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Ringrazio Gianni Biondillo per la sua lettera, che ho letto con attenzione e interesse, sulla riqualificazione dell'area ex Enel e, più in generale, sulla qualità della progettazione urbana. Per quanto riguarda l'area di via Procaccini non posso non ricordare che il relativo piano di riqualificazione è stato approvato dal consiglio comunale praticamente all'unanimità.

Una condivisione da parte dei consiglieri eletti dai cittadini che certamente non può essere ignorata. Nel corso dell'iter di approvazione non vi è stata alcuna osservazione da parte di cittadini o da parte di associazioni, malgrado l'espressa possibilità prevista dalla legge. L'intervento riguarda un'area di 31 mila metri quadri (dove ci sono molti edifici degradati o in totale abbandono) e prevede non solo la conservazione di tutto ciò che ha valore storico ma anche la sede, nell'edificio liberty, dell'Associazione per il disegno industriale (Adi) e del Museo del Design, dove sarà esposta la collezione del Compasso d'Oro.

È già anche iniziata un'importante opera di bonifica dell'amianto e sono previste due grandi piazze alberate, spazi verdi e parchi giochi per i bambini. È ben difficile, quindi, pensare che quel luogo possa diventare «un luogo di desolazione», tanto è vero che una partecipata assemblea di cittadini ne ha dato una valutazione positiva. Condivisibile è, invece, quello che mi pare il punto centrale della riflessione di Biondillo e cioè la valutazione complessiva della progettazione e degli interventi urbanistici, compresa la necessità di un impegno comune di tutti i soggetti in campo.

Non a caso nella lettera si fa riferimento a molti attori, tra i quali i docenti del Politecnico e le imprese di costruzioni, che possono contribuire a trovare soluzioni, anche innovative, per il domani di Milano. Il tutto, naturalmente, nel rispetto delle norme e delle competenze di ciascuno perché il ruolo di un amministratore pubblico è limitato dalle leggi (basti pensare che in questo momento non è possibile imporre concorsi internazionali su aree private). Anche per questo la giunta ha preso la decisione, difficile ma coraggiosa (prevista dal programma della coalizione oggi al governo della città) di non pubblicare il Piano di governo del Territorio varato dalla precedente Amministrazione, che era stato approvato senza considerare e valutare le migliaia di osservazioni pervenute da cittadini e associazioni.

E, nel contempo, la giunta ha anche rivalutato tutti gli interventi in corso, dopo aver ascoltato le zone, per migliorare sia la qualità che i servizi. Tra i numerosi interventi per rendere più bella e vivibile la città, mi limito a ricordare la decisione di abbattere, dopo vent'anni di inerzia, l'ecomostro di Ponte Lambro.

Quanto fatto in questi mesi dimostra che non subiamo, e non abbiamo alcuna intenzione di subire, scelte altrui, ma che ci stiamo impegnando per realizzare una Milano migliore per noi e per i nostri figli.

Gentilissimo sindaco Pisapia,

esattamente di fronte a uno dei nostri monumenti più insigni, il Cimitero monumentale, ai margini di uno dei quartieri dove il palinsesto urbano ha lasciato più e più segni negli ultimi due secoli, un progetto di riedificazione dell'area, dopo un lungo iter burocratico iniziato sotto l'amministrazione che l'ha preceduta, in questi giorni ha avuto da parte di questa giunta comunale il placet alla sua realizzazione. Quel progetto è semplicemente scandaloso.

Il lotto attualmente occupato dall'edificio storico dell'Enel, che ha una qualità storico-architettonica evidente, verrà raso al suolo per essere sostituito da un volume edilizio che ne rioccupa lo stesso sito, ma che, con la sua sorda volumetria, parodizza la memoria storica, annichilendola. Non è semplicemente un brutto edificio, è la sublimazione della mediocrità. L'esaltazione della rendita fondiaria fatta intonaci, balconi, serramenti.

Avere a disposizione un volume come quello dello storico edificio dell'Enel e non concepirlo come l'occasione per una progettazione ardita, che sappia conservare il patrimonio della memoria e al contempo riconvertirlo alle esigenze della modernità è la dimostrazione di una totale mancanza di coraggio da parte dei proprietari dell'area. Ma molto peggio è aver accettato supini, da parte dell'amministrazione comunale, tale operazione, per poter, probabilmente, battere cassa.

Signor sindaco, lasciar intaccare in modo così radicale il centro abitato, lasciare che il mercato ponga le mani sul tessuto urbano con ludibrio, violentando la città, non è politica, è connivenza. Ciò che si sta perpetrando ai danni del nostro territorio è irreversibile, appena verrà innalzata la staccionata del cantiere la ferita non sarà più rimarginabile. Io, da suo elettore, da cittadino, non voglio, non posso essere connivente di questo scempio.

Affianco accade ancora di peggio. Demolito il recinto murario e i corpi di fabbrica compresi che definiscono il lotto fra via Niccolini e via Bramante, il piano immobiliare prevede l'edificazione di un albergo di nove piani, arretrato rispetto al fronte stradale, lasciando una zona di rispetto che dovrebbe essere trasformata in una piazza.

Non ci vuole un urbanista raffinato per capire che questo segno nel tessuto è di una violenza senza pari. I due elementi, l'albergo e la piazza, sono di una totale piattezza creativa. Se proprio devo incidere il corpo urbano che almeno il risarcimento sia proficuo! Vedere innalzarsi di fronte al Cimitero monumentale un volume che ha la stessa grazia di un oscuro ministero della Corea del Nord, la stessa noiosa monumentalità d'accatto è disarmante. Ciò che lascia attoniti è la limitatezza di un'imprenditorialità che all'alba del 2012 agisce sul territorio senza alcuna lungimiranza: possibile che non ci fosse modo di affidare un segno di tali dimensioni nelle mani di un progettista con uno spessore intellettuale e creativo più solido? Possibile non comprendere che anche sulla qualità dell'edificato si gioca la fortuna economica di una operazione di queste dimensioni? Ma su tutto: cosa ci guadagna la città?

Vuole farmi credere, signor sindaco, che quello spiazzo insulso, quel vuoto che non riuscirà mai a diventare piazza condivisa dalla cittadinanza, sia un risarcimento degno? Già mi figuro lo spaccio di stupefacenti in quel nulla urbano, già mi vedo le lastre della pavimentazione divelte, le panchine scardinate. Quella che vedo sulla carta non sarà mai una piazza, ma solo un luogo di desolazione, di abbrutimento. Ne vale la pena?

Certo, c'è anche il recupero dei capannoni di via Bramante, trasformati nella sede espositiva dell'ADI. Ma mi chiedo: può una carezza risarcire uno stupro? Il progettista di tutto ciò ha un nome: Giancarlo Perotta. È l'autore dei due grattacieli di fronte alla stazione Garibaldi, concettualmente già vecchi quando vennero edificati negli anni rampanti della Milano da bere. Talmente inadeguati che non hanno retto il volgere di neppure due decenni, subendo un inevitabile restyling. È l'autore della Stazione Bovisa, dell'Ospedale San Paolo, del complesso residenziale in via Sesia… una pletora infinita di segni raffazzonati, una male orecchiata idea di progettazione urbana, una concezione stereometrica dell'edificato ai limiti dell'autistico. Un'idea di architettura che è una continua emulazione fallita di modelli incompresi e irraggiungibili.

Sia ben chiaro, signor sindaco, ho la fortuna di poter scrivere queste cose scevro da dietrologie. Non sono un abitante del quartiere, non ho mire di alcuna natura su quell'area. Scrivo queste righe non da architetto, né da intellettuale o scrittore. Le scrivo da cittadino. Abbiamo chiesto durante le elezioni amministrative un segno concreto di discontinuità dal passato. Se lei ora è il nostro sindaco lo è perché abbiamo creduto fosse capace di interpretare questa idea profondamente etica di comunità.

La logica degli oneri di urbanizzazione a scomputo, che ha retto il mercato immobiliare di questi ultimi decenni, è stata una iattura. È ora di cambiare filosofia, di cambiare politica. Mettere l'interesse pubblico di fronte a quello privato, innanzitutto. Stimolare le iniziative di riordino fondiario senza subirle passivamente, prevedere, anche su aree private, l'obbligo di un concorso a inviti per lotti di tali dimensioni, rendere partecipi gli abitanti della zona. Fare politica urbana significa ragionare a lunga gittata, essere consapevoli di ciò che si eredita e di ciò che si vuole lasciare in eredità. Vogliamo farci ricordare dai nostri figli come i costruttori di questa città senza nerbo, signor sindaco?

Lo chiedo a lei e non solo. Lo chiedo ai suoi assessori: non trovate che questa sia una battaglia da combattere nel nome della cultura cittadina? Lo chiedo ai docenti del Politecnico: è questa l'idea di architettura che vogliamo insegnare ai nostri studenti? Lo chiedo ai soci dell'ADI: nel nome di una nuova sede espositiva siete pronti ad accettare un tale scempio urbano? Chiuderete gli occhi, colpevoli, quando passerete in quel vuoto urbano che fronteggia l'albergo? Lo chiedo alle imprese che vogliono costruire nel nostro territorio: non avete ancora capito che è solo con la qualità progettuale che diverrete davvero competitivi?

Siete coscienti di essere destinati a soccombere se non renderete etico il vostro agire? Lo chiedo al FAI, a Italia nostra, alle associazioni locali: non sarebbe davvero rivoluzionario un popolo che si ribella nel nome della bellezza? Lo chiedo ai politici sia di destra sia di sinistra: siete consapevoli del male che avete fatto e continuate a fare al corpo sfinito di una metropoli che da troppo tempo sogna di rialzarsi, ma che subisce di continuo la zavorra del vostro scarso coraggio?

Appello alla Soprintendente di Firenze Cristina Acidini e al Sindaco di Firenze Matteo Renzi

Desideriamo esprimere la nostra grande preoccupazione per la sorte dell’affresco di Giorgio Vasari in Palazzo Vecchio a Firenze che in questi giorni viene bucato a più riprese nel tentativo di rintracciare quel che potrebbe rimanere della Battaglia di Anghiari di Leonardo.

La dissociazione della dottoressa Frosinini, responsabile del settore pitture murarie presso l’Opificio delle Pietre Dure, ha mostrato che all’interno dell’Opificio stesso non c’è accordo sulla natura e sui rischi di questi interventi.

Riteniamo del tutto improbabile che Vasari abbia sigillato qualcosa di ancora leggibile sotto un muro, e ci preoccupa che siano stati a dir poco sottovalutati i più attendibili risultati della ricerca storico-artistica, i quali mostrano che la Battaglia era con ogni verosimiglianza sulla parete opposta a quella che ora si sta forando.

Condividiamo dunque le ragioni dell’esposto presentato da Italia Nostra alla Procura della Repubblica di Firenze, e chiediamo alla Soprintendente Cristina Acidini e al Sindaco Matteo Renzi di fermare i lavori, e di non riprenderli senza aver insediato un osservatorio terzo, formato da autorevoli specialisti di storia dell’arte del Rinascimento.

Salvatore Settis, accademico dei Lincei

Francesco Caglioti, ordinario di Storia dell’arte moderna, Università di Napoli ‘Federico II’

Tomaso Montanari, professore associato di Storia dell’arte moderna, Università di Napoli ‘Federico II’

Paolo Maddalena, Vice Presidente emerito della Corte costituzionale

Antonio Pinelli, Ordinario di Storia dell'arte moderna, Università degli Studi di Firenze

Alessandro Nova, Direttore del Kunsthistorisches Institut di Firenze

Keith Christiansen, curatore capo della pittura europea, The Metropolitan Museum of Art, New York

Patricia Rubin, Director, Institute of Fine Arts, New York

Elizabeth Cropper, Art Historian

Charles Dempsey, Professor Emeritus, The JohnsHopkinsUniversity

Paola Barocchi, professore emerito di Storia della critica d’arte, Scuola Normale Superiore, Pisa

Desideria Pasolini dall’Onda, Presidente onorario Comitato della Bellezza

Adriano La Regina, Presidente Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte

Mario Torelli, Ordinario di Archeologia e Storia dell’Arte greca e romana, Università di Perugia

Carlo Gasparri, Ordinario di Archeologia e Storia dell’Arte greca e romana, Università “Federico II”, Napoli

Rita Paris, Direttore del Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo, Roma

Maria Pia Guermandi, archeologa, vicedirettore eddyburg.it

Giovanni Losavio, magistrato, Italia Nostra

Vittorio Emiliani, presidente del Comitato per la Bellezza

Chiara Silla, Dirigente Settore Biblioteche, Archivi e Istituzioni culturali della Regione Toscana già direttrice dei Musei Comunali di Firenze

Olivier Bonfait, Professore di storia dell'arte moderna, Università di Digione, Presidente dell'APAHAU

Julian Gardner, Samuel H. Kress Professor, Center for the Advanced Study of the Visual Arts, National Gallery of Art, Washington DCCharles Hope, Professor Emeritus, former Director of the Warburg Institute

Carl Brandon Strehlke, Curator, PhiladelphiaMuseum of Art

Marzia Faietti, Vicepresidente Comité International Histoire de l’Art, Sezione Italiana

Adele Campanelli, Soprintendente per i beni archeologici delle provincie di Salerno Benevento Avellino e Caserta

Gino Famiglietti, Direttore generale Beni culturali del Molise

Luke Syson Curator, Italian painting before 1500 National Gallery London

Daniele Ferrara, soprintendente ai beni storici artistici ed etnoantropologici del Molise

Mirella Barracco, presidente Fondazione Napoli Novantanove.

Cesare De Seta, Ordinario di Storia dell’architettura, SUM,

Giovanni Agosti, Università degli Studi di Milano

Caroline Elam, storica dell’arte

Benedetto Marcucci, Consigliere della Presidente della Commissione Cultura della Camera

Margaret Haines, Senior Research Associate, Villa I Tatti

Roberto Bellucci, Restauratore Conservatore Direttore Coordinatore, Opificio delle Pietre Dure

Carmen Bambach, Curator of Drawings and Prints, The MetropolitanMuseum of Art Andrew Mellon Professor National Gallery of Art

Michela Di Macco, Università La Sapienza, Roma

Carlo Ginzburg, storico

Cecilia Frosinini, storica dell'arte, direttore coordinatore Opificio delle Pietre Dure, Firenze

Sally J. Cornelison, Associate Professor of Italian Renaissance Art, University of Kansas

Steven F. Ostrow, Professor of Art History, University of Minnesota, USA

Andreina Ricci, Ordinario di Archeologia Classica, Università di Tor Vergata, Roma

Anne Markham Schulz, Research scholar, BrownUniversity, Providence, RI

Fabrizio Nevola, Senior Lecturer in History of Architecture, Department of Architecture and Civil Engineering, University of Bath, UK

Novella Barbolani di Montauto, ricercatrice di Storia dell’arte moderna, Università di Roma ‘La Sapienza’

Giovanna Gaeta Bertelà, funzionario tecnico scientifico SBAS FI, in pensione

Nicole Dacos, storica dell'arte, Roma - Bruxelles

Aldo Galli, professore associato di Storia dell’arte moderna, Università di Trento

Christa Gardner von Teuffel, OxfordGirolamo Zampieri, già direttore dei musei civici e direttore del museo archeologico di Padova

Alessandro Angelini, professore associato di Storia dell’arte moderna, Università di Siena

Maria Teresa Filieri, Direttore scientifico, Fondazione Centro Studi Ragghianti

Donata Levi, Ordinario di Storia della critica d’arte Università di Udine e redazione di Patrimonio SOS

Elena Della piana, Professore Associato di Storia dell'Architettura contemporanea e del design, Politecnico di Torino

Laurence Kanter, Chief Curator and Lionel Goldfrank III Curator of European Art, YaleUniversityArtGallery

Alessandro Bagnoli, storico dell'arte, Soprintendenza di Siena

Machtelt Israëls, storica d'arte

Laura Cavazzini, professore associato di Storia dell’arte medievale, Università di Messina

Davide Gasparotto, storico dell'arte, Andrew W. Mellon Fellow, The Metropolitan Museum of Art, New York

Clemente Marconi, James R. McCredie Professor of Greek Art and Archaeology e University Professor, Institute of Fine Arts - New YorkUniversity

Claudio Pizzorusso, professore ordinario di Storia dell’arte moderna, Università per stranieri di Siena

Stefania Tullio Cataldo, chargée de recherche, Museo del Louvre

Maddalena Spagnolo, Research Associate, Columbia University

Michele Dantini, professore di storia dell'arte contemporanea all'università del Piemonte orientale

Mariarita Signorini, restauratrice Polo Museale Fiorentino

Leonardo Rombai, docente di geografia Università di Firenze

Anna Maria Petrioli Tofani, ex Direttrice Galeria degli Uffizi Firenze

Antonella Rubicone, archeologa

Bolko von Schweinichen, architetto

Ornella de Zordo Docente università di Firenze (Consigliere capogruppo comunale di Firenze PerUnaltracittà)

Tommaso Grassi, Consigliere capogruppo comunale di Firenze Sinistra e Cittadinanza

Massimo Ramalli, avvocato amministrativista

Paolo Celebre, Architetto

Gabriella Pizzala, giornalista

Stefano Causa

Liliana Barroero, Ordinario di storia della critica d’arte, Università Roma Tre

Fausto Zevi, Ordinario di Archeologia classica, Università di Roma La Sapienza

Maria Monica Donato, Professore ordinario di Storia dell'arte medievale, Scuola Normale Superiore di Pisa

Gianfranco Fiaccadori, Università degli studi di Milano

Maurizia Migliorini, Professore associato storia della critica d’arte, Università degli Studi di Genova

Alessandra Giannotti, ricercatrice di Storia dell’arte moderna, Università per stranieri di Siena

Barbara Agosti, professore associato di Storia della critica d’arte, Università di Roma ‘Tor Vergata’

Giovanna Perini Folesani, professore ordinario di Storia della critica d’arte, Università di Urbino

Michele Maccherini, professore associato di Storia dell’arte moderna, Università dell’Aquila

Donatella Pegazzano, ricercatrice universitaria, Firenze, Dipartimento di Storia delle Arti e dello Spettacolo

Lucia Faedo, ordinario di Archeologia, Università di Pisa

Paolo Macry, ordinario di Storia contemporanea, Università di Napoli ‘Federico II’

Maria Luisa Catoni

Angela Pontrandolfo, Ordinaria di Archeologia, Università di Salerno

Daniele Menozzi, prof. ord. di Storia contemporanea, Scuola Normale Superiore

Claudio Zambianchi

Alessandra Malquori, storica dell’arte, docente a contratto, Università degli Studi di Firenze

Bianca De Divitiis, Ricercatrice in Storia dell'Architettura, Università di Napoli ‘Federico II’

Rosanna De Gennaro, professore associato di Storia dell’arte moderna, Università di Napoli ‘Federico II’

Carmela Vargas, storica dell’arte, Università Suor Orsola Benincasa, Napoli

Gioacchino Barbera, dirigente superiore storico dell'arte Regione Sicilia

Fabrizio Federici, storico dell’arte

Bruno Zanardi, professore Associato di Teoria e Tecnica del Restauro, Università degli Studi di Urbino "Carlo Bo"

Angela Dressen, Andrew W. Mellon Librarian, Villa I Tatti, Firenze

Francesca Fiorani, Associate Professor of Art History, University of Virginia

Hellmut Wohl, Professore di Storia dell’arte Emeritus, Boston University

Alice Sedgwick Wohl, editor, Bibliography of the History of Art, retired

Silvia Urbini, storica dell’arte

Gemma Cautela, ispettore onorario Mibac

Amedeo Di Maio, Professore ordinario di Scienza delle finanze e di economia dei beni culturali Università di Napoli L'Orientale

Fina Serena Barbagallo, storico dell'arte, Siracusa

Elena Fumagalli, Università di Modena e Reggio Emilia

Sebastiana Scalora, archeologo

Roberto Paolo Novello, storico dell'arte, Carrara

Maria Cristina Ronc, Regione Autonoma Valle D'Aosta, Dipartimento Soprintendenza per i beni e le attività culturali, MAR-Museo Archeologico Regionale

Maria Pia Bianchi, Docente scuola secondaria II grado, fiorentina

Brenda Preyer, Professor Emerita of Art History, University of Texas, Austin

Antonio Milone, storico dell'arte

Ida Mauro, Ricercatrice , Universitat de Barcelona, Departament de Història Moderna

Sara Fuentes Lázaro, PhD Candidate, Universidad Complutense de Madrid - Kunsthistorisches Institut in Florenz

Valeria Manfrè, Dottoranda, Universidad Autónoma de Madrid, Departamento de Historia y Teoría del Arte

Macarena Moralejo Ortega, Profesora asociada, Universidad Autónoma de Madrid, Departamento de Historia y Teoría del Arte

Daniele Benati, Università di Bologna; Presidente - Italia Nostra, sezione di Bologna

Anne Markham Schulz, Research Scholar, BrownUniversity, Providence, R.I.

Jurgen Schulz , Professor of History of Art and Architecture, BrownUniversity

Massimiliano Pieraccini, professore associato di tecnologie per i beni culturali, Università di Firenze

Giorgio Marini, curatore, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi

Stefania Tagliaferri , studente Storia e critica dell'arte all'Università degli Studi di Milano

Margherita d'Ayala Valva, storica dell'arte

Ginevra Facchinetti , Bologna

Laura Lombardi, docente di Fenomenologia delle arti contemporanee, Accademia Belle Arti di Milano

Luisa Ciammitti, storica dell’arte

Jessica Nucci, studentessa di Storia dell'arte, università di Pisa

Luigi Giacobbe, Funzionario storico dell'arte, Soprintendenza BB.CC.AA. - Messina

Stefano Isola, professore di Fisica Matematica, Università di Camerino

Beatrice Nizzetto, operatrice culturale

Sara Tartaglia, Dott. in Scienze dei beni culturali e studentessa di Pratiche Curatoriali

Clara Pogliani

Cinzia Maria Sicca, Presidente del Corso di Dottorato in Storia delle Arti Visive e dello Spettacolo, Dipartimento di Storia delle Arti, Università di Pisa

Maria Beltramini, professore associato di storia dell’architettura, Università di Roma Tor Vergata

Andrea De Marchi, Università di Firenze

Germana Borrelli, musicista

Paola Gioia Valisi, studentessa di Storia dell'Arte dell'Università degli Studi di Milano

Maria Rosa Pizzoni, dottoranda di ricerca in Storia dell'Arte

Vinni Lucherini, Università di Napoli

Donatella Martini, manager, Milano

Enrico Castagnoli, libero professionista, Milano

Ginevra Castagnoli, studentessa Milano

Genoveffa Ciampella, pensionata Milano

Artemisia Diegoli, pensionata Cervia (Ravenna)

Ilenia Bove, dottoranda di ricerca in Storia dell’Arte

Marisa Laurenzi Tabasso, Chimico - Professore a contratto dell'Università La Sapienza (ROMA)

Donatella Spagnolo, funzionario storico dell'arte Museo regionale di Messina

Andrea Zezza, professore associato di Storia dell’arte moderna, Seconda Università di Napoli

Antonella Capitanio, ricercatrice di Storia dell’arte, Università di Pisa

Marco Dorati, Ricercatore, Università Carlo Bo di Urbino

Gabriele Fattorini, professore a contratto, Università di Siena

Massimiliano Rossi, Università del Salento

Sonia Chiodo, Professore Aggregato, Storia dell'Arte Medioevale, Università di Firenze

Cecilia Ghibaudi, Funzionaria storico dell’arte, BSAE , Milano

Alessandra Migliorato, funzionario Museo Regionale di Messina

Fiamma Nicolodi, ordinaria di Musicologia presso l'Università di Firenze

Tommaso Casini, Professore associato di Museologia, storia della critica artistica e del restauro, IULM

Gaetano Bongiovanni, funzionario direttivo storico dell’arte, Soprintendenza di Palermo

Jacopo Stoppa, Università degli Studi di Milano

Guido Dall'Olio, prof. associato di Storia Moderna Università di Urbino "Carlo Bo"

Mario Alai, ricercatore di filosofia del linguaggio Facoltà di lettere e filosofia, Universita' di Urbino "Carlo Bo"

Laura Fenelli, Frances A. Yates postdoctoral fellow, the Warburg Institute, London

Samo Štefanac, professore ordinario al Dipartimento di storia dell'arte all'Universita' di Ljubljana

Paola D’Alconzo, professore associato di Museologia, Università di Napoli “Federico II”

Massimiliano Savorra, Professore associato di Storia dell’architettura, Università degli studi del Molise

Marinella Pigozzi, direttrice del dottorato in Storia dell'arte, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna

Stefano Zamponi, Università di Firenze

Virginia Buda, Funzionario Storico dell'arte - Soprintendenza BB.CC.AA. di Messina

Giovanna Ragionieri, docente di Storia dell'arte, Liceo Artistico "Leon Battista Alberti" Firenze

Gabriele Bottino, Professore Associato di Diritto Amministrativo - Università degli Studi di Milano

Paola D’Agostino, Metropolitan Museum, New York

Livia Maggioni, redattrice di storia dell'arte, Dizionario biografico degli Italiani

Riccardo Spinelli, storico dell’arte

Stefania Petrillo, Università degli Studi di Perugia

Lara Conte, Dottore di ricerca in Storia dell'arte

Emanuele Zappasodi, Borsista Fondazione di Studi di Storia dell'Arte Roberto Longhi, Firenze; Dottorando Storia dell'Arte, Università degli Studi di Firenze

Alessandro Brogi, Storico dell'arte

Mattia Patti, Storico dell'arte - Presidente della Fondazione Culturale d'Arte Trossi Uberti, Livorno

Federica De Rosa, storico dell'arte

Silvia Bruno, storica dell'arte, docente scuola secondaria superiore

Federico Fischetti, Storico dell'arte

Irene Sabatini, Storica dell'arte

Simonetta Nicolini, Storica dell'arte

Denise La Monica, storica dell’arte

Debora Minotti, restauratrice dipinti mobili, diplomata Opificio delle Pietre Dure

Serena D’Italia, dottoranda in storia dell’arte

Mauro Campus

Alda (Lara) Fantoni

Matilde Gagliardo, storica dell’arte e regista

Silvia Ottolini, restauratrice Parma

Liletta Fornasari, storica dell’arte, Primo Rettore della Fraternita dei Laici di Arezzo

Clara Rech, Dirigente scolastico liceo Visconti Roma

Fabien Benuzzi, dottorando in Storia dell'Arte, Università Ca' Foscari, Venezia

Patricia Laurati, storica dell’arte

Sergio Momesso, storico dell’arte, insegnante

Chiara Teolato, Storica dell'arte

Erica Bernardi, Scuola di Specializzazione in storia dell'arte presso l'Università degli Studi di Milano

Mario Bencivenni, storico e docente, Liceo Artistico L.B.Alberti Firenze

Enrico Parlato, Università della Tuscia

Lidia Antonini, docente di storia dell’arte, Liceo classico di Spoleto

Anchise Tempestini, storico dell’arte

Marcello Simonetta, storico, New York/Parigi

Noga Arikha, storica, New York/Parigi

Alessandro Savorelli, docente di filosofia, Scuola Normale Superiore di Pisa

Cristiano Giometti, Storico dell'arte, Pisa

Mirco Modolo, dottorando storia dell’arte, Università Roma Tre

Daniele Simonelli, Storico dell'Arte, Cortona (AR)

Giovanna Virde, insegnante di Storia dell'arte

Elena Parenti, insegnante di storia dell'arte

Guido Rebecchini

Barbara Furlotti

Claudio Franzoni, docente di storia dell’arte

Valeria Mirra, dottore di ricerca in storia dell'arte, Roma

Francesco Gatta, storico dell'arte

Federico Micali, regista

Giancarlo Busti

Jan Bigazzi, architetto

Biancamaria Valeri, dirigente scolastico del liceo artistico "Anton Giulio Bragaglia" di Frosinone

Maria Teresa Valeri, dirigente scolastico dell'istituto magistrale "Fratelli Maccari" di Frosinone

Antonio Fazzini, attore

Oreste Pivetta

Donatella Tramontano, Ordinario di Biologia applicata, Università Federico II, Napoli

Irene Recchia, ingegnere

Chiara Cariglia, Università di Perugia

Marta Sironi, collaboratrice alla ricerca, Università di Milano

Luca Del Pia, fotografo

Marco Perrone, informatico

Valentina Incerpi, impiegata

Marina Pugliano, Firenze, traduttrice

Giancarlo Riccio, Giornalista e storico del giornalismo

Andrea Tacchi e Susanna Pasquariello, cittadini di Firenze, musicisti dell’Orchestra della Toscana

Luciano Cateni, Docente di scuola secondaria superiore

Carlotta Baccei, studentessa in Scienze dei BB CC - Storia dell'Arte, Università di Pisa

Daniele Pentassuglio

Francesconi Daniela, studentessa Scienze dei Beni Culturali a Pisa

Letizia Paolettoni, studentessa di storia e tutela di beni artistici, università di Firenze

Anna Maria Pintus, Dirigente scolastico in pensione

Joela Laghi, studentessa di Belle Arti

Agnese Marcheschi, studentessa di Belle Arti

Raffaella Cannizzaro, laureata in scienze dei beni culturali presso l'Università di Pisa

Laura Mariani, storica dell’arte, Archivio fotografico del Castello Sforzesco di Milano

Luca Palozzi, storico dell'arte, borsista Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento di Firenze

Chiara Piccinini, Université Bordeaux 3

Angela Maria Curreli, collaboratrice Soprintendenza di Pisa

Rita Salis, laureata in Storia dell'arte

Marialucia Menegatti , storica dell'arte

Bruno Bevacqua, storico dell'arte

Oscar Cattaneo, studente

Chiara Battezzati, studentessa

Gabriele Donati, dottorando in Storia dell'Arte, Istituto Nazionale di Studi del Rinascimento, Firenze

Costanza Caraffa

Silvia Somaschini, laureanda in Storia e Critica dell'arte, co-curatrice presso la Collezione Giuseppe Iannaccone di Milano

Ileana Servidio, studentessa di Beni Culturali all'Università di Torino

Roberta Manetti, ricercatore, Università del Piemonte Orientale

Simone Amerigo, storico dell'arte, neo-dottorando di ricerca, Università degli Studi di Torino

Dominique Thiébaut (Mme), Conservateur général au département des Peintures, Musée du Louvre

Evelina Borea, ex direttore Istituto Centrale del Restauro

Louis Frank, Conservateur au Cabinet des dessins, Département des Arts graphiques, Musée du Louvre, Paris

Beatrice Paolozzi Strozzi

Ilaria Ciseri

Serena Padovani, Già direttore della Galleria Palatina

Miklós Boskovits, Professore emerito di Storia dell'Arte, Università di Firenze

Dr. Elisabetta Sambo, Fondazione Federico Zeri

Andrea Bacchi, associato storia arte moderna, Università di Trento

Anna Chiara Tommasi, storica dell’arte

Francesca Bottacin

M. Letizia Gualandi, Università di Pisa, Dpt. di Scienze archeologiche

Francesca Rossi, conservatrice del Gabinetto dei Disegni del Castello Sforzesco, Milano

Anna Provenzali, Conservatore del Civico Museo Archeologico di Milano

Maria Cristina Molinari, Direzione Musei Capitolini – Medagliere

Brigitte Daprà, Ufficio Mostre e prestiti, Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico, Napoli

Maria Rita D'Amato, Civiche Raccolte Grafiche e Fotografiche, Civico Gabinetto dei Disegni, Castello Sforzesco

Marinella Pasquinucci, Prof. ordinario Topografia antica, Università di Pisa

Arnaldo Tranti, designer

Adriana Capriotti, storico dell'arte dir. coord. direttore Servizio Furti, Sequestri, Rapporti con le Forze dell'Ordine, Soprintendenza Speciale P.S.A.E. e Polo Museale della Città di Roma

Fiorella Sricchia, già ordinario storia arte moderna, Federico II, Napoli

Marina Santucci, Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico, Etnoantropologico e per il Polo Museale della città di Napoli

Pier Luigi Leone De Castris, ordinario storia arte moderna, Suor Orsola Benincasa, Napoli

Francesco Aceto, ordinario storia dell’arte medioevale, Federico II, Napoli

Francesco Federico Mancini, ordinario storia arte moderna, Perugia

Lucio Galante, Ordinario di Storia dell'arte moderna – Università del Salento.

Vincenzo Palleschi Head of the Applied Laser Spectroscopy Lab. Institute of Chemistry of Organometallic Compounds Research Area of CNR, PISA

Matej Klemenčič, Direttore del Dipartimento di storia dell'arte, Facoltà di lettere, Università di Ljubljana, Presidente della Società di storici dell'arte di Slovenia

Renata Novak Klemenčič, Dipartimento di storia dell'arte, Facoltà di lettere, Università di Ljubljana

Daniel Pocs, Istituto di Storia dell'Arte, Accademia Ungherese delle Scienze

Elena Bianca Di Gioia, storica dell'arte

Elisabetta Giffi, storica dell’arte

Rolando Bussi, Divisione Arte, Franco Cosimo Panini

Graziana Maddalena, studentessa di Scienze dei Beni Culturali all'Università di Pisa, nonchè rappresentante degli studenti in Corso di Laurea per Ateneo Studenti - Lista Aperta.

Elena Lazzarini, ricercatore (a contratto), Università di Pisa, Dipartimento di Storia Delle Arti

Gabriella Mancini, insegnante, Liceo Artistico Virgilio di Empoli.

Ilaria Di Francesco. Dottoranda in Storia dell'Arte Medievale

Prof.ssa Claudia Urbanelli, Liceo Alberti, Firenze

Silvia Porto Direttore Servizi Amministrativi Liceo Michelangiolo Firenze

Luca Tosi, libero professionista settore storico-artistico

Ballarin Giovanni - Laureando in Beni Culturali - Napoli

Manzo Anna - Insegnante di Lettere – Napoli

Silvia Armando, storica dell’arte

Giovanna Tedeschi Grisanti, prof. di Storia dell' architettura antica, Dipartimento di Scienze Archeologiche, Università di Pisa

Isabella Fiorentini, Funzionario responsabile dell'Archivio Storico Civico e Biblioteca Trivulziana, Milano, Castello Sforzesco

Irene Baldriga, docente di Storia dell’arte, Roma

Giulia Zorzetti, restauratrice, Napoli

Maria Teresa de Falco, restauratrice, Napoli

Paola Foglia, restauratrice, Napoli

Francesco Virnicchi, restauratore, Napoli

Prof. Gino Fornaciari, Ordinario di Storia della Medicina, Direttore, Divisione di Paleopatologia, Storia della Medicina e Bioetica, Univerità di Pisa

Daniele Fusi, docente di Storia della Musica e Bibliotecario presso l'Istituto Superiore di Studi Musicali (ISSM)

Dr. Luca Pezzati, Coordinatore del Gruppo Beni Culturali, Istituto Nazionale di Ottica, INO – CNR

Mariadelaide Cuozzo (Ricercatrice e Prof.ssa Aggregata di Storia dell'arte contemporanea, Università degli Studi della Basilicata)

Daniele Piacenti , Restauratore di Beni Culturali

Iacopo Cassigoli, storico dell'arte, Firenze

Gianni Turchetta, Ordinario di Letteratura italiana contemporanea Università degli Studi di Milano

Alessio Monciatti, professore associato di Storia dell'arte medievale, Università degli Studi del Molise

Barbara Mancuso, ricercatore Storia dell'arte moderna - Università di Catania

Grazia Maria Fachechi, Ricercatrice di Storia dell'arte medievale, Università degli Studi di Urbino "Carlo Bo"

Alessandra Perriccioli Saggese, Ordinaria storia arte medioevale, Seconda Università di Napoli

Maria Viveros, docente

Matteo Ceriana, direttore delle Gallerie dell’Accademia, Venezia

Marco Collareta, Direttore Dipartimento storia delle arti, Università di Pisa

Diego Arich (Accademia di Belle Arti di Verona)

Giampaolo Ermini, storico dell’arte

Roberto Ciardi, storico dell’arte, Socio nazionale dell’Accademia dei Lincei

Andrea Paribeni, ricercatore, Dipartimento di Scienze del testo e del patrimonio culturale, Università degli Studi di Urbino 'Carlo Bo'

Giorgia Mancini, Research Fellow, National Gallery, London

Gian Piero Cammarota, storico dell'arte, Soprintendenza BSAE di Bologna

Mattias Quast, storico dell’arte e presidente Associazione culturale amphitheatrum (Spoleto-Heidelberg)

Lucia Fanelli

Charles Davis, studioso (anche) del Vasari

Carlo Bertelli

Anna Lo Bianco, Direttrice della Galleria Nazionale di arte antica, Palazzo Barberini, Roma

Angela Cerasuolo, Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico, Etnoantropologico e per il Polo Museale della citta' di Napoli

Emanuela Daffra, Soprintendenza per i Beni storici artistici ed entonantropologici della lombardia occidentale

Renata Ghiazza, Conservatore Museo del 900, Casa-Museo Boschi Di Stefano, Milano

Orso Maria Piavento, Perfezionando in Storia dell'Arte - Scuola Normale Superiore di Pisa

Rosanna Cioffi, presidente di CUNSTA

Antoni José i Pitarch,Catedràtic d'Història de l'Art (professore ordinario), Universitat de Barcelona.

Cecilia Prete, università degli studi di Urbino Carlo Bo

Roberta Bartoli, Visiting Professor, University of Minnesota

Bruno Ciapponi Landi, Vicepresidente della Società Storica Valtellinese

Monica Grasso, docente a contratto di Iconografia e Iconologia, Università degli studi di Urbino 'Carlo Bo'

Gerardo De Simone, Accademia di Belle Arti di Napoli

Alfredo Bellandi, ricercatore, Università degli Studi di Perugia.

Anna Maria Amonaci, storica dell'arte e della fotografia, docente presso l'Accademia di Belle Arti di Brera.

Serena Simoni, docente di Storia dell'arte, Ravenna

Angela Ghirardi, Storica dell'arte dell'Università di Bologna

Stefania Mason, docente Storia dell’Arte, Università di Udine

Silvia Ginzburg, professore di Storia dell’Arte moderna, Università di Roma tre

Grégoire Extermann, ricercatore, Università di Ginevra

Elide La Rosa, redattore de "L'Indice dei libri del mese"

Annamaria Ducci, PhD Storia dell'arte, Lucca

Giuliana Mazzi, professore ordinario di Storia dell'architettura, Università di Padova

Marco Tanzi, professore ordinario di Storia dell’Arte moderna, Università del Salento

Francesca Fabbri, storica dell'arte

Sara Micheli, restauratrice

Maria Federica Manchia, studentessa di Storia dell'arte, Roma

Mario Cobuzzi

Valentina Reino , studentessa di Scienze dei Beni Culturali, Pisa

Lucia Maria Bresci, restauratrice, diplomata presso l'Opificio delle Pietre Dure di Firenze

Antonella Casaccia, restauratrice dipinti mobili diplomata Opificio delle Pietre Dure di Firenze

Oriana Sartiani, Funzionario Conservatore Restauratore Opificio delle Pietre Dure, Firenze

Luca Logi, responsabile archivio musicale Teatro del Maggio Musicale Fiorentino

Giovanni Sassu, curatore dei Musei Civici di Arte Antica e del Museo della Cattedrale, Ferrara

Manuela Gasperi, Direttore Museo Civico di Bormio

Valter Pinto, professore associato di Storia dell'arte moderna, Università di Catania

Maria Grazia Basile, Milano

Federico Giannini, web designer

Ilaria Baratta, studentessa

Federico Maria Giani, Laureando magistrale in Storia e Critica dell'Arte

Teodora Cordone, docente di Storia dell'Arte, Liceo Classico, Istituto Centro Educativo Ignaziano, Palermo

Andrea Baggio, musicista, Firenze

Lorena Vallieri, storica dello spettacolo, Scandicci (Fi)

Anna Selleri, studentessa alla Sapienza, laurea specialistica in Storia dell'Arte

Camilla Fidenti, studentessa di Scienze dei Beni Culturali, Università di Pisa

Catia Chelli, studentessa di Scienze dei Beni Culturali, Università di Pisa

Laura Tesei, dottoressa in Conservazione dei beni culturali

Chiara Bernazzani, perfezionanda, Scuola Normale Superiore di Pisa

Giulia Santoro, studentessa in storia e tutela dei beni artistici, Firenze

Elena Santoro, studentessa di agraria, Firenze

Georg Satzinger, Professor Institut für Kunstgeschichte und Archäologie, Abteilung für Kunstgeschichtem Regina-Pacis, Bonn

Christine Dupont, Collaboratrice scientifica all'Université Libre de Bruxelles, Membro corrispondente dell'Accademia Reale Belga di Archeologia, Storica presso la Casa della Storia Europea (Parlamento Europeo, Bruxelles)

Daniela Ferriani, funzionario storico dell'arte della Soprintendenza B.S.A.E di Modena e Reggio Emilia

Nunzia Lanzetta, Funzionario Storico dell'Arte, Soprintendenza BSAE di Modena e Reggio Emilia

Maria Reginella, funzionario direttivo storico dell'arte, Soprintendenza di Palermo

Silvia Cangioli, Storica dell' Arte, Firenze

Massimo Magnelli, ingegnere

Enrica Magnelli Menozzi

Marina Porri, studentessa di Storia dell'arte, Università di Pisa, Roma

Serenella Romeo

Martin Gaier, storico dell'arte, Kunsthistorisches Seminar, Universität Basel, Svizzera

Leandro Janni, docente di Storia dell’Arte

Maria Teresa Roli, Consigliere Nazionale Italia Nostra

Luciana Boschin, Presidente Italia Nostra Friuli Venezia Giulia

Christina Strunck, storica dell’arte, Philipps-Universität Marburg, Germania

Harald Wolter-von dem Knesebeck, Professor Institut für Kunstgeschichte und Archäologie/ Istituto di Storia dell'Arte e di Archeologia della Università di Bonn

Claudia Steinhardt-Hirsch , Assistant Professor, Institut für Kunstgeschichte Karl-Franzens-Universität Graz

Mina Gregori, storica dell'arte Presidente della Fondazione Longhi Firenze

Amanda Lillie, University of York

Hildegard Sahler, Bayerisches Landesamt für Denkmalpflege, München

Carlo Sisi, storico dell'arte

Cesare Crova, arch. docente di restauro beni culturali

Ebe Giacometti, storica dell'arte

Chiara Moreschi,Arezzo,laureata in Conservazione dei Beni Culturali

Lisa Miele, storica dell'arte, Napoli

Manlio Marchetta, docente di Urbanistica Università di Firenze

Gianfranco Cartei, Ordinario di Diritto amministrativo Università di Firenze (nel gruppo fiorentivo)

Raphael Rosenberg, Professor Institut für Kunstgeschichte der Universität WienSpitalgasse, Wien

Elena Rossoni, storica dell’arte

Pier Luigi Cervellati, urbanista, ordinario IUAV

Claire Farago, professor Department of Art and Art History University of Colorado and Fulbright-York Scholar Visiting Distinguished Professor Department of Art History University of York, UK

Gerd Blum, Lehrstuhl für Kunstgeschichte Kunstakademie und Hochschule für Bildende Künste, Münster

Linda Pellecchia, Associate Professor Department of Art History, University of Delaware, Newark

Elisabetta Scirocco, dottore di ricerca in Storia dell'arte

Stefania Russo, studentessa storia dell’arte, Catanzaro

Chiara Di Stefano, storica dell'arte, Torino

Bruno Ciliento

Alessia Lenzi, docente di Storia dell'Arte, Liceo Artistico di Porta Romana, Firenze

Dörthe Jakobs, storica dell’arte, restauratrice, Stoccarda

Paolo Gravina

Franca Falletti, storico dell’arte

Ezio Buzzegoli, Restauratore direttore conservatore coordinatore, Opificio Delle Pietre Dure

James David Draper, Henry R. Kravis Curator, European Sculpture and Decorative Arts, The MetropolitanMuseum of Art

Michael Hirst, Professor Emeritus, the Courtauld Institute of Art, London

Diane Zervas Hirst, Art Historian and Jungian psychoanalyst, London

PD Dr. Frank Martin, Corpus Vitrearum Medii Aevi Deutschland/Potsdam, Berlin-Brandenburgische Akademie der Wissenschaften

Prof. Dr. Steffi Roettgen,Kunsthistorisches Institut Florenz

Dr. Brigitte Kuhn-Forte, Forschungsprojekt/Progetto di ricerca Ars Roma, Bibliotheca Hertziana - Max Planck, Institut für Kunstgeschichte

Patrizia Piscitello, Soprintendenza Speciale per il PSAE e per il Polo Museale della città di Napoli

Dalma Frascarelli, docente di storia dell'arte moderna, Accademia di Belle Arti di Napoli

Rudolf Hiller von Gaertringen, Kustos der Kunstsammlung und Leiter der Kustodie der Universität Leipzig (Direttore della collezione d'arte dell'Università di Lipsia)

Marco Pierini, Direttore della Galleria civica di Modena

Maria Luisa Frongia, Professore Ordinario di Storia dell'arte contemporanea, Università di Cagliari

Diane Kunzelman, restauratrice di dipinti, già Opificio delle Pietre di Firenze

Rachel McGarry, Ph.D. Associate Curator, Prints and Drawings, Minneapolis Institute of Arts

Sandra Barberi, Storica dell'arte

Augusto Gentili, Professore ordinario di Storia dell'arte moderna, Università Ca' Foscari, Venezia

Annalisa Pezzo, storica dell'arte, Biblioteca comunale degli Intronati di Siena

Marilina Betrò, Ordinario di Egittologia, Dipartimento di Scienze Storiche del Mondo Antico, Pisa

Antonio Micillo, insegnante di storia dell’arte

Maria Teresa Liguori, Consigliere Nazionale Italia Nostra

Vito Zani, storico dell'arte

Beverly Louise Brown

Silvia Lelli, Università di Firenze

Mary Bergstein, Professor, History of Art + Visual Culture, Rhode IslandSchool of Design (Providence, RI02903, USA)

Christina Strunck, storica dell’arte, Philipps-Universität Marburg, Germania

Angela Guidotti, Università di Pisa

Francesca Flores d' Arcais, storico dell' Arte

Enrico Pusceddu, ricercatore, grup de recerca EMAC. Romànic i gòtic, Universitat de Barcelona

Debora Gay, docente di Storia dell'Arte, Liceo Artistico "Pinot Gallizio", Alba

Elisabeth Oy-Marra, professoressa università di Magonza, Germania

Antonio Dalle Mura, Presidente Consiglio Regionale Toscana Italia Nostra

Prof. ssa Giovanna Procacci

Ilenia Pittui, studentessa di storia dell'arte, Università di Udine

Professore Dr. Henk van Os, Ex-direttore Rijksmusem

Roberto Cara, dottorando in storia dell'arte a Padova

Jennifer Montagu, F.B.A

Luca Baranelli, Siena

Caterina Limentani Virdis, storica dell'arte

Maddalena Napolitani, studentessa Scienze dei Beni Culturali, Università di Pisa

Mattia Vinco, dottorando di storia dell'arte, Università degli Studi di Padova

Davide Da Pieve, laureato in Scienze dei beni culturali

Alessandro Ballarin, professore emerito, università di Padova

Marco Ruffini, Associate Professor in Italian Studies and Art History, Northwestern University (Chicago/Evanston)

Regina Poso, professore ordinario Università del Salento

Francesco Senatore, professore associato di Storia medievale, università degli studi di Napoli Federico II

Raffaella Fontana, ricercatrice CNR

Giovanni Valagussa , Conservatore responsabile Accademia Carrara - Pinacoteca

Mariantonietta Picone, Prof. ordinario di Storia dell’arte contemporanea, Università di Napoli Federico II

Victor M. Schmidt, docente di storia dell'arte medievale, Università di Utrecht

Anneke de Vries, docente di storia dell'arte, Università di Groningen

Alberto Ceccarelli, Roma

Grazia Genovini

Mauro Minardi, storico dell’arte

Maria Teresa Ciccone, Roma

Laura Marino, Cuneo

Antonia Mandic, Torino

Cristina Palma, storica dell'arte, Madrid

Gilberto Ragni, Roma

Luca Giacomelli, perfezionando in Storia dell’Arte, Scuola Normale Superiore, Pisa

Michele Capaldo, Avellino

Irene Amadei, storica dell’arte

Stefania Russo, Roma

Cristina Cavicchioli, Torino

Valentina Marino, Napoli

Livia Levi Sandri, Roma

Valentina Fiscarelli, Foggia

Paolo Steffan, Conegliano

Giovanna Capitelli , professore associato di Storia dell’arte moderna, Università della Calabria

Camilla Anselmi, Milano

Francesca Valli, storico dell’arte, coordinatore Raccolte Storiche Accademia di Brera, Milano

Mario Gionfriddo, architetto Siracusa

Chiara Toschi Cavaliere, presidente sezione Italia Nostra di Ferrara

Carolina Italiano, responsabile MAXXI B.A.S.E Arte

Giuseppe Palermo, eddyburg.it

Marguerite Marie-Lys, Conservateur du patrimoine, Avignon, France

Viviana Bevacqua, Catanzaro

Riccardo Belcari, storico dell’arte, Firenze

Cristiana Morigi Govi, ex Direttore del Museo Civico Archeologico di Bologna

Nadia Sabini, Torino

Sabrina Tolve, Roma

Mario Matteo Tola, Dottore in Conservazione dei Beni Culturali, docente di Storia dell’Arte, Sassari

Isabella Tronconi, Storica dell’Arte e Guida Turistica di Firenze

Sabrina Parisi da Ercolano

Alice Turchi, storica dell’arte, Firenze

Luca Lista, Napoli

Michael Miller, Editor, Berkshire Review, an International Journal for the Arts, Williamstown, MA,USA

Francesca Mortelli, Viareggio

Lisa Marziali, studentessa in Storia e Tutela dei Beni Artistici, università di Firenze

Valentina Saba, studentessa di storia dell’arte, università di Firenze

Enrica Fastuca, Verona

Stefania Gabriela, Vallo della Lucania

Roberta Panzanelli, Firenze

Fabio Marcelli, Perugia

Angela Capillo, Milano

Juliusz A. Chrościcki, professeur Universite de Varsovie; membre CIHA ; president de la committee de l’art (Academie Polonais des Sciences)

Paola Porcinai, Firenze

Stefano Fragasso

Claudia Piredda, Dolianova

Claude Mignot, Paris

Philippe Senechal, Paris, France

Domenico Biscardi, Parigi

Dafne Cola, Italia Nostra

Sylvie Deswarte-Rosa, Lyon

Marialuisa Bergamini, Milano

Marta Ragozzino, Soprintendente per i beni storici artistici e etnoantropologici della Basilicata

Andrea Costa, Responsabile Dipartimento “Ville storiche, Parchi e Aree verdi” Italia Dei Valori, Roma

Doretta Davanzo Poli, Venezia

Patrizia Ranieri, Roma

Michele Desiato, Alatri

Maurizio Trotta, Roma

Chiara Piva, ricercatrice e docente di "storia e teoria del restauro", università Ca' Foscari Venezia

Serena Romano, Professore ordinario di storia dell'arte medievale, Università di Losanna (CH)

Maria Grazia Albertini Ottolenghi, docente di Storia delle Tecniche artistiche, Università Cattolica di Milano

Margherita Ghini, Soprintendenza beni architettonici e ambientali, Parma

Sarah Ferrari, dottoranda in Storia e critica dei beni artistici, musicali e dello spettacolo, Università di Padova

I giudici danno ragione a un cittadino della provincia di Treviso che aveva presentato ricorso contro i criteri di "emergenza traffico" addotti dal governo Berlusconi per sbloccare l'iter del contestato progetto. Per il Tar la procedura era illegittima. Ora la Regione si appellerà al Consiglio di Stato, ma intanto i comitati gioiscono contro un'opera "che così com'è non serve"

Neanche due mesi fa dava il via ai cantieri con tanto di caschetto giallo in testa. Ora è costretto a battersi con le unghie e con i denti perché uno dei suoi cavalli di battaglia non naufraghi definitivamente. Per Luca Zaia, presidente leghista della Regione Veneto, quella di pochi giorni fa non è stata una buona notizia: il Tar del Lazio ha infatti accolto il ricorso presentato da un cittadino e ha bloccato i lavori della Pedemontana Veneta, il serpentone di cemento che dovrebbe collegare, a pagamento, Spresiano, in provincia di Treviso, a Montecchio Maggiore, in provincia di Vicenza, unendo due rami delle autostrade A4 e A 27.

Un’opera da oltre due miliardi che ora rischia di sfumare definitivamente. Per la gioia di alcuni, vedi i ricorrenti e le decine di comitati che si battono contro la cementificazione, e l’amarezza di altri, in testa proprio il governatore del Carroccio. “Questo è quel male che io chiamo eccesso di democrazia” è stato lo sfogo di Zaia, che ha presentato in tempi record un immediato controricorso al Consiglio di Stato. Appoggiato da una buona fetta del mondo imprenditoriale veneto, dalla Confindustria regionale e dagli artigiani che temono di perdere un investimento “strategico” per il territorio.

Di ricorsi contro questo progetto di cui si parla da anni ne sono partiti molti. C’è quello di una serie di cittadini interessati dagli espropri e quello di tre Comuni, capofila quello di Villaverla, nel vicentino, che andrà a giudizio a fine gennaio. Ad essere stato accolto ora è quello di un sessantenne di Loria, provincia di Treviso, che contestava lo stato di “emergenza traffico” recepito dal governo Berlusconi nel 2009 su input della Regione Veneto allora amministrata da Galan. Mossa pensata per velocizzare l’iter della Pedemontana, ma che non ha convinto i giudici amministrativi.

L’intera articolazione della sentenza emessa a fine dicembre dalla prima sezione del Tar Lazio ruota proprio attorno ai presupposti della “dichiarazione dello stato di emergenza” con la quale il Presidente del Consiglio Berlusconi, il 31 luglio 2009, decretava che l’iter di approvazione del progetto definitivo dell’arteria viaria non era più di competenza del Cipe (Il Comitato interministeriale di programmazione economica) ma del Commissario Delegato di governo, che sarebbe stato nominato di lì a poco.

«Le condizioni del traffico e della mobilità nel territorio interessato – scrive il Tar – non presentavano gli aspetti necessari e sufficienti per legittimare la dichiarazione dello “stato di emergenza”». Da qui l’auspicio che «la competente Pubblica Autorità promani un forte segnale di discontinuità quanto all’uso intensivo, e frequentemente inappropriato, della decretazione d’urgenza». Come dire, speriamo che con il nuovo Governo, la musica cominci a cambiare almeno in queste cose.

Il dispositivo della sentenza è lungo e articolato ma la bocciatura è inequivocabile. Immediata la soddisfazione dei comitati che da anni portano avanti la battaglia e che poche settimane fa, a metà dicembre hanno deciso di unirsi in un soggetto unitario, il “Coordinamento Veneto Pedemontana Alternativa”.

«La cosa che a noi dà enorme fastidio – spiega al Fatto quotidiano.it Giordano Lain del Movimento 5 Stelle di Vicenza – è l’arroganza con cui questi amministratori assumono atti illegittimi nella speranza, poi, di spuntarla in qualche modo. La cosa che balzava all’occhio qui era che l’applicazione della legge quadro era palesemente illegittima. Se ce ne eravamo accorti noi cittadini avrebbero dovuto forse rendersene conto anche i politici che hanno più strumenti noi. Qui bisognerebbe istituire commissioni di consultazioni del territorio, perché sono in ballo più di due miliardi di euro, e hanno un bel dire che si tratta di project financing, perché alla fine è il pubblico che rischia di metterci una fetta più grossa».

Parliamo di finanza di progetto, quella procedura che prevede che i costi dell’opera siano in buona parte a carico dei privati, in cambio dello sfruttamento dei benefici a lavori ultimati. In questo caso i pedaggi. I 5 stelle, che hanno fatto loro la battaglia cominciata dai comitati territoriali contestano il fatto che al pubblico qui in verità toccherebbe sborsare la fetta più consistente. «Oltre al fatto che quest’opera così com’è non serve – dice Francesco Celotto del Coordinamento Veneto Pedemontana Alternativa – il nostro timore è che al pubblico, al contribuente, possa spettare un onere da pagare al costruttore qualora non venga raggiunto un certo volume di traffico, così come era scritto in una bozza di convenzione del 2004».

E per questo, assieme ad altri, i membri del comitato da un anno chiedono la consultazione della attuale convenzione economica stipulata dalla Regione con l’impresa che dovrebbe realizzare i lavori (la italo spagnola Sis). Il Commissario straordinario però, hanno denunciato, nega loro le carte.

Ora però le cose potrebbero cambiare anche su questo punto. Pochi giorni fa l’Eurodeputato dell’Idv Andrea Zanoni, dopo una interrogazione al Commissario UE per i Trasporti ha annunciato che «la Commissione europea contatterà le autorità italiane per ottenere maggiori informazioni sul presunto rifiuto». Nell’attesa che il Consiglio di Stato sbrogli la matassa.

È stato un Capodanno amaro, amarissimo per gli operai della Jabil. I 320 lavoratori (la metà donne) della componentistica elettronica di Cassina de' Pecchi, alle porte di Milano, occupano la fabbrica dal 12 dicembre, quando la multinazionale statunitense Jabil ha lucchettato le entrate e fatto partire le lettere di licenziamento. Un presidio esterno era stato messo in piedi già da luglio scorso, quando si era cominciato a intuire che l'impresa aveva intenzione di smobilitare, ma tre settimane fa la situazione è precipitata e le tute blu hanno deciso di occupare le linee. «Vogliamo presidiare i macchinari, i manager hanno già tentato di portarne via alcuni - spiega il delegato della Fiom Roberto Malanca - Ma noi abbiamo intenzione di salvare la produzione e i nostri posti, da qui non ci muoviamo: in 100-120 facciamo a turno per tenere in piedi il presidio, assicurando 24 ore su 24 la presenza di 20-30 persone».

La storia della Jabil ricorda quella della Innse, la fabbrica (anche quella milanese) salvata dai suoi stessi operai: da un lato il padrone che voleva vendere perché disinteressato a produrre, e piuttosto intenzionato a mettere a valore il terreno su cui insisteva l'impianto; dall'altro, le tute blu coscienti di non lavorare per uno stabilimento decotto, ma al contrario capace di servire più committenti. «Il sito in cui è posta la Jabil - spiega ancora il delegato Fiom - dà lavoro a 1100-1200 persone, inclusi noi. È un'area enorme, di 160 mila metri quadrati, a duecento metri dalla fermata della metro Cassina de' Pecchi: nel 2011 è scaduto il piano regolatore e si può immaginare che, se dovesse scomparire l'industria, nel nuovo piano che il Comune sta mettendo a punto, potrebbe cambiare la sua destinazione da industriale a commerciale/abitativa. Non a caso abbiamo chiesto al sindaco di Cassina di dichiarare pubblicamente che la destinazione d'uso rimarrà quella attuale, ma finora non abbiamo avuto alcuna risposta».

Le linee della Jabil fanno parte di un più ampio sito in comune con la Nokia-Siemens e con altre ditte minori: la proprietà del terreno è della stessa Nokia, e i lavoratori dipendevano fino al 2007 dalla Siemens; poi, entrata la Nokia in joint venture con Siemens, nel 2007 oltre 300 operai sono stati ceduti (con il montaggio e il collaudo) alla multinazionale Jabil, con l'impegno da parte di Nokia a garantire 3 anni di commesse, scadute l'anno scorso e non rinnovate. La Jabil, che ha sempre puntato soprattutto sulla maxi-commessa Nokia, lasciando poco spazio ad altri committenti (che pure, a detta dei sindacati, si sono presentati a più riprese), nel 2010 ha così deciso di cedere tutto al fondo statunitense Mercatech: «Sotto quel fondo si accumularono montagne di debiti, fino a 70 milioni di euro, tanto che decidemmo di chiedere l'amministrazione controllata - dice Malanca - Ma poi la Jabil ritornò improvvisamente sulla scena e riacquisì la fabbrica, impegnandosi a presentare un piano per il rilancio».

Il rilancio, però, non è mai arrivato, come non si è mai visto un piano: a fine settembre scorso la Jabil ha dichiarato di voler chiudere e ha fatto partire le procedure per i 320 licenziamenti. «E dire che i committenti sono stati tutti allontanati - spiegano dal presidio - La Jabil ha 80 mila dipendenti nel mondo, altrove ha commesse da Ericsson, Philips e altri big. Qui da noi in primavera era arrivata la Huaway, multinazionale cinese dell'elettronica, che aveva chiesto dei prototipi, e avrebbe portato lavoro. Ma la dirigenza ha allontanato tutti, e si è intestardita solo sulla commessa Nokia: finita quella, ha potuto presentarsi al tavolo del ministero con la fabbrica ferma, giustificando la crisi».

I dipendenti spiegano che tutto il sito Nokia-Siemens potrebbe presto essere smobilitato, sempre per liberare il terreno per eventuali mire edilizie: la Nokia pare abbia manifestato la volontà di spostarsi a qualche chilometro di distanza, in un impianto in affitto, per poter vendere, magari, Cassina. Ha già ceduto 250 ingegneri e ricercatori alla canadese Dragon Wave.

«Chiediamo di essere convocati dal ministro dello Sviluppo Corrado Passera - dice Giacinto Botti, segretario regionale Cgil - Io stesso ho lavorato negli anni Settanta e Ottanta in quel sito, che nei tempi d'oro dava occupazione a oltre 2400 persone. La vocazione di Cassina è industriale: il paese, le banche, il commercio, la stessa metro, tutto è sorto grazie all'industria e ora è arduo vedere un futuro diverso. I lavoratori hanno tra i 35 e i 50 anni, abbiamo finito i prepensionamenti e non resta ormai che la cassa in deroga. Stanno lanciando lo stesso appello dell'Innse: non vogliamo vivere di ammortizzatori ma di industria; Jabil, Nokia e la politica locale e nazionale intervengano. D'altra parte la Lombardia ha il 30% della manifattura nazionale e la crisi sta cambiando il panorama: cassa integrazione e licenziamenti stanno sostituendo il lavoro, dobbiamo arrestare questa deriva».

postilla

Non solo il caso Jabil è analogo a quello Innse, vistosa protesta sui tetti a parte, ma è forse più emblematico dal punto di vista dello sviluppo territoriale, che come si sa è altra cosa rispetto al famigerato “sviluppo del territorio”. Se la dismissione dell’ex area Innocenti a Lambrate, ancora a cavallo della Tangenziale Est, poneva a livello cittadino il tema di una riduzione di Milano a pura funzione residenziale e terziario-speculativa, quella Nokia-Jabil sull’asse di sviluppo insediativo nord-est rilancia esponenzialmente il tema, enfatizzando proprio la componente territoriale. Non si tratta, ancora, semplicemente di speculazione, ma di rinuncia a qualunque strategia di integrazione funzionale, cosa resa più grave dalla latitanza di un efficace organo di coordinamento a scala vasta (e si vogliono pure abolire le Province senza capire bene cosa mettere al loro posto!).

Il Transit Oriented Development citato in occhiello, altro non è che la contemporanea reazione d’oltreoceano ai danni della segregazione funzionale, che ha prodotto sprawl e degrado urbano: in pratica è il vecchio modello del quartiere “neighborhood unit” a cui si aggiungono funzioni produttive e una stazione al posto della scuola dell’obbligo. Tutto l’asse di sviluppo a cui appartiene l’area Jabil oggi, grazie anche alla cultura anni ’60 del Piano Intercomunale Milanese, è ricchissimo di potenzialità del genere. Ci si intrecciano integratissimi i tre assi di trasporto su gomma (Padana Superiore), ferro (MM2 extraurbana), e della mobilità dolce pedonale-ciclabile; convivono centri storici abbastanza ben conservati, cospicui residui di verde agricolo, periferie nuove per nulla degradate, e un ricco tessuto produttivo focalizzato per nodi.

Purtroppo, in assenza di una regia concreta e dotata di autorità, salvo l’acqua fresca di volontaristici Piani d’Area o Schemi Strategici, anche le politiche territoriali dei comuni devono in un modo o nell’altro adattarsi a ciò che passa il convento, e “valorizzare le occasioni” che capitano. In questo senso la lotta di una fabbrica avanzata, in un settore affatto in crisi, pone davvero in primissimo piano sia il rapporto fra assetto territoriale e sviluppo sostenibile, sia l’urgenza di varare al più presto la Città Metropolitana, perché pur nei suoi limiti di programmazione e pianificazione possa svolgere alla scala necessaria un ruolo di regia, a evitare che prosegua - indisturbata e indisturbabile - questa dissipazione di ricchezze, comprese quelle lasciateci in eredità dalla cultura urbanistica-amministrativa del XX secolo (f.b.)

Ieri il Ministero per i Beni e le attività culturali ha messo a bando una posizione davvero cruciale: la Direzione Generale per il Paesaggio, le Belle Arti, l’Architettura e l’Arte contemporanea. È la posizione apicale da cui dipendono il contrasto alla quotidiana distruzione del paesaggio del nostro paese, la tutela del patrimonio storico e artistico, la promozione dell’arte contemporanea e molto altro ancora.

Per fare qualche esempio tratto dalla cronaca di queste ultime settimane: è il direttore generale che decide se i pareri (purtroppo solo consultivi) del comitato tecnico-scientifico degli storici dell’arte vanno seguiti oppure no, e se dunque si può spedire all’ennesima mostra di cassetta in Russia il solito Giotto ormai usuratissimo. O è ancora lui che potrebbe intervenire quando una dirigente importante dell’Opificio delle Pietre Dure denuncia che le è stato imposto di «operare danneggiamenti alla superficie pittorica» degli affreschi di Vasari a Palazzo Vecchio perché Matteo Renzi si accanisce a fare marketing cercando, sotto di essi, un Leonardo che non c’è.

L’attuale direttore generale era una funzionaria molto corretta, Antonia Pasqua Recchia, appena diventata il primo segretario generale donna nella breve storia del Mibac, al posto del discusso architetto Roberto Cecchi, balzato dai ranghi ministeriali a quelli politici con la nomina a sottosegretario.

Anche Cecchi era stato direttore generale per il Paesaggio, le Belle Arti etc.: e fu in quella posizione che decise di comprare un Cristo ligneo improbabilmente attribuito a Michelangelo, e in realtà prodotto di un crocifissaio seriale della Firenze del primo Cinquecento. Pensò bene di farlo senza chiedere uno straccio di parere terzo, e pagandolo 3.250.000, quando il valore commerciale di quell’opera si aggira (nel migliore dei casi) intorno ai 50.000. Un caso su cui sta, comprensibilmente, indagando la Corte dei Conti. Sempre da direttore generale, nell’autunno del 2009 egli tolse il vincolo ad un preziosissimo mobile settecentesco, contro il parere dell’Ufficio legislativo del MiBAC, e facendo invece leva sull’unica voce stranamente fuori dal coro, quella del Comitato tecnico scientifico. Grazie alle intercettazioni telefoniche e agli interrogatori disposti dalla Procura di Roma si è poi appreso che proprio Roberto Cecchi aveva condotto alle riunioni di quel comitato l’avvocato dei proprietari del mobile: un comportamento senza precedenti, e assai irrituale da parte di chi doveva agire nell’esclusivo interesse dello Stato. Per questa vicenda Cecchi è stato indagato per abuso d’ufficio e non rinviato a giudizio (a differenza del legale, curiosamente). Se si aggiunge che come commissario straordinario dell’area archeologica di Roma, Cecchi è stato accusato da Italia Nostra di «riprovevole carenza di trasparenza amministrativa», e che è stato sempre lui il responsabile della svendita del Colosseo alla Tod’s di Diego Della Valle si potrà forse capire come mai il contrariato ministro Ornaghi non gli abbia ancora dato, a un mese esatto dalla nomina a sottosegretario, alcuna delega.

È dunque probabile che Cecchi si stia un poco pentendo di aver abboccato all’amo della tentazione politica: senza deleghe rischia di trasformarsi nel tagliatore di nastri ufficiale del Mibac, mentre il suo potere interno viene smantellato pezzo a pezzo.

Se il nuovo Direttore generale sarà un funzionario «senza rispetti umani», con la schiena diritta e capace di rispondere solo alla Costituzione, alla scienza e alla coscienza, vorrà dire che, al Mibac, le cose avranno ripreso a girare nel verso giusto. Ancora un po’ di pazienza, e lo capiremo.

1923, a fine dicembre con Regio Decreto 2493 il territorio comunale di Milano aggrega una serie di circoscrizioni rurali confinanti, e raggiunge la massa critica minima, necessaria ma non sufficiente, a svolgere meglio il suo ruolo di capitale economica.

1925, l’assessore liberale all’Edilizia professor Cesare Chiodi delinea sulla rivista Il Politecnico gli obiettivi del grande concorso per il piano regolatore urbanistico: trasformazione edilizia e densificazione del tessuto esistente, espansione per quartieri coordinati innestati sui nuclei storici dei comuni aggregati; fasce e cunei verdi di interposizione e collegamento regionale; integrazione a rete tra le varie forme di mobilità, le funzioni insediate, la scala urbana e quella metropolitana.

1927, i risultati finali del concorso vedono vincitore un progetto spettacolare quanto vagamente schizofrenico, in cui da un lato la città viene completamente ricoperta da una griglia stradale che ritaglia lotti potenzialmente edificabili, proposti da accattivanti schizzi di architetture a metà fra lo stile moderno e quello tradizionale; dall’altro a quella griglia, bruscamente e inopinatamente interrotta ai confini comunali, si sovrappone una rete di trasporti che lega tecnicamente città e area metropolitana, individuando nodi di scambio, punti focali, centrali e decentrati.

Si scoprirà presto che il piano “vero” è quello della speculazione edilizia, pochissimo interessata all’equilibrio cittadino e metropolitano, ma solo a trasformare quei riquadri del piano regolatore in superfici edificate o edificabili. Delle varie linee metropolitane nessuna traccia per un paio di generazioni, e così pure del coordinamento a scala regionale, lasciato al massimo alla effimera buona volontà di partiti e singoli amministratori. Abbastanza ovvio, si potrebbe osservare: i cattivi solo nelle favole fanno una brutta fine, mentre nella realtà le cose vanno in maniera diversa. Ma c’è anche di mezzo l’idea di urbanistica che a quell’epoca (forse per forza di cose, forse per altri motivi) imperava, e di cui il succitato assessore era a suo modo uno dei campioni.

Un altro passetto indietro, 1926. Solo per citare ancora Cesare Chiodi, che estromesso dal suo ruolo di assessore dalla riforma fascista degli enti locali torna al lavoro di ingegnere urbanista e docente al Politecnico. Come ingegnere partecipa al concorso per il piano regolatore che aveva contribuito a istruire, e quasi naturalmente lo interpreta in modo coerente: schema regionale, coordinamento fra trasporti e insediamenti, quartieri su modello vagamente neighborhood unit separati da fasce e cunei verdi. Come professore propone sempre nel 1926 il primo corso di Urbanistica, che verrà attivato un paio d’anni più tardi. La cosa più interessante di questo corso, da un certo punto di vista, è la lettura comparata del programma di massima, pubblicato sulla rivista La Casa, con le idee professionali di un altro ingegner Cesare, quel Cesare Albertini capo ufficio tecnico al comune di Milano, che di lì a poco inizierà a tradurre in pratica i risultati del concorso per il piano regolatore.

Chiodi espone sistematicamente tutti gli aspetti tecnici dei trasporti, dell’edilizia, dei necessari riferimenti a discipline esterne, che un giovane dovrà affrontare per capire le basi dell’urbanistica moderna. Albertini, sempre su La Casa e nel 1926, si impegna invece a delineare quali sono gli interessi e le figure professionali attorno a cui si può costruire una specie di corporazione nazionale delle discipline della città e del territorio, magari prendendo come modello quelle che si stanno delineando a scala internazionale a partire dalle esperienze delle città giardino. Combaciano in parecchi punti, le idee dei due ingegner Cesare, probabilmente non solo per motivi di omonimia. Raccontano di una urbanistica rigorosamente inquadrata in tutto quanto concerne la produzione materiale della città, coordinamento a scala vasta, piani di massima urbani, programmi di attuazione e controllo dell’attività edilizia, trasporti, integrazione di aspetti finanziari e amministrativi. Manca qualcosa? Certo che si.

Manca arte di costruire le città, ovvero il contributo intuitivo dell’architettura, che per primo ha saputo, e non solo in Italia, cogliere il senso nuovo assunto dall’idea di progetto edilizio e sociale nella fase matura dello sviluppo industriale a cavallo tra i due secoli. È con questo decisivo e maggioritario tocco finale che, alla fine, si costruisce la figura dell’architetto-urbanista nazionale, il suo prestigio sociale, e insieme si iniziano a definire norme, leggi, ruoli, e immaginario collettivo in materia urbanistica. Tecnica, basi scientifiche, qualche dose di cuori lanciati oltre l’ostacolo, decisione politica in grado di sostenere la visione. Ma mancano ancora parecchie cose: dove stanno per esempio il carbone, o i bordelli, la raccolta della spazzatura, la gestione dei mercati rionali? Cosa vuol dire, che c’entrano con l’urbanistica? C’entrano, c’entrano eccome, almeno nel 1926.

I bordelli e i carretti del carbone, insieme a tante altre cose per nulla evanescenti ma sparite dal tavolo da disegno dell’architetto-urbanista, rispuntano nell’idea di città e urbanismo che propone un segretario comunale, Silvio Ardy. Perché se è vero che per approfondire le conoscenze è utile dividere e distinguere, al momento di decidere è indispensabile la sintesi, e non si può far sintesi credibile escludendo troppi fattori, semplificando oltre il dovuto. La città è case, strade, rotaie, condotti fognari, verde, ma è anche e soprattutto gente che va e viene su strade e rotaie da una casa all’altra, a fare varie cose fra cui anche riempire le fogne, scaldarsi col carbone, sfogare l’eccesso di testosterone al bordello, curarsi, studiare … Se l’orizzonte di una classe dirigente urbana è quello di “costruire il futuro di una città globale, coesa e protagonista di un nuovo sviluppo economico, sociale, culturale, intergenerazionale” pare difficile staccare il contenitore dal contenuto, e le due relative riflessioni, o peggio ancora lasciare il compito interamente alla discrezionalità della sola decisione politica.

O meglio: magari (magari) la cosa può funzionare in uno stato totalitario- corporativo come era o voleva essere quello fascista, non certamente in una società democratica e aperta come siamo diventati abbastanza faticosamente dopo. L’idea di urbanistica, di ruolo del piano regolatore “edilizio”, e di ruolo professionale, sociale, politico, dell’urbanista, così come si è affermata con notevole successo dai lontani anni ’20 in poi, sicuramente ci arriva oggi molto modificata, evoluta, complessa. Ma restano ancora parecchi strascichi dell’indecente esclusione di puttane e carbonai (insieme a tanti altri) dalla stanza dei bottoni, e ahimè ne paghiamo tutti le conseguenze. A Milano da cui si è fatto partire tutto, in questa fine d’anno 2011 si è approvato un documento a suo modo assai innovativo, il Piano Generale di Sviluppo. Sono poche pagine, solo apparentemente generiche, e che invece meritano una lettura attenta, di prospettiva. La citazione che chiude il paragrafo precedente è tratta da lì, come forse faceva intuire l’aggettivo “globale”, non ceto ripescata dal 1926.

Sicuramente non è un caso, se i primi due capitoli del PGS sono dedicati a urbanistica e trasporti. Il consenso ai vari livelli di una amministrazione quasi sempre si gioca in larga parte sul tipo di sviluppo locale che ha alla base trasformazioni edilizie e mobilità. Occupano quindi un abbondante spazio, non solo ideale, questi due capitoli, con sicura soddisfazione dei fantasmi dei due Cesari e di tutte le schiere dei loro discendenti, ma pare proprio scorrendo il resto che finalmente puttane, carbonai &Co. siano riusciti a rientrare dalla finestra. Nel senso che, dalle premesse agli sviluppi sino alle conclusioni, il PGS pare proporsi come contenitore di neo-urbanismo in cui l’interpretazione politica, vuoi conservatrice o progressista nelle varie sfumature che si possono immaginare, non significa arbitrio. Non può significare, cioè, tanto per fare un esempio, lasciar libero corso a un aspetto (il mitico “sviluppo del territorio” di recente memoria) contando su un effetto traino generalizzato. Gli edifici oggi si giudicano anche da quanto carbone fanno consumare, no? Il fatto che lo si pronunci in inglese non cambia la sostanza.

Ma a questo punto, dopo una specie di chilometrica “introduzione”, meglio lasciare campo libero alla lettura diretta del documento, allegato di seguito. Per chi non le avesse mai lette, alcune delle idee del secolo scorso citate, e di sicuro interesse ancora oggi, stanno lì ad aspettare eventuali curiosi nella cartella Urbanistica, Urbanisti, Città.

la Repubblica

Parte il piano wi-fi in tutta la città

di Alessia Gallione



La mappa è pronta: 1.200 punti tra strade, piazze, parchi e luoghi all’aperto. Una rete che arriverà a coprire tutta la città con almeno 2.500 hot spot, fino ai quartieri più periferici. Perché è soprattutto nella cerchia più esterna che il Comune vuole concentrare la propria attenzione, garantendo la gratuità per il nuovo progetto di wi-fi che verrà discusso oggi in giunta. Una rivoluzione da sei milioni di euro, che partirà con l’installazione delle prime antennine dalla primavera del 2012.

Era una delle promesse del programma elettorale di Giuliano Pisapia, un punto a cui il sindaco ha sempre dichiarato di tenere molto. Lanciare una rete capillare di wi-fi pubblico e a banda larga - quindi con la possibilità di navigare molto velocemente - per rendere Milano non soltanto la città più connessa d’Italia e sempre più tecnologica in vista di Expo, ma anche per diminuire le differenze tra quanti utilizzano già oggi la rete e quanti non hanno accesso a internet. È anche per questo, ad esempio, che la gratuità del servizio sarà garantita nei quartieri più lontani dal centro. L’internet free, però, potrà essere previsto anche per fasce di popolazione (gli anziani) o per luoghi e orari particolari. Un esempio: per far vivere il centro come luogo alternativo della movida, perché non dare il wi-fi gratis dopo le 21 ai giovani?

I dettagli, compreso il tempo oltre cui si pagherà o la cifra, verranno definiti strada facendo, ma l’obiettivo del Comune è quello di garantire la massima gratuità. Anche perché quella ragnatela di hot spot servirà per far funzionare una serie di servizi che l’amministrazione vuole far partire grazie all’infrastruttura che verrà creata: dalla mobilità alla sicurezza, dalle informazione alle pratiche. Ma, da oggi, si parte. I sei milioni messi sul piatto, infatti, sono una sorta di anticipo del Comune che potrebbe veder diminuire la quota di contributo pubblico. Questo perché, tra gennaio e febbraio, Palazzo Marino ha intenzione di seguire una doppia strada per lanciare il progetto che è stato seguito dal direttore generale Davide Corritore: partecipare a bandi europei o stringere alleanze con aziende e privati disposti a partecipare al piano e a finanziarlo. Al termine delle gare, a partire dalla prossima primavera quindi, inizieranno a essere creati gli hot spot.

I 1.200 luoghi segnati sulla mappa pubblica sono stati scelti con i consigli di zona e comprendono anche gli spazi all’aperto degli edifici pubblici. È soltanto all’aperto, infatti, e non tra le mura domestiche, che ci si potrà collegare e navigare. Qui verranno montate le antennine per la rete senza fili. Che, però, sono solo una base di partenza. La rete è pensata per essere "federale", ovvero altri privati, ma anche condomini, locali o chiunque ha già una propria rete potranno unirsi a quella del Comune per estendere il raggio di azione. Non solo: Palazzo Marino ha già preso contatti con la Provincia e, in futuro, il wi-fi milanese potrebbe estendersi a tutto l’hinterland, una sorta di antipasto virtuale della città metropolitana.

Corriere della Sera

Milano va in Rete Wi-fi in tutta la città

di Elisabetta Soglio

Wi-fi in tutta la città, aperto a creare connessioni con le reti private, predisposto per una diffusione che coinvolga tutta l'area metropolitana. Il progetto della giunta Pisapia per rendere Milano «più accessibile, efficiente e funzionale» comincia con una delibera che arriva oggi in giunta. Con un finanziamento di sei milioni di euro (che in teoria potrebbe ridursi ai minimi termini se funzioneranno i bandi internazionali e le partnership con i privati) parte l'operazione di «trasformazione tecnologica della città», che ha come punto di forza l'accordo del 22 febbraio scorso con Metroweb per l'utilizzo della fibra.

Entro gennaio verranno individuati fra mille e 1200 punti significativi della città (piazze, strade e altre zone selezionate) sui quali saranno installati impianti wi-fi che consentiranno a chiunque di collegarsi con il proprio computer sfruttando la banda larga e quindi una velocità sostenuta. Verrà indetta una gara per affidare fornitura e servizio e l'aggiudicazione avverrà secondo il criterio dell'offerta più vantaggiosa. Come sottolinea il direttore generale Davide Corritore, che già dai banchi dell'opposizione aveva elaborato un progetto per il wi-fi recepito dalla giunta Moratti ma rimasto quasi totalmente inattuato, «obiettivo è creare una rete pubblica estendendo questo tipo di servizio alla popolazione che ancora non sfrutta le potenzialità di Internet».

I costi? Internet sarà gratuito in alcuni luoghi e per alcune fasce d'età secondo il criterio fissato in delibera: «L'accesso alla tecnologia, da parte dei cittadini, costituisce un'irrinunciabile leva di crescita e di integrazione della città, secondo criteri di maggiore omogeneità, che possano meglio favorire l'occupazione e l'aggregazione. Da qui la necessità di avviare un ciclo di profondo ammodernamento della città secondo principi ispiratori di democrazia ed equità che meglio integrino le periferie». Altro principio potrebbe essere quello di rendere l'uso gratuito nelle ore serali in alcune zone «morte» per renderle appetibili.

“Per quelli di sotto ci vorrebbe l’olio di ricino”. Il sindaco leghista di Dolo, Maddalena Gottardo, alla fine è sbottata. Ma la battuta viene dal profondo e rivela l’animo della Lega di oggi: che cerca di reinventarsi come partito di lotta vicino al popolo e al territorio, ma resta salda sulla poltrona e approva a marce forzate contestatissimi progetti.

Un partito che non ama dissensi. Perché i destinatari dell’olio di ricino sono migliaia di veneti che le hanno tentate tutte per bloccare il progetto di Veneto City. Niente anti-politica, anzi, il contrario: un esempio di dissenso acceso, ma democratico e fantasioso. Sempre nelle regole: 11 mila firme raccolte, ricorsi in ogni sede, partecipazione al consiglio comunale, manifestazioni sotto il Comune al suono delle vuvuzelas. Parliamo di un mega centro commerciale-direzionale che occuperà 715 mila metri quadrati – l’equivalente di 105 campi di calcio – con una volumetria di 2 milioni di metri cubi. È dal 2008 che tra Venezia e Padova i comitati si battono contro Veneto City. Ma nelle ultime settimane la battaglia è diventata serrata, perché il destino della campagna veneta si gioca in queste ore. Per cambiare definitivamente il paesaggio di Dolo bastavano tre firme: quelle dei Comuni di Dolo (Lega) e Pianiga (Pdl) e quella del Governatore Luca Zaia (Lega). I comitati non hanno una tessera politica. In tanti contavano sul fatto che Zaia e i leghisti in campagna elettorale avevano professato attaccamento al Veneto, alle sue tradizioni, alla terra.

Ma quando si è arrivati ai fatti, ecco l’amara sorpresa. Raccontano Adone Doni e Mattia Donadel, portavoci del Cat (Comitati Ambiente e Territorio): “La maggioranza del Comune di Dolo ha convocato sedute straordinarie a raffica, perfino la Vigilia e il giorno di Natale, per votare prima del 31”. E i comitati hanno “assediato” il Comune. Hanno cercato di entrare in consiglio. Ma il 20 dicembre il sindaco emette un’ordinanza: “Visto che nelle ultime sedute si è verificata una massiccia affluenza di pubblico e manifestanti presso la sala consiliare si ordina di chiudere al pubblico gli uffici comunali”. Racconta Doni: “Sono rimasti solo 40 posti, ma quando abbiamo provato a entrare li abbiamo trovati già occupati da militanti leghisti”. Così sono partiti esposti al Prefetto e alla Procura. Alla fine il sindaco leghista ha firmato (come quello di Pianiga). Per la gioia dei sostenitori di Veneto City.

Ma di che cosa si tratta esattamente? Nei documenti ufficiali si parla di un polo destinato a riunire “i servizi per l’impresa, l’università e il commercio”. Tutto e niente. Le stime parlano di 30-40 mila visitatori al giorno e 70 mila veicoli. Il progetto prevede torri di 80 metri. E già l’aspetto urbanistico ha attirato critiche, come quelle del prestigioso Giornale dell’Architettura: si parla di “esiti paradossali”, si ricorda “un’affermazione di Zaia alla Ponzio Pilato che «le variazioni urbanistiche passano in Regione a livello notarile se hanno l’ok dei consigli comunali e della Provincia»”, si sottolinea “la necessità di rifondare il rapporto tra uomo e natura nel Veneto”; ma il Giornale rammenta anche che “l’ultimo passo è stato demandato ai sindaci di due comuni che sommano circa 30 mila abitanti, di fronte a un intervento attorno al quale gravita tutto il Veneto. Le 11 mila firme raccolte dai comitati non hanno inciso sull’iter”. La Difesa del Popolo, giornale della diocesi di Padova, ha dedicato al progetto un’allarmata copertina: “In Riviera la città di cemento a(r)mato”, dove si ricorda che anche “le associazioni di commercianti e agricoltori sono contrarie ma tutto procede”.

Per capire davvero il progetto bisogna guardare a quello che ci sta dietro. Veneto City ha tanti santi in paradiso, raccoglie i signori dell’impresa del Nord-Est: da Stefanel (attraverso la Finpiave) a imprenditori che amavano definirsi “progressisti” come Benetton (ma ultimamente si sono lanciati in operazioni contestate come Capo Malfatano in Sardegna). Fino alla Mantovani che ha il monopolio delle grandi opere in Veneto. E la politica? Il centrodestra di Giancarlo Galan, che in questi ambienti ha tanti amici, ha sostenuto l’opera. Il centrosinistra all’inizio sembrava, tanto per cambiare, confuso: “Veneto City deve essere un’opportunità, non un pericolo”, disse Antonio Gaspari, allora sindaco di Dolo (Margherita). Davide Zoggia (Pd), all’epoca presidente della Provincia di Venezia, in pubblico diceva: “Veneto City potrebbe essere costruita altrove”. Ma in una lettera riservata definiva il progetto “di sicuro interesse per l’assetto e lo sviluppo economico di Venezia”. Oggi il Pd, all’opposizione, si dichiara contrario.

Più netta la posizione di Rifondazione e dell’Idv: “Basta con il consumo del territorio, Veneto City è un’idea delirante”, tagliò corto Paolo Cacciari, ex deputato di Rifondazione. Per valutare l’impatto di Veneto City bisogna venire qui. Muoversi tra Fiesso d’Artico, Dolo e Mira: “Mi ci perdo anch’io che ci abito da una vita”, racconta Vittorio Pampagnin (ex sindaco di Fiesso, con un passato nel centrosinistra), mentre con l’auto vaga tra bretelle e tangenziali che hanno strozzato interi paesi. Siamo nella Riviera del Brenta, la terra dove Tiziano attingeva i colori per i suoi quadri. Nella campagna veneta cara ad Andrea Zanzotto. Qui dove una volta il paesaggio era segnato dai campanili e oggi svettano ciminiere e capannoni. L’era Galan ha lasciato un’eredità pesante: dal 2001 al 2006 sono state realizzate case per 788 mila persone (la popolazione è aumentata di 248 mila abitanti). Nel 2002 si sono costruiti 38 milioni di metri cubi di capannoni. In Veneto la superficie urbanizzata è aumentata del 324% rispetto al 1950. Ben oltre le necessità, come dimostrano migliaia di cartelli “vendesi” appesi a case nuove e mai abitate. Adesso arriva Veneto City. L’ultima parola spetta oggi a Zaia (che ha preferito non parlare con il Fatto), il governatore contadino. Che chiarirà definitivamente da che parte sta.

Il conto alla rovescia, quello vero, è iniziato una mattina di fine ottobre sotto i flash dei fotografi e le telecamere intente a seguire ogni singolo movimento della prima ruspa che è entrata sul milione di metri quadrati della "discordia" di Rho-Pero.

È partito dopo 1.306 giorni dalla festa di Parigi, a 1.208 giorni all’inaugurazione ufficiale. Dagli ultimatum del Bie al primo cantiere. Da Letizia Moratti, ex sindaco plenipotenziaria – sulla carta – a Giuliano Pisapia e Roberto Formigoni, il tandem di commissari costretti ad andare d’accordo per non far fallire l’evento. Dall’interminabile balletto tra Comune e Regione sulla soluzione per acquisire le aree all’accordo di programma urbanistico che le ha rese edificabili, siglato, ironia della sorte, dal "sindaco arancione" con annessi tormenti del centrosinistra che, per tre anni, aveva cannoneggiato contro l’Expo del cemento del centrodestra.

Dall’orto botanico planetario (che avrebbe dovuto rivoluzionare la formula di un’Esposizione fatta di padiglioni tradizionali) alla smart city, il nuovo sogno di una cittadella digitale capace di anticipare il futuro e conquistare sponsor. Perché il 2011 per l’Expo non è stato solo l’anno della partenza operativa dopo tre anni di lotte di potere, ma anche quello del cambio dell’impostazione del progetto, l’anno delle rivoluzioni al vertice e delle nuove alleanze, dei tagli nell’era della crisi economica. Con un dossier uscito ridimensionato (300 milioni e qualche voce, come la via di terra, in meno). E, soprattutto, con molte incognite davanti. Che dovranno essere risolte nel 2012, l’anno della verità.

I prossimi obiettivi li ha fissati l’amministratore delegato Giuseppe Sala: far salire ad almeno 100 le adesioni dei Paesi (già a quota 68, oltre il target); conquistare altri quattro sponsor di peso dopo l’arrivo delle prime aziende; far partire a luglio i lavori della cosiddetta "piastra", l’ossatura del progetto. Ma ci sono altre certezze, quelle economiche del governo, che adesso dovranno arrivare. Eppure, è un’Expo diversa quella che ha iniziato a scaldare i motori. Vista dal cantiere spuntato quella mattina di fine ottobre, sembrava ancora un’opinione. Ci sono voluti i tecnici e una mappa per capire che nel punto in cui gli operai avevano montato le cesate sarebbe nato il viale centrale dove si affacceranno i padiglioni, che a separare i visitatori dal traffico delle due autostrade arriveranno alberi e un canale.

E poi? Dai progetti sono spariti i campi coltivati in cui i Paesi, secondo il primo concept plan firmato dalla Consulta di architetti guidata da Stefano Boeri, avrebbero dovuto mettere in scena le loro filiere alimentari: dalla pianta del caffè alla tazzina. L’orto è stato cancellato. «Troppo verde non sfonda», ha sentenziato Sala. «Milioni di visitatori non arriveranno per vedere distese tutte uguali di melanzane», gli ha fatto eco Vicente Gonzales Loscertales, il segretario generale del Bie. Quel progetto tutto basato sull’agricoltura, è stata la sintesi, non piaceva ai Paesi, al Bie, alle aziende. Meglio puntare sulle buone ragioni commerciali.

La nuova immagine è quella di una cittadella sospesa tra il reale e il virtuale, con avatar e schermi elettronici e la firma del premio Oscar Dante Ferretti sulle scenografie dei viali principali. E la tecnologia, magari, potrà contribuire anche a salvare le grandi serre con tutti i climi e le vegetazioni del mondo: ormai è troppo tardi per seguire il rigore scientifico del primo disegno. Cosa diventeranno? Si cerca un creativo che possa reinventarle e, magari, uno sponsor per mantenerle in vita dopo il 2015. Perché il grande dubbio riguarda il futuro: quando verranno smontati i padiglioni, cosa nascerà su quel milione di metri quadrati?

Sarà Arexpo, la società a maggioranza pubblica creata per acquistare le aree, a deciderlo. A partire dal 2015, per non correre il rischio di passare i prossimi tre anni a litigare sul post-Expo. Sarà inevitabile – e Formigoni non lo nasconde – realizzare una quota di case anche per rientrare degli investimenti fatti. Ma poi? Ci sarà un parco, è la rassicurazione. Ci sono le solite ipotesi, quelle cittadelle che, da anni, spuntano da Nord a Sud come in un grande Monopoli: la cittadella della giustizia, quella della comunicazione con la Rai, l’Ortomercato... La sfida più grande è l’eredità di quell’evento che avrebbe dovuto rilanciare l’immagine internazionale di Milano. Insieme alla capacità di riaccendere l’interesse della gente, dopo che molto si è già perduto per strada, di concretizzare qualche progetto.

Dal 2012 l’Expo dovrà correre per recuperare il tempo perduto e trasformarsi in un cantiere aperto giorno e notte, ma nelle mani di Sala la società sembra avere chiare le tappe. Sono altre le promesse che, adesso, andranno mantenute: c’è la via d’acqua con il recupero della Darsena da far partire e ci sono le infrastrutture legate al 2015 e attese da decenni. Per tutte le vie e i collegamenti, ormai – sia che si tratti di nuovi binari o della grandi autostrade come la Pedemontana o la Tem – la consegna è concentrata in una manciata di mesi, tra la fine del 2014 e i primi mesi del 2015. Ce la faranno a rispettare l’appuntamento? Già ora si sa che non sarà così per la linea 4 della metropolitana: l’obiettivo minimo è realizzare tre fermate, da Linate a Forlanini. Anche questa era una promessa di Expo.

postilla

Ai conformisti, anzi conformistissimi, ragionieri che fanno sorrisi di compatimento davanti al progetto dell’Orto Planetario, presumibilmente sognando l’Expo del Metro Cubo, si potrebbe semplicemente rispondere che il mondo non verrà certo a Milano per vedere un campo di melanzane, ma neppure per salire le scale mobili di un supermarket, o attraversare un baraccone tecnologico. Ma come giustamente sottolinea l’articolo quei sorrisetti di compatimento sono quantomeno mal rivolti, perché la posta in gioco non è solo portare visitatori, ma cosa resterà alle generazioni future. Qui l’Orto Planetario di risposte ne dava, e non pare proprio invece che ne diano né il Metro Cubo né il Telefonino Pervasivo della sedicente Smart City. Non si tratta di allestire un padiglione, ma fissare, secondo alcuni criteri internazionali, espositivi, ma anche ambientali e regionali, il futuro di un’area strategica. La facciamo uguale al baraccone cementizio della Fiera lì accanto? Sigilliamo definitivamente l’ultimo angolino di spazio aperto metropolitano facendo le tabelline di quanto edificato e quanto lasciato a giardinetti, nani e madonnine di gesso esclusi? Non si tratta di difendere a spada tratta quella che magari in sé e per sé era solo la sparata pubblicitaria di Stefano Boeri e dei suoi soci archistar. Però in una prospettiva di uso futuro l'idea alla base dell'Orto poteva diventare una Cittadella della Scienza (ricerca avanzata sulle produzioni agricole sostenibili a chilometro zero?) che se le mangia tutte, quelle sanitarie in versione brick & mortar targate CL, e destinate a tradizionalissimi bisturi e supposte, per quanto futuribili. Quindi bando alle polemiche sugli slogan, ma al solito mettere in prima fila la questione: che serve alla città? E intendere per “città” qualcosa che magari va oltre i confini amministrativi, naturalmente (f.b.)

Ha evitato anche i vincoli del Piano territoriale di coordinamento. L'area della Cascinazza, da circa 40 anni al centro della vita politica e urbanistica di Monza, è riuscita a passare indenne anche attraverso i lacci del documento approvato in Consiglio provinciale dopo una maratona di tre giorni. Il centrosinistra ha premuto affinché il lotto agricolo, destinato a trasformarsi in zona residenziale, rientrasse fra i 186 kmq di aree verdi tutelate, ma la maggioranza targata Pdl–Lega ha difeso fino in fondo il Piano che il presidente Dario Allevi ha definito «un freno alla progressiva cementificazione della Brianza», nonostante dai banchi dell'opposizione si siano levate critiche feroci.

I dati dicono che la superficie della provincia è di 405 kmq e che la parte non urbanizzata (pari al 46%) è messa sotto tutela per l'86% attraverso le salvaguardie previste dai parchi regionali, dai Plis (parchi locali di interesse sovracomunale), dagli ambiti agricoli strategici, dalla rete verde di ricomposizione e dagli ambiti di interesse provinciale. In definitiva, restano libere aree per poco più di 25 kmq, ovvero il 6% dell'intera superficie. «La priorità assoluta di questo documento è la tutela delle poche zone ancora libere — spiega Antonino Brambilla, vicepresidente e assessore al Territorio —. Ogni giorno vengono consumati 4 mila mq di suolo e serve mettere uno stop al più presto». La Brianza ha l'indice di cementificazione più alto d'Italia subito dopo Napoli e proprio per questo motivo secondo il Pd il Piano è troppo morbido. «Il confronto per la messa a punto del documento è stato buono — dice Domenico Guerriero, capogruppo Pd —, ma alla fine lascia mano libera ai costruttori su troppe aree».

Dei circa novanta, fra emendamenti e ordini del giorni presentati, la maggioranza ne ha bocciati più di 60, compreso quello su Cascinazza, dove il Pgt monzese prevede una lottizzazione da quasi 400 mila metri

E secondo l'Osservatorio Ptcp Brianza non è nemmeno l'unico. «Abbiamo rilevato almeno una quarantina di casi analoghi — spiega Gemma Beretta, una delle responsabili — e il caso più macroscopico è la mancata salvaguardia dell'ampliamento del Bosco delle Querce a Seveso, sorto sui resti delle macerie infettate dalla diossina».

Postilla

Se non ricordate, o non sapete, che cos'è lo scandalo della Cascinazza scrivete questa parola nel piccolo "cerca" di eddyburg.it, e leggete. Magari guardatevi anche il servizio che fece "Report", il programma diretto da Milena Gabanelli, anch'esso raggiungibile da questo sito

Nei giorni scorsi le associazioni Wwf, Legambiente, Italia Nostra, Man e Fai hanno chiesto che «il governo rigetti il progetto definitivo del ponte sullo Stretto di Messina, redatto dalla Stretto di Messina SpA (Concessionaria interamente pubblica) e da Eurolink (General Contractor, con a capofila Impregilo), che costa 66 milioni di euro di fondi pubblici». I costi del progetto definitivo - in ogni caso non esecutivo rispetto ad eventuali lavori - porterebbero le spese fin qui sostenute per l'eterna progettazione del Ponte ad oltre mezzo miliardo di euro (la società ammette 290 milioni già spesi, ma ha dimenticato e cancellato dal bilancio gli oltre 320 miliardi di vecchie lire - circa 170 mln di euro - spesi tra il 1971 e il 1989, prima dal comitato promotore e quindi dalla stessa società, come ammesso da ex dirigenti della stessa).

Gli ambientalisti sottolineano che respingere ora il progetto - come appare doveroso viste le clamorose carenze e inadempienze dello stesso, evidenziate nelle quasi 250 pagine di Osservazioni redatte da una trentina di esperti e studiosi - significherebbe evitare, a termini di contratto, oltre che ulteriori esborsi di fondi pubblici (paradossali in questo momento), anche il pagamento di qualsiasi penale.

Il Ponte - come è noto - è stato escluso lo scorso ottobre dai progetti finanziabili dall'Ue nell'ambito delle costruzioni delle reti infrastrutturali prioritarie ed ha subito la cancellazione delle risorse già programmate per il progetto già con gli ultimi decreti Tremonti. Questo nonostante il governo precedente fosse assolutamente pontista e giustificasse i suoi ultimi provvedimenti con il mantra «il Ponte lo realizzeranno i privati» (laddove un project financing di quasi 9 miliardi di euro è improbabile anche come barzelletta).

Gli ambientalisti chiedono la bocciatura definitiva del progetto e, insieme a tutto il centrosinistra, alla Lega e a molti parlamentari di centro e anche di destra, lo scioglimento della società del Ponte in quanto «negli elaborati prodotti da Sdm SpA ed Eurolink il progetto manca di un quadro di dettaglio di opere connesse essenziali (quali la stazione di Messina e i raccordi ferroviari lato-Calabria), non viene presentato il Piano Economico Finanziario, non viene prodotta un'analisi costi-benefici che giustifichi l'utilità dell'intervento, non è svolta una corretta Valutazione di impatto ambientale e non viene presentata la Valutazione di incidenza richiesta dalla Comunità Europea alla luce delle modifiche compiute, oltre che nelle opere connesse, sulla stessa struttura del ponte tra il progetto preliminare e quello definitivo, non si prendono in considerazione correttamente i vincoli paesaggistici e quelli idrogeologici».

Nella nota diffusa dall'ufficio stampa del Wwf sono contenuti alcuni dettagli delle Osservazioni critiche al progetto. «La procedura di Via speciale per le infrastrutture strategiche, a giudizio degli ambientalisti, non è stata rispettata perché: non viene considerato l'impatto dell'opera ponte che nella progettazione ha subito modifiche sostanziali; alcune delle opere connesse quale l'importantissima nuova stazione di Messina o il collegamento con la prevista linea ferroviaria ad Alta Velocità Salerno-Reggio Calabria sono a malapena alla fase di studio di fattibilità e non di progetto definitivo; non è stata prodotta una Valutazione di incidenza (nel rispetto della Direttiva comunitaria Habitat e delle norme nazionali)... Non è stato prodotto il Piano Economico Finanziario, per stessa ammissione della Sdm SpA che ha inviato una lettera l'8 novembre scorso in risposta ad una richiesta degli ambientalisti per un'opera che costerebbe 8,5 mld, pari a mezzo punto di Pil, a fronte di una progressiva contrazione della mobilità nell'area dello Stretto di Messina, documentata dagli stessi progettisti. Anche la descrizione della cantierizzazione (che costruirebbe un pesantissimo vincolo sul territorio con i suoi 17 cantieri operativi e i 9 siti di deposito dove saranno sistemati in via definitiva i materiali) è estremamente lacunosa e costituisce una vera e propria beffa per il delicatissimo assetto idrogeologico delle due aree costiere e montane dello Stretto di Messina.... come segnalato per la Sicilia nel parere reso dal Genio Civile di Messina».

Infine, le stesse descrizioni delle componenti geo-sismo-tettoniche, in una delle aree a più elevato rischio del Mediterraneo, sono molto carenti, come dimostra il caso della "faglia scomparsa". Le associazioni e il movimento No Ponte chiedono a questo punto l'azzeramento ufficiale del progetto, delle procedure e dei responsabili gestionali. Viceversa, un accantonamento sostanziale ma non istituzionalizzato comporterebbe - come già avvenuto con il governo Prodi - la prosecuzione delle "spese di struttura" (900 mila euro annui solo per la sede, oltre ad una ventina di stipendi per «tecnici e dirigenti esperti») oltre che la prosecuzione dell'attività di lobbying e di clientela, in attesa di esecutivi nuovamente favorevoli. Il timore è che la presenza nel governo del viceministro Ciaccia, noto pontista e sostenitore delle Grandi opere, porti a esiti simili. L'interessato, come lo stesso ministro Passera, sostiene che, dato il suo ruolo governativo, «oggi la situazione è completamente cambiata». Si vedrà dai fatti.

Pompei, piano piano, scivola via. Ogni crollo fa notizia: ma dov’è la notizia? La fragilissima Pompei è solo la punta dell’iceberg del patrimonio storico e artistico italiano: un iceberg che si scioglie ogni giorno sotto gli occhi di tutti, ma nel disinteresse generale.

Come per tenere aperte le scuole e far funzionare gli ospedali, anche per mantenere il patrimonio ci vogliono soldi. Se lo Stato rinuncia a stanziare quei soldi cessa di essere Stato. Eppure, negli ultimi anni si è fatto esattamente il contrario. «Pompei resta una priorità per il Ministero dei Beni Culturali», ha dichiarato domenica scorsa il ministro, Lorenzo Ornaghi. Ed è la scelta del verbo, che preoccupa: quando lo è stata, signor ministro? Il mitico Sandro Bondi permise a Giulio Tremonti di sottrarre un miliardo e trecento milioni di euro al bilancio del Ministero. E quando Salvatore Settis scrisse che perdere quei fondi significava condannare a morte il patrimonio, per tutta risposta Bondi lo costrinse a dimettersi dalla presidenza del Consiglio superiore dei Beni culturali. E nominò un altro archeologo, ma assai meno spigoloso: Andrea Carandini, tuttora felicemente pontificante.

Per Pompei, in particolare, Bondi ebbe l’idea di esautorare la soprintendenza (cioè la competenza) per nominare un commissario straordinario proveniente dalla Protezione civile di Guido Bertolaso. Col risultato che la tutela e la manutenzione ordinaria sono state completamente trascurate a favore di un rilancio d’immagine attraverso un serrato marketing di ‘eventi’ e campagne mediatiche, culminato nella cementificazione del Teatro Grande. Fu il clamoroso crollo della schola armatorum, avvenuto il 6 novembre 2010, a sancire la fine dell’esperimento, nonché la fine sostanziale dello stesso ministro Bondi.

Del resto, quando si parla di patrimonio culturale, la competenza è notoriamente un optional. E non lo pensava solo Bondi, ne è convinto anche Mario Monti: l’unico ministro non ‘tecnico’ è infatti proprio quello dei Beni Culturali. È stato naturale mettere un prefetto agli Interni, un diplomatico agli Esteri, un avvocato alla Giustizia e un ammiraglio alla Difesa: ma la tutela del patrimonio storico e artistico della nazione non è stata affidata ad uno storico dell’arte, o ad un archeologo, bensì ad uno scienziato della politica. Il quale, peraltro, non pensa neanche a dimettersi dalla carica di rettore dell’Università cattolica: tanto crede nella durata e nell’importanza del suo attuale compito.

E così la salvezza di Pompei non è affidata a un progetto, ad una visione, ad un vero cambio di passo. Si aspetta il deus ex machina di finanziamenti straordinari e colossali che arrivino dall’estero (l’Unione europea, gli imprenditori francesi) come la cavalleria in soccorso degli assediati. Senza troppo parlare degli interessi inevitabilmente collegati a questi fiumi di soldi: da quelli del cemento (che rischia di strangolare definitivamente gli scavi), a quelli della Camorra. Salvare una città antica ritornata alla luce e oggi senza né tetti, né fogne è una sfida tecnica e culturale appassionante. Se avessimo la capacità di fare sistema e avviare una vera ricerca, la messa in sicurezza di Pompei potrebbe essere la nostra ‘corsa alla Luna’. E invece, in Italia, quando si dice ‘economia dei beni culturali’ si intende il merchandising, il marketing delle pubbliche relazioni, il circuito parassitario e clientelare dei ‘servizi aggiuntivi’ dei musei.

E pazienza se, nel frattempo, Pompei scivola via.

Pompei, l’anno orribile

Vittorio Emiliani – l’Unità

Un anno orribile per l’antica Pompei, che si chiude con un nuovo crollo: nella domus di Loreio Tiburtino, una delle più visitate perché posta all’ingresso delle scolaresche. Un dramma della manutenzione ordinaria e straordinaria, che non sembra finire mai. E qui, caso raro, non sono stati i fondi a mancare quanto le competenze dopo il pensionamento dell’ottimo soprintendente Piero Guzzo, anni or sono. Pompei è una delle Soprintendenze “speciali” (accorpata, assurdamente, con quella, importantissima, di Napoli). Non le mancano i fondi, visto che incassa circa 20 milioni l’anno (per un 30% dirottati altrove). Ma, dopo Guzzo, si sono succeduti, a velocità grottesca, ben tre soprintendenti (ad interim) e due commissari: un prefetto in pensione e un funzionario della Protezione Civile. Che hanno delegittimato nei fatti il soprintendente, cioè l’esperto vero. Dei 79 milioni disponibili, il commissario Fiori ne ha investiti pochi, un po’ più della metà, nella indilazionabile messa in sicurezza di una città esposta al consumo di massa, alle intemperie, al dissesto idrogeologico. Il resto? Finito in “valorizzazioni” discutibili, a partire dal Teatro Grande, rifatto in tufo contemporaneo.

Mi par di sentirli i lai di chi invoca la creazione di una Fondazione Pompei e l’intervento salvifico, soprattutto gestionale, dei privati. Sciocchezze. Ignoranti o maliziose. Bisogna invece rafforzare i poteri, anche gestionali, certo, dei soprintendenti, formarli meglio a tali compiti, dotarli di uffici amministrativi e tecnici efficienti, ricostituire la rete, lasciata sfibrare, dei presidii della tutela. A Pompei i soldi non mancano. Altrove ci vogliono anche quelli. Disperatamente.

Pompei. Crollo nella Domus da restaurare

Alessandra Arachi - Corriere della Sera

Questa volta è toccato alla Domus di Loreio Tiburtino. Ad un pilastro del pergolato esterno, per la precisione, quello che si affaccia sul giardino maestoso e imperiale, nel pieno centro della città antica di Pompei, ad un passo dall'Anfiteatro. E venuto giù ieri, il pilastro, ed era mattina, e non è un dettaglio per una Domus che, tra le altre, è aperta alle visite del pubblico. La Domus di Octavius Quartio, detta di Loreio Tiburtino, è tra le più belle e importanti degli scavi di Pompei. Conserva un impianto originario e anche quello splendido giardino immerso tra verde e specchi d'acqua. L'area del crollo ieri è stata sequestrata, i carabinieri stanno indagando le cause. Ma questa volta sarà difficile trovare spiegazioni a quello che appare come un crollo annunciato. Sono anni, infatti, che la Domus di Loreio Tiburtino è stata inserita nella lista delle case che avevano bisogno di restauri e di supporti. Da quando è cominciata la gestione commissariale negli scavi, perlomeno. Era il 2008 quando l'allora commissario Renato Profili stanziò quasi 460 mila euro per il restauro degli apparati decorativi. Non ci fu mai il bando per quella gara. Nel luglio 2010, però, la soprintendenza si lanciò in un annuncio ben più decisivo: 3 milioni e mezzo di euro per il restauro di sette Domus importanti, quella di Loreio Tiburtino in prima linea, deciso dall'altro commissario, Marcello Fiori. A fine luglio sarebbero dovute partire le gare. A settembre i lavori.

Ieri mattina il crollo. E la soprintendente Teresa Elena Cinquantaquattro che si affannava a dire che «il pilastro non era portante né decorativo», che «l'area è stata scavata negli anni Cinquanta da Amedeo Maiuri, poi ha avuto restauri negli anni Ottanta e da allora più nulla, i lavori del commissariamento non hanno interessato questa parte». Non l'hanno interessata, ma era stato deciso di sì. E anche con urgenza. Ma nulla di fatto. E Pompei continua a sbriciolarsi. E il terzo crollo di quest'anno. E il più importante dopo quello della Schola Armaturarum, del 6 novembre 2010.

«Un crollo che non stupisce, anzi. Mi stupisco che non sia successo di peggio», commenta Andrea Carandini, presidente del Consiglio superiore Beni culturali. E annuncia: «L'allarme non è affatto concluso, ci saranno altri crolli». Il neoministro dei Beni Culturali, Lorenzo Ornaghi, ha fatto sapere che per attivare i 105 milioni di euro stanziati per i restauri degli scavi di Pompei dall'Unione Europea bisognerà aspettare l'autunno prossimo. Ci sono gare d'appalto da fare, di tipo europeo, appunto. E nel frattempo? «Il degrado va fermato subito impegnando squadre per la manutenzione ordinaria», implora Antonio Irlando, responsabile dell'Osservatorio patrimonio culturale. E aggiunge: «Gli interventi straordinari sono molto spesso tardivi. E la domanda che in tanti si fanno è: di chi è la responsabilità del vergognoso stato di conservazione di Pompei?». Anche l'Associazione nazionale archeologi lancia un grido di allarme per gli scavi che tutto il mondo ci invidia e che sono patrimonio dell'Umanità per l'Unesco: «Continueremo ancora per molto a pagare gli errori prodotti dal lungo commissariamento degli scavi. L'unica possibile cura per salvare la città romana sono assunzioni subito».

I precedenti

1 La Schola

Il 6 novembre 2010 nella città antica di Pompei, sulla via dell'Abbondanza, crolla la Schola Armaturarum, la scuola dei gladiatori, restaurata nel 1947

2 Il Moralista

Il 30 novembre del 2010 cede il muro perimetrale che circonda la Casa del Moralista, situata a una ventina di metri dalla Casa dei gladiatori.

Il lupanare

Il primo dicembre 2010, in via Stabiana, crolla una parete di accesso a un ambiente della vicina casa del «lupanare piccolo», chiusa al pubblico.

Egregio Direttore, senza entrare nel merito alle valutazioni ambientalistiche dell’articolo “Grande Nonna Quercia, una favola per salvare l’ambiente”, pubblicato il 18 dicembre 2011 a firma di Nando Dalla Chiesa, desidero evidenziare che il raccordo autostradale tra il nuovo casello di Castelvetro Piacentino e la strada statale 10 “Padana Inferiore” e il completamento della bretella autostradale tra la stessa statale 10 e la strada statale 234, con un nuovo ponte sul fiume Po, sono affidati in concessione alla Società Centropadane dal 1999. Il progetto definitivo ha ottenuto il parere di compatibilità ambientale nel 2009 ed è stato approvato in sede di Conferenza di Servizi nel 2010. Per questo motivo, non si comprende lo “scrupolo” posto dall’autore dell’articolo in merito alla realizzazione di questa infrastruttura. Inoltre, per quanto riguarda la posizione dell’Anas accusata di far pagare un “prezzo” alla società Centropadane, si precisa che la concessione è scaduta il 30 settembre 2010 e non è previsto alcun rinnovo. La Concessionaria sta proseguendo nella gestione della concessionesecondo quanto previsto nell’atto convenzionale in attesa che venga individuato il nuovo concessionario.

Giuseppe Scanni, Direttorerelazioni esterne Anas

In riferimento alla nota inoltrata dall’Anas al Fatto Quotidiano, relativa all’articolo di Nando Dalla Chiesa pubblicato domenica, si precisa che, in relazione all’infrastruttura denominata “Terzo ponte”, pendono ancora tre ricorsi al Tar, un’interrogazione di due europarlamentari e una richiesta di approfondimento alle autorità italiane da parte Ue sull’incidenza negativa su tre aree protette Sic e Zps sul fiume Po. Quanto agli interessi che guidano la realizzazione del Terzo ponte, si cita la dichiarazione del presidente di Centropadane spa, Augusto Galli, a una testata cremonese: “Il terzo ponte è un'opera prevista fra Anas e Autostrade Centro Padane. La nostra concessione scade il 30 settembre del 2011. Quindi, se non si realizzasse quest'opera, perderemmo la concessione dell'Anas. E si pagherebbe una penale". (Il Piccolo Giornale, 12/04/04). Questa ammissione manifesta, ci pare, le reali motivazioni alla base di questa infrastruttura.

Il comitato “Gli amici della grande nonna quercia”

postilla

Giusto ribadire alcuni aspetti tecnico-amministrativi e riguardanti gli investimenti e l’impatto ambientale locale dell’opera. E implicitamente ricordare quanto all’approccio poetico-giornalistico dell’articolo di Nando Dalla Chiesa, si debbano sommare altri punti di vista, perché come al solito i paladini della “banda di strada” suonano le proprie trombe nella stessa tonalità che si ascolta da una cinquantina d’anni e più. Uno spartito scritto sulla tabula rasa di un territorio che pare star lì solo ad aspettare passivo la trasformazione, una specie di materia prima amorfa, che dà segni di vita solo là dove spunta la quercia antica, l’edificio monumentale, il proprietario cocciuto ecc.

Succede invece che nel caso specifico, come in tanti altri, si è sostituito il progetto ingegneristico al piano, secondo lo schema vetusto dell’anello di tangenziale con innestati i poli di espansione urbana, rispondendo con automatismo e proponendo un modello che quasi ovunque ha prodotto nei decenni molti più problemi di quanti ne abbia mai risolti. Ci sono studi - vedi ad esempio l'allegato - che spiegano come, per garantire la medesima accessibilità ai medesimi poli produttivi (è questa la giustificazione principale della bretella-ponte) si possa agire su un’altra fascia urbana, già ampiamente trasformata, lasciando perdere nuovi ponti e compromissione di aree di grandissimo pregio. Ma probabilmente così ci si allontana dai sacri precetti degli anelli concentrici della crescita infinita cari alla religione detta “sviluppo del territorio”. Amen (f.b.)

La soprintendente Cristina Acidini non ha ancora risposto all’appello sottoscritto ormai da cinquecento persone, tra cui i più autorevoli esperti internazionali di Leonardo e Vasari. In compenso Maurizio Seracini comunica che il sindaco Renzi autorizza a far ripartire la ricerca, e sostiene che «chi ha firmato la lettera non è stato informato bene del nostro lavoro».

L’esposto di Italia Nostra alla Procura della Repubblica di Firenze e l’appello degli studiosi si fondano invece su un documento di prima mano: la lettera di rimostranza inviata all’Acidini da Cecilia Frosinini il 23 novembre scorso. La responsabile della pittura murale presso l’Opificio delle Pietre Dure ritiene che: «l’Istituto non sia stato messo in condizione di esprimere la propria valutazione tecnico-scientifica …; l’Istituto non sia stato messo in condizione di esplicare il proprio ruolo tecnico nel valutare la percorribilità delle operazioni richieste; all’Istituto non sia stato concesso di decidere in piena autonomia ... All’istituto quindi è stato negato il suo ruolo di organo della conservazione, imponendogli di operare danneggiamenti alla superficie pittorica attraverso strappi non motivati da considerazioni conservative». La dottoressa Frosinini paventava infine che «le scelte di Ente Locale e sponsor» potessero essere lesive del suo «ruolo professionale e scientifico e contrarie alle funzioni che lo Stato mi chiede di svolgere nell’ambito della ricerca e della conservazione».

Riassumiamo. Il sindaco di Firenze desidera portare avanti una ricerca che agli occhi dei massimi esperti internazionali di Leonardo (tranne che a quelli di Carlo Pedretti, maestro di Seracini) sembra completamente infondata sul piano scientifico. Egli non pensa di dover nominare un comitato scientifico indipendente (come si sarebbe fatto in qualunque paese civile), ma per bucare Vasari ha bisogno dell’assenso della soprintendente di Firenze Acidini, la quale a sua volta ottiene il via libera dalla soprintendente pro-tempore dell’Opificio, che è sempre l’Acidini (una situazione evidentemente infelice, e foriera di più di un conflitto d’interesse). Ma la lettera della Frosinini mostra che l’assenso dell’Opificio non è fondato né sulla scienza né sulla coscienza. Mancando quindi ogni forma di garanzia e di terzietà, la comunità scientifica internazionale (inclusi altri tecnici dell’Opificio e storici dell’arte della stessa soprintendenza di Firenze) invoca una sospensione e un controllo indipendente e autorevole, e Italia Nostra chiede doverosamente la verifica della magistratura.

A questo punto ci si deve chiedere: perché i fori sul Vasari sono stati autorizzati dall’Acidini, se erano in contrasto con l’etica della conservazione o addirittura violavano la legge? E se invece erano perfettamente in regola, perché si è smesso di farli, visto che la Procura non ha disposto nessuna sospensiva?

Da troppo tempo, e su troppe gravi questioni, Cristina Acidini ritiene di non dover rendere conto né alla città, né all’opinione pubblica, né alla comunità scientifica. Ebbene, è venuto il momento di farlo.

Da Fai, Italia Nostra, Wwf, Legambiente e Man appello al governo affinché fermi un'opera ritenuta pericolosa, inutile e dannosa per l'ambiente. I rilievi tecnici al progetto in oltre 200 pagine di osservazioni. "Agire immediatamente per evitare penali"

Se è vero che non tutti i mali vengono per nuocere, la crisi economica e l'arrivo di un governo tecnico in supplenza della politica possono forse essere l'occasione per archiviare una volta per tutte un progetto ritenuto folle come quello sul Ponte sullo Stretto. Questa è almeno la speranza delle associazioni ambientaliste Fai, Italia Nostra, Wwf, Legambiente e Man (Associazione mediterranea per la natura) che nei nei giorni scorsi hanno scritto proprio con questo obiettivo una lettera al presidente del Consiglio Mario Monti.

L'iniziativa è stata presentata questa mattina a Roma insieme a una dettagliata "contro-relazione" che ha impietosamente ricordato i tanti aspetti critici e spesso persino paradossali del progetto. Ben 245 pagine di osservazioni che le organizzazioni hanno prodotto, come scrivono allo stesso premier, "nell'ambito della procedura speciale di Valutazione di Impatto Ambientale per le infrastrutture strategiche".

Detto fuori dal reverente linguaggio burocratico utilizzato nella lettera, la questione di fondo per le associazioni ecologiste è che il Ponte è pericoloso in quanto sarebbe un azzardo ingegneristico compiuto in una delle zone più sismiche del Mediterraneo; è un'infrastruttura inutile dal punto di vista della mobilità e della promozione dello sviluppo economico; costa uno sproposito, 8,5 miliardi di euro, che potrebbero essere usati in maniera molto più proficua; rappresenta una minaccia paesaggistica e ambientale, sia per l'impatto che avrà l'apertura di decine di cantieri sulle due rive dello Stretto, sia per la migrazione di milioni di uccelli (4,3 sono stati quelli censiti in volo in appena un mese e mezzo di controlli radar).

Obiezioni vecchie, che vengono ripetute ormai da anni, ma che per i loro aspetti paradossali non smettono mai di sorprendere. Vale la pena di ricordarne alcuni: il Ponte sullo Stretto, ricordano Fai, Italia Nostra, Wwf, Legambiente e Man nelle loro osservazioni, avrebbe una campata lunga 3,3 chilometri, mentre la più lunga esistente al mondo (Akashi Kaikyo, in Giappone) è di appena 1,9, km. Il ponte giapponese è però solo stradale, mentre quello tra Reggio e Messina dovrebbe essere sia stradale che ferroviario. Per costruire quest'ultimo, secondo i progettisti, sarebbero sufficienti appena 6 anni, mentre per Akashi Kaikyo ne sono occorsi ben 12. I cantieri per i lavori occuperebbero inoltre sul versante siciliano uno spazio pari a oltre tremila campi da calcio, mentre su quello calabrese ne sarebbero sufficienti "appena" la metà.

Proprio perché si tratta di aspetti che gli ambientalisti denunciano da tempo, più che sulla razionalità di queste osservazioni le speranze di uno stop definitivo all'opera si concentrano ora sul contesto economico generale del paese. "Dobbiamo battere sul tasto dello spreco che rappresenterebbe il Ponte in un momento drammatico come l'attuale", sottolinea il presidente dei Legambiente Vittorio Cogliati Dezza. Non a caso a dare manforte a questa campagna era presente alla conferenza stampa una piccola pattuglia di parlamentari di diverse forze politiche, dal Pd all'Udc, da Fli ai Radicali.

"Il Ponte è un progetto fallito e incompatibile con l'attuale fase economica che vive il paese - commenta ad esempio il futurista Fabio Granata - da solo rappresenta un costo pari a oltre un terzo dell'ultima manovra Monti". Il democratico Francesco Ferrante sottolinea invece un'altro aspetto della particolare contingenza: "Proprio perché quello in carica è un governo tecnico - dice - mi auguro che non abbia una posizione ideologica e fermi il progetto attraverso lo strumento istituzionale della valutazione di impatto ambientale".

Nella loro lettera a Monti, come ricordato in conferenza stampa, le associazioni denunciano poi l'incompletezza del progetto redatto dalla Stretto di Messina spa (concessionaria interamente pubblica) e da Eurolink (General contractor), un documento costato 66 milioni di euro di fondi pubblici, ma che "non può essere ritenuto definitivo" viste le tante lacune e approssimazioni.

Quest'ultimo è un punto estremamente importante, perché decisivo in caso di battaglia sulle possibili penali. Secondo gli ambientalisti, imponendo ora uno stop all'opera, lo Stato non sarebbe tenuto a nessun esborso non solo perché il progetto non è definitivo, ma anche perché la clausola che fissa la presentazione del progetto come ultimo atto entro il quale è possibile tirarsi indietro rappresenta "un alterazione ex post di requisito di gara".

Ma è fondamentale, ha concluso Stefano Lenzi del Wwf, che "il governo eviti il punto di 'non ritorno' dell'avvio dei cantieri e rigetti il progetto definitivo" evitando di dover pagare 56 milioni per il progetto esecutivo e 425 milioni per "l'avvio anche di un solo cantiere". Per dare ulteriore forza a questa battaglia le associazioni ambientaliste hanno quindi presentato anche una diffida alla Commissione di valutazione di impatto ambientale e avviato una petizione popolare per chiedere lo scioglimento della Stretto di Messina spa, l'unico atto che permetterebbe di scrivere definitivamente la parola fine all'intera vicenda.

A vedere quello che succede a Catania, viene il dubbio se “bene pubblico” significhi bene di tutti o bene di nessuno. È il caso dell’ex-Collegio dei Gesuiti, magnifico edificio settecentesco, in cui il “modo nostro” gesuitico trova una declinazione eccezionale, un unicum che insieme ai centri storici barocchi della Val di Noto è stato dichiarato patrimonio dell’Umanità dall’U.N.E.S.C.O.

L’edificio in questione per oltre quarant’anni, fino al 2009, è stato sede dell’Istituto Statale d’Arte; ed oggi, a due anni dalla piena presa di possesso da parte della Regione Sicilia, versa nel più totale stato di abbandono, come testimoniato dai numerosi video e articoli presenti in rete: v. soprattutto i link al materiale di redazionesottosfratto.it , tra i primi ad aver denunciato oggi la questione.

Ma per avere chiara l’attuale situazione è necessario conoscere gli antefatti.

Nell’aprile del 1999 infatti ha inizio il lungo contenzioso che vede contrapposte due Istituzioni “pubbliche”: da una parte la Provincia Regionale di Catania, ente a cui afferisce l’Istituto d’Arte, dall’altra la Regione Sicilia, proprietaria dell’immobile, che ha destinato a nuova sede della biblioteca regionale universitaria.

Il contenzioso si risolve nel 2006 con sentenza del C.G.A. R.S. a favore della Regione e ai danni di una terza Istituzione che è appunto l’Istituto d’Arte. Si tratta di una sentenza di sfratto che difficilmente poteva diventare esecutiva, dato che implicava l’interruzione di pubblico servizio in mancanza di una sede alternativa, problema non da poco per una scuola i cui strumenti e arredi, indispensabili alla didattica son del tutto eccezionali.

A ciò si aggiunge un altro antefatto di sicuro interesse!

Nel dicembre 2008 la preside dell’Istituto, comunica alla Provincia Regionale di Catania, ente locatario dell’immobile in uso alla scuola la necessità di interventi di manutenzione, segnalando in particolare il cedimento della copertura del vano destinato ad attività motorie e comunicando altresì il provvedimento di interdizione del vano preso in via precauzionale e ricordando che alcun intervento di manutenzione è stato mai fatto rispetto all’intero edificio.

Detta Provincia Regionale, nel gennaio del 2009, ne dà comunicazione alla Regione Sicilia, ente proprietario dell’edificio da circa un decennio; ma passano i mesi e alla tempestività del provvedimento di interdizione, fa da contro il silenzio e l’inattività dei preposti all’intervento; e ciò basterebbe a fare chiarezza sul senso di responsabilità di chi di competenza.

Il 26 maggio del 2009 si verifica il crollo della porzione di copertura per la quale era stato chiesto l’intervento.

È sotto gli occhi di tutti peraltro che il cedimento non è di natura strutturale, trattasi infatti di alcuni assi della copertura in legno a fronte di un edificio storico che copre un area di circa 7500 mq.; ciò è avvalorato dalla perizia tecnica che ne seguì, grazie alla quale fu possibile tenere gli esami di stato nel Luglio del 2009.

Ma a questo punto la vicenda ha una svolta.

Ciononostante e incurante delle proteste e degli appelli di genitori, alunni e personale della scuola, il Comune risponde con un provvedimento che è sentito dai diretti interessati come un atto di forza: un ordinanza di sgombero, in cui viene definito addirittura “illecito” l’uso scolastico dell’immobile, che ricordiamo è da oltre quarant’anni sede dell’Istituto e in precedenza, a partire dall’espulsione dell’Ordine dei Gesuiti nel 1775, è destinato alla didattica e alla formazione nel campo delle Arti e dei Mestieri.

Recidere una tale tradizione, quindi si rivela più difficile del previsto, e così la vicenda si trasforma in emergenza, ed ecco che il cedimento prima descritto diventa pretesto per dichiarare l’inagibilità dell’intero edificio l’11 settembre 2009, e lo sfratto si trasforma in sgombero coatto.

Un distacco doloroso, e con gravi conseguenze; per oltre un mese infatti l’Istituto d’Arte rimane senza una sede a svolgere le lezioni per strada, e quando la sede viene trovata si tratta di un edificio privato per l’uso del quale è stato stipulato un contratto di sei anni, per cui la Provincia Regionale di Catania ovvero la collettività ha sborsato 60000 euro al mese, per i primi due anni, senza contare i costi per smantellamento, trasferimento e ricollocazione di attrezzature speciali e macchinari dei laboratori. Ora è già deciso un nuovo esodo con notevole esborso economico per l’adattamento dei locali, nonché per smantellamento, trasferimento e ricollocazione di attrezzature speciali e macchinari dei laboratori.

Ma i cittadini più accorti si chiedono, a due anni dalla presa di possesso da parte della Regione che ne è del Collegio dei Gesuiti.

Ci si aspetta che siano stati effettuati i “non più procrastinabili lavori di messa in sicurezza”.

E invece il cedimento della copertura del vano, già destinato ad attività motorie, si è trasformato in squarcio con conseguente allagamento permanente. Ciò che rimane di quello che è un gioiello del barocco è ora irriconoscibile, esposto alle intemperie e all’azione dei vandali; le corti vissute fino a due fa da aspiranti artisti sono ridotte a stagni; le piante ruderali sconnettono i “ciacati” e si insinuano nella muratura.

E il senso di responsabilità di noi cittadini si scontra con lo scaricabarile tra gli enti coinvolti, a cui assistiamo sulle pagine della stampa locale.

Dall’articolo de La Sicilia del 19.11.2011 a firma di Pinella Leocata, si riporta la dichiarazione della sovrintendente Vera Greco: «Tutta colpa della Provincia che non ci ha mai consegnato i locali, nonostante la nostra diffida di un anno fa».

L’indomani la replica del Presidente della Provincia Castiglione: «La Provincia ha fatto la sua parte in condizioni di emergenza e di estrema difficoltà: siamo andati via subito, abbiamo trovato un’altra sede, a caro prezzo e abbiamo fatto un trasloco difficile. Cosa vengono a dirci, adesso, di arredi o altri oggetti all’interno? Cosa ci vengono a dire di chiavi da restituire? Siamo entrati per il trasloco dietro autorizzazione della sovrintendenza che poi, quando siamo andati via, ha cambiato le chiavi».

Nel frattempo una cosa non è cambiata: il forte senso di identità e di appartenenza di chi l’edificio l’ha vissuto per decenni, e ritiene inaccettabile un approccio tanto leggero e noncurante alla tutela di un bene così prezioso. Ne è testimonianza la creazione della pagina facebook “Salviamo il Collegio dei Gesuiti-EX ISTITUTO D’ARTE che è diventato un tavolo permanente di denuncia, discussione, e proposte sul destino del Collegio. Essa raccoglie più di 1600 persone, tra cittadini, ex allievi e personale dell’Istituto d’Arte, i quali stanno per dar vita a un Comitato Civico in difesa di questo patrimonio, con l’obiettivo di risvegliare il buonsenso e la responsabilità delle Istituzioni Pubbliche affinché si ponga fine allo scempio del nostro patrimonio culturale e allo spreco di denaro pubblico.

Sarebbe necessario, da parte del mondo della Cultura tutto, ad ogni livello, un intervento in merito a questa vicenda, emblematica di un modo di gestire la Tutela, affinché le Amministrazioni sentano il peso e la responsabilità delle proprie azioni e non-azioni nei confronti dei cittadini e del mondo intero, secondo i principi di trasparenza e partecipazione di cui spesso si parla ma che pochi riscontri hanno nella realtà.

Per maggiori dettagli e approfondimenti questo è il link al blog del Comitato nato nel 2009 in difesa dell’Istituto Statale d’Arte: http://istitutoartecatania.myblog.it/

Ma quale ampolla. È una quercia, una grande quercia oggi il simbolo del Po che si ribella, che chiede rispetto per le tradizioni e la storia delle terre padane. Un immenso albero secolare che sorge a pochi chilometri da Cremona, vicino a Castelvetro piacentino. Destinato a essere cancellato o violentato dall’ennesima bretella autostradale inventata dalla inesausta fantasia dei costruttori. Dodici chilometri per congiungere Porto Canale Cremona con Castelvetro.

E per travolgere d’un colpo tre aree protette dall’Unione europea; tra cui, grazie a un bel ponte, l’Isola del deserto, tempio fluviale di magico silenzio tra boschi e spiagge in cui vanno a nidificare rare specie rare di uccelli, dall’airone rosso al picchio verde. Un progetto nato negli anni novanta per disintasare il traffico pesante del porto di Cremona sulla A21. E giunto alla sua terza versione nel 2010. Costo 216 milioni. Soldi di tutti, visto che “la società che dovrebbe realizzarlo è la Centropadane, e che i suoi azionisti sono praticamente gli enti pubblici di Piacenza, Brescia e Cremona”. Altro che tagli.

foto di f. bottini - estate 2011

Chi parla è un pubblicista bresciano, Simone Mazzata. Proprio quando il progetto macinava autorizzazioni ministeriali, è arrivato lui, il guastafeste. Cercava casa in campagna, con un’idea su tutte: realizzarci una scuola per bambini fondata sul pensiero ecologico. La cascina che gli avevano fatto vedere vicino Castelvetro ne aveva i numeri. Spazi e pertinenze, tra cui una ex stalla, per farci delle belle aule. Ma a convincerlo era stata proprio la vicinanza di quella quercia. Grandiosa, possente, quasi divina. Simone è giunto tre anni fa con la moglie Daniela, una ex insegnante esperta di handicap, e con la figlia. E ha subito raccolto intorno al loro nucleo un folto gruppo di ambientalisti.

La storia della pianta che deve sparire o finire sotto i gas dei tir è diventata presto una favola. “Io so chi l’ha scritta quella favola”, ammicca, “ma non lo dirò mai. Noi raccontiamo che è stata la quercia stessa, la Grande Nonna Quercia. Per chiederci aiuto”. Una favola dolce, datata 23 gennaio 2010. Che circola in versione patinata, impreziosita da foto e da splendidi disegni infantili. Ma gira anche in versione internet. La Nonna vi parla dell’uomo buono che l’ha fatta nascere, delle stelle, del silenzio, della solitudine e della morte. Viaggia, la favola. È giunta anche a Walter, “un ragazzo siciliano che nessuno di noi conosceva”, che ha aperto un gruppo su facebook che ora conta undicimila contatti. “Ma lo sa che vengono scolaresche anche da Milano o da Brescia a vederla? Sta diventando un simbolo per chi vuole fermare questa follia devastatrice , per chi sa farsi incantare dalla bellezza superiore della natura”.

Ma non è che di questa bretella c’è bisogno sul serio? viene da chiedersi per scrupolo. Altrimenti perché degli enti pubblici sosterrebbero con tanta determinazione un progetto che violenta le bellezze delle loro terre? “Dicono che è l’Anas a volerlo, come prezzo per rinnovare la concessione della Brescia-Piacenza alla Centropadane. Intanto però gli industriali di Cremona non l’hanno inserita tra le cose necessarie in vista dell’Expo. E fior di studiosi dicono che si potrebbero comunque trovare soluzioni molto più leggere. I flussi di traffico attuali non giustificano l’impellenza. E infatti non ce ne vengono date stime aggiornate.

Pare siano un terzo di quelle indicate. E poi è possibile che le tre versioni del progetto che si sono succedute costino sempre la stessa cifra? Che si calpestino così gli indirizzi dell’Unione europea in materia di ambiente? Che non si facciano incontri con le comunità interessate? Per questo con un nostro gruppo di esperti abbiamo steso un dossier e fatto ricorso al Tar e poi all’Unione. C’è qualcosa di poco convincente. Diversi amministratori ce l’hanno confessato: è una porcata ma bisogna farla perché abbiamo le mani legate. Poi parliamoci chiaro. Questi sono lavori che chiederanno estrazione di materiale, ci sono di mezzo le cave, e le cave sono appena state il cuore di uno scandalo regionale sulla gestione dei rifiuti. E gli interessi che premono sul movimento terra e sui rifiuti lei li conosce meglio di me”.

Simone e il gruppo di ambientalisti raccolti attorno alla sua idea di una scuola del pensiero ecologico non si daranno vinti. “Mica siamo di quelli che che ormai non c’è più niente da fare, sapesse quanti ne ho incontrati quando sono arrivato”. Intorno alla Grande Quercia si riunisce il popolo delle favole. Sembrano pellerossa che difendono le loro riserve dalle ferrovie dei visi pallidi. Solo che stavolta il progresso sta dalla loro parte. All’ombra della Nonna tengono riunioni e assemblee. Anche concerti. Musica classica e gospel. I Modena City Ramblers e Omar Pedrini. Perfino gli Intillimani, ma sì, “ed eravamo millecinquecento, e pensi: stavamo tutti sotto la chioma della Quercia”.

Chissà come finirà questa partita. Certo sta facendo fiorire una nuova favolistica. Ha scritto Federica, 11 anni: “Allora Giulietta tornò dal suo amico albero prese un bel po’ di polvere magica e la buttò negli occhi del ‘signore dei supermercati’ che non vedendo più niente non poté tagliare l’albero e se ne andò via adirato. Giulietta fece i salti di gioia e decise di sposare quel mago che tanto amava. Così si sposarono sotto l’albero. E vissero per sempre felici e contenti”. Ammettiamolo: ma chi avrebbe mai detto che si potessero combattere i costruttori e i signori dei subappalti a colpi di favole?

L’ultima battaglia sul megainsendiamento che cambierà le abitudini a mezzo Veneto si combatterà martedì prossimo in consiglio comunale a Dolo. Anche se si chiama Veneto-City e non Dolo-City. Perché una decisione regionale di questa portata - 2 milioni di metri cubi di cemento! – debba pesare sulle spalle di un sindaco, ultimo anello della catena di comando, potrebbero spiegarlo solo gli amministratori regionali che hanno costruito in 10 anni le condizioni perché avvenisse. L’ultimo arrivato, il presidente Luca Zaia, si chiama fuori dicendo che ha trovato tutte le procedure completate. Una per la verità non lo è del tutto: il Piano territoriale regionale di coordinamento (Ptrc) in cui per la prima volta nel 2008 è stata inserita Veneto City, è stato adottato dalla giunta Galan ma non approvato dal Consiglio. Il quale si è cimentato su questa faccenda martedì 6 dicembre, in una seduta straordinaria chiesta dal centrosinistra. E’ saltato fuori che esiste un’opposizione alla colata di cemento anche nel centrodestra. Chiunque, seriamente intenzionato ad opporsi, avrebbe colto l’occasione per cercare convergenze e far nascere una maggioranza trasversale. Non la capogruppo del Pd Laura Puppato e il vice Lucio Tiozzo, che conducevano il dibattito: invece di chiedere un rinvio in commissione per cercare una sponda o valutare almeno l’ipotesi, hanno preferito andare al voto. Ovviamente perdendo: 18 a 23. Adesso tutti potranno dire che il Pd veneto era contrario, purtroppo è in minoranza e non ha potuto fermare l’operazione.

Contrarietà di facciata, politica dei due forni. Vecchi metodi, che in questa legislatura si sono venuti sommando ad altri disagi verso la conduzione del Pd. Siamo arrivati alla dissociazione fisica: quanto di più dirompente potrebbe esserci, eppure nessuno ne parla. Mauro Bortoli, consigliere di Padova, già segretario provinciale e poi regionale del Pci-Ds, ha scelto un posto lontano dal gruppo per segnalare lo stacco che intende avere. Il Pd occupa l’ala a sinistra del presidente, Bortoli se ne sta in fondo all’emiciclo, neanche fosse in castigo. Scelta considerata bizzarra e invece motivata da ragioni politiche che l’interessato non esita a confermare: «Mi sono impegnato a far nascere il Pd, ci ho creduto fino in fondo, ma oggi non ne sono più tanto contento. E’ rimasto un contenitore dove c’è dentro tutto. Mi rendo conto che la politica è solo propaganda, così me ne sto a latere. Do il mio contributo. Rispondo a me stesso, ho una posizione critica ma non creo problemi. Non ho fondato correnti, non so quanti la pensano come me. Spero che si avvii una discussione».

Tra gli altri articoli sulla vicenda vedi del 9 agosto

Per arrivare in questo luogo di confine e smaltimento, il metodo migliore - non il più veloce - è prendere il tram numero 14, fino al capolinea Lorenteggio. Tagliamo la zona sud ovest di Milano, attraverso la dismissione industriale esaltata dal credo della riqualificazione. Riqualificare. Uno dei verbi feticcio dagli anni '80 a oggi. Riqualificare un quartiere, una ex area produttiva, un lavoratore dopo il licenziamento.

Questa zona di Milano si snoda sui due lati della ferrovia, da Porta Genova viaggia lungo il Naviglio Grande. Sfilano, appena oltre l'ombra dei palazzi residenziali, i fantasmi novecenteschi di Ansaldo, Bisleri, General Electric, Riva Calzoni, Loro Parisini, Osram, Richard Ginori, e più avanti, a Corsico, le Cartiere Burgo. Migliaia di lavoratori hanno preso gli autobus nel dopoguerra, dall'hinterland e dagli altri quartieri cittadini, pullman già pieni alle cinque del mattino per raggiungere i cancelli delle industrie, il primo turno delle sei.

La retorica del Cerutti Gino

Da almeno tre decenni, l'industria ha celato la sua parte meno attraente per limitarsi alla superficie del marketing, all'esaltazione dell'aggregato artificiale dei consumi: ha stretto un patto con la finanza e generato una nuova geografia. A partire dagli inizi degli anni '80, il prezzo degli immobili è diventato pura rappresentazione, non a caso attraversiamo il glamour di via Tortona e via Solari, studi di produzione e post produzione televisiva, studi di grafica, showroom, atelier, agenzie di una non meglio precisata immagine connessa alla visione dell'esistenza da sbirciare nei talk show leggeri e intelligenti, da sfogliare negli inserti dei quotidiani, dei magazine, quando il surrogato di questa rappresentazione è comunicazione, evento chiacchierabile, così vorace da fagocitare tutto, compresa l'aura di autenticità ridotta a feticismo dei luoghi, come via Giambellino 50, la retorica del quando eravamo Cerutti Gino, usata anche dagli immobiliaristi come additivo.

Nel grande spazio di via Savona, all'altezza del cavalcavia, la Osram produceva lampadine, alla sinistra del tram, e ora occorre torcere un po' il collo come quando ci arrampichiamo sulla sedia per svitarne una fulminata, e lì in alto, nei palazzi costruiti dalle Acli, c'è l'appartamento di Pier Carlo Scajola, il figlio dell'indimenticabile ministro di tutto, e in particolare del «Marco Biagi era un rompicoglioni che voleva solo il rinnovo del contratto». Questi palazzi edificati all'inizio degli anni zero segnano la demarcazione tra due parti distinte di via Giambellino. Subito dopo il semaforo, superata una delle sedi della Cgil, il tram si avvia ai lotti delle case popolari costruite a partire dagli anni '30, edifici a quattro piani, con gli intonaci scrostati che disegnano figure involontarie sui muri, accanto alle paraboliche lasciate a germogliare sui balconi di appartamenti spesso sfitti e murati per evitare occupazioni. Attaccati ai muri di questi edifici, campeggiano i grandi cartelloni pubblicitari, sotto di essi i carrelli vuoti dei supermercati vagano smarriti, ma almeno sembrano avere una vita indipendente, senza più la moneta nell'ingranaggio.

Una scatola vuota

Durante la campagna elettorale, negli anni scorsi, su questi stessi muri spiccava sempre la grande faccia di Berlusconi, il cerone e il ritocco digitale erano ancora più significativi e provvidenziali, se confrontati con l'intonaco sfatto dei palazzi che lo circondavano, e lo sorreggevano. Di fronte, resiste l'insegna del Pussycat, uno degli ultimi cinema porno di Milano, e subito dopo inizia piazza Tirana, e il rettilineo che conduce al capolinea. Il marciapiede a destra è Milano. Se attraversiamo la strada siamo a Corsico. Le linee di confine sono luoghi che svelano comportamenti di solito celati.

Nel Canton Ticino, per esempio, gli svizzeri hanno costruito una discarica a pochi metri dalle case italiane. E anche qui, tra Milano e Corsico, la situazione è simile: si tratta sempre di rifiuti, anche se di un altro genere.

Camminiamo verso i palazzi di vetro, i loghi nel cielo pressato, uniforme. Sopra sei di questi edifici spicca il marchio Vodafone, gli altri sono in netta minoranza. Proprio Vodafone, nell'autunno del 2007, ha effettuato la più grande cessione - finora - di lavoratori in Italia: 914 persone allontanate dalle sedi di Ivrea, Milano, Padova, Roma, Napoli e cedute da una multinazionale - con profitti di miliardi di euro - a un'azienda, Comdata Care, fondata per l'occasione, una scatola vuota destinata ad accogliere il business - le attività cedute - più che i lavoratori. Comdata Care è ospitata nell'edificio della casa madre, Comdata, a trecento metri da Vodafone, ma è come se ci fosse una frattura di tremila chilometri, proprio sul confine tra Milano e Corsico.

Visto da fuori, l'edificio di Comdata pare il carcere di Opera. È un blocco rettangolare, quattro piani di cemento armato si estendono in orizzontale, punteggiati da una serie di finestrelle quadrate. In questo edificio, senza marchi e loghi, lavorano un'ottantina di superstiti di quell'operazione finanziaria spacciata per «focalizzazione e specializzazione delle competenze», come recita l'accordo ministeriale del 2007. La vendita di 914 persone è avvenuta grazie a uno dei punti più controversi della legge 30, la cosiddetta cessione del ramo d'azienda, la legge che, di fatto, ha aggirato l'articolo 18, la legge per cui il celebre brano cantato da Sergio Endrigo sarebbe un'idiozia.

Per fare un fiore ci vuole un ramo / per fare il ramo ci vuole l'albero, scriveva Gianni Rodari nel testo. Ma per i legislatori, per i politici della destra italiana, entusiasti sostenitori di questa legge - e per i politici di sinistra, che nel 2006, benché al governo, non hanno fatto nulla per cancellarla, aggrappandosi alla patetica distinzione tra flessibilità e precarietà - il ramo è sempre indipendente dall'albero, non è strettamente legato alla pianta e può essere segato in qualsiasi momento, tanto avrà una vita autonoma, anzi, era già autonomo prima del taglio.

Nei giorni della cessione, un esercito di esperti ha sostenuto l'operazione, non sarebbe cambiato nulla, i lavoratori sarebbero stati tutelati per sette anni, questa la durata dell'accordo. Bisognava guardare avanti, verso nuovi orizzonti. Lo diceva - e lo dice ancora - Pietro Ichino, il cui studio legale milanese avrebbe poi difeso Vodafone contro i lavoratori che hanno fatto causa alla multinazionale. Pier Luigi Celli - ex direttore generale di molte cose, compresa Omnitel, l'azienda italiana fagocitata da Vodafone - aveva scritto, in un intervento sul Corriere della Sera, che «la sicurezza a tutti i costi sta portando, anche ai lavoratori più danni, in prospettiva, che vere e proprie certezze».

Nuovi vocaboli

Già nel 2010, il lavoro per cui 914 persone sono state cedute da Vodafone è in gran parte finito a Galati, Romania: una violazione del punto 11 dell'accordo ministeriale, per cui non è previsto «il ricorso al sub-appalto per l'esecuzione delle attività oggetto del trasferimento». Galati è una città di circa trecentomila abitanti, costruita sulle rive del Danubio, al confine con la Moldavia. Alcuni lavoratori italiani di Comdata Care sono andati a Galati per la formazione del personale rumeno che avrebbe svolto le mansioni dei lavoratori italiani.

C'è sempre qualcuno disposto a eliminare qualcun altro, anche quando, paradossalmente, questa azione comporta l'eliminazione di se stesso. Le aziende italiane come Comdata - composte da migliaia di lavoratori - utilizzano in Italia per lo più interinali o personale assunto con un basso inquadramento contrattuale, e capita che facciano svolgere la stessa mansione a lavoratori con quattro contratti differenti. Comdata fornisce i proprio servizi a una quarantina di grandi aziende, come Telecom, Wind, Enel, Eni, Eon, Edison, Banca Mediolanum, Mondadori, Osram. Le aziende come Comdata utilizzano una concatenazione al ribasso per cui, a Galati, impiegano manodopera rumena e la mettono in competizione con quella moldava, che vive a pochi minuti di distanza, incentivando il pendolarismo frontaliero tra Galati e Cahul, il capoluogo dell'omonimo distretto moldavo. Un lavoratore a Galati guadagna in media 1000 ron per 6 ore e 10 minuti di lavoro, dal lunedì al sabato. 1000 ron sono 230 euro al mese.

Il neologismo che descrive questa pratica industriale di sfruttamento - delocalizzare - è comparso nel dizionario italiano dal 1991, subito dopo la fine degli stati comunisti nell'est europeo. E tuttavia, fino agli '90, delocalizzare riguardava la produzione di lavatrici, automobili, beni industriali materiali. Negli anni '90, le aziende italiane dei settori come le telecomunicazioni, gli assicurativi o i bancari investivano ancora nella formazione del personale, in Italia. Ma nell'ultimo decennio, l'unico credo è stato risparmiare e aumentare ancora di più i profitti. Questo capitalismo italiano predatore, senza cultura del lavoro, è privo non solo di etica ma anche di un obiettivo industriale a breve termine, concentrato solo sul report giornaliero di pezzi, di pratiche gestite, non importa come. È un capitalismo digitale e cottimista, che vorrebbe considerare i luoghi un accessorio vago, grazie all'utilizzo della tecnologia.

Il vero luogo della delocalizzazione è nessun luogo, il fluttuare nell'indeterminatezza, è il flusso di dati che giunge a un terminale alla periferia di Galati, dove la manodopera e gli uffici costano molto meno che a Milano.

Sul binario laterale

Il lavoro immateriale trasferito dalle aziende italiane in Romania è la rappresentazione di uno spettro, come i vuoti delle aziende dismesse milanesi o convertite in altro. I clienti di una compagnia telefonica o di una banca, per esempio, devono mandare via fax la fotocopia fronte retro della propria carta di credito, le coordinate bancarie e la carta di identità. Si tratta di dati sensibili, i clienti sono titubanti, sospettosi, ma alla fine inviano i documenti a un numero verde italiano. La tecnologia converte i fax in formato elettronico, così possono essere gestiti in qualsiasi zona del pianeta, in questo caso a Galati, dove i lavoratori parlano anche italiano.

I volti fotocopiati dei clienti vagano nell'etereo tecnologico e incontrano la tastiera di una lavoratrice che si alza all'alba a Cahul, Moldavia, esce nel mattino gelato e attende l'autobus che la conduce fino al confine, e lì prende la coincidenza per Galati dove digita il proprio login di accesso alla rete di un'azienda italiana, la password derivata dal soprannome del fidanzato o del figlio, e in questo istante, la lavoratrice sta guadagnando, per una giornata di 6 ore, 9,58 euro, ovvero 1,59 euro all'ora.

Il capitalismo italiano ha il problema di gestire lo smaltimento dei rifiuti, siano esse scorie industriali o umane. Ha depositato le persone in edifici anonimi, ai margini delle città, lungo le linee di confine, in attesa che i deboli vincoli contrattuali - già ampiamente violati - scadano. Un po' come capita in alcune stazioni di provincia, dove vagoni tossici attendono su un binario laterale da anni, prima di scomparire chissà dove. Nel caso di Vodafone, la gran parte di 914 residui era costituita da donne tra i 30 e i 40 anni, con almeno un figlio. Ma nel gruppo c'erano anche disabili e alcuni sindacalisti sgraditi.

Il veleno negli orti

Disabituati a forme di lotta collettiva, educati da decenni in cui - per la narrazione dei media dominanti - il conflitto è qualcosa di cui vergognarsi, sinonimo di sconfitti e di perdenti, ai lavoratori è richiesto uno sforzo biografico individuale, silenzioso e asettico, per affrontare una legislazione che può solo accentuare situazioni endemiche aggravate dall'economia, ignorate da una politica autoreferenziale, schiava di se stessa. E un governo politico come quello di Monti, travestito da tecnico, da dottore di famiglia accorso al capezzale con il camice del paternalismo ricattatorio, può solo aggravare la situazione, allungando l'età lavorativa quando, nella realtà, i lavoratori sono sgraditi già alla soglia dei quarant'anni, a meno che non accettino condizioni rumene o, meglio, moldave.

A poche centinaia di metri di distanza da Comdata, c'è un terreno di 260 mila metri quadrati, recintato e sigillato dai lucchetti della magistratura nel novembre 2010. È la ex cava Garegnano, si estende fino al capolinea della metropolitana e lambisce il carcere minorile Beccaria. Nella cava, per decenni è stato sepolto ogni tipo di rifiuto urbano e industriale, dall'amianto ai solventi, dai metalli pesanti alla diossina. La giunta Moratti aveva autorizzato la costruzione di palazzi, uffici, negozi, un quartiere residenziale di oltre cinquemila abitanti. Ma la falda acquifera è avvelenata. I pensionati che coltivavano gli orti su quel terreno hanno mangiato verdura contaminata.

Le classi dirigenti italiane dimenticano che i rifiuti - di qualsiasi tipo - benché compressi e mansueti, si esprimono, e rilasciano il male che hanno dolorosamente subito e trattenuto in se stessi, e il morbo prima o poi si espande ovunque, dalla falda silenziosa alla superficie seduttiva, con una forma di tragica e gioiosa liberazione.

postilla

Eh già: gran brutta cosa la condizione di orfani! Ma lo è davvero quella di orfani del capitalismo industriale? Vero, verissimo, che la rapina dei territori via via che le barriere fisiche si ritirano e consentono di accedere, di guardare e considerare, appare sempre più evidente e lacerante. Ma nella prospettiva del ricordo, specie del ricordo indiretto e mediato, il tram operaio all’alba sferragliante nella nebbia cronica di una periferia da quadro delle avanguardie novecentesche finisce per assumere una funzione ideologica, e se non altro farci guardare nella direzione sbagliata. Quegli spazi sono lì ad aspettare senso nuovo, non a piangere quello perduto. Mentre l’acuto senso di animazione sospesa di Giorgio Falco - come già nel caso delle preesistenze contadine nello sprawl metropolitano deL’ubicazione del beneforse pencola involontariamente troppo verso una pietrificazione in positivo di certe culture novecentesche. Che sono state, non dimentichiamolo, esattamente il carburante della macchina che ci lascia quella montagna di detriti (f.b.)

Che sia appannato anche l’occhio della lince, nato per distinguere, sceverare, giudicare? Bisogna confessare che quando il governo di turno minaccia di tagliare i fondi all’Accademia dei Lincei, agli storici dell’arte non corre un brivido lungo la schiena. Da tempo, infatti, l’Accademia è morta e sepolta alla ricerca storico-artistica, e si è trasformata in una sorta di pensionato di lusso a cui accedono di diritto i baroni della Sapienza, i loro allievi e i loro alleati concorsuali. Ma, a giudicare dal memorabile evento che i Lincei hanno ospitato lunedì scorso, anche i colleghi archeologi non se la passano benissimo. In quell’occasione sono stati solennemente presentati i due volumi del terzo rapporto del Commissario dell’area archeologica di Roma: che è Roberto Cecchi, oggi discusso sottosegretario ai Beni culturali. A mettere in guarda i Lincei doveva bastare il mostruoso prezzo di stampa dei tomi: 68.000 euro. Una vera enormità, se paragonati ai 48.000 euro del costo medio annuale per le missioni sul territorio della Soprintendenza archeologica di Roma (ora peraltro bloccate per legge, senza che il sullodato Commissario muovesse un dito). E poi non era davvero il caso di esaltare il modello commissariale: e cioè l’esautorazione delle soprintendenze voluta da Bondi e Bertolaso, che ha prodotto la svendita del Colosseo a Diego della Valle, e nessun rimedio all’elevatissimo rischio idrogeologico del Palatino. E invece Eugenio La Rocca si è addirittura spinto a definire questa esperienza nefasta «una pietra miliare nella storia degli scavi archeologici». Insomma l’architetto Roberto Cecchi come Giovan Pietro Bellori, Luigi Pigorini, Rodolfo Lanciani o Ranuccio Bianchi Bandinelli: non c’è che dire, uno sguardo linceo. Ma, si sa, le grazie di un sottosegretario sono ambitissime: e specie da chi desidera organizzare mostre imperiali bisognose di fondi pubblici. Tuttavia, non sarà l’appannato bollino della lince a legittimare l’azione di governo di Roberto Cecchi. Ben altri sono i banchi di prova che lo attendono: incoraggiare e tutelare la meritoria, ma ancora insufficiente, ripresa delle assunzioni di storici dell’arte e archeologi; il varo di una legge che salvi finalmente Sepino dalle pale eoliche e dagli errori del Consiglio di Stato; la nomina di un direttore generale del paesaggio e dei beni storico-artistici che sappia guidare una vera e dura azione di tutela morale e materiale, e moltissimo altro ancora. Se Cecchi vorrà contribuire a salvare il patrimonio, e magari anche la propria faccia, non ha che da rimboccarsi le maniche.

Postilla

La vicenda del commissariamento di Roma e Ostia ha un unico pregio: fra dieci giorni terminerà. Sugli esiti e le conseguenze che purtroppo continueranno a manifestarsi anche in futuro, torneremo nel dettaglio, perché si tratta di un’operazione per molti versi, tutti negativi, esemplare. Qui è importante ribadire il carattere di mistificazione mediatica che l’ha caratterizzata soprattutto in quest’ultima fase. Come ci auguriamo emergerà ben presto con sempre maggiore chiarezza, il commissariamento non ha apportato alcun elemento di innovazione scientifica, anzi ha provocato un’impasse nelle pratiche operative della Soprintendenza, proprio perché non accompagnato da un adeguato percorso metodologico.

Quanto all’Accademia dei Lincei, condividiamo toto corde l’opinione di Montanari: anche in questo campo è giunto il tempo di procedere ad un’operazione di verità. Ricerca e innovazione abitano altrove.

E da molto tempo, come testimonia un aneddoto risalente al 1953. Di fronte ad un Ranuccio Bianchi Bandinelli esterrefatto (per l’ignoranza dell’interlocutore), un archeologo linceo di lungo corso che per carità di patria non nomineremo, manifestò tutta la sua riprovazione per il livello a cui si stava abbassando la veneranda Accademia, rea di concedere riconoscimenti “persino ad una miss” (sic!). Si trattava del Premio Feltrinelli assegnato a Mies van der Rohe. (m.p.g.)

Sulle nostre vetuste istituzioni culturali, in eddyburg:

Il colore della cultura: La nottola di Minerva

Tra «lievi difformità», segnaletica «inadeguata», «anomalie» e «problemi» di larghezza e curvatura, la rete delle piste ciclabili milanesi non spunta neppure la sufficienza. Bocciata. Il 65 per cento degli itinerari non rispetta le norme, alcuni tratti sono «pienamente» fuorilegge e altri sono malfatti, sbagliati, da aggiustare. La valutazione incrociata di caratteristiche formali e standard di (bassa) qualità ha indotto quest'analisi: solo una corsia su due è utile, sicura e dunque «consigliata»; il 30 per cento dei percorsi va affrontato solo in caso di necessità e il residuale 10 per cento va sempre evitato. Motivo? «Le condizioni della pista o la pericolosità degli accessi rendono la sua percorrenza più insidiosa della viabilità ordinaria». Meglio buttarsi nel traffico: possibile?

Paradossi d'una città piana, incardinata su cerchi concentrici e tagliata da raggi stradali, urbanisticamente ideale per le due ruote, che proprio non riesce a far convivere auto, bici e pedoni. Il dossier «CicloMilano» — progetto di Ciclobby e Actl con il sostegno della Fondazione Cariplo — è il risultato di un anno e mezzo di sopralluoghi, campagne fotografiche, studio delle soluzioni. È la prima completa mappatura dei tracciati per la mobilità dolce, un censimento puntuale di 135 chilometri di percorsi ciclabili. I difetti peggiori: corsie che sbucano nel traffico, tronconi spezzati, carenza di stalli. Le priorità: piccola manutenzione, auto più lente, marciapiedi in condivisione, rastrelliere. Un lifting, più che una rivoluzione: «Una buona ciclabilità — osserva il presidente di Ciclobby, Eugenio Galli — nasce da un mix di interventi messi in campo con cura e competenza, pensati attraverso una progettazione partecipata». Punti chiave: «continuità», «percorribilità» e «visibilità» degli itinerari.

Il dossier è stato presentato ieri all'assessore comunale alla Mobilità, Pierfrancesco Maran. Che commenta: «Nei prossimi mesi realizzeremo nuove piste e corsie ciclabili. È uno dei punti qualificanti della nostra azione amministrativa. Progetti come quello di CicloMilano ci danno indicazioni molto importanti». Eccone alcune. La pista di via Venti Settembre è ricavata «a fianco di un controviale non molto trafficato» e spesso «ingombra di auto parcheggiate». Giudizio: è inutile, superflua, potrebbe persino essere cancellata. Andiamo oltre. Il tratto lungo via Pavia non è «distinguibile dal marciapiede», «interrotto da una veranda ristorante», purtroppo «inutilizzabile»: funzionerebbe meglio come parcheggio per le bici. E ancora, via Dezza: «Il fondo è attraversato dalle radici degli alberi che creano continui ostacoli, se ne propone il declassamento a marciapiede di zona pedonale».

La riforma della mobilità ciclistica, suggeriscono Ciclobby e Actl, potrebbe partire da tre progetti pilota alla Bicocca (zona a 30 chilometri orari), nell'area dei viali delle Regioni (itinerari «cerniera») e al quartiere Sarpi (ridisegno della viabilità). Con la firma sulla Carta di Bruxelles, Milano s'è impegnata a dimezzare il rischio d'incidenti mortali per i ciclisti entro il 2020. C'è molto da pedalare.

Ai torinesi le Olimpiadi Invernali del 2006 sono state vendute come un’opportunità irrinunciabile per la rigenerazione del tessuto sociale ed economico.A cinque anni da quell’evento, però, Torino si ritrova comune più indebitato d’Italia: i piani di “riqualificazione” e le strutture olimpiche sono state pagati solo in parte da Stato e privati; non sapendo come riutilizzarle, la maggior parte delle nuove strutture destinate alle discipline sportive (specialmente i siti e gli alberghi di montagna) sono rimaste un “costo” tanto che per alcune si ipotizza già lo smantellamento; troppi locali, in primis il “villaggio degli atleti” che sta letteralmente cadendo a pezzi, sono rimasti inutilizzati, mentre centinaia di costosissimi “addobbi” olimpici sono divorati dalla ruggine nei magazzini comunali.

Solo qualche giorno fa, il programma Striscia La Notiziaha denunciato il triste stato di abbandono dei trampolini di Pragelato costruiti disboscando mezza montagna ma con l’obiettivo di proseguire nel tempo l’attività agonistica, creare un vivaio di atleti dell’arco alpino occidentale ed affittarli alle squadre internazionali. Già il presidente dellaFISIPietro Marocco aveva gridato allo scandalo “per il totale inutilizzo di questi impianti anche nella stagione agonistica”. Gli amministratori attuali e quelli che hanno promosso e gestito l’evento possono controbattere che è ancora presto per stilare un bilancio finale. Eppure, l’accumulazione di debiti sempre più onerosi non può lasciare indifferente la cittadinanza, specialmente le nuove generazioni che, insieme a figli, nipoti e pronipoti, saranno costretti ad accollarseli.

Nel frattempo, l’amministrazione comunale prova a far cassa vendendo ai privati immobili di prestigio e, soprattutto, fette di territorio potenzialmente edificabile tanto che, nei prossimi vent’anni, la popolazione sarà travolta da una valanga di cemento… La Costituzione italiana, all’articolo 9, pone tra i Principi fondamentali come compito della Repubblica, la “tutela del paesaggio e del patrimonio artistico della nazione”. Le nostre città hanno conservato contesti storico-artistici ed ambientali preziosi, paesaggi incomparabili, opportunità uniche per affermare un’alta qualità della vita, che, tuttavia, rischiano di perdere valore per colpa dell’espansione edilizia incontrollata, oltre che dell’invasione del traffico automobilistico. Uno dei “migliori” esempi di questi rischi è proprio Torino che è stata invasa e sarà ancora invasa da opere di dubbio gusto che portano con sé tanto cemento ed inquinamento.

Negli anni scorsi le critiche più accese si sono concentrate sul piazzale-parcheggio “Valdo Fusi”, davanti alla Camera di Commercio; sul “disboscamento” del Parco Sempione e di Piazza d’Armi, due dei principali parchi cittadini; sull’inutile sottopasso di corso Spezia che ha eliminato decine di alberi; sull’orribile “Palafuksas”, frontale al famoso mercato di Porta Palazzo, che solo da quest’anno, dopo tredici anni di ingloriosa inattività, si è trasformato in centro commerciale; sulle torri “popolari” di via Orvieto, nella cosiddetta “spina 3”, destinate a diventare simboli di degrado moderno: oggi, invece, sull’ambizioso progetto della bancaIntesa Sanpaolodi costruire un grattacielo nella zona centrale della città, e sul nuovo Palazzo della Regione, sempre formato –“grattacielo”, ancora una volta a firma di Massimiliano Fuksas.

Sin dalla presentazione del progetto diSanpaolonel 2006, sviluppato dall’archistar Renzo Piano, una larga fetta dell’opinione pubblica cittadina si è mobilitata, indignata per il superamento, in altezza, del simbolo monumentale torinese, la Mole Antonelliana. Di risposta, si è provveduto a modificare il progetto originario “sotterrando” alcuni piani per non intaccare il primato della Mole. Anche se, in realtà, l’impatto non cambierà, dato che l’edificio dell’Antonelli termina con una guglia, mentre il grattacielo sarà una struttura compatta e piena. Un’altra “pietra” dello scandalo è il progetto di costruzione di un palazzone proprio a ridosso della Mole, che, però, almeno questo, pare accantonato.

Il malcontento è diffuso anche in altri quartieri. Nel popolare San Paolo, ad esempio, sono iniziati i lavori per l’erezione di nuovi palazzoni e di un ennesimo centro commerciale, in sostituzione dello storico stabilimentoLancia. Oltre che a creare i soliti prevedibili disagi per residenti ed esercizi commerciali, questo progetto è ritenuto dal comitato spontaneo "Parco Lancia” “insostenibile, se non rovinoso”, perché va ad aumentare paurosamente la densità abitativa di un'area che è già a rischio di congestione, a fronte dell'insufficienza dei servizi primari presenti. Si calcola, infatti, che i nuovi palazzi potranno accogliere seicento famiglie, oltre 1800 persone, in un territorio che registra l'affollamento delle scuole, degli asili e dell'ASL. Senza mai ottenere una risposta positiva, i residenti ed il comitato hanno chiesto, in questi anni, nuove scuole, un asilo, alloggi per le fasce deboli, luoghi di incontro per i cittadini e di ridurre l'area edificabile da 56 a 14 mila mq.

Ma il disagio è manifesto anche in aree più “chic” come quella di Borgo Valentino dove i residenti, appendendo sui balconi drappelli di protesta, si oppongono alla costruzione di un grosso complesso sull'area exIsvor(stabilimentoFIAT) considerandola una “mera speculazione edilizia anche poco redditizia per la Città”. Mentre volantini e manifesti sono stati diffusi nelle vie più importanti per protestare contro la spianata di cemento che ospiterà il nuovo parcheggio sotterraneo di piazza Albarello, storico punto di partenza d’ogni manifestazione e sciopero. A dispetto delle campagne di disincentivazione all’uso dell’automobile, l’amministrazione torinese, infatti, ha moltiplicato esponenzialmente l’offerta di garage sotterranei.

A Collegno, invece, nella prima cintura torinese, sono preoccupati che venga devastato l’immenso verde del Campo Volo. L'area, infatti, pur ricompresa entro i confini del paese, è di proprietà di una Banca e per acquisirla l’amministrazione comunale ha avviato una trattativa con i suoi vertici che riceverebbero, in cambio, delle generose concessioni edilizie. I cittadini, però, temono che vengano “occupate” proprio le aree del Campo Volo.

Notizia delle ultime ore è quella della rinuncia, per mancanza di risorse, al boulevard di corso Principe Oddone - interessato dai lavori del passante ferroviario sotterraneo - che così, collegandosi a corso Mediterraneo, assomiglierà ad un’autostrada cittadina. Un’altra mazzata per le migliaia di residenti che da quasi dieci anni non possono aprire le finestre per rumore, polvere ed inquinamento. L’ultimo spottone elettorale della giunta Chiamparino s’inscenò lo scorso aprile con l’inaugurazione del Parco Dora. Un’area immensa in cui l’attività decennale delle industrie ha inquinato acqua e terreno e dove si è scelto di non abbattere (perché troppo costoso) i resti dei capannoni industriali preesistenti, in particolare lo scheletro d’acciaio dell’exTeksidche copre i nuovi campetti sportivi e che, insieme ai piloni arancioni arrugginiti alti più di trenta metri, creano un panorama quantomeno “discutibile”, se non “inquietante”, aggettivo usato da un gruppo di architetti presenti all’inaugurazione. Il “pacchetto” di obiezioni mosse al progetto, sin dalla sua gestazione, si concentrava sull’opportunità di sfruttare quelle strutture, su cui oggi s’arrampicano pericolosamente i ragazzini, per il trasloco dell’ospedale Amedeo di Savoia, ridotto alla fatiscenza, che avrebbe liberato spazio proprio sulla riva del fiume Dora, in una zona ancora più indicata per sviluppare il parco.

Eppure, il progetto che avrebbe dovuto suscitare le proteste più accese è stato celebrato, oltre che dalle autorità, dalla quasi totalità della popolazione. Ci riferiamo al nuovo stadio dellaJuventus, inaugurato solo tre mesi fa, per il quale si è dovuta approvareuna variante che ha trasformato l'area dell’ exStadio delle Alpida area destinata a servizi pubblici a “zona urbana di trasformazione”con la concessione - da parte del Comune di Torino - di 349mila metri quadri per 99 anni al prezzo stracciato di meno di un euro al metro quadro per ogni anno. E, come se non bastasse, è arrivata una seconda variante che ha permesso di costruire, accanto allo stadio, due centri commerciali che la societàJuventusha dato in gestione alle cooperativeCmb,Unieco,Nordiconad. Chi rivendica l’assoluta centralità dell’ “interesse pubblico”, dovrebbe rimarcare, infatti, come, sin dagli sprechi e le morti bianche degli anni Novanta per la costruzione dello stadio dei Mondiali, una vasta area pubblica un tempo agricola (la Continassa al confine con Venaria) - destinata dal Piano Regolatore originariamente a “Verde e Servizi” - è stata completamente affidata ai soggetti privati ed ai grandi operatori commerciali che non le hanno lasciato più un metro di verde. Sempre alla societàJuventusè stata praticamente regalata l’Arena Rock della Continassa che, sinora, non è mai stata utilizzata.

Per gli ambientalisti, quella della Continassa è una delle più grandi sconfitte: da immensa area agricola adatta a diventare il primo parco cittadino per estensione, è stata trasformata in una distesa di cemento e supermercati. Il Piano Regolatore di Torino è, ormai, giunto alla sua “duecentesima edizione”, con l’approvazione, appunto, del progetto preliminare della “variante 200” pochi mesi prima della scadenza di mandato della giunta Chiamparino. Per le associazioni ambientaliste ed i comitati di quartiere essa non risponde certo all’esigenza di uno sviluppo urbano equilibrato, bensì a quella di far cassa velocemente da parte dell’amministrazione, in concerto con gli interessi privati, attraverso la valorizzazione immobiliare delle aree che vi sono ricomprese. E così la città sarà invasa da torri abitative da venti-trenta piani e nuovi centri commerciali, come se se ne sentisse la mancanza.

Nessun rispetto nemmeno per i morti, dato che la nuova variante sembra fregarsene della cosiddetta “fascia di rispetto cimiteriale”, prevedendo la costruzione di due torri, una da 80 metri e l’altra da 60, e dell’ennesimo centro commerciale da 25mila metri quadri proprio a ridosso del cimitero monumentale. Per i più critici, infatti, la realizzazione delle seconda linea di metropolitana è solamente una scusa, dato che non ci sono i soldi nemmeno per terminare la prima. L’urgenza dei governatori locali sarebbe quella di riaggiustare il bilancio e, quindi, di vendere il più possibile licenze di edificazione.

Uno dei principali “complici” del processo di cementificazione è lo stessoPolitecniconella persona dell’ingegner Mondini che, con la suaSITI(Istituto Superiore sui Sistemi Territoriali per l'Innovazione), è consulente della Città in materia di valutazione ambientale e non manca mai di avallare, se non suggerire, piani di espansione edilizia. Per la generazione di nuovi diritti edificatori si inventano le formule più assurde come quella di “trasferire” capacità edificatorie di spazi in cui è impossibile o vietato costruire in altre aree anche non immediatamente vicine: è il caso del parco Sempione (a cui sono stati strappati 180 alberi come a piazza D’Armi per i lavori del passante ferroviario) a cui è stata assegnata capacità edificatoria da poter trasferire ed aggiungere a quella dell’area della fabbricaGondrand(periferia Nord) dove si prevede di costruire quattro nuovi palazzoni.

Fra i privati, invece, il ruolo da protagonista lo gioca la famiglia di architetti Ponchia e la loroGefim(www.gefim.it) che, sin dal 1880, compra terreno da rivendere, ma, soprattutto, può esercitare una forte influenza sull’amministrazione pubblica perché gestisce i diritti edificatori sulle diverse areeFIATdismesse, essendo proprio una “creatura” dellaFIAT. Il governo cittadino conta molto sugli oneri di urbanizzazione, a cui è obbligata ogni impresa costruttrice, che, al posto di trasformarsi in servizi per la cittadinanza, vengono monetizzati per ingrassare le casse. Ovviamente, soldi ai servizi socio-assistenziali ed educativi-culturali non se ne possono più dare e si è anzi ricorso a tagli drastici: gli asili nido e le scuole d’infanzia, in primis, sono ormai rette da un esercito di precari, alcuni dei quali con contratti della durata di pochi mesi.

Cosa se ne faranno i torinesi di tutti questi nuovi grattacieli (anche nelle areeMichelindi corso Romania e strada Cebrosa, al posto dell’Alfa Romeodi via Botticelli e sull'area ex-Materferro), parcheggi interrati, fra cui quelli mercatali e di interscambio che sono sfruttati in minima parte, ed ipermercati che sostituiscono le ex fabbriche (Esselungadebutterà a Torino prendendosi l’exOfficine Grandi Motoridi corso Novara e l’exComaudi corso Traiano, il Palazzo del Lavoro diventerà un centro commerciale, stesso destino per piazza Bengasi) quando si contano 57000 alloggi sfitti e la popolazione residente è costantemente diminuita negli ultimi vent’anni come i comparti produttivi? Mentre aumenta la “popolazione” di quelli che vanno a frugare dentro i cassonetti, non solo composta da immigrati stranieri, ma anche da torinesi che appartenevano al ceto medio sino a poco tempo fa…A meno che non ci si accontenti di diventare il “dormitorio” di Milano, come già paventato da qualcuno…

Ma le “generazioni post-Olimpiadi” dovranno fare i conti non solo con le “promesse di cemento”, anche con tutte le promesse non mantenute: a parte il sistematico prolungamento temporale di ogni cantiere e l’irrefrenabile impulso a costruire parcheggi sotto i giardini ed i piazzali storici più suggestivi, si possono citare la mancata assegnazione ad O.N.G. ed associazioni interculturali del palazzo che ospitò il comitato organizzatore delle Olimpiadi, ora abbandonato a se stesso; la rinuncia al nuovo centro culturale cittadino presentato con effetti speciali di ogni tipo; la non compensazione delle centinaia di alberi eliminati da piazza D’Armi con i campi di proprietà dell’Esercito che non pare proprio disposto a lasciarli; la presa in giro dei “gianduiotti” (per la loro forma) dell’Atrium, le mega-strutture funzionali alla promozione del circo olimpico e per le quali si erano prospettate diverse soluzioni di riutilizzo sino a che non sono state completamente rimosse senza trovare qualcuno disposto ad acquistarle; e, non per ultima, la mancata riqualificazione dello storico calzaturificioSupergacon un poliambulatorio in spina 3, area gravemente deficiataria di servizi assistenziali, ma traboccante di centri commerciali. Non parliamo, poi, dell’“affare TAV”; ma tanto, anche in questo caso, ci ha già rassicurato l’ex ministro dei trasporti Matteoli per il quale “ai debiti ci penserà il Futuro”…

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