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Il derby tra Milano e Sesto San Giovanni sulla nuova sede per la Città della salute continua. Dopo la proposta del sindaco di Sesto Giorgio Oldrini (offrire alla Regione parte delle ex aree Falck ora di proprietà della Sesto Immobiliare per la realizzazione del progetto di fusione dell’Istituto dei Tumori, del neurologico Besta e dell’ospedale Sacco), Milano rilancia e propone la piazza d’armi della caserma Perrucchetti che, però, è di proprietà dello Stato. «Bene la proposta di Sesto, ma Milano si conferma disponibile al confronto con tutti i comuni dell’hinterland» precisa l’assessore comunale all’Urbanistica Ada Lucia De Cesaris. «Evitiamo le fughe in avanti» aggiunge l’assessore comunale ai Servizi Sociali Pierfrancesco Majorino. Ma il sindaco di Sesto Oldrini, anche lui del Pd, insiste: «È da anni - spiega che il centrosinistra dibatte sulla nascita dell’area metropolitana, poi quando si tratta di fare una scelta cambia strada». Oldrini non risparmia un’altra stoccata: «Il concetto di città metropolitana non può certo fermarsi dentro i dazi doganali. Altrimenti finisce che è peggio per chi vive dentro e per chi vive fuori»

Alle obiezioni del Comune e dell’assessore regionale alla Sanità Luciano Bresciani (Lega) sulla «compatibilità ambientale» dell’area ex Falck, Oldrini, che ieri si è presentato alla stampa al fianco di Roberto Formigoni, risponde: «Saremo pronti, questa potrebbe essere un’operazione straordinariamente importante per allargare i confini di Milano». Il governatore conferma che Milano e Sesto sono in pole position, ma annuncia che la Regione deciderà il 7 marzo, quando si riunirà nuovamente il Collegio di Vigilanza dell’Accordo di Programma della Città della Salute. «La scelta dell’area - anticipa - si baserà sulla possibilità di realizzare l’opera nei tempi più rapidi, con i costi più bassi e con tutte le garanzie di accessibilità e pulizia dei terreni che sono necessarie». Il sindaco di Sesto sembra convinto che riuscirà a spuntarla e fa sapere che il 1° marzo incontrerà già i tecnici della Regione e che l’architetto Renzo Piano potrebbe avere un ruolo nella realizzazione della "cittadella". Escono di scena, invece, le ipotesi dell’area del Parco sud, vicino all’area in cui sorgerà il maxi polo privato Cerba. L’area di Porto di Mare e del Canale navigabile Cremona-Po che sono già state giudicate impraticabili. Mentre solo ieri si è fatta avanti Novate Milanese con un’offerta che, però, deve essere ancora perfezionata.

L’annuncio di ieri è stato per la Regione anche l’occasione per fare il punto su un progetto annunciato da anni, che negli ultimi mesi sembrava essersi arenato. Il Pirellone infatti si era impegnato nel 2009 a mettere a disposizione 228 milioni di euro su un costo totale previsto di 520 milioni. Che nel frattempo è aumentato di 90 milioni tra tagli ai fondi dello Stato e spese affrontate nel frattempo. Come la realizzazione di tre vasche di laminazione a nord dell’area Vialba, che era stata scelta inizialmente; l’istituzione di due shuttle dedicati per il trasporto, e la realizzazione della viabilità locale per collegare l’ipotetica cittadella con la nuova Rho-Monza. Il tutto mentre l’Inps, proprietaria di quei terreni, non ha ancora fatto sapere le sue pretese, costringendo così la Regione a valutare altre opzioni. Tra due settimane il verdetto finale.

Milano, 21 febbraio 2012 - L'area ex Falck di Sesto San Giovanni potrebbe essere scelta per ospitare la 'Citta' della Salute'.Dopo l'incontro dei giorni scorsi tra il presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni e il sindaco di Sesto San Giovanni, Giorgio Oldrini, quest'ultimo ha comunicato al governatore l'interesse e la disponibilità che Regione Lombardia insedi sull'area ex Falck la nuova Città della Salute, potendo contare sul fatto che tale iniziativa incontri il favore della Sesto Immobiliare SpA, la società che si sta occupando della riqualificazione immobiliare dell'areae che da tempo, insieme all'architetto Renzo Piano,sta studiando l'inserimento nel progetto di centri di eccellenza.Il sindaco sottolinea come sia possibile valutare insieme la disponibilità a concedere come standard l'area, che verrebbe assegnata già bonificata senza costi per la Regione Lombardia.

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Nessuno lo dice (ancora) ma pare che anche nelle menti perverse di chi ha sinora preso decisioni sbagliate e intempestive si sta facendo strada, in un modo o nell’altro, ciò che Richard Rogers chiama il principio “town center first”: le prime trasformazioni urbanistiche sono quelle delle aree già urbanizzate, meglio ancora se di dismissione industriale, e se con un intervento di alto profilo e contenuti se ne garantisce la bonifica ambientale. Nel caso specifico si potrebbero anche affiancare la bonifica socioeconomica, con un polo di eccellenza e di occupazione al posto delle acciaierie, e la “bonifica morale” col definitivo riuso di aree sinora famose per tangenti, scorrettezze urbanistiche e altro (i casi Zunino, Penati ecc.). Speriamo davvero se ne faccia qualcosa di concreto, lasciando che il Parco Agricolo Sud se ne stia a fare … il parco agricolo, appunto, e non il parcheggio di un ospedale (f.b.)

Nessuno lo immaginerebbe mai: nel centro di Roma a poco più di un chilometro da piazza San Pietro, nel cuore della splendida tenuta Piccolomini che si estende da Villa Pamphili a via Gregorio VII, in cima a una terrazza naturale unica al mondo, con una vista mozzafiato sul cupolone, in un luogo verde e magico dove si aggirano indisturbate le volpi selvatiche sta per sorgere un campo da golf.

La società Borgo Piccolomini Srl di Alberto Manni (amministratore unico e detentore dell’80 per cento delle quote) ha appena ottenuto l’autorizzazione con determina dirigenziale della Regione Lazio per realizzare in questo luogo unico al mondo un campo pratica per il gioco del golf; la creazione di un percorso vita; la ristrutturazione di tutti i fabbricati esistenti con cambio di destinazione d’uso in club house a servizio del campo da golf e infine anche una piscina.

L’inaugurazione del complesso è prevista nel giugno del 2012 ma il consigliere regionale dell’Italia dei Valori Vincenzo Maruccio, che ha raccolto il grido di allarme del comitato di cittadini “Parco Piccolomini”, ha presentato un’interrogazione al presidente della Regione Lazio Renata Polverini. Per Maruccio quel campo da golf non s’ha da fare. Non solo per le problematiche sollevate dai cittadini che paventano “un grave impatto ambientale su un’area di alto valore paesaggistico” ma anche perché i terreni che lo ospitano non appartengono a una società privata bensì alla Fondazione Piccolomini, che ha finalità pubbliche. Non solo. Secondo Maruccio, la Fondazione è presieduta da Benedetta Buccellato, un’attrice che in passato ha recitato in una fiction diretta da Alberto Manni, proprio il socio principale della società Borgo Piccolomini.

La Fondazione Niccolò Piccolomini nasce da un lascito. Il proprietario della tenuta, il conte Nicolò Piccolomini, morì a 28 anni durante la seconda guerra mondiale dopo avere frequentato l’Accademia di Arte drammatica e destinò al mantenimento degli artisti drammatici indigenti il terreno sul quale sorgerà il campo da golf, più un vero e proprio borgo, una villa cinquecentesca immersa nel verde e numerosi casali .

Nel 1943, per realizzare le volontà del nobile attore, fu creata la Fondazione. Il conte avrebbe voluto che il suo patrimonio fosse utilizzato per “il ricovero e il mantenimento di artisti drammatici inabili al lavoro e l’assegnazione di elargizioni ad artisti drammatici indigenti”. La sua volontà non è mai stata pienamente realizzata. Nel 1980 la Fondazione è divenuta un’Ipab, cioè un’Istituzione Pubblica di Assistenza e Beneficienza sotto la vigilanza della Regione Lazio, che dal 2006 al 2009 ha commissariato la Fondazione. Dal maggio del 2009 a seguito dell’occupazione degli attori, villa Piccolomini è gestita da un consiglio di amministrazione nominato secondo le regole della Fondazione: due membri nominati dalla Regione Lazio, un membro nominato dal Sindaco di Roma, uno dall’Accademia di Arte drammatica e un membro nominato dai sindacati di categoria in rappresentanza degli attori drammatici, che hanno scelto Benedetta Buccellato, vicina alla Cgil che aveva diritto a esprimere il nome in quella tornata. La tenuta di 8 ettari che si estende dalle pendici del Gianicolo fino a via Cava Aurelia, era inutilizzata, ma rappresentava un potenziale polmone verde da sfruttare per il quartiere Aurelio. “Quei terreni devono essere restituiti alla cittadinanza”, secondo Vincenzo Maruccio dell’Idv, “e devono essere aperti ad attività culturali per realizzare lo scopo del lascito: una casa di riposo per attori anziani e non autosufficienti, immersa in un polmone verde per quel quadrante di Roma”.

Sotto la gestione Buccellato invece la strada intrapresa è stata un’altra: mettere a reddito il patrimonio affittandolo con bandi pubblici. Quello per affittare il terreno, secondo Maruccio, presenta però alcuni punti oscuri: “La Borgo Piccolomini Srl diviene locataria di parte dei terreni del parco a seguito di un avviso pubblico del 19 luglio 2010 che prevede come termine ultimo di presentazione delle offerte il 29 luglio 2010. La Borgo Piccolomini appartenente ad Alberto Manni e a Marco Cupelloni, risulta costituita in data 4 novembre del 2010, quindi postuma alla chiusura dei termini previsti per la presentazione delle offerte”. Inoltre Maruccio annota la coincidenza: “Alberto Manni, amministratore unico della Borgo Piccolomini Srl è un regista. La dottoressa Buccellato, presidente della Fondazione Niccolò Piccolomini è un attrice profesionista e ...vanta precedenti duraturi rapporti professionali con Manni avendo lavorato nella fiction “Vento di Ponente” diretta dallo stesso. Con tale contratto di locazione trentennale (per 96 mila euro all’anno Ndr) la presidente Buccellato vincola un bene facente parte di un’Ipab regionale per un periodo di gran lunga superiore alla sua carica”. Benedetta Buccellato difende la sua scelta: “Il comitato dei cittadini sbaglia a parlare di parco pubblico. Si tratta di terreni privati di una fondazione che ha il dovere di mettere il suo patrimonio a reddito per destinare i soldi al sostentamento degli attori, come prevede il nostro statuto. Il campo da golf non porterà nessuna nuova cubatura e riqualificherà la zona. Manni era solo uno dei 4 registi di quella fiction e non è un mio amico. Oggi fa l’imprenditore e ha presentato l’offerta migliore in un bando pubblico con una decina di concorrenti”.

Come è noto, la stampa italiana non ha una gran confidenza con la storia dell’arte, a meno che non si tratti di pubblicare a caro prezzo la velina dell’ultima mostra blockbuster. Non c’è dunque da stupirsi, se in queste ore in cui la farsa grottesca del crocefisso ligneo cosiddetto ‘di Michelangelo’ entra nella fase finale (vale a dire il processo alla Corte dei Conti per alcuni degli attori del suo acquisto pubblico), le pagine dei quotidiani si vadano riempiendo delle più inverosimili balle.

Non potendo certo pretendere che chi firma articoli sulla questione perda tempo a leggere le centotrenta pagine del libro che ho dedicato a questa storia ( A cosa serve Michelangelo?, Torino, Einaudi, 2011), ho pensato che rispondere alle dieci domande frequenti (Frequently asked questions) possa giovare.

1. Perché il Cristo comprato dallo Stato non è di Michelangelo?

Si legge di tutto, in questi giorni: il Cristo sarebbe una copia, un falso, un’opera di scuola. Niente di tutto questo: il Cristo è una scultura realizzata all’inizio del Cinquecento nella Firenze di Michelangelo. Ma non ha nulla a che fare con lui: non ha né lo stile né la somma qualità dell’opera del Buonarroti. È invece stata prodotta in una prolifica bottega di artigiani del legno, e conosciamo a tutt’oggi una ventina di pezzi usciti dalla stessa bottega, alcuni proprio della stessa mano. Una delle imperdonabili colpe del Mibac è stata proprio quella di non riunire in una mostra tutti questi pezzi, permettendo a tutti di farsi un giudizio.

Non sappiamo esattamente quale fosse il titolare di questa bottega: Stella Rudolphha, per esempio, proposto di identificarlo con Leonardo Del Tasso.

Come ha scritto Francesco Caglioti (tra i massimi esperti della scultura rinascimentale): «il Crocifisso appena acquisito dallo Stato non trova rispondenza né in quello di Santo Spirito né in altri lavori di Michelangelo, esso mostra invece somiglianze davvero eloquenticon un’altra decina di Crocifissi ugualmente lignei e piccoli, di solito classificati, per intesa pacifica di tutti, come opere fiorentine anonime del 1500-10 circa. Tali Crocifissi erano in parte ben noti già nel 2004 (io stesso ne avevo segnalato alcuni al venditore), ma la Sovrintendenza di Firenze adottò la curiosa scelta di non presentarne neanche uno alla mostra del Museo Horne. Ci si limitò a schedarli nel catalogo di accompagnamento, riservato a pochi occhi, mentre al grande pubblico fu concesso di osservare il Crocifisso privato a contrasto con due altri Crocifissi lignei fiorentini di dimensioni analoghe ma di tutt’altro stile (uno dei due appartenente o appartenuto – guarda un po’ – allo stesso antiquario torinese). Fu scelto, insomma, di rimuovere ogni paragone imbarazzante e di presentare la nuova scultura alla stregua di un capolavoro assoluto e irrelato».

È importante notare che, ancora alla data di oggi, gli unici storici dell’arte che si sono pronunciati per l’attribuzione a Michelangelo dell’opera sono quelli direttamente coinvolti, a vario titolo, nella pubblicazione (legittimamente) sovvenzionata dall’antiquario. In altre parole, nessun esperto terzo e indipendente sostiene che l’opera comprata dallo Stato sia del Buonarroti. Sarà dunque assai interessante seguire le deposizioni degli storici dell’arte durante il processo.

2. Cosa c’entra la Corte dei Conti con la storia dell’arte?

Sulla «Repubblica» del 18 febbraio, Antonio Paolucci ha dichiarato di non vedere «come un giudice contabile possa esprimersi su un’analisi storico-artistica». Apprendiamo così che per l’ex Ministro dei Beni culturali non esistono procedure, pareri tecnici sindacabili, consulenze terze: padrone in casa propria, perché la storia dell’arte è zona franca. Tutto questo, nei fatti, è stato fin troppo vero. Per decenni il chiuso, intoccabile mondo degli storici dell’arte si è sentito, ed è stato, letteralmente irresponsabile. Ma, naturalmente, la legge dice il contrario, e la Corte dei Conti ha ora la possibilità di affermare che non esistono zone franche dalla responsabilità verso i cittadini e i loro denari.

È importante capire che la Corte non dovrà decidere se quell’opera è o non è di Michelangelo, ma se i funzionari dello Stato hanno agito in scienza e coscienza per accertarlo (per esempio, chiedendo e acquisendo pareri autorevoli e terzi sull’autografia e sul vero valore dell’opera), o se invece c’è stata una colpa, magari grave o gravissima.

È accertato che pochi anni fa il Cristo fu comprato negli Stati Uniti per l’equivalente di diecimila euro: è normale che lo Stato lo acquisti poco dopo per 3.250.000 euro? Domanda urgentissima, in un momento in cui – per dirne una – la Pinacoteca di Brera non riesce a pagare il conto dell’energia elettrica (equivalente, per un anno, ad un ottavo di ciò che è stato pagato il cosiddetto ‘Michelangelo’).

3. Quali sono le responsabilità del Comitato tecnico scientifico storico-artistico del Mibac?

In queste ore Sandro Bondi è riemerso dalle nebbie per dirne una delle sue: il Cristo lo comprò lui – dice – ma per il «parere vincolante del Comitato consultivo»: certo, se una ha creduto alla nipote di Mubarak, può anche credere alla categoria metafisica del «consultivo vincolante».

Ma il tentativo è chiarissimo: scaricare le colpe sui tecnici veri, i quattro storici dell’arte del comitato. La tattica appare un po’ troppo comoda. Negli ultimi mesi lo stesso comitato composto dalle stesse persone ha, per esempio, espresso parere negativo sulla spedizione a Mosca di un Giotto (dove è andato a ‘impreziosire’ un assurdo inciucio di prelati assortiti) e di un importantissimo Caravaggio: ebbene, in entrambi casi il direttore generale ha spedito le opere in Russia, in barba a quel parere. Non si può dunque sostenere che quando il Comitato dice di non mettere a repentaglio Giotto il Ministero se ne può fregare, ma se dice di comprare una patacca, ebbene quel parere è vincolante. Non conosco i meccanismi del processo contabile, ma riterrei bizzarro che, alla fine, ai quattro storici dell’arte si chiedesse di restituire la stessa cifra chiesta all’allora direttore generale, o alla soprintendente di Firenze: chi dà un parere consultivo non può esser ritenuto responsabile come chi firma il decreto, o chi certifica la congruità del prezzo.

Ciò detto, se esistesse un albo degli storici dell’arte (o semplicemente degli uomini di scienza) Marisa Dalai Emiliani, Carlo Bertelli, Caterina Bon Valsassina e Orietta Rossi Pinelli meriterebbero di esserne radiati.

Per ben tre volte il Comitato è stato chiamato a vagliare la proposta d’acquisto al fine di consigliare il ministro circa l ’attendibilità dell’attribuzione, e circa il prezzo da proporre al venditore. Poiché tra i quattro membri non figurava né un michelangiolista né uno specialista di scultura rinascimentale sarebbe stato ovvio, perfino banale, aspettarsi una nutrita serie di formali consultazioni di esperti italiani e stranieri, riconosciuti e indipendenti. E invece il Comitato non fece niente di tutto questo. In ossequio alla chiara fama dei colleghi che vi avevano scritto (potere della consorteria accademica!), decise di acquisire come unica relazione scientifica il catalogo pubblicato a spese dell’antiquario nel 2004. Così, l’unico organo composto da storici dell’arte chiamato ad esprimersi ufficialmente sull’acquisto del ‘Michelangelo’ risolse la sua alta consulenza nella segnalazione dell’unica voce bibliografica disponibile: e viene da chiedersi se per far questo non sarebbe bastato un bibliotecario, o anche un libraio aggiornato. E, anzi, nemmeno questo adempimento notarile fu svolto impeccabilmente, giacché, di fatto, esso censurò l’importante e autorevole parere negativo di Margrit Lisner.

Nel far ciò, il comitato – forse perché composto in gran parte da storici dell’arte che non fanno attribuzioni – mostrò una deferenza più fideistica che scientifica verso il principio di autorità: poiché i colleghi che hanno scritto sono autorevoli, il loro parere è sufficiente. Al contrario, se anche questi illustri colleghi avessero pubblicato sulla più indipendente delle riviste, sarebbe stato comunque necessario che il comitato si rivolgesse ad esperti terzi, cioè a studiosi che non avevano impegnato il proprio nome e la propria reputazione nell’attribuzione da valutare.

Quando poi si ricordi che il catalogo del 2004 è niente di più che una articolata perizia a più voci pagata dal venditore (e non priva di parecchie mende scientifiche), non si può che rimanere sbalorditi: consigliare al ministro di acquistare l’opera basandosi su quel testo e sull’audizione della proponente è stato esattamente come se un comitato del Ministero della Sanità avesse messo in circolazione un nuovo farmaco basandosi sulla letteratura finanziata dalla casa produttrice di quel farmaco, e sull’audizione di chi ne proponeva l’adozione.

Anche nel loro caso, tuttavia, ‘dimission impossible’: salvo Orietta Rossi Pinelli (dimessasi qualche settimana fa), sono ancora tutti al loro posto a vagliare allegramente gli acquisti del Mibac. E se, almeno, Caterina Bon ha accettato un pubblico dibattito sul caso Michelangelo, Marisa Dalai Emiliani ha invece accusato di lesa maestà chiunque le muovesse una critica. Ma se la professoressa si è rifiutata di discutere della cosa con la Consulta degli storici dell’arte universitari (quelli che in teoria rappresenterebbe in seno al comitato), ora le sarà più difficile trattare con sdegnosa sufficienza i giudici della Corte dei Conti che la stanno per processare.

4. Quali sono le responsabilità di Cristina Acidini, soprintendente di Firenze?

Molte, e assai pesanti. La prima e più importante è stata quella di aver proposto (con una lettera ufficiale spedita all’allora ministro Rutelli il 25 luglio 2007) l’acquisto pubblico del Cristo. La seconda è quella di aver perorato la causa dell’acquisto in seno al Comitato tecnico-scientifico (ai cui membri riferì di«conferme sulla scultura emerse nel recente convegno fiorentino dedicato a Michelangelo»: conferme poi irrintracciabili), anche come autrice di un libro su Michelangelo. La terza – rilevantissima – è quella di aver dichiarato (il 14 novembre 2008) formalmente la congruità del prezzo richiesto (che più incongruo non poteva essere). E una delle cose che il processo aiuterà a capire è come questi tre ruoli potessero stare insieme senza macroscopici conflitti di interesse.

Anche Cristina Acidini si è sempre rifiutata di accettare un confronto pubblico sul Cristo ‘di’ Michelangelo e sulle modalità del suo acquisto. La soprintendente ha preferito buttarla in politica, sostenendo che si trattava di accuse politiche della ‘sinistra’ contro Bondi. In effetti, l’unico giornalista che l’ha indefessamente sostenuta è stato Marco Ferri (del «Giornale della Toscana»), il quale ha addirittura pubblicato un libro, con il Cristino in copertina, zeppo di errori ma zelantissimo nella difesa dell’Acidini. La quale avrà tanti difetti, ma non è un’ingrata: da qualche giorno ha nominato Ferri suo portavoce, facendoselo pagare da Opera Laboratori Fiorentini (la controllata di Civita concessionaria dei servizi aggiuntivi del Polo Museale diretto dall’Acidini stessa: alla faccia dei conflitti di interesse).

Ma, soprattutto, la macroscopica e oggettiva responsabilità dell’Acidini è quella di aver sequestrato in cassaforte il Cristino per ben due anni. La ragione di questa clamorosa decisione è stata la paura di polemiche: ma la paura è notoriamente una pessima consigliera. Se l’Acidini fosse davvero convinta di aver comprato un Michelangelo, perché non esporlo in un museo? Chi comprerebbe un tesoro per tenerlo nascosto? E se occultare il corpo del reato fa aumentare i sospetti, negare ai cittadini la vista di un’opera acquistata coi loro soldi non fa che aumentare il danno erariale.

5. Quali sono le responsabilità dell’attuale Sottosegretario ai Beni Culturali, Roberto Cecchi?

Il vero motore decisionale dell’acquisto del ‘Michelangelo’ è stato l’allora direttore generale Roberto Cecchi. È stato lui a imprimere la svolta risolutiva ad una pratica che avrebbe potuto essere archiviata; è stato lui a fissare il prezzo, decidendo di sottrarre oltre tre milioni di euro ad un bilancio già ridotto all’osso; è stato (soprattutto) lui a firmare il decreto di approvazione del contratto di acquisto (l’atto ufficiale e decisivo di tutta la vicenda); è stato lui a difendere vibratamente l’acquisto, firmando il memoriale di risposta all’interrogazione parlamentare. Insomma, la sua presenza negli studi del Tg1 (il 21 dicembre 2008, edizione delle 20) accanto al ministro e alla scultura stessa ha tradotto in immagine un ruolo effettivo.

Se a Cecchi è andata la gloria, sempre a lui si dovrebbe imputare anche la responsabilità di aver condotto la faccenda in un modo che ha aperto le porte alle polemiche (che, alla fine, hanno guastato su scala planetaria la festa michelangiolesca), e soprattutto alle indagini della Corte dei Conti e della Procura di Roma. Il direttore generale, infatti, ha accettato come oggettiva la perizia del venditore (il catalogo del 2004, sdoganato dal parere notarile del Comitato tecnico scientifico), senza coprirsi le spalle con lo straccio di uno studio indipendente; non è riuscito a farsi dire da dove venisse davvero il pezzo (finendo così a girare al pubblico del Tg1 la leggenda della «derivazione fiorentina»); non si è preoccupato di indagare sul perché l ’Ente Cassa di Risparmio di Firenze avesse rinunciato all’opera; ha permesso che a certificare il prezzo fosse la stessa funzionaria che aveva proposto l’acquisto, creando così un macroscopico caso di conflitto di interesse. E, soprattutto, non si è chiesto perché un vero Michelangelo rimanesse per anni a disposizione, ed anzi fosse finito ai saldi, facendosi comprare per un sesto della (già stracciatissima) richiesta iniziale. Ora, in qualsiasi paese civile (financo nello Zimbabwe, avrebbe detto il mitico Mauro Masi) un funzionario che copre di ridicolo il suo Ministero e il suo ministro viene gentilmente invitato a passare ad altro incarico. In Italia, invece, viene promosso al ruolo di onnipotente Segretario generale del medesimo Ministero, e poi fatto sottosegretario in quanto supertecnico in un immacolato governo di tecnici. Salvo comportarsi come il peggior politico berlusconiano, insinuando (grazie ad un compiacente Paolo Conti, sul Corsera del 19 febbraio) che il suo ‘rinvio a giudizio’ presso la Corte dei Conti farebbe parte di una ‘macchinazione’. Nientemeno! Le toghe rosse vogliono abbeverare i loro cavilli nelle cristalline fontane del Mibac!

6. Quali sono le responsabilità dell’ex Ministro dei Beni Culturali, Sandro Bondi?

L’assetto giuridico sottrae in questo caso il ministro in carica al momento dell’acquisto ad ogni responsabilità contabile. Ma Sandro Bondi ha messo con eccezionale entusiasmo la propria faccia nell’operazione e ha strumentalizzato senza ritegno il nome di Michelangelo e l’iconografia sacra dell’opera. Ciò che, poi, si deve attribuire interamente a Bondi e alla sua appartenenza politica è l’ eccezionale amplificazione, anzi la vera e propria trasfigurazione mediatica del nuovo ‘Michelangelo’. Da questo punto di vista, la vicenda ha rappresentato una esemplare applicazione alla storia dell’arte di uno dei principi cardine del berlusconismo: la fede illimitata nel marketing della comunicazione.

La brevissima prefazione di Bondi al catalogo pubblicato in occasione dell’ ostensione del Cristo a Montecitorio, è identica al comunicato stampa con il quale il ministro aveva annunciato e commentato l’acquisto il 12 dicembre 2008, e individua con chiarezza i due poli tra i quali si sarebbe poi mossa la macchina della propaganda: il nome sommo di Michelangelo e la somma sacralità del tema del Crocifisso. Sul primo punto, il ministro scrive: «In un momento delicato e di crisi come quello che stiamo attraversando, è fondamentale dedicare le poche risorse disponibili a progetti e iniziative che abbiano un significato così alto che possiamo consegnare alle generazioni future». È un concetto chiave per comprendere non solo la genesi dell’acquisto del ‘Michelangelo’, ma anche l’intera visione di Bondi: ed è difficile immaginare un concetto altrettanto intrinsecamente sbagliato. Innanzitutto, esso sancisce una resa incondizionata e senza speranze verso lo scellerato prosciugamento del bilancio dei Beni Culturali, che proprio sotto il quarto governo Berlusconi è arrivato a record inimmaginabili.

È in questo contesto che Bondi arrivò a teorizzare che la risposta a un simile disastro potesse essere la concentrazione delle poche energie residue su opere ed eventi tanto celebri e illustri da assurgere ad un rango simbolico. Un’idea grave non solo perché rivela che l’acquisto del Crocifisso ‘di Michelangelo’ è stato pensato come una foglia di fico enfaticamente posta sull’enorme vergogna dell’abbandono della tutela perpetrato dal governo (da tutti i governi recenti, di destra o di sinistra). Essa è ancor più grave per il valore profondamente diseducativo che rischia di avere su un’opinione pubblica già pericolosamente esposta al rischio di una desertificazione culturale che lascia vivi (ma a questo punto vuoti e muti) solo i nomi di Michelangelo e Leonardo, di Caravaggio e Van Gogh.

7. Cosa c’entra in questa storia Antonio Paolucci?

Moltissimo, quasi tutto: anche se l’attuale direttore dei Musei Vaticani non ha avuto responsabilità burocratiche (e dunque eviterà il processo alla Corte dei Conti), è lui il regista e il motore immobile dell’acquisto pubblico dell’opera. Come Soprintendente di Firenze, nel 2004 egli ‘lanciò’ la scultura ospitandola presso il Museo Horne in una mostra che la presentava, senza se e senza ma, come un Michelangelo e il cui catalogo (da lui sdoganato con una prefazione istituzionale) era di fatto una perizia pagata dall’antiquario che possedeva il pezzo. E quel catalogo (in cui egli stesso sposava l’attribuzione) divenne poi decisivo per l’acquisto pubblico dell’opera.

Il 6 agosto 2007 Paolucci scrisse all’allora ministro dei Beni culturali Francesco Rutelli consigliandogli «di prendere in seria considerazione l’acquisto» dell’opera, che giudicava «di superba qualità e straordinario interesse». In seguito, e fino a questi giorni, Paolucci ha difeso a spada tratta l’acquisto e la sua pupilla, e successora a Firenze, Cristina Acidini.

8. Cosa c’entra in questa storia Federico Zeri?

Probabilmente niente. Zeri è stato tirato in ballo esattamente dieci anni dopo la sua morte, avvenuta nel 1998. Un articolo di Antonio Paolucci apparso sull’ «Osservatore Romano» del 16 dicembre 2008 enfatizzava la presunta eccezionalità dell’opera con un titolo audace fino alla blasfemia: “Se non è Michelangelo è Dio”. La frase era tra virgolette perché attribuita proprio a Federico Zeri: ma Paolucci l’aveva ricavata da un articolo del «Giornale dell’arte» del maggio precedente dello stesso 2008, che non cita né fonte né testimoni. Dunque, una patacca nella patacca.

9. Cosa c’entra in questa storia Salvatore Settis?

Evidentemente non avendo migliori argomenti di autodifesa, Roberto Cecchi sta cercando di appollaiarsi sulle spalle dei ‘padri della patria’ della storia dell’arte: in un’intervista al Corriere della Sera (19 febbraio 2012) ha ripetuto il mantra di Zeri, e ha tirato fuori dal cassetto una email di Settis del novembre 2008, in cui l’allora presidente del Consiglio Superiore dei Beni culturali definiva «ottima» la decisione di acquistare un Michelangelo.

Nella sua replica (Corsera del 20 febbraio), Settis ha chiarito che questa «è una citazione irrilevante. Durante la mia presidenza il Consiglio Superiore non ha mai, neppure per un secondo, parlato del Crocifisso (lo fece invece il Comitato di Settore per la Storia dell’arte): è dunque evidente che non posso aver parlato in nome del Consiglio. Né posso aver fatto attribuzioni, e non solo perché non sono un esperto di scultura del tardo Quattrocento, ma perché non ho mai visto (ad oggi) quel crocifisso, e non ho l’abitudine di esprimere pareri senza aver visto. La verità è molto più semplice, anzi banale; e ringrazio Cecchi per aver citato la data dalle mia email (18 novembre 2008), che aiuta a ricostruire il contesto.

Era allora in corso un durissimo scontro con l’allora ministro Bondi: egli tacque quando il bilancio del suo ministero subì un taglio pesantissimo di oltre un miliardo, ma si agitò quando io ne scrissi sul Sole-24 ore del 24 luglio 2008; il sottosegretario Giro ed altri mi invitarono allora alle dimissioni, che Bondi respinse. Ma la gravità della situazione mi spinse a intervenire ripetutamente nei mesi successivi, con alcuni articoli su Repubblica, uno su Die Welt e numerose interviste, in Italia e fuori. […] È in questo clima polemico che Cecchi, senza darmi particolari né sulle procedure né sul prezzo, mi chiese “abbiamo i soldi per comprare un probabile Michelangelo, che ne pensi?”. In quel contesto, c’era un solo senso possibile: verificare se avrei criticato il Ministero, magari sui giornali, perché, in tempi di magra, non destinava quei soldi altrimenti. E la mia risposta aveva un solo senso possibile: la convinzione che, anche in tempi di magra, un buon acquisto può essere un segnale positivo. Nessuna implicazione di tipo istituzionale, né tanto meno attributivo. Non potevo allora immaginare gli inquietanti retroscena che avrebbe più tardi rivelato Tomaso Montanari nel suo A cosa serve Michelangelo?».

10. Perché questa è una storia davvero importante?

La vicenda del finto Michelangelo acquistato dal governo Berlusconi è una metafora perfetta del destino dell’arte del passato nella società italiana contemporanea: raccontarla significa parlare del potere del mercato, dell’inadeguatezza degli storici dell’arte, della cinica manipolazione dei politici e delle gerarchie ecclesiastiche, del sistema delle mostre, del miope opportunismo dell’università e della complice superficialità dei mezzi di comunicazione. La storia del finto Michelangelo insegna che l’amore per l’arte può essere distorto e strumentalizzato fino a diventare un potente vettore di diseducazione, imbarbarimento e mistificazione.

Se vogliamo che Michelangelo non serva solo agli interessi di un pugno di cinici registi del pubblico intrattenimento, ma torni ad essere necessario alla vita interiore di ciascuno di noi, dobbiamo ricominciare a raccontare la storia dell’arte. Quella vera.

Pgt in aula, tre mesi per la Milano del futuro

di Alessia Gallione

Un anno dopo, Milano ci riprova. Un’altra maratona, un’altra battaglia per approvare il nuovo Pgt rivisto e corretto dalla giunta Pisapia che oggi torna in Consiglio comunale. E un traguardo che, realisticamente, Palazzo Marino ha tracciato: fare in modo che le regole dell’urbanistica diventino legge entro l’estate. Tre, al massimo quattro mesi di tempo considerando che a marzo l’aula dovrà affrontare il dibattito sul bilancio, già annunciato ad alta tensione.

Sarà una seduta importante quella del Consiglio di oggi: prima la discussione sulla delibera che permetterà alla giunta di concludere l’accordo con le banche per i derivati. Subito dopo, l’esigenza - per rispettare tempi e scadenze - di dare avvio al percorso del Pgt con la relazione all’aula dell’assessore all’Urbanistica, Ada Lucia De Cesaris.

Era il 4 febbraio del 2011 quando la giunta Moratti riuscì ad approvare il suo Piano di governo del territorio. Un documento mai pubblicato che il nuovo esecutivo ha revocato per riaprire la rilettura delle 5mila osservazioni di cittadini, associazioni, operatori. Oltre 2mila sono state accolte ed è così che molti punti sono cambiati: le quantità di cemento sono state ridotte così come le previsioni di nuovi abitanti; le volumetrie che avrebbe generato il Parco Sud cancellate; il tunnel Expo-Linate eliminato. Adesso l’imperativo del centrosinistra è fare in fretta. Senza stravolgere, con il passaggio in aula, le nuove regole. Con appelli che partono in direzione centrodestra: «Ci daremo un programma e la possibilità di approfondire anche in altre sedute di commissione - dice la capogruppo del Pd, Carmela Rozza - Ci auguriamo però che le opposizioni abbiano la consapevolezza di quanto sia importante dare alla città regole urbanistiche, e che abbandonino lo strumento dell’ostruzionismo».

Per il capogruppo del Pdl Carlo Masseroli, tuttavia, il dibattito di oggi non dovrebbe neppure cominciare: «Non è stato possibile - dice - affrontare nel merito molte questioni: sembra che la maggioranza abbia paura». Le critiche piovono anche sul metodo: «Il Piano è stato modificato in modo sostanziale e dovrà essere ripubblicato per riaprire una nuova fase di ascolto della gente». Se no scatterà un ricorso? «Spero di non essere messo nelle condizioni di doverlo fare - dice l’ex assessore all’Urbanistica - perché politicamente non è la partita che vorrei giocare. Temo però che i ricorsi saranno moltissimi». Le osservazioni sono state divise in 99 gruppi. Sarà il Consiglio, adesso, a stabilire come impostare il dibattito. Anche se il presidente Basilio Rizzo si augura che non siano necessarie «maratone notturne dettate solo dalla volontà di fare ostruzionismo. Pensiamo piuttosto a lunghe sessioni di lavoro durante il giorno».

"Troppi cantieri sono arenati alla città servono regole subito" (intervista all’assessore De Cesaris)

«Questa amministrazione l’aveva promesso: avrebbe chiuso il lavoro delle osservazioni e portato in Consiglio la sua proposta di Pgt all’inizio del 2012. Adesso chiediamo a tutti di partecipare a un lavoro che deve essere di confronto e approfondimento, con un obiettivo: fare presto». Eccolo, l’appello dell’assessore all’Urbanistica Ada Lucia De Cesaris.

Perché è importante che il Pgt sia approvato velocemente?

«Perché Milano ha bisogno di nuove regole. E perché, se si supera questo momento di conflitto politico sulla pianificazione, si può cominciare a occuparsi in modo serio di quale disegno si voglia dare alla città, tenendo conto del numero e dell’impatto di interventi ancora in corso e delle forti criticità che molti presentano, soprattutto in periferia».

Si riferisce a quartieri come Santa Giulia?

«A Santa Giulia, ma anche a piani come Rubattino, Marelli, Porta Vittoria... C’è un’enormità di progetti che vanno avanti a singhiozzo e che vanno reinseriti in un contesto generale. Dobbiamo riannodare i fili di interventi avviati che vanno ripensati per essere portati a termine garantendo, però, infrastrutture e verde».

Qual è il disegno di città che viene fuori da questo Pgt?

«Questo Piano ha in sé un’idea di città in cui lo sviluppo non può coincidere con un’incondizionata crescita edilizia. Al centro di ogni trasformazione urbana deve esserci l’interesse collettivo, il miglioramento della qualità della vita».

Non teme l’opposizione dei costruttori?

«Parlare di indici in un momento di crisi del mercato non ha molto senso. Quello che il Pgt mette in gioco è la possibilità di costruire rispondendo alle effettive esigenze dell’abitare, di rimettere in comunicazione domanda e offerta reali».

A cosa si riferisce, all’housing sociale?

«Sicuramente la residenza sociale, in tutte le sue declinazioni, è la vera scommessa. Ma penso anche alla possibilità di realizzare trasformazioni che poi non rischino di morire ancora prima di essere terminate o che siano prive di collegamenti, parchi, strutture pubbliche».

Questo Pgt non è stato scritto ex novo dalla giunta. Qual è il cambiamento di cui è più orgogliosa e quale, invece, quello che non è riuscita a fare?

«Sicuramente questo non è il mio Piano. Ma sono molto contenta delle scelte fatte per il Parco Sud, di aver limitato una pioggia di volumetrie che difficilmente avremmo gestito. Attraverso la rilettura delle osservazioni, poi, abbiamo ridato, non in modo ideologico, una funzione alla regìa pubblica. So, invece, che tutta la parte relativa alla mobilità e alle infrastrutture è rimasta debole: dovremo occuparci quanto prima del Piano urbano della mobilità».

L’opposizione vi accusa di aver stravolto il Pgt.

«Non è stato stravolto. Abbiamo ascoltato la città, recepito i pareri dei vari enti, tenuto conto dell’esito dei referendum ambientali. Un Pgt è sempre la sintesi della proposta che fa un’amministrazione e delle osservazioni dei cittadini, che comportano inevitabilmente modifiche e aggiornamenti».

Crede che, economicamente, l’impianto stia in piedi?

«Per noi i conti tornano. Certo, a chi consuma un bene come il suolo chiediamo di partecipare alla costruzione della città pubblica con case di edilizia sociale, con servizi».

Teme ricorsi?

«Un ricorso non si nega a nessuno. Il vecchio Piano è stato impugnato ancora prima di essere pubblicato e, nella mia storia professionale di avvocato, non ho notizie di Pgt che non lo siano stati. L’importante è aver lavorato nel rispetto della legge».

La Regione boccia il Pgt di Monza targato Lega e Pdl e firmato da Paolo Romani, ex ministro dello Sviluppo economico e, fino a qualche mese fa, plenipotenziario di Berlusconi nelle vesti di assessore all’Urbanistica. La maggioranza, però, fa sapere di essere pronta ad impugnare il parere uscito dal Pirellone. Esulta invece l’opposizione di centrosinistra: «Con oggi si è messa la parola fine sul mandato di questa amministrazione». Una batosta per la maggioranza che aveva puntato forte sul documento di programmazione urbanistica, per il quale si era speso anche l’ex premier. Risale a poche settimane fa il vertice a Villa San Martino con i maggiorenti del Pdl locale nel quale il padrone di casa aveva dettato la linea da seguire: «Prima si approva la variante, poi si parla di candidati».

Sei i poli strategici e 41 gli ambiti di trasformazione individuati dalla maggioranza, 314 gli ettari interessati dal progetto che avrebbe ridisegnato lo skyline del capoluogo brianzolo. Una colata di 4 milioni di metri cubi di cemento per far spazio e 35mila abitanti in più. Tra gli interventi più discussi la Cascinazza, l’area verde che finisce a mollo con due gocce d’acqua, dove era stato dato il via libera a un intervento di 420mila metri cubi tra residenziale e terziario. Di proprietà della Istedin di Paolo Berlusconi, finita nelle mani di Axioma Real estate per 40 milioni di euro. Nell’atto di compravendita (ottobre 2007) era stata inserita anche una clausola di non poco conto: nel caso la zona fosse stata resa edificabile, la vecchia proprietà avrebbe ricevuto un secondo assegno da 60 milioni di euro.

Quando ormai la giunta credeva di aver messo in cassaforte la maxi variante è arrivata la doccia fredda. La Direzione generale territorio e urbanistica della Lombardia, punto per punto mette in discussione l’intero progetto. Manca, si legge nelle 52 pagine, «la riqualificazione del territorio e la minimizzazione di consumo di suolo libero». Di più: «L’impostazione del piano non sviluppa i requisiti richiesti dalla normativa regionale». L’assessore monzese all’urbanistica, Silverio Clerici, ha radunato la sua squadra che già da ieri sera è al lavoro per preparare la controffensiva. «Presenteremo delle controdeduzioni, per noi non cambia nulla» obietta l’assessore. «Non hanno i tempi per rattoppare. La Regione ha stroncato l’intero programma di questa amministrazione», replica Roberto Scanagatti, capogruppo del Pd. Le elezioni del 6 maggio incombono, del Pgt di Monza si dovrà parlare nella prossima amministrazione.

Il sindaco Pisapia dorma sonni tranquilli, non ha svenduto la memoria di sant'Ambrogio per colpevole parsimonia: la verità è che non esiste nessun argomento razionale contrario a questo parcheggio. Tanto per incominciare: le piazze stanno di solito davanti all'edificio che dà loro il nome, piazza della Scala sta davanti al teatro e piazza del Duomo davanti alla cattedrale, e il parcheggio del quale parliamo non è davanti alla chiesa, non è in piazza Sant'Ambrogio.

Questione di lana caprina? No, ricorrendo alla falsa denominazione viene suggerita l'idea che la basilica abbia a che vedere con il parcheggio, se viene scavato sulla sua piazza. Non è così, lo stradone di Sant'Ambrogio — come più appropriatamente lo denominava Dal Re nella sua stampa del 1734 — è disposto diagonalmente dispetto alla basilica, dalla quale è separato dagli edifici della canonica, sicché proprio non c'è alcun rapporto di continuità tra l'area del parcheggio e la chiesa, tant'è che lungo lo stradone correva un tempo una roggia frequentata dalle lavandaie. Le facciate sullo stradone, poi, non sono antiche, sono state ricostruite tutte dopo il 1945, sicché non c'è alcun ambiente originario da salvaguardare.

Il campanile è stato rifoderato in cemento armato dopo l'ultima guerra dall'ingegner Locatelli, il più valido esperto strutturalista della città, e insinuare che non sapesse tenere conto delle diverse dilatazioni dei materiali tra cemento e mattoni è semplicemente un insulto alla sua memoria. Nelle città romane era d'obbligo seppellire i morti fuori dalle mura, e questo divieto venne mantenuto dai cristiani per secoli, sicché la Milano romana è circondata da più di un milione di sepolture: difficile non trovare, scavando, un qualche osso dell'antenato.

Il sindaco Pisapia dorma sonni tranquilli, non ha svenduto la memoria di sant'Ambrogio, anche gli argomenti sentimentali sono molto fragili perché dovrebbero venire condivisi da tutte le città europee. Ma a Torino il sindaco Chiamparino ha scavato un parcheggio sotto la più nobile piazza della città, piazza San Carlo. A Montpellier la collina davanti alla promenade royaledel Peyrou è scavata da un parcheggio e sembra un gruviera. A Barcellona i parcheggi sotterranei sono sotto la piazza de Cataluña, sotto la Rambla e — udite udite — davanti alla Cattedrale. A Bordeaux il primo venne scavato sotto le avenue de Tourny, oggi gli altri circondano il centro storico. A Parigi sotto piazza Notre Dame. A Colonia sotto la piazza del Duomo, a Lione sotto place de la Bourse, a Strasburgo sotto la piazza principale, piazza Gutenberg. A Monaco di Baviera sotto la piazza monumentale, la Maxplatz.

Ma queste sono soltanto quelle che mi vengono in mente, Google vi consentirebbe di ampliare la casistica a dismisura: non sembra che i cittadini di queste città considerino questi parcheggi un insulto alla sacra memoria della città, e neppure che i solerti visitatori milanesi se ne lamentino, e anzi trovano comodissimo infilare le loro automobili lì sotto. La percezione sentimentale della città deve essere condivisa nel contesto europeo — come quella di pedonalizzare il centro storico — altrimenti è un capriccio locale del quale non è necessario tenere conto.

postilla

Fa benissimo, il professor Marco Romano, a ricordarci che una visione solo localistica, di cortile, sentimentale, ci sprofonda in una specie di infernale autosilo del provincialismo, da cui poi non basta pagare l’adeguata tariffa per riemergere a una sensibilità “condivisa nel contesto europeo”. In effetti spesso, un pochino complice la stampa attenta a cogliere certi accenti e punte del dibattito, lasciando sullo sfondo questioni di più ampio respiro, pare che la disputa box sotterranei (o su altre varie trasformazioni urbane contemporanee) venga vissuta come opposizione di alcuni benintenzionati quanto fanatici intellettuali, all’ingresso di qualunque segno di progresso umano fra atrii muscosi e fori cadenti. Mentre invece, pur non mancando certo isolate posizioni del genere, magari dettate da piccoli interessi particolari, ciò che un pochino di sicuro tormenta i sonni del sindaco Pisapia ha un altro nome, e si chiama idea di città. In cui, proprio come accade nella citata Europa del professor Romano, le amministrazioni non procedono per progetti isolati, ma seguendo strategie di lungo periodo, ad esempio ispirate a idee generali come il ruolo della città storica rispetto alle periferie e all’area metropolitana, il contenimento delle emissioni e dei consumi energetici per quanto possibile a quella dimensione, e in cui le considerazioni formali, soggette a gusti o sensibilità particolari, se ne stanno al loro giusto posto nell’ambito dei progetti di trasformazione. I quali progetti hanno senso appunto entro un programma più vasto. Conosciamo ahimè il “programma” delle giunte che da almeno vent’anni si sono susseguite a Milano, di cui fanno parte il sistema dei parcheggi sotterranei in centro, o il tunnel autostradale Linate-Expo con relativi svincoli urbani ecc. Il nuovo programma urbanistico, trasportistico, di sostegno ad alcuni comportamenti rispetto ad altri, pare indicare una direzione diversa, quella di sicuro “condivisa nel contesto europeo” molto più della modernità stupidotta delle automobili dappertutto, sempre che ce lo si possa permettere. Ed è in questo contenitore logico, che vanno giudicate anche le opposizioni, magari esclusivamente e soggettivamente estetizzanti, magari pure un po’ discutibili nel merito. Ma questo il professor Romano lo sa già benissimo: si era solo dimenticato di scriverlo, oppure la redazione del Corriere gli ha tagliato le ultime righe per motivi di spazio. Ne siamo certi (f.b.).

L’orgoglio di ieri si è trasformato in imbarazzo. Dopo le presentazioni di rito e un breve tour propedeutico all’applauso del pubblico pagante, il presunto Cristo ligneo di Michelangelo giace in una cassaforte del Polo museale fiorentino.

Blindato e nascosto alla vista nonostante non valga che poche migliaia di euro (per Christie’s ne varrebbe 60.000) e per accaparrarselo (non senza echi flaianei che rimandano alla vendita della Fontana di Trevi a Girolamo Scamorza in “Totòtruffa”) lo Stato italiano avesse sborsato nel 2008 oltre 3 milioni.

Un acquisto perorato dal sottosegretario ai Beni culturali Roberto Cecchi che rinviato a giudizio dalla Corte dei conti per danno erariale, grida al complotto e si difende. Riceve l’abbraccio mortale del ministro di allora, Sandro Bondi, che rivendica la “bontà dell’operazione” e lamenta “accanimento”.

Parla di “situazione indecente” Cecchi, sostenendo che la stessa Corte avesse fornito “legittimità all'acquisto registrando il contratto relativo”, ma dimenticando di rimarcare come ciò accada, per obbligo e senza alcuna valutazione nel merito, per ogni singola acquisizione statale. Al ministero sono in difficoltà e il titolare di ruolo, Lorenzo Ornaghi, impegnato ieri nel Concistoro, ha vissuto con il suo vice un déjà-vu che sta diventando regola.

Il caos del Mibac è senza argini, stride con il basso profilo imposto da Monti e nonostante il cambio d’abito, somiglia alle ultime discutibili gestioni berlusconiane. Ornaghi non ha capito dove si trova, ma regge un dicastero inclinato come la Costa Concordia. Una falla al giorno da coprire, mentre l’aria, pesante, è ammantata da spifferi, fughe di notizie e faide.

Prima il buco del presidente del Consiglio Superiore, il professor conte Andrea Carandini, colto ad autorimborsarsi per quasi 300.000 euro il restauro del castello di famiglia senza aprirlo al pubblico come legge pretenderebbe. Quando L’Espresso e Saturno tirano fuori l’aristocratica manfrina, Ornaghi è costretto a emettere un sofferto comunicato in cui ribadisce a Carandini la sua fiducia.

Parole che gli valgono un’inaudita reprimenda del Pd: “Spiace davvero – dichiara Orfini – che Ornaghi abbia deciso di coprire comportamenti che umiliano la storia del ministero che è chiamato a dirigere”.

Poi Cecchi. Nonostante non gli avesse concesso le deleghe, in un empito di ecumenismo, Ornaghi aveva deciso di fargli nominare il nuovo direttore generale delle Belle arti e del Paesaggio. Il candidato più autorevole sarebbe stato Gino Famiglietti, coautore del Codice dei Beni culturali. Famiglietti fu rimosso dalla posizione di vice capo dell’ufficio legislativo del Mibac e spedito a Campobasso perché si oppose allo svincolamento di un mobile settecentesco voluto da Cecchi e costata al sottosegretario un procedimento giudiziario concluso con un’archiviazione per abuso d’ufficio. In Molise, Famiglietti non si è dato per vinto, e ha ingaggiato una dura battaglia contro gli insediamenti delle pale eoliche.

Alla fine dello scorso novembre, “Italia Nostra” ha assegnato proprio a Famiglietti il premio Umberto Zanotti Bianco: sorta di Nobel italiano della tutela. Un candidato lontano mille miglia dal modello Cecchi che al suo posto, infatti, nomina Maddalena Ragni. Da responsabile della Direzione generale per i beni culturali e paesaggistici della Toscana, Ragni era salita all’onore delle cronache per lo spostamento (qualcuno insinua la distruzione) di un’area archeologica che avrebbe ‘intralciato’ la realizzazione di un capannone industriale della Laika.

Carandini, Cecchi, gli scandali. Questo il panorama del Mibac, questo lo specchio poco letterario in cui Ornaghi è costretto a osservarsi ogni giorno. Invece di Dorian Gray, nell’immagine riflessa, ad alcuni sembra di intravedere la sagoma di Sandro Bondi.

Paolucci. Il regista dell’operazione

L’epilogo della farsa del finto Michelangelo rigetta i media nella nostalgia. Repubblica data (posticipandola di sei mesi) l’ostensione del legnetto al Tg1 all’era Minzolini. Ma il capolavoro è l’intervista, sempre allo stesso giornale, dell’attuale direttore dei Musei Vaticani, Antonio Paolucci. Ma Paolucci fu il vero regista dell’operazione: da soprintendente di Firenze infatti, organizzò il lancio dell’opera. Sublime la conclusione: Paolucci non “vede come un giudice contabile possa esprimersi su un’analisi storico-artistica”. Apprendiamo così che per Paolucci non esistono pareri tecnici sindacabili o consulenze terze: padrone in casa propria, perché la storia dell’arte è zona franca. Che l’ex ministro dei Beni culturali cominci a confondere l’Italia e il Vaticano?

A difesa di Roma, del centro storico più bello e insieme più minacciato sono intervenuti Confcommercio e Confesercenti col sostegno di Cgil, Cisl e Uil per dire al governo Monti: “Negozi senza regole? No, grazie”. Dopo le associazioni per la tutela (Comitato per la Bellezza, eddyburg, Italia Nostra, Touring Club, Bianchi Bandinelli, ecc. e personaggi come Salvatore Settis, Alberto Asor Rosa, Paolo Baratta, ecc.). Opposizione corporativa? No, difesa della vivibilità, del decoro, delle bellezza e quindi dell’attrattiva turistica delle nostre città d’arte. Il solo ineguagliabile patrimonio che i monitoraggi internazionali sul turismo di qualità ancora ci assegnano, avendo l’Italia compromesso spiagge e natura.

Si spiegano con chiarezza il presidente della Confcommercio romana, Giuseppe Roscioli: “Non siamo contro le liberalizzazioni, ma in questo modo non porteranno nessun beneficio. Per rimanere aperti 24 ore su 24, o si alzano i prezzi o si va in sofferenza”. E il segretario della Camera del Lavoro, Claudio Di Berardino: “Il rischio è che aumentino lo sfruttamento e il lavoro nero”. Nei bei servizi di Lilli Garrone e di Maria Egizia Fiaschetti sul “Corriere della Sera” sono indicati i guasti indotti da una liberalizzazione calata senza paletti nei centri storici: spariscono già negozi di qualità, stoffe inglesi, scarpe alla moda, norcinerie tradizionali o librerie, e subentrano, pub e ancora pub, gelaterie, pizzerie notturne ecc., con un abbassamento catastrofico dell’offerta turistico-commerciale. Eppure nel governo gli economisti ci sono, a cominciare dal premier: possibile che non sappiano che nel nostro Paese un terzo abbondante del 10-11 % di Pil turistico viene dal turismo culturale?

Il modello (terribile) sembra la “movida” notturna senza regole, tante Campo de’ Fiori disseminate ovunque. Secondo la stessa Confcommercio, il Decreto semplificazioni consente attività di discoteca, di spettacolo, di pubblico intrattenimento all’interno degli esercizi senza autorizzazioni né controlli preventivi di pubblica sicurezza e di agibilità. Idem per i cosiddetti “circoli culturali”, vecchio escamotage per aprire nelle aree contingentate locali notturni. Che non potranno più venire chiusi dalla Ps, né dalla questura. Nei negozi si potranno vendere cibi e bevande (anche alcoliche) senza autorizzazione e i clienti potranno sedersi a consumarle all’esterno. Anche in aree sin qui vietate. Con quale gioia degli ultimi residenti si può ben immaginare. Pure i distributori automatici non dovranno più chiudere alle 22 – fa notare il consigliere del I Municipio, Nathalie Naim – offrendo così alcol “facile” ai minori. Niente più vincoli pure per le bancarelle abilitate a vendere fino all’alba cibi, birre, souvenirs. Uno sterminato, degradante, inarrestabile bazar. Che garantisce ogni tipo di inquinamento: estetico, acustico, morale, malavitoso (i negozi “di copertura” per il riciclaggio e lo spaccio sono già tanti).E questa sarebbe concorrenza?

Di fronte alla valanga che promette di mettere fuori mercato i negozi veri e seri, gli esercizi di qualità, persino quelli storici, il governo dei “bocconiani” dovrebbe correre ai ripari correggendo se stesso, accettando i consigli sensati. Per ora tutti tacciono, a partire dal ministro dei Beni Culturali, Lorenzo Ornaghi. Se non lo fa il governo, ascoltino questi allarmi i Comuni, i sindaci, e intervengano. Nei 90 giorni dalla decorrenza del Decreto 214/2011 possono infatti confermare le limitazioni e i contingentamenti loro consentiti da leggi e regolamenti ispirati ad alcuni articoli-chiave della Costituzione, all’art. 9 che tutela il paesaggio e i patrimonio storico e artistico (quindi i centri storici), all’art. 32 che tutela la salute dei cittadini e anche all’art. 41 che dichiara libera l’iniziativa privata purché non “in contrasto con l’utilità sociale”, con la sicurezza, la libertà, la dignità umana. Una prova di saggezza economica oltre che di civiltà culturale.

Nel 2008 Roberto Cecchi volle e ottenne l'acquisto di un falso dell'artista italiano producendo un danno erariale al ministero di oltre tre milioni di euro per un prodotto fatto in serie. Furioso il ministro, ma il suo vice, per ora, resta al suo posto.

Secondo Roberto Cecchi, cattoarchitetto dalle trame celesti, mancato ministro e infine sottosegretario senza deleghe ai Beni culturali del governo Monti, il presunto cristo ligneo di Michelangelo, fatto acquistare su sua pressante insistenza allo Stato per la cifra di 3. 250. 000 euro nel 2008, è una scultura che “può essere facilmente trasportata, senza dare tutti quei problemi di conservazione che altre opere pongono”. La Corte dei conti gli ha dato ragione, trasferendo i quaranta centimetri del crocifisso dai depositi del Polo museale fiorentino alle aule di tribunale e rinviando a giudizio Cecchi ed altre quattro persone per “danno erariale”.

Secondo molti studiosi il Cristo altro non era che un prodotto seriale del valore di poche migliaia di euro. Cecchi si battè per farlo comprare al Mibac (la proposta venne accettata a sole 24 ore dall’offerta) e oggi si ritrova nei guai per un’opera che rischia di rivelarsi una crosta pagata circa 150 volte il suo reale valore. Ancora una volta il professor Roberto Cecchi è oggetto di attenzioni e approfondimenti non esattamente accademici. E la sua posizione nell’esecutivo tecnico, foriera di imbarazzi non cattedratici.

Dopo gli scivoloni di Bondi e Galan, altre ombre, non solo economiche sull’istituzione. Dicono che ieri sera il ministro Ornaghi fosse furibondo per l’ennesimo non commendevole faro acceso sul suo collaboratore. Che attendesse un gesto di buona volontà o una mossa di Cecchi che – giura chi lo conosce – non verrà né oggi né domani. Niente dimissioni per Cecchi (neanche se consigliato in tal senso) perché fanno sapere dal ministero: (“somiglierebbero a un’ammissione di colpa”). La parola per Cecchi è eretica e le stanze del collegio romano non somigliano per nulla a quelle inflessibili della Germania. Dopo l’apertura di un fascicolo in Procura a Roma sulle curiose modalità di cessione del restauro del Colosseo a Diego Della Valle, la scoperta di una serie di lettere firmate nel 2006 (quando era direttore generale dei beni architettonici e paesaggistici) volte a far ottenere al suo editore Armando Verdiglione denaro dal Mibac per il restauro di Villa San Carlo Borromeo e una sofferta archiviazione con proscioglimento per abuso d’ufficio su un vincolo fatto togliere a un mobile settecentesco, Cecchi è ancora in piedi.

Trasversalmente appoggiato dal Pd e dal Terzo Polo, ben visto dal Quirinale (ottimi rapporti con Carandini) Cecchi in queste ore riflette. In attesa che la Corte dei Conti proceda, essere eucaristici sul Cristo ligneo di Michelangelo è affare complicato. Il sottosegretario Cecchi non si limitò infatti a firmare le carte. Pretese, ottenne e interpretò la parte del prim’attore. Fu lui a imprimere la svolta decisiva ad una pratica che avrebbe potuto essere archiviata e ancora lui a fissare il prezzo, decidendo di sottrarre oltre tre milioni di euro ad un bilancio già ridotto all’osso. Cecchi difese con vigore l’acquisto, firmando un aggressivo memoriale di risposta all’interrogazione che un anno più tardi portò in Parlamento una polemica a tinte grottesche che già divampava sui giornali di tutto il mondo.

La Corte dei Conti si è concentrata sulla valutazione che Cecchi dette alla perizia del venditore (la definì oggettiva) e sul catalogo di vendita del Cristo (incomprensibilmente sdoganato come attendibile e autorevole da un passivo Comitato tecnico scientifico). Senza che l’attuale sottosegretario pensasse a coprirsi le spalle con lo straccio di uno studio indipendente.

Nell’operazione, tra buchi e omissioni, i misteri del caso. Cecchi non riuscì a farsi dire da dove venisse davvero l’opera (finendo così per girare al pubblico del Tg 1 l’ipotesi della “derivazione fiorentina”: mentre il Cristo proveniva dagli Stati Uniti, dove era stato acquistato per diecimila euro). Inoltre non si preoccupò di indagare sul perché l’Ente Cassa di Risparmio di Firenze avesse saggiamente rinunciato all’acquisto pochi mesi prima e permise che a certificare il prezzo fosse Cristina Acidini, la stessa funzionaria che aveva proposto l’acquisto, creando così un macroscopico caso di conflitto di interesse. Soprattutto, non si chiese Cecchi, perché un vero Michelangelo rimanesse per anni a disposizione ed anzi fosse finito ai saldi, facendosi comprare per un sesto della (già stracciatissima) richiesta iniziale (18 milioni) posta all’allora ministro Rutelli che rifiutò sdegnato. Oggi, in luogo di un artista, ad essere crocifisso è Cecchi e la sua idea di un ‘ Michelangelo portatile ’ adatto all’industria delle mostre commerciali che promuovono soprattutto chi le organizza. Cecchi, Il supertecnico che intervistato dal Corsera qualche giorno fa ha dichiarato di considerare suo nemico mortale Italia Nostra, la principale associazione per la difesa del patrimonio e del paesaggio italiani, della macchina delle mostre blockbuster è spassionato sostenitore. Non è detto che tra qualche mese, da privato cittadino, non possa promuoverne a pieno titolo.

1) Il Pgt di Milano ha un limite di origine difficilmente correggibile in sede di controdeduzioni: aver completamente trascurato i rapporti con l’hinterland, dove vive tre quarti della popolazione metropolitana. Chiediamo perciò che venga avviato subito il processo di consultazione metropolitana sistematica per definire scelte urbanistiche e di investimento condivise a livello di area vasta, che potranno poi portare anche alla modifica di alcune delle opzioni del PGT.

2) Lo stralcio, in fase di controdeduzioni, di gran parte delle scelte infrastrutturali, annunciato dalla Giunta, e il loro rinvio in sede di pianificazione di settore non consente la verifica di coerenza tra sviluppo del sistema insediativo e di quello infrastrutturale, che dovrebbe invece costituire la base essenziale di qualsiasi piano. Inoltre mette in forse la garanzia di un adeguato supporto di infrastrutture rare alla competitività del sistema territoriale. E’ dunque essenziale che le scelte infrastrutturali principali vengano reintrodotte nel PGT e non rinviate.

3) Gli ambiti di trasformazione (ATU) comprendono alcune aree che costituiscono opportunità uniche di riconformazione e riqualificazione della città. Soprattutto Bovisa/Farini/Lugano, Piazza d’armi/ Perrucchetti/Ospedale militare e gli scali di Porta Romana/Vigentina e Porta Genova/San Cristoforo, devono diventare grandi spazi di verde naturale ed attrezzato. La loro lunghezza può infatti permettere a centinaia di migliaia di milanesi di conquistare per la prima volta la fruizione diretta di grandi spazi a parco. Viceversa le densità edilizie ipotizzate (0,35 + 0,35 + 0, 28 circa di bonus energetici = 0,98 mq/mq circa di densità territoriale, che salgono a 1,14 circa nel caso di Bovisa/Farini, se calcolate, come è corretto fare, al netto dei sedimi ferroviari da mantenere) non permettono certo di raggiungere tale obbiettivo. Per aver chiari gli effetti congestivi di quanto ipotizzato basta visitare il cantiere di City life, costruita con una densità territoriale molto simile (1,15 mq/mq). Nessun eventuale ritorno economico per il Comune può giustificare il sacrificio delle ultime grandi opportunità di penetrazione di verde nella città, per di più su aree già di proprietà pubblica.

Con riferimento agli altri ATU e ai piani attuativi in genere sembra utile ricordare i quartieri approvati alla fine degli anni 90 con lo standard di 44 mq/100 mc. Non è chiaro se vi siano ragioni per scendere al di sotto di questo livello di qualità ambientale già acquisito in passato e realizzato.

4) Alla positiva notizia dell’intenzione della Giunta di cancellare gli ATIPG situati tra i margini della città e il Parco sud, sembra d’altro canto accompagnarsi la mancanza di indicazioni per le aree del Parco sud interessate dai futuri PCU (Piani di cintura urbana). Si chiede che il PGT contenga una precisa dichiarazione degli intenti del Comune di Milano per ciascuna di queste aree, da sottoporre poi al confronto e alla verifica con i profili di tutela di competenza del Parco Sud.

5) Una normativa molto creativa del PGT adottato prevede il convenzionale azzeramento della SLP di tutti i servizi pubblici e privati (edilizia residenziale pubblica compresa) con la conseguente attribuzione di ulteriore capacità edificatoria a tutte le relative aree, trattate perciò esattamente come fossero vergini ed inedificate. Questa norma, unitamente all’edificabilità virtuale attribuita alle nuove previsioni puntuali di verde e viabilità genera un’ulteriore mostruosa capacità insediativa di circa 16 milioni di mq di SLP, pari a più di cinque volte tanto quella ora prevista negli ATU. Se una tale norma dovesse essere confermata, gli effetti sarebbero inevitabilmente quelli di un diluvio di intasamenti, sopralzi e densificazioni che si abbatterà dovunque nel tessuto urbano esistente, e soprattutto nella sua parte centrale più appetibile. Si chiede la cancellazione di tale incredibile disposto normativo, facendo rientrare, come dovrebbe essere assolutamente del tutto ovvio, anche gli edifici per servizi nel calcolo della SLP.

6) Molti miglioramenti possono essere introdotti nel PGT adottato sotto il profilo della promozione della qualità progettuale, del recupero delle periferie, della tutela della città storica sia antica che recente, della conservazione dei nuclei urbani periferici, dell’attenzione complessiva al paesaggio, e della accentuazione del ruolo del Comune, accanto a quello delle Sovrintendenze in tutti questi campi. Alcuni interventi preciseranno le proposte su questi punti. Miglioramenti possono anche essere apportati alla definizione delle quote di social housing, per garantirne l’effettiva rilevanza sociale.

7) Appare opportuno che gli interventi per l’Expo non camminino su strade separate da quelle della pianificazione urbanistica e della tutela ambientale. In particolare suscita dubbi di sostenibilità ambientale ed economica l’ipotizzata nuova Via d’acqua.

8) In conclusione si evidenzia il rilevante rischio giuridico che potrebbe comportare l’approvazione in fase di controdeduzione di modifiche sostanziali al PGT, se non si procedesse poi ad una sua conseguente ripubblicazione.

Bloccata, sbloccata, ora di nuovo ferma. Questa volta a opera dei giudici del Tar del Lazio. Ora il 14 febbraio il Consiglio di Stato dovrà pronunciarsi di nuovo sulla sospensiva ai lavori. E non è finita. Celotto, del Movimento 5 Stelle accusa: "Un grande pasticcio"

Bloccata, sbloccata, ora di nuovo ferma. Per la Pedemontana veneta arriva un nuovo stop. Ancora dal Tar del Lazio: i giudici amministrativi, con una sentenza depositata a inizio febbraio hanno messo di nuovo in pausa l’iter della superstrada a pagamento che dovrebbe collegare Spresiano, in provincia di Treviso, a Montecchio Maggiore, in provincia di Vicenza. Lo hanno fatto accogliendo il ricorso del sindaco di uno dei comuni interessati, quello di Villaverla, provincia di Vicenza: il primo cittadino aveva fatto ricorso per l’annullamento degli atti di governo e commissariali dell’intero iter amministrativo e i togati gli hanno dato ragione.

Il decreto del 31 luglio 2009 del presidente del Consiglio dei Ministri, governo Berlusconi, per “la dichiarazione di stato di emergenza traffico e mobilità nei territori dei Comuni di Treviso e Vicenza” che aveva dato la stura all’opera e alla sua gestione commissariale, dicono, è illegittima. La stessa conclusione a cui erano già arrivati a inizio gennaio esaminando un altro ricorso, presentato da un privato cittadino: allora il presidente della Regione Veneto aveva parlato di “eccesso di democrazia”. Sentenza che tuttavia a metà del mese era stata ribaltata dal Consiglio di Stato, a cui la Regione aveva fatto immediatamente ricorso. Ora tutto da rifare per questo progetto particolarmente caro al governatore Luca Zaia e agli imprenditori veneti.

L’iter del serpentone di cemento da 92 chilometri (di cui 50 in trincea), un’opera da 2 miliardi e oltre di euro che dovrebbe unire i due rami delle autostrade A4 e A 27 è a dir poco tormentato. Gli imprenditori la vorrebbero perché sperano che serva da volano per implementare l’economia dell’area e per l’indotto che creerebbe, comitati e cittadini la contestano dicendo che si tratta di un’opera inutile e anche dannosa, l’esecutivo Berlusconi con la consueta passione per le procedure di emergenza aveva tolto la competenza al Cipe e la aveva affidata al commissario straordinario. E ora si passa da un ricorso all’altro.

“E’ un vero pasticcio – spiega al Fattoquotidiano.it Francesco Celotto, del Movimento 5 Stelle Veneto, uno dei rappresentanti del Coordinamento pedemontana alternativa – e il 14 febbraio il Consiglio di Stato dovrà dare il giudizio di merito sulla sospensiva dei lavori. Poi ci sono altri ricorsi che devono arrivare a giudizio. Questa sentenza del Tar comunque conferma ancora una volta quello che diciamo da tempo: che bisogna resistere alla cementificazione, a un’opera che riteniamo nociva e inutile a quel “Metodo Chisso” che alla fine penalizza la collettività a favore dei privati”.

Celotto si riferisce a Renato Chisso, potente assessore alla mobilità della Regione Veneto. Il project financing con cui dovrebbe essere realizzata la mastodontica opera, denunciano i comitati, è fatto di clausole capestro che alla fine andranno a penalizzare i conti pubblici. I vari ricorrenti chiedono l’accesso agli atti da tempo, ma, dicono, il Commissario e la Regione non ce li fanno vedere.

A Bassano del Grappa ci sarà un’assemblea pubblica per discutere la vicenda. La vicenda, nonostante la rilevanza, per ora sembra rimanere gestita a livello regionale. C’è però chi dice che dell’affare Pedemontana Luca Zaia abbia cominciato a parlare anche a Mario Monti, nell’incontro che ha avuto con lui poco prima che il presidente del Consiglio partisse per gli Stati Uniti.

La necropoli fenicia di Cagliari torna al centro della polemica politica e divide il fronte che ha sostenuto il sindaco Massimo Zedda. Motivo dello scontro una delibera comunale sospettata di voler riaprire le porte alla speculazione di Tuvixeddu

Torna l'incubo cemento sulla necropoli di Tuvixeddu? A Cagliari si spacca il fronte che ha sostenuto il sindaco Massimo Zedda, vendoliano, e che sulla difesa delle tombe dall'assedio di 270 mila metri cubi di palazzine sembrava compatto. La giunta ha approvato una delibera che Italia Nostra giudica quanto meno ambigua, se non illegittima, e che chiede di ritirare. Nella maggioranza di centrosinistra si odono mugugni, mentre il primo cittadino incassa il sostegno dal gruppo di centrodestra che ha espresso il suo rivale alle elezioni, Massimo Fantola.

La questione è complicata, come tutta la vicenda di questi pregiatissimi colli che sorgono nel centro del capoluogo sardo e sui quali dal VI secolo a. C. fino all'età imperiale sono state scavate migliaia di tombe. Ma la si può ridurre, la questione, a un perimetro: quanto grande deve essere l'area di inedificabilità assoluta per stroncare le mire di chi vorrebbe premere sulla necropoli con una selva di edifici? Il perimetro deve comprendere la sola zona tutelata da un vincolo archeologico, già in vigore da anni e dove non si può costruire nulla? Oppure una zona più vasta, una cinquantina di ettari all'interno dei centoventi vincolati nel Piano paesaggistico dall'allora governatore regionale Renato Soru e che consentirebbe alle tombe di respirare, di essere cioè circondate da una fascia di rispetto, oltre che di struggente fascino?

Maria Paola Morittu, responsabile della Pianificazione territoriale di Italia Nostra, e un gruppo di intellettuali alla cui testa c'è lo scrittore Giorgio Todde (autore di un duro articolo su La Nuova Sardegna [e su eddyburg.it n.d.r.]) insistono per la tutela più vasta. E su questo punto pareva che anche l'amministrazione Zedda fosse assestata. Tanto più dopo una sentenza del Consiglio di Stato del marzo 2011 2 che dava pienamente ragione agli ambientalisti. La salvaguardia di Tuvixeddu è stata inoltre uno dei punti del programma elettorale 3con il quale il centrosinistra ha vinto le amministrative. Seguite, appena qualche mese dopo, dalla decisione della nuova giunta di non affiancare i costruttori nei contenziosi giudiziari (a differenza del governo cittadino di centrodestra).

Ma ecco spuntare la delibera della discordia, che contiene alcuni passaggi molto contestati. In essa si sostiene, ad esempio, che "per le aree comprese nel vincolo occorre valutare la compatibilità delle previsioni del PUC vigente (il Piano urbanistico comunale del centrodestra, n. d. r.) con la disciplina dello stesso vincolo". Oppure che "la fascia di tutela integrale possa essere fatta corrispondere con la superficie del bene sottoposto a vincolo ministeriale" (quale vincolo ministeriale? Quello archeologico? Si domandano preoccupati gli ambientalisti). O, ancora, si afferma la possibilità di ridurre la fascia di tutela, tutela che "dovrà in ogni caso tener conto delle destinazioni urbanistiche individuate dal PUC". Cioè, di nuovo, del Piano urbanistico della precedente giunta.

Al di là delle formule tecniche, il timore degli ambientalisti è che si voglia piegare il Piano paesaggistico di Soru, molto stringente, al Piano comunale approvato dalla giunta comunale di centrodestra, e non il contrario ("come sarebbe obbligatorio, alla luce della sentenza del Consiglio di Stato e del Codice dei beni culturali", sottolinea Maria Paola Morittu). Con la conseguenza che prevarrebbe il perimetro stretto di tutela e che, come voleva la vecchia amministrazione, si consenta la costruzione dei palazzi. "È la tutela francobollo", dice Todde.

La reazione di Zedda alle critiche è molto netta. "Noi vogliamo esattamente l'opposto. E con un'altra delibera avvieremo l'adeguamento del piano comunale a quello regionale", risponde il sindaco. "Per Tuvixeddu non ce la facciamo, da soli, a fronteggiare eventuali risarcimenti chiesti dai costruttori. Solo per l'annullamento di una piccola porzione del loro intervento, vogliono 12 milioni. E poi c'è l'Ici che hanno pagato. Deve intervenire la Regione. E noi puntiamo a trovare un intesa. Le accuse al Comune sono ingiuste, devono essere indirizzate alla Regione. Il nostro obiettivo resta quello della salvaguardia integrale di Tuvixeddu". "Ma allora perché nella delibera si insiste sulla possibilità di ridurre l'area di tutela? E poi i vincoli paesaggistici non prevedono risarcimenti, ma solo il rimborso delle somme già versate per le eventuali opere di urbanizzazione", incalza Morittu.

L'area della necropoli 5 è dentro un contesto di paesaggio che si vuole a tutti i costi mantenere intatto. E non solo per consentire la fruizione di un patrimonio archeologico che dall'età punica arriva all'Alto Medioevo, che ha pochi paragoni in tutto il Mediterraneo e che è tuttora quasi impossibile visitare. Ma anche perché da Tuvixeddu al colle di Tuvumannu e poi a quello che chiamano il Canyon, lo spettacolare, profondo taglio di tutta l'altura, è riconoscibile un sistema unitario, fatto di cavità naturali e di una foltissima vegetazione, luogo di culto dove nei secoli si sono praticate anche molte attività, da quella mineraria (esiste una specifica tutela per questo aspetto) a quella di cava. Tutt'intorno si è costruito in maniera dissennata, in particolare lungo via Sant'Avendrace dove sono sorti edifici che sovrastano le sepolture. Palazzi sono cresciuti anche su via Is Maglias, una via che, spiega l'archeologo Alfonso Stiglitz "ricalca esattamente un'antica strada che percorreva quella che si configura come una valle naturale tra le due cime del colle (Tuvixeddu a ovest e Tuvumannu a est), una strada funeraria di età punica ancora perfettamente leggibile, nonostante i devastanti interventi edificatori, ancora in corso".

Altri palazzi si vorrebbero costruire. La battaglia per evitare il saccheggio dura da anni, a colpi di ricorsi e di denunce, con l'allora Direttore regionale dei Beni culturali Elio Garzillo e l'allora Soprintendente Fausto Martino in prima fila. Nel marzo scorso la sentenza del Consiglio di Stato, che si era pronunciato a favore di una tutela molto estesa, e poco dopo l'elezione di Massimo Zedda, sembrava avessero messo fine ai progetti edificatori. Ma le mire degli immobiliaristi sono incontenibili. E i valori monetari di questo lembo della città elevatissimi.

postilla

Speriamo che giuristi avveduti tranquillizzino il sindaco Zedda e gli spieghino che il comune non ha nulla da pagare a causa di una legittima modifica dell’utilizzabilità edilizia dell’area di Tuvixeddu-Tuvumannu. Eddyburg chiede ai suoi amici giuristi di aiutarci a tranquillizzare il giovane sindaco. Non vorremmo che il terrorismo di presunti giuristi abbiano o stesso effetto distorcente della verità che provocò la propaganda dei cosiddetti “diritti edificatori” (e.s.)

L’ultimo numero dell’«Espresso» ha rivelato che il Consiglio Superiore per i Beni culturali ha approvato il versamento di 288.973 euro ai proprietari del Castello di Torre in Pietra, a Fiumicino: e cioè al presidente del medesimo Consiglio, il conte Andrea Carandini, e alle sue sorelle. L’aristocratico archeologo ha risposto – noblesse oblige – che non si cura di queste cose, e che dunque non si era accorto che si discutesse di un’elargizione diretta a lui stesso. Se ne fosse accorto – pensa il lettore ingenuo – forse si sarebbe allontanato per qualche minuto dalla presidenza: anche solo per eleganza (gentilizia, se non istituzionale).

Si potrebbe chiudere qua il discorso – magari augurandosi che, di norma, il presidente sia al corrente di ciò che sta discutendo l’organo che presiede – se non fosse che l’«Espresso» ha trascurato la vera sostanza dell’episodio.

Perché lo Stato, cioè tutti noi, dovrebbe elargire una cifra cospicua a un privato non certo indigente per la conservazione di un suo palazzo? La risposta porta diritto al cuore del nostro modello di tutela, ed è che le opere o gli edifici storici non si considerano in base alla loro proprietà, ma al grado del loro interesse culturale. Se un bene è davvero importante (e Torre in Pietra lo è di sicuro, grazie alle opere architettoniche e figurative che racchiude, tra le quali spiccano gli affreschi di Pier Leone Ghezzi) il proprietario deve risponderne alla collettività. Perché, accanto alla proprietà giuridica, esiste una proprietà, costituzionale e morale, ben più ampia: in questo senso, quel bene appartiene a tutta la nazione italiana, la quale dunque può contribuire economicamente al suo mantenimento. Naturalmente, però, questo diverso modo di possedere deve potersi esercitare, nell’unico modo possibile: quel bene, per quanto privato, dev’essere accessibile a tutti. È per questo che l’articolo 38 del Codice dei Beni Culturali impone l’«accessibilità al pubblico dei beni culturali oggetto di interventi conservativi», prescrivendo che «i beni culturali restaurati o sottoposti ad altri interventi conservativi con il concorso totale o parziale dello Stato nella spesa, o per i quali siano stati concessi contributi in conto interessi, sono resi accessibili al pubblico secondo modalità fissate, caso per caso, da appositi accordi o convenzioni da stipularsi fra il Ministero ed i singoli proprietari», e ancora che «gli accordi e le convenzioni stabiliscono i limiti temporali dell’obbligo di apertura al pubblico».

E qui casca l’asino (absit iniuria verbis) perché Torre in Pietra non è visitabile. Se non siete Mara Carfagna (che ha noleggiato il castello, e ci si è sontuosamente sposata), o Silvio Berlusconi (che le ha fatto da testimone) non avete infatti nessuna possibilità di vedere come sono stati spesi i vostri soldi. Sul curatissimo sito internet ( www.castelloditorreinpietra.it  ) la voce “visita” si risolve in una galleria di belle fotografie, e mentre abbondano le indicazioni per l’affitto, non c’è traccia dell’assoluzione dell’obbligo di accessibilità. Volendo approfondire la faccenda, ho chiamato l’amministrazione per ben tre volte, e in giorni diversi, presentandomi come un privato cittadino, come un insegnante e infine come uno studioso di barocco romano e chiedendo quali fossero le modalità per visitare il castello. La risposta è stata sempre la stessa, cortese ma assai stupita: «Il castello è privato – ha capito? Pri-va-to! – e non è visitabile. Ma se le serve per un matrimonio chiami al …».

Quel che sarebbe grave (perché illegale) per ogni cittadino, diventa gravissimo per il presidente del Consiglio superiore per i Beni culturali.

In un paese normale, basterebbe molto meno per dimettersi.

Ma in Italia, dove i ministri comprano case senza saperlo, figuriamoci se il professor Andrea Carandini si sente tenuto ad accorgersi di auto-stanziarsi trecentomila euro, o a sapere se casa sua sia aperta o no ai cittadini che gli elargiscono quella somma. E poi, il pensiero unico ortodosso sul patrimonio culturale non prevede oggi la totale abdicazione dell’interesse pubblico nei confronti degli interessi privati? E il conte Carandini all’ortodossia – comunista o ultraliberista, poco importa – ci ha sempre tenuto.

La Triennale di Milano, che fu una grande istituzione culturale, ha un nuovo presidente, Claudio De Albertis, che già sedeva nel consiglio di amministrazione, ingegnere noto per essere da tempo presidente di Assimpredil, cioè presidente della associazione dei costruttori della provincia di Milano, i fautori, evidentemente, insieme con i precedenti amministratori, dal sindaco Moratti al suo assessore Masseroli, di quell’ondata di cemento che si è abbattuta e si sta abbattendo su Milano. De Albertis viene dopo Rampello, Davide Rampello regista di varietà prima in Rai e poi alla Fininvest, autore tra l’altro di Premiatissima e di Risatissima, per canale 5, ormai lodatissimo e rimpiantissimo ex presidente per due trienni, indimenticabili secondo alcuni, modestissimi per quanto variopinti a mio timidissimo giudizio.

Su De Albertis non saprei che dire. Non lo conosco, se non per le sue imprese edili (credo siano opera sua molti di quei contestati parcheggi sotterranei, compreso quello che si sta scavando sotto la Basilica di S.Ambrogio, parcheggi fortemente voluti da un altro sindaco di Berlusconi, e cioè Gabriele Albertini). Sarebbe offensivo dire che si sarebbe potuto trovare di meglio. Mi auguro che De Albertis faccia benissimo. Però non posso non condividere una dichiarazione dell’assessore alla cultura Stefano Boeri. Che trascrivo: “Il mio orientamento, come si sa, era del tutto diverso e chiedeva una discontinuità con il passato, anche in considerazione della difficile situazione di bilancio in cui Triennale si trova. Faccio quindi appello a tutte le forze vive e responsabili della cultura milanese affinchè sostengano con idee e programmi innovativi un luogo fondamentale per l’architettura l’arte e la cultura di Milano e difendano la qualità scientifica e artistica della sua programmazione, in coerenza con il prestigio che – anche grazie alla nostra Triennale – questa città si è conquistata in Italia e nel mondo”. In modo meno istituzionale, Boeri ha pure dichiarato che non si può pensare a un risanamento economico della Triennale, senza ripensare a un programma di rilancio culturale che rimetta al centro l’architettura e il design, un programma che riporti la Triennale in rete con le grandi istituzioni internazionali…

Insomma Boeri, gentilmente, ha calato una pietra tombale sul passato di Rampello, considerando quella di De Albertis la scelta mediocre di una maggioranza (di centrodestra) che tarda a capire che cosa sta succedendo a Milano e in Italia, che non capisce evidentemente il valore della Triennale, che conobbe, anche durante il fascismo (la Triennale venne fondata negli anni venti e trovò la sua sede definitiva negli anni trenta, nel palazzo che fu costruito su progetto di Giovanni Muzio e con i soldi di un industriale tessile, Antonio Bernocchi) giorni e giorni di grande fermento culturale, proponendosi come luogo di conoscenza e di dibattito delle idee più nuove dell’architettura e del design (e di progetto: nacque qui ad esempio, per merito di Piero Bottoni, una delle più interessanti esperienze urbanistiche del dopoguerra in Italia, il Qt8, Quartiere dell’ottava Triennale), in stretto rapporto con quanto andava maturando nel resto del mondo. Non vorrei che De Albertis venisse invece a presentarci qualche bel manufatto della Milano d’oggi, tipo i palazzoni di Citylife o i banali semigrattacieli del Garibaldi o i suoi umidi parcheggi sotterranei. Il dubbio ce l’ho. Lui ha già spiegato che alla Triennale si dovrà discutere del futuro di Milano: purtroppo un futuro al cemento non ce l’hanno mai fatto mancare.

Una postilla sull’articolo 18. Dalla Triennale alla Biennale, per citare Franco Bernabè, che a Venezia è stato ben tre anni alla presidenza, ma che è stato soprattutto amministratore delegato dell’Eni, di Telecom ed è tornato a capo di Telecom: cioè uno che da una parte o dall’altra ha sempre mandato a casa migliaia di lavoratori. L’ho sentito a Ballarò, intervistato da Floris, trascinato nell’annoso dibattito sull’articolo 18. Bernabè ha ricordato con eleganza le tante ristrutturazioni da lui guidate, ha ricordato le trattative sindacali (con Cgil, Cisl e Uil, ha precisato), ha ricordato quanto poco d’ostacolo fosse stato l’articolo 18, concludendo che l’articolo 18 sarebbe meglio lasciarlo stare, perché vengono prima altri problemi. Sembrerebbe tutto semplice, quasi ovvio, persino banale…

postilla

La Triennale si occupa da sempre di faccende urbane, la possiamo considerare una vera e propria fabbrica di città. Vero che l’unico prodotto direttamente tangibile di questo tipo resta ancora il quartiere modello QT8 voluto dal commissario Piero Bottoni a far da riferimento alla ricostruzione post-bellica. Ma vero anche, come ci insegnano tutti i giorni, che viviamo nel mondo della comunicazione, e non c’è bisogno di manipolare materia per cambiare il mondo: a quello ci possono pensare altri. Solo per fare un esempio particolarmente vicino alle tematiche di questo sito, è dalla Triennale che è partito qualche anno fa con grande clamore lo slogan pataccaro della “città infinita”, espressamente pensato per nascondere sotto il tappeto qualunque forma di considerazione oggettiva sullo sprawl e i suoi costi collettivi. Con risultati a modo loro incredibili, se è vero come è vero che molti studenti di discipline del territorio (e non solo loro ahimè) usano correntemente e acriticamente quell’eresia geografica. In quali altri modi l’impegno diretto di un operatore delle trasformazioni urbane potrà influenzare l’urbanità in senso lato e meno lato? Bisognerà stare a guardare con una certa attenzione, questo dispiegarsi dell’urbanistica subliminale (f.b.)

I costruttori milanesi lamentano la mancanza di aree disponibili subito per costruire alloggi sociali, a prezzo scontato? «Le aree per l'housing sociale ci sono già. A sufficienza per creare subito quattromila alloggi», rispedisce l'obiezione al mittente Ada Lucia De Cesaris, assessore all'Urbanistica del Comune. Assimpredil considera insostenibile la quota di affitto (0,10 ogni metro quadrato di affitto convenzionato e 0,05 di canone sociale) presente nei nuovi progetti? «Non solo il modello è economicamente sostenibile ma farà riprendere il mercato. Anche a vantaggio delle imprese di costruzione», ribatte secca l'assessore, rispedendo al mittente le due principali obiezioni al modello dihousing sociale contenuto nel Pgt. Obiezioni segnalate dagli operatori del settore su queste pagine mercoledì scorso.

Per quanto riguarda le aree, De Cesaris fa riferimento a quelle già messe sul piatto dalla precedente giunta e non ancora sfruttate ma anche a spazi nuovi.

«L'area pubblica di Ronchetto sul Naviglio, per esempio, sarà destinata a residenza sociale», anticipa l'assessore. Che poi torna sulla questione più delicata, quella degli indici di edificabilità: «Il nostro ridisegno degli indici non è punitivo. Non cambia la sostanza rispetto agli indici del vecchio Prg. Certo, rispetto al Pgt messo a punto dalla giunta precedente abbiamo ridotto un'edificabilità enorme. Che nella situazione attuale neppure per gli operatori del settore sarebbe sostenibile».

Tornando alla quota di affitto, secondo De Cesaris «tutti dobbiamo renderci conto che il mondo è cambiato. La gente ha bisogno di locazione e vendita a prezzi accettabili. Ed è a questa domanda che dobbiamo dare una risposta. Molti imprenditori ci hanno già garantito che si può fare». Chi vuole concentrarsi solo sull'edilizia libera anche nelle aree superiori a diecimila metri quadrati può sempre consegnare al Comune la parte dell'area destinata a vendita convenzionata e ad affitto convenzionato o sociale. Ma palazzo Marino avrà le forze per gestire la messa sul mercato, attraverso bandi ad hoc, di numerose aree a costo zero (o quasi) per l'housing sociale? «Certo che abbiamo forze adeguate, questo è un compito e un ruolo che spetta al Comune».

Se sull'affitto convenzionato c'è un dialogo aperto con i costruttori, sulla quota dello 0,05 di canone sociale nessuno — né imprese, né cooperative — vuole sentire ragioni: «Troppo costoso, non si può fare dicono tutti». «Anche questo non è un problema — taglia corto De Cesaris —. Stiamo creando un sistema di monetizzazione. Permetteremo di convertire la quota di edilizia sociale in edilizia agevolata in cambio di una contropartita economica. Questi soldi andranno ad alimentare un fondo per chi fa residenze sociali».

C’è un giudice a Cagliari”, potranno dire adesso i sardi, autentici e d’adozione, che per anni si sono battuti contro lo scempio edilizio di Capo Malfatano. Solo che il mugnaio di Potsdam a Berlino aveva ottenuto giustizia dal sovrano, Federico il Grande per l’esattezza. A Cagliari sono stati i magistrati del Tar della Sardegna a fermare una speculazione terrificante che da oltre dieci anni sembrava marciare spedita con il compiaciuto consenso del sovrano, il comune di Teulada, e la sospetta distrazione della Regione.

In un angolo di paradiso incontaminato, lungo la costa sud-occidentale dell’isola, tra Pula e Capo Spartivento, una variegata compagine di cavalieri del cemento come Silvano Toti, il gruppo Benetton e la Sansedoni (gruppo Montepaschi), stavano costruendo fino a ieri un insediamento turistico da 190 mila metri cubi, pari, se volete farvi un’idea, a dieci palazzi di dieci piani. A fine lavori la gestione del prestigioso “resort” era destinata alla Mita Resort di Emma Marcegaglia. Se il Consiglio di Stato confermerà la sentenza del Tar, arriverà l’ordine di demolizione di quanto edificato fino a oggi.

Al posto del mugnaio di Potsdam, in questa che sembra una favola per far restare i bambini a bocca aperta, c’è un pastore ultraottantenne, Ovidio Marras, che parla un sardo così coriaceo da dover essere sottotitolato nelle rare interviste televisive. Ovidio, che in spregio a Mario Monti ama il posto fisso, ha sempre praticato la pastorizia a Capo Malfatano. E davanti a casa sua c’è uno stradellino su cui vanta da sempre un diritto di compossesso. La Sitas dei suddetti imprenditori non se n’è fatta un problema, e sopra lo stradellino ha costruito un lussuoso albergo.

Il pastore si è rivolto al Tribunale di Cagliari, sostenendo che non potevano costruire senza il suo permesso, e che lui il permesso non lo dava perché voleva continuare a fare la strada dritta anziché il giro largo seppure asfaltato. Il pastore Marras ha fatto un 700, come dicono i principi del foro, un ricorso d’urgenza di quelli con cui normalmente sono i grandi imprenditori a scambiarsi fendenti milionari. Ovidio, pur protestando in sardo, ha avuto ragione in italiano. I giudici hanno ordinato alla Sitas di demolire l’albergo e ripristinare lo stradellino del pastore.

Nel frattempo una militante di Italia Nostra, Maria Paola Morittu, fiancheggiata dal combattivo medico-scrittore Giorgio Todde, molto popolare in Sardegna, stava preparando un altro colpo di mortaio contro il cemento di Capo Malfatano. “Quando ho visto per la prima volta i cantieri vicino alla spiaggia di Tuerredda, a ferragosto del 2010, mi sono venute le lacrime agli occhi”, racconta adesso che ce l’ha fatta. Si è messa al lavoro utilizzando la sua laurea in giurisprudenza e ha convinto i vertici nazionali di Italia Nostra a impugnare davanti al Tar le delibere comunali e regionali alla base della cementificazione.

Ieri è stata pubblicata la sentenza con la quale i giudici amministrativi hanno dato ragione a Italia Nostra, annullando quattro delibere chiave: una sentenza che rende di fatto abusivo tutto l’insediamento.

In effetti, scorrendo la sentenza, c’è di che rimanere esterrefatti. Nel 15 febbraio 2002 Sitas srl inviò all’assessorato per la Difesa dell’Ambiente della Regione Sardegna quattro distinte istanze di “verifica preliminare di compatibilità ambientale”, dividendo in quattro un intervento assai massiccio distribuito su 700 ettari di terreno a due passi dal mare. Il 18 settembre, dopo sei mesi di accurati studi, gli uffici della regione giunsero alla conclusione che per così poco non c’era certo bisogno della “valutazione d’impatto ambientale” (VIA).

E da lì seguirono le rapide autorizzazioni del comune di Teulada, abbagliato dalla prospettiva di arricchimento e dalla disponibilità di posti di lavoro. La lezione di un pioniere dell’ambientalismo come Antonio Cederna, tra i fondatori di Italia Nostra, a Teulada non era arrivata. Eppure trent’anni fa, proprio sul quotidiano La Nuova Sardegna, scrisse profeticamente che “l’ambiente naturale non è una merce da barattare, ma un patrimonio prezioso da custodire”. Una verità che il pastore Ovidio Marras sapeva già, i politici sardi un po’ meno.

Colpisce infatti che la marcia trionfale del cemento, a Capo Malfatano, è proseguita nonostante i celebrati interventi a tutela del governatore Renato Soru, la nota legge “salvacoste” (2004) e il “piano paesaggistico” (2006): semplicemente i provvedimenti di Soru prevedevano una deroga per gli interventi sui quali era già stata approvata la convenzione urbanistica. Poco importa che la convenzione urbanistica viene prima delle verifiche ambientali e paesaggistiche: di fatto gli editti salvacoste di Soru furono scritti in modo da aprire un’autostrada per il cemento di Capo Malfatano, nonostante che in quel momento non un solo mattone fosse ancora stato posato.

L’avvocato di Italia Nostra che ha vinto la causa al Tar si chiama Filippo Satta. Suo padre, Sebastiano, era il magistrato scrittore diventato celebre per il romanzo intitolato “Il giorno del giudizio”. Ieri è stato il giorno del giudizio per suo figlio, che vincendo al Tar ha scritto una pagina importante non solo per la Sardegna: i furbetti del cemento si possono fermare.

Sulla vicenda vedi su eddyburg l'articolo di Maria Paola Morittu, che nell'agosto 2010 ha aperto la critica e lanciato l'appello, e quelli di Giorgio Todde, Andrea Massidda, 16383/0/128/ Mauro Lissia, Sandro Roggio. Su Ovidio vedi anche l'articolo di Mauro Lissia e il servizio di Giorgio Galeano, per TG3, su YouTube.

La regola era stata inaugurata con il nuovo piano regolatore generale di Roma, una manciata di anni fa. Era nota con il nome di “compensazione” e funzionava così: il Comune acquisiva dal privato l’area che riteneva utile alla riorganizzazione del tessuto urbano (per farci una scuola, un parco, un ufficio), e in cambio offriva al privato la possibilità di edificare in un’altra area della città con un moltiplicatore che ne pesasse il pregio (più ci si allontanava dal centro, più si accrescevano le cubature). Era un sistema che andava certamente incontro alle difficoltà di cassa del Campidoglio e alla nota fame dei palazzinari del luogo, ma si poteva pensare ricadesse in un medesimo disegno organizzativo: quello della costruzione di una città che alla fine rispondesse a un sistema di regole.

Adesso, in quella Roma alle prese con le medesime difficoltà di cassa, il sistema della compensazione si è trasferito anche alla costruzione delle metropolitane, opere che, di norma, sono da sempre affidate alla mano pubblica: chi costruirà pezzi di metropolitana a Roma, otterrà dal Comune la possibilità di edificare su aree pubbliche della città (peraltro già densamente popolate) nuove case. Domenica sera, alla trasmissione Presadiretta di Riccardo Iacona, Lisa Iotti ci ha illustrato, progetti e proposte alla mano, quello che dal settembre 2010 è il nuovo credo dell’amministrazione Alemanno. L’idea che parte dai prolungamenti della linea B (la cosiddetta “B1”), quelli verso Bufalotta da una parte e Casal Monastero dall’altra, ha in realtà il boccone più ghiotto nel tormentato cantiere della metropolitana C, già finito sotto i riflettori la scorsa settimana per la bocciatura senza appello che ne ha fatto la Corte dei Conti in una dettagliata relazione.

Parliamo della terza linea della metropolitana di Roma, che, progettata nel 1990, avrebbe dovuto vedere la luce per il Giubileo del 2000. Undici anni dopo quella data, la tratta che avrebbe dovuto collegare la periferia sud della città (borgata Finocchio, Torre Angela, Giardinetti, Centocelle) a Piazzale Clodio, passando per San Giovanni, Colosseo e Piazza Venezia, è ancora in mezzo al guado. Con i costi già triplicati alla esorbitante cifra di 5 miliardi e 72 milioni (+163% certifica la Corte dei Conti) a causa di quello che nessuno ignorava all’aggiudicazione dell’opera (vale a dire il tessuto archeologico del sottosuolo capitolino) l’opera è in ritardo di quasi un anno anche rispetto ai tempi della gara affidata nel 2006. La linea C rischia di essere per Alemanno e per i romani un pozzo di spesa senza fondo. Se infatti si ha una qualche certezza sulle tratte che dal capolinea sud di Pantano muovono verso Centocelle (che si stima di completare entro il 30 giugno 2012, con quattordici mesi di ritardo), piazza Lodi (30 giugno 2013) e San Giovanni (31 dicembre 2014), è ancora un mistero che strada prenda la parte “pregiata” della metropolitana, quella che dal Colosseo porta a Piazzale Clodio, in gergo chiamata “T2”.

Sono sette chilometri. Per farli le società capofila del consorzio di impresa che sta costruendo il resto della metropolitana (Vianini, Astaldi, Lega Cooperative e Ansaldo) hanno chiesto che gli venissero trasferite le preziose caserme e depositi Atac dei quartieri Prati e Flaminio (175mila metri cubi in pieno centro, pronti ad essere “valorizzati”) e 1,2 miliardi che il Comune dovrà pagare cash. In più i privati chiedono la gestione della linea e anche un canone di 312 milioni di euro l’anno per i prossimi 35 anni. Cioè, tenere aperta la metropolitana di Roma costerebbe qualcosa come 850mila euro al giorno, anche al netto del patrimonio che il Comune dovrebbe alienare ai privati. “È evidente - dichiara Massimiliano Valeriani, presidente Pd della commissione Trasparenza in Consiglio comunale - che un accordo del genere la giunta non può farlo. Un appalto di queste dimensioni andrà per forza di cose messo a gara”.

Il problema, però, resta sempre lo stesso. Se Alemanno (come ha dichiarato) non ritiene di poter prendere in considerazione la proposta fatta dai costruttori, con quali soldi si potrà costruire quel pezzo di metropolitana? È sempre Valeriani a rispondere: “Quella che la giunta si apprestava a portare avanti era un’operazione spericolata. Al punto in cui siamo mi sembra difficile pensare che i privati non debbano contribuire all’opera, ma va trovata una misura. Non ci si può indebitare per trent’anni a venire lasciando tra l’altro ulteriori pezzi di territorio ai costruttori. Non si può, credo, nemmeno lasciargli la gestione del metrò. Non esiste in nessun posto del mondo che due società gestiscano linee interconnesse”.

I «canali-boulevard» di Stendhal e l'orrore del Manzoni: «Onda impura»

di Annachiara Sacchi

Certo, il paesaggio non doveva essere niente male. Una «quasi» Venezia con ponti, scorci romantici, vedute mozzafiato — e qualche prova si ha alle Gallerie d'Italia, con le opere di Giuseppe Canella e Angelo Inganni (mirabile una veduta di via San Marco). Ma la Milano dei Navigli — progettati da Leonardo, amati da Stendhal che li definiva boulevard, rimpianti, vagheggiati, sognati dai cittadini del XXI secolo — non era tutto questo splendore. Alessandro Manzoni si lamentava delle acque stagnanti (le chiamava «onda impura») e pure Filippo Turati detestava quel «gorgo viscido chiazzato e putrido». Qualcosa, mentre la città aumentava il numero dei suoi abitanti e celebrava la modernità, andava fatto. Il fascismo scelse la via più semplice: interrare tutto.

Il 6 marzo 1929 presero il via i lavori per coprire la cerchia dei Navigli, l'ultimo barcone che trasportava le bobine di carta fu scaricato sotto il Corriere della Sera il 15 marzo di quell'anno. Milano non avrebbe più avuto una circle line navigabile — forse un po' puzzolente e piena di topi e zanzare — quella che Luca Beltrami, il «salvatore» del Castello Sforzesco, cercò di difendere fino all'ultimo. In compenso, guadagnò una circonvallazione interna. Addio alla città di Leonardo, al primo canale navigabile del mondo. Fu proprio il genio di Vinci, prima di arrivare a Milano nel 1482, a scrivere a Ludovico il Moro dicendogli di sapere «condurre acque da un loco a un altro», sfruttando il fossato difensivo costruito tra il 1157 e il 1158 e quella «bella, ricca e fertile pianura» descritta da Bonvesin de la Riva nel XIII secolo «tra due mirabili fiumi equidistanti, il Ticino e l'Adda».

Dimostrò tutto il suo talento, Leonardo. E durante il suo primo soggiorno milanese (tra il 1482 e il 1489) disegnò una pianta della città in cui viene indicata la necessità di prolungare il Naviglio della Martesana fino alla «cerchia». Il suo pallino, però, rimase il Naviglio Grande, realizzato tra la metà del XII e del XIII secolo: «Vale 50 ducati d'oro, rende 125 mila ducati l'anno, è lungo 40 miglia e largo braccia 20». Un sistema redditizio. Altri ingegneri, dopo la morte di Leonardo, proseguirono nel disegnare la Milano dell'acqua. Il Naviglio di Paderno, finanziato da Francesco I, fu progettato nella seconda metà del '500 e terminato nel 1777 dall'amministrazione austriaca, mentre il Naviglio Pavese fu concluso nel 1819.

Milano porto fluviale. Utile fino al boom delle ferrovie e del trasporto su strada, gestibile finché le condizioni igieniche della città non diventarono drammatiche. Forse, nel 1929, non c'era altra soluzione se non la chiusura di quei canali. Ma da allora, sotto il cemento e il traffico, le acque «soffocate» dall'asfalto non hanno mai smesso di farsi sentire. E di suscitare dibattiti e divisioni, nostalgie e rimpianti.

Un'Expo per «riscoprire» i Navigli

di Elisabetta Soglio

Milano? Una città d'acqua. Expo rispolvera una vocazione antica e si capisce perché scatti l'applauso quando Umberto Veronesi lancia la proposta: «Dovremmo scoprire i Navigli». Sul palco del Teatro Dal Verme si parla della Milano di ieri, grazie a ricordi di milanesi d'eccezione, e di quella che diventerà con Expo 2015. Della Darsena che verrà risistemata, delle vie d'acqua e del nuovo percorso ciclabile che collegherà la città alla zona dell'esposizione, creando un «anello verde-azzurro» che dalle dighe del Panperduto al Villoresi e al Naviglio, porterà acqua e cultura: un finanziamento di 175 milioni, la più consistente eredità dell'evento.

Veronesi, che propone anche di chiudere il centro alle auto, insiste sul fatto che «l'acqua toglierebbe aridità alla nostra città e renderebbe meno aridi anche i nostri cuori». Gli fa eco Fedele Confalonieri, che oltre ai Navigli scoperti fa una petizione al sindaco: «Sul Naviglio in questi giorni d'inverno tanti anni fa vedevi la nebbia che saliva ed era una grande poesia».

Poi c'è Umberto Eco, che ammonisce: «Stiamo rischiando di perdere il senso dell'acqua» e Luca Doninelli a ricordare che «Milano porta la memoria dell'acqua anche nei suoi palazzi e nei suoi paesaggi». Fra gli uni e gli altri, le immagini e gli interventi dei commissari Roberto Formigoni e Giuliano Pisapia e dell'ad di Expo, Giuseppe Sala, raccontano cosa resterà dopo il 2015.

Lungo il percorso si potranno ammirare le bellezze del territorio: da Villa Arconati («Che 40 anni fa era uno dei luoghi più belli d'Europa», sospira Philippe Daverio) a Cascina Merlata. Gualtiero Marchesi propone il piatto per Expo: «Toglierò la foglia d'oro e lascerò un bel risotto giallo». «Milano è un modo per trovare la convivenza delle diversità», spiega Salvatore Veca dissertando con Piergaetano Marchetti, che si rivolge ai giovani: «Usate sempre la ragione e seguitela». Lo spettacolo al Dal Verme serve per parlare di Expo: «Mi aspetto — è l'auspicio di Livia Pomodoro — che la città si mobiliti per dimostrare che Milano può essere simbolo di una rinascita di tutto il nostro Paese».

Il dibattito sui Navigli, intanto, è aperto. E il consigliere regionale udc, Enrico Marcora, propone: «Invece di costruire un nuovo canale per unire la città al sedime di Expo è meglio investire quei soldi per riaprire i Navigli milanesi, là dove possibile».

Il 20 gennaio scorso i funzionari del Comune si sono presentati a Palazzo Venezia chiedendo la documentazione su un piccolo restauro in corso, appena un paio di ponteggi. Gelosissimi delle loro competenze che comprendono la tutela dei beni culturali, i funzionari dello Stato si sono rifiutati e s'è scatenato un parapiglia: nervi tesi, voci stridule che si sovrapponevano, qualche minaccia, torve lettere tra le amministrazioni. È il primo frutto avvelenato del decreto attuativo sulla legge per Roma Capitale, che affida al Campidoglio funzioni nella valorizzazione e, tremate!, anche nella tutela dei Beni Culturali. Così, a dispetto delle leggi e della Costituzione repubblicana, il sindaco oltre che sulla città potrà allungare le mani anche sulla archeologia, l'arte, i monumenti: ovvero il nostro patrimonio più importante e prezioso.

DECRETO FUORI LEGGE. Redatto dal precedente esecutivo, approvato il 21 novembre scorso nella prima riunione operativa del Consiglio dei ministri del governo Monti, e ora in via di conversione in legge, il decreto contiene diversi profili discutibili. All'articolo 1 viene «istituita un'apposita sessione della Conferenza Unificata tra Roma Capitale (il Comune), lo Stato, la Regione Lazio e la Provincia». Gli articoli 2 e 4, attribuiscono alla Commissione competenze nella «valorizzazione.... anche ai fini del rilascio di titoli autorizzatori, nulla osta e pareri preventivi nell'ambito di procedimenti amministrativi concernenti beni culturali presenti nel territorio di Roma Capitale». Nella sostanza i rappresentanti del Sindaco potranno mettere bocca dall'orario dei musei dello Stato fino al rilascio delle licenze per costruire in zone di interesse archeologico, artistico o architettonico. Si tratta di una della funzioni fondamentali della tutela, che la Costituzione, articolo 117, affida all'esclusiva potestà allo Stato, vale a dire al Ministero dei Beni Culturali. Anche il Codice per i Beni e le Attività Culturali (D. Lgs. 42/2004) ribadisce che il Mibac ha «le funzioni di tutela sui beni culturali», estendendole a scanso di equivoci a tutti gli interventi che coinvolgono beni pubblici o privati. Eppure qualcuno ha voluto equivocare. Ma c'è di più: è assai discutibile che una conferenza possa emettere autorizzazioni o pareri sull'impatto ambientale.

A tutela dei cittadini, la Legge 241 del '90, prescrive tassativamente per ogni procedimento di individuare un'amministrazione competente e uno specifico responsabile — persona fisica. Una sessione della Conferenza per Roma Capitale non è, né potrà mai essere, un'amministrazione competente o una persona fisica da individuare come responsabile. Il decreto, insomma, appare in palese contrasto con la Costituzione e con la legge. In palese contrasto con la Costituzione e con la legge, il decreto in definitiva crea evidenti problemi — di fronte a un ricorso contro un'autorizzazione chi ne risponde, una conferenza? —, per non parlare dei conflitti d'interesse: i lavori del Comune di Roma li autorizza il Comune di Roma! Dulcis in fundo: i beni ecclesiastici sono esclusi da un provvedimento tanto singolare. «Orate fratres»: ecco i privilegi «a divinis». Pretesa dall'attuale Sindaco di Roma Alemanno, lasciata in eredità dal precedente governo Berlusconi all'attuale di Monti, questa normativa contiene tali e tanti punti controversi che avrebbe meritato una più seria e pacata discussione parlamentare invece d'essere approvata frettolosamente come decreto legge, peraltro l'ultimo giorno utile prima della decadenza del provvedimento. Gli interessi in gioco sono enormi e, per fare qualche ipotesi d'attualità, Alemanno avrebbe un paio questioncelle da risolvere. A cominciare dal parcheggio sotto via Ripetta, cui il sindaco tiene tanto e che dovrebbe sorgere in un terreno sovraccarico di antiche e importantissime vestigia, che fino a oggi hanno imposto di negare qualsiasi autorizzazione.

E poi i lavori per le pretese Olimpiadi, gli scavi della Metro (dai costi triplicati col sindaco che dà la colpa agli archeologi, che hanno semplicemente svolto il loro lavoro e con estrema puntualità), e tanti altri appetiti che si scatenano mangiando. Ma al di là del fatto che oggi in Campidoglio ci sia Alemanno, d'ora in avanti e per sempre questo decreto prevede che Regione, Provincia e Comune — amministrazioni antonomisticamente soggette, per non dire sensibili, a pressioni più o meno limpide —, decidano sul nostro patrimonio. E questo attraverso la sessione di una Conferenza che rischia di restare in bilico fra una trincea di veti incrociati e un mercato delle vacche. Il 21 febbraio scadono i termini per la conversione in legge di questo decreto.

Iniziative

Se ne discute:

L'associazione obiettivo comune organizza per questo lunedì una discussione pubblica sul secondo decreto per Roma Capitale. L'appuntamento è presso il Tempio di Adriano, piazza di Pietra (www.obietttivocomune.it).

Ė da oltre un anno che chiedo sui giornali sardi che Cappellacci spieghi cosa intende fare sul Ppr. Senza successo: non risponde a nessuna domanda sul governo del territorio dopo avere fatto intendere chissà che cosa. Questa estate sembrava imminente la conclusione del percorso iniziato un po' tempo fa per rendere inefficace il piano paesaggistico – come pensano molti – , per apportare qualche indispensabile puntualizzazione – come dice il presidente della Regione. Non si capisce cosa ci aspetta, dopo i botti di ferragosto: l'annuncio della catarsi urbanistica sarda, la fine di un'epoca iniziata nel 2004. E che ci aveva dato un po' di lustro però, compensando l'idea della Sardegna solo Billionaire, tutta palcoscenico per cafoni ricchi, almeno in quelle due settimane-choc per l'ecosistema insulare (di cui dicono, in modo inequivocabile, i depuratori in tilt).

Cappellacci simula, va avanti nel solco della commedia berlusconiana doubleface. Pensa alle maniere spicce per togliere vincoli paesaggistici, e insieme si destreggia nella costruzione di un modello teorico per elevarle al rango di antidoti al maleficio-Ppr. C'è agli atti la versione volgare: lo slogan nei comizi con B. “scaldate i motori delle betoniere”, destinato alla platea di intenditori. Evidentemente insufficiente. Perché qualcosa bisogna pur dirla alle persone per bene che hanno votato la destra e ora cominciano a dubitare. Ed ecco la parata “Sardegna nuove idee”, parodia della partecipazione, cortina per celare i movimenti che contano e disorientare con il messaggio “siamo tutti ambientalisti”. Una lunga fase che si è conclusa questa estate con il tripudio di pagine di pubblicità sui giornali (che hanno messo in conto ai contribuenti). Per rassicurarci: il nuovo piano sarà come come lo vuole la gente, niente a che vedere con ciò che dicono i detrattori di sinistra, come scrive il Quotidiano vicino al governo regionale Ma intanto sono pronti a festeggiare tutti quelli che vedono nel Ppr disarmato la nemesi storica di Soru, Tuvixeddu come la campagna di Russia per Napoleone.

La domanda: a che punto siamo dopo sei mesi dalla fanfara e a tre anni dall'insediamento della prima giunta Cappellacci ? E' urgente sapere. Perché la promessa di un nuovo Ppr ha fatto sì che i comuni costieri smettessero o rallentassero le attività di adeguamento dei piani comunali a uno strumento in procinto di essere cancellato o tramortito. Roba che non dà l'idea del partito del fare preoccupato per la sorte della Sardegna. Uno stato di incertezza nelle regole allontana gli investitori buoni e accende la fantasia dei maneggioni. Per questo è bene parlare chiaro, oltre le tattiche politicanti. Smettendo la catena solidale tra piani casa, leggi sul golf e nuovo Ppr, basata sul sostegno reciproco tra strumenti difettosi, confidando che uno aggiusti l'altro per strada. Provvedimenti diversi: in marcia divisi per colpire uniti, con eccesso di prosopopea e noncuranza di Codice dei beni culturali e Costituzione

Ė successo infatti, e si tratta di una circostanza essenziale, che due delle tre punte della strategia siano malferme per l' impugnativa del governo Berlusconi prima e poi del governo Monti. Che ha intravisto nella legge sul golf seri difetti, e per estensione nel piano casa ultima versione e che riguarderà il nuovo Ppr se scantonasse abusando delle prerogative. La due deprecabili leggi, assumendo sembianze e competenze improprie, prefigurano un inammissibile arbitrio: la giunta regionale autorizzata a modificare il piano paesaggistico per individuarvi, a sua discrezione, le aree – verosimilmente preziose – per campi da golf e case. Senza sentire lo Stato che quel piano ha condiviso, perché lo Stato ha competenza primaria in materia di paesaggio, e sui beni paesaggistici è chiamato dal Codice dei beni culturali a concorrere, in ogni regione, alla loro individuazione (ed eventualmente alla loro soppressione). C'è un ostacolo nella missione contro il Ppr. Lo Stato dovrebbe cambiare giudizio e contraddire, senza fatti nuovi, il valore già riconosciuto a beni paesaggistici individuati sulla base di approfondite analisi: improbabile capriola, forse auspicata e sollecitata da faccendieri in disarmo. Cappellacci ha però diritto a esprimere un'altra idea di governo del territorio, come succede in un Paese normale. Se rinunciasse al ruolo dell'ambientalista che ogni tanto gli piace assumere nei convegni, seguirebbe un dibattito interessante e senza pregiudizi.

Sono soddisfatte delle ultime modifiche. Ma chiedono uno sforzo in più. Le associazioni ambientaliste accolgono con favore la revisione condotta dalla giunta Pisapia al Pgt, il Piano di governo del territorio radicalmente modificato da quello approvato dalla precedente amministrazione. Dal Fai a Legambiente, da Italia Nostra a Wwf, la richiesta è di andare oltre con ulteriori rettifiche nel voto in consiglio comunale.

Italia Nostra, ieri in un convegno sul Pgt all’Urban Center, con la presidente nazionale Alessandra Mottola Molfino ha chiesto «che il Consiglio comunale lo migliori: c’è ancora troppa cubatura sulla città e poco verde». La giunta ha già accolto la proposta di verde pubblico tra Quinto Romano e il Parco delle Cave, oggi ricovero di mezzi rimossi vigili. Ma non basta, per l’associazione. L’urbanista e membro di Italia Nostra Giuseppe Boatti avverte: «Il Piano ha trascurato i rapporti con l’hinterland, e ciò lo rende medievale. Chiediamo che vengano reinserite le opere infrastrutturali.

Negli ambiti di trasformazione urbana le densità edilizie ipotizzate sacrificano troppo le ultime chance di nuovo verde in città». Assicura di continuare a vigilare sul nuovo Pgt il Fai, il Fondo ambiente italiano: «Hanno accolto molte nostre osservazioni - puntualizza Costanza Pratesi - chiediamo più attenzione e controlli, però, alle modifiche anche estetiche della città esistente, specie nel centro storico. Bene che le aree di trasformazione si siano contratte, ma attenti a non lasciar troppo alle scelte dell’investitore». Su una cosa ancora le cose non vanno, per il Fai: «L’arco temporale di 30 anni è troppo lungo - aggiunge Pratesi - meglio 20 o 10 anni, le cose oggi cambiano troppo rapidamente». Soddisfatto anche il Wwf, che però rilancia: «Il Comune realizzi davvero la rete ecologica cittadina - chiede Paola Brambilla, presidente lombardo di Wwf - intervenga di più anche sulle aree agricole del Parco Sud».

È contento dell’abbattimento robusto degli indici volumetrici Damiano Di Simine, presidente lombardo di Legambiente, ma «sul verde serve una miglior distribuzione in città. Purtroppo gli effetti del Pgt li vedremo tra anni, nulla potrà contro grandi trasformazioni in atto, da Cascina Merlata al Cerba. Il Consiglio faccia in fretta: così avremo regole certe e una visione d’insieme».

L’assessore all’Urbanistica, Lucia De Cesaris, ricorda che «si è deciso di mantenere il Piano adottato per non bloccare la città, dando però sostanza alla fase essenziale delle osservazioni, ignorata dalla giunta precedente». E, sul fronte delle opere infrastrutturali, aggiunge: «Il Piano è realistico: elimina le cose inattuabili come il tunnel Expo-Forlanini, e rende praticabili progetti già finanziati. Per il resto riporta al Piano urbano della mobilità, la sede in cui si dovranno tenere insieme le diverse scale e tutte le modalità di trasporto». In generale, invece, ricorda che «è stata complessivamente dimezzata la capacità edificatoria, rafforzando gli interventi per la residenza sociale. Per gli scali ferroviari si sta lavorando all’accordo di programma: l’edificabilità di queste aree deve essere connessa a investimenti per la rete ferroviaria».

«Possiamo essere tutti tranquilli per il nuovo e inutile parcheggio di piazza Sant'Ambrogio?». La torre medievale dei monaci, la più bassa, tradisce segni di cedimento ed è stretta dai ponteggi di restauro: «Abbiamo tutte le ragioni di temere per la resistenza del campanile del IX secolo agli assalti di una malintesa modernità». La denuncia è di Carlo Bertelli, storico dell'arte, ex soprintendente, uno dei promotori del comitato contrario alla costruzione dell'autosilo sotto la basilica del Patrono: le ruspe, dice, minacciano la storia architettonica e sacra di Milano. La sua invettiva, pubblicata dal blog «Salva la piazza», pone una domanda e rilancia un allarme: «I monumenti sono davvero sicuri? Evidentemente c'è di che preoccuparsi».

Il parcheggio interrato è stato pensato nel 2000, modificato, messo sotto indagine dalla Procura, assolto, bersagliato da proteste ed esposti. Il cantiere è stato avviato a fine 2010: cinque piani, 234 posti auto a rotazione e 347 privati, la consegna prevista nel 2013, in ritardo sulle previsioni. La giunta Pisapia, nonostante gli appelli, non ha fermato l'operazione: «Le penali sarebbero troppo onerose». Scrive Bertelli: «Il danno architettonico ambientale alla piazza è cosa certa». Ma il rischio per la stabilità della basilica si può solo stimare: quanto faranno male le vibrazioni?

L'ultimo sisma non ha provocato crolli, «per fortuna», ma è stato un «ammonimento». La chiesa di Sant'Ambrogio, ricorda Bertelli, è compromessa e fragile: «Con i restauri dell'architetto Reggiori, nel Dopoguerra, l'interno della canna del campanile fu completamente alterato con la costruzione di una struttura in cemento armato. Il pericolo del cemento inserito in una struttura laterizia antica è che i due sistemi sono tra loro incompatibili. Le sollecitazioni, in caso di scosse (un terremoto, ma anche un imponente cantiere vicino) producono comportamenti pericolosamente diversi».

Borio Mangiarotti, l'impresa che costruisce i box, studia l'impatto dei lavori secondo un piano di monitoraggio elettronico condiviso con la Soprintendenza: «Dall'ultima lettura dei dati — rassicura il presidente Claudio De Albertis — non risulta alcuna anomalia». Gli operai stanno completando la «scatola» del parcheggio sotterraneo. In aprile inizieranno a scavare.

Appello per l'incolumità della cappella degli Scrovegni

L’appello per l’incolumità di uno dei massimi monumenti dell’arte italiana, la Cappella degli Scrovegni a Padova è stato promosso da Alessandro Nova, Steffi Roettgen e Chiara Frugoni (massima studiosa della cappella) ed è stato scritto da questa ultima.

Chi volesse sottoscriverlo, può mandare un’email al professor Sergio Costa: gs.costa@alice.it

Gli affreschi di Giotto della Cappella Scrovegni a Padova corrono il rischio di essere distrutti perché la delicatissima situazione idro-geologica sottostante sarà modificata inesorabilmente dalla progettata costruzione di un Auditorium a meno di 200 metri dalla cappella. Nella stessa zona esiste anche il progetto di un grattacielo di 104 metri ed è stato appena ultimato un parcheggio, cioè una vasta cementificazione che ha modificato l’assorbimento delle piogge nel terreno.

I risultati di uno studio affidato dal Comune nel 2011 a tre ingegneri sulle possibili conseguenze che la costruzione dell’Auditorium avrebbe sull’area circostante, sono possibilisti, ma segnalano che la falda profonda dell’area Auditorium è in collegamento con quella della Cappella. E’ evidente che non si può affidare a un progettista di una nuova opera la salvaguardia dell’ambiente né affidargli il verdetto sulla possibilità che l’Auditorium danneggi la Cappella, nell’immediato o negli anni futuri.

Chiediamo che prima che inizi la costruzione dell’Auditorium, si realizzino opere di massima salvaguardia del sottosuolo della Cappella, possibilmente a seguito di un concorso internazionale.

Quanto valgono gli affreschi di Giotto, rispetto ai vantaggi portati dalle nuove costruzioni? Non lasciamo soli i padovani a discuterne il prezzo, perché non c’è prezzo.

Chiara Frugoni

Francesco Aceto

Roberto Bartalini

Francesco Caglioti

Laura Cavazzini

Keith Christiansen

Maria Monica Donato

Vittorio Emiliani, per il Comitato per la Bellezza

Julian Gardner

Carlo Ginzburg

Maria Pia Guermandi, per Eddyburg

Donata Levi, per PatrimonioSos

Franco Miracco

Tomaso Montanari

Alessandra Mottola Molfino, per Italia Nostra

Alessandro Nova

Titti Panajotti, per Italia Nostra Padova

Giuseppe Pavanello

Antonio Pinelli

Giuliano Pisani

Serena Romano

Steffi Roettgen

Salvatore Settis

Giovanna Valenzano

Bruno Zanardi.

"Gli affreschi di Giotto minacciati dall'auditorium" l'appello che divide PadovaDario Pappalardo -la Repubblica

«Gli affreschi di Giotto sono in pericolo». A Padova, il progetto di costruzione di un auditorium a 200 metri dalla Cappella degli Scrovegni mette in allarme Italia Nostra e un gruppo di storici e intellettuali - da Salvatore Settis a Carlo Ginzburg - che lanciano un appello per scongiurare l'avvio dei lavori. «La delicatissima situazione idrogeologica sottostante al luogo che contiene gli affreschi del Trecento sarà modificata inesorabilmente», dicono. Il disegno dell'architetto austriaco Klaus Kada prevede la realizzazione di un enorme cubo bianco nell'area di piazzale Boschetti: una casa della musica con una sala grande di 1300 posti, che affaccerebbe direttamente sul Piovego, il canale cittadino, alle spalle della Cappella degli Scrovegni. Negli ultimi mesi, il Comune ha affidato a tre ingegneri un'indagine sulle eventuali conseguenze della nuova costruzione. Il responso è che l'edificazione del’auditorium sarebbe possibile «purché non vengano modificate le quote locali della falda acquifera nell'area degli Scrovegni». Nello spazio di qualche centinaio di metri, intanto, è stato appena realizzato un parcheggio, mentre è già aperto il cantiere per un grattacielo che supererà i 104 metri.

«Gli affreschi di Giotto rappresentano il principale patrimonio identitario, culturale ed economico della città. Chi arriva a Padova viene per lo più per visitarli. Non saremmo mai così suicidi da metterli in pericolo», spiega il vicesindaco di Padova Ivo Rossi. «Abbiamo speso 300 mila euro per affidare l'esame ai tre saggi. Faremo ulteriori valutazioni, la nostra attenzione sarà massima. Il progetto dell'auditorium non è stato ancora assegnato: se dovessimo scoprire che ci sono problemi, saremmo pronti a modificare i nostri propositi. Padova vanta una lunga tradizione musicale e ha bisogno di uno spazio di questo tipo. In Italia, spesso, si rischia di restare fermi e di non concretizzare nulla».

Se anche Facebook è in fermento - il gruppo KADAstrofe (che gioca col nome dell'archistar Kada) diffonde la protesta sul social network - storici e intellettuali non si sentono rassicurati dall'esito delle indagini commissionate dal Comune di Padova. «La situazione idrogeologica della Cappella è già molto fragile e la falda profonda dell'"area auditorium" risulta in collegamento - spiega la storica Chiara Frugoni, tra i principali promotori della raccolta di firme a cui ha aderito anche il veneto Franco Miracco, consigliere del ministro dei Beni culturali Ornaghi. Nel 2009 si denunciò che il terreno intorno non era in grado di assorbire l'acqua piovana e si creavano ristagni. È facile capire quale pericolo l'acqua rappresenti per le pitture. Chiediamo che prima che inizi la costruzione dell'auditorium si realizzino opere di massima salvaguardia del sottosuolo della Cappella, possibilmente a seguito di un concorso internazionale». Dal Comune ribattono: «I controlli alla falda acquifera degli Scrovegni sono costanti. Vengano pure a controllare la documentazione. Si tratta di un falso problema: fino agli anni Cinquanta, e quindi per 700 anni, prima che si intervenisse, il fiume che scorre lì vicino aveva un regime diverso. Quando c'erano le piene, la Cappella si trovava sempre con l'acqua che la lambiva, per fortuna, però, gli affreschi si sono conservati».

L'auditorium della discordia per ora rimane un progetto nel cassetto. Al di là delle contestazioni, mancano ancora i finanziamenti. Il costo dei lavori si aggira attorno ai 60 milioni di euro. La Fondazione Cassa di Risparmio aveva stanziato prima 55 milioni, poi 35. Adesso la situazione è ferma. E dal Comune non escludono di pensare presto a soluzioni alternative.

A partire dal luogo dove far sorgere la casa della musica. Magari un po' più lontano dagli affreschi di Giotto, che quest'anno festeggiano il decennale del loro restauro, conclusosi nel 2002

L'intervista - a Salvatore Settis

«In duecento anni, è la seconda volta che la zona in cui si trova la Cappella degli Scrovegni, viene messa in pericolo per ragioni di guadagno». L'archeologo e storico dell'arte Salvatore Settis, tra i primi firmatari dell'appello contro la costruzione dell'auditorium di Padova, si riferisce a quando, nel 1827, gli ultimi eredi, i Gradenigo, fecero abbattere Palazzo Scrovegni, bisognoso di restauri, e minacciarono di fare lo stesso con la Cappella attigua. Dopo anni di contesa, l'aggressione fu sventata con la vendita della piccola chiesa al Comune di Padova, nel 1880. «Quella distruzione è ancora da risarcire», dice ora Settis.

Professore, perché non si deve costruire l'auditorium? «In primo luogo per il problema di natura idrogeologica che comunque esiste: anche se il rischio fosse solo dell'1 per cento, bisogna fermarsi. Occorre sempre prendere per buona la valutazione più allarmistica: se un aereo "potrebbe" cadere, io non lo prendo. Stiamo parlando di Giotto».

E la seconda ragione? «Non si deve cambiare la funzione storica di quell'area, ma rispettarla. A un passo ci sono anche gli Eremitani con le pitture di Mantegna. Adesso, oltre a un parcheggio, e ad altra cementificazione, si procede alla costruzione di un grattacielo. Tutto questo mi sembra perverso e non è degno della città di Padova».

Insomma, la zona va lasciata così com'è... «C'era un progetto di dedicare tutta quell'area al verde pubblico. Ecco, sarebbe il giusto modo per riparare a quel danno di quasi due secoli fa».

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