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Se non fossimo in Italia apparirebbe del tutto surreale il dibattito fra un Comune e una Provincia sulla cementificazione di un'area verde urbana con elevato valore sociale. La Repubblica Milano, 16 maggio 2013 (f.b.)

Una volta era il recinto dove si aggiravano i pazienti del «Pini», il vecchio manicomio di Milano. Oggi è un parco con attività sociali ed eventi culturali per gran parte dell’anno. In futuro potrebbe ospitare un grande giardino condominiale. Questo, almeno, nei piani della Provincia, che ieri ha presentato un progetto da 600 alloggi che interessa parte della zona verde di via Litta Modignani, ad Affori. Ma è subito scontro con il Comune, che dice «no alla cementificazione di un’area che oggi ha un forte valore paesaggistico ma anche sociale». Sono anni che i comitati di quartiere denunciano il rischio della colata di cemento sul grande polmone verde rimasto dopo la chiusura dell’ex ospedale psichiatrico Paolo Pini.Ieri mattina a Palazzo Isimbardi il presidente Guido Podestà è uscito allo scoperto annunciando il suo Piano casa, un progetto che prevede la cessione di terreni di proprietà della Provincia a imprese che costruiranno circa mille appartamenti a Milano e altri 600 tra Pioltello, Melegnano e Rozzano. Tutte case costruite secondo i criteri dell’housing sociale, cioè a prezzi agevolati e destinati a categorie socialmente deboli. Il problema è che oltre la metà degli alloggi in città (l’altro lotto sarà a Cimiano) dovrebbero sorgere in via Litta Modignani, su una porzione di parco che gli abitanti e le associazioni sperano rimanga verde. «Il nostro Piano rilancerà l’economia locale e affronterà l’emergenza abitativa del territorio — ha spiegato Podestà — Saranno case destinate a categorie deboli: giovani, persone in difficoltà, forze dell’ordine. Vogliamo fare un intervento non speculativo, ma basato sulla qualità». Ma dal Comune arriva l’altolà, appena è chiaro che la Provincia intende mettere a bando e assegnare i terreni prima della fine dell’anno «valutando i progetti non in base al prezzo ma sulla qualità architettonica e la sostenibilitàsociale dell’intervento».Dal Comune il vicesindaco e assessore all’Urbanistica Ada Lucia De Cesaris mette subito le mani avanti: «Non se ne parla di cementificare quell’area, vi sono importanti attività che vogliamo salvaguardare, come il Giardino degli aromi e la sperimentazione dell’Istituto Pareto. Invito la Provincia a riconsiderare il progetto e a valutare le diverse altre aree che ha a sua disposizione per realizzare l’housing sociale, che comunque l’amministrazione di Milano valuta positivamente». Da Palazzo Isimbardi incassano e rilanciano: «L’area è di nostra proprietà, misura 155mila metri quadrati, ma le case sarebbero su una piccola porzione di una zona oggi recintata e incolta, un posto dove vanno a dormire gli sbandati. Inoltre quell’area è inserita nel Pgt del Comune e considerata edificabile, quindi non ci sono ostacoli », spiegano i tecnici dell’assessore all’Urbanistica della Provincia Franco De Angelis. Spiegazioni che vengono contestate una per una da De Cesaris: «L’area oggi è aperta e perfettamente fruibile dal pubblico. Non abbiamo potuto cambiare le indicazioni del Pgt su Affori, ma prima di avviare qualsiasi nuovo bando serve un accordo di programma che, oltre alla Provincia, coinvolga Comune e Regione».

Alle conquista di spazi comuni per ottenere che il frutto del lavoro collettivo venga sottratto alla speculazione e restituito alla città. L’Unità on line, dal blog “Città e città”, 9 maggio 2013

“Omnia sunt communia. Con questa programmatica parolad’ordine le ex Fonderie Bastianelli, quartiere san Lorenzo, il 24 aprile sisono coperte di striscioni. Un collettivo di studenti e precari hanno deciso dipresidiare un palazzo da tempo abbandonato a una gigantesca speculazione.

Cosa sono le Fonderie Bastianelli? Uno stabilimento diarcheologia industriale aperto all’inizio del 1900. E’ certo che le fucinefossero attive nel 1908. Da lì vengono gran parte dei chiusini di Roma, fatecicaso. Da lì vengono parti (le altre furono fuse nella fabbrica di san Michele aRipa) della statua equestre di Vittorio Emanuele, quella che campeggia sull’altaredella Patria. A ricordarlo la foto, datata febbraio 2011, dell’inaugurazioneinformale, una cena da ventiquattro coperti allestita nella pancia del cavalloa celebrare la conclusione dell’opera: tra i commensali, oltre al sindacoTorlonia e lo scultore Trentanove, anche il fonditore Bastianelli.
Qui il Comune di Roma aveva concesso alla società Abrizla demolizione totale dell’edificio, considerato di nessun valore storico ma inrealtà vincolato, e la costruzione di un palazzone di cinque piani con trelivelli di box interrati. Grazie alla mobilitazione del quartiere il progetto èstato fermato, ma non cancellato: tra gli appunti del Comitato di quartiere,anche il fatto che la copertura di eternit è stata demolita con segheelettriche e nessuna delle precauzioni doverose in presenza di amianto. Qui il videogirato dai residenti. In rete e quil’appello per restituire al quartiere un pezzo della sua storia, trai firmatari Simone Cristicchi, Paolo Berdini, Piero Bevilacqua, Wu Ming,Daniele Biacchessi, Valerio Mastandrea, Il muro del canto, Johnny Palomba,Marco Bersani, Elio Germano, Assalti Frontali, Pino Cacucci…
In attesa del nuovo progetto, il collettivodi studenti Communia ha occupato l’edificio. E’ già attivo uno sportellolegale, sale studio per studenti, palestra popolare, cineforum. E undoposcuola, cioè lezioni di recupero per ragazzi delle medie e delle superiori,quelle lezioni che le scuole falcidiate dai tagli non fanno più. Non perché sivoglia “privatizzare” un servizio che dovrebbe essere pubblico, ma appunto persottolinearne la necessità. A insegnare i laureandi e gli insegnanti precari diCommunia, ovviamente gratis. In via dei Reti ci sono due aule e 25 volontari,le lezioni sono aperte il lunedì, il mercoledì e il venerdì dalle 16 alle 19.Chi è rimasto indietro in fisica, matematica, greco ora lo sa: la risposta latrova in fonderia.

Il manifesto, 10 maggio 2013 (f.b.)

SASSARI - Per i contadini della Nurra, nel nord ovest della Sardegna, l'identità di una persona e di una comunità proviene dalla terra. La terra ci dice chi siamo, nutrendoci materialmente e culturalmente. Negli ultimi anni questa relazione è stata stravolta da decine e decine di progetti che puntano a rendere l'isola la regione campione della green economy, l'ultima frontiera del capitalismo verde. Zio Giacomo difende questa terra da anni, con la passione forte e dignitosa di un popolo antico. Insieme a suo nipote Giuseppe ha messo su una fattoria didattica e recuperato un antico pozzo Nuragico, testimonianza di un'antica civiltà. Come tutti i contadini della zona sta lottando contro chi vorrebbe fargli piantare solo il cardo per soddisfare la domanda di biomasse della centrale dell'Eni. Il cane a sei zampe sostiene che la chimica verde segnerà la rivoluzione agricola sarda.

Il progetto di Matrica spa e di Polimeri Europa prevede la riconversione degli impianti dell'ex petrolchimico di Porto Torres nel «polo per la chimica verde». Secondo l'Eni il futuro è nel cardo, anzi in una particolare specie chiamata Cynara cardunculus. Così per assecondarne le necessità i contadini della Nurra dovrebbero abbandonare qualsiasi altra produzione agricola, destinando quelle che sono le terre più fertili di Sardegna alla crescita esclusiva della materia prima necessaria agli impianti chimici. A sentire gli esperti ci vorrebbero 100.000 ettari di terreni e 500.000 tonnellate di materia per sostenere la quantità di biomasse necessarie alla centrale dell'Eni, come ci racconta C.A.P.S.A. - il comitato di azione, protezione e sostenibilità ambientale - No Chimica Verde.

Non solo tutta questa terra non c'è, ma la coltivazione del cardo per l'estrazione dell'olio da utilizzare come combustibile stravolgerebbe l'intera economia della zona e servirebbe per nascondere la combustione di altri materiali assimilati, estremamente nocivi per la salute. I 22 mila ettari della Nurra sarebbero quindi riconverti per una produzione inutile alle economie del territorio, che tra le altre cose richiede molta acqua e rischia di danneggiarne la biodiversità. Nonostante gli evidenti limiti, l'obiettivo rivoluzione verde va avanti, con il consenso delle forze politiche di centrodestra e centrosinistra. Ai contadini ed ai pastori, organizzati nell'associazione «Nurra dentro- riprendiamoci l'agro», non rimane che lottare per salvare economie locali, posti di lavoro, tradizioni, relazioni e cultura.

Ma qui in Sardegna non sono solo i contadini della Nurra, i comitati a Porto Torres, Sassari ed Alghero a resistere all'avanzata della nuova frontiera della speculazione energetica. Sono tante le comunità ed i settori coinvolti. Al moltiplicarsi dei progetti di grandi aziende energetiche private, imprese di Stato e banche interessate al nuovo business verde si contrappongono in ogni luogo comitati di cittadini/e che smentiscono con dati alla mano l'idea secondo la quale sia sufficiente la parola «green» a garantire nuove opportunità per coniugare profitto e lavoro con il rispetto dell'ambiente.

Qui lo chiamano «il grande inganno verde», al cui generalismo sono culturalmente piegate le forze politiche in regione ed a Roma. Il Centro Sociale Pangea, a pochi metri dalla mancata bonifica tra le più grandi d'Italia, i 23 Kmq dell'ex petrolchimico dell'Eni di Porto Torres, ricorda i disastri di un modello che in realtà riproduce la stessa vecchia idea del passato: i vantaggi dello sfruttamento sono privati e di pochi, mentre i costi sociali ed ambientali restano pubblici e di tanti. Politiche industriali sbagliate che, come denuncia l'ISDE- associazione italiana medici per l'ambiente, hanno trasformato la Sardegna nella regione più inquinata d'Italia. Alla faccia della redistribuzione della ricchezza, della salute, della crisi ecologica e della credibilità della democrazia rappresentativa. La speranza è nella riconversione ecologica partecipata delle attività produttive e della filiera energetica, da organizzare insieme a lavoratori, comunità e amministrazioni locali. Un metodo diverso, che si fonda sulla democrazia partecipata e della ricerca della giustizia ambientale.

Per avere un'idea della vitalità di questi nuovi soggetti basterebbe visitare il portale che da voce ai territori in movimento, www.arexxini.info . Nonostante il silenzio che circonda l'argomento, sono moltissimi i conflitti aperti. Oltre a quelli di Sassari, Porto Torres, Alghero, ci sono Cossoine, Guspini, Narbolia, Vallermosa, Gonnosfanadiga, Isili, Nurallao, Arborea, Narblia, sono per citarne alcuni. Tutti impegnati a denunciare i falsi miti sui cui fonda la sua retorica la green economy, dove il rispetto del territorio ed il lavoro lasciano spazio ad una realtà fatta di grandi impianti, sprechi, corruzione, disoccupazione, inquinamento, mancate bonifiche ed intrecci finanziari pericolosi. Come quello che vede al centro il presidente sardo di confindustria Alberto Scanu nel progetto di una centrale solare termodinamica a torre centrale a sali fusi, presentato proprio dalla sua Sardinia Green Island nel territorio di Villaermosa.

Il comitato «Sa Nuxedda Free» appena costituito ha da subito messo in luce i limiti del progetto, a partire dalla localizzazione dell'impianto previsto in una zona agricola di 130 ettari che verrà ricoperta da 3500 specchi eliostatici necessari a riflettere i raggi solari su una torre alta 200 mt. Per supportare l'impianto è previsto un sistema di riscaldamento a biomasse capace di portare i sali ad una temperatura superiore ai 260°. Il comitato denuncia la depredazione del terreno agricolo, la vicinanza al centro abitato e ad altri nuclei agricoli, l'impatto ambientale per il quale ancora non è prevista la valutazione e l'utilizzo di prodotti non vegetali per far funzionare la centrale a biomasse, così come già affermato da molti esperti. Stesso discorso a Guspini e Gonnosfanadiga, dove la Energogreen, controllata Fintel, vuole realizzare una megacentrale termodinamica, un parco eolico e due centrali a biogas. Il Comitato No Megacentrale denuncia come per realizzare l'impianto sarà necessario livellare più di 200 ettari di terra fertile, spianando e distruggendo le aree boschive.

Una landa di specchi sostituirà un paesaggio fatto di uliveti e pascoli. Senza contare l'impatto sulle riserve di acqua, circa 50.000 metri cubi al mese. I geologi sostengono che la ricerca di acqua comprometterebbe le falde, innalzando il rischio siccità e razionamento idrico per gli abitanti della zona. Del resto le centrali a biomasse continuano a cadere a pioggia sul territorio con l'obiettivo di sfruttare gli incentivi di Stato, anche quando non vi sono campi esistenti di mais o simili che dovrebbero essere adiacenti alle centrali per garantirne il funzionamento. Nonostante non vi siano piani agronomici la compravendita di terreni per aziende intenzionate a produrre biomasse sta segnando un'impennata, con gravi ripercussioni sul tessuto socioeconomico. Sono molti a dar via terreni e bestiame, dove tra le altre cose l'aumento della richiesta di biomasse spinge in alto i prezzi dei mangimi.

Altri impianti termodinamici della Energogreen sono al centro dei conflitti nella zona di Cossoine, dove il 17 marzo i cittadini si sono pronunciati per l'88% dei voti contro la centrale con un referendum indetto dallo stesso sindaco. Una lotta che ha visto vincere un'intera comunità nella difesa del proprio territorio e nel recupero della sua vocazione agricola. La centrale a regime avrebbe portato nelle casse della Energogreen 40 milioni di euro grazie agli incentive sulle tariffe del Quinto conto energia. Soldi facili, garantiti da chi paga in bolletta gli incentivi sia per produrre energia da rinnovabili sia da fonti "assimilate", cioè rifiuti e scarti di raffineria. La liquidità garantita dagli utenti dell'energia elettrica viene qualificata come "incentivi" e destinata agli speculatori, alla faccia della crisi economica. Su questo hanno le idee molto chiare i comitati S'Arrieddu e No Furtovoltaico, impegnati a liberare Narbolia dai pannelli della Enervitabio, controllata dalla cinese Winsun Luxembourg.

Un progetto approvato illegittimamente e privo di efficacia per la comunità, con enormi impatti ambientali e sociali. Anche qui il ricatto occupazionale non regge. A fronte di qualche decina di occupati i comitati denunciano la scomparsa nell'isola di 97.000 posti di lavoro per la chiusura di moltissime aziende del comparto agro pastorale. Le cause sono da imputarsi alla corsa ad accaparrarsi terreni per accedere ad ulteriori incentivi, così da mandare avanti il ciclo di produzione dell'energia da parte di grandi imprese come la Winsun, che fanno a loro volta lievitare i prezzi spingendo i piccoli proprietari a vendere ed altri a corrispondere un affitto troppo elevato causato dagli aumenti della rendita fondiaria. Allo stesso modo la crescita della domanda di cereali causata dalla bolla speculativa avviata con il business dei biocarburanti fa aumentare il prezzo dei mangimi per animali, rendendo insostenibile economicamente portare avanti attività legate all'agro ed alla pastorizia per i piccoli produttori.

La pratica del "land grabbing", l'accaparramento massiccio delle terre, sta trasformando la Sardegna per l'ennesima volta in una terra di conquista, attraversata da predoni. Una regione che oggi è costretta ad importare l'80% dei suoi consumi alimentari, mentre produce una quantità di energia superiore rispetto al suo fabbisogno energetico. «Questa è una battaglia per la sovranità, contro la speculazione energetica», ci ripetono infatti i cittadini del Comitato No al progetto Eleonora durante la marcia della terra che si è tenuta il 20 aprile scorso ad Arborea. Qui la Saras, impresa della famiglia Moratti, ha intenzione di trivellare il territorio per la ricerca di gas metano attraverso il «fracking», la fratturazione idraulica delle rocce, una tecnica pericolosissima e vietata da molti paesi. Scienziati degli Stati uniti imputano al fracking la nuova ondata di terremoti in zone non sismiche come il Midwest, dove le continue fratture e le sostanza utilizzate come riempitive per tenerle aperte sarebbero all'origine della nuova ondata sismica.

Secondo l'UNMIG, ufficio nazionale minerario idrocarburi, in Italia sono 39 i pozzi di reiniezione, di cui ben 26 dell'Eni. I cittadini di Arborea vogliono evitare questo scempio e gli enormi rischi che il progetto arrecherebbe, a fronte di vantaggi immediati molto piccoli in termini occupazionali e di danni enormi nelle filiere lattearia, casearia e agroalimentare. Un inganno verde svelato dalle tante soggettività nuove che in Sardegna, come nel resto del paese, a partire dalla difesa dei beni comuni mettono al centro la dignità della persona ed una relazione nuova con la natura non umana, dalla quale partire per coniugare diritti, lavoro e difesa dell'ambiente.

Corriere della Sera, 8 maggio 2013

Un altro inverno così e delle meravigliose Cascine di Tavola resteranno solo macerie. Sulla tenuta modello di Lorenzo il Magnifico scoperchiata nel lontano 2008 dai barbari palazzinari che volevano trasformarla in un condominio di lusso, si sono accaniti i mesi più piovosi da decenni a questa parte, con precipitazioni di almeno un terzo superiore alla media e «filotti» di pioggia anche di undici giorni consecutivi.

Va da sé che a metà marzo il giornale online Notizie di Prato titolava: «Ancora crolli alla Fattoria Medicea». Un delitto. Tanto più che il fallimento della società proprietaria del complesso potrebbe aprire, almeno sulla carta, opportunità insperate. Dato per scontato che la prima asta vada deserta, è possibile che le Cascine possano finire per una somma non astronomica in mano pubblica. Certo, il Comune di Prato che deve farsi perdonare il permesso dato a suo tempo ai costruttori per stuprare la straordinaria tenuta agricola rinascimentale, non potrebbe farcela da solo. Troppi soldi per l'acquisto, probabilmente non meno di 11 o 12 milioni di euro. Troppi per i restauri, che saranno lunghi e complessi. Ma se si mettessero insieme il Comune, la Provincia, la Regione, il Ministero dell'Agricoltura e quello dei Beni culturali che potrebbero studiare insieme un progetto per recuperare nella loro integrità gli orti, i campi coltivati, i canali della rete di irrigazione così com'erano mezzo millennio fa? Magari anche l'Europa, davanti a un progetto serio, potrebbe scucire un po' di soldi...

«Il guaio è che la Regione, finora, non ci sente», spiega Mariarita Signorini, vicepresidente di Italia Nostra in Toscana e appassionata sostenitrice della battaglia per salvare le Cascine. «È arrivata a spendere quattrocento milioni di euro per tappare i buchi finanziari pazzeschi dell'ospedale di Massa ma su questi bisogni culturali è assai meno sensibile». Riuscirà a far qualcosa di nuovo il ministro dei Beni culturali sulla cui groppa sono caduti tutti i problemi lasciati irrisolti da un sacco di tempo?

Certo, non è solo il Comune di Prato ad avere il dovere di farsi perdonare dai cittadini italiani. Il progetto per stravolgere l'antica fattoria medicea, un «insolito edificio quadrato a corte centrale e torri angolari, attribuito a Giuliano da Sangallo» trasformandola in un complesso immobiliare di 160 bilocali (alcuni col giardinetto privato) più un hotel a quattro stelle più un ristorante e negozi e parcheggi e campi da tennis e centri benessere con saune, fitness e palestre, infatti, aveva avuto il via libera perfino di una dirigente della Soprintendenza per i beni ambientali e architettonici. Dirigente poi messa sotto inchiesta dalla magistratura insieme coi responsabili della società «Agrifina» che, coinvolti anche in una brutta storia di fatture false, avevano venduto tutto a loro volta «chiavi in mano» all'immobiliare Fattoria Medicea, costituita al 60% dalla Re Sole e al 40% da Pirelli Real Estate che da allora ripetono: «Noi non c'entriamo». Ecco, se dai loro sensi di colpa potessero rinascere le Cascine...

Il diavolo insegna a fare le pentole, non i coperchi: a proposito della Giunta Pisapia e dell’approvazione “obbligata” del PGT

Una delle ragioni ripetutamente sbandierate dalla Giunta milanese per portare ad approvazione in tutta fretta un PGT, che è la fotocopia blandamente edulcorata del precedente piano di governo del territorio Masseroli/Moratti, è stata l’inesorabile scadenza del 31 dicembre 2012, prescritta ai Comuni dalla legge urbanistica lombarda (12/2005) come termine ultimo per l’approvazione dei nuovi strumenti urbanistici. Si paventavano altrimenti accadimenti drammatici; addirittura un rischio di ‘commissariamento’ da parte di una Regione in cui i Comuni sono afflitti da ben altri tipi di commissariamento…

Ma questo rischio lo sapevamo tutti che non lo si correva. Infatti, alla scadenza prevista, su 1544 Comuni della Lombardia soltanto 988 risultavano avere PGT approvati (meno di due terzi), ma ben 337 risultavano con PGT soltanto adottati e ben 219 solo avviati. La neonata Giunta Regionale Maroni sta provvedendo a tranquillizzare i ritardatari: infatti ha approvato il 16 aprile un progetto di legge che ripristina l’efficacia dei previgenti PRG, rinviando la data fatidica al 30 giugno 2014. E anche l’opposizione ha presentato un suo progetto di legge che accorcia di poco i dilatati tempi di consegna.

Eddyburg ha espresso critiche molto puntuali nel merito del ‘nuovo’ PGT milanese: in particolare l’eccessiva fretta, la scarsa trasparenza, l’approvazione unanime in Consiglio Comunale.
Già durante e subito dopo la campagna elettorale che ha visto la vittoria a Milano della sinistra, ascoltando molti esponenti del PD proporre di non modificare il Piano delle Regole (le regole di Masseroli, compresa la perequazione estesa) erano sorti dubbi sulla volontà di vera riforma.

Che dire oggi? Che si è persa una grande occasione di ripensare Milano ‘daccapo’; di ripensare al futuro di una grande metropoli in una dimensione davvero europea, e non inseguendo con compiacente adattatività i grandi interessi immobiliari che ne comprometteranno ulteriormente attrattività, qualità e vivibilità.

Forse non si è trattato soltanto di fretta, ma di una ulteriore conferma della incapacità di ‘questa sinistra’ (direbbe Nanni Moretti) di amministrare e pianificare per il bene comune e, soprattutto, con una visione.

Suggeriamo a chi non ha condiviso le critiche al PGT avanzate su eddyburg, e soprattutto agli amministratori milanesi e ai loro consulenti, di rileggersi, senza fretta appunto, l’Eddytoriale n. 155 e di guardarsi attentamente allo specchio.

Corriere della Sera Milano, 7 maggio 2013 (f.b.)

Partiamo da un dato di fatto: se c'è una metropoli in Italia che può aspirare a diventare una smart city, una cosiddetta città intelligente, questa è Milano. Senza sollevare antagonismi, né conflitti. Non è una gara, ma un impegno collettivo che trova le sue radici nel senso stesso dell'aggregazione cittadina: mettere insieme arti, mestieri, servizi e solidarietà per creare un ecosistema vivibile. A Milano molto è stato fatto fino ad oggi. Il codice genetico di base — fatto di una storica voglia di fare, una cultura a tratti aspra ma sempre liberista e aperta, una banda larga ampia e competitiva e una geografia comoda e «pianeggiante» — è ben predisposto all'azione. Ma molto c'è ancora da fare. Una città intelligente, al di là dei mantra tecnologici, è una città che funziona meglio per tutti, una città più efficiente in cui i servizi inseguono i cittadini e non il contrario. I trasporti pubblici si adattano ai flussi e alle esigenze delle persone e non il contrario (come troppo spesso accade).

Il servizio BikeMi delle biciclette pubbliche è un esempio banale ma efficace di come una città possa essere flessibile, attuale, moderna. Talvolta con poco. Ma pensiamo a cosa potrebbe accadere con una gestione integrata dei dati della popolazione meneghina, da quelli sulla sanità a quelli sui rifiuti e sugli spostamenti quotidiani. Immaginiamo di mescolarli insieme ai flussi periodici di «immigrazione» — un capitolo che con l'Expo entrerà nella vita di tutti i cittadini diventando fonte di guadagni monetari e culturali per la città ma anche origine di stress.

La gestione digitale deve essere un mezzo per abbattere le inefficienze e non, come troppo spesso avviene per un malinteso senso del cambiamento, un obiettivo. Ora se sapientemente usati gli «open data», sulla falsariga di ciò che sta già accadendo in città come Londra e New York, possono darci un diagramma della vita pulsante di Milano. Gli «open data» sono quella massa enorme di dati che, grazie alla gestione affidata a instancabili server e computer, può farci vedere il problema da un'angolazione diversa, avvicinandoci a una soluzione. Ma — accettiamolo — è difficile che questa possa sempre giungere dall'alto.

La più grande lezione della stagione dei social network è l'impatto significativo che l'intelligenza «collettiva» può avere sull'individuo laddove la nostra storia, fino ad oggi, sembra fatta più di contributi di singoli geni — basti pensare a Leonardo da Vinci. Per questo un miglioramento della vita condivisa potrebbe venire dal contributo che i cittadini potranno dare sui dati aperti: la massa da sempre si oppone alla trasparenza. E gli «open data», senza un'applicazione che li renda utili, sono come una lampadina senza corrente elettrica (un esempio? A New York uno studente ha incrociato i nomi dei ristoranti con le segnalazioni dell'ufficio d'igiene permettendo al tuo smartphone di avvisarti se stai entrando in un locale a rischio). App4Mi, l'iniziativa che sarà annunciata oggi a Palazzo Marino, ideata dal Comune con il contributo del Corrieree di Rcs, nasce proprio da questo spirito. La smart city può prendere forma solo dall'unione delle forze di giovani, studenti, sviluppatori, designer, imprenditori. In una parola scontata ma piena di significato: da un ritrovato senso della «cittadinanza».

Nota: sulla smart city esiste anche la possibilità di Criteri di Valutazione, appunto per evitare la riduzione a gadget privatistico e fine a sé stesso (f.b.)

del Fatto Quotidiano, 6 maggio 2013), dedicato alla componente pricipale del nostro patrimonio: alla maggiore ricchezza d'Italia (se non ci si chiude nell'ottica distruttiva delle "merci" e dei "giacimenti cultural". Articoli su Napoli (Vincenzo Iurillo, Roma (intervista di Ferruccio Sansa a Vezio De Lucia), Enrico Fierro (Palermo), Michele Concina (Venezia), l'Aquila (Tomaso Montanari)

Tomaso Montanari

Il vero capolavoro della storia dell’arte italiana non è quella singola scultura di Michelangelo, o quel singolo Caravaggio: è ciò che oggi chiamiamo il “centro storico”. La Carta di Gubbio del 1960 lo definisce un “organismo urbano unitario cui va riconosciuta la qualità di bene culturale”. Un'opera d’arte abitata, insomma: come un corallo vivo. Di questi capolavori in Italia ne abbiamo circa 22.000: creati al tempo dei fenici, degli etruschi, dei greci, dei romani. Oppure medioevali, rinascimentali, barocchi e giù giù fino allo spartiacque della Grande Guerra. I nemici dei centri storici sono tanti. Il primo è lo spopolamento: nel 1971 il centro di Perugia aveva 15.000 abitanti, oggi 9.000; quello di Roma ne contava 358.291 nel 1951, 118.197 nel 2003. E poi la speculazione edilizia, le liberalizzazioni selvagge dei negozi, il turismo ossessivo (che umilia Venezia e prostituisce Firenze). L’abbandono della manutenzione ordinaria da parte delle amministrazioni, stroncate dalle leggi finanziarie degli ultimi vent'anni: il disastro è clamoroso a Napoli e a Palermo. La tragedia dell’Aquila è il culmine di uno sfascio diffuso. C’è un nesso tra il collasso della vita civile e politica e il collasso del patrimonio artistico. Per secoli, anzi per millenni, la forma dello Stato, la forma dell’etica, la forma della civiltà stessa si è definita e si è riconosciuta nella forma dei luoghi pubblici. È vero anche oggi, e questo è il problema: la sfida non è la ricostruzione materiale, è la ricostruzione civile.

Napoli, città chiusa per crolli
di Vincenzo Iurillo

Napoli. Il luogo simbolo dello scempio del patrimonio chiesastico napoletano è il perimetro murario del Chiostro di Santa Chiara. Imbrattato dai graffiti come una stazione della metropolitana. Con tanto di cuoricini e di improbabili “ti amo” verniciati sulle pareti. Impossibile non farci caso per i turisti, non molti, che si radunano all’ingresso, macchinetta fotografica rigorosamente al collo, costretti a brancolare a tentoni per la distruzione sistematica dei cartelli di segnalazione. Per fortuna l’attiguo Monastero di Santa Chiara gode ancora di discreta salute. Ma di fronte, la guglia dell’Immacolata di piazza del Gesù soffoca tra le sterpaglie che lesionano il marmo. Lo stesso problema del campanile della chiesa di S. Agostino alla Zecca e della chiesa del Gesù Nuovo.

Pochi sanno che il numero di chiese di Napoli è addirittura superiore a quello di Roma. Peccato che su 500, più di 200 risultino chiuse al pubblico, come la Chiesa di Sant’Aniello a Caponapoli, la Chiesa dell’Arciconfraternita di San Girolamo dei Ciechi, o la Chiesa di Santa Maria Vertecoeli. Diroccate come la Cappella di Sant’Antonio alla Vicaria o la Chiesa dei Santissimi Cosma e Damiano che si staglia tra i rifiuti di Largo Banchi Nuovi, un’opera del 1700 che John Turturro ha scelto per uno degli sfondi del film “Passione”. Sottoposte a lavori di restauro infiniti. Nel peggiore dei casi, saccheggiate dai ladri che si sono portati via altari, maioliche, candelabri, vasche sacre. È quel che è accaduto alla Chiesa di Santa Maria in Cosmedin in piazza Portanova, risalente ai tempi dell’Imperatore Costantino. Depredata di tutto. Persino delle reliquie di un cardinale.

Succede questo e altro a Napoli, capitale della convivenza tra bello e degrado, dove la medaglia del riconoscimento di patrimonio Unesco è appannata da decenni di incuria, e l’invito della nuova edizione del Maggio dei Monumenti a visitare “chiostri, cortili e sagrati” fa sorridere amaro Antonio Pariante e Vincenzo Giunta, tra gli animatori del Comitato di Portosalvo, presidio intellettuale di lotta per la riqualificazione delle bellezze culturali del centro storico. “Proviamo a visitare - dicono - il cortile medievale del complesso monastico di Sant’Anna dei Lombardi, che comprende la bellissima Chiesa dove sono custodite le opere del Vasari”. È una sollecitazione provocatoria. Quel cortile è inaccessibile, ora è il parcheggio delle auto dei carabinieri della caserma Pastrengo. L’ingresso è sbarrato da un cancello con lamiera “graffitata” per ostacolare lo sguardo dei curiosi. La scala di piperno antico, a sua volta, è divelta. Un orrore.

I monumenti e i palazzi “laici” non se la passano certo meglio. Due esempi per tutti. La celeberrima piazza del Plebiscito, la cui pedonalizzazione fu l’avvio del Rinascimento Napoletano degli anni ‘90, è stata letteralmente presa d’assalto dai graffitari. Che non hanno risparmiato neppure i leoni di pietra presso il colonnato e le statue equestri di Carlo III di Borbone e di suo figlio Ferdinando I. E il meno conosciuto Palazzo Penne, architettura durazzesca del 1400, nei pressi del Largo Banchi Nuovi, nel ventre di Napoli. Un rudere, ormai. Mortificato da brutti e mal eseguiti lavori di ristrutturazione, per i quali nessuno ha pagato prezzo: il processo si è concluso tre settimane fa con l’assoluzione di tutti gli imputati.

Se uno vuole aprirsi a un cauto ottimismo, può visitare la Chiesa di Sant’Anna dei Lombardi, un prodigio dell’architettura del XV secolo, passando purtroppo per la fontana di Carlo II d’Asburgo vandalizzata dalle scritte “Wc”. Chiesa bellissima e tutto sommato ben tenuta. Tranne che per le infiltrazioni d’acqua che stanno rovinando la cappella delle sculture del Mazzone. Sembra che l’acqua stia mettendo in pericolo anche la Chiesa di S. Giacomo degli Spagnoli, annessa al palazzo dell’amministrazione comunale.
Ma il problema non sono solo le piogge. A Napoli il terremoto del 1980 è un incubo mai superato. La Chiesa di San Michele Arcangelo nei pressi di piazza Dante, di stile barocco, è stata chiusa per un restauro post-sisma durato circa 30 anni. Le lesioni alle volte sono visibili a occhio nudo. Ma almeno questa è accessibile.

Le chiese chiuse e mai riaperte per il sisma si contano a decine. Una ferita mai rimarginata, nonostante i 150 milioni di euro spesi in trent’anni nella sola provincia napoletana. Il restauro della chiesa Ecce Omo, tra i bassi dei vicoli, è costato svariati milioni. La chiesa però è chiusa.

Ma anche quando sono disponibili, le, discutibili scelte di gestione lasciano sbarrate al pubblico i gioielli del cuore di Napoli, ad esempio nel ponte di fine aprile, per lo sconforto di chi immagina le file per visitare i musei e le chiesi di Firenze. È il caso della Chiesa e del vicino Chiostro di Santa Maria la Nova, che ospita anche le sedute del consiglio provinciale. Ingresso sbarrato per il vicino Museo d’Arte Religiosa Contemporanea. Semaforo giallo al Museo di Capodimonte: è aperto, ma il piano che ospita le opere di Andy Wahrol, no. I carabinieri si sono annessi un cortile sacro per le loro auto, la polizia si è accontentata di parte di un sagrato per gli scooter degli agenti. La “porta d’ingresso della Casa del Signore” occupata da vespe e moto è quella della Chiesa di San Diego dell’Ospedaletto, costruita nel 1700, di fronte alla Questura. “Scusi, lei è della Soprintendenza”? La signora urla ma è gentile.

È di Napoli. C’è una piccola folla che si ripara dalla pioggia. “Stiamo aspettando qualcuno della Soprintendenza che ce la apra, avevamo appuntamento alle 11 ma è già trascorsa mezz’ora”. Non disperi. C’è invece da disperarsi a Largo Giusso, fotografando i muri della Cappella Pappacoda. Sono rovinati dai murales. Il frutto di ore, giorni, settimane di lavoro. Si tratta della Cappella attigua alla Chiesa di San Giovanni Maggiore. Di un fascino struggente, ben tenuta, spesso utilizzata per convegni e concerti, con cura e rispetto. Ma tutto intorno è il caos, tra bottiglie di birra rotte e un insopportabile tanfo di piscio. È Napoli, bellezza.

Roma deserta: persi due abitanti su tre
di Ferruccio Sansa

Il centro storico di Roma in pochi decenni ha perso i due terzi dei suoi abitanti: siamo passati da trecento ad appena centomila. Ormai i centri storici rappresentano meno del 10 per cento delle nostre città”. L’architetto Vezio De Lucia è senza dubbio uno dei massimi esperti italiani - e non solo - di centri storici.

Architetto, ecco, partiamo proprio da Roma. Quali sono le emergenze più urgenti nella Capitale? “Non vorrei nemmeno fare un elenco, sono decine. Basta sfogliare le cronache che parlano di crolli nella Domus di Nerone, lungo le Mura Aureliane... il punto è un altro: si è abbandonata ogni politica per salvare il centro storico. Una volta, giustamente, si riteneva che i centri storici dovessero essere fatti di pietra, ma anche di abitanti. Che dovessero essere salvaguardati i monumenti, ma anche la vita”.

In concreto cosa si proponeva di fare? “I nostri centri, e Roma in particolare, hanno perso ogni senso sociale. Non sono più abitati da tutti gli strati della popolazione. Abbiamo scacciato chi ha meno soldi, gli artigiani. Oggi le città storiche sono un concentrato di turismo, ricchi e attività opulente”.

Che cosa si può fare per mantenere davvero vivi i centri? “In Italia negli anni Settanta ci fu chi ebbe il coraggio di riportare le abitazioni popolari nei centri storici. Il primo fu Pierluigi Cervellati a Bologna. Poi toccò al grande sindaco di Roma, Luigi Petroselli. Un’idea straordinaria. Non l’unica: Petroselli lanciò il progetto dei Fori che fece parlare tutto il mondo. Si volevano recuperare i fori di Nerva, Cesare, Augusto, Traiano che sono nella zona di via dei Fori. Così l’archeologia sarebbe tornata al centro della città. Non chiusa in un recinto, ma come parte della vita attuale”.

Sono passati trent’anni e non se n’è fatto niente... “Nulla. Peccato, la nostra sinistra aveva avuto intuizioni importanti, ma oggi sembra quasi vergognarsene. Adesso, e non voglio fare campagna elettorale, però vedo che un candidato, Ignazio Marino, sta riproponendo quel progetto”.

Qualcuno teme di trasformare la città in un museo... “Macché, sarebbe il contrario. Così il nostro patrimonio tornerebbe a far parte della vita contemporanea. Ricordatevi cosa dicevano i “ragazzi di vita” di Pasolini che abitavano le borgate: “Andiamo a Roma”. Ma sono la stessa città”.

E l’architettura moderna? Noi non siamo contrari, anzi, ma soprattutto in città come Roma i nuovi interventi, di qualità, dovrebbero trovare spazio nelle periferie che sono tanto degradate”.

Centri storici trasformati in vetrine, deserti, senza abitanti, ma anche cadenti... “Certo, le risorse sono poche. Ma è una questione culturale, prima ancora che politica. E pensare che restaurare le nostre città porterebbe lavoro”.

Senza contare il turismo, la nostra principale industria... “Appunto, sarebbe anche un investimento redditizio. Ma abbiamo perso la cultura dei centri storici. Pensiamo ai singoli monumenti, mentre le nostre città sono un monumento nel loro insieme. I palazzi e le persone. E poi...”.

E poi? “Ci siamo dimenticati che la nostra storia è fatta di città. Ognuna diversa dalle altre, ognuna con una lingua propria. Ecco, le città ci ricordano chi siamo stati e chi possiamo essere. Ho sentito in questi anni parlare tanto di identità. Più di qualsiasi discorso sono le città la nostra identità”.


L’Aquila, dopo i discorsi l’Italia l’ha abbandonata
di Tomaso Montanari

Ieri gli storici dell’arte italiani si sono trovati all’Aquila per scuotere con forza tutte le istituzioni e ogni cittadino italiano: non ha paragone al mondo la tragedia di un simile centro monumentale (già) abitato che ancora giaccia distrutto, a quattro anni dal terremoto che l’ha devastato, e dalle scelte politiche che l'hanno condannato a una seconda morte. Dopo la migrazione di massa nelle new town imposta dalla Protezione Civile di Bertolaso e Berlusconi e passivamente subita dall'amministrazione Pd, il centro monumentale poteva morire in pace: non serviva più a nulla. Se non a resuscitarlo, con calma, per farne un parco a tema, Aquilaland.

Un destino prefigurato dall’ipotesi di parcheggi sotterranei e centri commerciali a spese del tessuto storico monumentale e abitativo. L’Aquila è oggi, suo malgrado, il simbolo della perdita di tutti gli elementi centrali della tradizione culturale italiana: il rapporto strettissimo tra città e cittadini; tra monumenti e vita politica; tra arte e spazio pubblico. Coerentemente con questo progetto distruttivo, durante i tre anni e mezzo del commissariamento berlusconiano nel centro dell'Aquila non si è tirata su nemmeno una pietra.

Da circa sei mesi , invece, è finalmente partita la più colossale campagna di restauri dell’Europa di oggi. Grazie all’ex ministro Fabrizio Barca e all'impegno di Fabrizio Magani (direttore generale dei beni culturali abruzzesi) e di tutto il personale delle soprintendenze, qualcosa finalmente si è mosso, almeno per gli edifici vincolati: 23 cantieri sono avviati, 2 stanno per esserlo, altri 25 partiranno a breve. In molti casi si tratta di luoghi simbolo: il Teatro nell’ex chiesa di San Filippo Neri (avviato con un milione e duecentomila euro raccolti dal cd “Domani”), Palazzo Ardinghelli (i primi 7 milioni vengono dal governo russo), la chiesa della distrutta cittadina di Onna, finanziata dal governo tedesco. O la meravigliosa basilica dove riposa San Bernardino, il grande predicatore senza denti che infiammava l’Italia centrale del Quattrocento contro le lobbies degli usurai e del gioco d'azzardo.

Ma è solo un timido inizio. Il centro è particolarmente esteso perché l'Aquila è una delle rarissime città fondate dai suoi stessi cittadini, e con un piano urbanistico dettagliatissimo in cui gli innumerevoli e meravigliosi spazi pubblici nascono proprio per rappresentare i tanti castelli del Comitatus Aquilanus che nel XIII secolo cercarono uno spazio comune che non fosse solo un mercato, ma una città. Di questo passo, per riavere l'Aquila com’era e dov’era bisognerà aspettare tra venti e trent’anni, ammesso che duri il flusso dei finanziamenti: un miliardo all’anno per i primi dieci anni. E già il primo miliardo appare in forse, come è apparso chiaro durante un’audizione di Barca al Senato, una settimana fa.

Anche ammesso che i fondi arrivino, diventa vitale che il restauro del centro sia progressivamente accompagnato dal ritorno degli abitanti. Non possiamo aspettare l’arco di una generazione per far trasferire gli aquilani dalle new town nelle loro vere case: bisogna immaginare una politica di incentivi che acceleri questo processo, e che faccia progressivamente rivivere il centro. Per far questo, la ricostruzione deve inserirsi in una pianificazione urbanistica governata dalla mano pubblica, e non deviata da interessi privati. Ad essa spetterà anche decidere del futuro delle new town: alcune dovranno essere abbattute, per ripristinare il paesaggio oscenamente cementificato, altre potranno forse trovare un uso proficuo, ma solo all'interno di un piano preciso.
Ma sarà possibile arrivare ad un progetto di città, in un Paese che non sembra avere un progetto su se stesso?

Morte a Venezia, 50 milioni di piedi affondano la laguna
di Michele Concina

Venezia che muore, Venezia appoggiata sul mare. È come una splendida donna ammalata. Ha occhi che incantano e capelli di seta, ma sente che le ossa s’indeboliscono giorno dopo giorno, le arterie s’intasano. Non rischia di sbriciolarsi domattina, la città unica; ma viene consumata in perpetuo, e non potrà certo resistere per sempre. Sott’acqua, la erode il moto delle onde, centuplicato da una finta modernità che ha affollato la Laguna d’imbarcazioni a propulsione meccanica, e dall’incoscienza che l’ha aperta alle colossali navi da crociera. Oltre la superficie, a logorare Venezia sono i quaranta, i cinquanta milioni di piedi che vengono ogni anno a calpestarla.

La dolce ossessione degli ultimi suoi giorni tristi, Venezia la vende ai turisti. “Questa non è più una città, semplicemente. È un parco tematico, una Disneyland di pietra e d’acqua”, spiega Gianfranco Ortalli, decente di Storia medioevale a Ca’ Foscari. Oggi i residenti sono meno di sessantamila. Soverchiati da un esercito di turisti che le stime più prudenti quantificano in 22 milioni di presenze l’anno, quando già nell’88 il Comune fissava a 12 milioni il massimo sostenibile. “La presenza abitativa, coinvolta nella manutenzione della città, è schiacciata dalla presenza turistica, dedita esclusivamente al consumo di Venezia”, accusa lo storico dell’arte Tomaso Montanari. “E la città è gestita come una risorsa non rinnovabile, da sfruttare finché dura”.

Venezia è anche un sogno, di quelli che puoi comperare. Gli osservatori di cose veneziane, anche i più arcigni, concordano su un punto: rispetto a trent’anni fa, molti palazzi sono in condizioni migliori. È il risultato paradossale di due politiche che quegli stessi osservatori condannano, la privatizzazione del patrimonio edilizio pubblico e la terziarizzazione della città. Dato che non hanno soldi per la manutenzione, le istituzioni - a cominciare dal Comune - cedono i loro immobili di pregio ai privati più ricchi, che hanno risorse per metterli a posto. E intanto consentono il cambio di destinazione d’uso degli edifici privati, che vengono restaurati per farne degli alberghi.

Venezia è un imbroglio che riempie la testa soltanto di fatalità. Ma questo arcipelago di palazzi, talvolta rutilanti, è immerso in un tessuto connettivo di strutture in disfacimento. Ponti rappezzati, rive smangiate, fondazioni indebolite, imbarcaderi marciti, canali maleodoranti, scale consunte. Basta ascoltare chi la percorre tutti i giorni, la città di uso pubblico: i 433 gondolieri. “Da almeno una decina d’anni la manutenzione va scemando di continuo”, testimonia il loro presidente, Aldo Reato. “Si fanno solo rattoppi, e neanche di buona qualità”.

Lancia i suoi segnali d’allarme, la Venezia che è di tutti e non solo di qualcuno. In autunno è venuto giù un pezzo di Riva Parisi, poco dopo i sostegni della darsena di piazza degli Alberoni, al Lido. Un mese fa i giornali locali hanno scoperto che si sbriciola il pontile di Santa Chiara e affonda in Laguna la fondamenta delle Zattere. “Colpa del moto ondoso artificiale”, è la diagnosi di Reato. Perché è quasi inimmaginabile la quantità d’acqua che mandano a infrangersi contro le antiche pietre d’Istria le attuali navi da crociera. Mostri alti sessanta metri e lunghi trecento, a cui viene consentito di transitare di fronte a San Marco, di divorare anche visivamente il Palazzo Ducale. Un sistema urbano fragile come Venezia dovrebbe respingerli con le cannoniere; invece, Comune e Autorità portuale fanno a gara perché attracchino, perché scarichino altre folle a oberare la città. “Di fronte al ricatto del denaro anche le istituzioni, prone ai voleri del dio Mercato, sembrano pronte a tutto”, tuona Salvatore Settis, lo storico dell’arte più autorevole d’Italia.

Del resto del mondo non sai più una sega, Venezia è la gente che se ne frega. Neppure la tragedia del Giglio è bastata a interdire i Godzilla del mare. Il decreto emesso un anno fa dal governo Monti vieta il transito a meno di due miglia dalle coste. Con un’unica eccezione: Venezia, che sarà tutelata solo quando qualcuno, chissà come, scoprirà “vie di navigazione praticabili alternative”.
“I veneziani di oggi sembrano decisi a fare il massimo uso del favoloso tesoro che hanno ereditato, a sfruttarlo in ogni modo”, scrive Paolo Lanapoppi, di Italia Nostra, in “Caro turista”, uno dei titoli della coraggiosa casa editrice Corte del Fontego. La zampa del Leone non appoggia più sul vangelo di san Marco, ma su un libro contabile. E sopra c’è scritto: ultimi giorni, approfittatene.


Palermo, in pezzi duecento case e i sogni di rinascita
di Enrico Fierro

Da Palermo. I balati ra Vucciria 'un s'asciucanu mai". I balati, le strade, della Vucciria non si asciugano mai. E invece, trentanove anni dopo l'opera di Renato Guttuso, quei balati sono secchi. Muto il mercato. Non si sente più il venditore di pesce spada, quello che offriva cavallino, l'altro che magnificava la bontà unica delle sue stigghiole. Scomparsi per sempre i mille colori dei venditori di verdure, dei fruttivendoli capaci di tagliare angurie gigantesche con un colpo solo di coltello, perse le meraviglie architettoniche delle piramidi di arance che i venditori componevano sui loro banchi. "Un narratore o un commediografo, davanti alla Vucciria, avrebbero materia di scrittura sino alla fine dei loro giorni", ha scritto una volta Andrea Camilleri.
Ora quel narratore sarebbe sopraffatto dalla desolazione di palazzi transennati, mura fradice di pioggia e case pericolanti dove la vita che fu è raccontata da una selva di parabole arrugginite. É il destino del centro storico di Palermo. Trecento ettari di bellezze incomparabili, stili architettonici che si sono intrecciati e contaminati per secoli, la città disegnata dagli arabi che si mescola a quella pensata dai normanni, islam e cattolicesimo. Tutto questo era il cuore di Palermo. Ferito a morte dalle guerre, ucciso da anni di cattiva politica. Il centro storico della città, scrive Laura Azzolina in "Governare Palermo: storia e sociologia di un cambiamento mancato" – è il simbolo del degrado e, peggio, del dispregio con cui era stata gestita l'edilizia dai governi Dc negli anni del sacco di Palermo, il centro storico presentava ancora agli inizi degli anni Novanta edifici cadenti e le rovine dei bombardamenti del Secondo conflitto mondiale".
Vucciria, Capo, Albergheria, il degrado è qui, basta sfogliare le cronache cittadine per leggere titoli spesso ricorrenti che raccontano di crolli e morti. E rischia di non essere finita qui, visto che le case a rischio già accertato, secondo le stime del Comune, sono più di 250. La svolta rispetto agli anni del "sacco" della città, negli anni Novanta con la Primavera di Leoluca Orlando, quando il vecchio Piano di recupero varato nel 1979 fu sostituito da un impegnativo "Piano operativo di risanamento" finanziato con 25 miliardi di lire nel primo anno, 47 nel 1987, 65 nel biennio 1988-1989 e 70 nel 1990. Dal 1993 una nuova inversione con la definizione di un Piano particolareggiato di recupero affidato agli architetti Cervellati e Benevolo.
"Fu la grande intuizione di Leoluca Orlando", dice Alberto Mangano, per anni assessore del Comune di Palermo, oggi consigliere comunale e presidente della Commissione urbanistica. "Con molte luci e tante ombre – replica Ninni Terminelli, anche lui per anni consigliere comunale e oggi animatore di "Prospettiva politica" – ma Orlando riuscì a smuovere un immobilismo che durava da anni anche con un forte collegamento con l'Unione europea. Poi, con il decennio di amministrazione del Pdl tutto si fermò. Cammarata smantellò l'ufficio Europa del Comune". L'obiettivo di Orlando era quello di riportare almeno 50mila palermitani nel cuore della città, ma dopo anni di piani e previsioni solo in 30mila vivono nel centro storico, in mille sono scappati nei dieci anni di Cammarata. "La spinta propulsiva delle prime giunte Orlando si è fermata in quel periodo", è l'analisi di Mangano.
"Operavamo utilizzando le leggi regionali e i fondi Urban della Comunità europea, l'obiettivo era quello di risanare le case di riportare al centro le attività produttive e commerciali". Furono risanate chiese, recuperato il complesso di Sant'Anna, lo Spasimo, il Noviziato dei Crociferi. Ma oggi, in un periodo di crisi e di tagli feroci ai Comuni, come si fa a continuare l'opera di risanamento? "Dobbiamo puntare all'utilizzo di un teso-retto di almeno 15 milioni avanzati da bandi degli anni passati, ed in più convincere le cooperative sociali che operano in edilizia ad investire nel recupero di palazzi e appartamenti del centro storico. É una strada obbligata in una città dove le aree da destinare all'edilizia economica e popolare sono esaurite da tempo". "I balati ra Vucciria 'un s'asciucano mai" sopravvive solo come antico detto palermitano.
La realtà, scrive la studiosa Teresa Cannarozzo, è che "il centro storico continua ad esprimere contemporaneamente valori e disvalori: elementi di eccellenza, estremo degrado, marginalità sociale ed economica; invadenza della piccola e grande criminalità; crescita esponenziale del valore commerciale degli immobili; appetiti speculativi palesi e occulti. In assenza di politiche pubbliche all’altezza della situazione".

La nostra vita ha bisogno di un Centro
di Tomaso Montanari

Per noi che viviamo nelle vecchie città italiane, è abbastanza consueto dire: «Vado in centro!». Ma provate a fermarvi con la macchina a Forth Worth, in Texas, e chiedete a un passante dov'è il centro. Vi guarderà stupito, senza capire. Infine, vi spedirà in un centro commerciale.
Cosa c'è nel centro 'storico' delle nostre città? Ci sono i luoghi di tutti, quello che si chiamano gli «spazi pubblici»: la piazza, il palazzo del Comune (cioè comune, di tutti), la fontana, la chiesa. Quando fu fondata l'Aquila (quasi ottocento anni fa), lo Statuto comunale diceva che i singoli cittadini dei vari quartieri potevano farsi la casa, solo dopo aver costruito piazza, chiesa e fontana: le cose di tutti venivano prima delle cose private.

Ed erano più belle. Oggi sembra tutto il contrario: sembra che alle cose di tutti non ci teniamo tanto, come se fossero di nessuno. Ma se ci pensate passiamo una gran parte della nostra vita nei 'centri' comuni: a scuola, sui mezzi pubblici, per strada. Allora può servire tornare a conoscere i 'centri' costruiti dai nostri padri. Noi pensiamo che le opere d'arte siano dei singoli gioielli che possiamo trasportare dove vogliamo. Ma i centri storici sono delle vere e proprie opere d'arte: più preziose della somma delle singole opere d'arte che contengono. Perché sono degli organismi viventi, dei libri da sfogliare, dei depositi di memoria: e sono anche abitati.

Prendiamone uno meraviglioso, dove sono tornato pochi giorni fa: San Martino al Cimino, in cui (come accade ancora spesso) paese e centro coincidono. È a pochissimi chilometri da Viterbo, dopo l'ospedale (che è invece brutto in un modo terrificante: un enorme muraglia di cemento che spaccia un colle e un paesaggio). Nell'Europa del Medioevo (forse più unita della nostra) San Martino nasce intorno ad un pezzo di Francia piantato nella Tuscia: un'abbazia dei cistercensi di Pontigny. Ma il momento d'oro del borgo è il Seicento quando la cognata di papa Innocenzo X, Donna Olimpia Pamphilj, ne diventa principessa. La Pimpaccia (così la chiamavano i romani) non era proprio uno stinco di santo, ma porta a San Martino le migliori menti dell'arte romana: e il paese si trasforma in una specie di enorme Piazza Navona sperduta in campagna, con le sue fontane, le sue scale, il gigantesco palazzo Pamphili.

E, certo, va vista l'abbazia con ognuno dei suoi capitelli, va visto il meraviglioso stendardo di Mattia Preti e molto altro ancora: ma a parlare davvero è ogni pietra, ogni grata, ogni getto d'acqua. Come tanti strumenti in un'orchestra.In questa primavera, fatevi portare dai vostri genitori ad ascoltare quelle strepitose orchestre che sono i nostri centri storici.

Corriere della Sera Milano, 6 maggio 2013 (f.b.)

Il sogno di un Central Park nella città della Madonnina riparte dagli ex Gasometri della Bovisa. Quel luogo — soprannominato «La Goccia» per la forma che prende, delimitato com'è dalle tratte ferroviarie — per oltre un secolo è stato uno degli epicentri dello sviluppo industriale, sede dal 1905 degli impianti che hanno fornito gas e illuminato la metropoli e sono oggi meravigliosi esempi di archeologia industriale in abbandono, è da qualche anno oggetto di un accordo di programma (non ancora chiuso) per nuovi insediamenti. Programma di sviluppo che un movimento nato dal basso, da qualche mese, sta mettendo con forza in discussione.

I cittadini di Bovisa, consiglieri di zona 9, architetti, urbanisti, tecnici delle bonifiche, urbanisti chiedono che in quell'area grande come cento campi di calcio, dove c'è un bosco centenario (oltre duemila gli alberi ad alto fusto censiti dal Corpo forestale dello Stato) non crescano nuove case ma natura. E sperano che invece di «investire energie in bonifiche costosissime si cerchino nuove strade come quelle del biorisanamento, dove è il verde a divorare gli idrocarburi», spiegano Leonardo Cribio (Rifondazione) e Vincenzo Agnusdei (M5S). Sono alti i costi della bonifica stimati per quell'area industriale, che ospitò un'infinità di fabbriche chimiche e metalmeccaniche: da 60 a 80 milioni di euro. Tredici li ha già versati il Politecnico, che lì ha messo radici tempo fa e spera di ampliarsi con un campus.

Altri 10 arrivano dal governo centrale, la metà stanziati lo scorso autunno nell'ambito del «Piano nazionale per le città». Entro l'estate gli uffici del settore Bonifiche del Comune dovrebbero concludere «l'analisi di rischio» degli inquinanti, mappati in anni di carotaggi. «Si faccia un gruppo di lavoro», dice il neonato comitato La Goccia, presente al tavolo del verde, riunitosi a Palazzo Marino. Con loro, la voce autorevole di Giuseppe Boatti, già docente del Politecnico. «Nella Goccia c'è un'area verde grande come il Parco Sempione — spiega —. Bovisa ha una potenzialità enorme, è un nodo al centro di una rete verde: al di là c'è il parco Verga e, oltre Villa Scheibler, il parco delle Groane. Verso il centro s'aggancia allo scalo Farini e con la destinazione a verde prevista si potrebbe realizzare una dorsale di 5 chilometri dalle Groane alla selva di grattacieli di Porta Nuova». Senza contare il polmone verde dell'ex Paolo Pini (oggetto anch'esso di piani edilizi), anello di congiunzione con il parco Nord. Il sogno di un Central Park meneghino non s'accontenta più di vivere sui social network.

La Nuova Sardegna, 3 maggio 2013

Ha vinto il costruttore Gualtiero Cualbu: la mancata realizzazione del piano immobiliare di Nuova Iniziative Coimpresa sul colle archeologico di Tuvixeddu costerà alla Regione un indennizzo di 70 milioni di euro. L’ha deciso il collegio arbitrale, il contenuto del lodo definitivo è stato comunicato alle parti in causa che nelle prossime ore riceveranno formalmente la decisione motivata. Per l’amministrazione regionale è un colpo micidiale, un verdetto in aperto contrasto con la sentenza del Consiglio di Stato che a marzo del 2011 aveva sentenziato la piena legittimità dei vincoli per notevole interesse pubblico imposti sull’area storica dalla giunta Soru. Quei vincoli restano e l’impresa non potrà mettere in piedi un solo mattone attorno alla necropoli punico-romana più importante del Mediterraneo. Ma per i tre arbitri Cualbu ha diritto a una somma che compensi gli investimenti e il mancato profitto sulla vendita degli immobili mai costruiti malgrado a suo tempo l’intervento fosse stato autorizzato dalle sovrintendenze e legittimato da due accordi di programma firmati nel 2000 da Regione, comune di Cagliari e Coimpresa. Ora la Regione potrà ricorrere ai giudici ordinari della Corte d’Appello civile, mentre già un collegio di secondo grado ha all’esame il ricorso presentato dall’ex governatore Renato Soru e dall’ex assessore all’urbanistica Gianvalerio Sanna contro la loro esclusione dal giudizio arbitrale. Sulla vicenda, di rara complessità, pende poi un’inchiesta giudiziaria aperta contro ignoti dalla Procura cagliaritana, che ha acquisito tutti gli atti della controversia arbitrale partendo da un esposto e dagli atti ufficiali degli avvocati in forza alla Regione, nei quali sul contenuto della relazione tecnica consegnata dall’advisor Deloitte Spa agli arbitri venivano posti seri dubbi. Dubbi che hanno portato il collegio arbitrale prima a un rinvio della decisione, poi ad ulteriori approfondimenti sulla questione affidati ancora a Deloitte. Sembrava che i tempi dovessero allungarsi, invece ieri è arrivata la decisione, del tutto sfavorevole alla Regione.

Di certo il lodo firmato dagli arbitri - l’ex magistrato Gianni Olla, il docente romano Nicolò Lipari dell'università la Sapienza e il presidente emerito della Corte Costituzionale Franco Bilé - non contribuisce a fare chiarezza su una vicenda spaccata su più fronti: il costruttore ha perso tutte le battaglie davanti ai giudici amministrativi, incassa però adesso una vittoria fondamentale, che gli consente di rientrare da un’operazione rivelatasi, non certo per causa sua, fallimentare.

Ma vediamo su quali basi poggia il lodo arbitrale, in attesa che venga diffuso il testo della decisione. Per il consulente Deloitte, incaricato dagli arbitri, i 1971 giorni di ritardo accumulati dal 2006 nella realizzazione del progetto immobiliare di Tuvixeddu hanno provocato alla Nuova Iniziative Coimpresa un danno pari a 39 mila euro al giorno, in tutto 76,7 milioni calcolati al 18 maggio di due anni fa nell'ipotesi che i lavori fossero sospesi e che potessero riprendere. Di questa cifra la Regione - per la Deloitte - dovrebbe pagare al costruttore una buona parte, circa 60 milioni, se il collegio arbitrale stabilisse con un lodo definitivo che sono state le amministrazioni di Soru e Cappellacci a provocare e a mantenere il blocco degli interventi sul colle dei Punici, che una volta completati e offerti sul mercato nei tempi previsti - 36 mesi per le opere di urbanizzazione, 55 mesi per quelle edili - avrebbero garantito all'impresa un utile dopo le tasse tra i 113 e i 136 milioni a patto che ogni appartamento fosse stato venduto entro il 2020. La colpa principale sarebbe della Regione, cui Deloitte attribuisce infatti la percentuale maggiore di "responsabilità" soprattutto nel periodo che va dal 9 agosto 2006 al 4 dicembre 2008. Nella fase due però, dal 2008 ad oggi, si affiancano all'amministrazione regionale il ministero dei Beni Culturali attraverso l'Avvocatura dello Stato e le associazioni culturali ed ecologiste. Una sorta di forza d'opposizione che alla fine vince i giudizi davanti al Consiglio di Stato e al Tar, fermando Nuova Iniziative Coimpresa e aprendo di fatto il contenzioso parallelo davanti agli arbitri.

Nella lunga relazione è compresa una sterminata raccolta di servizi giornalistici, note di associazioni ecologiste, trascrizioni di dichiarazioni pubbliche e documenti utili - secondo Deloitte - a dimostrare la grande attenzione mediatica sul caso Tuvixeddu provocata dalle iniziative della giunta Soru, dei Beni Culturali e della Procura.

riferimenti

Sulla vicenda della necropoli punico-fenicia dei colli Tuvixeddu-Tuvumanno a Cagliari vedi i numerosi articoli nella cartella SOS Sardegna

Corriere della Sera Milano, 3 maggio 2013, postilla (f.b.)

L'isola ciclopedonale più estesa di Milano sorvola via Melchiorre Gioia su un ponticello «ad ali di gabbiano», ma la leggerezza si ferma alla metafora: sono serviti una «sfida d'alta ingegneria», un trasporto straordinario notturno e la gru più grande d'Europa per muovere queste 400 tonnellate di acciaio e allacciare i due tronconi nel paesaggio di Porta Nuova. La passerella — lunga 68 metri, larga 5,4 — sarà aperta al pubblico solo all'inizio del 2014, dopo le rifiniture e i collaudi tecnici, ma da ieri anticipa il futuro sostenibile promesso al quartiere: un unico e ininterrotto percorso pubblico senz'auto tra le Varesine, la piazza circolare dei grattacieli, il Bosco verticale e il nuovo corso Como residenziale. In totale: 160 mila metri quadrati di città libera dal traffico.

Ecco il triangolo della mobilità dolce: Repubblica, Garibaldi, l'Isola. «Con quest'intervento prosegue il processo di ricomposizione dei quartieri storici di Milano», sottolinea Manfredi Catella, l'amministratore delegato di Hines Italia, la società capofila nel piano di riqualificazione urbanistica. Il ponte (in ritardo di sei mesi, progettato da Arup e realizzato da Omba, il profilo snello e impianti per l'illuminazione notturna) è l'anello di collegamento tra le torri Unicredit e la stecca delle Varesine. Una tappa di passaggio simbolica e strutturale: «La posa della passerella — intervengono il vicesindaco Ada Lucia De Cesaris e l'assessore Carmela Rozza — rappresenta un ulteriore passo in avanti per la realizzazione delle opere pubbliche nell'area di trasformazione di Porta Nuova». In cantiere, ad osservare gli operai, c'era ieri anche l'assessore alla Mobilità, Pierfrancesco Maran: «La mobilità nuova è qui».

La passerella è una tappa, si diceva. Il cronoprogramma dell'operazione Porta Nuova annuncia da subito una serie di altre scadenze. Entro maggio aprirà il primo negozio nella piazza-podio intitolata a Gae Aulenti: è la gelateria Grom. Il mese prossimo sarà presentato il centro espositivo firmato dallo studio Grimshaw (l'edificio a forma di armadillo) ed entro l'estate sarà completata l'istruttoria amministrativa per la Casa della Memoria all'Isola. Quanto alla Biblioteca degli alberi nel parco da 85 mila metri quadri, progettato da Petra Blaisse come «moderna versione di un giardino botanico», le bonifiche inizieranno a fine anno: «Il primo lotto — annuncia Catella — sarà consegnato ai cittadini entro il 2014». Al posto del Centro culturale Varesine, stralciato dalle carte, sarà «rapidamente allestita» una piazza pubblica. Scomparso dalla mappa anche il museo della Moda (o Modam): il Comune investirà le risorse degli oneri di urbanizzazione per altri interventi nel quartiere.

Infine, l'aspetto commerciale. La crisi del mattone ha rallentato il collocamento delle residenze (in tutto sono 380) e degli uffici. Le vendite, iniziate nel 2010, proseguiranno per altri due-tre anni: ci sono circa 180 appartamenti liberi. Riempite le casette di corso Como (95 alloggi abitati su 100), Hines metterà sul mercato a fine anno le ville urbane alle Varesine e gli ultimi piani delle torri Solaria e del Bosco verticale.

Postilla

La prima parte delle osservazioni a margine, ovviamente è di sollievo: la grande operazione dei grattacieli firmati non finisce qualche metro sopra il livello stradale, lasciandoci impantanati nella solita valle di lacrime urbana sottostante. C'è anche un “progetto di suolo” per contestualizzare l'intervento anche nella fascia del cosiddetto plinto urbano. E va bene. Ma non può non saltare all'occhio come il meccanismo sia identico ad altri progettoni urbani, come quello recente del Portello, a rigoroso orientamento automobilistico stile anni '60: mancano solo la brillantina, il gomito fuori dal finestrino e la sigaretta doppio filtro ostentati come distintivo di modernità. Sovrappassi, sottopassi, passerelle, in sostanza percorsi segregati, anziché quell'integrazione vera che fa città del terzo millennio. Aggiungiamoci la rigida destinazione terziaria, e si finisce per apprezzare soprattutto la vicinanza del vecchio quartiere Isola, un po' acciaccato ma almeno dotato di qualità urbane vere: possibile che la nostra esperienza della modernità debba essere forzatamente caricaturale? (f.b.)

Sul medesimo tema delle costose opere infrastrutturali invece di una forse più adatta pianificazione e organizzazione, si vedano i precedenti articoli sul Tunnel di Monza, e sull'area di riqualificazione all'ex Alfa Portello

Ricostruire la Grande Milano, dall'essere concepiti caso per caso secondo le esigenze degli investitori, anziché quelle del territorio

In questi ponti primaverili segnati dal tempo incostante, pazzerello come dicono gli smemorati dell'anno scorso, le uniche uscite praticabili salvo eroismi sono quelle del genere mordi e fuggi. Il 25 aprile a differenza di altre volte (basta guardare le foto delle manifestazioni dal dopoguerra: soprabiti e ombrelli ovunque) uno squarcio di cielo azzurro almeno sulla padania ha riacceso la voglia di passeggiare, dopo la claustrofobia invernale. Passeggiare ovunque, anche dentro certi spazi improbabili come i cosiddetti ambiti di riqualificazione urbana.
La zona a uffici dalla sopraelevata
Milano in questo campo è da sempre all'avanguardia. Intendo sia il campo della voglia di passeggiare che quello della riqualificazione urbana. In epoca moderna, almeno da quando negli anni gloriosi (?) delle ultime amministrazioni di sinistra, come si diceva una volta, si iniziava a squarciare idealmente il velo grigio di muraglie, ciminiere, raccordi ferroviari e stradoni a cul-de-sac dismessi da lustri, ma restati lì in attesa di chissà che cosa. Gli anni in cui l'amministrazione comunale sperimentava in un modo o nell'altro strumenti urbanistici nuovi per assecondare la nuova città in ascesa. Gli anni in cui Gabriele Basilico immortalava, nel suo museo fotografico in tempo reale, la vera natura di monumento alla storia sociale, di quei capannoni ancora incombenti, ma già consegnati al passato. A tutti restava la voglia di varcare quelle soglie ideali di grandi isolati, oltre le erbacce e la cosiddetta “nostalgia delle ciminiere”.
Poi si scoprì che, come sospettava qualcuno, dietro l'entusiasmo per il cosiddetto post-industriale c'era molto vuoto culturale e voglia di arraffare a più non posso. Ci fu la stagione di Mani Pulite, che insieme a tanto altro rallentò (e giustamente, da molti punti di vista) le trasformazioni urbanistiche, rendendo evidente come anche i più fascinosi rendering spesso servissero solo a nascondere miserie, dietro a promesse di futuri scintillanti. Alla fine però, nel bene e nel male, qualcuno di questi progettoni pubblico-privati inizia a prendere forma e spalanca almeno in parte i propri spazi ai cittadini, un po' come quelle tenute nobiliari di cui a fine '700 crollavano i cancelli arrugginiti, lasciando finalmente scoprire l'idea di parco urbano a chi soffocava nei quartieri storici. All'ex Alfa al Portello, per esempio, dove col sole della giornata di festa si è precipitata una piccola folla, tra il curioso e discutibile parco a spirale ascendente, e la cosiddetta “piazza”. Ovvero il centro commerciale all'aperto, che per l'occasione vedeva attivissimi i chioschi di gelato, come davanti ai classici sagrati italiani della tradizione, salvo lo sfondo di ipermercato, marchi e insegne globalizzati.
La collinetta del parco a spirale ascendente
Qui ci sarebbe da fare una piccola divagazione a proposito del dibattito su negozi aperti si, negozi aperti no, nei giorni festivi. Nel senso: cosa ne sarebbe, di posti così, se gli esercizi commerciali abbassassero le saracinesche? Ma si tratta (come scopro tutte le volte che provo a toccare l'argomento) di un tema arroventato da ideologie varie, e che non sta al centro di queste note. La Piazza Portello coi suoi negozi aperti il 25 aprile, stavolta serve solo da portale di ingresso nell'universo della riqualificazione sperimentato direttamente. Una riqualificazione che per ora pare assumere un sapore piuttosto stantio, anni '60 per intenderci. Vediamo perché. Se si va un pochino oltre quella piccola e in fondo caricaturale finta piazza, poco più di una versione all'aperto del classico atrio da centro commerciale, si inizia a capire meglio il senso del cosiddetto automobile-oriented-development.
L'area del Portello è infatti tagliata e delimitata dal sistema di arterie a scorrimento veloce che comunicano direttamente con la rete delle Tangenziali. Poco oltre la piazza commerciale, anche al netto dal disagio indotto dai soliti eterni new jersey a convogliare i pedoni dentro una specie di condotto da animali al macello, il paesaggio si presenta eloquente. Siamo, né più né meno, in un ambiente che ricorda da vicino un'area di sosta autostradale, più che una vera e propria parte di città, le cui componenti sono al massimo un residuo della storia, come le ciminiere della nostalgia. Un albergo, un fast-food che più a orientamento automobilistico non si può, e poi la barriera invalicabile (un muro assai più efficace di qualunque recinzione di fabbrica) delle varie corsie di accesso a svincoli e sottopassi. Solo arrivando in cima al curioso parco a spirale, che ricorda vagamente il dipinto della Torre di Babele, si intuisce il contesto in cui si cala il quartiere, ad esempio rispetto all'altra più grande zona a parco del QT8 col Monte Stella, di cui la spirale vorrebbe essere una specie di impropria citazione.
La passerella di collegamento interno al quartiere
L'altra fetta della riqualificazione, quella più vistosa nelle architetture, con edifici massicci a destinazione terziaria, sta oltre il tracciato della sopraelevata Serra-Monte Ceneri, e ci si arriva a piedi, partendo dalla striscia albergo e fast-food, attraverso un percorso quanto mai triste e acciaccato, rasente il controviale per le auto. Da questo asse si può guardare lo spettacolo, in sé accattivante, della nuova passerella pedonale che collega scavalcando le otto corsia la zone di uffici alla collinetta del parco. E anche in un giorno di festa, con tutti i milanesi, residenti e non, probabilmente alla ricerca di qualcosa di diverso da uno spostamento in auto, si intuisce senza statistiche alla mano in che luogo si sta. La vecchia fabbrica Alfa Romeo aveva un proprio sistema di collegamento tra le zone dei due insediamenti, su un lato e l'altro della sopraelevata. Oggi a svolgere un ruolo del genere c'è appunto il ponte pedonale e ciclabile, elegante e gradevole. Ma fuori da lì, il collegamento tra le due fette della zona di riqualificazione non esiste. E per forza.

Si può solo sgattaiolare da un lato all'altro, nei punti in cui la sopraelevata lo consente, ma unico trait-d'union resta quel ponte di tipo autostradale, manco fossimo nei vecchi Autogrill. La sopraelevata, osservata nell'altra prospettiva, quella giusta, quella appropriata, non è affatto una barriera, ma un elemento di unione: nel senso che unisce la città alle Tangenziali, che fa entrare e uscire flussi ingenti di traffico, da e verso l'anello delle circonvallazioni esterne, o i raccordi autostradali anche fisicamente vicinissimi. Ora, di recente sono comparsi dei bei disegni dove, citando la famosa High-Line di Manhattan, si ipotizzava una ricucitura delle due porzioni del quartiere, quella terziaria e quella residenziale, commerciale, a parco, trasformando l'asse della sopraelevata in una specie di sistema a boulevardcon passeggiate su vari livelli e organizzazione a verde urbano. A New York l'hanno fatto, si sostiene, perché non anche qui? Una sciocchezza.

La sopraelevata oggi (dal sito Urban File)
Si badi: non una sciocchezza la proposta in sé. Quello che manca è la contestualizzazione, e che contestualizzazione! Perché tutto quel piano di riqualificazione urbana, il quale ha una sua coerenza - e per forza con le ingenti cifre che ci hanno investito – pare ahimè uscito dal tavolo da disegno di un architetto che la domenica era andato a guardare in prima visione Il Sorpasso di Dino Risi, con Vittorio Gassman e Jean-Louis Trintignant. Ovvero, se si eccettuano le forme e i materiali degli edifici, le tecniche di rappresentazione, magari il ruolo di verde e spazi pubblici, siamo ancora dalle parti del movimento moderno, dei cantori della velocità, della metropoli fatta di grandi distretti intersecati da expressways. Non accade per particolare perversione dei progettisti, ma perché la città è saldamente organizzata in quel modo: cosa potremmo dire ad esempio a chi arriva dalla direzione dell'asse Comasina SS35 diretto verso gli svincoli A4-A8 di Certosa? E naturalmente a tutti coloro che dopo aver pagato il pedaggio alla barriera, si stanno immettendo nella viabilità ordinaria. Gli diciamo la prossima volta prendete il treno?
La sopraelevata diventa un boulevard-passeggio
Certo che si, glie lo possiamo dire di sicuro, di prendere il treno. Ma con le dovute premesse. Che ci sia un'ottimo sistema di collegamenti pubblici (magari col complemento della mobilità dolce con spazi adeguati) a scala urbana e tendenzialmente metropolitana. Che per chi è costretto in qualche modo a spostarsi col veicolo individuale esistano valide alternative di percorso e/o facili interfaccia. Che, infine, questo genere di accessibilità si adatti alle forme specifiche organizzative del quartiere così com'è, coi suoi volumi e funzioni che da soli smistano una quantità enorme di flussi in entrata e uscita. Fare il percorso inverso, ovvero prima convertire a viale alberato e passeggio la sopraelevata, magari va bene se giochiamo a Sim City, giusto per assistere all'ecatombe, e divertirsi un po' tra amici. Perché, prima di dire facciamo anche noi la High-Line, sarebbe meglio capire cos'è, la High-Line, e guardare solo le figure non basta. O no?

Nota: i limiti del quartiere Portello sono per molti versi conseguenza della genesi urbanistica della riqualificazione urbana milanese, tutta orientata alla cosiddetta "attuabilità" dei progetti, ovvero ad un approccio sostanzialmente parziale e privatistico, come quello delineato dal documento di inquadramento Ricostruire la Grande Milano, già ampiamente criticato su queste pagine sin dalla sua pubblicazione. Si veda ad esempio questo articolo di Edoardo Salzano da Urbanistica n. 118, 2002

Corriere della Sera, 29 aprile 2013, con postilla

Riuscirà il nuovo ministro a far convivere Raffaello e Mr. Tourist? La sfida che ha davanti Massimo Bray, il primo ministro dei Beni culturali e del Turismo della nostra storia, è da brividi. Ma va vinta. Per troppo tempo, infatti, la sacrosanta tutela dei nostri tesori d'arte e la gestione (meglio: mala-gestione) delle nostre potenzialità turistiche sono state tenute rigorosamente separate. Contrapposte. Come se l'una escludesse l'altra. Peggio: come se l'una fosse nemica acerrima dell'altra.

Se il direttore editoriale dell'enciclopedia Treccani e della rivista dalemiana Italianieuropei, nonché anima della fondazione «Notte della Taranta», sarà all'altezza del compito è tutto da vedere. E anche se non mancano i plausi per la scelta sorprendente, non è solo Ernesto Galli della Loggia ad avere perplessità. Auguri. Sinceri. A lui e agli italiani, troppe volte delusi dal modo in cui i big politici hanno snobbato questi ministeri, visti come secondari rispetto a quelli «di serie A». L'unione di Beni culturali e Turismo (magari con l'aggiunta del dicastero dell'Ambiente e del paesaggio, come proponeva il Corriere) proprio a questo dovrebbe servire: a dare al titolare di questi settori la possibilità di avere una visione d'insieme. E più ancora la statura, l'energia e il peso politico per battere i pugni sul tavolo in Consiglio dei ministri spiegando anche ai più sordi quanto sostengono non vecchie gentildonne amanti delle belle arti ma lo stesso Sole 24 Ore, il giornale di Confindustria.

E cioè che perfino i grandi progetti come il ponte sullo Stretto «presentano moltiplicatori di reddito inferiori a quelli evidenziati dai progetti culturali: due volte contro 4-5 volte». Il piano industriale del nuovo Louvre nell'area degradata di Lens prevede che i soldi investiti ne fruttino sette volte tanti. Quelli stanziati per il Guggenheim di Bilbao, dice un rapporto Ue, si sono moltiplicati in soli 7 anni per 18.

Sia chiaro: il primo compito di un ministro dei Beni culturali italiani non può che essere la conservazione e la tutela di quel patrimonio straordinario che abbiamo (forse immeritatamente) ereditato e che conserviamo spesso con una sciatteria e un'avarizia che gridano vendetta. E certo vanno evitate come la peste follie stile Las Vegas come la costruzione d'una Pompei virtuale accanto alle rovine archeologiche abbandonate al degrado o gli spot coi Bronzi di Riace che scappano dal museo per andare in spiaggia o la realizzazione di una finta città greca coi finti templi e la finta agorà e perfino un finto Davide di Michelangelo previsti dal progetto «Europaradiso» a Crotone. Alla larga.

Una miriade di esempi virtuosi sparsi per il mondo, però, ci dicono che è possibile conciliare il rispetto, la cura e la tutela dei tesori d'arte con una gestione agile, accorta, lungimirante e redditizia di quello che sta affermandosi come il grande affare del terzo millennio. Spiega la Ue (comunicazione 352/2010) che il turismo è «la terza maggiore attività socioeconomica europea, dopo il settore del commercio e della distribuzione e quello della costruzione. Se si considerano i settori attinenti, il contributo del turismo al Prodotto interno lordo risulta ancora più elevato: si ritiene, infatti, che sia all'origine di più del 10% del Pil dell'Unione Europea e che fornisca circa il 12% dell'occupazione totale».

È in enorme espansione, il turismo mondiale. L'anno scorso, i viaggiatori che hanno fatto una vacanza all'estero hanno superato per la prima volta il miliardo. E noi, che nel 1970 eravamo la prima destinazione del pianeta e oggi stiamo malinconicamente al quinto posto dietro Francia, Spagna, Stati Uniti e Cina, stiamo sprecando un'occasione storica. Basti dire che, come ricorda Silvia Angeloni in «Destination Italy», secondo il «Country Brand Index 2012-2013» elaborato da FutureBrand su 118 Paesi, il «marchio» Italia è il primo al mondo per «l'attrattività legata alla cultura», il primo per il cibo, il terzo per lo shopping e nel complesso rappresenta «la prima destinazione dove i turisti vorrebbero andare». Eppure nella classifica finale, a causa di molti altri fattori come il rapporto qualità-prezzo, siamo solo quindicesimi. Di più: pur avendo l'Italia più siti Unesco (47) di tutti, spiega uno studio PricewaterhouseCoopers che se noi ricaviamo dai nostri 100, Spagna e Brasile ricavano dei loro 130, la Gran Bretagna 180, la Germania 184, la Francia 190, la Cina addirittura 270. Il triplo.

Sapete quanti italiani sono occupati nel turismo in senso stretto? Ce lo dice il World Travel & Tourism Council: 869 mila, sette volte e mezzo più degli addetti della chimica. Se calcoliamo anche l'indotto 2.231.000, cioè mezzo milione in più di tutta la metalmeccanica. Eppure, la cultura e il turismo sono rimasti per anni ai margini degli interessi di tutti i governi. E ognuno si è arrangiato per conto proprio. Regione per regione, campanile per campanile. Senza un minimo di visione più larga. Come se proprio la cultura e il turismo non fossero le nostre grandi ricchezze.

Postilla

Vorremmo che Gianantonio Stella, tenace autore di argomentate denunce della mercificazione del territorio in nome del trionfo del cemento, riflettesse con uguale attenzione critica al connubio tra turismo ed economia. Enfatizzare il ruolo economico della fruizione dei beni culturali, nell’ambito dell’attuale economia (quella capitalistica) e in una fase in cui economia e politica sono alleate nella ricerca del maggiore vantaggio economico nel più breve termine è cosa molto pericolosa. Assomiglia molto a quella visione dei patrimoni comuni che Gianni De Michelis, fedele e intelligente ministro di Bettino Craxi aveva battezzato giacimenti culturali. Una visione che su questo sito abbiamo fin dal giorno della sua invenzione. Il rapporto tra turismo ed economia può essere configurato correttamente solo se visto in una visione che sia fondata sul primato del valor d’uso sul valore di scambio, e sulla sostituzioe del termine “valorizzazione” con l’espressione “messa in valore delle qualità dei beni, quindi priorità della loro conservazione: “beni” culturali, quindi, non “merci”.

Corriere della Sera Milano, 28 aprile 2013 (f.b.)

Trenta centimetri di scavo, poco più d'una buca nel fango, fine delle ricerche, oltre non si scende. Cemento. Il paesaggio rigoglioso di via Mac Mahon è un'illusione ottica e un refuso storico: «Gli olmi sono cresciuti su una piattaforma impermeabile; sono deboli; instabili; rischiano di crollare». Bisogna sforzarsi d'immaginare la strada in sezione, come una torta a strati. L'aiuola, i filari e i binari del tram sono appoggiati su un «solettone», un corridoio murario, un sottopavimento che da piazza Diocleziano si allunga in via Mac Mahon per quasi un chilometro e mezzo. Le radici degli alberi non sono libere di espandersi nel sottosuolo, devono accontentarsi di 25-30 centimetri di terriccio e arrivate al fondo sbattono, si torcono e riaffiorano come varici in superficie.

Lo certifica un'indagine condotta per Atm da un'équipe della Facoltà di Agraria della Statale ed è sulla base di questo report che il Comune ha deciso di tagliare col passato. Gli olmi sono pericolanti. Saranno abbattuti e ripiantumati. I dirigenti Atm di lungo corso sostengono che «l'intervento di messa in sicurezza della massicciata è irrinunciabile e non più procrastinabile». Per due ragioni. La prima: «Le radici degli alberi ostacolano e rendono insicure le corse del tram 12». La seconda: «L'eliminazione del solettone di cemento è comunque indispensabile per favorire una crescita sana delle specie arboree». E non da oggi. Il «dossier Mac Mahon» venne sottoposto alla giunta dell'ex sindaco Moratti nel 2008 e da allora è stato di volta in volta rinviato: troppo costoso e invasivo, la gente non capirebbe.

Soluzione tampone: l'Atm ha istruito i macchinisti e rallentato la marcia dei Carrelli («A passo d'uomo»), ma l'ordine di servizio non ha cancellato gli ostacoli sul percorso né ha ridimensionato l'allarme. A gennaio la dirigenza Atm ha ribadito al sindaco Pisapia l'urgenza del piano di riqualificazione e ottenuto un sostanziale via libera. Il Comune ha ripreso il progetto, l'ha alleggerito (in tecniche e costi) e l'ha presentato il 15 aprile al Consiglio di Zona 8. Le reazioni, prevedibili: protestano i residenti («No allo scempio»), s'inalberano gli ambientalisti («Prima di arrivare all'incredibile recisione di 170 alberi, robusti e rigogliosi, si dovrebbero tentare diverse soluzioni alternative»), partono raccolte di firme e inviti alla mobilitazione per fermare la strage degli olmi.

Non è sempre stata così, la via Mac Mahon. All'alba del Novecento, quando venne edificato il quartiere, gli alberi adornavano i marciapiedi davanti ai palazzi; vennero spostati e ricollocati al centro della strada solo negli anni Venti-Trenta, quando il municipio e l'azienda di trasporti realizzarono il tracciato tramviario. Il tappeto di cemento c'era già allora, grezzo e ingombrante, venne semplicemente nascosto dalla terra e coperto dai filari. L'hanno riscoperto gli agronomi della Statale nel 2008, durante la campagna di ottanta carotaggi commissionata da Atm. La prima e unica ricerca scientifica sulla «precaria condizione» degli olmi.

La Repubblica Milano, 27 aprile 2013 (f.b.)

UN ALBERO per ogni neonato. A ciascuno il suo, con tanto di informazioni alla famiglia sulla sua collocazione. A Milano, dove negli ultimi tempi si viaggia su una media di 11mila nascite all’anno, vorrebbe dire aggiungere ogni anno un’area verde grande come il parco Ravizza. È l’impatto in città della normativa nazionale che impone a Palazzo Marino, come ad altri Comuni con oltre 15mila abitanti, di rispettare il rapporto di una nuova pianta per ogni bimbo nato in città. Un piano piuttosto corposo da gestire, che il Comune sta iniziando ad affrontare. Da capire c’è soprattutto la destinazione più adeguata di questo nuovo verde, trovando gli spazi, dentro o fuori la città.

La missione della legge nazionale è provare a contrastare, almeno in parte, la perdita di zone verdi nel Paese, che secondo l’Istituto superiore per la protezione e ricerca ambientale (Ispra) è di otto metri quadrati al secondo. La norma esiste in realtà da oltre vent’anni, dal 1992, ma non è mai stata applicata. Fino a quest’anno, quando a febbraio è entrata di fatto in vigore con alcune modifiche. L’obbligo non riguarda solo le nascite ma anche i bambini adottati e il limite di sei mesi dalla nascita (o adozione) per piantumare. Così Milano ha iniziato a fare i conti con tutto questo verde da smistare in giro per la città. La legge è in sintonia con il Dna della giunta: «Lo spirito è in linea con la nostra missione di estendere ogni anno il verde in città», osserva l’assessore al Verde, Chiara Bisconti.

Oggi a Milano ci sono 22 milioni di metri quadri di verde pubblico, 17,79 per abitante, quattro in più rispetto a dieci anni fa. Ma se per un Comune piccolo è tutto più semplice, per Milano inserire ogni anno almeno 11mila nuovi alberi ad alto fusto potrebbe creare qualche problema. «Il rovescio della medaglia — puntualizza Bisconti — è che l’applicazione nei Comuni grandi e ad alta natalità ha qualche criticità che stiamo cercando di risolvere. La città è già abbastanza verde e bisogna trovare gli spazi». L’Anagrafe è al lavoro assieme al Demanio. Le ipotesi sono allo studio. Si sta sondando innanzitutto se dal conteggio totale degli 11mila si possa sottrarre qualcuno dei 7-8mila alberi, per lo più platani e olmi, che l’amministrazione arancione assicura di piantare ogni anno in città. Anche se in realtà, di questi, più della metà, 4.500, sono in sostituzione di fusti malati o arrivati a fine vita e dunque non ex novo. Da individuare ci sono più che altro grandi assi stradali, magari intorno alle tangenziali, che possano accogliere gli alberi che inizieranno a spuntare almeno dopo l’estate. Oppure spingersi fuori. «Magari ragionando su compensazioni in Comuni limitrofi in un’ottica di città metropolitana », aggiunge Bisconti.

Di sicuro c’è che l’Anagrafe dovrà dar conto a ogni famiglia sulle coordinate dell’albero del neonato. Toccherà al Comune provvedere anche a un censimento annuale di tutte le piantumazioni. Inoltre, a due mesi dal fine mandato, nel caso di Pisapia nel 2016, il sindaco dovrà
tracciare un bilancio arboreo tirando le somme sugli alberi piantati nelle aree pubbliche urbane da inizio a fine mandato. A vigilare, promette di pensarci il Comitato per lo sviluppo del verde pubblico, ministero dell’Ambiente.

Corriere della Sera Milano, 25 aprile 2013, postilla (f.b.)

La Città della Salute e il Cerba sono al duello finale. Entro il mese di giugno, per motivi tecnico-amministrativi, dev'essere definito il futuro dei due mega poli scientifici. Il loro destino appare intrecciato: i dubbi sull'opportunità di realizzare entrambi i progetti, nell'aria già da un paio d'anni, appaiono più forti che mai nel Pirellone del dopo Formigoni. Due giorni fa si è chiuso il primo bando di gara per la costruzione dell'Istituto dei Tumori e del neurologico Besta nell'ex area Falck a Sesto San Giovanni. È un'opera da 450 milioni, di cui 330 milioni da finanziare con soldi della Regione Lombardia. I giorni di cantiere previsti sono 1.350. La fase che si è appena conclusa è quella di pre-selezione, utile a individuare sul mercato chi è disponibile a realizzare i lavori: a Infrastrutture Lombarde, che tiene le fila del progetto per il Pirellone, sono arrivate dieci offerte di imprese ingegneristico-finanziarie italiane e estere. Sull'argomento sono in programma nei prossimi giorni anche i consigli di amministrazione dell'Istituto dei tumori e del Besta.

Contemporaneamente sembra navigare con il vento in poppa l'altro mega polo scientifico, quello sognato dall'oncologo Umberto Veronesi: il Centro europeo di ricerca biomedica avanzata (Cerba), destinato a sorgere sui terreni del Parco Sud, già di proprietà di Ligresti. In una lettera appena arrivata al governatore Roberto Maroni e al sindaco Giuliano Pisapia, le banche creditrici del fallimento delle società di Salvatore Ligresti (Im.co e Sinergia) comunicano di essersi costituite in una società, la Visconti srl: gli istituti di credito, che devono rientrare dai 330 milioni di euro messi a rischio dal fallimento Ligresti, sono pronti a realizzare il Cerba. L'intenzione è di conferire le aree del Parco Sud — salvo ovviamente il via libera del Tribunale fallimentare — a un fondo di investimento immobiliare che sarà gestito da Hines sgr di Manfredi Catella (autore anche del progetto di Porta nuova). La costruzione del Cerba è a carico dei privati. Le cifre in gioco superano il miliardo di euro.

Ma tra gare d'appalto, riunioni di cda e lettere delle banche, quel che più conta è la politica. E dal Pirellone ieri è arrivato un segnale importante. Fabio Rizzi (Lega), alla guida della Commissione Sanità, ha stilato un calendario di convocazioni: l'8 maggio sono attesi in Regione i vertici dell'Istituto dei tumori e del Besta, mentre per il 15 maggio è in programma un'audizione sul Cerba. È una riapertura della discussione sulla reale utilità dei due progetti — come già Rizzi aveva anticipato al Corriere — in un'ottica di programmazione sanitaria e di sostenibilità dei costi in tempi di crisi. «Tutte le procedure pubbliche, finché non sono aggiudicate, possono essere revocate», fanno intendere al Pirellone. Stefano Carugo, responsabile della Sanità del Pdl, ammette: «Bisogna rivalutare complessivamente la sostenibilità dei due grandi progetti». Il dibattito s'annuncia di fuoco. Sara Valmaggi e Carlo Borghetti del Pd invitano alla cautela: «Sono già stati siglati protocolli di intesa e sono in corso procedure esecutive ben definite. Besta e Tumori non sono semplici presidi ospedalieri, in gioco c'è il futuro della ricerca pubblica lombarda». Ma la partita appare appena iniziata.

Postilla
Non è il caso di farla troppo lunga (il lettore può risalire nel tempo delle opinioni espresse in questo sito semplicemente consultando articoli e postille, in entrambe le edizioni di eddyburg e). Solo due precisazioni su quanto l'articolo necessariamente sorvola:
1 – la Questione Scientifico-Sanitaria come hanno più volte sottolineato i diretti interessati operatori, medici e manager, pare evaporata di fronte a quella urbanistica, territoriale, come se la salute collettiva si valutasse in termini di spazi, metri cubi su metro quadro, localizzazioni degli interventi; che nulla hanno a che vedere in sé e per sé con le sedi, che volendo già esistono e si potrebbero riorganizzare, magari con progetti edilizi alternativi a queste mega opere.
2 – la Questione Ambientale-Localizzativa, che comprende da un lato la secca alternativa (su cui in teoria non dovrebbero esistere dubbi) fra il consumo di spazi aperti a man bassa, specie di pregio e agricoli periurbani, e il recupero di superfici dismesse già urbanizzate; dall'altro sul versante più propriamente ambientale l'occasione di restituire alla città angoli degradati, oggi inaccessibili, proprio sfruttando l'occasione economica di poli scientifici in grado di riqualificare non solo urbanisticamente l'area metropolitana.
E concludendo sull'evocata questione metropolitana: nessuno ricorda che fra pochi mesi le concorrenze fra campanili per aggiudicarsi questa o quella fetta di trasformazioni di prestigio dovrebbero venir meno, con l'istituzione della Città Metropolitana di Milano? Beh, pare proprio che le forze politiche ed economiche considerino quella scadenza solo occasione di manovre subacquee o poco altro. Un modo di ragionare da cosiddetta metropoli europea? (f.b.)

la Repubblica e Armando Stella dal Corriere della Sera Milano, 21 aprile 2013 (f.b.)

la Repubblica Case basse, più verde e meno lusso così la crisi ridisegna Santa Giulia
di Zita Dazzi

È un nuovo masterplan, ed è firmato ancora una volta dall’archistar Norman Foster per Santa Giulia bis, la seconda parte del quartiere a due passi da Rogoredo, quella rivolta verso nord. Un progetto ambizioso, anche se ridimensionato dalla crisi negli investimenti, nei costi finali degli alloggi e nelle altezze complessive degli edifici. Il Comune ha già ricevuto un piano di massima, al quale ne seguirà a breve uno definitivo. E sulla base di quel che già si vede nei rendering e nei plastici, il vicesindaco Ada Lucia De Cesaris arriva a prevedere che i lavori partiranno entro un anno, di pari passo alla bonifica ambientale su 35mila metri quadrati di verde oggi sotto sequestro giudiziario.

Un intervento urbanistico ed edilizio avviato in era Moratti che potrebbe essere completato per il 2018, con abitazioni per altre 10-12mila persone, in aggiunta alle quasi 5mila che già vivono nella zona sud dell’insediamento. Molte le novità annunciate ieri ai cittadini, alla presenza del vicesindaco Ada Luisa De Cesaris, in un incontro pubblico nella sede di Risanamento Spa, la società proprietaria dell’area Santa Giulia. Nel nuovo insediamento — oltre alle palazzine residenziali con alloggi e uffici il cui costo finale sarà molto inferiore agli 8mila euro al metro quadrato preventivato nel 2005, quando venne realizzato il primo progetto — vi saranno un’arena per spettacoli e manifestazioni sportive, un museo dei bambini in collaborazione col museo della Scienza e della Tecnologia, una biblioteca, una mediateca, una chiesa, un cinema multisala, oltre a un’area commerciale pedonale collegata con un ipermercato.

Verranno costruite piste ciclabili che attraverseranno tutto il quartiere e lo collegheranno all’Idroscalo e al resto della città. «Sarà una vera green city secondo i più avanzati criteri della sostenibilità ambientale, sociale ed economica. Tutta la vita del quartiere ruoterà attorno a un
grande parco con al centro un lago » ha spiegato l’ingegner Alessandro Meneghelli, direttore della progettazione, cercando di tranquillizzare quanti abitano nei palazzi che oggi si affacciano sul lato sud del parco e che hanno scoperto, nel plastico, alcuni nuovi palazzi che ostruirebbero la vista sul verde. «Saranno palazzi da 4, massimo 5 piani, mentre le case attuali sono di 8» ha replicato Meneghelli, aggiungendo che «il progetto definitivo prevede anche un ponte ciclopedonale per collegare via Merezzate con l’altra parte del parco e il completamento della Paullese fino a via Salomone».

Il vicesindaco De Cesaris si è prodigata per tranquillizzare gli abitanti: «Mi sembra un buon progetto, rispettoso dell’ambiente e diverso da quello originale che l’amministrazione aveva ereditato. Il cuore del quartiere è il parco, elemento di connessione e socializzazione. Ci sono molte strade pedonali che collegano le corti residenziali al verde, ai servizi e all’area commerciale ». I cittadini hanno tempestato di domande sia la De Cesaris sia i vertici della società costruttrice: c’era molta curiosità ma anche il timore di ennesime delusioni. «Tutto ciò — ha aggiunto il vicesindaco — ci permette di far ripartire già dal prossimo autunno la bonifica, in attesa che la magistratura concluda la sua inchiesta che comunque procede su canali indipendenti. Poi, col progetto esecutivo, verificheremo le volumetrie e chiederemo ai costruttori le modifiche che interessano ai cittadini, comprese quelle riguardanti le case affacciate sul parco».

Corriere della Sera Parco e Museo dei bambini Progetto per Santa Giulia
di Armando Stella

Un parco grande poco meno del Sempione, un laghetto, un museo tecnologico per i bambini, un'arena coperta, case e negozi, il cinema e l'Esselunga, cioè il sogno della periferia modello promesso nel 2005, avvelenato dai rifiuti tossici e messo sotto sequestro dal tribunale. E tuttavia: non sepolto né dimenticato. Il progetto per Santa Giulia può ripartire dal punto in cui s'era arenato. La zona Nord di Rogoredo, l'area ex Montecity. L'immobiliare Risanamento ha presentato ieri una nuova ipotesi d'intervento per riprendere e completare il piano di riqualificazione interrotto: verde, acqua, museo, case e il resto. L'ha fatto alla vigilia dell'assemblea degli azionisti (29 aprile) e quasi in fondo alla trattativa per la vendita a Idea Fimit (in scadenza il 30 aprile).

Il masterplan, che sarà ufficializzato entro l'anno, ridisegna oltre 600 mila metri quadri di città: «Il parco da 300 mila metri quadri — spiega Davide Albertini Petroni, dg di Risanamento — sarà il vero elemento di cerniera». Tempi di realizzazione previsti: 8-10 anni. Il museo smart per i bimbi è stato studiato da Fiorenzo Galli, direttore del «Leonardo da Vinci» in via San Vittore: «Potrebbe nascere una collaborazione». Ad ascoltare Risanamento, ieri, il comitato di cittadini e il vicesindaco Ada Lucia De Cesaris. Che dice: «È un passo avanti, usciamo dalla fase emergenziale». Risanato l'asilo e il parco Trapezio, il Comune sta cercando ora di sbloccare i lavori per il terzo palazzo Sky e due aree da 9 mila metri quadri.

La Repubblica Milano, 18 aprile 2013 (f.b.)

TAGLIARE gli alberi per salvare il tram. 180 olmi che segnano l’intero percorso di via Mac Mahon, tipico “viale alberato con tramvia” del paesaggio milanese lungo un paio di chilometri. L’assessore alla Mobilità e all’Ambiente Maran ha comunicato la dolorosa scelta un paio di giorni fa. Gli alberi vanno tagliati perché le radici si sono sviluppate sotto le rotaie provocando gibbosità e deformazione dei binari. E non c’è modo – se non, s’immagina, troppo costoso – di salvare la linea del tram 12, considerata strategica dall’amministrazione.

Com’è ovvio un gruppo di residenti della via e del quartiere si è immediatamente mobilitato, protestando vivacemente contro il sacrificio degli alberi. Ugualmente si leggono proteste e commenti arrabbiati sul profilo Facebook dell’assessore, che con apprezzabile coraggio ha avviato un confronto con i cittadini anche sui social media. Ma il destino degli olmi, par di capire, sarebbe segnato. Vista la quantità degli alberi, il trauma dell’intervento e la posta in gioco, invece sarebbe bene tenere aperta la discussione e non dare per scontata una soluzione non solo “molto difficile” e senz’altro sgradevole per l’assessore e la giunta, ma anche sbagliata. In fondo si tratta di decidere quali sono le priorità, ovvero quali sono i valori in gioco. Quanto valgono 180 olmi piantati quasi settanta anni fa?

PER qualcuno quegli olmi non valgono nulla, visto che si possono ripiantare altre essenze, magari dalle radici meno invasive. Per molti altri tantissimo, se si considera che estirparli significa cambiare radicalmente il panorama, l’ambiente, la vivibilità e persino la memoria di un’intera zona di Milano. Stavolta gli alberi non sono ammalorati. Sono sani e svettano imponenti segnando il profilo di un importante asse viabilistico della città. Siamo sicuri che, strategicamente, non convenga pensare a un adattamento del trasporto pubblico alle alberature piuttosto che il contrario? C’è chi, per esempio, suggerisce di trasformare la linea 12 in un collegamento di bus. Chi in una linea filoviaria, meno inquinante. E perché non considerare l’ipotesi di alzare il piano di scorrimento dei tram, lasciando spazio sufficiente per la convivenza fra radici e binari?

Certamente per ogni possibile soluzione esistono controindicazioni che vanno esaminate con attenzione e scrupolo. Anche dal punto di vista dei costi, naturalmente. Però non si può partire dal principio che l’onere economico – o la convenienza aziendale – sia la bussola di ogni scelta. Non si può almeno finché non si quantifica il danno che si arreca alla città e ai suoi residenti col taglio di centinaia di alberi. D’altronde, per più di sessant’anni, tram e olmi hanno convissuto in via Mac Mahon.

Ma non sono gli alberi ad essere diventati, improvvisamente, insostenibili. Semmai si sta dimostrando insostenibile la vecchia tecnologia di posa e di esercizio dei binari. Infine va ricordato che via Mac Mahon non è l’unico “viale alberato con tramvia” di Milano: ci sono via Cenisio, viale Certosa, via Stelvio, via Giambellino... E, ahinoi, un bel tratto della circonvallazione dei bastioni spagnoli, dove negli anni scorsi la rimozione dei vecchi alberi ha portato a un panorama quasi desolante. Ecco, assessore Maran, provate per una volta a pensare che sostenibilità non è la parola magica del futuro, ma un vincolo per il presente.

Nella rubrica di Corrado Augias, la Repubblica, 18 aprile 2013

Salvatore Settis

Caro Augias, nella sua rubrica di martedì scorso, Massimo Gargiulo mi attribuisce l’opinione che sia giusto dare le opere d’arte dei nostri musei in affitto ai privati. Ho ripetutamente preso posizione contro questa idea. Essa sarebbe, infatti, contraria alla legge (e dio solo sa quanto l’Italia abbia bisogno di legalità), ma anche contro la Costituzione, che all’art. 9 incardina la tutela del patrimonio sulla sovranità popolare e sui diritti fondamentali dei cittadini (libertà, giustizia, eguaglianza). Questi valori non hanno il cartellino del prezzo. Donazioni private ai musei (senza fini di lucro) sono le benvenute, ma non sollevano le istituzioni pubbliche dal loro dovere di tutela. Come ha scritto Adriano Olivetti, «chi opera secondo giustizia opera bene e apre la strada al progresso. Chi opera secondo carità segue l’impulso del cuore e fa altrettanto bene, ma non elimina le cause del male che trovano luogo nell’umana ingiustizia». La tutela «secondo giustizia», obbligata dallo statuto costituzionale dei beni culturali, è stata tradita dai recenti governi, che hanno devastato il Ministero con tagli dissennati. Ma questo non vuol dire che bisogna rinunciarvi, né che la «carità» possa prendere il posto della giustizia.

Corrado Augias
Ho chiesto al prof Gargiulo come possa essersi creato l’equivoco sulle opinioni di Settis. Ha risposto, rammaricato, che in una sua precedente lettera da noi pubblicata si trovava d’accordo con Settis: «Che solamente un grande patto nazionale fra soggetti diversi, dallo Stato ai privati, può invertire la tendenza che ha portato a bilanci sempre più esigui e Soprintendenze al collasso». Aggiunge Gargiulo: «Salvatore Settis incentra soprattutto su donazioni incentivate fiscalmente la realizzazione di un grande patto nazionale fra soggetti diversi, dallo Stato ai privati. Non sottovaluto i possibili risultati di una tale proposta, ma li giudico insufficienti, soprattutto in un periodo di crisi. Vedo nell’affitto dei beni che giacciono nei magazzini una possibilità in
più per i musei per offrirsi al pubblico, inventarsi iniziative, vivacizzare l’attività». Replica Settis: «Non vedo questi vantaggi anche perché ogni opera dovrebbe essere comunque seguita dai nostri funzionari (e ce ne sono sempre meno), i costi della sorveglianza renderebbero proibitivo qualsiasi esperimento (peraltro vietato dalle leggi). Anche nel meno organizzato dei nostri depositi, c’è comunque un controllo climatico, dell’umidità, etc.: come facciamo a controllare tutti i singoli salotti-bene dove i quadri finirebbero con l’essere esposti? L’affitto sarebbe solo l’anticamera della vendita. Sono palliativi, per coprire l’oscena ferita di un patrimonio sempre più abbandonato dallo Stato (di questi anni)»

Abbiamo chiesto al nostro collaboratore di fare sinteticamente il punto sulla situazione di Napoli ripercorrendo l'arco di tempo che separa gli anni del "Rinascimento napoletano fino alle vicende recenti, che hanno trovato ampio spazio nelle cronache ma scarsi riferimenti al loro spessore. In calce alcuni riferimenti

Il declino napoletano che ha contraddistinto il lungo decennio jervoliniano, continua inarrestabile in questo primo inconcludente biennio della giunta de Magistris. Due anni, un tempo prezioso, sono stati consumati in un evanescente spot, con la mente rivolta non ai problemi della città ma ad una affermazione nazionale, considerata a portata di mano. Le cose sono andate diversamente, altri sono stati beneficiati dai frutti di questo inverno dello scontento. Nel frattempo la crisi della città si aggrava, ed è crisi strutturale.

C’è il dissesto economico, che andava affrontato subito, con decisioni coraggiose, e non ora, sotto dettatura del governo. Il costosissimo colosso delle aziende partecipate, più di 8.000 dipendenti, è sempre lì, grande fabbrica di consenso malato, con una gestione opaca della quale non sono chiari gli obiettivi e i benefici reali per la città. Il corpo fisico della città, in mancanza di manutenzione quotidiana, si sta sfarinando, tra buche stradali e crolli. L’urbanistica e la macchina amministrativa sono in stand by: manca assolutamente un’agenda, una strategia per le dieci municipalità, che sono dieci città nella città, mentre il dibattito, anziché allargarsi alla scala metropolitana, si attorciglia su pochissime priorità, i grandi eventi innanzi tutto. L’impiantistica per i rifiuti non c’è ancora, mentre la differenziata segna il passo: preferiamo esportare monnezza, continuando a pattinare su un ghiaccio estremamente sottile.

C’è poi la crisi principale, che è crisi di classe dirigente, affatto superata dal decisionismo del ristrettissimo cerchio magico che attornia de Magistris, che continua stancamente a parlare di beni comuni e partecipazione diretta, sponsorizzando poi provvedimenti dai profili di legittimità sempre pericolosamente incerti, vedi la delibera di giunta con la quale si voleva sperimentare un regime di devolution fiscale, una sorta di inedita extraterritorialità, a beneficio di un’intera insula urbana di proprietà dell’immobiliarista Romeo, che avrebbe trattenuto a sé le imposte, provvedendo autonomamente alla manutenzione urbana.

Poi naturalmente c’è la questione di Bagnoli, con le lunghe indagini della magistratura, il sequestro delle aree, la brutta storia di una bonifica fantasma, che addirittura avrebbe peggiorato le cose. Cosa dire? Quando arrivano i giudici il danno è già fatto, la distruzione dolorosa di tempo, risorse, fiducia e prospettiva è oramai difficilmente recuperabile.

Qui, l’errore è stato quello di considerare la bonifica del sito industriale come un’operazione meramente tecnica, di competenza specialistica: insomma, cose troppo complicate da spiegare ai cittadini comuni. Nei paesi civili, le grandi bonifiche industriali sono operazioni all’insegna del pragmatismo, della sobrietà, con un forte controllo politico e partecipazione sociale. Gli obiettivi, le tecniche e i tempi sono chiaramente definiti, le risorse sono quelle strettamente necessarie, i controlli periodici estremamente rigorosi ed efficienti.

A Bagnoli, invece, per più di due lustri abbiamo delegato la gestione esclusiva delle operazioni ad un ente strumentale – la società di trasformazione urbana – che ha operato in solitudine, senza rapportare periodicamente alla città e ai suoi amministratori, senza spiegare niente, spendendo per di più una barca di soldi. Come se la bonifica non fosse parte del progetto urbanistico complessivo, ma un affare a sé stante.

Ad ogni modo, io penso che la responsabilità politica prevalga su quella dei tecnici infedeli. In questioni come queste, lo si voglia o no, sono il sindaco, la giunta, il consiglio a dover sovrintendere alle operazioni, esercitando il diritto/dovere di controllo, ma anche di impulso, mettendo in gioco tutto il capitale politico e istituzionale disponibile, nei confronti sia della macchina amministrativa locale, sia dei livelli di governo superiori: regione, stato, commissione europea, che pure hanno un ruolo importante nella vicenda, non per niente tengono i cordoni della borsa.

Non ci sono scorciatoie. Anche oggi, quando siamo al punto più basso, resta questa la strada da intraprendere, aprendo finalmente un dialogo trasparente con la città, definendo rapidamente un nuovo programma, un modo di procedere. Su questo punto ha ragione De Lucia: niente è definitivamente compromesso.

Resta la domanda su chi dovrebbe mai fare queste e cose, ora che il capitale di fiducia è oramai dilapidato. Peccato, perché Napoli dispone, nonostante tutto, di una molteplicità di risorse, culture, esperienze, capacità inutilizzate, dalla precedente come da questa amministrazione. Sarebbe questo il momento di aggregarle, in un’assunzione generale di responsabilità, consapevoli che non ci sono traiettorie e carriere personali da lanciare. Tenere in vita la città è un lavoro duro, ingrato, alla fine nessuno ringrazierà.

Riferimenti

Sugli argomenti trattati sinteticamente da di Gennaro eddyburg ha raccolto nel tempo molti materiali, consultabili nella cartella dedicata a Napoli. Della città e dei progetti per la sua rinascita si è parlato anche nelle prime edizioni (2005, 2006, 2008) della Scuola di eddyburg e nella prima visita della serie "una città un piano"

toto oeconomicus: in realtà è un passo indietro rispetto alla Costituzione, un atto della lotta di classe. Il Fatto quotidiano online, 16 aprile 2013

Tra le perle contenute nell’agenda economica prodotta dal collegio di cervelli nominati da Napolitano c’è anche questa ideona: «Allo scopo di moltiplicare i luoghi in cui rendere accessibile il patrimonio culturale disponibile, si potrebbero sperimentare forme di prestito oneroso ai privati … di parte delle opere attualmente chiuse nei magazzini, così da finanziare con il ricavato attività e gestione dei musei esistenti».

Non è una novità: la stessa proposta era contenuta in un disegno di legge presentato il 22 giugno 2010 da un certo Domenico Scilipoti. In compenso è una genialata perfettamente bipartisan, visto che era contenuta anche nel programma di Laura Puppato per le Primarie poi vinte da Bersani: «Altra proposta dissacrante è l’utilizzazione intelligente delle opere d’arte e dei reperti archeologici custoditi nei magazzini dei musei e che non vengono esposti per mancanza di spazio. Si potrebbe affidarli a fronte di adeguato compenso, in locazione ad organizzazioni private che ne curerebbero l’esibizione al pubblico, oppure con apposita convenzione affidarli a enti, istituzioni, fonti termali e alberghi affinché ne curino l’esposizione».

Chi avanza proposte del genere dimostra di non avere neanche la più pallida idea di che cosa sia il nostro patrimonio. Che non ha bisogno di «moltiplicare i luoghi» di fruizione (che andrebbero semmai razionalizzati, e forse diminuiti), perché è già iper capillarmente diffuso sul territorio. Sviati dal modello americano, la nostra percezione è invece museo-centrica: pensiamo di salvare il patrimonio trasformando i grandi musei in fondazioni, e ci preoccupiamo per le opere conservate nei depositi. Ma la percentuale di arte musealizzata è minima, ed è quella più al sicuro. E non c’è nulla di scandaloso nel fatto che i musei abbiano depositi: che non sono magazzini, e tantomeno scantinati umidi, o soffitte polverose, ma sono polmoni attraverso cui il percorso espositivo del museo ‘respira’.

Ma andiamo al cuore del problema: è sensato mettere a reddito il patrimonio, per esempio noleggiando le opere d’arte pubbliche ai privati? Io credo di no. Nel 1948 la Costituzione ha spaccato in due la storia dell’arte italiana, assegnando al patrimonio storico e artistico della Nazione una missione nuova al servizio del nuovo sovrano, il popolo. La storia dell’arte è in grande parte la storia dell’autorappresentazione delle classe dominanti, e per un lungo tratto i suoi monumenti sono stati costruiti con denaro sottratto all’interesse comune. Ma la Costituzione ha redento questa storia: le ha dato un senso di lettura radicalmente nuovo. Il patrimonio artistico è divenuto un luogo dei diritti della persona, una leva di costruzione dell’eguaglianza, un mezzo per includere coloro che erano sempre stati sottomessi ed espropriati.

Ma se noi torniamo a rimettere quel patrimonio nelle mani dei ricchi, se lo privatizziamo, se lo riduciamo ad un’attrezzeria scenica da noleggiare a pagamento, ebbene prendiamo il progetto della Costituzione e lo buttiamo nel cesso. Del resto lo facciamo già: in questi giorni le piazze e i monumenti di Firenze sono, per esempio, privatizzati da un miliardario indiano che ha noleggiato (per un tozzo di pane) mezza città come una location di stralusso in cui organizzare il proprio matrimonio. E il Comune è felicissimo: è l’occasione perfetta per una città il cui unico progetto sul futuro è lo sciacallaggio del passato. Il modello è la Venezia di Cacciari & c., insomma: la conversione della città in un luna park a gettone.

Allora cosa fare, dove trovare i soldi? Partiamo dai numeri. L’Italia spende in cultura l’1,1% del Pil,la metà della media europea (2,2%). Per l’anno in corso saranno tolti altri sessanta milioni alla tutela e alla valorizzazione dei beni storici e artistici, che già cadono a pezzi. L’intero bilancio del Ministero per i Beni culturali (già dimezzato da Bondi e Berlusconi) sarà ulteriormente tagliato, arrivando a un miliardo e 589 milioni di euro. Il patrimonio recentemente sequestrato ad un singolo imprenditore dell’eolico accusato (tra l’altro) di aver devastato il paesaggio italiano è pari a un miliardo e 300 milioni: cioè, noi difendiamo il paesaggio e il patrimonio di tutti con gli stessi soldi messi in campo da uno solo tra le sue migliaia di nemici!

Dove trovarli, dunque, questi soldi? L’Italia ha l’evasione fiscale più grande del mondo: peggio di noi solo la Turchia e il Messico. Con il 2,5 % dell’evasione annuale italiana (che ammonta a 150 miliardi di euro) il patrimonio si potrebbe mantenere sontuosamente: senza regalarlo a speculatori privati, senza ricorrere alla beneficenza, senza ridurci ad avidi usufruttuari del passato.

Ma è molto più facile trattare le opere d’arte come orsi ballerini che si aggirano nei cocktail col piattino delle offerte tra le zampe: e non importa se questo significa umiliarle fino a privarle di quei poteri di umanizzazione, liberazione morale ed educazione intellettuale che le rendono presenze uniche ed insostituibili nella nostra vita spirituale.

Un suggerimento per i saggi del Quirinale: ora che il presidente Napolitano va in pensione, perché non noleggiarlo a pagamento per impreziosire le serate dei vip e ripianare i conti dello Stato?

«Napoli è una bussola, ma l’impressione è che il nostro Paese non sia più alla ricerca di una direzione, che non voglia più trovare l’orientamento». La Repubblica, 15 aprile 2013

Sette anni sono un tempo lungo, troppo lungo. Un tempo infinito di assenza dalla città in cui sei nato e hai vissuto gli anni più importanti della tua vita, della tua formazione. È da sette anni che non calpesto il basalto dei vicoli di Napoli, di cui conoscevo a memoria tutto: le macchie di umidità sui palazzi, le vetrine delle botteghe, i pacchi di pasta e i barattoli di conserve impolverati. I piennoli di pomodorini che i turisti credono decorativi, ma fanno il sugo più buono della domenica. Tutto per me era casa. Negli ultimi anni, invece, di Napoli ho visto solo il Palazzo di Giustizia, che sembra un corpo estraneo nella città più luminosa che io abbia mai visto. Di quella luce che ferisce gli occhi, le fredde aule del Tribunale con le vetrate che sembrano mai lavate conservano ben poco.

Negli ultimi anni sono stato ovunque, mai a Napoli. Ecco perché ora, alla vigilia del mio ritorno, sono emozionato, nervoso, impaziente. Perché torno dove tutto è cominciato. Sento di chiudere finalmente il cerchio. Cosa mi aspetto? Francamente non lo so. A Napoli ho ancora molti amici che sentono il peso di dovermi difendere da una città che non mi ama.

«Speculatore». «Ti sei arricchito sulle disgrazie della tua città». «Furbo, furbetto, furbone». «Hai detto il noto, hai venduto l’invenzione dell’acqua calda». «Ti sei appropriato del lavoro di tutti noi». «Scampiamoci da te». Queste le accuse che mi sono state rivolte. Che ho percepito negli sguardi, tra le mezze parole sussurrate e quelle urlate. Parole che vengono rivolte spesso, anzi sempre, a chiunque venga letto, ascoltato, seguito oltre una misura che la città non tollera. Perché parlare di Napoli si può, ma devi farlo a Napoli, con i napoletani. Eppure tutto questo per me è sempre stato inaccettabile.

A chi ci vive, a chi la studia, Napoli offre infatti un enorme privilegio: poter assistere a un grande laboratorio dove tutto ciò che accade altrove, dove tutto ciò che accadrà altrove, è già accaduto.
È qui che sono state poste le fondamenta del centrosinistra al governo a metà degli anni Novanta. Antonio Bassolino ha a lungo cullato il sogno della ribalta nazionale, perché riteneva che il suo partito gli fosse debitore: se non avesse ingoiato i bocconi amari delle alleanze con Mastella e De Mita il governo Prodi non sarebbe mai nato. Forse è vero. Ma è inaccettabile credere che una stagione lunga vent’anni fatta di successi prima e di fallimenti poi possa chiudersi con l’assoluzione politica per il suo maggiore rappresentante. Il fallimento del Rinascimento napoletano è stato quel credersi diversi solo in quanto diversi e non per la diversa gestione della cosa pubblica. Come se tutto fosse ancora fermo a prima della caduta del muro di Berlino. In apparenza, comunisti contro democristiani; in realtà a braccetto, come per tutto il secondo dopoguerra.

È a Napoli che il definitivo fallimento del centrosinistra si è realizzato. È l’esperienza napoletana ad aver anticipato nei fatti la prossima crisi del Partito Democratico. Questa diaspora è avvenuta qui prima che nel resto d’Italia. Napoli avrebbe potuto insegnare, se ascoltata. La sconfitta definitiva del bassolinismo — del suo sistema clientelare, a metà strada tra Mosca e il distretto metapolitico Ceppaloni-Nusco — è coincisa con il trionfo del rifiuto, oramai esasperato, delle logiche e delle corruzioni partitocratiche. Addirittura è da Napoli che sono partiti gli scandali privati di Berlusconi. Non a caso da Casoria, paesone di quella enorme e caotica periferia che è la città, ma che costituisce allo stesso tempo il colpevole rimosso della stagione bassoliniana. Tutto è cominciato da quella imprudente partecipazione al diciottesimo compleanno di Noemi Letizia.

Qui tutto è laboratorio. Curzio Malaparte aveva ragione: “Quando Napoli era una delle più illustri capitali d’Europa, una delle più grandi città del mondo, v’era di tutto a Napoli: v’era Londra, Parigi, Madrid, Vienna, v’era tutta l’Europa. Ora che è decaduta, a Napoli non c’è rimasta che Napoli. Che cosa sperate di trovare a Londra, a Parigi, a Vienna? Vi troverete Napoli. È il destino dell’Europa di diventare Napoli”.

Napoli sta attraversando una fase difficilissima, forse la più difficile degli ultimi decenni. Si era illusa di nuovo, aveva di nuovo sperato e dato la sua fiducia a un amministratore che non ha avviato alcun percorso di rinnovamento. Mi scrivono: “Verrai a Napoli, non criticare De Magistris, in questo momento c’è bisogno di unità”. Ma io vorrei che una cosa fosse chiara: non c’è nulla di personale nelle mie critiche, i problemi che Napoli ha, non sono stati generati dal sindaco De Magistris. La sua responsabilità sta nell’aver indicato una via facile, nel non aver ascoltato consigli e previsioni di chi gli era accanto. Di chi è stato malamente allontanato. Gli va riconosciuto che Napoli è un territorio difficilissimo e che lo ha trovato allo sbando, in ginocchio, senza speranza. Divorato dal clientelismo. Chiunque si sarebbe trovato in grande difficoltà. A maggior ragione non doveva porsi degli obiettivi così immediati, ma puntare a soluzioni lungimiranti. Tutto questo non è stato in grado di farlo. E deve, con onestà, ammetterlo. Qualche esempio? Il dramma di rifiuti è lontano dall’essere risolto: la raccolta differenziata (che doveva raggiungere secondo le promesse il 70% in due anni) è un miraggio, mentre è una triste realtà l’allontanamento degli uomini che dovevano affiancare il sindaco nel rinnovamento. Persino un’operazione meritoria come la creazione della Ztl si è trasformata in un boomerang, perché (visto lo stato del trasporto pubblico a Napoli) rischia di essere solo un’operazione effimera, destinata a essere cancellata al prossimo cambio di giunta.

E poi la crisi. Oltre il 40% di disoccupazione giovanile, lavoro nero, lavoro criminale come uniche alternative e costanti oramai endemiche. La classe intellettuale spesso allevata e pagata dagli amministratori con prebende e consulenze che in questo modo comprano un silenzio assordante. E un’aggressività tremenda contro i nemici del padrone. Cani da guardia affamati e zelanti, per i quali cultura militante è difesa delle misere briciole del non più lauto banchetto del potere. Il vecchio estremismo privo di idee nuove contagia le nuove generazioni che, guidate da figure oramai caricaturali, giocano per le strade della città “agli anni Settanta”. Un estremismo identico e precario: sempre lo stesso, immobile e ignorante.

La Napoli di oggi è una Napoli che sisognava diversa e che diversa non è. Come dice Riccardo Realfonzo, ex assessore al bilancio, le uniche certezze che Napoli ha nell’immediato futuro sono l’aumento dell’Imu, dell’addizionale Irpef, della tassa sui rifiuti, dei costi di asili nido e mense scolastiche. Aumenti a fronte di servizi che non possono più essere erogati o quasi. Aumenti a fronte di stipendi che non possono essere più pagati. Napoli avrebbe bisogno di riforme per ripartire, non di una cappa sullo sviluppo. Napoli è anche e soprattutto un territorio di risorse. Ed è a queste che oggi si deve fare appello. Perché a Napoli la crisi è atavica. A Napoli non ci si sente smarriti dall’assenza di diritto, come invece accade altrove. E allora è da qui che si può ripartire: dalle energie della città e dalla sua capacità di far fronte alla mancanza di opportunità. È dalle persone, lavoratori che — non risulti ironico — lavorano il triplo di qualsiasi lavoratore nordeuropeo, guadagnando la metà.

Quell’enorme fascia sociale che lavora alacremente perché sa che con il proprio sudore dovrà farsi carico delle prebende di una classe dirigente imbelle, i cui privilegi De Magistris non ha neanche provato a mettere in discussione. Quell’enorme massa di cittadini che — nonostante la mancanza di servizi pubblici e la progressiva distruzione del già insufficiente welfare, svuotato dall’interno dalle mafie sindacali e politiche, prima ancora che dalla crisi attuale — ogni mattina, col sorriso sulle labbra e la sua enorme dignità vive nonostante tutto. Rassegnata, ma viva e determinata a dare ai propri figli una possibilità: fosse anche quella di andar via, ché la vita è una sola e non tutti possono permettersi di “giocare agli autonomi” in eterno. Napoli patisce da sempre, ha gli anticorpi e la capacità di insegnare come affrontare emotivamente questo momento difficile, come non perdere la speranza, come prendere le misure. Come rinascere.

Napoli è una bussola, ma l’impressione è che il nostro Paese non sia più alla ricerca di una direzione, che non voglia più trovare l’orientamento. Ed è triste constatare come, ancora una volta, il Sud sia stato tenuto fuori da quest’ultima campagna elettorale. Considerato peso, zavorra, luogo del quale parlare il meno possibile, dove ogni cosa è in mano alla criminalità e tutto il resto è trascurabile. Non mi stancherò mai di dire che sono i ragazzi del Sud a riempire le università del Nord contribuendo in questo modo a tenere in piedi quella parte di economia che attorno a questo ruota. Che la manodopera dal Sud arriva ovunque. Manodopera specializzata, operai che fanno ogni genere di sacrificio pur di non arrendersi a un territorio da troppo tempo negletto. Il Mezzogiorno è centrale nell’apporto intellettuale al nostro Paese, nel contrasto alle organizzazioni criminali cui le procure del Nord sono arrivate tardi. Eppure tutto questo al Sud, a Napoli, non viene riconosciuto. Nonostante la città abbia interlocutori pronti a parlare al Paese. Quando vivevo a Napoli c’era solo l’Assise di Palazzo Marigliano come voce altra rispetto al potere, oggi grazie ai social network c’è una partecipazione della cittadinanza che è incredibile: va incanalata, utilizzata. Come vanno condivise le esperienze, vanno ascoltate le proposte.

Ecco, la colpa più grande di De Magistris è proprio questa: aver finto di ascoltare e di essersi, invece, dimostrato più sordo di chi lo ha preceduto, forse troppo occupato ad immaginare un suo ruolo da politico nazionale, nella sfortunata avventura con Ingroia. Tornerò dunque a Napoli. A via Toledo, strada che frequentavo moltissimo quando vivevo a piazza Sant’Anna di Palazzo. Tornerò con ansia e paura. Vorrei che questa città smettesse di ferire a morte, eppure so che è un’illusione. Ferire fa parte di questa terra travagliata e colma di una tale bellezza che chiunque abbia la fortuna di viverci aspira a essere felice sempre; è convinto di poterlo essere, felice. Quando si vive qui tutto sembra possibile. Anche continuare a vivere sebbene feriti a morte.

Andrea Fabozzi intervista, per il manifesto del 13 aprile 2013, l'autore del piano per l'area di Bagnoli, assessore alla vivibilità nella prima giunta Bassolino: «Bagnolifutura va sciolta, è feudo dei partiti, dice l'urbanista che ha redatto il piano. E Città della Scienza va ricostruita dall'altro lato della linea di costa»

Un'amministrazione memorabile e il suo prodotto più rivoluzionario. Il ricordo della prima giunta Bassolino è legato alla variante per Bagnoli e l'urbanista che quel piano ha preparato, Vezio De Lucia, ne è il custode. Piuttosto arrabbiato. «Le responsabilità penali - dice commentando il sequestro di ieri - andranno accertate. L'inchiesta della magistratura sembra molto fondata, ma non bisogna distrarsi dalle responsabilità politiche».

Quali sono?

Bagnolifutura la società di trasformazione urbana incaricata di attuare il piano per l'area ex Italsider di Bsgnoli] ha finito con l'essere un feudo a disposizione dei partiti. È vissuta in se stessa e ha consentito alle varie amministrazioni - tutte: Bassolino, Iervolino e De Magistris, ciascuna per la sua parte - di disinteressarsi di Bagnoli. Che invece doveva essere uno dei pensieri centrali della politica napoletana. Non voglio prendermela con lo strumento in sé della società di trasformazione urbana, in qualche altro posto sul modello francese ha funzionato. Ma a Napoli ha finito col non dare conto a nessuno e nessuno le ha chiesto conto. Adesso Bagnolifutura va sciolta.

La giunta chiede altri fondi, ma la magistratura ritiene che quelli spesi fin qui siano serviti addirittura ad aumentare l'inquinamento.
È evidente che il problema non può essere ridotto a una questione di finanziamenti. Il ritardo è immane e insopportabile. Cominciai a occuparmi di Bagnoli esattamente venti anni fa. Non è possibile che sia stato fatto così poco e così male. I paragoni sono sempre difficili, ma il Guggenheim di Bilbao si è fatto, bonifica e museo, in sette anni. No, non è un problema di fondi, ma di cultura della città.

In che senso?
La città, e per essa la politica e l'amministrazione, hanno sempre visto Bagnoli con l'horror vacui. L'idea di base del grande parco pubblico e della spiaggia non è mai stata condivisa fino in fondo. Dalla classe imprenditoriale e dai costruttori, e si capisce, ma non solo. Napoli non riesce a liberarsi dalla cultura del cemento. Il parco di 120 ettari sarebbe più o meno come Villa Borghese, che fu regalata a Roma quando la città aveva poche centinaia di migliaia di abitanti. Ferrara gestisce un parco di 1.200 ettari. E invece il fior fiore dei sapienti e degli amministratori di Napoli ripete che a Bagnoli non ce lo possiamo permettere.

Eppure la gran parte dei bagnolesi, e dei napoletani, quelli che come dice uno slogan efficace hanno un costume ma non una barca, frequentano quel mare con avidità. Nonostante il fondale e le sabbie restino inquinate, e la colmata sia ancora lì.
Secondo me questo desiderio non è rappresentato e nemmeno raccolto dall'amministrazione comunale. La spiaggia pubblica non l'accettano. Secondo me, mi auguro di sbagliare ma non lo credo, si sta aspettando l'occasione per rimettere tutto in discussione. L'abbiamo visto ai tempi della Coppa America. Allora sembrava di sentire il sospiro di sollievo, «finalmente ci liberiamo dell'incubo del parco». Il punto è che la politica dovrebbe orientare la città, non può essere a rimorchio di una malintesa opinione pubblica. Se no prevale il peggio. Il primo Bassolino praticamente impose il progetto, ricordo un'assemblea sulla spiaggia nel '94 con i caschi gialli in cui annunciò che avremmo fatto lì il più grande parco pubblico della città. Non prese i fischi, temuti, ma un'ovazione. Lui, operaista, era riuscito a spiegare la nostra idea di risarcimento ai cittadini.

Realisticamente, si può ancora fare la bonifica?

Assolutamente sì. Niente è perduto, vorrei essere chiaro. L'area è ancora pubblica, il piano è ancora quello, si deve solo decidere di metterlo in atto. Una delle cose fondamentali da fare sarebbe aprire subito i fornici del ponte che collega Nisida. Adesso lì l'acqua ristagna, si dovrebbe riaprire alla libera espansione delle maree. È chiaro che così salta il porto, ma vogliamo difendere l'interesse dei napoletani e il loro diritto alla spiaggia o gli interessi di chi gestisce un porto abusivo?

Ultima domanda, Città della Scienza. Va ricostruita lì dov'è, sulla spiaggia?
Assolutamente no, per tutti i motivi che ho spiegato. Coroglio deve tornare ad esser la spiaggia dei napoletani, è questo il primo punto del nostro piano, quello in vigore. Città della Scienza crebbe grazie a un cospicuo finanziamento pubblico contemporaneamente all'approvazione della variante per Bagnoli, che non la prevede. Non poteva star lì, ma ci furono appelli di premi Nobel contro l'amministrazione di Napoli. Alla fine si firmò un accordo di programma che prevede che una volta ammortizzati i capitali investiti, Città della Scienza andava demolita e ricostruita al di là della strada. Dove già c'è una parte delle strutture. A questo punto, dopo l'incendio, non vedo il problema. Si ricostruisca più bella e più grande di prima, ma dall'altro lato della spiaggia. C'è tutto lo spazio che serve.

The Guardian, 9 aprile 2013, postilla (f.b.)

Titolo originale: Italy roused to halt plunder of Asolo village – Traduzione di Fabrizio Bottini

Il piccolo centro di Asolo, nel nord-est italiano “città dei mille orizzonti” ha una bellezza cantata da secoli. Tra chi ci ha abitato si contano l'esploratrice Freya Stark o l'attrice Eleonora Duse. La amava così tanto il poeta Robert Browning, da intitolarle la sua ultima raccolta di versi: “Asolando”. Oggi però questo idillio rurale è al centro di un'aspra disputa per le trasformazioni edilizie, che vede opporsi da un lato l'amministrazione locale, e dall'altro politici e abitanti, che la accusano di mettere a rischio l'integrità di questa “perla diTreviso”.

Settimana scorsa la maggioranza, Lega Nord, ha reso noto un progetto di costruzione residenziale e uno industriale nell'area, quest'ultimo per una superficie di circa trenta ettari. Il sindaco Loredana Baldisser sostiene che sono necessari per lo sviluppo locale. Questo progetto di trasformazione, approvato mercoledì, ha fatto sollevare sia l'opposizione in consiglio alla giunta Baldisser che numerosi abitanti, che lo considerano una inutile e orribile espansione urbana in una zona nota per le sue bellezze naturali. Domenica si è svolta una manifestazione nella piazza centrale, ed è stata firmata da quasi 500 persone una petizione per fermare il progetto. L'ex sindaco di Asolo, Daniele Ferrazza, scrive sul documento “Per l'amore che provo verso questo angolo d'Italia, farò di tutto per difenderlo dall'aggressione dell'avidità di pochi insensibili alla storia e privi di scrupoli di coscienza”.

Laura Puppato, senatrice del Partito Democratico di centrosinistra eletta in Veneto, stigmatizza gli amministratori di Asolo per i loro tentativi di “cementificazione” della campagna: “Questa espansione urbana non ha alcun senso, mette a rischio una delle ultime zone intatte in un Veneto ormai preda di degrado urbanistico e miseria culturale” ha scritto sul Fatto Quotidiano. Le intenzioni dell'amministrazione locale di Asolo paiono contrastare con quanto dichiarato l'anno scorso dal presidente della giunta regionale veneta, pure della LegaNord, Luca Zaia, che aveva giudicato eccessive le trasformazioni insediative nella regione, chiedendone la fine. Auspicando una “nuova sensibilità” ambientale, la Puppato sostiene che Asolo può diventare invece simbolo della battaglia in tutto il paese contro un'edilizia che “divora” territorio..

“Chiunque sia sensibile alla bellezza deve mobilitarsi per contrastare quest'ultimo assalto e sostenere chi si oppone ad una teoria distorta dello sviluppo urbano” scrive. Anche un articolo da più venduto quotidiano del paese, il Corriere della Sera, giudica il progetto “assurdo”. Il rappresentanti locali del Movimento Cinque Stelle sono del medesimo parere. “Si sta distruggendo il nostro territorio” ha detto il rappresentante del partito Michele Ballan, definendo l'idea “assurda e devastante”.

A una sessantina di chilometri circa da Venezia, Asolo con le sue tortuose stradine e le sontuose ville rinascimentali attira ancora oggi molti turisti, così come in passato affascinava scrittori e artisti. La Stark, straordinaria giramondo britannico, ci passò lunghi anni della sua giovinezza, tornandoci poi a morire all'età di cent'anni. È sepolta nel cimitero di Sant'Anna. Browning, uno dei principali poeti vittoriani, subì profondamente l'influenza dell'ambiente di questa cittadina, ambientandoci nel 1841 la vicenda di Pippa Passes e trascorrendoci gli ultimi anni di vita. La raccolta Asolando venne pubblicata il giorno della sua morte nel 1889, e Robert Barrett Browning, figlio del poeta e di Elizabeth Barrett, è morto a Asolo nel 1912.

Postilla
Forse è il caso di sottolineare, come già fatto da Laura Puppato nel suo articolo, l'importanza del caso di Asolo e della sua risonanza internazionale, come punto di partenza di una più generale riflessione sul modello di sviluppo territoriale e socioeconomico del paese, dove l'aspetto particolare delle società locali come custodi del paesaggio diventa metafora di sostenibilità, non certamente da esaurire nei pur importanti aspetti estetici, culturali, letterari (f.b.)

Qui su Eddyburg anche gli articoli di Laura Puppato dal Fatto Quotidiano, di Gian Antonio Stella dal Corriere della Sera, e l'appello originale dell'ex sindaco Daniele Ferrazza

Ma diciamola qualcosa di più. Corriere della Sera, 9 aprile 2013. Con postilla.
«A chi appartiene Asolo?». Cominciava così, anni fa, un grande reportage di Sergio Saviane. A tutti i cittadini del mondo che amano la bellezza, è la risposta. Per questo l'aggressione cementizia contro uno dei borghi più belli del pianeta va fermata: non è coi capannoni tra le ville palladiane che si esce dalla crisi. Fosse ancora vivo, Indro Montanelli che nel '72 scatenò l'iradiddio contro lo scellerato piano regolatore della cittadina trevisana, incenerirebbe gli autori del nuovo Pat, il piano di assetto territoriale. Piano che, in cambio del versamento nelle casse comunali d'un milione scarso di euro (a rate) concede a un pugno di immobiliaristi di tirar su oltre un milione di metri cubi di cemento, in larga parte capannoni.

Cosa sia Asolo è presto detto. Un gioiello urbanistico adagiato sulle colline care al Giorgione, dominato da un'antichissima Rocca e dal castello che ospitò la regina di Cipro Caterina Cornaro e la sua corte rinascimentale. Un borgo che ha preso il cuore di mitiche attrici come Eleonora Duse (che sospirava sul «bello e tranquillo paesetto di merletti e di poesia» e riposa nel cimitero di Sant'Anna), poeti come Robert Browning (che scrisse «Asolando») e la moglie Elizabeth Barrett, esploratrici eccentriche come Freya Stark, amica di Churchill, Gandhi e della Regina Madre, architetti come Carlo Scarpa che sulla colata di cemento degli anni Settanta tuonò: «Mi batterò con la mitraglia».

Amatissima dai nobili veneziani, Asolo ospita 29 ville venete una più bella dell'altra. Da villa Contarini a Ca' Zen, dalla Malombra a villa Falier, dove durante un banchetto un «fanciulletto» parente di un tagliapietra scolpì in un pane di burro un leone di San Marco e l'opera impressionò a tal punto gli ospiti che vollero conoscere l'«artigianello»: era Antonio Canova.

C'è tutto, ad Asolo. L'intera nostra storia dalle fortificazioni romaniche alla violenza di Ezzelino, da Gli Asolani di Pietro Bembo al fascino delle culture che si sovrappongono: «Ogni edificio pubblico ha un suo garbo», scrisse Paolo Monelli, «e i palazzotti dei patrizi si intonano alle modeste case vicine, Medioevo e Seicento, Rinascimento e Settecento si alternano senza urto». Dedicò due intere terze pagine sul Corriere, il grande giornalista, alla guerra contro il piano regolatore di Asolo del 1972. E con lui scese in campo Montanelli, chiedendo «perché il tecnico o l'operaio di Sesto San Giovanni dovrebbero scomodarsi a venire fino ad Asolo per ritrovarvi le stesse colate di cemento, lo stesso frastuono, gli stessi puzzi, la stessa nuvolaglia di gas?». Nel nome di Asolo il pioniere dell'ecologia Franz Weber convocò gli amanti dell'arte a Parigi esordendo con una frustata: «Era bella, un tempo, l'Italia…».

Quarant'anni dopo, miracolosamente scampato agli scempi più osceni grazie a quella campagna, il paese trevigiano adorato da quelle donne straordinarie corre oggi, dicevamo, nuovi rischi. Ed è uno strano destino che li corra con un sindaco donna, la giovane e bella Loredana Baldisser, che guida una giunta leghista bollata da Vittorio Sgarbi come «barbarica». Nei guai finanziari come quasi tutti i Comuni italiani, la giunta del Carroccio ha accettato mesi fa la richiesta della Srl «Agribox» (spuntata dal nulla con un capitale minimo e l'«attività prevalente: coltivazione di cereali, legumi da gramella e semi oleosi») di trasformare 57 mila metri quadri di un grande terreno agricolo lungo la strada che porta verso Bassano del Grappa, a ridosso dell'area vincolata, davanti a villa Rinaldi Barbini in una nuova area industriale in cambio d'un versamento al Comune di 960 mila euro dei quali 300 mila entro il 31 dicembre 2012 per consentirgli di chiudere il bilancio senza violare il patto di Stabilità.

Ma è solo l'inizio. La settimana scorsa, con un blitz, la giunta presenta un nuovo piano. Tutto moltiplicato. Tra la zona collinare e la pianura è previsto il via libera a 285 mila metri cubi di nuovi insediamenti residenziali (l'equivalente di settecento villette da 400 metri cubi l'una o un migliaio di appartamenti) e una nuova area industriale di 30 ettari tolti all'agricoltura. Un'enormità. I capannoni esistenti occupano già 62 ettari, uno su cinque porta il cartello «affittasi» o «vendesi» e quell'aumento del 50% appare senza senso. Sono già 1.077, stando ai dati regionali, le aree industriali nella provincia di Treviso: 14 a Comune. Tanto che lo stesso governatore leghista Luca Zaia ha riconosciuto: «Nel Veneto si è costruito troppo, non possiamo continuare così. È necessario fermarsi». Di più: «Quanti capannoni dismessi vanno all'asta e le aste deserte? Che destino avranno queste cubature? Se fossi un sindaco vincolerei ogni nuova concessione a un preciso piano industriale: vuoi costruire un nuovo capannone? Spiegami per farci cosa, per quanto tempo, con quante persone. È vero, la terra è tua. Ma l'ambiente è un patrimonio della comunità».

Stando all'anagrafe, spiega l'urbanista Tiziano Tempesta, non solo gli abitanti di Asolo sono in calo dal 2010 ma «il trend demografico è in flessione dal 2003». Eppure se i residenti dal 2002 al 2010 sono cresciuti del 17% (in larga parte stranieri), le case lo sono del 32%. Che senso c'è, oggi, con molti immigrati che se ne vanno, prevederne 1.900 in più? Fatto sta che nonostante sia quel gioiello che è, il paese tra zone produttive, residenziali, servizi, ha oggi il 18,4% del territorio «artificializzato». Una percentuale del 4% più alta di quella già altissima del resto del Veneto. Assurdo.

«È un saccheggio deciso da un manipolo di persone senza storia e senza scrupoli di coscienza», accusa Daniele Ferrazza, già sindaco di una lista civica vicina al centrosinistra. «Sono pazzi — accusa Gino Gregoris, già candidato sindaco di una lista vicina al Pdl — e sono sempre più isolati». Vittoriosi grazie alla spaccature degli avversari, i leghisti conquistarono il Comune con appena il 36% dei voti. Ma via via hanno perso per strada non solo elettori (alle ultime Politiche il Carroccio è crollato al 17% dal 42% del 2008) ma vari consiglieri col risultato che oggi il consiglio è spaccato: 9 contro 8. Votano domani. La prospettiva di campi e vigneti davanti alla villa Rinaldi Barbini, una vista meravigliosa che potrebbe essere stravolta dai capannoni, è appesa a un voto.

Postilla

Tutto vero, tutto giusto. E siamo particolarmente lieti che l'allarme di Daniele Ferrazza sia rimbalzato da eddyburg fino ad approdare con evidenza sulle pagine principali dei media nazionali. Abbiamo conosciuto Ferrazza come valoroso sindaco di Asolo anni or sono, quando abbiamo organizzato con lui due belle edizioni della Scuola di eddyburg e un interessante convegno sui centri storici. Il fatto che un ex sindaco sia sceso in campo per rivendicare le ragioni della bellezza e della ragione in una fase nella quale i sindaci appaiono troppo spesso complici, o ignavi succubi, del saccheggio dei beni comuni ci sembra significativo, così come ci appare significativa la capacità di denuncia e di protesta subito emersa dagli abitanti di Asolo. Speriamo che lo scempio di Asolo sia evitato, grazie anche alla lucida e argomentata invettiva di Gian Antonio Stella. Bisogna ricordare però che di casi come quello di Asolo ve ne sono a decine, tutte le settimane, in ogni parte d'Italia, il più delle volte con la vittoria dei saccheggiatori. Ciò anche per due ragioni che ai giornalisti attenti non dovrebbero sfuggire: che per il pensiero corrente (e per l'ideologia dominante) il territorio è considerato come una merce da sfruttare per l'arricchimento dei suoi proprietari (quella che chiamiamo "la città della rendita"), e perchè sono state abbandonate le regole della buona pianificazione territoriale e urbanistiche. Ci piacerebbe molto leggere, e riprendere su questo sito, servizi giornalistici che analizzassero e divulgassero la conoscenza su queste radici dei mille episodi di degrado che sfigurano, giorno per giorno, il volto dell'Italia.

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