a chi vorrebbe, piuttosto, vendere tutto. Se questa è la tutela archeologica.

Il ritratto dovrebbe essere esposto nel principato in un galà dedicato a Firenze. L’arte a noleggio dei privati, proprio come vuole una proposta di legge di Scilipoti.

Il ministero dei Beni culturali ha definito un “evento di portata storica” la spedizione a Cuba di un ‘Caravaggio’ che non è di Caravaggio; un alto prelato italiano sta cercando di spedire la Madonna di san Giorgio di Giotto a Mosca per ‘impreziosire’ le celebrazioni legate all’edizione dei testi di un concilio dell’VIII secolo; la Velata di Raffaello parteciperà al Ballo del Giglio del 2011, in un albergo di Montecarlo; i Baccanali Ludovisi di Tiziano saranno esposti ad Arcore, nella sala del bunga bunga, per evidenti affinità iconografiche.

Una sola di queste notizie è falsa: ed è l’ultima. Ma è falsa solo perché i Baccanali appartengono al Prado, che è un museo serio di un paese serio. Invece il prossimo 14 ottobre l’Hotel de Paris di Montecarlo ospiterà il Ballo del Giglio, che sarebbe la versione dedicata a Firenze del Ballo della Rosa voluto da Grace Kelly. Il programma prevede – tra un incontro di imprenditori, una colazione di lavoro e lo spettacolo dei Bandierai – l’esibizione di “un capolavoro della Galleria degli Uffizi”, che dovrebbe essere scortato dal sindaco Matteo Renzi. Fonti del Mibac rivelano che quel ‘capolavoro qualunque’ sarebbe stato alla fine identificato nella Velata di Palazzo Pitti, per la cui spedizione si sarebbe in attesa dell’autorizzazione ministeriale.

Se quella autorizzazione arriverà, e se vedremo davvero Raffaello al Ballo del Giglio, allora si sarà toccato il punto più basso della storia del patrimonio artistico italiano: un punto dopo il quale si potrà solo usare la Dafne del Bernini come una bambola gonfiabile, approfittando della bocca spalancata.

Le soprintendenze sono ormai infatti state ridotte a uffici tecnici: si chiede loro solo se il supporto materiale dell’opera d’arte che si desidera spostare è in grado di affrontare il viaggio. E se la risposta è che Raffaello non si rompe, ebbene si pensa di poterlo sbattere ovunque, a fare qualunque cosa. Non so se gli organizzatori del ballo verseranno un obolo al Polo museale fiorentino, ma in ogni caso l’operazione è rubricabile sotto la specie del noleggio a ore. E l’idea di noleggiare a privati le opere d’arte che appartengono alla collettività rappresenta eloquentemente il tono morale e il livello culturale dell’Italia del tardo berlusconismo: al punto che l’uomo simbolo di questa mirabile congiuntura, l’onorevole Domenico Scilipoti , ha trasformato questa idea in una proposta di legge per cui “le opere d’arte, inclusi reperti archeologici e similari, possono essere offerti in noleggio per un periodo prefissato di dieci anni tramite asta pubblica da gestire per via telematica”. L’obiettivo sarebbe quello di “valorizzare le opere d’arte che giacciono inutilizzate o sottoutilizzate in depositi museali o in altre sedi, promuovendo, attraverso il loro noleggio per un periodo decennale, l’arte e la cultura italiane nel mondo e, allo stesso tempo, contribuendo a ridurre il debito pubblico”. Non capacitandosi del fatto che Tremonti non sia corso a congratularsi con lui, poche settimane fa il tenace Scilipoti lo ha formalmente interrogato in Parlamento, riproponendogli questa genialata. E non si sa davvero se sia più madornale la bestialità di pensare che le opere d’arte si debbano “utilizzare”; quella di considerare i depositi dei musei non quei magazzini di sapere e di storia che sono, ma cantine polverose e inutili; oppure l’idea che uno partecipi a un’asta telematica e poi si veda consegnare a casa – non so – una Immacolata in marmo del Seicento, un polittico a fondo oro del Trecento o un set di vasi greci. Ma ancora: uno potrebbe noleggiare un fonte battesimale romanico per il battesimo del nipotino, un’alcova barocca per la prima notte di nozze, una scultura del Novecento per un cocktail in giardino (No Arturo Martini, no party). Ma, al di là del folklore , ciò che nella proposta di legge Scilipoti, si legge benissimo è il principio di fondo: privatizzare, selvaggiamente, il patrimonio artistico di questo Paese.

Il primo risultato di una simile legge sarebbe massacrare la dignità dell’arte figurativa. Che in Italia non è mai stata lo svago di alcuni raffinati perditempo, non un ornamento moralmente neutrale con cui ‘impreziosire’ la vita di magnati facoltosi e ignoranti: no, l’arte figurativa è stata per secoli uno dei linguaggi (il più alto forse) in cui rappresentare e condividere la storia, l’identità, l’anima della comunità civile. Trattare le opere somme di questa tradizione come orsi ballerini che si aggirano per i cocktail col piattino delle offerte tra le zampe significa umiliarle fino a privarle di quei poteri di umanizzazione ed educazione intellettuale e morale che le rendono presenze uniche e insostituibili nella nostra vita spirituale.

Il secondo risultato sarebbe infliggere l’ennesimo colpo al patto costituzionale che ci fa civili: per Costituzione, la Velata di Raffaello appartiene a tutti i cittadini italiani, indipendentemente dal reddito e dalla cultura. Mai come in questo momento di crescenti sperequazioni economiche, la natura di bene comune del patrimonio artistico può giocare un importante ruolo perequativo. Ma noleggiando un quadro di quell’altezza vertiginosa a una brigata di ricchi cafoni che si permettono di trattarlo come una musica di sottofondo per il loro galà, lo Stato riesce nel miracolo di trasformare proprio quel patrimonio nell’ennesimo fattore di diseguaglianza, ingiustizia e diseducazione.

Prove inedite di dialogo tra associazioni come Legambiente, Arci, Acli e Libertà e Giustizia, e costruttori. In un "documento condiviso" affrontano proposte comuni per il nuovo Pgt. Gli imprenditori, che si erano schierati per il documento targato Moratti-Masseroli sarebbero disponibili a un «ridimensionamento» del Piano: dalla cancellazione dei volumi da scambiare nel Parco Sud all’abbassamento degli indici in scali ferroviari e grandi aree. «Servono presto nuove regole, ma la crisi ha cambiato lo scenario», dice De Albertis.

Fino a pochi mesi fa si guardavano da barricate opposte. Da una parte associazioni come Legambiente e Libertà e Giustizia che criticavano nel merito e nel metodo (la battaglia delle osservazioni) il Pgt targato Moratti-Masseroli. Dall’altra il mondo economico e, in particolare, i costruttori di Assimpredil Ance che, alla vigilia delle elezioni, si erano schierati con forza a favore della rivoluzione urbanistica tuonando: «Il Pgt entri in vigore immediatamente e non subisca modificazioni che ne alterino i presupposti e gli obiettivi». Ma adesso che a Palazzo Marino ci si prepara a riscrivere le nuove regole, mondi che sembravano agli antipodi tentano di parlarsi. Prove tecniche di dialogo, che hanno portato a scoprire inediti punti di incontro. Dall’accordo a cancellare gli indici volumetrici del Parco Sud da far atterrare poi in altre parti della città, fino alla possibilità di abbassare le quantità di nuovi edifici nelle grandi aree come Stephenson o lo scalo Farini. Una "cura dimagrante" che, molto probabilmente, diventerebbe comunque legge.

Il «documento unitario» sarà presentato martedì prossimo. Ed è il frutto di un primo giro di tavolo e di una prima mediazione raggiunta. A presentarlo all’amministrazione saranno i protagonisti di questo esperimento: le Acli, l’Arci, Assimpredil Ance, le cooperative bianche e rosse (Federabitazione Lombardia-Confcooperative, Legacoop), Legambiente e Libertà e Giustizia. Società civile, ambientalisti e costruttori insieme. Un miracolo? Non proprio perché ognuno, naturalmente, parla dalle rispettive posizioni. Nonostante siano stati trovati argomenti condivisi da offrire al Comune: dalla rinuncia alla "perequazione" del Parco Sud all’attenzione per l’housing sociale; dall’importanza dei servizi alla necessità di collegare i nuovi quartieri alle infrastrutture, fino al rinnovo in chiave energetica degli edifici esistenti. Tutti punti che la nuova giunta non potrà non toccare in quelle linee di indirizzo politico che accompagneranno la rilettura delle osservazioni e che verranno presentate a ottobre in consiglio comunale. L’assessore all’Urbanistica Ada Lucia De Cesaris apprezza l’esperimento: «È sempre positivo che nella città si apra un confronto tra diversi soggetti tanto più se questo, pur mantenendo le proprie differenze, consente di definire obiettivi comuni».

È il presidente di Legambiente Damiano Di Simine a spiegare la filosofia di questo «esperimento»: «La città è troppo importante perché non si tenti un dialogo: per tutti è importante che ci sia un nuovo Piano. In passato ci siamo divisi e su molti punti continueremo a farlo, ma stiamo tentando un discorso a più voci. Spetterà poi all’amministrazione tenerle insieme». I costruttori, naturalmente, non si sono convertiti all’ambientalismo. Ma a scompaginare le carte sembra essere stata la crisi. È un mercato del mattone in stallo, sostengono, ad aver «cambiato lo scenario». Come dire: inutile moltiplicare indici volumetrici e case se tanto, poi, nessuno le compra. Ecco il presidente di Assimpredil Claudio De Albertis, che punta sull’aspetto più importante per gli imprenditori: avere quanto prima un nuovo Pgt. «Una condivisione - dice - serve anche ad accelerare il processo di approvazione delle nuove regole: è quello che chiediamo. La crisi poi ha cambiato tutto e ha imposto alcune riflessioni su un ridimensionamento del Piano». Anche il presidente di Confcooperative Alessandro Maggioni dice: «In passato, pur individuando alcune criticità, abbiamo appoggiato il Pgt. Ma questa crisi profonda impone di essere ancora più laici. Noi terremo la barra dritta sulla necessità di housing sociale, ma il mercato ha già imposto che nei prossimi anni si costruirà meno, a minor prezzo, e meglio».

Così nacque la madre di un modello turistico fondato sul cemento

di Sandro Roggio

Costa Smeralda compie mezzo secolo: quest'anno, se diamo valore al patto firmato il 29 settembre 1961 da Aga Khan, Duncan Miller della Banca Mondiale, Guiness, Podbielski, Mentasti e Fumagalli. Con il documento manoscritto si impegnano a urbanizzare i terreni già acquistati “tra Olbia e Punta Battistoni” dividendo i costi in proporzione e decidendo le modalità per procedere.

L'estate appena trascorsa è l'ultima per la Sardegna senza Costa Smeralda che quell'impegno rende possibile.

Nel 1962 si formalizzano gli atti e si completa un lotto di lavori a Baia Sardinia, ma è ancora difficile farsi un'idea della trasformazione che subirà il litorale granitico di Arzachena (2.468 abitanti in paese, più di mille nelle campagne). Gli obiettivi dell'impresa – un esperimento di globalizzazione anzitempo – si capiranno nel giro di un paio di anni quando cadranno i pregiudizi sulla abitabilità delle rive dell'isola: compresi quelli del competente TCI che, una decina di anni addietro, in un servizio sull'isola nella sua rivista, concedeva un rapido accenno al mare “che batte minaccioso sulle coste inospitali”.

Il Consorzio vuole eccellere nell'accoglienza: servono alberghi come Cala di Volpe e Pitrizza aperti al pubblico tra il 1963 e il 1964 quando si inaugura con una rutilante regata la banchina di Porto Cervo. Si conta sull'alto rango degli ospiti: esponenti delle grandi casate nobiliari d'Europa, da Margaret d'Inghilterra e consorte, ai coniugi di Liegi, ad Alessandra di Kent e quelli del jet-set internazionale che costringono i paparazzi romani a lasciare gli appostamenti nei ritrovi della “Dolce vita”.

La pubblicità ha accelerato la scoperta della Sardegna e sollecitato l'attenzione degli speculatori. Comprare in Sardegna è conveniente, come sanno Karim e tanti altri, e come racconta tempestivamente Giuseppe Grazzini su «Epoca». Nonostante la domanda alta e se ben guidati "è tuttora possibile acquistare convenientemente terreni sulla costa sarda. A Sud, presso Cagliari, la zona di Santa Margherita offre possibilità di acquisto dalle 2000 alle 3000 lire al metro quadrato. A Quartu si trova ancora qualche appezzamento a 1500 lire e a Capo Teulada a 1000. A Bosa da 1500 e 2000. Ad Alghero e Porto Conte, con difficoltà, da 4000 a 5000. Da Sassari a Castelsardo tra 1200 e 1500. Poi c'è la Gallura meno nota. Da Olbia verso Sud la costa è dirupata: le comunicazioni sono difficili, ma qualche tratto di spiaggia c'è, e bellissimo: da 500 a 1000 lire...". E' il 1962 e quest'articolo ridimensiona il racconto sul principe che incontra la Sardegna per caso “e se ne innamora”. Il mercato delle vacanze è una opportunità ben nota agli investitori ai quali fa piacere passare per benefattori, un po' per vanità ma anche per convenienza.

La classe politica locale si limita ad agevolare il processo di trasformazione dei litorali rendendoli accessibili anche con risorse pubbliche. Si sa come batte il cuore dei sardi quando i continentali gli dicono che la loro terra è bellissima; e non sorprende che il benefattore Karim sia accolto, per il suo amore per le coste galluresi, dal presidente della Regione Corrias con tutti gli onori.

La condizione in cui versa la Sardegna di quegli anni offre il pretesto per accogliere qualunque progetto che possa alleviarne lo stato di povertà. Un atteggiamento che si diffonde e che nei decenni successivi si riproporrà continuamente, con più intensità ad ogni crisi, assumendo i connotati tipici della subalternità o della complicità con gli affari. Poco riguardo, invece, per i piccoli albergatori e ristoratori, che faticano a entrare nel mercato. Si punta sui poli di sviluppo turistico ( e per l'industria chimica), con il vantaggio di un ritorno occupazionale nell'edilizia molto fruttuoso per la politica con la vista corta.

Negli anni Settanta le parti più pregiate del territorio – il paesaggio sardo non ha rivali – sono già nel circuito delle cose da vendere e il loro valore dipende dalla accessibilità, dalla quantità di volume realizzabile e dalla distanza dal mare. Un facile calcolo che sarà il motivo conduttore di ogni investimento in ogni lido. L'impresa turistica è marginale: ogni intervento di trasformazione è basato essenzialmente sugli utili delle case da vendere, e infatti le attrezzature destinate alla ricettività sono ben poca cosa, se va bene attorno al venti per cento del volume complessivo previsto.

Costa Smeralda svolge negli anni la funzione di apripista di questo disegno. Acquisire titoli per volumetrie da realizzare nel tempo è il programma, già deciso dall'Aga Khan fino da quando ha prestato il suo progettista al Comune di Arzachena per redigere un piano urbanistico, che inaugura la dipendenza dei comuni dall'impresa. Un'anomalia che si trascina nel tempo, come sappiamo.

Sul prestigio di Aga Khan si fa affidamento in ogni fase del confronto sulle politiche urbanistiche della Regione, sia quando è a capo dell'azienda, sia quando si defila e resta nello sfondo – dopo l' avvento di Itt Sherathon e Starwoood e più di recente di Colony di Tom Barrack. Costa Smeralda occupa la scena negli anni della approvazione della legge urbanistica regionale e dei primi piani paesistici (1989-1993) per via delle speciali deroghe promesse dalla Regione in quella fase che si conclude con il loro clamoroso annullamento. L'insuccesso della proposta di “master plan” della Costa Smeralda, rilanciata con vari adattamenti e ridimensionamenti fino al 2003 – da molti milioni di metricubi a tre-quattrocentomila – è dato dalla irragionevolezza e dalla sconvenienza di quel programma edilizio garantito da Karim, messo in dubbio da un buon numero di oppositori specie su queste pagine.

La vicenda di Costa Smeralda – luogo, evento, modello – è strettamente intrecciata alla storia del turismo nell'isola ed è indispensabile per spiegare la Sardegna di questo mezzo secolo: non solo per esaminare le politiche di governo del territorio, tra luci e ombre, ma pure per rileggere i nostri comportamenti, in qualche modo influenzati da una vicenda così vicina e così lontana. D'altra parte Costa Smeralda si ritaglia una parte nella potente iconografia anni Sessanta, tra fatti, volti, cose prima del '68: matrimoni regali, Kennedy, Marilyn, auto, minigonne, elettrodomestici, Beatles, Vietnam, eccetera. L' estate al mare è un'esigenza e il mercato avverte la convenienza di renderla alla portata di tutti e di allungarla (a cominciare dalle canzoni balneari che durano fino a Natale). E' il nuovo corso della mitologia della vacanza, già in tanta letteratura tra Otto e Novecento: Carducci che lancia località alpine, le atmosfere gozzaniane, drammi e commedie da Maupassant a Proust e le autobiografie adolescenziali che hanno come scenario la villeggiatura.

Il modello inventato da Karim è in grado di convincere e percepito dalla politica come replicabile. Un'idea che si realizza al di fuori di ogni strategia, in modo pervasivo e influenzando il mondo dei sardi in modo imprevedibile anche sul piano estetico. Ne deriva un florilegio di facsimili dappertutto: grandi o piccole filiazioni che dalla originaria miscela semantica (si è parlato sbrigativamente di “stile sardo”) hanno attinto liberamente. Costa Smeralda, icona pop, è stata fonte di ispirazione: per i vacanzieri continentali e per i sardi residenti anche a distanza dalle rive e propensi a sentirsi turisti tutto l'anno. Il travestimento, con questa matrice, è oggi un tratto distintivo del paesaggio sardo urbanizzato, che deborda nei vecchi centri dove pure qualche antico palazzetto indossa l'abito delle ferie che ci piace vederci addosso, mescolando con enfasi finto rustico e finto antico. Sale sulle ferite aperte dalla quantità di volume diffuso dove ha deciso l'impresa edilizia.

Costa Smeralda esibisce di continuo la fedeltà al “credo stilistico” delle sue origini inventato per gioco e per il business, e mena vanto per questo: ma non nega e anzi auspica la sua crescita volumetrica pure in ambiti di pregio e a partire dai suoi archetipi.

Ma attenzione: continuiamo a dire Costa Smeralda, come se esprimesse ancora una linea condivisa. Oggi, invece, il famoso condominio vive le tensioni che il mercato degli immobili suscita, accentuate dalle leggi del corso berlusconiano come il piano-casa: guastando i rapporti di vicinato, e quando le trasformazioni tolgono la vista del mare non mancano le istanza ai tribunali.

E capita che Barrack e il Comune manifestino in piazza, con il sostegno dei potenziali occupati nei cantieri edili, ma con modi un po' scomposti contro una ordinanza che disarma il piano-casa. L'impressione che Costa Smeralda abbia perso l'aristocratica eleganza è forte (c'è chi coglie sempre l'occasione per rimpiangere i bei tempi andati confrontando gli stili: lo Yachting Club del principe con il Billionaire di Briatore-Santanchè, la terrazza di Marta Marzotto con i raduni di Lele Mora e Tarantini; ma questa è un'altra storia).

Oggi come ieri ex Costa Smeralda propone con determinazione i suoi progetti provocando ancora divisioni nel Comune che l'accoglie. Un piccolo Comune che ha accumulato un'esperienza di tutto rispetto e si potrebbe ormai consentire di governare il territorio con un piano e un contegno liberi da soggezioni culturali e oltre le agiografie. Perché le buone idee per il turismo in Sardegna sono da cercare oltre l'Aga Khan e i suoi successori. Peccato che le proposte del nuovo governo regionale portino indietro il dibattito di qualche decina di anni e incoraggiando le amministrazioni locali a promuovere la liquidazione dei nostri beni più preziosi. Come negli anni Settanta.

Isola brutta e perduta

di Giorgio Todde

La Costa Smeralda è la metafora perfetta di un drammatico cambiamento e di una decadenza che non finisce più. Noi siamo lo spazio che occupiamo e il nostro corpo, spirito compreso, soffre oppure è contento secondo quello che lo circonda. Per questo un viaggio attraverso la Sardegna imbruttita e volgare di oggi, costituisce un dolore. Il brutto e il finto hanno ottenuto la loro vittoria e spesso si intersecano sino a essere indistinguibili.

Alle volte il finto è più brutto del brutto e noi rimpiangiamo il come sarebbe potuto essere.

Non si tratta della diatriba eterna tra passatisti e modernisti. Che tutto muti, infatti, non è in discussione, ma sono i modi del cambiamento che inquietano. Basta guardarsi intorno per ammettere, semplicemente, che la Sardegna è diventata, sotto i nostri occhi colpevoli, brutta e finta. Ma per un cattivo sillogismo si dice che è «bella» perché è sempre stata «bella» e dunque sarà «sempre bella».

Qualcuno racconta la frottola che, in fin dei conti, l'idea di bello è soggettiva. Ma, al contrario, il brutto e il bello attengono all'assoluto, sono universalmente riconosciuti, non sono categorie soggettivamente elette e ogni epoca stabilisce una propria idea di bello universale.

Le società culturalmente solide e avvedute si ammodernano, modellano il nuovo su se stesse e non si limitano a

modellarsi al “nuovo”, attente a non spaesarsi e a non svegliarsi in un mondo che non

riconoscono più.

Più di mezzo secolo fa ci hanno «rivelato» che conducevamo una vita da poveri, dura e impossibile. Che «serviva modernità». Così da allora ogni cosa ha iniziato a mutare con una velocità che non avevamo conosciuto. Il «mondo moderno» era di colpo arrivato sin qua e ci abbracciava.

Certi modernizzatori erano «gufi dal gozzo pieno», per. Ci parevano semidei. E, sbigottiti perché l'universo si interessava a noi, ci siamo addirittura sentiti astuti quando abbiamo svenduto in un tragico saldo la nostra terra iniziando dai confini acquatici, permettendo perfino che venissero dati nuovi nomi a cale e promontori, avvisaglia, questa arrendevole toponomastica, dello sconvolgimento che ne è seguito.

Abbiamo ascoltato promesse di ricchezza, sprovveduti e sottomessi, incapaci di credere che il tesoro avuto sotto il naso per tanto tempo valesse qualcosa, sbalorditi e intimamente grati che qualcuno ci prestasse attenzione. Ma, soprattutto, ci siamo vergognati di come eravamo, sino alla triste negazione di noi stessi.

Le città, le campagne, la galassia di quasi quattrocento paesi che avevano concorso a determinare un'interessante varietà di costumi, conservando però un carattere«nazionale», tutto questo confluisce oggi in un amalgama dove tutti e tutto sono uguali a tutti e tutto. Dei caratteri originari dei luoghi e di chi li abitava resta una caricatura grottesca, un rimasuglio che imbellettiamo e esibiamo sino al ridicolo.

Dicono che siamo più ricchi. Però la misura del benessere è un'operazione sfuggente. Difficile convincersi che oggi siamo una comunità davvero più ricca di mezzo secolo fa e che il mondo intorno non sia che un'illusione di ricchezza.

C'erano un tempo famiglie che costruivano case, quelle necessarie, allevavano molti figli e li facevano studiare, mentre oggi la nostra «ricca modernità», spesso tutto ciò non lo permette. I pochi giovani che ora sono al mondo

da queste parti abbandonano la scuola precocemente, vivono nell'oblio del passato, messi di fronte a un futuro fasullo. E i veri poveri si moltiplicano.

Possediamo però ancora molto territorio nobile e non violato. Abbiamo conservato, in parte, modi di vita fisiologici

e caratteri a nostra misura. Abbiamo assunto e integrato qualche segmento di «buona modernità». Così capita, in

certe nostre campagne di vedere immensi orizzonti liberi, di provare il senso dell'infinito e di ricavarne gioia e salute. Ma capita sempre meno e il paesaggio viene trangugiato con una velocità travolgente. Eppure avremmo potuto fare tesoro di essere arrivati per ultimi alla «modernità». Avremmo dovuto «tornare all'antico e sarebbe

stato un progresso». Invece siamo voluti Rinascere.

La Rinascita.

Meglio dire «le» Rinascite, visto che ne abbiamo avuto più d'una. Grandi quantità di denaro pubblico, benefiche

e tossiche, si rovesciarono, ma ancora accade, nelle nostre casse e nella nostra cultura impreparata a reggerne l'urto, per nutrire sogni fallimentari. Così anziché «rinascere» abbiano iniziato a dissolverci dentro una vita che non era la nostra. Le fabbriche e l'ossessivo sogno turistico. Poi l'edilizia ancora più angosciante. La tragedia

della perdita dell'agricoltura e oggi, per logica conseguenza, il declino del mondo pastorale.

Tutto in una manciata di decenni.

Sono apparsi, al solo suono della parola Rinascita, plotoni di politici di cartapesta e managerini locali con emblematici nodi della cravatta sempre più gonfi, passati dal velluto al gabardine con una velocità azzardata. Allarmanti quantità di denaro sono piovute sull'isola e sono refluite chissà dove. Anche noi avevamo i morti in fabbrica e nei cantieri, i morti per avvelenamento industriale, i morti nelle strade. Li abbiamo cinicamente considerati una «tassa della modernità». Andavamo «veloci» al mare dopo averlo ignorato per millenni, distruggevamo anche noi le coste intatte, avevamo in casa, finalmente, docce, vasche da bagno e bidet. E lasciavamo tra i ricordi il pozzo nero del cortile.

Non abbiamo nostalgia del pozzo nero. No. “E’ che per costruire il cesso in casa abbiamo distrutto la casa”, diceva nei primi anni Sessanta il capomastro di un paesino, mentre demoliva una bella abitazione di paglia e fango.

Oggi i giornali, le televisioni, le brochure turistiche, gli stand patinati e falsi delle innumerevoli fiere del turismo, e perfino certa letteratura enfatica, «spugnata» come i dozzinali intonaci «smeraldini» che incrostano paesi e città, descrivono un'isola e un paesaggio che non esistono più.

Soltanto i luoghi dimenticati sono salvi e la dimenticanza è l'unica forma di tutela di cui siamo capaci.

Eppure la bellezza è, oltretutto, un inesauribile valore economico inestinguibile. Però noi sardi vediamo senza comprenderlo il valore sostanziale del nostro mondo, delle nostre cose, del nostro paesaggio, del mare e perfino

del vento e del cielo. E sospettiamo di possedere una ricchezza solo se ci viene indicata da altri. Allora ci avventiamo su quel «valore», lo sbraniamo, convinti che sia nostro e non un bene comune e lo consumiamo sino a che non ne resta che qualche traccia, oppure nulla.

Ho letto con piacere l'intervento di Giulia Maria Mozzoni Crespi, pubblicato sul Corriere di ieri («Pgt, perché serve un esame») a sostegno della decisione presa da questa amministrazione con riferimento al Pgt e, in particolare, della scelta di esaminare le osservazioni.

La Presidente del Fai si pone tuttavia la domanda in merito a quali siano i principi urbanistici che questa amministrazione intende perseguire. Condivido pienamente questa riflessione e infatti porteremo in Consiglio comunale, unitamente alla proposta di delibera che revoca l'approvazione del Piano, un documento d'indirizzo politico che non solo ci guiderà nel lavoro di valutazione delle osservazioni ma conterrà anche le indicazioni del percorso che l'amministrazione Pisapia intende perseguire. Il documento terrà conto del dibattito avvenuto prima e dopo la campagna elettorale, nonché di tutti i contributi di riflessione elaborati da diverse realtà della città, comprese le associazioni ambientaliste.

Questo documento avrà anche lo scopo di costituire la base per l'avvio di un confronto sul futuro della pianificazione della città, che sicuramente non potrà e non dovrà concludersi con il superamento delle maggiori criticità del Pgt a salvaguardia del territorio milanese. A cominciare, per esempio, dal Parco Agricolo Sud dove è necessaria un'attenta revisione degli indici connessi al sistema perequativo.

Stiamo operando, dunque, un intervento costretto da tempi imposti dalla normativa e dalla necessità di tenere in considerazione anche le esigenze degli operatori, in questo momento di congiuntura economica così delicata.

Cemento in riva al mare residence e campi da golf il sacco della Sardegna

di Antonio Cianciullo

ROMA - Legge salva coste abolita, vecchi piani di lottizzazione tirati fuori dai cassetti, 25 campi da golf per succhiare un’acqua che con il caos climatico diventerà sempre più preziosa. E, a chiudere in bellezza, un’altra colata di cemento che la giunta regionale si appresta ad approvare. È la cura del Pdl per una Sardegna che ha resistito all’epoca d’oro dell’urbanizzazione selvaggia e rischia di cadere ora, proprio in vista del traguardo di uno sviluppo economico dolce, capace di far leva sulla bellezza del paesaggio per creare un’onda lunga di occupazione e benessere.

L’allarme viene dalle associazione ambientaliste insorte di fronte a un sistema di deroghe che aumenta la possibilità di costruire nuova cubatura sulla fascia costiera. «L’attacco è cominciato con il piano casa del 2009, il biglietto da visita della giunta Cappellacci dopo una campagna elettorale che era stata direttamente sponsorizzata dal presidente del Consiglio», spiega Gaetano Benedetto, direttore delle politiche ambientali del Wwf. «Questo piano casa prevede ampliamenti con aumenti di volume dal 10 al 45 per cento ed elimina una serie di controlli: potrebbe portare all’apertura di circa 40 mila cantieri per opere anche entro la fascia dei 300 metri dal mare. È incredibile che una Regione dalle risorse infinite come la Sardegna immagini una crescita attraverso la strada predatoria del mattone anziché attraverso uno sviluppo armonico del suo territorio e della sua identità».

Il Pdl replica parlando di semplificazione delle procedure. In effetti le nuove procedure sono così semplici che, nel disegnare il progetto di riforma, è saltato anche il dialogo con i diretti interessati, gli amministratori locali. Invece di consultarli, la maggioranza di centrodestra ha deciso di affidarsi alla pubblicità, sostenuta dai fondi pubblici. Sui quotidiani sardi sono comparse due pagine a pagamento per sostenere la tesi che il Piano paesaggistico regionale voluto dalla vecchia giunta Soru contiene troppi vincoli, troppi divieti, mentre per rilanciare l’economia bisogna ricorrere al mattone.

«È un segno di irresponsabilità politica: dei soldi utilizzati in questo modo in un momento in cui la gente è affamata e disperata dovranno rendere conto», protesta Gian Valerio Sanna (Pd), padre del Piano paesaggistico regionale della giunta Soru. E sulle 90 pagine del nuovo Piano di deregulation si scatena la protesta dell’opposizione e degli ambientalisti, preoccupati che il complesso intrico di deroghe in discussione dia il via libera all’assalto delle campagne e faccia saltare i vincoli anche entro i 300 metri dalla costa.

«È particolarmente grave il progetto dei campi da golf», sottolinea Ermete Realacci, responsabile Pd per la green economy. «Non tanto per l’intervento, pur pesante, in termini di acqua e pesticidi, ma perché costituiscono la testa di ponte per una cementificazione selvaggia». Il meccanismo – spiega Vincenzo Tiana, presidente di Legambiente Sardegna – è semplicissimo: si crea un campo da golf sostenendo che è solo un prato verde, perché opporsi? e poi si costruisce un annesso villaggio turistico perché da qualche parte chi gioca a golf deve pure dormire.

«Con il pretesto di favorire l’occupazione si stravolgono le norme di tutela della Sardegna senza comprendere che, così facendo, si raggiunge un risultato opposto a quello dichiarato», ricorda Giulia Maria Mozzoni Crespi, presidente onorario del Fai. «Solo difendendo l’incalcolabile patrimonio dell’isola in termini di paesaggio, e della cultura che ha contribuito a disegnare nel corso dei secoli questo paesaggio, si potrà mettere a punto un’economia duratura e di ampio respiro, in grado di funzionare al di là della breve stagione turistica attuale».

L’ultimo assalto a colpi di spot

di Giovanni Valentini

CEMENTO libero, edilizia selvaggia. Non sarebbe certamente uno slogan di successo per una campagna promozionale o pubblicitaria sul turismo in Sardegna. E in realtà il nuovo Piano paesaggistico regionale minaccia di danneggiare, oltre all’ambiente, anche lo sviluppo e l’economia dell’isola. Bastano 90 pagine e 76 articoli per provocare un tale disastro?

Sì, purtroppo possono bastare. Non solo per le deroghe predisposte dalla giunta Cappellacci che di fatto smantellano i vincoli introdotti dal predecessore, Renato Soru, autorizzando così un assalto al territorio e in particolare alle coste. Ma ancor più per il metodo centralistico e autoritario con cui la Regione ha impostato il suo Piano, eliminando la procedura delle "intese" e quindi il confronto con le amministrazioni locali nella fase progettuale per sostituirlo con un bombardamento mediatico a colpi di pagine a pagamento sui giornali.

Più che eccessivi, i limiti fissati a suo tempo da Soru potevano risultare arbitrari e addirittura inefficaci: il divieto di costruire entro due chilometri dal litorale, nonostante le migliori intenzioni, rischiava di risultare - come qui abbiamo già scritto allora - troppo o anche troppo poco, a seconda dei casi, della conformazione della costa e delle sue caratteristiche. Ma adesso la possibilità di deroga addirittura all’interno della fascia finora superprotetta di trecento metri dalla battigia, a favore delle strutture ricettive esistenti, è senz’altro insufficiente per salvaguardare l’integrità del paesaggio, tanto più nei tratti di particolare pregio.

Non c’è dubbio che, per alimentare l’industria del turismo, occorre realizzare nuovi edifici e nuovi impianti, magari riqualificando prima il patrimonio recuperabile. E in questa prospettiva, gli alberghi, i porti e i campi da golf - contemplati nel Piano paesaggistico regionale - possono contribuire allo sviluppo locale, a condizione ovviamente che i rispettino la natura e l’ambiente. Altrimenti, con gli eco-mostri o con gli scempi edilizi, i turisti non arrivano o se ne scappano presto.

In una terra meravigliosa come la Sardegna, e in tutte le altre regioni meridionali privilegiate dal sole e dal clima, si può e si deve alimentare un turismo sostenibile, cioè compatibile con la tutela dell’eco-sistema, cercando di allungare la stagione al di là dei due o tre mesi estivi in modo da favorire l’occupazione nel settore alberghiero e in tutto l’indotto. E perciò servono gli alberghi, i porti e a maggior ragione possono servire gli impianti golfistici, in grado di richiamare anche in pieno inverno visitatori italiani e stranieri che diversamente vanno in Spagna, in Portogallo, in Marocco, in Tunisia o da qualche altra parte. Si tratta, però, di stabilire dove e come costruire questi alberghi, questi porti o questi campi, per ridurre al minimo e magari azzerare il loro impatto ambientale.

Quello che occorre, in Sardegna o altrove, è dunque un sano riformismo verde che rifugga dagli "opposti estremismi", tutto o niente, due chilometri o trecento metri e anche meno, per conciliare le esigenze dello sviluppo con le ragioni del territorio. A volte è proprio l’eco-radicalismo a provocare reazioni uguali e contrarie, offrendo involontariamente un alibi alle truppe delle ruspe e del cemento, agli speculatori, ai saccheggiatori del paesaggio. O perfino a chi impugna la bandiera ambientalista per difendere solo i propri interessi, le proprie tenute o residenze al mare o in campagna. È una specie di "effetto Nimby" alla rovescia, dove l’acronimo "not in my back yard" (non nel mio giardino o nel mio cortile) - coniato per descrivere l’atteggiamento comune contro le centrali nucleari - si può estendere e applicare al contrario a certi "signori dell’ambiente" che spesso predicano bene e razzolano male.

Postilla

Sulla strategia, mediatica e non, del clone sardo di Berlusconi, si vedano su eddyburg anche gli articoli di Antonietta Mazzette e, completo di spot pubblicitario allegato, di Sandro Roggio. La sortita di Cappellaci non è quindi una novità per i nostri lettori. Lo è invece la persistenza nell'errore di Valentini.

Giovanni Valentini, stimabile per i suoi interventi su altri argomenti, persiste infatti nel affermare falsità quando parla della Sardegna, e in particolare dal suo ex presidente Renato Soru e del piano paesaggistico regionale. Persiste a dire che è un errore grave il vincolo su 2000 metri di costa. Egli sostiene che «il divieto di costruire entro due chilometri dal litorale, nonostante le migliori intenzioni, rischiava di risultare - come qui abbiamo già scritto allora - troppo o anche troppo poco, a seconda dei casi, della conformazione della costa e delle sue caratteristiche». Dimentica, o finge di dimenticare, che il vincolo dei 2km era solo l'estensione temporanea del vincolo di 300 metri già imposto, provvidenzialmente, su tutte le coste italiane dalla legge Galasso. Un vincolo temporaneo, di 18 mesi, in attesa del piano paesaggistico. Il quale effettivamente e puntualmente arrivò, e dispose appunto un vincolo differenziato a seconda delle diverse caratteristiche dei diversi tratti della costa. La speranza è che Valentini faccia affermazioni non vere solo quando si parla della Sardegna di Soru, e non quando tratta gli altri argomenti. Ma sarebbe meglio se non lo facesse mai

L'Associazione Costruttori è tornata a protestare per la mancata conclusione della procedura del Pgt, sostenendo che — se il nuovo strumento urbanistico non diverrà presto operativo — «la città si ferma», mentre il settore delle costruzioni è già in crisi profonda. Per dare credibilità a tali affermazioni, sono state indicate le percentuali di decrescita degli investimenti dal 2010. Di tutte le motivazioni sulle origini della crisi mondiale e del suo pericoloso andamento (con i riflessi sulla realtà milanese), la tesi che essa potrebbe essere risolta costruendo più metri cubi è forse la più eccentrica. La prima obiezione è che — andando in giro per Milano — non c'è proprio l'aria di una città dove l'edilizia appaia in ristagno o abbandonata.

Basta guardare la zona Garibaldi–Repubblica o l'ex sede storica di Fiera Milano per vedere alcuni cantieri di dimensioni tali da meravigliare anche chi viene nella nostra città da altri paesi d'Europa; e ciò mentre ancora non è stato messo un mattone che riguardi Expo e tutto il suo estesissimo indotto. Si tratta fra l'altro, di iniziative approvate sulla base del Prg vigente o delle sue moltissime varianti; per cui ci si chiede perché mai Milano avrebbe bisogno di nuovi più permissivi strumenti urbanistici.

È del tutto evidente, del resto, che la prosperità del settore edilizio dipende dalla domanda e non da più estese deroghe alle regole di pianificazione, come si è visto dai modestissimi effetti dei vari «piani casa», e come avverrà in modo identico se verrà varato il piano che la Regione va preparando. Già in occasione del Pgt in itinere, l'Associazione della proprietà urbana aveva fra l'altro segnalato l'esistenza di un'enorme quantità di immobili offerti in affitto e in vendita senza trovare acquirenti (e i cartelli «vendesi» si stanno moltiplicando anche in questi giorni); per cui l'esistenza di questo amplissimo stock di immobili esistenti e privi di utilizzo dovrebbe ulteriormente far riflettere.

Di fronte alle accuse dei costruttori, il sindaco Pisapia e l'assessore all'Urbanistica hanno ricordato la necessità di un esame di tutte le osservazioni. Si tratta di un esame e non di un riesame, per cancellare la frettolosa liquidazione complessiva di tutti i contributi dei milanesi che — ricordiamo — ha mortificato la partecipazione dei cittadini alla costruzione del loro futuro, come se si trattasse di un noioso adempimento burocratico da ridurre ai minimi termini. L'esame analitico delle osservazioni è dunque un adempimento indispensabile per dare dignità a qualsiasi Pgt. Tuttavia sorge spontanea la domanda: come si possono esaminare le 4.700 osservazioni senza avere chiari i principi urbanistici che si intendono sostenere?

È evidente infatti che questo dibattito sulle scelte, sui caratteri e limiti dello sviluppo di Milano deve precedere il vaglio dei singoli contributi; in caso contrario non può essere di grande utilità e si limiterebbe a rettificare alcuni dettagli. Su questo aspetto, nessuna indicazione è ancora venuta dalla attuale Amministrazione, e ci auguriamo che sia invece colta al più presto la necessità di un ampio e prezioso dibattito sul futuro di Milano e del suo assetto territoriale.

*Presidente onorario FAI Fondo Ambiente Italiano

Nota: per chi se lo fosse perso, un breve riassunto delle puntate precedenti del Pgt di Milano, in questa nota di F. Bottini e MC. Gibelli, scritta prima della vittoria della maggioranza Pisapia e dei primi progetti di revisione (f.b.)

Tra un mese, su quel triangolo irregolare di sterpaglie aggrappato alla Fiera, entreranno le ruspe. Dovranno iniziare a sradicare tralicci elettrici, spianare strade, deviare torrenti: il viaggio verso il 2015 comincerà. Ma il milione di metri quadrati su cui sorgeranno i padiglioni di Expo è soltanto un pezzo. Un tassello, fondamentale, di un mosaico più vasto che comprende in tutto 31.500 ettari di territorio: è la corona disseminata su 16 comuni a nord ovest di Milano, già urbanizzata per il 60 per cento. È lì che bisogna andare a ricomporre un puzzle composto da 125 frammenti di terra simili a quelli dell´Esposizione: spazi ancora aperti, agricoli. Isole verdi che in tutto misurano ancora 11.600 ettari e che sono disperse in un mare di capannoni, case, strade, metropolitane, ponti e binari. Di più: rischiano di scomparire, proprio in nome del grande evento, accelerando un processo che negli ultimi anni ha già cancellato troppi spazi. È questa l´analisi e, insieme, l´allarme che lancia uno studio promosso dalla Fondazione Cariplo e condotto dal dipartimento di Architettura e pianificazione del Politecnico. Un messaggio chiaro: «Non toccate queste campagne, sono tutto ciò che ci resta».

È un viaggio attraverso il territorio che circonda il sito Expo, quello fatto dal Politecnico. Uno studio sul consumo di suolo, realizzato anche attraverso un lunghissimo reportage fotografico (diventerà una mostra aperta da domani fino al 9 ottobre alla Triennale, e un volume di Electa) per capire cosa sia successo attorno al futuro sito 2015. Ogni giorno in Lombardia si perdono quindici ettari di spazi agricoli aperti: in nove anni (dal ´99 al 2008) la superficie urbanizzata è cresciuta del 17 per cento, 48.942 ettari in più. Anche nella "corona nord-ovest" vicina ai terreni di Rho-Pero, secondo i ricercatori, in otto anni (dal 1999 al 2007) sono stati urbanizzati più di 1.000 ettari di spazi aperti. Ne rimangono, appunto, solo 12.700 ancora liberi. «E ci auguriamo - spiega Paolo Pileri, docente di Ingegneria del territorio del Politecnico che ha coordinato i lavori - che nel 2015 siano ancora tali». Il senso è chiaro: «Abbiamo già perso molte aree rurali attorno alla città. Dobbiamo essere consapevoli e fermarci in tempo» dice il presidente di Fondazione Cariplo, Giuseppe Guzzetti.

Pileri parte da una considerazione: «Gli spazi aperti sono un bene comune. Perché, proprio in nome di Expo, non pensiamo a un destino agricolo e verde per le aree limitrofe? Attorno ai grandi eventi si sprigionano grandi appetiti o grandi occasioni per correggere rotte che non hanno più senso, se non quello di ipotecare quote di futuro». La «paura» è quella. Anche Elena Jachia, direttore dell´area Ambiente della Fondazione Cariplo, la esplicita: «C´è il timore che Expo possa creare un effetto domino che metterebbe in gioco una grande quota di suolo. Rischiamo di veder nascere parcheggi, strutture ricettive, altri capannoni. E, invece, la riflessione che proponiamo agli amministratori è un´altra: guardiamo a quei frammenti come a una zona unitaria da valorizzare in altro modo, pensiamo a un´Expo diffusa».

Sui destini del post 2015 la ricerca non entra. Anche se Pileri si augura che anche il milione di metri quadrati rimanga il più possibile libero. In generale, secondo il professore, bisognerebbe «rivedere le politiche urbanistiche, perché i Comuni pensano solo ai loro confini perdendo la visione d´insieme»: un´urbanistica «miope e legata alle esigenze di bilancio». È attorno all´area di Expo che 12 ricercatori, impegnati per due anni, hanno fotografato e mappato l´esistente: sono quei 125 frammenti verdi, alcuni con orti o fontanili. Rarità, guardando i numeri. Perché il consumo di suolo, in questa zona, è stato forte. Mille ettari di verde perso che, in termini ambientali, si calcola corrispondano a 316.800 tonnellate di anidride carbonica in più. Tra i Comuni in cui questo processo è stato più forte c´è Rho, dove la superficie urbanizzata è cresciuta del 27 per cento in otto anni. L´altra faccia della medaglia, naturalmente, è quella dei suoli adatti all´agricoltura che se ne sono andati. In tutta la Regione (dal ‘99 al 2008) sono 39mila ettari; 905 (dal ´99 al 2007) nella "corona nord-ovest" presa in esame. Di questi, 83 erano «molto adatti alle coltivazioni». Le proposte in chiave 2015 ci sono: pensare a progetti per coltivare gli spazi liberi attorno a Expo, e a una mobilità "lenta" con percorsi che colleghino l´area di Rho-Pero a cascine, corsi d´acqua e Parco Sud.

La città sale di un piano ogni quindici giorni. In media. E presto l'atteso pennone che svetterà dal palazzone progettato da Cesar Pelli ci regalerà il grattacielo più alto d'Italia. Ma Manfredi Catella, ad di Hines (in testa al gruppo di investitori che nella riqualificazione di Porta Nuova ha scommesso due miliardi) scuote la testa: «Va bene il pennone, ma vogliamo parlare dei 130 appartamenti venduti dall'inizio del collocamento sul mercato?».

Perché il destino di Porta Nuova (almeno nelle intenzioni degli artefici della nuovissima «città che sale», il più grande intervento di riqualificazione mai realizzato nel centro di Milano) è segnato: entro il 2015, anno dell'Expo, sarà un quartiere perfettamente integrato, vissuto dalla città. Con i palazzi, il grande parco, le piste ciclabili e la piazza. Il pennone sul Cesar Pelli verrà apposto a fine ottobre (con una complessa operazione), mentre l'avveniristica piazza, grande come quella della Scala e con un'opera acustico-visiva dell'artista Alberto Garutti, sarà pronta nel 2012. I lavori dell'intero progetto termineranno nel 2013.

Ma, stando ai dati diffusi da Catella, i milanesi hanno già promosso il progetto residenziale: «Centotrenta appartamenti venduti ad oggi su un collocamento di centoquaranta, mentre nei test fatti a Corso Como la metà è stata assegnata in trenta giorni». Il collocamento ha riguardato il palazzone di Solaria e presto verrà immesso sul mercato un lotto misto, con Corso Como, Bosco Verticale e altre aree. Curiosità: gli appartamenti vengono scelti soprattutto da famiglie, che chiedono ampi spazi per bambini e ragazzi. E del verde, pensando al progetto del Bosco di Stefano Boeri.

Altro dato che sorprende: la maggior parte degli acquirenti si prepara a lasciare il centro storico. Per motivi di risparmio, certo, ma anche perché Porta Nuova sarà al centro di una fitta rete di infrastrutture e trasporti, non ultima la nuova linea della metropolitana. E poi c'è l'ambiziosissimo progetto del parco botanico, che andrà a dare un volto verde nuovo a quella che fino a due anni fa era un'area trascurata in città. Ma qui bocche cucite, perché la cosa riguarda il Comune, che ha già tanto a cui pensare.

I prezzi delle case? Vanno dai 7mila al metro quadro dell'Isola fino ai 10-15mila del Solaria. Ma molti stanno comprando casa lì quale investimento sicuro: «Nel secondo semestre del 2010 – conclude Catella – il valore delle case nella zona Brera-Garibaldi è aumentato del 5,9 per cento».

Il cemento avanza. In tutta la regione. E non di poco, non con lentezza: cresce del dieci per cento. Il confronto va fatto con la Lombardia del '54 (sei milioni e mezzo di persone, tre in meno rispetto a oggi): l'anno del primo «elaboratore elettronico» al Politecnico. Allora i terreni agricoli erano il 56% del totale e siamo scesi al 44%. È soprattutto tra il 1980 e il '99 che la Lombardia ha visto le aree antropizzate salire da 194 mila a 301 mila ettari, mentre le aree agricole sono scese da un milione 260 mila ettari a un milione e 43 mila.

Come eravamo e come siamo. Con la domanda conseguente: come saremo? Da una parte la Lombardia del 1954: sei milioni e mezzo di persone, tre in meno rispetto ad oggi. E' l'anno del primo «elaboratore elettronico» installato al Politecnico; a Milano gli abitanti sono 1,3 milioni (dopo il picco del 1971, siamo ritornati a quella quota) e c'è il sindaco Virgilio Ferrari, socialdemocratico, mentre Brescia (150 mila abitanti contro i 195 mila di oggi) è guidata (e lo sarà fino al 1975) da uno dei padri della Dc, Bruno Boni.

A gennaio dalla sede Rai lombarda la neonata televisione ha trasmesso il suo primo telegiornale; in agosto muore il cardinale Schuster e, alla guida della diocesi milanese, gli succede il bresciano Giovani Battista Montini. E' una Lombardia che già corre verso il boom, con le grandi industrie (è proprio questo l'anno in cui Sesto San Giovanni viene insignita del titolo di città) e i nuovi quartieri popolari, ma che ancora ha tanta parte di sé in migliaia di cascine della grande pianura come nei campi, nelle vigne e negli alpeggi della sua parte nord, quella montuosa. Dall'altra parte la Lombardia di questi anni: l'unico numero che non cambia è la superficie complessiva, 2 milioni e 400 mila ettari.

Allora i terreni agricoli erano il 56% del totale; siamo scesi al 44% nel 2007, data degli ultimi rilievi disponibili dell'Ersaf, l'ente regionale per lo sviluppo dell'agricoltura e delle foreste che da una decina d'anni «fotografa» il territorio e i suoi cambiamenti anche attraverso rilievi satellitari. Per contro, il territorio antropizzato è passato dal 4 al 14% del totale: un dato, quest'ultimo, che mette la Lombardia (eppure rimane la prima regione agricola del paese) bel al di sopra della media nazionale, che ferma al 7,1 la percentuale di territorio occupato da case, strade, ferrovie, altre infrastrutture. Avanzano i boschi, e anche questa — con l'agricoltura di montagna ridotta al lumicino e i pascoli in quota abbandonati — non è una novità: erano il 37% del territorio, sono arrivati al 39.

«L'uso del suolo in Lombardia negli ultimi 50 anni» è il volume che Regione Lombardia ed Ersaf presenteranno con un convegno in programma per il prossimo giovedì 29 settembre nell'auditorium Giorgio Gaber di Milano. Una giornata — con l'Expo 2015 sullo sfondo — dedicata all'analisi e al commento di dati (e delle immagini che da questi numeri è possibile elaborare) che raccontano la storia del territorio ma anche della gente che lo abita. «Dodici ettari al giorno è attualmente il consumo di territorio: dobbiamo pensare a conservare e tutelare, ad uno sviluppo che sia produttivo ma consumi meno» dice Alessandro Colucci, assessore ai Sistemi Verdi, in prima linea su questo tema come i colleghi Daniele Belotti (Territorio e Urbanistica) e Giulio De Capitani (Agricoltura).

Difende, Colucci, la «sua» legge sui parchi (700 mila ettari) passata fine luglio dopo tante polemiche: «Abbiamo coinvolto anche l'ente parco nell'eventuale modifica dei confini rinviando ad un nuovo progetto di legge una definizione migliore della materia». E' soprattutto nei due decenni tra il 1980 e il 1999 che la Lombardia ha visto crescere il cemento, con le aree antropizzate salite da 194 mila a 301 mila ettari, mentre le aree agricole scendevano da 1 milione 260 mila ettari a 1 milione e 86 mila. In media, nei 25 anni dal '55 all'80 sono stati «antropizzati» 3.759 ettari ogni 12 mesi: ma nei due decenni successivi si è passati a 5.663.

PostillaI dati sono allarmanti. Ma nell'articolo si fa la consueta confusione tra due fenomeni molto diversi sebbene ugualmente preoccupanti. Altro è la riduzione della superficie agricola censita come tale sulla base delle statistiche delle aziende agricole, altro è il consumo di suolo dovuto alla sua laterizzazione (grattacieli ville villette e casermoni, cemento, ghiaia, piazzali, strade ecc. ecc.). Della riduzione del suolo agricolo fanno parte la rinaturalizzazione (nuovi boschi, liberazione di aree fuviali, terreni incolti ecc.). Su eddyburg abbiamo ripetuto più volte questa precisazione, che ci sembra diverosa, ma non tutti ci ascoltano.

Cento chilometri di nuove piste ciclabili. Progetto impegnativo, rischio che resti solo una speranza. Realizzabile?

«Una città che vuole una svolta per la mobilità sulle bici non può misurarsi solo sui chilometri di piste ciclabili».

E a cosa dovrebbe puntare, assessore?

«Alla visione complessiva e alla capacità di rendere la città nel complesso più vivibile».

È un intento lodevole, ma un po' generico...

«Significa lavorare per rendere più sicure le corsie più usati; aumentare i percorsi nelle zone più delicate, come intorno alle scuole; unire pezzi e tronconi di piste che oggi sono isolati. Questi obiettivi non sono affatto generici. Dobbiamo consentire alla bici di muoversi nel complesso con più sicurezza».

Pierfrancesco Maran è l'assessore all'Ambiente e alla Mobilità. Dai suoi uffici passa buona parte della credibilità che la giunta Pisapia riuscirà a guadagnare: nuovo Ecopass, politiche per i mezzi pubblici, riduzione di traffico e smog, realizzazione dei progetti votati con i referendum sull'ambiente. Scadenze ravvicinate e necessità di dare una risposta. Anche (e soprattutto) ai milanesi più «eco», quelli che si spostano in bicicletta.

Quali sono i primi passi concreti?

«Accanto alla visione d'insieme, bisogna muoversi per risolvere anche problemi più semplici: nella manutenzione delle strade, ad esempio, stiamo dando indicazione per accelerare la rimozione di molti ostacoli vicini ai percorsi per le bici, come pali e segnaletica inutile».

Cosa chiedono i ciclisti milanesi?

«Abbiamo ad esempio aperto il bando per l'acquisto delle nuove rastrelliere, quelle a cui si può legare anche il telaio per contrastare i furti».

Rimuovere i pali inutili e installare le rastrelliere, d'accordo. Ma basteranno ad aumentare gli spostamenti su pedali in città?

«Questi interventi servono se collegati a un impegno più ampio. Stiamo scrivendo una lettera al ministero dei Trasporti, perché il codice della strada è molto rigido sulla ciclabilità e invece per dare una svolta Milano ha bisogno di elasticità e sperimentazione».

Cosa chiedete?

«Per prima cosa la "fermata anticipata" (è una norma applicata in Francia, dove le macchine si fermano a distanza di 3 metri dal semaforo assicurando alle bici di attraversare gli incroci senza rischi, ndr), un meccanismo fondamentale per la sicurezza. Altrimenti le nostre piste avranno sempre problemi agli incroci. Stesso discorso per le corsie per le bici a doppio senso e per la possibilità di colorare l'asfalto sulle carreggiate stradali».

Per i cento nuovi chilometri di piste serviranno 30 milioni di euro. Sarà uno dei capitoli di spesa per gli incassi del nuovo Ecopass?

«La priorità per gli investimenti sono i mezzi pubblici. Di certo le nostre azioni saranno anche a misura di bicicletta».

Ci sono 75 chilometri di nuove piste e corsie ciclabili da realizzare, si tratta di interventi già finanziati, o «appaltati» ai costruttori dei grandi progetti urbanistici, come Porta Nuova o Citylife. E fin qui siamo all'eredità morattiana, che la giunta Pisapia porterà comunque avanti. A Palazzo Marino è stato però già messo a punto il rilancio: è racchiuso in decine di grafici e cartine che compongono il «Piano per la mobilità ciclistica 2011-2016». Un progetto vitale per l'amministrazione «arancione», che dovrà presto dimostrare di essere vicina ai milanesi che scelgono la bicicletta per spostarsi.

Ecco i dettagli del piano, elaborato da qualche settimana: 95-100 nuovi chilometri di percorsi per i ciclisti. Con una scaletta molto dettagliata di priorità (si parte dall'itinerario Castello-Duomo-Monforte, già finanziato dalla vecchia amministrazione) e nuovi criteri per favorire la mobilità delle bici verso luoghi di lavoro e scuole.

La stima dei costi, come sempre in questo periodo, rappresenta il punto critico: serviranno poco più di 30 milioni da qui al 2016. Significa circa 6 milioni l'anno. E probabilmente sarà quello della mobilità ciclistica uno dei primi capitoli di spesa da quando il nuovo Ecopass (per il quale si stima un incasso di 30-35 milioni l'anno) comincerà a portare nelle casse comunali nuove risorse da investire.

Oggi i chilometri di piste/corsie ciclabili sono 135 (110 su strada, il resto nei parchi). La giunta Moratti ha allestito un piano di aumento da 75 chilometri, che dovrebbe procedere senza intoppi; bisogna andare avanti rispettando i tempi per non perdere i finanziamenti già ottenuti. La giunta Pisapia punta però a un piano ancora più ambizioso, che preveda quasi altri cento chilometri, organizzati su «raggi» e «anelli» che potrebbero essere distinti anche per colore (verde, rosso, azzurro) e arrivare a tessere una vera rete rispetto agli «spezzoni» di oggi. «Se non si abbandona la logica delle piste con infrastrutture "pesanti" — spiega Eugenio Galli, di Ciclobby — si rischia di perdere risorse e ottenere pochi risultati.

Il punto chiave sono gli interventi low costsulla segnaletica, le corsie, la moderazione della velocità. La nuova giunta sembra molto attenta, ma ci aspettiamo interventi già dai prossimi mesi». Per comprendere il discorso di Ciclobby, bisogna considerare che una corsia su marciapiede costa 20 mila euro al chilometro, mentre una pista ciclabile ricavata su una carreggiata può arrivare a 3-400 mila euro.

Nell'ambito degli interventi che abbiano «bassissimo costo e massima resa», il verde Enrico Fedrighini sta studiando il progetto di trasformare le fermate del metrò «in nodi di scambio bicicletta/mezzi pubblici». C'è un dato fondamentale: dentro i Bastioni, il 70 per cento degli spostamenti avviene su mezzi pubblici; percentuale che scende al 40 per cento nella fascia più esterna di Milano e crolla al 25 in periferia.

«L'uso dei mezzi perde attrattiva man mano che si dirada la rete — spiega Fedrighini —: per questo bisognerebbe incentivare chi abita entro i due chilometri da una fermata del metrò o del Passante a usare la bicicletta per questo primo spostamento verso il metrò invece che prendere l'auto per tutto il percorso». Servono rastrelliere e posteggi per le bici: «Con costi davvero minimi e tempi rapidissimi — conclude Fedrighini — si potrebbero allestire 50 mila parcheggi per le bici intorno alle fermate e moltiplicare gli utenti dei mezzi pubblici».

postilla

L’aspetto più incoraggiante che emerge dai pochi spunti concreti dell’articolo è l’impianto tendenzialmente trasversale del ragionamento sotteso: la sola citazione dei progettoni pubblico-privati con destinazione funzionale terziaria che in qualche modo dovremo sorbirci in futuro già dice qualcosa. Come dice qualcos’altro la sottolineatura sugli interventi leggeri, ovvero non stiamo parlando di un programma di opere, ma di un’idea di mobilità attraverso le funzioni urbane.

In definitiva, non è affatto vero che si tratta di una eredità della giunta Moratti: la cifra di quei progetti era il caratterizzarsi appunto da un lato come puri interventi di trasformazione, dall’altro l’episodicità di queste trasformazioni, solo ideologicamente connesse a rete nella e con la città.

Resta da chiarire però il vero obiettivo, solo accennato, di uscire dalla benintenzionata logica Ciclo-Lobby (che può servire come ariete di sfondamento senz’altro, ma in sé non porta da nessuna parte), sovrapponendo almeno tre elementi: la dimensione cittadina, ovvero estesa a tutto il territorio comunale e in certi casi anche oltre; una buona intermodalità dolce ovvero tendenzialmente percorsi lunghi passando dal mezzo pubblico alla bici alla pedonalità, con un minimo di attrezzature sia hard che soft , che vadano oltre le pur indispensabili rastrelliere; almeno una riflessione sulle polarità funzionali da privilegiare, magari partendo da una struttura pubblica già esistente come quella delle scuole, aree oggi maledette dal traffico in orari anacronisticamente “fordisti”, con ripercussioni su tutta la mobilità (f.b.)

I cinque scenari per la modifica di Ecopass, proposti ieri per passare alla fase di consultazione e a quella delle decisioni, gettano nello sconforto, improntati come sono da un'evidente mancanza di indirizzo. Occorre tornare alla lezione di sano riformismo cui sono improntati i principi espressi dal sindaco Pisapia quando parla di una congestion charge come di «un provvedimento equo, efficace, trasparente e di facile comprensione».

Rispetto all'equità, se, come dichiarato, non si vuole «fare cassa», può dirsi che estendendo il pagamento a tutti i veicoli in ingresso nell'area dei Bastioni, si può avere il coraggio di tariffe poco elevate, comunque dissuasive, da non modulare, semplicisticamente, con gli aumentati costi tariffari del trasporto pubblico.

Un pagamento generalizzato per le autovetture e i veicoli commerciali leggeri, anche di 2,5 euro, garantisce comunque efficacia in quanto gli effetti sul traffico, calcolati da Amat nel marzo 2011, portano ad una riduzione del 36 per cento, con l'ingresso ai Bastioni di 83.000 veicoli contro i 130.600 del novembre 2007; con un ticket di 5 euro esteso ai mezzi commerciali pesanti si avrebbe un'ulteriore riduzione dei 16.500, registrati nel novembre 2010, portandoli a 15.600. Esentati dal ticket i veicoli elettrici, gli ibridi, i veicoli alimentati a Gpl e metano si escluderebbero dall'ingresso i veicoli maggiormente inquinanti, sulla base di quelli già individuati dalla Regione Lombardia per il periodo invernale.

Questa riduzione del traffico è sufficiente ad avviare progetti capaci di dare nuova qualità urbana all'intero centro storico, necessari alla città tutta, oltreché a rappresentare la «magnificenza civile» di Milano alla scadenza del 2015. Contraddetta da ogni ipotesi di modulazione stagionale sarebbe l'efficacia anticongestione del provvedimento, e trascurabili miglioramenti, a fronte di una certa confusione, si avrebbe con l'introduzione di fasce orarie che differenzino il pagamento, in quanto gli ingressi nell'area Ecopass sono soprattutto dovuti a mobilità occasionale: l'88 per cento dei veicoli accede all'area Ecopass meno di due volte al mese, mentre i pendolari in ingresso, che entrerebbero nella fascia oraria 7.30-11.00, utilizzano in via quasi esclusiva il mezzo pubblico o le due ruote, bici e soprattutto moto. Per garantire una «facile comprensione» occorre dunque una radicale semplificazione tariffaria.

Certamente, non si dà semplificazione con una tariffa unica, controbilanciando l'iniquità con la riserva di «sconti» sul trattamento per i commercianti. Occorre, viceversa, una semplice articolazione della tariffa di ingresso prevedendo due sole classi: la prima con autovetture, veicoli commerciali leggeri e autovetture, i mezzi di servizio e di lavoro, la seconda con veicoli commerciali pesanti e autobus turistici con oltre 9 posti. Un indirizzo di «trasparenza» potrebbe configurarsi nell'istituzione di un Fondo comunale dei trasporti, che renda conto di come gli introiti da congestion charge e da park pricing vengono «restituiti» alla città in investimenti per mezzi pubblici e nuova qualità del servizio per Milano e per la sua area metropolitana.

É tutto un po' più chiaro dopo lo spot del pubblicitario ingaggiato da Cappellacci. Il percorso avviato con il titolo “Sardegna nuove idee” arriva all'atto ultimo o penultimo della commedia del berlusconismo esportato in periferia. La stessa mistificazione: atti di governo giusti e buoni per tutti e invece convenienti per pochi o per uno solo. Così le “nuove idee” per il governo del territorio, indicate come la panacea dei nostri mali, servono in realtà a rendere più agevole la manomissione dei nostri paesaggi.

Si veda nel sito della Regione il polverone di pagine, con spezzoni di concetti condivisibili, richiami alle pratiche di governance, prove di partecipazioni guidate, eccetera. Ma con quel rimando forte e chiaro alle vecchie idee per cui si annullano le premesse: il piano-casa1 (artt. 12 e 13 legge 4/09), rilanciato con il temerario piano-casa2 (e infatti bocciato dai franchi tiratori nel 2010), e ora il piano-casa3, e immaginiamo una quarta versione.

Aspettavamo che parlasse uno studioso più o meno autorevole, per spiegare la necessità delle manovre attorno al Ppr. Ma di conclusioni scientifiche di consulenti-esperti neppure l'ombra, meglio la pubblicità gratuita (nel senso che la paghiamo noi: comunque la pensiamo).

Neppure un accenno al contenuto delle regole in costruzione. Solo il lirismo appiccicoso pensato per consumatori sprovveduti: occorre persuadere che il governo regionale lavora per liberare tutti i sardi dal maleficio del Ppr, dai vincoli che hanno reso la loro vita un inferno, e dove la prosa prende il posto della poesia la Sardegna sembra la Striscia di Gaza (“oltre un milione e trecentomila sardi vive sotto un vincolo paesaggistico !”). Ecco il dramma del popolo sardo. Non sono le facce stanche e tristi dei cassintegrati e dei pastori in lotta a turbare il sonno di Cappellacci, ma le limitazioni subite dai palazzinari ai quali soprattutto si rivolge il sedicente messaggio istituzionale. Per conquistare il consenso, anzi l'applauso per "il gusto pieno della vita” che ci verrà restituito, basta la promessa: un pezzo di terra/una casa (per evitare che i divieti si traducano in giustificati abusi edilizi).

Ti faccio immaginare che farai come ti pare sapendo che non sarà possibile accontentare tutti, pure quelli che – visto che ci siamo – vorrebbero farsi la casa in 500 mq nella campagnetta frazionata di nonno. Così la civile ma impopolare previsione del Ppr si trasforma in temporaneo consenso.

Lo stesso messaggio che da Palazzo Chigi si manda agli insofferenti verso ogni regola. Il trionfo di un' idea regressiva della democrazia che applicata al governo del territorio lascia segni per sempre: e nella scia delle casette le grandi speculazioni in attesa.

Capiremo presto il senso di questa improvvisa accelerazione. Vedremo la deregolazione urbanistica in tre mosse, forse quattro. Nuovo piano-casa, legge sul golf, e un colpo al Ppr: basta depotenziarlo in tre o quattro punti, per non contraddire i nuovi provvedimenti. Non è difficile capire che una legge ordinaria non può modificare le disposizioni di uno strumento convalidato dallo Stato per via del Codice dei beni culturali. E quindi avanti alla rinfusa, temo: approderanno a qualcosa che creerà scompiglio e contenzioso, un cortocircuito di cui qualcuno saprà approfittare. C'è solo da sperare che si facciano sentire gli elettori della destra: molti di loro sanno che la tutela della bellezza del Paese non è una ideologia di parte ma un punto fermo in Europa. Un impegno che viene da lontano, troppo disatteso in Italia, ma che comincia, appunto, con Croce e Bottai.

Nota: sul medesimo argmento si veda qui anche l'articolo di Antonietta Mazzette

Di seguito, riproponiamo l’inserzione a pagamento pubblicata a cura della Regione Autonoma Sardegna su due pagine, nei quotidiani L' Unione Sarda e La Nuova Sardegna di domenica 11 settembre 2011



Domande e risposte

Domanda: ma è vero che vogliono cancellare il PPR per fare in modo che si torni all'assalto delle coste e alla distruzione del nostro patrimonio paesaggistico? Risposta: qualche volta le domande più semplici nascondono le paure più grandi. Queste paure sono alimentate da notizie imprecisi, da pregiudizi o da poca informazione. Ma non c'è niente di più semplice che raccontare le cose come stanno. Per poterle verificare e capire che chi vive di paure non è libero. Il paesaggio è di tutti noi, ancora di più è in tutti noi. E' nel nostro cuore, nel nostro modo di essere. Nelle vacanze al mare da bambini, nel bosco delle nostre gite, nella vigna di nonno all'imbrunire, nei campi gialli dell'afa estiva, nelle chiese della domenica mattina vestite di nebbia, nei vicoli stretti dietro casa di paese, nella vista che ti sembra di essere in una cartolina se non fosse per il maestrale che ti lascia senza fiato.

La Sardegna è il suo paesaggio, come ciascuno di noi è il suo volto, con gli occhi grandi e il naso storto, i capelli scuri e la pelle olivastra. Il paesaggio è identità. In questi anni si è fatto molto perché ce ne rendessimo conto. Indietro non si torna. Ma si deve andare avanti. Oggi le regole fatte per il paesaggio lo hanno intrappolato in una fotografia destinata a sbiadire. Perché non possiamo bloccare l'evoluzione della vita, e con essa l'evoluzione del paesaggio. Ma vivere, ed evolvere, con le regole attuali non è possibile. Oggi oltre un milione e trecentomila sardi vive sotto un vincolo paesaggistico.

La stragrande maggioranza di questi (e siamo noi) neanche lo sa. Ce ne accorgiamo quando magari dobbiamo cambiare gli infissi della nostra casa, o rifare il tetto con tegole fotovoltaiche per risparmiare qualche euro salvaguardando l'ambiente, o quando pensiamo di chiudere una veranda perché in cameretta i ragazzi non ci stanno più. Ce ne accorgiamo quando per trovare una bottiglia di acqua fresca sotto l'ombrellone dobbiamo tornare a prendere la macchina e cercare un bar da qualche parte, ma non so dove. Ce ne accorgiamo quando leggiamo che i turisti non vengono più in Sardegna perché preferiscono gli alberghi con i servizi adeguati in Croazia piuttosto che in Marocco. Ce ne accorgiamo quando i nostri figli stanno ancora a casa perché non ne possono avere una per loro, perché un bivano costa trent'anni di un lavoro che non c'è e il valore di una nuova casa sale anche se nessuno la compra, perché tanto sarà sempre più difficile costruirne altre.

Ce ne accorgiamo quando vediamo in tv le immagini delle villette sequestrate perché totalmente abusive, perché quando tutto è vietato e non c'è nessuna direzione verso cui andare, prima o poi qualcuno sfonda il recinto. Le regole di oggi vietano e bloccano. Ma allora non sono regole: sono divieti e blocchi. Vogliamo avere invece un insieme di regole efficaci e chiare, conosciute e condivise, che siamo una via per lo sviluppo e una speranza per il futuro. Ciò che vogliamo tutelare è il paesaggio, non le leggi sul paesaggio. Tutelare non è vincolare, come educare non è inibire. Vogliamo che i nostri figli e i loro figli e ancora dopo i figli dei loro figli nascano, crescano, conoscano e portino dentro di sé quella Sardegna che noi abbiamo conosciuto, libera e forte nel suo aspetto come nel suo cuore, che sa difendere la sua bellezza ma che rimane vitale e capace di aprirsi al mondo senza perdere la sua identità e la sua storia. Vogliamo essere al passo con il nostro tempo, ma proiettati nel futuro, non girati a rimpiangere il passato mentre cerchiamo di fermare il tempo.

Vogliamo sapere prima di fare le nostre scelte quali sono i modi e i tempi per realizzarle, senza dover sottostare all'incertezza di una burocrazia fatta di sabbie mobili e della politica delle intese fatte per simpatia o tornaconto. Per qusto abbiamo riscritto alcune regole, più semplici da leggere e da applicare, per questo abbiamo messo a disposizione strumenti moderni per far conoscere a tutti cosa sia da tutelare e cosa da vincolare, cosa da salvaguardare e cosa da trasformare. Il PPR è nato pensando che la Sardegna fosse una terra che doveva essere difesa dal popolo che la abita; lo abbiamo voluto riscrivere perché invece crediamo che sia quel popolo, tutto il popolo sardo, di qualunque colore sociale e politico, che voglia difendere la terra in cui vive per affidarla ai figli più bella e più forte.

Le insuperabili epistole di Totò alla malafemmina (“Siamo noi con questa mia a dirvi”, “chiudi la parente”) e di Benigni e Troisi a Savonarola? Superate. Perché nella lettera che il governatore della Sardegna Ugo Cappellacci sta pubblicando un giorno sì e l’altro pure sul quotidiano l’Unione Sarda, la realtà vince su qualsiasi ispirazione cinematografica. Due pagine piene pagate con i soldi pubblici per spiegare ai cittadini che il piano paesaggistico regionale va cambiato e che è già pronto il nuovo. È un suo vecchio cruccio fin dai tempi della campagna elettorale: in Sardegna divieti di qua, divieti di là, non si vive, e soprattutto, non si costruisce più. E allora eccola, la sua disamina. Cappellacci inizia bucolico: “Il paesaggio è di tutti noi, ancora di più è in tutti noi”, come dimenticare “la vigna di nonno all’imbrunire”, che “lascia senza fiato”, in un nostalgico tensivo. Però. C’è il però.

“Non possiamo bloccare l’evoluzione della vita. E con essa l’evoluzione del paesaggio”, scrive il Cappellacci darwiniano. “Ma vivere, ed evolvere, con le regole attuali non è possibile”. La maggior parte di queste regole, puntualizza, i sardi neanche le conoscono. “Ce ne accorgiamo – scrive accorato – quando pensiamo di chiudere una veranda perché in cameretta i ragazzi non ci stanno più”. E che nessuno insinui che il governatore vuole fare solo gli affari degli immobiliaristi che premono sulla costa, che vuole svendere ai privati uno dei pochi patrimoni naturali che sono rimasti. Che Cappellacci ambientalista è: “Ce ne accorgiamo quando dobbiamo rifare il tetto con tegole fotovoltaiche per risparmiare qualche euro salvaguardando l’ambiente”. Sembra di vederlo, Cappellacci, seduto alla scrivania, penna in mano, mentre pensa: “Che faccio, ce la metto la storia della bottiglietta d’acqua? Secondo me funziona”. E via: “Ce ne accorgiamo quando per trovare una bottiglia di acqua fresca sotto l’ombrellone dobbiamo tornare a prendere la macchina e cercare un bar da qualche parte ma non so dove”.

Non si capacita proprio come sia possibile non avere uno stabilimento ogni metro di costa, che la spiaggia incontaminata sarà pure bella, però vuoi mettere Rimini. “Ce ne accorgiamo – prosegue – quando leggiamo che i turisti non vengono più in Sardegna perché preferiscono gli alberghi con i servizi adeguati in Croazia piuttosto che in Marocco”. E poi, senza dimenticare ovviamente le case sarde che costano trent’anni di lavoro perché non se ne possono costruire di nuove, il climax: “Ce ne accorgiamo quando vediamo in tivù le immagini delle villette sequestrate perché totalmente abusive, perché quando tutto è vietato e non c’è nessuna direzione verso cui andare, prima o poi qualcuno sfonda il recinto”. Ha scritto proprio così: “Totalmente abusive”, e “uno prima o poi sfonda il recinto”. Come a dire: con queste leggi è normale che uno sia portato a delinquere, perché “le regole di oggi vietano e bloccano. Ma allora non sono regole: sono divieti e blocchi”.

Ora mezza Sardegna si sta chiedendo chi abbia scritto la lettera, se sia totalmente farina del suo sacco o se abbia assoldato un consulente, e quale delle due sia l’ipotesi peggiore, e questo è il lato comico. Se non fosse che la storia è serissima: “Dietro ci sono affari miliardari, interessi di immobiliaristi che hanno già l’ombra delle mani sulla costa e sul paesaggio e che non aspettano altro che il pronti via”, tuona Maria Paola Morittu di Italia Nostra. “Quanto è costata la lettera?”, si agitano le opposizioni, come se il problema fosse solo questo. Più lucido Gian Valerio Sanna, del Pd: “La lettera contiene un’apologia di reato. Ma la modifica del PPR era una promessa che lui deve ai suoi grandi elettori immobiliaristi e che in un anno e mezzo non era riuscito a fare”. Le due pagine portano in basso un inquietante “numero 1”. Per la serie: to be continued.

Nota: il testo integrale dello spot a carico del contribuente l'abbiamo allegato al commento di Sandro Roggio (f.b.)

DOLO (VENEZIA) - Adesso si chiama Veneto Green City. Sarà la megalopoli del commercio tra Padova e Venezia. Oltre 715 mila metri quadri di uffici, negozi, bar, ristoranti e alberghi spalmati in quel che resta della Riviera del Brenta. Un'operazione immobiliare da 2 miliardi di euro, cantierata dal re del "ciclo integrato" dell'immobiliarismo e dal banchiere di fiducia dei "giri giusti", con il placet degli enti locali.

«Una valida alternativa alla caotica distribuzione di capannoni» secondo i progettisti. L'ennesima applicazione del «sistema» che permette agli "imprenditori" di incassare milioni senza rischiare un centesimo devastando il territorio. Lo ribadiscono i 12 mila cittadini che hanno firmato l'appello al referendum dei Cat, i comitati ambiente territorio a cavallo fra le province di Venezia e Padova.

Antonio Draghi denuncia l'accordo di programma siglato il 29 giugno tra i privati e i Comuni di Dolo e Pianiga: «Il mostro di Veneto City è una speculazione edilizia di dimensioni gigantesche. Probabilmente la più grande d'Italia. È fondata sulla massima esaltazione della rendita fondiara. In estrema sintesi: si cambia la destinazione d'uso di un'area di 2,5 milioni di metri quadri da agricola a edificabile. Zero rischio di impresa. Basta l'indice urbanistico ad ottenere i crediti in banca. E così, società con appena 10-30 mila euro di capitale ottengono la complicità dei Comuni che mirano a incassare qualche centinaia di milioni in oneri di urbanizzazione. Ma dov'è la pubblica utilità? L'accordo di programma parla di urgenza e indifferibilità per questo progetto assurdo. In cosa consistono, se non nell'interesse dei privati?».

Alla festa di Ferragosto organizzata dalla coop La Ragnatela a Scaltenigo, i Cat hanno preannunciato un "autunno caldo" per l'ingegner Luigi Endrizzi e il suo "spallone finanziario" Rinaldo Panzarini. Sono rispettivamente presidente e direttore di Veneto City Spa, società che ha concepito l'operazione fin dal 2001 (insieme agli altri membri del CdA Giuseppe Stefanel, Fabio Biasuzzi e ad altri investitori minori come Olindo Andrighetti). Endrizzi ha già trasformato il quadrante di Padova Est in un concentrato di ipermercati intorno alla filiale Ikea. Panzarini, invece, vanta un solido curriculum ai vertici degli istituti di credito non solo nella regione. Già direttore della Popolare di Lecco, vicedirettore centrale della Deutsche Bank e direttore di Cariveneto, è anche l'amministratore delegato di Est Capital, società di gestione del risparmio che sta cambiando la skyline del Lido di Venezia.

«Veneto City è figlia del Passante di Mestre, definito da Paolo Feltrin la nuova cinta muraria della megalopoli veneta. I primi 400 mila metri quadri di terreno sono stati acquisiti da Endrizzi nel 1998. Un anno dopo il Comune di Dolo prevedeva capannoni alti tre piani. La Provincia di Venezia, all'epoca governata dal centrosinistra con Davide Zoggia presidente, non ha battuto ciglio. Finché con il Piano territoriale regionale di coordinamento è arrivato il via libera all'operazione. Secondo il dirigente Silvano Vernizzi, non occorre nemmeno la valutazione ambientale strategica. E fioccano gli accordi di programma con Dolo e Pianga, amministrati rispettivamente da una giunta Pdl-Lega e da una coalizione civica ispirata dal Pdl» ricorda Adone Doni dei Cat.

La battaglia popolare, scattata fin dal 2007, è culminata nella scorsa primavera in una grande manifestazione con migliaia di persone in piazza. I comitati hanno depositato 10.500 osservazioni all'accordo, in modo da intasare gli uffici tecnici di due municipi. Ostruzionismo utile a far "grippare" il motore, tutt'altro che green, di Veneto City sul versante amministrativo. Intanto, comincia a pesare la volontà popolare che pretende una consultazione popolare: come per l'acqua e il nucleare, sono in gioco i beni comuni di ambiente e territorio. L'efficientissimo staff di "consulenti" arruolato dai comitati sta limando anche una raffica di ricorsi legali, mentre sul fronte dell'informazione si prepara una vera e propria offensiva mediatica.

Sulla carta, gli escavatori di Endrizzi e Panzarini dovrebbero costruire le fondamenta entro il 2012. Il cantiere, salvo intoppi, durerà dagli 8 ai 10 anni. Dal punto di vista amministrativo l'iter è più che avviato: con la pubblicazione dell'accordo scatteranno i termini regolamentari per la presentazione di osservazioni e controdeduzioni. Poi sarà la volta dei Piani urbanistici attuativi, ovvero del semaforo verde definitivo.

Per i Comuni l'affare si traduce in 1,8 milioni di euro (Dolo) e 1,2 milioni (Pianiga) sotto forma di opere di compensazione tutt'altro che definite. Si aggiungono ai 50 milioni di euro «pronto cassa» incamerati dai permessi di costruzione, e alla promessa di 7 mila posti di lavoro da parte dei costruttori. «Un progetto decisivo per il Veneto» sintetizza l'ingegner Endrizzi. «Innovativo a livello nazionale, perché risolve il rischio idraulico di tutta la zona, riqualifica l'area e sistema la viabilità» aggiunge il socio Panzarini. Visione ampiamente condivisa dalla sindaca leghista di Dolo, Maddalena Gottardo, e dal primo cittadino di Pianiga Massimo Calzavara del Pdl. «L'alternativa sarebbero stati i capannoni previsti dal piano regolatore di dieci anni fa. Sono serena: ho scelto il male minore» spiega la sindaca.

Il più ottimista è l'architetto Mario Cucinella che ha firmato (con Studio Land) la "città diffusa" in versione commerciale. «In questa zona strategica per le infrastrutture, il progetto parte dal concept di paesaggio come matrice. Le funzioni comprenderanno fra l'altro una grande parte di terziario, dedicato principalmente business to business per riunire i produttori locali. Strutture alberghiere, un polo culturale con auditorium e museo, un edificio universitario e anche strutture sanitarie specializzate. La costruzione inizierà con la semplice attrezzatura di un parco, poi si svilupperà e si rinforzerà nel tempo seguendo la morfologia del territorio. Le torri verranno collocate in prossimità della stazione ferroviaria metropolitana, appositamente costruita. Infine si edificheranno i singoli lotti, caratterizzati dalla presenza di molteplici funzioni».

Un quadro inquietante per i Cat che restano immuni da qualunque marketing. «I presidenti di Regione e Provincia, i sindaci di Dolo e Pianiga, così come tutti i consiglieri che hanno dato loro il mandato all'operazione, si assumono una responsabilità gravissima: approvarla senza la valutazione ambientale strategica, sulla base di un rapporto inconsistente e con i pareri contrari di Asl e Arpav, significa mettere a repentaglio la salute e la sicurezza di migliaia di persone. È vergognoso il disprezzo degli enti per la democrazia. E indecente che si approvi un accordo di questa portata in tutta fretta senza nemmeno informare i cittadini, convocando consigli comunali farsa a orari impossibili ed evitando in tutti i modi il confronto. Tutto per accontentare i privati, pressati dalle banche. Ma la partita non si chiude qui...».

Corriere della Sera

Il Leoncavallo: «Trattiamo»

di Andrea Senesi

«Entro Natale la questione potrebbe essere sistemata». La «questione» si trascina da trentasei anni e da trenta ingiunzioni di sgombero. La «questione» Leoncavallo si avvia ora a soluzione. L'annuncio è arrivato dagli stessi «okkupanti»: «Settimana prossima parte la trattativa che dovrà portare nel giro di qualche mese a una soluzione condivisa». Giovedì prossimo il «tavolo Leoncavallo» metterà di fronte a Palazzo Marino le associazioni del centro sociale più famoso d'Italia e i proprietari dell'area di via Watteau.

Lo strumento potrebbe essere quello ipotizzato da anni: un affitto «politico» per i diecimila metri d'area dello stabile, e una «ricompensa» immobiliare in un'altra area della città per la famiglia Cabassi. «Ma esistono anche altre vie», ha assicurato il leader storico del Leonka, Daniele Farina: «Ma il passo compiuto da questa giunta è fondamentale».

Una svolta storica. Il Leonka che entra a Palazzo Marino. Un tabù che si rompe e che «spacca» la politica, la città. Cautamente favorevoli e radicalmente contrari. Dice per esempio uno dei tre assessori coinvolti, Pierfrancesco Majorino (Welfare), che «se ci sono delle proposte le prenderemo in considerazione, convinti che sia una vicenda da chiudere positivamente». Gli fa eco la capogruppo pd Carmela Rozza: «Il sindaco Pisapia sta facendo quello che tutti gli altri sindaci dall'88 a oggi hanno cercato di fare senza riuscirci. Conto che Pisapia, alla luce delle esperienze precedenti, riesca a chiudere la vicenda». Tra gli sponsor della soluzione «politica», anche don Gino Rigoldi: «C'è finalmente la volontà di tutti gli attori in campo. Si tratta ora di rendere giustizia ai proprietari dell'area senza distruggere un patrimonio culturale che coinvolge ogni giorno giovani e meno giovani».

Dal fronte opposto si grida allo scandalo. L'ex vicesindaco Riccardo De Corato ricorda per esempio una delle storiche battaglie del Leonka, quella antiprobizionista, con tanto di feste semestrali per semina e raccolto della marijuana. «Anche quest'anno organizzeranno le settimane della "canapa indiana" con gran fumate in via Watteau. Aprendo la trattativa per regolarizzare questi personaggi, la giunta si renderà corresponsabile di una delle più clamorose violazioni di legge». Conferma Romano La Russa, assessore pdl in Regione: «Una scelta che preoccupa. Il Leonka è portavoce di una cultura dell'odio fondata sullo scontro fisico e verbale». Perplesso anche Roberto Formigoni: «Si rischia di generare messaggi ambigui».

Le polemiche hanno già una coda legale. Il leghista Matteo Salvini aveva alzato il tiro: «Folle che il Comune aiuti chi distribuisce droga con eventi pubblici»). La replica delle «mamme» del Leonka è affidata ai legali: querela.

la Repubblica

Un tavolo per legalizzare il Leonka

di Sara Mariani

Le associazioni, i proprietari dell´area e i rappresentanti dell´amministrazione comunale si riuniranno fra pochi giorni per avviare un piano di regolarizzazione del Leoncavallo, da tempo in attesa di una messa a norma. L´annuncio della trattativa provoca subito la reazione decisa del centrodestra. Ma Vittorio Sgarbi: «La destra prenda atto che il Leoncavallo è una realtà».

Dopo 17 anni di tentativi andati a vuoto e sfratti continuamente annunciati e rinviati, Comune, associazioni e proprietari del Leoncavallo si riuniranno intorno a un tavolo per avviare la messa in regola del centro sociale più discusso d´Italia. A dare l´annuncio è Daniele Farina, coordinatore di Sel e portavoce del Leonka: la trattativa partirà la prossima settimana per concludersi entro l´anno. Suscitando subito la reazione dell´ex vicesindaco Riccardo De Corato, da sempre nemico per eccellenza di via Watteau, che tuona contro la giunta «legittimista» e si dichiara pronto a contrastare con tutti i mezzi la trattativa: «Nessun sindaco e nessun assessore si è mai seduto ad un tavolo con i rappresentanti del Leoncavallo» ammonisce in una nota, e promette battaglia su ogni campo, compreso quello giudiziario, se la proposta arriverà in Consiglio.

Annosa questione, quella del centro sociale, che occupa un edificio della famiglia Cabassi: da anni le associazioni e i proprietari sono a un passo dal trovare una soluzione. Finora, però, mancava il "terzo polo": il Comune. Oggi invece a Palazzo Marino i tempi sono maturi per una mediazione. Restano da definire le modalità: la strada maestra, secondo Farina, sarebbe quella di spostare da un´altra parte le volumetrie che i Cabassi avrebbero voluto costruire nell´area. Se si intervenisse sulla legge urbanistica tramite una perequazione, verrebbe abbattuto il valore dell´area e gli occupanti potrebbero pagare un canone di affitto decisamente inferiore agli 800mila euro all´anno valutati dalla proprietà.

«Risolvono con una speculazione immobiliare il problema del Leoncavallo - accusa Carlo Masseroli, capogruppo del Pdl, che interpreta come uno scambio di favori in odore di illegittimità l´avvio della trattativa - . È la cambiale che Pisapia sta pagando al mondo dei centri sociali e a Sel per le elezioni?». Il capogruppo della Lega, Matteo Salvini, definisce «vergognoso che il Comune aiuti chi semina e distribuisce droga con eventi pubblici» attirando così su di sé l´ira delle "Mamme antifasciste del Leoncavallo", con tanto di querela. Fra i frondisti della regolarizzazione, spunta però una voce fuori dal coro: Giulio Gallera, consigliere Pdl, si è detto non contrario alla messa a norma, proprio perché il Leoncavallo avrebbe raggiunto ormai uno status aziendale, e «come tutte le imprese è bene che quando si fanno concerti si paghi l´entrata, si facciano scontrini, ci siano uscite di sicurezza». Si congratula invece con Pisapia il segretario del Pd milanese Roberto Cornelli, per la scelta di «aprire alla città uno spazio che potrà rivelarsi utile a tutti».

Nel terreno occupato si trovano le sedi di 6 associazioni, una casa editrice e uno sportello legale per extracomunitari, su un´area di 10mila metri quadrati: «Dal ‘96 non è stato commesso nessun reato - afferma il consigliere di Sel e avvocato Mirko Mazzali - a Berlino e a Parigi i centri sociali sono una ricchezza e io mi batterò in sede consiliare perché la soluzione venga finalmente raggiunta».

Corriere della Sera

Dalle molotov ai concerti: da 36 anni divide Milano

di Gianni Santucci



L'autodefinizione, forse, racconta più di altre cose questa storia. Era un «centro sociale autogestito», il vecchio Leoncavallo, ex fabbrica chimico-farmaceutica dismessa e occupata in zona Casoretto, il 18 ottobre 1975, Milano cupa degli anni di piombo. Oggi, ormai da dieci anni, è un'altra cosa: uno sPa, che vuol dire «spazio pubblico autogestito», un'«assemblea pubblica — come spiega l'ultimo bilancio sociale — che ha recepito il progressivo costituirsi di associazioni legalmente costituite».

E a ripensarla tutta insieme, questa storia, riemergono fotogrammi all'apparenza incoerenti: le immagini degli scontri, delle molotov, dei sassi, dei caschi della polizia e delle ruspe che risalgono al 1994, anno dello sgombero dalla sede storica, guerriglia urbana che per giorni occupa i titoli dei Tg quando il sindaco della Milano in piena Tangentopoli è Marco Formentini, leghista. E poi l'altra immagine, di dieci anni dopo, 2004, quando l'associazione delle «Mamme antifasciste del Leoncavallo» riceve il premio Isimbardi, l'Ambrogino della Provincia guidata da Filippo Penati.

Allora, più che indagare cosa abbia rappresentato, nel bene o nel male, per la storia di Milano, è interessante scoprire come il Leoncavallo sia stato «usato» o strumentalizzato; come sia diventato l'oggetto che ciclicamente riemerge nella politica come spunto di scontro.

Per quasi vent'anni, quando le amministrazioni milanesi di centrodestra hanno voluto rafforzare la propria immagine legge&ordine, sono andate a bussare là, alla porta del Leonka. Il celodurismoleghista affrontò mattinate di resistenza pesante nel '94; arrivò a un primo sgombero, seguito da una rioccupazione temporanea e poi da quella «definitiva» (quanto meno perché dura ancora oggi) in via Watteau (18 settembre 1994). Da oltre un decennio invece, la battaglia è «civilmente» scivolata tra carte bollate, decreti di rilascio immobile (una trentina), rinvii, trattative più o meno confessate. Con una costante: sempre là s'andava a sbattere, lo sgombero del Leoncavallo, simbolo che ha sempre garantito visibilità alle politiche legalitarie del Comune. Schermaglie continue. Portate avanti, quasi sempre, con la coscienza che in nulla sarebbero finite. Bassa intensità e, comunque, massima visibilità. Anche se nel mondo antagonista con derive violente, quello più problematico per l'ordine pubblico milanese, il Leoncavallo un ruolo non ce l'ha più da tempo.

Essere un simbolo è un destino consolidato. E proprio per questo l'assessore dei primi anni morattiani, Vittorio Sgarbi, proprio mentre il vicesindaco De Corato continuava a chiedere di sgomberare, fece il suo giro nei locali di via Watteau e paragonò i graffiti sui muri a una post-moderna cappella Sistina. Polemiche da una parte, applausi dall'altra. Con un filo conduttore: al di là dell'arguzia di Sgarbi, quella volta il maestro di provocazioni si appoggiò anche lui sul Leonka e ne sfruttò il potenziale evocativo. Su via Watteau si misura da anni la distanza tra impegno e annuncio della politica. Sarà così anche per la giunta Pisapia.

la Repubblica

Sgarbi: "Producono concerti e mostre sono una realtà e nessuno può opporsi"

intervista di Oriana Liso

«Ma il Leoncavallo non è un problema di sinistra o destra. E dopo tanti anni bisognerebbe arrivare a un´amnistia politica e culturale su quella vicenda. Che si potrebbe risolvere con un po´ di buonsenso, quello che certo non ha il centrodestra milanese che non si rassegna a un dato di fatto: la cultura è di sinistra, e loro non possono farci nulla. Il Leoncavallo deve fare come il teatro Valle di Roma, affidato in gestione a Roma Capitale dopo che le maestranze e gli attori l´avevano occupato».

Vittorio Sgarbi, lei è stato uno sdoganatore del Leoncavallo, quando era assessore alla Cultura della giunta Moratti.

«Infatti io iniziai a immaginare un percorso di mediazione per rendere il centro regolare. Ho invitato i responsabili del Leoncavallo a Palazzo Reale, sono andato lì per inaugurare la mostra sui graffiti... La soluzione si può trovare: facendo pagare a questi ragazzi una cifra non simbolica ma adeguata, 30-40mila euro di affitto, dando i diritti di volumetria altrove ai proprietari, e mettendo nelle mani dei leoncavallini la gestione di una struttura che fa concerti, mostre e potrebbe fare anche di più».

Il suo ex collega di giunta De Corato, pezzi del Pdl e la Lega non sono proprio contenti.

«Devono rassegnarsi, è una battaglia inutile, perché sbagliata. Chiedono ai leoncavallini di abiurare la loro storia? Ma a De Corato qualcuno ha mai chiesto di abiurare la sua? Vadano avanti con la loro opposizione, occupino il consiglio comunale, se lo devono fare per recitare un ruolo: tanto i leoncavallini non si curano certo dei loro proclami».

Però forse ha un senso che sia questa giunta e non la precedente ad affrontare la questione.

«Sono un grande amico di Pisapia, anche se ho invitato a non votarlo, e se devo fare un augurio ai suoi assessori è di essere un po´ risoluti nelle decisioni come lo sono stato io. Ma, ripeto: regolarizzare il Leoncavallo non è una decisione politica, ma una presa d´atto che anche la destra avrebbe dovuto fare».

Lei ha fatto anche di più: cinque anni fa ha definito i graffiti del Leonka "la Cappella Sistina della modernità".

«E lo penso. Peccato che poi i leoncavallini abbiano fatto l´errore di coprirli con altri disegni. Ma cavoli loro. Però ai leghisti vorrei anche ricordare che il loro giornale, la Padania, fece un editoriale per dire che anche la Lega ha usato i muri per lanciare un messaggio».

Libero

La Milano dei centri sociali: “Leoncavallo presto in regola”

Milano, la capitale europea dei centri sociali. Giuliano Pisapia lavora sodo per trasformare il capoluogo meneghino nel cuore pulsante dell'antagonismo italiano, ben rappresentato dallo storico centro sociale Leoncavallo. Il sindaco ha infatti varato un tavolo con le associazioni che gestiscono l'area occupata e la proprietà immobiliare per trovare al più presto una soluzione. L'obiettivo della giunta è arrivare alla regolarizzazione entro fine anno. Insorge la Lega Nord, che con Matteo Salvini ha commentato: "Un aiuto folle e vergognoso. I giovani milanesi hanno ben altri bisogni"

La gioia del portavoce -Daniele Farina, storico volto dell'antagonismo milanese, nonché coordinatore cittadini di Sinistra e Libertà e portavoce dello stesso Leoncavallo, non nasconde la sua gioia. Il percorso per portare l'area verso la regolarizzazione sarà la prossima settimana e si svolgerà in uno degli assessorati. Palazzo Marino, ha spiegato Farina, sveolgerà il ruolo di "facilitatore affinché le parti trovino gli accordi". Il portavoce ha spiegato come il Leoncavallo "non chieda soldi al Comune, ma di operare su un piano amministrativo per facilitare il raggiungimento del risultato.

L'ultimo presidio -Dopodomani è previsto l'ennesimo presidio al Leoncavallo, che attenderanno l'ufficiale giudiziario per lo sfratto: come sempre l'ufficiale giudiziario arriverà e firmerà il foglio per rimandare l'esecuzione del provvedimento. Ma questa volta potrebbe essere l'ultima. "I tempi sono maturi - ha continuato Farina -, si poteva fare anche in passato ma si sono persi molti anni. Mi auguro che l'opposizione di centro-destra non alzi barricate ideologiche". Secondo quanto ha riferito, considerata "la buona volontà delle parti", la regolarizzazione potrebbe passare per "diverse strade".

"Che paghino le tasse" -L'opposizione si è scagliata contro la scelta di Pisapia di dialogare con gli antagonisti, di proseguire nel cammino verso l'illegalità. "La messa a norma del Leoncavallo e, a breve, di altre simili realtà non solo non mi convince, ma mi preoccupa, al pari della stragrande maggioranza dei cittadini milanesi", ha commentato il l'assessore regionale alla Sicurezza, Romano La Russa. "Al di là degli aspetti pseudo culturali con cui si sono sempre trincerati i frequentatori dei centri in qeusti luoghi di pseudo aggregazione - ha proseguito -, è noto a tutti che l'illegalità e il non rispetto delle regole ha spesso caratterizzato l'attività di queste realtà. Tutti sanno che il Leoncavallo è ormai diventato un'impresa commerciale a tutti gli effetti, forte di un giro di affari stimato in vari milioni di euro. Ma se è così - conclude La Russa - non dovrebbe competere ad armi pari con le altre aziende e realtà imprenditoriali cittadine?". Il riferimento è che la casa dei no-global paga zero tasse e zero contributi. Uno scontrino, al Leoncavallo, è impossibile trovarlo. Chi ci lavora lo fa in nero.

Milano ai musulmani e agli antagonisti -Il vento a Milano è cambiato davvero. Infatti, nemmeno un sindaco né un assessore delle precedenti giunte si era mai seduto a un tavolo con i rappresentati del Leoncavallo. Palazzo Marino tratta con l'area occupata e crea un assoluto precedente. Durissimo l'ex vice-sindaco Riccardo De Corato: "Senza ricordare i suoi nefasti precedenti degli ultimi trent'anni fatti di violenze fisiche nei confronti di chi si opponeva alla loro logica di violenza e sopraffazione, il Leoncavallo ha visto una serie incredibile di violazioni di leggi e normative che sono sotto gli occhi di tutte le istituzioni e che Pisapia e la sua giunta conoscono benissimo". Insomma il sindaco dopo aver saldato il conto con la comunità musulmana promettendo moschee in ogni quartiere e il più grande centro islamico d'Europa, dopo aver fatto capire ai milanesi che per girare in macchina dovranno svenarsi e che prendere i mezzi pubblici sarà un lusso sempre più chiaro, offre la sua riconoscenza anche all'antagonismo, e comincia a prodigarsi per legalizzarne l'assoluta mecca.

Il Giornale

Pisapia regolarizzerà il Leoncavallo. Salvini: "Aiuto folle e vergognoso"

di Sergio Rame



Milano - "Un aiuto folle e vergognoso". Il leghista Matteo Salvini non usa mezzi termini per condannare l'amministrazione guidata dal sindaco Giuliano Pisapiache si è proposta di regolarizzare entro fine anno il Leoncavallo, lo storico centro sociale di Milano. Pisapia ha, infatti, deciso di avviare un tavolo con le associazioni che animano lo spazio occupato e la proprietà dell’immobile per raggiungere una soluzione. "I giovani milanesi hanno ben altri bisogni", tuonano i lumbard accusando il neosindaco di legittimare chi vive nell'illegalità.

Il portavoce delLeoncavallo, nonché coordinatore cittadino di Sel, Daniele Farina esulta. E' una vittoria per il Leoncavallo. Dopo aver rassicurato la comunità musulmana garantendo la costruzione delle moschee di quartiere, adesso Pisapia paga il dazio anche ai no global dei centri sociali. Il primo appuntamento è in programma per la metà della settimana prossima e si dovrebbe svolgere in uno degli assessorati interessati alla partita. Il ruolo di Palazzo Marino sarà quello di "facilitatore affinché le parti trovino l’accordo", ha spiegato Farina che ha sottolineato come il Leoncavallo "non chieda soldi al Comune ma di operare su un piano amministrativo per facilitare il raggiungimento del risultato". Dopodomani perciò potrebbe essere l’ultima mattinata passata dai militanti del centro sociale ad attendere l’ufficiale giudiziario per lo sfratto. "I tempi sono maturi, si poteva fare anche in passato ma si sono persi molti anni", ha proseguito il portavoce dello spazio occupato che si è augurato che l’opposizione di centrodestra "non alzi barricate ideologiche". La regolarizzazione potrebbe passare per "diverse strade", vista "la buona volontà delle parti".

Ed è subito polemica

Il centrodestra attacca duramente la decisione di Palazzo Marino di fiancheggiare l'illegalità. "La messa a norma del Leoncavallo e, a breve, di altre realtà simili, non solo non mi convince ma mi preoccupa, al pari della stragrande maggioranza dei cittadini milanesi - tuona l'assessore regionale alla Sicurezza, Romano La Russa - al di là degli aspetti pseudo culturali con cui si sono sempre trincerati i frequentatori dei centri in questi luoghi di pseudo aggregazione, è noto a tutti che l’illegalitàe il non rispetto delle regole ha, spesso, caratterizzato l’attività di queste realtà". Una serie di provvedimenti di facciata non faranno certo cambiare la testa e la mentalità di chi, negli anni, ha coltivato non solo una cultura della protesta ma anche dell’odio e dello scontro fisico e verbale. "Tutti sanno che il Leoncavallo - conclude l'esponente del Pdl - è ormai diventato un’impresa commerciale a tutti gli effetti, forte di un giro di affari stimato in vari milioni di euro. Ma se è così, non dovrebbe competere ad armi pari con le altre aziende e realtà imprenditoriali cittadine?". In primis, pagando le tasse e i contributi come tutti. Quindi, assumendo i dipendenti, emettendo regolari scontrini fiscali e rispettando. Solo in questo caso il centrodestra sarebbe disposto ad aprire il dialogo con il Leoncavallo.

Nessun sindaco e nessun assessore delle precedenti giunte si è mai seduto ad un tavolo con i rappresentanti del Leoncavallo. Per la prima volta Palazzo Marino decide di trattare con un centro sociale. "Senza ricordare i suoi nefasti precedenti degli ultimi trent’anni fatti di violenze fisiche nei confronti di chi si opponeva alla loro logica di violenza e sopraffazione - tuona l'ex vicesindaco Riccardo De Corato - il Loncavallo ha visto una serie incredibile di violazioni di leggi e normative che sono sotto gli occhi di tutte le istituzioni e che Pisapia e la sua giunta conoscono benissimo". Che una trattativa del genere fosse nell'aria lo si poteva intuire, visto che Pisapia deve pagare il prezzo della sua elezione ai centri sociali. Il Pdl assicura tuttavia battaglia. "Contrasteremo in città e nelle aule di Palazzo Marino con ogni mezzo lecito - conclude De Corato - quella che aprirebbe una strada pericolosa visto che bisognerà dimostrare l’interesse pubblico intorno a una vicenda urbanistica di questa portata, e sopratutto visto chi sarebbero gli interlocutori del Comune".

Intanto l'associazione delle "Mamme antifasciste" del Leoncavallo, una delle associazioni che animano il centro sociale, ha deciso di querelare Salvini che ha definito "folle e vergognosa" l’intenzione del Comune di "aiutare chi semina e distribuisce droga con eventi pubblici". "Mi querelano? Sono pronto a confrontarmi con gli occupanti del centro sociale sui modelli di vita e sulla visione di Milano diversi, se vogliono anche nel centro - ribatte l'esponente del Carroccio - chi non condanna con fermezza l’uso e la diffusione di qualsiasi droga e occupa abusivamente non può dialogare con il Comune".

postilla

Chi avesse avuto la pazienza di leggersi anche gli articoli dei giornali di destra, forse non avrà potuto fare a meno di ricordare (e in qualche modo confermare) i paradossali terrori sbandierati dagli stessi personaggi nel videoclip satirico Pisapia Canaglia proposto da radio Popolare nelle ultime e concitate fasi della campagna per le elezioni comunali. A parte l’ovvia caricatura, quel piccolo capolavoro comico riassumeva bene l’atteggiamento della strapaesana destra locale, sostenuta da strapaesani interessi locali, non solo nei confronti di una realtà antagonista, ma di tutto quanto non si riassorbiva nell’idea reazionaria di dio patria famiglia bottega e quattrini. Insomma un’idea di società che fa a pugni in primo luogo con quello che ci aspetta appena mettiamo il naso fuori casa, ma anche con la sensibilità metropolitana (questa sì indistinta, come si dice in altri casi, fra destra e sinistra) di qualsiasi realtà europea e non solo.

Non è un caso che il Leoncavallo, realtà attiva e nota sin dalla metà degli anni ’70, abbia finito per diventare un simbolo contemporaneamente all’ascesa della destra sedicente post-ideologica, ovvero con l’amministrazione leghista-fascista-forzista di Formentini a metà anni ’90. Diciamo che quello che si chiude oggi è soprattutto un faticoso passaggio fra la cultura (vuoi solidale, vuoi autoritaria) della città industriale, e gli scenari del terzo millennio, e che probabilmente toccherà altri aspetti, ambiente e urbanistica inclusi? Beh, almeno proviamo cautamente a dirlo, sopportando pure Sgarbi quando ha ragione (f.b.)

Dalla Toscana giungono notizie dell’ennesimo conflitto tra interessi privati e difesa del patrimonio archeologico. E ancora una volta sembra che a soccombere, come spesso accade nel nostro paese, debba essere il patrimonio culturale.

Il caso mi è stato segnalato da alcuni amici toscani, non archeologi, che si sono rivolti a me per un parere, conoscendo il mio impegno nel campo della politica dei beni culturali. Ho cercato di acquisire informazioni più precise da colleghi archeologi, che, però, ignoravano quasi completamente l’episodio. La massima segretezza sembra avvolgere la vicenda. Le uniche informazioni, reperibili sul web sono fornite da un comunicato stampa e da denunce di varie associazioni ambientaliste, raccolte da alcuni giornali e da vari siti internet. La cosa che sollecita la mia curiosità e presenta, fin da subito, alcuni lati enigmatici è relativa al progetto di rimozione e ricollocazione dei resti archeologici: una procedura, tecnicamente assai problematica, alquanto rara e costosa. Ma procediamo in ordine.

Il sito è posto nel territorio del Comune di San Casciano: qui è stata prevista la costruzione di un capannone da parte della multinazionale Hymer, proprietaria di LAIKA Caravan. Il progetto risale a molti anni fa, addirittura al 1997. Nel corso dei lavori edili sono emersi, nel 2010, resti archeologici riferibili, sulla base dei pochissimi dati al momento disponibili, ad una ‘fattoria’ etrusca e ad una villa romana. Tengo a ribadire che le informazioni in mio possesso sono a questo proposito assai scarse ed è pertanto assai difficile valutare la reale portata storico-archeologica della scoperta. Lo sottolineo, non perché voglia minimamente proporre un’idea selettiva, ormai fortunatamente abbandonata, che privilegi esclusivamente i manufatti di pregio artistico – ogni documento archeologico è unico e prezioso per la ricostruzione storica e per la conoscenza dei paesaggi stratificati – ma solo per comprendere la ratio delle scelte che si stanno effettuando.

Non tocco le questioni relative all’impatto ambientale o al tema del consumo di territorio, che rientrano nelle competenze di altri. Mi limito a porre una serie di domande limitate al tema archeologico, in attesa di poter disporre di informazioni più precise, che, per trasparenza democratica, si spera possano essere fornite alla pubblica opinione, anche per limitare le polemiche spesso alimentato proprio dall’assenza di informazioni.

Come mai, pur essendo trascorso tanto tempo dalla presentazione del progetto, non sono state effettuate indagini di archeologia preventiva, con l’uso dei metodi e delle tecniche e tecnologie (immagini aerofotografiche, prospezioni geofisiche, ricognizioni, ecc.) tipiche dell’archeologia dei paesaggi (che, peraltro, proprio in Toscana conosce livelli di assoluta eccellenza)? In tal modo certamente le tracce archeologiche sarebbero state individuate ancor prima dell’avvio dei lavori edili e sarebbe stato possibile indirizzare diversamente il progetto.

Quale valutazione è stata fatta dei documenti storici e archeologici individuati? Qual è il loro stato di conservazione?

Ma, soprattutto, perché si è adottata la decisione della rimozione e del trasferimento dei resti archeologici? Mi rassicura sapere che l’operazione è stata autorizzata dalla Soprintendenza Archeologica, dalla Direzione Regionale per i beni culturali, dal Comitato tecnico-scientifico del MiBAC. Ma resta l’interrogativo metodologico. Come dicevo, si tratta di una procedura complessa e costosa, che certo l’archeologia conosce bene ma che di solito viene riservata (proprio per la complessità tecnica e l’elevato costo) a scoperte “eccezionali”. Si potrebbero citare molti casi a tal proposito, ma mi limito a ricordare quello dei mosaici policromi di ville e domus romane della città di Zeugma in Turchia, asportati e rimontati nel Museo di Gaziantep con l’intervento munifico del Packard Humanities Institute (PHI), o, in Italia, quello vissuto in prima persona dei mosaici della chiesa paleocristiana del sito rurale di San Giusto (Lucera), asportati nel 1998 e tuttora in attesa di collocazione: in entrambi i casi l’operazione è stata giustificata dalla costruzione di opere pubbliche, nello specifico dighe, rispettivamente necessarie per la produzione di energia e per l’irrigazione delle campagne. Si tratta, peraltro, di interventi condotti molti anni fa, ben prima che si affermassero i metodi dell’archeologia preventiva. I due siti archeologici, dai quali sono stati asportati solo gli ‘elementi di pregio’ (i mosaici, appunto) sono tuttora sommersi dalle acque delle dighe e non si esclude che in un futuro altri archeologi possano riprendere gli scavi.

Nel caso di San Casciano il problema è: i ritrovamenti sono relativi a “pochi muretti”, come qualcuno sussurra? Se sì, allora, si abbia il coraggio di portare la decisione alle estreme conseguenze, si documenti e si pubblichi l’intero contesto archeologico, e lo si sacrifichi autorizzando la costruzione del capannone al di sopra dei resti. La rimozione e la ricollocazione appare, infatti, una risposta alquanto ipocrita, forse utile solo come risposta alle proteste delle associazioni culturali e ambientaliste: che senso avrebbero i moncherini di “pochi muretti” decontestualizzati e collocati, quasi si tratti di elementi di arredo, in un finto parco archeologico? Senza contare i problemi tecnici posti dallo smontaggio di muri (di terra? in conci di pietra tenuti da malta? in cementizio?) di insediamenti rurali di età etrusca e romana, e ovviamente i costi legati all’operazione, che, perlomeno, mi auguro non si preveda di scaricare sugli ormai poveri bilanci degli Enti locali o delle Soprintendenze. Se, invece, si trattasse di elementi di grande interesse storico-archeologico, tali da richiederne addirittura lo smontaggio e la ricollocazione in altro luogo, allora forse sarebbe il caso di riesaminare più attentamente la questione, privilegiando la conservazione in situ.

Comunque vada a finire, ancora una volta saranno le ragioni dell’archeologia e del patrimonio culturale e paesaggistico a soccombere, forse anche a causa di un deficit di pianificazione e di valutazione preventiva, sotto il peso del consueto facile ricatto dell’occupazione e delle ragioni dello sviluppo economico, sostenute, è evidente in questo caso, da forti interessi politico-economici. E ancora una volta in questo eterno assurdo conflitto si cercherà di confermare l’immagine dell’archeologia – cioè di uno dei beni comuni più rilevanti di cui il nostro paese disponga - nemica dello sviluppo.

Giuliano Volpe è Ordinario di Archeologia e Rettore dell’Università di Foggia

Domanda. Perché la Giunta regionale ha pagato, con i nostri soldi (del popolo sardo tanto richiamato), ben due pagine dei maggiori quotidiani sardi?

Risposta. Non per fare una comunicazione istituzionale, bensì per esprimere la sua opinione su che cosa essa intenda per regole e per paesaggio. In soldoni vuol dire, ahimè, che le regole sono un abuso e un attentato alla nostra libertà, e che il paesaggio è un bene privato di cui ognuno può fare quel che più gli aggrada.

Non mi soffermo sulle definizioni di “paesaggio”apparentemente ingenue, quali, “il paesaggio è di tutti noi, ancora di più è in tutti noi … nel nostro cuore”, e altre amenità simili. Neppure lo studente più sprovveduto potrebbe dare del paesaggio queste definizioni perché sarebbero la dimostrazione di non conoscere neppure gli elementi rudimentali della materia “Paesaggio” e che in Italia ha avuto una lunga maturazione culturale e un altrettanto lungo iter normativo: dalla legge “Rosadi-Croce” del 1922 alla Legge Galasso del 1985; dalla Convenzione Europea del Paesaggio del 2000 al Codice dei Beni culturali e del paesaggio, noto come Codice Urbani, del 2004. Il PPR approvato durante il governo Soru non è stato altro che la conclusione logica di questo lungo processo, in linea peraltro con le esigenze di tutela del paesaggio, in quanto oggetto urbanistico, più volte richiamate dall’Unione europea.

Ma non facciamoci ingannare, queste semplificazioni e apparenti ingenuità sono finalizzate ad alimentare in ognuno di noi la convinzione che chi interviene a favore della tutela rigorosa e non derogabile del territorio, è il vero nemico dello sviluppo, dell’occupazione, del turismo e quant’altro. Da quando Cappellacci presiede questa giunta, questo fine è stato perseguito con costanza e ostinazione, si potrebbe persino dire che questa sia stata la vera mission (speriamo impossibile) di detto governo regionale. Fine ripetuto in più occasioni: dai permessi di costruire nelle aree più pregiate dell’Isola – da Capo Malfatano a Badesi -, alla benevolenza con cui si è guardato all’abusivismo in diverse parti della Sardegna, mi riferisco a quello più recente e che continua imperterrito a riprodursi, nonostante sia in vigore il Piano Paesaggistico Regionale. D’altro canto, l’infausto Piano casa – qualunque sia l’edizione, proroga compresa -, non è stato forse il manifesto ideologico principale utilizzato a questo fine, insieme alla cosiddetta revisione del PPR?

Se la Giunta Cappellacci avesse voluto fare per davvero Pubblicità Istituzionale, e non bassa propaganda di parte, avrebbe dovuto utilizzare queste pagine per dire con chiarezza quali sono queste “regole, più semplici da leggere e da applicare” e, magari, sulla base di questa informativa, aprire un serio dibattito con noi, “Popolo sardo”, sul paesaggio e che cosa si debba intendere con questo termine, e perché no, sullo sviluppo possibile e durevole di questa nostra disgraziata terra (disgraziata, beninteso, non per cause naturali).

postilla

Torna il linguaggio furbesco degli sponsor di quei distruttori delle coste della Sardegna che si sperava fosse scomparso, dopo le denunce di Antonio Cederna e delle persone di buon senso di tutto il mondo e, soprattutto, dopo la gloriosa stagione di Renato Soru. Ma anche in Sardegna i saccheggiatori del bene comune sono tornati trionfalmente alla ribalta. Adesso hanno conquistato le istituzioni, e il "pubblico" è diventato lo strumento del peggiore e più losco "privato": quello dei distruttori della bellezza, del futuro, e perfino della decenza.

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