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Sempre caro mi fu questo parcheggio da 50 posti auto più servizi igienici per le comitive in transito e – forse – pure l’allegra fila dei pullman in attesa coi motori accesi per mantenere il fresco d’estate e il tiepido d’inverno. Il Comune di Recanati non molla. Da anni vuole piazzare una struttura per accogliere altre automobili proprio su quel Colle dell’Infinito dove il poeta si sperdeva. Ma, al giorno d’oggi, c’è poco da indugiare, le casse piangono e bisogna trovare nuove iniziative per rilanciare le attività urbane. Ergo, nonostante il cambio di governo dal centro-destra a centrosinistra – con relativo passaggio dell’ex sindaco Pdl alla presidenza del Centro Nazionale di Studi Leopardiani –, l’idea avanza, procede, resiste. E si scontra con le romantiche aspirazioni di chi, in città, vorrebbe solo quiete e bellezza ad attrarre i turisti, non parchimetri e wc sanitarizzati.

Roberto Verdenelli, del Movimento Cinque Stelle, è furibondo: “Nel 2009, quando ha vinto la coalizione guidata dal Pd, speravamo venisse accantonata questa idea di spargere ancora cemento in un paese di ventimila abitanti che ha bisogno di intelligenza e di investimenti davvero culturali per sviluppare la sua vocazione turistica. Invece qua sono convinti che basti aggiungere 50 posti auto giusto sotto Casa Leopardi per far arrivare più gente. La verità è che vengono le gite scolastiche, un po’ di turismo stagionale, e per il resto zero. Il Cnsl non ha mai richiamato un granché, ed è pure un edificio bruttino, del periodo fascista: adesso che gli vogliono togliere gli alberi intorno non ci guadagnerà di sicuro”.

L’opera burocraticamente avviata dall’ex sindaco Fabio Corvatta e sostenuta ora dal successore Francesco Fiordomo dovrebbe cadere proprio su un versante del celebre colle al momento ricoperto da piante e alberi ad alto fusto, un’area che apparteneva al Cnsl ma che il Comune ha espropriato. “Non sarebbe più economico, più giusto, più naturale lasciare l’area così com’è? Come la vedeva il nostro famoso concittadino, un angolo di quel “natio borgo selvaggio” che tanto ci inorgoglisce e rende la nostra cittadina unica al mondo?” si sono chiesti quelli di Cinque Stelle in un comunicato che riprende il ping pong tra il settimanale “l’Espresso”, autore di un appello contro nuove costruzioni in loco, e il sindaco che ha risposto prontamente. “Nessuna nuova palazzina sotto l’Infinito” garantisce Fiordomo omettendo la notiziola sul parking e citando i consueti concetti di sviluppo, turismo et similia.

“Il problema è che questi politici fanno una gran confusione quando parlano di cultura ” sostiene Andrea Lodovichini, regista marchigiano, già aiuto di Paolo Sorrentino e vincitore di premi internazionali ma diventato famoso via Youtube per la protesta sullo spot della Regione Marche con Dustin Hoffman. Spiega: “Contestai alla Giunta la scelta di investire milioni di euro in quel progetto con modalità poco trasparenti, un bando lanciato in fretta e furia che ha scatenato la polemica nella polemica di far recitare a una star mondiale i versi del Leopardi. Risposta delle istituzioni: minacce di querela per i miei video in cui, mettendo in rete documenti pubblici, chiedevo conto di quelle scelte”. Secondo Lodovichini, i politici mescolano marketing e testi sacri, pubblicità e storia, piccoli interessi di parte e una gran paura di cambiare. “Sono tentativi puerili, con risultati spesso sterili. Io avevo riunito un gruppo di 110 artisti, Marche Autori, per sviluppare le arti audiovisive in una Regione capace di grande talento: dopo la storia degli spot non se n’è fatto più nulla, nessun finanziamento ci è arrivato, e si è sciolto tutto. Invece pare che Hoffman farà anche la terza edizione della pubblicità: spero funzioni per gli alberghi e i ristoranti, ma se si voleva spingere la cultura dei giovani e delle arti più contemporanee si poteva investire anche su altro”. Marche regione verde, con borghi e città, collina e spiagge, arte e cucina: un vero man-tra negli ultimi anni. “Però poi le scelte concrete vanno in un’altra direzione – sottolinea Anna Maria Ragaini del comitato No rigassificatore di Porto Recanati.

La Regione aveva dato parere favorevole all’installazione di due rigassificatori da piazzare a pochi chilometri dalle coste. Per quello più a Sud, praticamente davanti Loreto, ha fatto marcia indietro nonostante l’ok del Ministero dell’Ambiente. Per quella più a nord, davanti ad Ancona, il progetto è invece molto avanti grazie all’erroneo presupposto che, con questa concessione, il Gruppo Api manterrà il tenore dell’occupazione attualmente impegnata nel settore petrolifero. Ma nell’accordo siglato tra Api e Regione non si fa riferimento ai 380 operai e all’indotto, nessuno sa se questo rischio e questa bruttura serviranno all’economia o esporranno a danni incalcolabili le spiagge, il mare, l’intero ecosistema”.

Anche lo scrittore fermano Angelo Ferracuti è poco soddisfatto dalle logiche di investimento operate negli ultimi anni: “Marche o Italia cambia poco, l’idea è sempre quella dei ‘poteri fermi’, come li chiamava Paolo Volponi. Apriamo oggi un Premio in suo onore, a Fermo. Si parla di impegno civile, di argomenti poco attraenti e per nulla sponsorizzati. Rieditiamo alcuni scritti fondamentali in cui lui, scrittore e politico, criticava scelte scellerate come l’abbandono della linea ferroviaria Roma-Urbino o il taglio della scala mobile. Era un pensatore che, dal cuore di una piccola ma sapiente regione italiana, pensava con preoccupazione a una società superficiale, ingorda, atavicamente legata alle sue mafie e massonerie. Volponi oggi è di un’attualità imbarazzante, e certo non approverebbe nessuna di queste scelte, dal rigassificatore al gorgheggio di Dustin Hoffman sull’Infinito”. Con annesso parcheggio.

Salvare beni culturali e paesaggio

“Ricostruire” Ministero e rete di tutela

Signor Ministro,

il compito che l’aspetta è dei più complessi e insidiosi: così come in altri settori della vita pubblica si tratta di una vera e propria opera di rifondazione politica, o meglio di fondazione, in quanto da anni il Ministero che lei è chiamato a guidare è totalmente privo di una visione culturale organica e degna di questo nome.

Come abbiamo sottolineato nel precedente appello al Presidente della Repubblica, la prima urgenza risiede a nostro avviso in un chiaro segnale di discontinuità rispetto all’immediato passato, caratterizzato da una gestione appiattita sull’emergenza, la casualità, il culto dell’evento, la subordinazione ossessiva della competenza ai desiderata di parte politica.

In attesa di rappresentarle personalmente le nostre considerazioni ci permettiamo di sottolinearle pochi – fra i tanti – temi che a nostro avviso richiedono un intervento immediato.

Occorre procedere, rapidamente, alla pianificazione paesaggistica, così come previsto dal Codice, operazione abbandonata da anni, con colpevole elusione di Ministero e Regioni, ma unico strumento in grado di garantire un governo del territorio adeguato alle finalità che l’articolo 9 della nostra Costituzione ci addita.

Occorre rilanciare l’attività delle Soprintendenze riformandone l’apparato amministrativo e potenziandone le risorse a partire da una radicale redistribuzione fra un corpo centrale ipertrofico e gli uffici periferici, unico presidio territoriale in grado di garantire un monitoraggio costante e una rete di tutela di un paese tanto complesso e stratificato quanto reso fragile dall’abbandono della montagna e da un consumo di suolo dissennato, il più alto d’Europa.

Occorre dare subito alcuni segnali forti dicendo, ad esempio, basta ai commissariamenti che hanno prodotto - da Pompei a L’Aquila - danni e sprechi diffusi, ripristinando quei criteri di competenza e di merito ampiamente ignorati e mortificati anche in ruoli-chiave.

Conosciamo i gravissimi problemi finanziari che gravano sul nostro paese: siamo consapevoli che le risorse, davvero risibili dopo un triennio di tagli draconiani (dallo 0,39 % del bilancio dello Stato del 2000 allo 0,19 di questo esercizio), non sono destinate ad aumentare significativamente nel prossimo futuro. Si tratta allora di pensare, assieme, anche a modalità innovative – ma trasparenti e regolate – di acquisizione di risorse (dagli enti locali ai privati), purché sia sempre garantita la qualità scientifica degli interventi conservativi e di valorizzazione e insieme la tutela dei diritti di chi, esterno alle istituzioni, opera per il patrimonio pubblico.

E si tratta, soprattutto, di fare un’operazione di verità laddove fino a questo momento il nostro immenso patrimonio culturale e paesaggistico è stato vittima dell’ipocrisia reiterata che lo dipingeva come fondamentale “volano” di sviluppo solo a parole, e dell’ignoranza culturale che ha preteso di trasformarlo in una merce pronta per l’uso e l’abuso turistico o, in caso contrario, fastidioso ostacolo allo “sviluppo” drogato del mattone e del cemento. Coi migliori auguri di buon lavoro

Giulia Maria Mozzoni Crespi, fondatrice e presidente onorario del FAI

Desideria Pasolini dall’Onda, fondatrice di Italia Nostra e presidente onorario del Comitato per la Bellezza

Fulco Pratesi, fondatore e presidente onorario del Wwf-Italia

Associazione “R.Bianchi Bandinelli”, Marisa Dalai, presidente

Comitato per la Bellezza, Vittorio Emiliani, presidente, Vezio De Lucia, Luigi Manconi

Eddyburg, Edoardo Salzano

Italia Nostra, Maria Pia Guermandi ed Elio Garzillo, consiglieri nazionali

Rete Comitati Toscani, Alberto Asor Rosa, presidente

Sabato scorso l'archeologo Stefano De Caro (già soprintendente archeologico di Napoli, direttore regionale della Campania e direttore generale per i beni archeologici del MiBac) è stato eletto alla direzione generale dell'Iccrom, che è il Centro internazionale di studi per la conservazione ed il restauro dei beni culturali: un'agenzia intergovernativa con sede a Roma, che presta consulenza all'Unesco ed opera in tutto il mondo. Il fatto che uno studioso e un funzionario italiano prenda il posto dell'egiziano Mounir Bouchenaki rappresenta un successo per il Paese, e in un campo in cui abbiamo un peso strategico. Sembra un'affermazione ovvia, ma non lo è per nulla. L'opposizione più dura e tenace all'elezione di De Caro è infatti venuta dal delegato del governo italiano, che su indicazione del capo di gabinetto dell'allora ministro Galan, Salvo Nastasi, ha invano provato a far eleggere a quel posto non un archeologo, ma un chimico. Ed è solo l'ultima figuraccia dello staff installato da Bondi, e confermato da Galan. Del segretario generale Roberto Cecchi si ricorda, per esempio, il ruolo decisivo nell'irrituale e gravemente inopportuno acquisto del Cristo cosiddetto di Michelangelo (sul quale la Corte dei Conti sta aprendo la fase dibattimentale di un'inchiesta); o, ancora, la parte avuta nello svincolamento di una preziosa commode settecentesca al centro di un'inchiesta penale. Dello stesso Nastasi si possono citare, per esempio, l'improvvido scempio dei giardini di Palazzo Reale a Napoli, o il recente e fallito tentativo di nominare il capo dell'Auditel alla guida della Biennale di Venezia. Ebbene, la sensazione è che se il nuovo ministro Lorenzo Ornaghi vuol provare a riavviare l'ingolfatissima macchina dei Beni Culturali dovrà proprio cominciare dal fare una pulizia radicale nella cabina di guida.

«Il trucco del Piano di governo del territorio della precedente giunta sta nell’aver aumentato artificialmente il numero degli abitanti di Milano per aumentare il valore immobiliare dei terreni. Ma torniamo alla realtà: i residenti non cresceranno perché a Milano è troppo difficile vivere». L’architetto Vittorio Gregotti non ha dubbi: il Pgt firmato dalla giunta Moratti - che prevedeva la crescita degli abitanti di 400mila unità per arrivare a 1 milione e 700mila persone - va cambiato e bene fa la nuova amministrazione a riprendere in mano il documento per rivederlo.

I complimenti - «il nuovo documento che racchiude le linee guida, con cui la giunta Pisapia correggerà il Pgt è ottimo» - arrivano dritti a destinazione durante un convegno sul tema organizzato all’Urban center dall’Istituto nazionale di Urbanistica, anche lui critico nei confronti di un Piano che «ricorre a un’ipotesi di dimensionamento non credibile». Al tavolo dei relatori, oltre all’architetto milanese, al direttore dell’Inu Luca Imberti e all’economista Marco Vitale, c’è anche il neo assessore all’Urbanistica Ada Lucia De Cesaris che ringrazia e spiega: «La decisione di mettere in discussione il Piano è una scelta politica e come tutte le scelte può essere criticabile, ma noi siamo convinti che si debba ripartire dall’ascolto della città».

Per questo, appena insediatasi, l’assessore ha annunciato la revoca del provvedimento che doveva mandare in pensione il vecchio piano regolatore per ripartire dalle osservazioni dei cittadini. Oggi la delibera di revoca approda in Consiglio comunale. Un primo passo verso una nuova maratona d’aula quando il Consiglio discuterà nuovamente le richieste di modifica. «Siamo consapevoli che il nostro limite saranno comunque le osservazioni - aggiunge la De Cesaris - . Non sarà mai il Piano che avremmo voluto scrivere noi, ma faremo di tutto per migliorarlo».

I suggerimenti non mancano. Vitale invita la giunta «a non sottostare al ricatto della fretta fatto dagli imprenditori» mentre Imberti ribadisce le critiche che l’Inu aveva già sollevato a suo tempo: la necessità «di dare al piano un respiro metropolitano», sfida sottolineata anche da Gregotti, l’importanza di un controllo dello sviluppo per evitare «il passaggio da una disciplina dirigistica come quella attuale a una completa liberalizzazione» e la diversificazione degli indici volumetrici a seconda del tessuto urbano.

Postilla

«Non sarà mai il Piano che avremmo voluto scrivere noi». Allora, perché non rifarlo d capo?

Trentadue pagine con le indicazioni per disegnare il nuovo Piano di governo del territorio. Dove c'è scritto, per esempio, che l'indice edificatorio verrà ridotto a 0,35, che difficilmente si realizzerà la metropolitana leggera denominata «circle line», che scomparirà il tunnel sotto la città. Si racconta che all'origine il titolo del documento fosse la «Milano arancione», poco apprezzato dalla fetta più rossa della città che pure ha contribuito a far vincere il centrosinistra. Sarà per questo che oggi, in cima alla relazione elaborata dalla Consulta del Centro studi per la programmazione intercomunale dell'area metropolitana (Pim) si legge un più neutro «Linee guida per l'esame delle osservazioni al Pgt di Milano».

Il plico è arrivato in questi giorni negli uffici comunali e nelle mani di qualche politico della maggioranza. Ci hanno lavorato i 10 esperti, tra docenti universitari e architetti (alcuni dei quali tra gli estensori delle osservazioni) nominati il 28 settembre e incaricati dall'assessore all'Urbanistica, Lucia De Cesaris, di «supportare» l'amministrazione e in concreto di trovare un bandolo alla matassa delle 4765 osservazioni da riesaminare senza perdere troppo tempo.

Il primo punto sta proprio qui: l'attenzione si potrà rivolgere solo su «un campo ristretto di questioni». Pena la paralisi della città. Si procederà a una «riaggregazione tematica», con prevedibile battaglia in aula da parte del centrodestra.

Nella passata legislatura le osservazioni erano state controdedotte dagli uffici seguendo la stella polare del piano adottato in consiglio comunale. Ora sembra di capire che gli uffici si dovranno attenere alle indicazioni degli architetti scelti dall'assessore, che vanno nella direzione di una diminuzione delle potenzialità edificatorie ma che dicono tante altre cose.

Per cominciare, come annunciato, il Parco Sud non genererà più volumetrie da spalmare in città e saranno i piani di cintura e l'ente parco a dire l'ultima parola sul futuro dell'area. Cambia inoltre l'indice di densificazione attorno alle stazioni del trasporto pubblico: non sarà più 1 come previsto dalla precedente impostazione. Un'altra novità rispetto al piano adottato dall'assessore Carlo Masseroli riguarda la riduzione dell'indice unico anche per gli ambiti del tessuto urbano consolidato (Tuc): era dello 0,50. Rispetto al vecchio documento di inquadramento, le aree oggi vengono in sostanza «svalutate», con una potenzialità edificatoria dello 0,35 mq/mq.

«È sempre ammesso — si legge nel documento a proposito di nuove edificazioni o ristrutturazioni — il recupero della Slp esistente con cambio d'uso nel rispetto comunque dell'indice massimo di 1. In tal caso una quota pari a 0,35 dell'edificabilità massima realizzata dovrà comunque essere determinata da finalità sociali e di interesse pubblico». L'impianto del cambio di destinazione d'uso, libero nella testa di Masseroli, è nella bozza attuale assai diverso. Si tornerà all'antico e alla valutazione delle singole proposte. Con i tempi che ci vorranno.

Capitolo scali ferroviari, anch'essi interessati all'abbassamento dei volumi (0,35 per diritti edificatori liberi, idem per le finalità sociali). «Vi sono problemi — sottolinea il documento — di tipo programmatico/progettuale, emersi dall'accoglimento delle osservazioni in fase di adozione e poi approvazione. Le 2 grandi complicanze sono: quota di verde e housing inserite in adozione, stralcio dell'obbligo di accordo di programma in approvazione del Pgt». Troppo verde e housing sociale diventano «complicanze». E ancora: «Altro nodo è la previsione della circle line, che secondo Rfi andrebbe in conflitto con l'attuale servizio». Sul fronte della mobilità, «lo scenario di medio periodo» conferma oltre alla realizzazione della MM5 fino a San Siro anche la MM4.Il tunnel Expo-Forlanini appare «non coerente con il Pgt». Da «approfondire» la strada interquartiere Nord.

Di fronte a Palazzo Madama di colpo mi si para davanti Francesco Sisinni, a lungo direttore generale dei Beni Culturali, negli anni 80-90, da noi spesso criticato. “Mi rimpiangete, eh?…”, ghigna beffardo. Esito un attimo e poi, teatralmente, in un soffio: “Sì, Francesco, sì!” In realtà, non rimpiangiamo lui quanto un Ministero dei Beni Culturali e Ambientali che, nonostante difetti di base, assicurava, col sacrificio personale di “fedeli (e competenti) servitori dello Stato”, una rete di tutela invidiata all’estero. Non sarebbe stato possibile all’epoca promuovere d’autorità ai più alti incarichi persone pluribocciate ai concorsi. Né degradarsi a decine di avvilenti gestioni “ad interim” di Soprintendenze, avendo nel contempo una direzione centrale macrocefala, né disattivare i concorsi per anni, né lasciar tagliare il personale con l’accetta: 19.000 unità (presto 16.000) per tutelare un patrimonio tanto sontuoso quanto aggredito.

“Ogni funzionario della Soprintendenza architettonica di Milano, la più esposta ai pericoli, dovrebbe esaminare al giorno 79,24 progetti di ogni tipo”, ha ammesso, come se lui piovesse da Marte, l’8 novembre al bel convegno di Assotecnici il segretario generale del MiBAC, arch. Roberto Cecchi che negli anni decorsi non ha mai aggrottato un sopracciglio. “Ma non le fa male l’osso del collo a forza di dire sempre di sì?”, domandò Antonio Cederna ad un alto burocrate negli anni ’50. La stella di Berlusconi si offusca e subito c’è chi si “riposiziona”. Dei 19.000 ministeriali, appena il 2 % sono architetti, ingegneri, tecnici (circa 350), altrettanti gli archeologi e gli storici dell’arte. Una miseria. Tutto ciò, ha concluso il riposizionato Cecchi, non consente di attuare l’articolo 9 della Costituzione. Una tranquilla confessione di terribile impotenza.

E’ comprensibile che quanti sono stati nel cuore del potere ai Beni e alle Attività Culturali (nel frattempo perenti), attorno a Bondi, come i Cecchi, i Nastasi, i Carandini, confermati da Galan, difendano le postazioni, patiscano candidati “pericolosi” come Settis (che contro Bondi si dimise), e magari indossino nuove casacche affinché nulla cambi. Dove invece molto deve cambiare, altrimenti si va a fondo.

Il buon documento di base presentato da Assotecnici per il suo convegno è un valido pro-memoria per il prossimo (speriamo) titolare del Collegio Romano. Nell’ultimo biennio di crisi nera in Germania, per formazione e ricerca, la quota di PIL è salita dal 2,40 al 2,78 %. Sullo stesso livello gli Usa, poco sotto la Francia. Noi? In coda. Sono, secondo Matteo Orfini, responsabile del Pd per la cultura, tipici “settori anticiclici” nei quali i Paesi avanzati investono proprio per uscire dalla crisi. Facciamolo anche noi, riqualifichiamo il sistema di tutela, eliminiamo “tutti i commissariamenti”. Costosi e spesso disastrosi (vedi Pompei).

Inversione di rotta possibile però se le scelte per la cultura (così Giulia Rodano, responsabile Cultura dell’Idv) non saranno più subalterne ad una valutazione di redditività. Dovremo abituarci a “fare bene con meno”, ha ammonito l’ex ministro Giovanna Melandri, malgrado quello in cultura sia un investimento in civiltà e con una redditività differita certa. Occorre ridiscutere il modello di Ministero (Marisa Dalai presidente della Bianchi Bandinelli): decentrato com’era o duramente accentrato come l’ha voluto Urbani? E poi basta coi compartimenti stagni, con la sconnessione fra Ambiente-Paesaggio-Patrimonio storico/artistico-Turismo.

Connessione reclamata dai continui, angosciosi drammi ambientali. Il nostro è un paesaggio modificato dall’uomo al 90 %, un paesaggio “rifatto a mano”, con un gigantesco sistema di terrazzamenti dalla Valtellina a Pantelleria in molti punti dissestato. L’esodo di 7 milioni di ex contadini delle terre alte ha accelerato lo sfascio di un sistema idraulico-forestale antico, alvei non ripuliti, sottobosco non curato, canali di scolo abbandonati, torrenti (per disperazione e insipienza) cementificati. Così la montagna “si vendica” a valle. In una Italia per due terzi montagna e collina. Nel contempo sono state disattivate o devitalizzate: la legge Galasso sui piani paesaggistici dell’85, la legge n. 183 dell’89 sui bacini fluviali, la legge Bucalossi sui suoli del 1977 che riservava gli oneri di urbanizzazione ai soli investimenti, lo stesso Codice per il paesaggio. “Fare bene con meno”? Si può, ma garantendo la sopravvivenza all’Amministrazione dei Beni Culturali (e Ambientali) e attuando, aggiornate, le leggi solide e civili che ci siamo dati. Su tutto ciò dobbiamo ragionare presto – per “ricostruire l’Italia” della cultura – in forma seminariale (non seminarile). Con cultura di governo, con laico coraggio. Nell’analisi e nella proposta.

Il nuovo Pgt, troppo blando e poco coraggioso

Jacopo Gardella – la Repubblica, ed. Milano, 13 novembre 2011

Caro direttore, il Comune aprirà un dibattito sul nuovo Piano di governo del territorio; un documento che convince poco. Ci si aspettava una svolta radicale rispetto alla passata amministrazione; una franca dimostrazione di discontinuità. E invece dobbiamo constatare soltanto una blanda modifica del vecchio Piano; non la risoluta volontà di rifarlo; non la ferma decisione di abolirne le tante aberranti proposte. Eppure il tempo non sarebbe mancato, tenuto conto dell’ampio lavoro preparatorio - indagini, analisi, raccolta di dati - già pronto ed utilizzabile.

Ci si aspettava la cassazione della folle crescita demografica all’interno dell’area urbana, causa di ulteriore consumo di terreno verde, secondo la esecrabile "espansione a macchia d’olio", ormai universalmente censurata, ma nel Documento del nuovo Piano neppure nominata. Ci si aspettava il ribasso degli abnormi indici di volumetria; e la fine della incontrollata proliferazione di grattacieli, destinati - secondo le irresponsabili affermazioni del sindaco Albertini - a crescere in mezzo al verde, ma in realtà sorti a ridosso di costruzioni esistenti, ora soffocate e prive di aria e di luce.

Ci si aspettava la rinuncia alla dissennata moltiplicazione dei parcheggi interrati a rotazione, colpevoli di attirare traffico. Nel Documento del nuovo Piano non si dice che i parcheggi dovrebbero essere trasformati in parcheggi a posti fissi, riservati ai soli residenti in zona; così da togliere le auto in sosta lungo i marciapiedi e migliorare il traffico nelle strade. L’argomento dei parcheggi sotterranei apre un capitolo doloroso. Il Comune non intende sospendere la costruzione del parcheggio in piazza Sant’Ambrogio e non vuole dare ascolto alla petizione firmata da quasi mille cittadini, decisi a impedire lo scempio di quel luogo monumentale.

Altro capitolo doloroso è il destino dell’antica Darsena. Sventato il pericolo del parcheggio sott’acqua, spunta il pericolo del giardino spontaneo, rapidamente cresciuto dentro al bacino rimasto asciutto e destinato a distruggere il delicato sistema idrico dei Navigli e della Darsena. Di fronte al nuovo pericolo, il Documento del nuovo Piano non prende posizione. Ci si aspettava un esplicito ripudio del deleterio ricorso all’"urbanistica contrattata", per effetto della quale i volumi costruibili vengono definiti al di fuori di regole, indici, verifiche certe ed attendibili. Il nuovo Piano non dice nulla. Leggendo l’incoraggiante proposito di avviare «una partecipazione dei cittadini allo sviluppo della città» ci si aspettava che venisse spiegato come organizzare la partecipazione, con quali nuovi strumenti e con quale nuovo personale; ma la spiegazione non viene data. Se alla vittoria di Pisapia avevamo esultato, ora, passati alcuni mesi, ci sentiamo delusi.

Nel nuovo Pgt indici di edificabilità più bassi

Ada Lucia De Cesaris – la Repubblica, ed. Milano, 14 novembre 2011

Caro direttore, ho letto su Repubblica di ieri la lettera di Jacopo Gardella su quello che lui chiama «il nuovo Pgt». Nella consapevolezza che la decisione della nuova amministrazione di tornare alla fase delle osservazioni permetterà di eliminare le maggiori criticità del Piano elaborato dalla precedente giunta, non vi è dubbio che questa operazione non consentirà la totale riscrittura del Piano. Una scelta che questa amministrazione ha fatto dovendo tener conto delle scadenze normative (approvare il Piano entro il 12 dicembre 2012 e non perdere la possibilità di utilizzare il periodo di salvaguardia) e, quindi, della necessità di agire in tempi rapidi senza fermare il processo di sviluppo della città. Nondimeno ho l´impressione che all´autore della lettera sia sfuggito che nel documento di indirizzo è scritto espressamente che nel lavoro di esame delle osservazioni si terrà conto della necessità di introdurre una riduzione degli indici di edificabilità e delle possibilità di densificazione. Obiettivo confermato durante l´incontro con le associazioni ambientaliste e di tutela del territorio. Peraltro il documento si pone altri importanti obiettivi quali il rafforzamento della città pubblica, il rilancio della qualità urbana e la sostenibilità ambientale.

In verità mi pare che si usi strumentalmente la critica al lavoro sul Pgt al solo fine di ribadire che non si condivide la scelta di questa amministrazione di non bloccare la realizzazione del parcheggio in piazza Sant´Ambrogio. Un´opera, come noto, ereditata dalla precedente amministrazione e che la giunta Pisapia non avrebbe mai realizzato. Ciò non ha però nulla a che fare con i nuovi indirizzi di pianificazione territoriale ma semmai con la necessità di non incorrere nel pagamento di penali estremamente onerose, circa 10 milioni di euro, ponendo in essere un comportamento censurabile anche dalla Corte dei Conti. L´amministrazione comunale ha accolto positivamente l´idea, lanciata con un appello ma non ancora effettivamente avviata, di una sottoscrizione per raccogliere i fondi necessari a coprire le spese per le penali da pagare a chi si è aggiudicato l´appalto per l´opera. Altrettanto privo di fondamento è il riferimento all´intervento sulla Darsena. Anche in questo caso si tratta di una questione che nulla ha a che fare con il documento di indirizzo. È noto che della Darsena ci stiamo occupando nell´ambito del progetto Expo sulle vie d´acqua.

Da ultimo, l´obiettivo di uno sviluppo metropolitano richiede necessariamente l´attivazione di azioni cooperative e negoziali, i soli strumenti in grado di mobilitare e rappresentare soggetti diversi. Questo non significa che l´ente pubblico smetterà di svolgere la sua funzione di regia e controllo a garanzia del rispetto delle regole. Ingiusto, infine, il riferimento alla mancata spiegazione della modalità di partecipazione. Non si tiene conto che proprio questa amministrazione ha già dimostrato ampiamente cosa intende per partecipazione, avendo deciso di esaminare le quasi 5mila osservazioni dei cittadini, nonché di confrontarsi sul lavoro che sta svolgendo con tutti i soggetti (pubblici e privati) coinvolti dall´attività di pianificazione.

Tutti riconoscono che la più grande ricchezza del nostro Paese è quella che si sostanzia in oltre 3.500 musei, in quasi 100.000 fra chiese e cappelle, in 40.000 torri e castelli, in 20.000 centri storici di cui almeno mille strepitosi (italici, etruschi, greci, romani), ecc. e in paesaggi tanto belli e diversi, “fatti a mano” (una “seconda natura”, scrisse Goethe) che, malgrado una demenziale cementificazione, affascinano ancora tanti turisti.

Tutti lo riconoscono, però questo Ministero – che una volta saggiamente ricomprendeva anche i beni ambientali –, già cenerentola dei Ministeri, coi tagli feroci del governo Berlusconi-Tremonti vede ridotte al lumicino le risorse finanziarie e quelle umane e tecniche: gli archeologi di ruolo sono 341, al pari degli storici dell’arte e degli architetti. Perché non arrestare questa suicida spoliazione e il dilagare dell’ignoranza nelle scuole di ogni grado ribadita dal ministro Gelmini (“ex” per sempre speriamo), un gruppo di associazioni e di persone che si battono per la salvezza di tanto patrimonio hanno rivolto un appello al presidente Napolitano sempre tanto sensibile ai problemi della cultura. Si tratta, oltre a chi scrive, di Desideria Pasolini dall’Onda (fondatrice di “Italia Nostra”), dell’urbanista Vezio De Lucia, del sociologo Luigi Manconi per il Comitato per la Bellezza, della presidente della storica “Italia Nostra”, Alessandra Mottola Molfino, di Marisa Dalai, importante storica dell’arte, presidente della Bianchi Bandinelli, di Fulco Pratesi fondatore e presidente onorario del Wwf-Italia, dell’urbanista Edoardo Salzano e dell’archeologa Maria Pia Guermandi che animano Eddyburg, sito battagliero. Chiedono che il Ministero per i Beni e le Attività Culturali (ma il discorso vale pure per l’Ambiente) venga affidato “ad una persona di alto profilo culturale e morale, di sicura competenza politico-amministrativa e di provata autonomia rispetto alle due più recenti, negative gestioni del Ministero stesso”. Cioè rispetto alle gestioni Bondi e Galan.

Il MiBAC - affermano - è al disastro: risorse per la mera sopravvivenza, investimenti ormai inesistenti, tecnici ministeriali, in assenza di concorsi, pochi e anziani, promosse ad alti incarichi persone bocciate nei rari concorsi ledendo ogni meritocrazia, decine di Soprintendenze gestite ad interim, commissariamenti diffusi e dannosi, co-pianificazione Ministero-Regioni per il paesaggio bloccata mentre la speculazione imperversa, educazione all’arte sempre più inadeguata, ecc. Da qui l’indispensabilità che, per risalire da tanto disastro e per sanarlo, al Collegio Romano vada una persona di alta competenza e moralità che nulla abbia a che fare col recente devastante passato che ha pure disattivato alcune buone leggi.

Un nome potrebbe senz’altro essere quello di Salvatore Settis, studioso di fama, già al Getty e alla Normale di Pisa, dimessosi dalla presidenza del Consiglio Superiore dei Beni Culturali e subito sostituito da Bondi. In questo mondo non mancano personaggi qualificati. Uno di questi è certamente l’archeologo Stefano De Caro appena nominato, primo italiano, direttore generale dell’ICCROM, istituto internazionale per il restauro, malgrado l’opposizione – udite, udite – del delegato italiano inviato a fare quella figura barbina dal Gabinetto dell’ormai perente ministro Giancarlo Galan. Presumibilmente dallo stesso Salvo Nastasi che a Venezia ha spalleggiato l’improvvida scelta di Galan di non confermare alla Biennale Internazionale di Venezia il presidente in scadenza Paolo Baratta (che ha fatto benissimo) per metterci un amico del Cavaliere. Quel Malgara che, davanti a 4.500 firme contrarie da tutto il mondo e ad un parere negativo della Camera, ha almeno avuto la dignità di farsi da parte. Due episodi fra i tanti che confermano l’indispensabilità di imprimere una svolta che salvi insieme il patrimonio di competenze pubbliche, di tecnici tanto bravi quanto sottopagati (1.700-1.800 euro per dirigenti con trenta’anni di carriera) e una fonte di cultura che è anche economica (se la si tutela): il turismo fornisce una quota di PIL vicina a quella della tanto decantata edilizia e una bella fetta di essa viene dal turismo culturale.

Riportiamo il reportage d’apertura dell’ inchiesta di Francesco Erbani

Ecco i soldi europei e tutti corrono al capezzale della città fantasma Il commissario Hahn ha visitato Pompei la scorsa settimana e ha promesso di vigilare su come verranno spesi i fondi Ue. Ma nella partita, complicata dalle polemiche tra soprintendenza e esponenti del ministero, si agitano interessi politici e affaristici. Perché l'area archeologica è una delle "industrie" più appetite dell'intera provincia napoletana.A Pompei attendono i soldi europei: 105 milioni. Sono tanti, ma non bastano a fugare le ansie che gravano sul sito archeologico più bello, più celebre e più complicato che ci sia al mondo. I lavori di messa in sicurezza - ha garantito il commissario di Bruxelles Johannes Hahn - cominceranno nel primo trimestre del 2012. Il che può voler dire anche a marzo, se tutto va bene. E questo è il primo motivo d'ansia. Si guardano in cielo le nuvole. Potrebbero addensarsi e diventare nere. E le piogge a Pompei recano l'incubo dei crolli. L'acqua stagna fra le bàsole della pavimentazione e imbeve pericolosamente i terrapieni che premono dietro i muri delle domus.

E poi i soldi non sono tutto. Chi e come li spenderà? La Soprintendenza, senza rimpolpare i suoi ranghi, difficilmente può farcela. Ma di nuove assunzioni non c'è traccia. Tante promesse a vuoto. Si affollano invece una quantità di soggetti interessati a mettere in qualche modo le mani su Pompei. Fino a creare una specie di ingorgo che, visto da qui, fa molta confusione e quasi più paura della pioggia. Non è la prima volta che accade, anzi è una costante, raccontano a Pompei, una delle industrie più appetite dell'intera provincia napoletana, al centro di un territorio dalle consolidate ramificazioni affaristiche e clientelari. E persino criminali. E poi c'è la crisi di governo, che potrebbe complicare o, al contrario, snellire tutto.

La regola vorrebbe, dicono a Pompei, che i soldi entrassero nelle casse della Soprintendenza, la quale li spenderebbe sulla base di un piano preparato nel frattempo. Troppo semplice. La partita su Pompei, dopo un anno di completa inazione seguito al crollo della Schola Armaturarum, si è improvvisamente agitata nelle ultime settimane. Annunci, promesse. Lotte fratricide dentro il ministero. Fra i più attivi a immaginare scenari complessi c'è il sottosegretario ai Beni culturali Riccardo Villari, napoletano, una carriera politica movimentata (dalla Dc al Ppi, quindi l'Udc, l'Udeur, la Margherita e il Pd, che lo espelle, dopodiché lui fonda un gruppo di "responsabili" al Senato). Diventato sottosegretario nel maggio 2011 e nonostante senta vacillare la propria poltrona, attacca senza mezzi termini l'attuale soprintendente, Teresa Cinquantaquattro, la stessa che dovrebbe gestire i 105 milioni. La accusa di non saper spendere i soldi che ha in cassa (ventidue milioni l'anno, grosso modo, che per metà se ne vanno in spese correnti), di non averlo avvisato del crollo avvenuto due settimane fa e di altro ancora.

Il sottosegretario, quasi ex, ha mobilitato le università napoletane e altri archeologi, e poi si è fatto paladino di un gruppo di imprenditori, sempre napoletani, interessati più che a salvare Pompei, a costruire fuori degli scavi, forti di un articolo del decreto varato dal governo nella scorsa primavera che prevede si possano realizzare interventi anche in deroga al piano regolatore della città. Alberghi, ristoranti, strade, parcheggi: qualcuno sogna una scorpacciata di cemento. Villari poi si è proposto come l'interlocutore dell'Unesco, che nei mesi scorsi ha redatto un rapporto molto critico su come il ministero è intervenuto a Pompei (ha contestato, per esempio, i commissariamenti stile Protezione civile e ha criticato l'eccesso di attenzione per la valorizzazione a scapito della tutela). E non solo dell'Unesco, con il quale a Parigi il ministero dovrebbe firmare un accordo a fine novembre, ma anche di un'altra cordata di imprenditori, stavolta francesi, disposti a spendere fino a 200 milioni a Pompei. A condizione - ha più volte ribadito Villari, non si sa quanto interpretando i desideri d'oltralpe - che ciò avvenga in sintonia con i loro colleghi napoletani.

Che cosa resti di questa complicata architettura, una volta dimesso il governo Berlusconi, non è chiarissimo. Ma molti temono che non svanisca nel nulla. E non è tutto. Nella partita Pompei entra anche Invitalia, società del ministero dell'Economia, esperta nell'attrarre investimenti. Si dice debba occuparsi di gare d'appalto e di bandi. Invitalia a un certo punto ha sostituito un'altra società che avrebbe dovuto lavorare a Pompei, l'Ales, che almeno era di proprietà del ministero dei Beni culturali.

A Pompei si guarda con preoccupazione a questi scenari. Tornano a profilarsi i fantasmi di una gestione commissariale sotto altre vesti, di soprintendenti molto volatili (ce ne sono stati quattro in due anni) e anche per questo molto deboli. Si agitano personaggi di primo e secondo piano della politica che qui, avvicinandosi elezioni, giocano destini personali. La settimana scorsa è venuto il commissario Hahn. Non aveva mai visitato Pompei. L'ha girata incantato per ore, fino al tramonto, sconvolgendo il protocollo. I soldi arriveranno, ha ripetuto, ma la commissione vigilerà che vengano spesi bene. Un po' come il Fmi per i conti pubblici italiani.

Ma, come se non bastasse la vigilanza europea, ecco che si annuncia la costituzione di una "cabina di regia" formata dagli archeologi del Consiglio superiore dei Beni culturali (Andrea Carandini; Giuseppe Sassatelli; Francesca Ghedini, sorella di Niccolò, l'avvocato di Berlusconi; il direttore generale delle Antichità, Luigi Malnati). "Potremo seguire e controllare tutte le attività che si svolgono a Pompei - ha spiegato Carandini, che del Consiglio superiore è presidente - e tutti gli atti verranno messi a conoscenza della cabina di regia". Ma appena poche ore dopo quell'annuncio, il ministero tira il freno: il Consiglio superiore può esprimere pareri e atti di indirizzo, non sovrapporre nuove strutture. La "cabina di regia" pare abortita prima di nascere.

Sugli scavi di Pompei hanno sempre governato o voluto governare in molti. Dai sindaci della città al vescovo. Senza contare il peso di alcune sigle sindacali che sembrano altrettanti clan familiari. E non dimenticando il ruolo dei potenti bancarellari o dei posteggiatori. L'attuale primo cittadino, Claudio D'Alessio (Udc), per non restare fuori dai giochi, ha chiesto di entrare anche lui nella fantomatica "cabina di regia". Il vescovo Carlo Liberati, che regge il Santuario della Madonna e una vasta rete di proprietà immobiliari, guarda con occhio vigile a ciò che accade dentro gli scavi, pronto a proporre uomini graditi alla curia, come accadde nel 2007 quando festeggiò con un calore che non passò inosservato la nomina a direttore amministrativo di Antonio De Simone, professore di archeologia all'Istituto Suor Orsola Benincasa di Napoli.

E proprio De Simone è una di quelle figure che, in questa effervescenza, potrebbe riproporsi. Non si capisce in che ruolo, ma la voce di un suo interesse a tornare a Pompei circola con insistenza. Villari, per esempio, lo ha sponsorizzato apertamente. De Simone ha lavorato molto a Pompei negli anni Ottanta e nel 2007 si è dato terribilmente da fare per diventare direttore amministrativo, una carica che non c'entrava granché con la sua qualifica di archeologo. Per ottenere l'incarico si rivolse a un consigliere regionale del Pd, Roberto Conte, considerato molto vicino all'allora ministro Francesco Rutelli. Le loro telefonate furono intercettate, perché Conte poco dopo fu arrestato per associazione camorrista (poi, espulso dal Pd, è transitato nel centrodestra). Venne fuori uno spaccato di smodate ambizioni personali, ma anche quanto contasse in certi ambienti politici avere un proprio uomo in un posto cruciale alla Soprintendenza di Pompei.

Signor Presidente, In queste ore nelle quali, grazie alla sua intelligenza e sagacia politica, il Paese sembra avviato a ritrovare un percorso democratico e riformatore positivo, le associazioni che si battono per la tutela si rivolgono a lei e al presidente incaricato affinché la responsabilità dei Beni e delle Attività Culturali venga affidata ad una persona di alto profilo culturale e morale, di sicura competenza politico-amministrativa e di provata autonomia rispetto alle due più recenti, negative gestioni del Ministero stesso.

La situazione del MiBAC è infatti delle più desolanti da ogni punto di vista: risorse ridotte al livello della mera sopravvivenza, investimenti ormai quasi inesistenti, tecnici ministeriali, in assenza di concorsi, drammaticamente insufficienti di numero oltre che anziani, promosse ad alti livelli dirigenziali persone bocciate nei rari concorsi ledendo ogni meritocrazia, decine di Soprintendenze gestite pertanto ad interim, commissariamenti diffusi e in più di un caso altamente dannosi, co-pianificazione paesaggistica Ministero-Regioni praticamente ferma in un Belpaese aggredito dalla speculazione, educazione sempre più inadeguata al rispetto e alla fruizione del patrimonio storico-artistico e del paesaggio, e l’elenco potrebbe purtroppo continuare a lungo.

Anche da tale elenco sommario si evince l’assoluta necessità di porre alla guida del MiBAC una persona di grande autorevolezza morale, culturale e politica la quale, ripetiamo, nulla abbia avuto a che fare col più recente passato e possa dare pertanto un chiaro segnale di discontinuità.

Confidiamo, signor Presidente, nel suo comprovato amore per la cultura e per la bellezza, nella sua illuminata saggezza, nel suo raro senso dello Stato e le auguriamo i migliori risultati in quest’opera tanto difficile quanto meritoria.

Vittorio Emiliani, Desideria Pasolini dall’Onda, Vezio De Lucia per il Comitato per la Bellezza

Marisa Dalai, presidente Associazione “R. Bianchi Bandinelli”

Alessandra Mottola Molfino, presidente nazionale di Italia Nostra

Fulco Pratesi presidente onorario del Wwf-Italia

Edoardo Salzano e Maria Pia Guermandi per Eddyburg

Quale disciplina scientifica bisogna scomodare per dimostrare che la nostra civiltà auto-dipendente è destinata all'auto-distruzione? Forse una nuova branca della psicologia, la traffic psychology, che studiando le relazioni tra l'imbottigliamento del traffico e i modelli di comportamento ha «scoperto» che - cuore e polmoni a parte - le particelle di anidride carbonica intasano anche il cervello, in particolare le regioni che sovrintendono ai processi decisionali. Si chiama stress. Quanto alla medicina, periodicamente racconta una strage, ma la «notizia» curiosamente risulta più noiosa che drammatica.

Prendiamo Milano, per esempio, una delle aree urbane più inquinate d'Europa, l'unica città italiana che per affrontare l'emergenza ha approvato la congestion charge (tassa di congestione) seguendo l'esempio di Londra, che dal 2003 impone un pedaggio di 10 sterline a tutti gli automobilisti che si avventurano nelle zone centrali. Secondo uno studio illustrato dal professor Pier Alberto Bertazzi dell'Università degli Studi di Milano, il numero di morti direttamente attribuibili all'inquinamento è tra i 160 e i 200 all'anno. «Viviamo immersi in un aerosol - spiega - e respiriamo in condizioni normali 200 milioni di particelle al minuto, 10 milioni delle quali si depositano nei polmoni». I feti esposti all'inquinamento perdono peso in relazione alla concentrazione di Pm10 e i bambini milanesi hanno i bronchi più malati d'Italia. Non stupisce allora la rilevazione dell'Istat secondo cui, riflettendo sul «grado di soddisfazione per la propria vita», i cittadini italiani hanno messo in cima alle loro preoccupazioni il traffico (41,2%), i parcheggi (38%) e l'inquinamento (36,8%).

Fino ad ora però nessun sindaco di una grande area urbana ha avuto il coraggio di affrontare la questione. Tranne uno. Giuliano Pisapia. Va dato atto alla sua amministrazione di aver preso una decisione (quasi) rivoluzionaria, soprattutto grazie al clamoroso risultato dei referendum ambientali di giugno che ha trasmesso un po' di coraggio a chi aveva il dovere di prendere decisioni che i politici hanno sempre ritenuto impopolari. Sbagliando. L'ottimismo della volontà oggi impone di vedere il bicchiere mezzo pieno, perché non c'è dubbio che con l'introduzione dell'Area C (la zona a pagamento per tutti, entrerà in vigore il 16 gennaio) Milano ha fatto un passo avanti impensabile solo fino a pochi mesi fa - la città soffocava con la farsa dell'ecopass di Letizia Moratti. Eppure, considerando la situazione drammatica, si poteva fare di più.

Il superamento dei livelli di guardia delle polveri sottili (50 mg/mc di Pm10) ormai è un fatto normale. Le automobili uccidono i pedoni e le «utenze più deboli» con impressionante regolarità. Nel 2010 a Milano sono stati uccisi 21 pedoni, 7 ciclisti e 15 motociclisti (43 persone), in provincia di Milano ne sono morte 64 (20 pedoni, 9 ciclisti e 35 motociclisti). Giacomo, 12 anni, non rientra in questa statistica: è stato ucciso domenica scorsa in via Solari mentre tornava a casa in bicicletta. Un'automobile parcheggiata in doppia fila ha aperto la portiera, lui, per scartala, è finito sotto un tram. Il giorno dopo, solo il giorno dopo, i vigili hanno multato 400 automobili in sosta vietata lungo la carreggiata di via Solari. Una non soluzione che incattivisce e serve solo per fare cassa (il Comune nel 2011 ha incassato 126 milioni di euro di multe). E non è una boutade la richiesta di dimissioni del capo dei vigili Tullio Mastrangelo avanzata dal comitato GenitoriAntiSmog per la morte di Giacomo: «Non vogliamo un caprio espiatorio ma pretendiamo un cambio di impostazione nel controllo della sicurezza e vigilanza rigorosa sul rispetto delle regole» (in netta discontinuità col passato, dunque, visto che Mastrangelo, con l'ex vicesindaco De Corato, ha sempre concepito i vigili urbani come un corpo di polizia al servizio dell'ideologia sicuritaria).

I ciclisti ormai non chiedono più rispetto, lo pretendono. La rivoluzione a pedali è una delle poche buone notizie che prima dell'elezione di Giuliano Pisapia ha reso più respirabile l'aria in città. Il sindaco lo sa e adesso dovrebbe sentirsi in dovere di proteggere un'utenza che debole non è: secondo l'ultimo censimento di Fiab Ciclobby, in una giornata lavorativa si registrano oltre 33 mila passaggi in bici nella cerchia dei navigli (+ 8% rispetto all'anno scorso e + 13% rispetto al 2009). I picchi nelle fasce orarie confermano che si usa la bicicletta per gli spostamenti casa-lavoro. Dunque non c'è che una soluzione per agevolare questa tendenza: disincentivare l'uso dell'automobile investendo nel trasporto pubblico e nella ciclabilità. E Milano è una delle poche metropoli che può permettersi di giocare d'azzardo, sfidando luoghi comuni e la lobby dei commercianti: più della metà degli spostamenti giornalieri (2,5 milioni di passaggi) è inferiore ai 3,5 chilometri (40 minuti a piedi, 15 minuti sui pedali). Va in questa direzione la congestion charge adottata da Palazzo Marino? Sì, e no.

Dal 16 gennaio tutti gli automobilisti che vorranno congestionare il centro dovranno pagare 5 euro. Non poco. Si tratta di un cambiamento radicale, la rottura di un tabù: viene tassato il 90% delle auto circolanti (con ecopass il 10%). Ai residenti del centro storico, i più ricchi, sono stati concessi 40 passaggi gratuiti, poi pagheranno solo 2 euro. Qualcuno arriccia il naso. Ma non è qui che il sindaco rischia di dilapidare un pizzico di quel consenso che ha conquistato in campagna elettorale: il fatto è che i commercianti pagheranno solo 3 euro (con ecopass erano 5) e così i veicoli commerciali, quelli di maggiore impatto sul traffico, potranno circolare più liberamente di prima. Non è stata presa in considerazione nemmeno una fascia oraria obbligatoria per il carico/scarico merci (9,30-18,30), una proposta saggia a costo zero per decongestionare le ore di punta. Hanno vinto i commercianti. A Londra, invece, non ci sono categorie esentate (nemmeno i medici) eppure la congestion charge non ha penalizzato il commercio: il volume di affari è cresciuto del 4,4% e la tassa è servita per acquistare 500 nuovi bus.

C'è poi una questione, diciamo così, di classe che in questi tempi non andrebbe sottovalutata. Riassumendo: detto che è già stato aumentato del 50% il prezzo del biglietto del tram, è giusto che una Panda e una Porsche paghino la stessa cifra? Se è vero che il sindaco ha detto che il provvedimento è perfettibile, allora sarebbe carino inventarsi una tassa di ingresso in base alla cilindrata, oppure in base al reddito: se davvero le automobili fanno male, non dovrebbe essere così impopolare stabilire una tassa annuale che va dai 150 ai 1.000 euro per tutti i possessori di automobile.

A proposito di soldi, che fine faranno? Va da sé che Pisapia ha promesso di reinvestirli per la mobilità, ma di questi tempi non si sa mai. Per questo qualcuno ha avuto un'idea semplice: l'istituzione di una sorta di fondo separato e vincolato che non finisca nel calderone del bilancio - conti trasparenti su internet, per dimostrare che ogni centesimo versato dagli automobilisti sarà utilizzato per non auto-distruggersi. E tra sei mesi magari toccare con mano, su due ruote, i risultati ottenuti con la congestion charge: per una pista ciclabile basta poco, una pennellata lungo il ciglio della strada, e tanta buona volontà. Politica.

Un convegno molto utile per capire, a San Casciano. Flavio Cattaneo (amministratore delegato Terna), Roberto Colaninno (presidente Alitalia), Vito Gamberale (amministratore delegato del fondo F2i, specializzato in investimenti in reti e infrastrutture), Mauro Moretti (amministratore delegato ferrovie italiane). Quattro nomi che interverranno nella giornata conclusiva del convegno "Le reti che fanno crescere l'Italia". Quattro nomi che rappresentano il ponte di comando delle infrastrutture italiane e dei relativi interessi e fin qui siamo all'ordinario lobbismo; ma che assumono un significato particolare se vi aggiungiamo Massimo D'Alema, Riccardo Conti e il ministro Altero Matteoli, i politici che parleranno insieme agli 'imprenditori'. La sede prescelta del convegno, che si terrà dal 10 al 12 novembre, è non casualmente San Casciano in Val di Pesa, il comune la cui pessima gestione del caso Laika per dichiarazione di Conti viene rovesciata in modello esemplare.

Il significato politico dell'incontro è del tutto evidente. Si vuole proporre un tipo di governance basato sull'intreccio fra (presunti) interessi pubblici e interessi privati alimentati con i soldi dei contribuenti. Il tutto in nome di una modernizzazione che ignora i problemi del territorio, della crescente scarsità delle risorse e che neanche i disastri e le alluvioni degli ultimi giorni riescono a riscuotere dal tetragono procedere verso l'insostenibilità sociale ed economica (oltre che ambientale). Una politica che vede il futuro della Toscana nel ruolo di piattaforma logistica dei trasporti e dei traffici nord-sud (meno di quelli est-ovest ha detto Conti con una puntatina di dissenso rispetto a precedenti dichiarazioni del presidente della Regione - quest'ultimo è solamente intervistato nella tre giorni). Un' iniziativa della parte più conservatrice del Pd a difesa delle posizioni di potere nella roccaforte, o presunta tale, toscana e chiaramente contro le timide aperture del governo regionale e la politica riformatrice dell'assessore al territorio, Anna Marson. Riccardo Conti, l'organizzatore, qui si presenta come vicepresidente dell'Associazione Romano Viviani a braccetto con la Fondazione Italianieuropei di Massimo d'Alema. Ma di fatto il suo ruolo è di coordinatore nazionale per le infrastrutture nel Pd, di consigliere di amministrazione di F2i (guarda caso) in rappresentanza del Monte dei Paschi di Siena e, sempre per la 'banca rossa' di consigliere amministrazione della società G6Rete Gas acquistata dal fondo F2i che diventa così il secondo distributore di gas in Italia, dopo Eni. Il tutto con la benedizione di Altero Matteoli, che di Conti condivide gli stessi interessi infrastrutturali e la stessa idea di una governance territoriale fatta da imprenditori e di politici cointeressati che fanno da riferimento a cooperative rosse e costruttori privati.

Notevole il fatto che nei tre giorni, per lo più popolati da politici e amministratori del Pd cresciuti nelle botteghe del partito e perciò sconosciuti alla società, siano stati invitati docenti universitari di vari atenei nazionali, ma non un solo docente toscano, nel momento che le Università di Firenze, Pisa, Siena formano una rete di atenei per la revisione del Piano di indirizzo territoriale, che a sua volta avrà qualcosa da dire su quali siano le reti che fanno crescere la Toscana. Ma ancora più notevole il fatto che non si accenni, nell'intervista di Conti apparsa su Metropoli (giornaletto locale di proprietà del coordinatore del Pdl Denis Verdini, che qui funge da cassa di risonanza del Pd), né ai movimenti e ai comitati che in Toscana sono attivi, non per contrastare, ma per qualificare in senso moderno, sostenibile e non cementizio lo sviluppo della reti (soprattutto immateriali), né all'opportunità e necessità di partecipazione dei cittadini.

D'altronde la politica come ramo specialistico delle professioni intellettuali che non deve essere condizionata dal 'popolo', vale a dire è sorda nei confronti della società civile, è il nocciolo del pensiero politico di D'Alema. Da qui le alleanze con i vari Matteoli, le pericolose frequentazioni dei Pronzato e dei Penati, il prolungato appeasement nei confronti di Berlusconi. E la triplice veste di Conti - che Bersani continua a ignorare - con i suoi corposi conflitti d'interessi, dà un pessimo segnale di contro-rinnovamento (dove il rinnovamento non è certo quello ultraliberistico di Renzi) e delude chi ancora spera nelle capacità del partito democratico di liberarsi dai condizionamenti delle conventicole affaristiche.

Quando la nausea mi assale succhio uno spicchio di limone. Quando ascolto storie come questa torno a leggere questo testo. Lo consiglio anche a voi

Quelle pagine di pubblicità – che ci hanno messo in conto – saranno ricordate pure per la delusione dei fans di Cappellacci. Dopo il rullo di tamburi e le trombe a tutto fiato si aspettavano il seguito, la spiegazione tempestiva e inconfutabile: la prova che il “partito del no” aveva torto a difendere spiagge e scogliere non più bellezze uniche ma merci da mettere senza rimpianti nel frullatore del mercato. Non c'è stato il colpo di scena, lo schiaffo al lavoro degli esperti del tempo di Soru. Il [nuovo] Ppr è ancora una bozza ufficiosa e parziale, senza una spiegazione.

Le ragioni dell'attesa sono evidenti: il Ppr deve inquadrare le due leggi (piano-casa e golf). Così lo strumento sovraordinato, di interesse europeo, è qui ridotto al rango di spalla, e nella sarda commedia aspetta e appoggia le battute di altri. Deve aggiustare le contraddizioni dei due provvedimenti che altrimenti non resisterebbero in nessun giudizio. E non è detto resistano, come lascia intendere l'intervista del ministro Galan al Sole24ore del 2novembre. Ma attenzione, l'obiettivo potrebbe essere il cortocircuito, una fase di destabilizzazione comoda per chi volesse approfittarne.

Sul Ppr Cappellacci non offre una nuova visione. Conserva il vecchio impianto debilitandolo in più punti, aprendo varchi, pure nelle fasce tutelate già negli anni Settanta del secolo scorso, che diventeranno voragini secondo l'uso che si farà di norme ambigue come quelle nel piano-casa1. Si annuncia la tutela nei titoli con ritrattazione nelle successive pagine. Come una manovra finanziaria che accoglie migliaia di esigenze incompatibili o la giustizia resa flessibile e ad personam.

Nelle due leggi, diverse e complementari, è scritto il programma di governo del territorio secondo la destra o una parte di essa. Il piano-casa, alla terza edizione, ha un suo costrutto ideologico nel versante populista, accoglie interessi diffusi. E' ad ampio spettro contro i vincoli, come si dice per gli antibiotici. Dà un permesso generale che ha il suo lato ragionevole nel proposito di combattere le regole intricate che rendono difficile aprire una finestra e facili le speculazioni – che però, a ben guardare, saranno le più garantite.

La legge sul golf è un mezzo rozzo e approssimativo (al punto che, appena approvata, ha bisogno del soccorso triangolare di piano-casa3 oltre che di Ppr). Una mistificazione senza estro che non entrerà nella lista dei grandi fantasiosi trucchi della Storia (dal cavallo di Troia all' affare Dreyfus al milione di posti di lavoro di B). Starà tra i tentativi di aggirare i vincoli paesaggistici a favore di pochi, con il pretesto dello sviluppo in tempo di crisi. Farà il paio con l' “accordo di programma” introdotto nella pianificazione del 1993, a vantaggio di una cinquina di investitori e inapplicato (quegli strumenti, è bene ricordarlo, sono stati cassati con ignominia perché simulavano la tutela a fronte di una legge meno severa del recente Codice dei beni culturali).

Curioso metodo: più esche metti e più golfisti arriveranno (i quali, dicono le statistiche, sono vacanzieri di prima classe come i pellegrini sono una sottoclasse del mercato turistico). Da qui, per accontentare quelli che l'hanno votata, l'idea di una distribuzione equa dei campi: che però si faranno, come sanno tutti, dove l'investimento edilizio è più conveniente. Dove sarà più vantaggioso vendere le case, difficilmente ai golfisti giramondo.

Preoccupa la replica, l'estensione di una legge così sconsiderata: per insediamenti legati alla vela, al trekking, al calcetto o semplicemente alla balneazione. Preoccupa questa mancanza di rigore. Un modo di fare approssimativo e impressionante. Impressiona soprattutto lo scarto tra le immagini terribili dei luoghi devastati nei giorni scorsi, il riconoscimento che la manomissione dei suoli ha contribuito ai disastri, e la determinazione di Cappellacci che frena i dubbi di qualche consigliere regionale perché o il piano-casa o la crisi. Così è a Cagliari, per ora.

Si veda anche Cappellacci vuole rifare il piano paesaggistico della sardegna e Cappellacci e la pubblicità in cemento.

La scelta scellerata dell’amministrazione Pisapia di revocare la delibera di approvazione del PGT comporta, come stabilito dall’art.13 della legge regionale n°12, l’inefficacia dell’intero provvedimento e la necessità di ricominciare da capo avviando un nuovo unico procedimento che passi attraverso la fase dell’adozione e poi a quella dell’approvazione.

Ciò comporta, evidentemente, il blocco per alcuni anni dello sviluppo edilizio, infrastrutturale e dei servizi della città con ricadute devastanti su di un settore economico che è popolato non solo da costruttori, ma anche da operai, manovali, imbianchini, muratori, carpentieri etc. e dalle rispettive famiglie. A ciò si aggiunga il pregiudizio che ne subirebbe l’intera popolazione cittadina a causa dell’inevitabile impossibilità di edificare le case in housing sociale per decine di migliaia di famiglie nonché il totale immobilismo rispetto alla realizzazione di ogni tipo di infrastruttura e di servizi per la città.

Nell’augurarmi che il Consiglio Comunale di Milano, unico organo legittimato a revocare una propria delibera, non si assuma una simile responsabilità, ho ritenuto doveroso, quale cittadino ed ex consigliere comunale, procedere ad invitare formalmente con apposita diffida (notificata per conoscenza anche al Sindaco, all’assessore all’Urbanistica e al presidente del Consiglio Comunale di cui unisco copia) il responsabile del procedimento nella persona del direttore del settore Pianificazione Urbanistica Generale al pieno rispetto della legge provvedendo senza indugio alla pubblicazione del PGT già approvato da 9 mesi, tenuto conto che si tratta di un obbligo d’ufficio con tutte le conseguenze del caso.

Il caso Laika, chiuso anche se malamente, suggerisce una riflessione su quanto dichiarato dai protagonisti nel dibattito che ha preceduto la decisione finale del presidente Rossi. Tutti, sindacalisti, politici e in particolare la presidente della Confindustria toscana, hanno ribadito la necessità di uno sviluppo industriale sostenibile, rispettoso dell'ambiente; ma né industriali, né sindacati, né politici sono veramente entrati nel merito della questione. Non basta dire sviluppo rispettoso dell'ambiente e del paesaggio, bisogna dire quale sviluppo; né sembra credibile che gli orizzonti dello sviluppo industriale toscano possano essere inquadrati genericamente in un rilancio dell'industria manifatturiera, come più volte è stato ribadito dai presidenti di Regione Toscana e Confindustria (mi chiedo, fra l'altro, se questa categoria ottocentesca significhi ancora qualcosa nel ventunesimo secolo, o se convenga inventare altri termini, che indichino come protagonisti i talenti e i cervelli oltre che le mani). L'impressione è che ancora si proceda a forza di slogan, forse utili nella polemica, ma poco costruttivi in prospettiva. Sarebbe, invece, opportuno esaminare alcuni possibili scenari produttivi e stabilire a quali condizioni possano coniugarsi con ambiente e paesaggio. Ne indico alcuni, come emergono dagli studi dell'Irpet e da vari documenti della Regione.

Il primo è il rilancio dell'industria tradizionale, che si esprime tipicamente nel distretto. Questa potrà sopravvivere solo ricollocandosi in produzioni di alta qualità, incorporando innovazione tecnologica e di mercato e a patto di avere dimensioni e spalle finanziarie; quindi, buona parte dell'industria tradizionale soffrirà di una crisi irreversibile.

Una seconda opzione è costituita da attività produttive che potrebbero insediarsi in Toscana attratte da alcuni vantaggi territoriali, comprese quelle di immagine, di 'brand'. Ben vengano, soprattutto se operano in settori avanzati, ma a condizione che non pretendano varianti ad hoc degli strumenti urbanistici; meglio ancora se utilizzeranno (in qualche caso ciò accade) edifici rurali o dismessi. Fattore di attrattività e allo stesso tempo, difesa rispetto a la scelta casuale dei siti, è la capacità da parte delle amministrazioni locali di offrire aree ben attrezzate, accoglienti ecologicamente ed esteticamente valide; ciò che richiede un coordinamento fra i diversi comuni gravitanti in una stessa zona economica, essendo impossibile che ognuno si costruisca o riconverta la propria area industriale in concorrenza con gli altri.

Una terza opzione, è lo sviluppo di una piattaforma logistica fatta di infrastrutture pesanti. Senza nulla togliere alla necessità di integrare i vari pezzi del sistema logistico toscano con porti e poli produttivi, pensare che questa sia la strada maestra per la modernizzazione dell'apparato produttivo regionale deve fare i conti con la necessità di raggiungere livelli di efficienza e competitività pari a quelli tedeschi, francesi o olandesi; un obiettivo difficile, se non impossibile, sia per mancanza di risorse finanziarie, sia perché la Toscana rimarrebbe comunque un appendice del sistema europeo. Inoltre, questa opzione va contro ai caratteri specifici del nostro paesaggio che ne costituiscono un fondamentale fattore concorrenziale, perché inevitabilmente impatta violentemente sul territorio. In parte collegata alla precedente vi è la questione delle grandi aree industriali localizzate sulla costa, dismesse o in crisi; che, tuttavia non possono essere trasformate, come alcuni vorrebbero, in case, alberghi e centri commerciali; una possibilità sarebbe la loro riconversione in parchi tecnologici (declinazione sostenibile della piattaforma logistica) da supportare con mirati investimenti infrastrutturali; una strada, tuttavia, che anch'essa chiede risorse e tempo. Queste e altre possibilità, compresi punti di forza e di debolezza, dovrebbero essere discusse e in questo contesto si potrebbe parlare concretamente di sviluppo in rapporto ad ambiente e paesaggio e dei limiti di un loro 'rispetto' declinato essenzialmente in termini di mitigazione, al meglio di sostenibilità intesa come 'carrying capacity'.

Per chi ne ha le chances (e la Toscana forse ne ha più che ogni altra regione al mondo) ambiente e paesaggio dovrebbero essere, al contrario, ingredienti costitutivi di uno sviluppo durevole, fattori essenziali di modernizzazione e competitività, non esternalità da mitigare e compensare a posteriori. L'orizzonte industriale da perseguire dovrebbe, perciò, essere basato sulla conoscenza, le tecnologie avanzate, la ricerca, i servizi di information technology, il know-how. Attività 'amenity oriented', che fanno della qualità dell'ambiente e del paesaggio un requisito essenziale di attrattività: per frenare, oltretutto, la fuga dei giovani laureati e dei ricercatori, che, secondo le stime di Confindustria, costa all'Italia più di un miliardo di euro all'anno.

Senza nulla togliere alle giuste rivendicazioni degli operai che, tuttavia, riguardano il 'qui e ora', è quindi il momento di aprire sul tema 'sviluppo, ambiente, paesaggio' un confronto aperto e senza pregiudizi: forse da questo potrebbe nascere una collaborazione per una Toscana più moderna e virtuosa e meno legata a produzioni obsolete, fra cui spicca l'edilizia delle seconde e terze case. Con un'ultima postilla: non si può non essere d'accordo con il presidente della Confindustria toscana, quando dice che le regole, quando ci sono, devono essere rispettate. Ed è vero che un'economia moderna non può crescere nell'anarchia; perciò, si presume, d'ora in poi l'associazione degli industriali stigmatizzerà la diffusa violazione di leggi e piani da parte di molti Comuni toscani, in stretta collaborazione con un mondo imprenditoriale che guarda più alla rendita che al profitto.

Chi nutrisse ancora dei dubbi dopo la kermesse di Villa Erba può tornare a casa sereno. In fondo i dubbi, salvo che per i seguaci di polverose dottrine filosofiche spazzate via dai signori delle certezze, fanno male, rendono insicuri, deboli e sottomessi. Oggi invece una certezza l’abbiamo:Expo 2015 è una faccenda di Comunione e Liberazione ma soprattutto del suo braccio secolare, la Compagnia delle Opere.

A Cernobbio si è capito chi conta e perché.Che il Celeste sia arrivato in elicottero fa parte della passione per il volo dei potenti: non tutti possono permettersi il jet, come Don Verzè, e poi diciamocelo, l’elicottero è più maneggevole, è una sorta di Smart del cielo, lo parcheggi ovunque. Un elicottero Agusta 109 da 5 Passeggeri + Pilota – costa solo € 38 il minuto e per il volo, compresi gli avvicinamenti immagino un 100 minuti tra andata e ritorno da Cernobbio, insomma solo 3.800 euri. Che sarà mai! Ma non fa sorridere.

Non fa sorridere perché chiarisce una volta per tutte di che pasta son fatti i nostri governanti e in che considerazione tengono la forma che per loro non è mai sostanza.A Cernobbio si parlava, però, di fame nel mondo e forse non era il caso di rintanarsi addirittura nel Monastero di Bose da padre Enzo Bianchi, ma di vie di mezzo ne avrei un pacco da suggerire. Insomma, cominciamo a far festa poi si vedrà. D’altro canto Villa Erba è una sorta di dependance di Fiera Milano Congressi dove Maurizio Lupi è amministratore delegato e vi fa svolgere tutte le manifestazioni che in un modo o nell’altro riesce a dirottare. Va da sé che nel board di Fiera Milano Congressi si entra dalla porta di CL. Se non ci fosse da piangere credo nei prossimi tempi potremo dedicarci a capire chi nell’affair Expo è targato CL e CdO.

Ma detto questo, che non è una novità per la Lombardia, anche se qualche bello spirito nega che vi siano rapporti organici da CdO e CL– “noi siamo un movimento ecclesiale e spirituale”- e tuttavia qualche libro a soggetto c’è nelle librerie. Molti studi di architettura milanesi stanno facendo domanda per diventare anche loro movimento ecclesiale: chi sa mai che basti per essere invitati a progettare qualcosa per Expo, le piccole imprese, quelle non associate alla Compagnia delle Opere, sono ormai centri di meditazione.

L’aspetto che mi preoccupa è anche un altro: ma che diavolo di Expo faranno lorsignori?Per il momento si è capito che ci saranno 400 milioni d’investimenti tecnologici per fare di Expo2015 la prima Ciber-Expo. Per il film Avatar si è speso meno. Avremo robot, realtà virtuali e muri elettronici. Expo potrà essere visitata in remoto da tutte le parti del mondo, sarà un’orgia di cuffiette, visori, tavolette. un gigantesco videogame che altri non ce n’è, una piattaforma informatica innovativa, avveniristica. Insomma un’expo virtuale prima di tutto. Perché allora comprare tanti terreni? Me la vedo da casa.

E la fame nel mondo? Beh agli affamati offriremo del cibo virtuale, un’agricoltura virtuale, potranno nutrirsi via internet senza muoversi dal loro Paese. Così va il mondo.Formigoni si è anche accreditato dei rapporti con i Paesi espositori con i quali, giustamente fedele alle sue abitudini, cercherà di intessere affari, speriamo più decifrabili di quelli petroliferi d’antan. E la fame nel mondo? Beh era la ciliegina sulla torta anche se un po’ piccola per il miliardo di affamati nel mondo. Il Comune che fa? Giuliano Pisapia ci ha ripetuto qualche giorno fa: “Non lasciatemi solo!”. Siamo tutti qui, basta un fischio.

Corriere della Sera

Gli ulivi sterminati, la ferita del Salento

di Gian Antonio Stella

«Un bel paesaggio una volta distrutto non torna più e se durante la guerra c'erano i campi di sterminio, adesso siamo arrivati allo sterminio dei campi», scrisse Andrea Zanzotto, scomparso una ventina di giorni fa. Pensava alla sua campagna veneta, ma non solo. Ed è il dolore del grande poeta trevigiano che ti viene in mente guardando l'angosciante servizio che una giornalista di Telerama, un'emittente pugliese, ha dedicato allo stupro del paesaggio nel Comune di Carpignano Salentino, poco a nord di Maglie, nel Salento. Dove le ruspe hanno estirpato centinaia di bellissimi ulivi per fare posto a una centrale fotovoltaica.

L'abbiamo scritto e riscritto: nessuno, a meno che non accetti la rischiosa scommessa nucleare, può essere ostile alle energie alternative e in particolare a quella solare. Ma c'è modo e modo, luogo e luogo. Un conto è sdraiare i pannelli in una valletta di un'area non particolarmente di pregio e da risanare comunque perché c'erano i ruderi di una dozzina di capannoni d'amianto, come è stato fatto in Val Sabbia col consenso di tutti i cittadini, di destra e sinistra, un altro è strappare quelle piante nobilissime che la stessa Minerva avrebbe donato agli uomini e che fanno parte della nostra storia dalla Bibbia all'orto di Getsemani fino alle poesie meravigliose di Garcia Lorca: «Il campo di ulivi / s'apre e si chiude / come un ventaglio...».

C'è una legge in vigore, laggiù nel Salento. La numero 14 del 2007. Il primo articolo dice che «la Regione Puglia tutela e valorizza gli alberi di ulivo monumentali, anche isolati, in virtù della loro funzione produttiva, di difesa ecologica e idrogeologica nonché quali elementi peculiari e caratterizzanti della storia, della cultura e del paesaggio regionale». Né potrebbe essere diversamente: l'ulivo è nello stesso stemma della regione. È l'anima della regione. Eppure, denuncia Telerama, il progetto di quell'impianto «Saittole» da un megawatt della Solar Energy, è stato regolarmente presentato al Comune di Carpignano e da questi approvato nonostante l'area fosse agricola e fertile. Di più, l'autorizzazione finale è stata data dallo stesso assessore regionale all'agricoltura Dario Stefano che oggi dice: «Verificherò».

Certo è, accusano il Coordinamento Civico apartitico per la Tutela del Territorio e il Forum Ambiente e Salute del Grande Salento, che quegli alberi che crescevano solenni su quattro ettari di uliveto secolare, come dimostrano le immagini registrate, «sono stati espiantati e ripiantati accatastati gli uni agli altri come pali di una fitta palizzata, lungo il margine del fondo, senza neppure le dovute prescritte cure d'espianto riportate nella stessa autorizzazione, ad esempio la prescrizione della presenza di una zolla del raggio di almeno un metro». Un delitto. Che fa venire in mente quanto scriveva Indro Montanelli: «Ogni filare di viti o di ulivi è la biografia di un nonno o un bisnonno». Buttare giù quelle piante non è solo una porcheria: è un insulto ai nostri nonni.

la Repubblica Bari

Il Pdl chiede meno vincoli, ma è rivolta: “Vogliono cemento al posto degli alberi”

di Antonio Di Giacomo

Una levata di scudi per difendere gli ulivi. È unanime la bocciatura della proposta di modifica della legge regionale per la "Tutela e valorizzazione degli ulivi monumentali della Puglia", presentata nei giorni scorsi da Massimo Cassano, consigliere regionale del Pdl. "In Puglia ci sono 60 milioni di ulivi e - premette Cassano - di questi, 5 milioni sono delle vere opere d'arte della natura. "Monumenti" che devono sì essere tutelati, ma non necessariamente a esclusivo danno delle esigenze di sviluppo del territorio". Secondo il consigliere, insomma, la salvaguardia degli ulivi rischia di risolversi in un ostacolo all'economia regionale. "Si tratta di agire al più presto - suggerisce - nella duplice ottica della tutela del paesaggio e nel contempo del rispetto dei diritti acquisiti dai privati relativamente, ad esempio, alle aree edificabili, alle lottizzazioni, o al diritto degli imprenditori agricoli di fare reddito e, quindi, di poter riconvertire l'azienda. Tutte esigenze che, in molti casi, vengono al momento frenate o addirittura inibite dalla legge regionale. A questo punto occorre agire, in tempi brevi, per decentrare a livello comunale le competenze per il rilascio di autorizzazioni agli espianti e spostamenti di piante secolari e dei necessari controlli per il rispetto delle norme, prevedendo maggiori deroghe e snellendo assurdi procedimenti burocratici".

Una prospettiva che fa saltare dalla sedia l'urbanista Dino Borri, presidente regionale del Fai: "Mi sembra un'idea folle. E per svariate ragioni. La Puglia è una terra che ha l'ulivo come una specie di bosco coltivato e diffuso, che andrebbe anzi tutelato e vincolato al pari di una foresta. Oltre a essere un elemento costitutivo dell'identità paesaggistica, i milioni di ulivi presenti nella regione rappresentano sia una risorsa produttiva per l'economia territoriale che uno strumento di tutela idrogeologica con uno straordinario valore ecologico. Sicché reputo impensabile l'idea che si possa manipolare questa risorsa per fini di edificabilità". Non solo. A sentire Borri la stessa legge regionale di tutela degli ulivi, pure elevata a modello, non è di per sé sufficiente. "La Regione dovrebbe anzi accrescere i livelli di salvaguardia - osserva - applicando agli ulivi i criteri della foresta naturale. E non riesco a capire, in tal senso, perché si debba operare una distinzione fra gli ulivi monumentali e la stessa diffusa coltivazione degli ulivi dell'età moderna, risalenti al '700 e '800, e altrettanto importanti. Si pensi, dunque, agli ulivi disseminati in Capitanata come in Salento e Valle d'Itria. Da qualsiasi punto di vista si prenda la vicenda mi pare, insomma, che quelle di Cassano siano affermazioni insensate e violente".

Un'analisi condivisa da Gianni Picella che interviene nel dibattito, in nome del Centro studi permanente per la salvaguardia degli olivi monumentali nel Mediterraneo. "La proposta del consigliere del Pdl - accusa - dietro il paravento dello snellimento delle procedure per ottenere le autorizzazioni all'espianto di esemplari di olivi monumentali tende, invece, chiaramente a favorire la speculazione edilizia e le lottizzazioni". Da qui la preoccupazione, poi, rispetto al fatto che "non si può consentire che una domanda anche generica, documentata male, per nulla o addirittura falsamente, consenta per un qualsiasi ritardo o intoppo burocratico che la legge venga aggirata e che alberi monumentali vengano distrutti. È vero, un illecito si può forse perseguire, un palazzo edificato in dispregio alle leggi si può talvolta abbattere, ma un ulivo di 500 anni divelto non ce lo potrà mai restituire nessuno".

Prati al posto dell´emeroteca, panchine invece che postazioni multimediali di consultazione. La Beic, la grande Biblioteca europea prevista in una parte dell´ex stazione di Porta Vittoria, pensata fin dal 1996 ma rimasta mero progetto fino a oggi, lascerà il posto a un giardino pubblico di 40mila metri quadrati. Il nuovo piano è stato illustrato dall´assessore all´urbanistica Lucia De Cesaris al Consiglio di zona 4 e alla sua commissione territorio, dopo le lamentele di molti residenti per il degrado e l´incuria che regnano nell´area di fatto abbandonata. «O Beic o verde, non ci sono altre alternative possibili» precisa l´assessore.

Ad augurarsi una soluzione rapida è soprattutto chi abita nelle residenze Giardini Vittoria di viale Molise, vendute pochi anni fa come abitazioni di lusso: 5mila euro al metro quadro a pianterreno, 8-9mila per gli attici, con la promessa di una riqualificazione imminente del circondario. Ma per ora non è così: «Per entrare in casa - racconta Elisabetta B. - siamo costretti a percorrere un viottolo malmesso che sbuca da via Cena, delimitato da una rete di alluminio, tra topi e sterpaglie». Via Cena è chiusa; via Ortigara è stata riaperta al traffico da un paio di mesi ma rimane terra di vandali, specie di notte, tra auto sfregiate e portiere divelte.

Tutto l´isolato è in abbandono e le strade sono bloccate da lavori che non procedono secondo i piani: l´enorme cantiere della Porta Vittoria Spa di Danilo Coppola, adiacente allo spazio del Comune, è un cumulo di gru ferme. Erano previsti un cinema, un albergo, un Esselunga, residenze, uffici e 400 parcheggi sotterranei. Da aprile però non si lavora più, ufficialmente in attesa di un cambio nel progetto iniziale ( al posto della Multisala qualche residenza in più), più verosimilmente per la ridefinizione finanziaria. I tempi si allungano, dunque: si parla ora di conclusione dei lavori per il 2015, sempre che ripartano per fine anno.

Il primo passo per il grande giardino sarà una sorta di ulteriore bonifica e la rimozione dell´attuale terreno «perché dal punto di vista ambientale, per commutare una zona a verde destinata anche all´infanzia, ci vuole più attenzione che per mettere in piedi uffici» precisa Fabio Nonis, progettista dell´intervento sull´intera area. Tonnellate di terreno e macerie verranno sostituiti con un tappeto vegetale: alberi, arredi e fiori renderanno fruibile il parco, una grande striscia di verde che collegherà viale Umbria con viale Molise lungo via Ortigara. Nessun cambio di destinazione, data la provvisorietà dello spazio verde: una provvisorietà che comunque potrebbe durare decenni.

Quanto alla Beic, precisano all´assessorato, formalmente l´ambizioso progetto non è stato definitivamente accantonato: ma i fondi necessari, 300 milioni di euro per la realizzazione e 18 milioni annui per la gestione ordinaria, di questi tempi sono davvero introvabili. «La zona però è strategica, relativamente centrale e ben servita - spiega Nonis - non è detto che un domani il grande progetto di Wilson possa essere realizzato». Antonio Padoa Schioppa, presidente della Fondazione Beic, spera ancora che a Roma il ministero della Cultura recuperi entusiasmo sulla Biblioteca europea, sede d´elezione per un patrimonio di 900mila volumi: «Fare un giardino ora è una buona idea - spiega Padoa Schioppa - ma non la vedrei come una mossa che prelude all´accantonamento definitivo della Beic. Noi intanto ci siamo dati da fare e a fine anno metteremo in rete migliaia di volumi appena digitalizzati».

Intanto la società Porta Vittoria, in cambio della volumetria accordata per il lotto più grande, dovrà pensare anche a risistemare l´area oltre viale Molise, verso la periferia: altri 25mila metri quadri di sterpaglie di proprietà comunale avranno, secondo l´ultimo progetto presentato (ma ancora in fase di definizione), una nuova destinazione. Accantonata l´idea di realizzare un´autorimessa, una stazione di pullman e un campo sportivo con un impegno di 10 milioni di euro da parte del privato, ora gli accordi sono cambiati: un grande impianto sportivo con due piscine al chiuso, impegno finanziario raddoppiato, ma facoltà all´operatore privato di gestire la struttura per un certo numero di anni da concordare. Le tariffe al pubblico per l´ingresso all´impianto le deciderà il Comune: ma prima di tuffarsi in piscina, se tutto va bene, passeranno almeno tre anni.

Del Ponte si parla dal 1969. Ma fin'ora non è stata messa neanche una pietra. Secondo la Corte dei Conti, tra il 1986 e il 2008, è costato poco più di 200 milioni di euro. Ma tra trivellazioni, progetti e personale la cifra totale dovrebbe arrivare al doppio. Eppure si continua a spendere senza risultati: la Regione Calabria è pronta a finanziare i primi corsi di formazione professionale

É fatto di carta. Non si stufano mai di disegnarlo, di ritoccarlo nel suo slancio a una o due o a tre campate verso l'isola, d'immaginarselo indistruttibile mentre sotto un bombardamento nucleare la Sicilia e la Calabria sprofondano nel mare ma il loro Ponte resta lì intatto e perfetto, sospeso per miracolo nell'aria. Abbiamo pagato anche per questa prova di resistenza: lo studio "su un ipotetico attacco atomico". Paghiamo sempre per il Ponte che non c'è. L'altro giorno ci hanno presentato l'ultimo conto: 454 mila euro.

La regione Calabria è pronta a finanziare i primi corsi di formazione professionale per "preparare" otto tecnici che, a loro volta, dovrebbero "preparare" tutti i dipendenti che saranno assunti per aprire un cantiere o per distribuire gli stipendi alle maestranze. Il Ponte è un abbaglio lontano ma l'agenzia "CalabriaLavoro" ha già pubblicato il suo bando. Vogliono subito un esperto giuridico, tre informatici, due amministrativi, un valutatore e un revisore contabile. Ed è solo il primo, di bando. Quei furbacchioni di Catanzaro e di Reggio hanno annunciato tutti contenti che ne stanno sfornando un altro. Vogliono al più presto pure "gli addetti alla manutenzione dell'opera". Molto previdenti. Già pensano alla salsedine che aggredirà i piloni o i binari dove sfrecceranno i treni. Lo chiamano Ponte ma lo sanno tutti che è un pozzo. Se ci sta costando così tanto e ancora non c'è, quanto ci costerà il giorno quando - chissà quando - vedremo unite Scilla e Cariddi?

Non c'è. Qualcuno però dà a intendere che prima o poi ci sarà. Fino ad ora è servito solo per divorare soldi. I giudici della Corte dei Conti calcolano che siano stati spesi dal 1986 al 2008 poco più di 200 milioni di euro, c'è chi dice invece che i milioni sono quasi 300 e, se si aggiungono i costi delle trivellazioni degli ultimi mesi, la cifra totale dovrebbe sforare i 400. Numeri che ballano ma poi mica tanto. Quasi tutto il denaro è sparito in progetti. E in altri progetti. Sempre nuovi progetti. Ultimi. Finali. Definitivi.

E' una (carissima) visione onirica che ci insegue da quarant'anni - era il 1971 quando la legge numero 1158 prevedeva la costituzione della Società Stretto di Messina "per la realizzazione e la gestione del collegamento stabile fra la Sicilia e la Calabria" - e che ha fatto crescere quest'albero della cuccagna che ha arricchito le solite cricche di ingegneri e architetti, ha ingrassato eserciti di specialisti e consulenti, che ha scatenato gli appetiti di malavitosi perennemente in agguato sulle due sponde per accaparrarsi appalti. Due anni prima di quel 1971 era stato bandito dall'Anas e dalle Ferrovie dello Stato il "concorso di idee", 143 i lavori presentati: 125 firmati da italiani, 8 da americani, 3 da inglesi, 3 da francesi, poi ce n'erano anche uno tedesco, uno svedese, uno argentino e uno somalo. Tunnel a mezz'acqua ancorato al fondo con cavi di acciaio. Ponte sospeso a luce unica. Galleria sotterranea.

Da quel momento è stato un trionfo di carte e di soldi, di soldi e di carte. Si comincia subito a mangiare. Il compenso per il vincitore al "concorso di idee" - come ricorda Daniele Ialacqua di Legambiente in un saggio (C'era una volta il Ponte sullo Stretto, storia vera ma tragicomica) che sarà in libreria il prossimo dicembre - era di 15 milioni ma poi i vincitori risultarono a sorpresa 6 ex aequo. Per il secondo classificato erano previsti 3 milioni, ma anche i secondi furono 6. Se ne andarono così i primi 108 milioni di vecchie lire.

Dei soldi ingoiati vi stiamo già anticipando qualcosa. Delle carte del progetto preliminare vi possiamo rivelare subito quanto pesano: centoventi chili. Più di un quintale di schizzi e mappe chiusi in un baule. E' un'avventura che non finisce mai. Una caccia al tesoro permanente. Dopo i corsi i concorsi, dopo i concorsi le selezioni, dopo le selezioni le convenzioni. Come quella a inizio estate 2011, laureandi e neolaureati delle Università di Messina e di Reggio, dodici studenti scelti a ogni edizione del Programma Atlantis "per raccogliere dati ambientali da sensori fissi e mobili". Tirocinio di formazione e di orientamento, spesa al momento sconosciuta ma molto sbandierata la collaborazione con l'università spagnola di Cordova e con il Centro di Studi Integrati del Mediterraneo. In nome del Ponte è stato ideato pure un nuovo corso triennale in informatica, con rilascio del doppio titolo di laurea in Italia e negli Usa. Sono pronti a venire "aggiornati" al più presto anche notai calabresi e geologi siciliani, avvocati, biologi, studiosi delle correnti marine e dei venti.

E' la frenesia per avere in fondo all'Italia "l'ottava meraviglia del mondo". Quella che porterà lavoro a 40 mila disoccupati per 5 o 6 anni e forse anche di più. Le finanze pubbliche ormai non possono garantire un solo euro per costruirlo ma intanto quelli del Ponte assumono e spendono, studiano, analizzano, controllano, esaminano, ricercano. Soldi pubblici, naturalmente. Chi è che ha favorito e chi ancora favorisce questo scialo infinito?

Alla fine di luglio Bruxelles ha cancellato il Ponte cambiando la geografia europea delle grandi infrastrutture (la commissione Ue ha ridisegnato gli "assi di comunicazione" sostituendo il corridoio Berlino-Palermo con quello Helsinki-La Valletta, quindi eliminando praticamente dai suoi piani strategici l'opera fra la Sicilia e la Calabria) ma la "Stretto di Messina spa" ai primi di settembre ha fatto pubblicare su tutti i quotidiani siciliani e calabresi un avviso: "Dichiarazione di Pubblica Utilità del progetto definitivo del Ponte sullo Stretto". Avverte la popolazione che stanno cominciando le procedure per gli espropri. Non si fermano più. E più si allontana l'ipotesi del Ponte e più loro si accaniscono e mettono mano al (nostro) portafoglio.

Come nel giugno del 2006 quando il ministro dei Trasporti Alessandro Bianchi - premier era Prodi - aveva spiegato che il Ponte "non era nelle priorità del governo" ma in Sicilia e in Calabria aprirono in quegli stessi giorni due Info Point, a Villa in via Garibaldi civico 68 e 70 e a Messina in via San Martino 174, per comunicare a tutti che avrebbero visto alzare i primi piloni del Ponte nel secondo semestre del 2007 e l'isola non sarebbe più stata un'isola all'inizio del 2012. Appartamenti e hostess (e arancine e succhi di frutta per i visitatori più influenti) tutti pagati dalla società pubblica "Stretto di Messina spa" con lo scopo "di favorire i rapporti con le comunità e le istituzioni locali e per offrire informazioni sul progetto e sullo stato di avanzamento dei lavori". Due anni dopo - dicembre 2009 - c'è stata "la posa della prima pietra" nella borgata calabrese di Cannitello, proprio davanti ai laghetti di Ganzirri. Qualche ruspa che ha spianato un terreno, le foto di rito, una cerimonia un po'sotto tono che non ha entusiasmato quelli della "Stretto di Messina spa". Faranno un'altra "posa della prima pietra" fra il 2012 e il 2013. Magari dall'altra parte, in Sicilia.

E questa società pubblica, la "Stretto di Messina spa", che è la fabbrica del Ponte di carta. E da quarant'anni è come un bancomat. Nasce nel 1981 - il governo Cossiga nomina presidente della società l'avvocato onorevole Oscar Andò - con 25 dipendenti e nel 2006 paga già 102 stipendi. Più il Ponte sembra un miraggio e più la "Stretto di Messina spa" spende e spande, s'ingrossa, interpella "esperti", commissiona sondaggi, ingaggia "professori" indigeni e stranieri, noti e meno noti. I consulenti locali, con il Ponte che non c'è, si sono fatti la villa con vista Calabria o con vista Sicilia.

Gli anni "felicissimi" sono stati quelli che vanno dal 2001 al 2006. Le spese totali della società sono state di 88,903 milioni di euro. Dal milione 924 mila euro del 2001 (6 milioni 728 mila nel 2002; 12 milioni 005 mila nel 2003; 18 milioni 844 mila nel 2004; 10 milioni 767 mila nel 2005; 20 milioni 845 mila nel 2006) ai 17 milioni 790 mila nel 2007. Prendiamo un anno a caso, il 2005. Ecco come quell'anno sono stati spesi i fondi.

Sono 5 i milioni e 719 mila euro "per le prestazioni professionali di terzi". Un milione e 479 mila euro sono stati impiegati "per emolumenti e spese amministratori". La propaganda e la pubblicità è costata 1 milione 187 mila euro. Per "viaggi e trasferte del personale" hanno messo in bilancio 280 mila euro. Per i buoni pasto dei dipendenti 172 mila euro. Per la vigilanza degli uffici 215 mila euro. Per fotocopie "e lavori eliografici" 78 mila euro. Per trasporti "e facchinaggi" 59 mila euro. Per acqua, luce e riscaldamento degli uffici 113 mila euro. Per "riproduzione di foto e filmati" 48 mila euro. Per "pulizie e igiene uffici" 64 mila euro. Per spese postali e telefoniche 112 mila euro. Per assicurazioni 184 mila euro. Per manutenzioni non meglio specificate 232 mila euro. Per il personale "distaccato" (non si sa dove) 175 mila euro. Per gli emolumenti e spese del collegio sindacale 212 mila euro. Per i compensi della revisione del bilancio 48 mila euro. Per i corsi di aggiornamento professionale 42 mila euro. Per "il rimessaggio e spese varie veicoli" 103 mila euro. E infine, alla vaghissima voce "altri costi per servizi", 245 mila euro.

Ci sono state impennate impressionanti. Anche del 500 per cento. Come quella della "pubblicità", che è passata dai 110 mila euro del 2002 al 1 milione 480 mila euro nel 2004. Per la sede di Roma la "Stretto di Messina spa" aveva affittato in via Po un appartamento di 3600 metri quadrati su quattro piani: 900 mila euro l'anno. Quando Prodi ha chiuso i rubinetti, hanno cambiato sede per risparmiare: via Marsala, 1200 metri e 600 mila euro l'anno di canone. Tutto per un Ponte di carta.

Nel 2005 i dipendenti della "Stretto di Messina spa" erano 85: tredici dirigenti e settantadue impiegati. Che cosa avranno fatto mai quei tredici dirigenti e quei settantadue impiegati sei anni fa per realizzare il sogno di Giuseppe Zanardelli (1876, "Sopra i flutti o sotto i flutti la Sicilia sia unita al Continente), di Benito Mussolini (1942, "E' tempo che finisca questa storia dell'isola: dopo la guerra farò costruire un ponte"), di Bettino Craxi (1985, "E' un'opera da primato mondiale"), di Silvio Berlusconi (2005, "Così si potrà andare dalla Sicilia anche di notte e se uno ha un grande amore dall'altra parte dello Stretto potrà andarci anche alle 4 del mattino senza aspettare i traghetti") e soprattutto della benemerita società "Stretto di Messina spa"?

Quel 2005 è stato un anno decisivo per il destino del Ponte. Andatevi a rileggere le voci del bilancio e vi accorgerete che quella più consistente - 5 milioni e 719 mila euro - riguardava "prestazioni professionali di terzi". I famigerati consulenti. Volete sapere come quegli scienziati hanno contribuito a portare avanti il grandioso progetto? Uno che era a capo di un istituto di ricerca è stato pagato per scoprire "quale era l'impatto emotivo", sui reggini e sui messinesi, una volta che il ponte li avrebbe uniti per sempre. L'hanno pomposamente catalogata come "Indagine psico-socio-antropologica sulla percezione del Ponte presso le popolazioni residenti nell'area interessata alla costruzione". Al dipartimento di Biologia animale dell'Università di Messina hanno affidato "uno studio e un monitoraggio sulle caratteristiche chimico-fisiche delle acque dello Stretto e sulle possibili relazioni con i flussi migratori dei cetacei". All'Istituto Ornitologico Svizzero hanno dato incarico "per un'investigazione radar delle specie di uccelli migratori notturni e per catalogare con la massima precisione le quote di volo, le loro planate e le loro picchiate". Quanto ci sono costati gli studi sulle evoluzioni del falco cuculo e della poiana codabianca nel cielo fra Reggio e Messina?

In sette anni - dal 2001 al 2007 - hanno speso 21,3 milioni per consulenze e 28,8 milioni per il personale. Nel 2006 ciascun dipendente è costato mediamente 930 mila euro. E' proprio quando il governo Prodi ha sospeso la realizzazione del Ponte. In quei mesi la società "Stretto di Messina" ha allargato il suo organico con 17 nuove assunzioni.

Ieri come oggi. L'Europa dice no all'opera ma la regione Calabria subito apre la cassaforte per mettere sul Ponte otto "professionisti". Niente cambia. Dal vecchio Oscar Andò che ha resistito nove anni alla guida della società alla nomina firmata nel 1990 dal presidente del Consiglio Andreotti di Nino Calarco (ex senatore democristiano e direttore della Gazzetta del Sud), fino al presidente dell'Anas Piero Ciucci messo a capo del consiglio di amministrazione nel 2002 da Berlusconi. La società "Stretto di Messina spa" è sempre lì. La leggenda del Ponte di carta deve continuare.

L'inchiesta di

Il presidente di Confesercenti, Valter Giammaria, riguardo il caos dovuto all’apertura del megastore di via Riano, ha dichiarato: “La Confesercenti provinciale di Roma stigmatizza e si fa interprete del disagio della città e delle imprese per quanto è accaduto nella giornata di ieri a Roma Nord in occasione dell'apertura di una grande struttura di vendita in zona Ponte Milvio. La Confesercenti chiede al sindaco e all'assessore al commercio Davide Bordoni, di conoscere come è stato possibile trasformare una superficie destinata alla riqualificazione del mercato rionale e dove in precedenza operava una struttura commerciale con più attività presenti, in questo tipo di struttura di vendita.

La riqualificazione dei mercati rionali è un argomento che riteniamo importante per l'economia della città e non può divenire occasione per snaturare l'obiettivo principale facendone strumento per ulteriori spazi alla grande distribuzione. Inoltre riteniamo che l'evento di inaugurazione e quanto è accaduto con il blocco dell'intero quadrante della città sia un fatto grave che non può essere risolto con delle semplici scuse. Ciò dimostra quello che da anni Confesercenti ribadisce in seno alle Conferenze di Servizi in cui chiediamo che sia sempre verificata la compatibilità di queste grandi strutture con il contesto di viabilità dell'area urbana in cui queste vengono attivate: accessibilità, parcheggi, fruibilità”.

Confesercerti “ribadisce la necessità di arrivare al più presto alla definizione del Piano Urbanistico Commerciale del Comune di Roma, bloccando, da subito e per almeno due anni il rilascio di nuove autorizzazioni per grandi superfici, anche perché la crescita in maniera selvaggia e senza programmazione di grande distribuzione contribuisce alla chiusura di migliaia di piccole e medie attività con la conseguente perdita di posti di lavoro, cosa a cui stiamo assistendo in questi anni nella nostra città”.

postilla

Non per voler fare a tutti i costi il bastian contrario, ma non pare proprio che alla intuizione di un problema sia seguita in questo caso una risposta adeguata: se programmare meglio il rapporto tra forma urbana e flussi generati dal consumo significa blocco di autorizzazioni, e in sostanza l'ennesima guerriglia tra esercizi locali e grandi catene, non si andrà proprio da nessuna parte, salvo forse sui tempi medi desertificare ulteriormente le zone centrali e favorire la crescita dei complessi ad orientamento automobilistico esterni e il relativo spreco di superfici. Nel caso specifico, ma non solo, il problema è stato creato dal rapporto perverso tra consumi e mobilità: come già Veltroni aveva platealmente dimostrato di non capire (faremo la metropolitana per andare ai centri commerciali) esiste un legame indissolubile tra formati commerciali, tipo di spesa, mobilità privata. Ed è su questo fronte che occorrerebbe intervenire, magari anche attraverso cose che sembrano non avere alcun rapporto diretto col territorio, magari usando intelligentemente le stesse "nuove tecnologie" che applicate al solo svuotamente del portafoglio, o a santificare chissà perché Steve Jobs, sfruttiamo tanto male (f.b.)

la Repubblica Milano

Un tour di venti appuntamenti per spiegare il nuovo Pgt

di Oriana Liso

Venti incontri serrati, a partire da martedì, tra l’assessore all’Urbanistica Ada Lucia De Cesaris e la città metropolitana: associazioni, categorie produttive, enti amministrativi. Tema: il Piano di governo del territorio, le regole da riscrivere, la Milano del futuro. Una serie di confronti, prendendo a modello quelli per la questione Ecopass, che porteranno al testo definitivo della delibera di revisione, che arriverà in Consiglio comunale non prima di gennaio. Ma già ora il Pgt è terreno di scontro politico, con l’opposizione - cioè l’ex maggioranza che aveva disegnato il piano - che attacca nel merito e nel metodo la giunta Pisapia. Lo scontro, verbale, investe soprattutto i due assessori della partita - la De Cesaris e il suo predecessore Carlo Masseroli, ora capogruppo Pdl - con la prima che respinge al mittente le accuse di decidere tutto «nelle segrete stanze» del secondo.

Per ora quel che c’è - con le 4.765 osservazioni al Piano quasi del tutto riesaminate - sono bozze di documenti di lavoro, «necessari a una istruttoria dell’argomento, in cui registriamo tutti gli elementi che via via emergono: dopo aver deciso la revoca in giunta lavoriamo da tre mesi a una serie di valutazioni», ha spiegato ieri l’assessore ai consiglieri riuniti in commissione Urbanistica. Qualche certezza, pur in un percorso ancora tutto da definire, si sta già facendo largo: il tunnel da Linate a Expo, per esempio, non ci sarà, e sul Parco Sud c’è l’impegno netto a non costruirvi nulla né a utilizzarlo come "terreno di scambio" per volumetrie da trasferire altrove, come invece era previsto dal vecchio piano (uno dei punti più controversi). Ancora tutto aperto, invece, il discorso sugli indici edificatori, che dovrebbero essere differenziati da un minimo di 0,35 a un massimo di 1, mentre la questione delle aree degli scali ferroviari dismessi viene affrontata parallelamente nell’accordo di programma in via di definizione con le Ferrovie dello Stato (e in questo ambito verrebbe anche affrontata la questione "circle line", l’estensione della tramvia leggera su cui i dubbi sono soprattutto di sostenibilità economica).

Sul resto, appunto, il confronto è ancora da fare, per quanto di sicuro gli uffici, assieme alla commissione di esperti del Pim, siano arrivati già a definire una bozza avanzata di linee guida. Il problema vero è capire quanto le osservazioni - di fatto escluse dal Pgt dalla giunta Moratti - possano trasformare il volto del documento programmatico sul destino urbanistico di Milano. Perché se questa trasformazione fosse di sostanza - come tifano associazioni ambientaliste e non solo - i tempi per l’adozione definitiva potrebbero allungarsi parecchio, con la possibilità di una nuova pubblicazione con successiva fase di confronto con la città (tre mesi, come la prima volta), e un nuovo passaggio in Consiglio comunale. Un allungamento che potrebbe ridursi se - come previsto dal documento di lavoro del Pim - le osservazioni venissero fortemente aggregate per temi.

In aula, comunque, approderà il 17 novembre la delibera di revoca del vecchio piano, assieme probabilmente al documento di indirizzo politico sul nuovo Pgt che l’assessore De Cesaris ha presentato due settimane fa ai partiti della maggioranza (con qualche malumore dai partiti stessi per i tempi compressi del dibattito). Un documento su cui ieri il presidente della commissione Urbanistica Roberto Biscardini, del Pd, ha chiesto che ci sia il voto in aula, perché «l’approvazione di quel documento è un fatto politico, perché contiene il profilo strategico per l’esame delle osservazioni e indica con chiarezza la scelta di questa amministrazione di cambiare profondamente il Pgt».

Corriere della Sera Milano

Nuovo Pgt, il Pdl attacca la giunta

di Rossella Verga

Bagarre in commissione Urbanistica sul documento segreto che detta le linee guida per l'esame delle osservazioni al Pgt. Il testo, 32 pagine mai arrivate ai consiglieri, pone le premesse per modificare in maniera sostanziale il Piano di governo del territorio immaginato dall'ex assessore, Carlo Masseroli, e per le opposizioni si tradurrà in una battaglia in aula e in una paralisi per la città. Uno dei nodi principali riguarda l'esame delle 4.765 osservazioni che la giunta Pisapia ha deciso di rivalutare e che verranno affrontate sulla base di una «riaggregazione tematica» contestata dal centrodestra. L'impianto generale del Piano verrà modificato. La bozza elaborata dalla Consulta del Pim, su cui stanno lavorando ora gli uffici, prevede una riduzione delle volumetrie (l'indice edificatorio unico passa a 0,35 di base, con la previsione di alcune premialità che possono far arrivare a 1), la cancellazione del tunnel Expo-Forlanini, la correzione dei passaggi sul Parco Sud che non produrrà più volumetrie da far atterrare altrove. La circle line, definita dagli estensori del documento «altro nodo», è a rischio. «Secondo Rfi — si legge — andrebbe in conflitto con l'attuale servizio». In più mancano le risorse economiche.

L'assessore all'Urbanistica, Lucia De Cesaris, è stata investita ieri dalle polemiche dell'opposizione, ma anche dai malumori nella maggioranza. «Non c'è nessun documento segreto — assicura — ma sono una serie di documenti di lavoro istruttorio in cui registriamo tutti gli elementi emersi. E' stata divulgata illegalmente una copia interna degli uffici». «Dopo aver deciso la revoca in giunta — aggiunge — sono tre mesi che stiamo lavorando a una serie di valutazioni, e si stanno considerando vari scenari». De Cesaris precisa che dal 2 novembre partiranno gli incontri con gli operatori «e solo dopo si arriverà al documento conclusivo che verrà portato in consiglio».

Spiegazioni che però non convincono il centrodestra e che scatenano in commissione Urbanistica una rissa verbale tra maggioranza e opposizione. «Le regole devono essere chiare — attacca Carlo Masseroli del Pdl, il papà del Pgt votato dalla precedente amministrazione — Siamo di fronte a documenti pubblici in cui si scrivono cose generali e a documenti privati nei quali vengono definiti gli aspetti veri. Per di più per modificare il Pgt ci si affida a un gruppo di architetti che recepisce solo le osservazioni di alcuni». Per Masseroli, ci vuole «garanzia della trasparenza dei percorsi per evitare confusioni e allungamenti dei tempi: sarebbe un disastro per l'economia milanese». Il rischio paventato è quello di «ricorsi e controricorsi». «Non può essere una loggia di architetti privati — rincara — a dettare le regole alla pubblica amministrazione. Così si commissariano gli uffici».

Dura anche Mariolina Moioli, di Milano al centro. «Qui si stravolge tutto — sottolinea — L'assessore nega che ci sia un documento segreto, io ho letto 32 pagine che non parlano di feste o di cioccolatini ma che disegnano la città del domani». Manfredi Palmeri, consigliere del Nuovo Polo per Milano, insiste sulla necessità di riesaminare tutte le osservazioni. «L'accorpamento non mi piace — dice — perché non mi piacciono i pasticci. In aula abbiamo ascoltato il parere gli uffici: come potrebbero adesso smentire se stessi sulle medesime osservazioni? Si vuole avere l'autostrada spianata dalla delibera di adozione, ma non è possibile tecnicamente».

Difficile capire l’esultanza di un politico abile come Giancarlo Galan di fronte al voto sul suo candidato alla presidenza della Biennale, Giulio Malgara, “bocciato” dal pareggio in commissione Cultura alla Camera. In essa il centrodestra doveva risultare in maggioranza, la presidente, berlusconiana della prima ora, Valentina Aprea, aveva negato la parola al sindaco di Venezia, Orsoni (la consentirà, al contrario, il presidente di commissione al Senato, Guido Possa). Una inutile e arrogante scortesia verso la città dove la Biennale nacque nel 1895 promossa soprattutto dal Comune e dal sindaco, il laico-progressista Riccardo Selvatico. Non a caso è venuta proprio da Venezia la prima, corale reazione negativa alla decisione del ministro Galan di non riproporre il presidente in carica Paolo Baratta e di indicare per la successione il manager pubblicitario Giulio Malgara, il cui rapporto con la cultura risulta oggettivamente molto esile. Mentre appare forte quello personale con Berlusconi. Fra l’altro proprio Galan aveva esultato - da governatore del Veneto - quando Rutelli, all’epoca ministro dei Beni culturali, aveva richiamato Baratta alla guida della Biennale. Ai veneziani, ai veneti, agli italiani e a importanti intellettuali dei più diversi Paesi è apparso evidente lo sfregio inferto alla meritocrazia nella nomina al vertice della sola istituzione culturale del nostro Paese che abbia un sicuro stacco internazionale

Operazione, questa, nella quale le due gestioni di Paolo Baratta e del suo staff hanno meriti incontestabili. Anche sul piano del successo di pubblico (oltre 400.000 visitatori quest’anno) e su quello dell’autofinanziamento delle manifestazioni. Ha contato anzitutto l’orgoglio di Venezia e dei veneziani i quali hanno avvertito una Biennale più radicata nel corpo della loro città che il turismo di massa minaccia sempre più di “occupare” e che hanno così mostrato voglia di reagire. Come le città venete. Il secondo elemento: le adesioni all’appello intelligente della “Nuova Venezia” giunte subito da intellettuali non facili a firmare appelli, come Alberto Arbasino, Andrea Zanzotto (scomparso purtroppo in quelle ore), o Salvatore Settis. Ma anche da studenti, pensionati, operai, liberi professionisti, tecnici e così via. Terzo elemento (non certamente l’ultimo): la crescente partecipazione all’appello del mondo della cultura a livello planetario, a cominciare da sir Nicholas Serota della Modern Tate Gallery dai colleghi del Moma, o della Neue Pinakothek di Monaco e di altri prestigiosi musei. Ne terrà conto Galan? Se non lo facesse, rimedierebbe una pessima figura a tutti questi livelli, dimostrando che l’amicizia del Capo conta più dei meriti, delle competenze, del buongoverno delle istituzioni. E del rispetto del Parlamento.

A Pompei da giorni si guardava intensamente il cielo. Appena diventava grigio, tornava l´incubo della pioggia che gonfiava d´acqua il terrapieno dietro i muri di via dell´Abbondanza. Dal 6 novembre 2010, quando venne giù la Schola Armaturarum (Domus dei Gladiatori), è passato un anno. Ma poco è cambiato. E il crollo c´è stato.

Ha ceduto il muro di cinta nei pressi di Porta Nola, nella zona Nord degli scavi archeologici. Promesse, giuramenti: non è arrivato neanche un soldo di quelli annunciati più volte e neanche un´assunzione è stata avviata. E così il sito - sessantasei ettari di cui quarantaquattro scavati, stesi sotto un cielo nero e ostile - è rimasto senza le protezioni che erano state assicurate dopo che lo sbriciolarsi dei muri aveva scioccato il mondo intero. Mercoledì 26 arriva a Pompei il commissario europeo Johannes Hahn che dovrebbe dare il via libera allo stanziamento di 105 milioni di euro. Una somma che, stando ai trionfalismi del ministero, sembrava già nei cassetti da mesi. «Gravissima è la responsabilità dei Beni culturali di non avere saputo proporre alcuna soluzione: né in termini economici né di risorse umane», è il commento di Maria Pia Guermandi del Consiglio nazionale di Italia Nostra.

Tutti sono d´accordo, almeno a parole, che solo una capillare, costante manutenzione ordinaria può mettere al riparo Pompei dai disastri. È scritto in un piano redatto dalla Soprintendenza e approvato dal ministero. Lo ha ribadito il rapporto dell´Unesco, che rinvia ma non cancella l´ipotesi di inserire gli scavi vesuviani nella lista dei beni in pericolo. Ma i mezzi e gli uomini a disposizione della Soprintendenza diretta da Teresa Cinquantaquattro non bastano. «In un anno abbiamo completato la mappatura di tutto lo scavo e cercato di tamponare le situazioni di massima emergenza. Ma senza quei 105 milioni e senza assunzioni i progetti di messa in sicurezza e di restauro non possiamo realizzarli», spiega la soprintendente. E così prima il ministro Giancarlo Galan, poi il sottosegretario Riccardo Villari sono arrivati ad ammettere che davvero un´abbondante pioggia avrebbe potuto di nuovo trascinare con sé terra, fango e muri antichi. Almeno le profezie al ministero le azzeccano.

L´ultima mazzata si è abbattuta giovedì sera al Senato. Dove è stato stralciato dal disegno di legge di stabilità, approvato cinque giorni prima dal Consiglio dei ministri, il comma sulle assunzioni di nuovo personale a Pompei. Non c´entrava niente con quel ddl e ora seguirà un iter autonomo. «Al ministero sono in stato confusionale», commenta Guermandi. E così affinché arrivino una ventina fra archeologi e tecnici (ma all´inizio si diceva una trentina) occorre aspettare ancora. E intanto la situazione si è fatta disperata. Mancano vigilanti e non si riesce a coprire tutti i turni. Il laboratorio degli affreschi conta su tre restauratori soltanto. Gli archeologi sono sei, gli architetti sette e oltre che a Pompei lavorano a Ercolano, Oplonti e Stabia. Gravissime sono le carenze fra i capotecnici, figure essenziali per vigilare i cantieri, che così sono affidati integralmente alle ditte esterne.

È un anno che si parla di nuove assunzioni. I rinforzi erano garantiti dal decreto legge approvato ad hoc per tacitare lo scandalo pompeiano nel marzo scorso. Sono stati sbandierati prima da Sandro Bondi e poi da Galan come il segno di una risposta forte dello Stato. Recentemente è stato Villari, new entry nel governo e ora investito di una delega speciale per Pompei e l´area napoletana (ha anche aperto un ufficio in Castel dell´Ovo, sul lungomare partenopeo) a indicare e poi spostare in avanti le scadenze: fine settembre, fine ottobre... Ma non è accaduto nulla. Eppure c´erano graduatorie pronte, frutto di un concorso svoltosi due anni fa. Archeologi e architetti idonei erano in attesa di chiamata.

Altro capitolo doloroso, quello dei soldi. Ancora nei giorni scorsi Villari "si augurava" che i 105 milioni sarebbero stati "scongelati" in occasione della visita del commissario europeo. Teresa Cinquantaquattro insiste: «Allo stato attuale abbiamo speso solo i pochi soldi della Soprintendenza. Tutto quel che avevamo è impegnato». Ma la macchina burocratica sarà lenta e complessa. Un ruolo negli interventi a Pompei lo avrà anche Invitalia, società pubblica a metà fra il ministero dell´Economia e quello guidato da Fitto. La cui mission, come si legge sul sito, c´entra poco con l´archeologia: favorire l´attrazione di investimenti esteri, sostenere l´innovazione e la crescita del sistema produttivo, valorizzare le potenzialità dei territori. La comparsa sulla scena pompeiana di Invitalia è recente: nel decreto di marzo si parlava dell´apporto di un´altra società, Ales, questa sì di proprietà dei Beni culturali.

Ma a Pompei nutrono anche altri timori. Villari, sempre lui, ha fatto capire che i soldi promessi da un gruppo di investitori francesi (che potrebbero arrivare a 200 milioni) sono legati a una serie di iniziative fuori del sito archeologico promosse da imprenditori napoletani. Che, tradotto, vuol dire infrastrutture, alberghi e altro. Oltre alla pioggia, su Pompei potrebbe abbattersi un diluvio di cemento.

Legambiente preme e chiede un intervento. La Regione apre, seppur con cautela. Al congresso regionale di Bergamo l'associazione ribadisce l'allarme per il consumo di suolo, considerata una vera e propria emergenza alla luce dei dati che evidenziano come il suolo urbanizzato in cinquant'anni si è quintuplicato (nella sola Bergamasca è passato dal 3 al 14%), e rilancia la proposta di legge di iniziativa popolare che mira a imporre uno stop al cemento.

Daniele Belotti, assessore regionale al Territorio, non si tira indietro: «Siamo sensibili al tema del risparmio del territorio. In linea di principio siamo aperti al confronto, anche se bisogna essere chiari: non si possono cambiare le regole a partita in corso». Il 31 dicembre 2012 scadono i Piani di Governo del Territorio. «Poi la normativa cambierà sicuramente — aggiunge Belotti —. Ma fino ad allora non possiamo rischiare di essere sommersi dai ricorsi dei Comuni». Legambiente incassa ma non abbandona lo scetticismo. «Quattro anni fa abbiamo posto alla Regione una questione fino ad allora affrontata solo in modo superficiale e propagandistico — spiega il presidente Damiano Di Simine —. Oggi possiamo dire che la questione è entrata nell'agenda politica, ma le soluzioni sono ancora lontane».

L'associazione invita i partiti a gettare la maschera. «I politici di ogni parte si dicono d'accordo con noi, ma la legge, ferma in Consiglio regionale da due anni, non arriva in aula. Chiediamo un voto, a scrutinio palese, che ci dica chi davvero vuole fermare il cemento». Sul medesimo tasto batte anche, intervenendo al congresso, il consigliere regionale dell'Idv Gabriele Sola: «La proposta di legge di Legambiente è un'occasione da non lasciarsi sfuggire per colmare un vuoto normativo". Nel dibattito dell'assise regionale i temi affrontati sono anche altri: dal nucleare alle energie rinnovabili, dai parchi all'inquinamento atmosferico. L'assessore regionale alle Reti e all'Ambiente Marcello Raimondi è intervenuto per ricordare l'impegno del Pirellone sul fronte dello smog. «In dieci anni abbiamo speso 2 miliardi per l'ambiente e contro l'inquinamento atmosferico sono state messe in campo oltre cento misure. Grazie anche al pungolo di Legambiente la sensibilità è molto cresciuta».

Nota: su questo sito già dalla prima pubblicizzazione del progetto di legge lombardo sul consumo di suolo si sono sviluppate discussioni, a partire da una domanda fondamentale, ovvero se sia possibile ridurre la questione a faccenda settoriale. La risposta pare darla il comportamento dell'amministrazione regionale, che evidentemente si è posta (in forma rigorosamente non pubblica) la medesima domanda, trovando per ora la risposta del rinvio continuo, per domani chissà (f.b.)

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