Luigi Petroselli fu il grande sindaco, che ebbe il merito storico di avviare la trasformazione di Roma utilizzando il progetto fortemente voluto da Antonio Cederna. Il migliore augurio che possiamo fare al nuovo sindaco Ignazio Marino e ai suoi collaboratori è di portare a compimento quell'impresa. Articoli di Vittorio Emiliani e Jolanda Bufalini, l'Unità 6 luglio 2013
Roma rinasce dai Fori
di Vittorio Emiliani
L’invocazione, dell’allora sindaco di Roma, il grande storico dell’arte Giulio Carlo Argan, «o le automobili o i monumenti», risale al 1978. L’inquinamento aveva raggiunto livelli così alti da mettere in pericolo i marmi romani. Nasce allora l’idea dagli studi di Leonardo Benevolo, dalle denunce di Antonio Cederna di chiudere al traffico tutta l’area dei Fori. In seguito ci fu la proposta di un grande Parco urbano ed extra-urbano, dal Campidoglio all’Appia Antica, ai Castelli, su cui Cederna lavorerà alla Camera, in Campidoglio, al Parco dell’Appia, fino alla morte, nel 96.
Con felice e coraggiosa intuizione il neo-sindaco Ignazio Marino imprime alla politica capitolina, degradata e svilita nel quinquennio di Alemanno, una svolta netta, ripropone quell’idea antiveggente, assieme alla sua Giunta e al I° Municipio, per invertire la rotta, per rimediare ad uno dei peggiori disastri dell’urbanistica-spettacolo di Mussolini: Via dell’Impero. Che spacca in due l’area dei Fori diventando un autostrada urbana con vista sui monumenti (magari sul loro didietro) e riversa insensatamente una marea di veicoli su piazza Venezia, sul centro storico. Siamo tanto abituati a questo melodrammatico stradone che però consentiva al duce di vedere il Colosseo da Palazzo Venezia da averne dimenticato l’origine e la funzione. Magnificare la nuova romanità del fascismo picconando a tutta forza quanto si opponeva alla cavalcata inaugurale del Capo, con tanto di pennacchio, nel decennale della Marcia su Roma. Basti ricordare il prodigio che tale opera rappresentò, scrive all’epoca il pur colto Giuseppe Bottai, infatti, nel termine ristretto di soli sette mesi, si sono demoliti ben 5500 vani d’abitazione, si sono scavati e asportati 300.000 metri cubi di terreno, di cui la sesta parte, circa, costituita da roccia e da vecchi calcestruzzi romani.
In realtà ci ha spiegato uno storico e urbanista della statura di Italo Insolera in Roma moderna fu sbriciolata l’edilizia medioevale e completamente distrutto il quartiere costruito all’inizio della Controriforma, furono atterrate due chiese, cancellate almeno dodici vie e tranciata, abbassata la collina della Velia, fra Colle Oppio ed Esquilino, uno dei Sette Colli dell Urbs più antica. Tant’è: gli abitanti di quelle malfamate casupole erano come i loro simili della Spina di Borgo proletari e sovversivi da deportare nella nuova borgata di Primavalle. Un annientamento. Già sperimentato in periodo umbertino e replicato ossessivamente da Mussolini all’Augusteo e altrove. Facendo oltre tutto di una città policentrica (San Pietro, San Giovanni in Laterano, Quirinale, ecc.) come osserva uno degli studiosi più acuti, Mario Sanfilippo, nelle Tre città di Roma (Laterza) una metropoli nevroticamente monocentrica attorno alla ingestibile piazza Venezia.
Ma torniamo al grido di Argan, ripreso dal soprintendente Adriano La Regina. Luigi Petroselli, che nel 1979 subentra al dimissionario, stremato Argan, ha già un saldo rapporto con gli intellettuali più avanzati e pone mano alle prime misure concrete: lo smantellamento della via che separa Foro e Campidoglio e la creazione dell area pedonale fra Colosseo e Arco di Costantino. Così si ricostituisce la continuità Colosseo-Via Sacra-Clivo Capitolino, mentre Colosseo e Arco di Settimio Severo vengono salvati da veleni e scosse del traffico. Nell’81 un ministro dei Beni Culturali, spesso dimenticato, il repubblicano Oddo Biasini, vara la legge speciale n. 92 con cui si assegnano 168 miliardi in cinque anni alla Soprintendenza di Roma per lavori di restauro. Il Messaggero da me diretto (lasciatemelo ricordare) dove scrivono Vezio De Lucia e Italo Insolera sostiene senza riserve il progetto del grande Parco. Sul Corriere della Sera (14 marzo 81) 220 intellettuali e dirigenti del Ministero firmano un appello per il Parco stesso (a favore del quale si esprimerà nell 82 anche il ministro Enzo Scotti).
Purtroppo, prima che finisca l’81, muore all’improvviso Petroselli, sindaco coraggioso e deciso. Cambia l’assessore al Centro Storico, con Carlo Aymonino al posto di Vittoria Calzolari autrice del piano di assetto dell Appia. La spinta si affievolisce. Il cantiere aperto nel Foro di Nerva non procede.
Alcuni intellettuali di sinistra esprimono dubbi di sostanza sullo straordinario parco urbano-metropolitano da piazza Venezia ai piedi dei Castelli (per il quale Cederna presenterà poi un disegno di legge). Nell’83 il ministro Nicola Vernola ha rovesciato l assenso del predecessore Scotti. La leva fondamentale assieme allo SDO della riqualificazione ambientale e urbanistica di Roma, della sua stessa immagine finisce in archivio. Tanto più dopo l’avvento, nell’85, di amministrazioni a guida Dc, fragili e spente.
Ignazio Marino, il marziano, ne fa ora, dopo 35 anni, un autentico cavallo di battaglia per coniugare felicemente antico e moderno, per ridare dignità e decoro ad una capitale degradata e imbruttita, invasa ovunque da auto, furgoni, pullman. Ed è proprio sull intera città antica, sugli usi distorti ai quali è stata piegata una volta espulsi i residenti (ridotti ad appena 85.000) che si dovrà esercitare il nuovo fervore, la nuova attenzione culturale suscitata dalla proposta, chiara e netta, del nuovo sindaco della capitale. Con misure graduali e però risolute, fondate su studi e piani del più alto livello. Come Roma merita.
Lunedì si riunirà la conferenza dei servizi con le soprintendenze per studiare tutti i passi. Soprattutto per non creare una zona archeologica di serie A, e una di serie B. Spiega Daniel Modigliani ex direttore del Prg di Roma: «il centro archeologico monumentale non è solo l’area dei Fori, ma è individuato nel piano regolatore come area da tutelare e comprende anche Colle Oppio con le Terme di Traiano, le Terme di Tito e la Domus Aurea».
Lo studio della riduzione del traffico che entrerà in vigore a fine mese è iniziato su input delle soprintendenze archeologiche, quando è partito il cantiere della metro C e c’erano preoccupazioni per le vibrazioni intorno al Colosseo. Il sindaco Marino che, in campagna elettorale accusava Alemanno di lasciare nel cassetto gli stessi studi dei suoi tecnici, ha colto l’occasione al volo per rilanciare l’idea di Antonio Cederna: «Il progetto attuale vuole rendere orgoglioso il nostro Paese nei confronti del mondo. Stiamo parlando del più grande parco archeologico della terra. È solo l’inizio: il progetto si completerà quando avremo realizzato il parco archeologico dell’Appia antica». Il presidente della Regione, Nicola Zingaretti, apprezza il coraggio del sindaco: «È una grande occasione per dare all’Italia una spinta alla crescita ripartendo dalla cultura, un simbolo di una nuova fase che andrà vissuta come una sfida». Se si creeranno problemi nel traffico, aggiunge Zingaretti, «li affronteremo».
In piazza, ai cittadini, l’assessore Guido Improta spiega: «Ci sarà il coinvolgimento di più assessori, non è tanto un progetto trasportistico ma un progetto che mette al centro della scena mondiale la valorizzazione di un’area archeologica che tutto il mondo ci invidia». Le criticità nel traffico «si supereranno con un’analisi molto attenta dei flussi fatta dall’Agenzia per la mobilità, e anche grazie ad una responsabilità nuova e condivisa da parte dei cittadini».
A proposito del Parco dei Fori vedi su eddyburg la cartella Appia antica>Pagine di storia
Il Sole 24 Ore, 1 luglio 2013
Con l'eliminazione del vincolo di rispettare la sagoma negli interventi di demolizione e ricostruzione del patrimonio edilizio esistente per effetto del Dl 69/2013 (decreto "del fare") si potrà rimodellare profondamente la conformazione delle città, superando gli indici di edificabilità assegnati dai piani regolatori alla sola condizione di non aumentare la volumetria preesistente.
Secondo il Testo unico dell'edilizia (Dpr 380/2001) gli interventi di ristrutturazione edilizia consistono nelle opere rivolte a trasformare gli organismi edilizi «mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un edificio in tutto o in parte diverso dal precedente». Questi interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti.
Nella ristrutturazione edilizia è compresa anche la demolizione e ricostruzione. Mentre la possibilità di modificare la sagoma era già riconosciuta dal Testo unico per le opere che non comportano la demolizione integrale, il decreto "del fare" consentirà di modificare la sagoma anche nelle operazioni di demolizione e ricostruzione.
Le possibilità di intervento
La norma entra in vigore con la legge di conversione del decreto, quindi al più tardi il 21 agosto. A breve sarà possibile, ad esempio, trasformare un'autorimessa composta da più piani interrati (a cui il titolo edilizio originario riconosceva la permanenza di persone per lo svolgimento di attività lavorative), in una palazzina che trasferisce la volumetria nel soprassuolo (aumentando l'altezza dell'edificio preesistente o erigendo ex novo sull'area sovrastante), collocando nel sottosuolo i parcheggi senza permanenza di persone.
Il caso può apparire irragionevole, ma corrisponde alla realtà di diversi interventi realizzati in Lombardia durante la vigenza dell'articolo 27, comma 1, lettera d), della legge regionale 12/2005, che per primo aveva eliminato l'obbligo del rispetto della sagoma negli interventi di demolizione e ricostruzione. La norma era stata annullata dalla sentenza della Corte Costituzionale 309/2011 per il contrasto con il principio fondamentale contenuto nella definizione di ristrutturazione del Testo unico sull'edilizia. Ma la definizione ora è stata riscritta nei termini citati eliminando così il vizio di incostituzionalità.
Senza giungere al caso limite appena illustrato, si deve rimarcare che il solo vincolo del rispetto della volumetria consentirà agli interventi di demolizione e ricostruzione infedele di superare l'indice edilizio (generalmente espresso dal rapporto tra la volumetria o superficie edificabile e la superficie dell'area di intervento) assegnato dallo strumento urbanistico comunale, tutte le volte in cui esso sia inferiore alla volumetria esistente. Questo è un caso molto frequente nei tessuti consolidati delle nostre città, dove gli edifici sono stati costruiti ben prima dell'approvazione del primo piano regolatore (che ha poi imposto indici inferiori all'esistente), se non prima della stessa legge urbanistica nazionale del 1942.
Con le grandi trasformazioni urbane del tutto proiettate sullo scenario globale e sganciate dagli interessi locali, diventa sempre più essenziale passare dalla contrattazione all'applicazione intelligente e trasparente di regole condivise. Corriere della Sera Milano, 2 luglio 2013 (f.b.)
Una volta c'erano i Ligresti e i Cabassi. L'Ingegnere, il Sabiunàt, soprannomi che già da soli raccontavano un mondo del mattone nelle mani di proprietari-costruttori. Oggi ci sono i fondi americani come Hines, sovrani come quello del Qatar, italiani come Idea-Fimit, le assicurazioni Generali e Allianz azioniste di Citylife, Risanamento in mano alle banche e così via. La metropoli immobiliare che riscrive la geografia e lo skyline, che attende l'Expo e moltiplica i cantieri oggi è finanza, industria che ha separato la filiera fra chi possiede, vende e costruisce, istituti di credito che finanziano progetti e talvolta ne diventano anche i "padroni".
A Milano, ancor più che altrove, il mondo dei vecchi Re del mattone è tramontato. Con qualche passaggio «storico». Come è avvenuto per la Torre Velasca, un simbolo della città: Ligresti ha cercato di venderla prima del crollo del suo impero. L'impresa non è riuscita e ora il grattacielo «con le bretelle» è passato alla compagnia della lega delle coop, l'Unipol. Un corollario del salvataggio che ha visto il gruppo bolognese di via Stalingrado comprare dai Ligresti una Fonsai "spolpata" per benino. Solo un dettaglio, che certo non rientrava negli obiettivi dell'acquisizione: anch'esso descrive però un mondo in rapido cambiamento. L'area ex Fiera, Porta Nuova-Varesine-Garibaldi, Sesto San Giovanni con l'ex Falck, Santa Giulia Nord e Sud, Porta Vittoria, Via Ripamonti: palazzi e grattacieli, uffici e appartamenti, sono i grandi cantieri che stanno ridisegnando Milano. Con investimenti stimati complessivi intorno ai 9-10 miliardi, per circa due terzi finanziati dalle banche. Prospettive che si orientano intorno all'Expo fra auspici e timori, e che guardano a una metropoli che sta dimostrando vitalità europea nonostante l'11% degli uffici in città sia sfitto, quota che sale al 30% nell'hinterland e al 40% in periferia, e un terzo degli spazi vuoti non risulti più idoneo alla funzione "direzionale".
Fra i cantieri centrali destinati al maggior impatto sulla città c'è Citylife. Anche in questo caso si è consumato un passaggio storico nel luglio di due anni fa quando Salvatore Ligresti, che molto aveva puntato su quell'impresa, getta la spugna, vende a Generali ed esce appunto da Citylife, la società titolare del progetto di riqualificazione dell'area dove sorgeva il polo fieristico milanese. Il Leone di Trieste sale dunque quasi al 67% del capitale e la parte restante è detenuta da Allianz. A Milano è il cantiere delle tre supertorri progettate dagli archistar Arata Isozaki, Daniel Libeskind e Zaha Hadid, confermate nei giorni scorsi. Generali con ogni probabilità trasferirà il quartier generale milanese e gli uffici nel grattacielo «Storto» di Hadid, Allianz farà lo stesso nella torre Isozaki, la più alta di Milano. Gli investimenti previsti sono pari a oltre 2 miliardi, finanziati per due terzi dalle banche: Intesa Sanpaolo, Unicredit, Bpm, Crédit Agricole, Mediobanca e Hypotekenbank. È previsto che l'area, destinata nei piani ad abitazioni per 164 mila metri quadri, uffici per oltre 100 mila, shopping e servizi per 20 mila e il terzo parco pubblico della città (168 mila metri quadri), ospiti 10 mila residenti e 4.500 persone che (soprattutto attraverso la linea che avrà fermata al centro dell'area) affluiscano ogni giorno per lavoro. Le prime 400 abitazioni, secondo l'operatore, saranno consegnate a settembre. È stata poi accordata una variante con maggiore flessibilità nelle tempistiche con la possibilità di costruire la parte residenziale nei pressi del Vigorelli entro il 2023. Il costo medio delle abitazioni, sempre secondo l'operatore, è compreso fra 6 mila e 8.500 euro al metro quadro con punte fino a 12 mila.
Altro progetto destinato a cambiare lo skyline cittadino è quello Porta Nuova-Garibaldi-Isola, gestito da Hines Italia, controllata dal colosso americano Hines con una partecipazione dell'imprenditore Manfredi Catella, amministratore delegato della società. Il progetto, dal quale sempre Ligresti è uscito a fine 2011 vendendo a Hines, è stato sotto i riflettori delle cronache anche finanziarie per due ragioni: l'ingresso del fondo sovrano del Qatar e la destinazione a Unicredit del grattacielo. Il 18 giugno è stato firmato il closing e Qatar holding è diventato investitore diretto al 40% nei tre fondi di investimento immobiliare di Porta Nuova, sottoscrivendo quote di nuova emissione, mentre il restante 60% resta agli attuali sponsor. Unicredit ha trasferito lì il quartier generale in febbraio e oggi oltre la metà della parte destinata a uffici dell'area è locata. Il calendario dei lavori prevede diverse fasi: la prima di Porta Nuova Garibaldi è quasi completata, la seconda sarà ultimata per l'Expo mentre la parte Porta Nuova Varesine e Isola sarà realizzata nel 2014. Anche qui è previsto un parco di 90 mila metri quadri e anche qui l'investimento stimato è di circa 2 miliardi, per l'80% finanziato da banche (quota destinata a scendere al 60% con l'ingresso del fondo sovrano). Il prezzo al metro quadro medio del venduto della parte residenziale (400 abitazioni in tutto) secondo l'operatore, si colloca in una media di 9 mila euro al metro quadro.
E poi c'è Santa Giulia di proprietà di Risanamento. Altra storia travagliata, altro capitolo di un tramonto. Luigi Zunino l'ha coperto di 3 miliardi di debiti, la Procura di Milano ha chiesto il fallimento ma alla fine il Tribunale ha detto sì all'accordo con le banche creditrici (Intesa, Unicredit, Montepaschi, Banco Popolare e Bpm) che sono diventate le azioniste principali della società, mentre una minoranza del 25% è rimasto alle holding in liquidazione dello stesso Zunino. Che ora ambirebbe a un'Opa, finanziata a debito. Nelle scorse settimane dopo i lavori di bonifica è stata dissequestrata l'area di Santa Giulia Sud. In questa parte è stata realizzata l'edilizia convenzionata, mentre vanno completati i palazzi Sky. Per la terza torre Sky i lavori dovrebbero partire entro l'estate e l'investimento si aggira sui 50 milioni. Per l'Nh hotel ci vorranno circa 24 mesi e risorse per altri 50 milioni. Per l'area Nord ex Montedison deve essere presentato un progetto definitivo, in base al quale verrà messo a punto la bonifica. Poi potranno essere avviati gare d'appalto e lavori. Per questa parte Risanamento sta trattando in esclusiva con Idea Fimit ma per il momento un accordo ancora non c'è. Il progetto originale dell'archistar Norman Foster è stato ampiamente rivisitato.
Si può andare avanti con Beni Stabili. Società che in passato è stata di Bankitalia, Bastogi, Romagnoli, istituti di credito e oggi fa capo a Leonardo Del Vecchio, patron di Luxottica. I principali cantieri sono le tre torri Garibaldi (investimento: 270 milioni) e Via Ripamonti (lavori da settembre 2013 a dicembre 2019), con un impegno di 490 milioni, il cantiere comprende il perimetro Via Ripamonti, Università Bocconi e Stazione di Porta Romana, con riqualificazione di un'area industriale attraverso uffici e «light industry» per circa 100 mila metri quadri. Beni Stabili ha emesso un bond convertibile da 225 milioni e la componente di debito bancario è scesa al 51%. Quasi la totalità dell'offerta è business.
Infine c'è Porta Vittoria (Danilo Coppola): nell'area della ex stazione si lavora a residenze, un centro commerciale, un albergo, uffici per una superficie complessiva di 142 mila metri quadri. Parte commerciale esclusa, è stata decisa la vendita in blocco. L'iniziativa, (che l'operatore valuta in 600 milioni), è finanziata per oltre 200 dalle banche, principalmente Banco Popolare, e i lavori dovrebbero essere conclusi nel giugno 2014.
Fra investimenti, progetti, archistar, skyline c'è la città che cambia. Fra prospettive e spazi vuoti. Fondamentale, in tutto questo, è la condivisione fra le parti privata e pubblica. Che si traduce spesso in un negoziato fra i «padroni» del mattone e l'amministrazione che deve salvaguardare le esigenze dei vari «stakeholder», a cominciare dai cittadini. Secondo il vicesindaco con delega all'Urbanistica, Ada Lucia De Cesaris, «in questo periodo la regia pubblica acquista maggiore importanza. Negli interventi le opere di urbanizzazione e quelle pubbliche devono avere la precedenza nella realizzazione. Solo così ci può essere la garanzia della conclusione con l'idoneità rispetto al contesto e l'appetibilità del mercato». Un modo forse un po' tecnico per dire che nella metropoli che riscrive se stessa, anche il mercato dipende dalla vivibilità che può essere assicurata dall'esistenza di spazi pubblici adeguati. E poi c'è un appello: «Gli operatori si dedichino anche al recupero e alla riqualificazione del patrimonio esistente. Solo in questo modo è possibile rimettere in moto il mercato, curando la bolla esplosa qualche anno fa». Una bolla che anche osservatori specializzati come Nomisma o Scenari immobiliari ritengono al momento superata da cenni di ripresa. Ma che tuttavia può ripresentarsi. L'asimmetria fra domanda e offerta è un fatto che, soprattutto se si esagerano aspettative e si mitizzano traguardi, può diventare un grande problema in poco tempo.
La Nuova Venezia, 30 giugno 2013
Il progetto di Veneto City nella sua nuova versione, definita “green”, è utile per riflettere e per decidere alcune questioni importanti e decisive per il prossimo futuro del nostro territorio. Lo sforzo dei progettisti e della committenza a far apparire “green” la costruzione di 718 mila metri quadrati di nuova edificazione nei campi è evidente e apprezzabile sia nei disegni che nelle parole utilizzate per illustrare il progetto. Il problema però è un altro: per quanto sia ammirevole che una nuova committenza si renda consapevole e ingaggi validissimi progettisti e per quanto il progetto si proponga ambiziosi standard e certificazioni energetiche, resta il fatto che la costruzione di un “polo terziario” in mezzo alla campagna, comunque si faccia, è obsoleto nella sua concezione e sbagliato perché estremamente dannoso da molti punti di vista: contraddice la politica del consumo di suolo zero ormai sostenuta da tutti a livello disciplinare e, finalmente e ultimamente anche dalle istituzioni e dalla politica; ignora l’esistenza di eccedenza di costruito riutilizzabile provocandone l’ulteriore fatiscenza; conferma antistoricamente una mono-funzionalità degli insediamenti che ha dimostrato tutta la sua inefficienza e nocività ambientale e sociale; conferma con i suoi orgogliosi 280 mila metri quadrati di parcheggio (e a dispetto della fermata della Sfmr) ancora una volta il modello disviluppo del territorio basato prevalentemente sull’ automobile.
Le strade da percorrere sono alternative; bisogna scegliere e cittadini e rappresentanti dei cittadini devono saper chiedere agli operatori quale sia la qualità richiesta dalla comunità prima che quale sia la qualità richiesta dal mercato; il progetto di Veneto City può essere utile a far chiarezza: proseguire ciecamente nella devastazione del territorio facendosi inebriare dalla “rifinitura” green, oppure finalmente ricercare quella visibilità mondiale non costruendo nella campagna un “landmark da archistar” ma facendo scelte nuove, di reti avanzate, coerenti, veramente green, evitando di costruire a discapito della natura. Continuare a ripetere gli errori degli ultimi decenni appare anacronistico e sciaguratamente improvvido.
Postilla
Nell’icona un’immagine delle “colline” articiali di calcestruzzo abitato, che l’architetto pennacchione adopera per verniciare di “green” e di “sostenibilità il suo devastante progetto.
Le trasformazioni urbanistiche della città, va da sé, dovrebbero anche nei casi più perversi essere determinate dall'evoluzione economica e sociale, ma la cosa ahimè non dipende per nulla da variabili che la città è in grado di gestire da sola. Corriere della Sera Milano, 1 luglio 2013 (f.b.)
Dal dopoguerra a oggi il dibattito accademico (e poi mediatico) sull'urbanistica e, in generale, sulla forma della città ha occupato prima gli addetti ai lavori, quindi l'economia, la finanza e i grandi eventi, fino a esaurirsi in una serie di auspici che, in qualche maniera e con non tanta chiarezza, si collegano oggi a Expo. La verità è che, nel frattempo, Milano ha cambiato pelle tante volte, perdendo la sua vocazione industriale e sostituendola con i servizi fino alla finanza, che ha continuato a sostenere l'edilizia finché ci è riuscita. E mentre Milano cambiava pelle, cambiava anche il suo paesaggio: capannoni abbandonati o spesso lasciati a metà, depositi vuoti, centinaia di fabbriche chiuse.
Il paradosso è che nei decenni si sono accumulate generazioni e generazioni di manufatti e di capannoni, con una logica «consumistica», da mass market; quasi un «usa e getta permanente» che ha occupato una buona parte del territorio, con effetti paesaggistici devastanti e un'ininterrotta filiera che accompagna le nostre periferie, seguendo le direttrici e le autostrade che portano fuori dalla città.
Ora, la vera domanda che si pone è collegata al problema reale del Millennio: il lavoro. O meglio la sua mancanza. Che fare quindi di questi manufatti? La verità è che tutto questo sistema è stato in piedi fino a che il lavoro è stato il collante fra compratori e acquirenti, fra produttori e consumatori. Nel momento in cui decresce la popolazione attiva (e diminuiscono anche le sue garanzie) e quella non attiva vive molto più a lungo (mentre la città implode) la vera domanda viene ancora una volta elusa. Quali lavori serviranno ancora, che tipo di economia si potrà immaginare? Si continuerà a usare crisi e crescita come sinonimi di tempo brutto e tempo bello. Il premier inglese Cameron ha fatto fare un'indagine su quali potrebbero essere i lavori del 2030 (praticamente dopodomani).
Vengono fuori lo smaltitore (non l'analista) di dati, lo specialista di contenuti verticali, figure senza tempo come gli insegnanti associati a figure virtuali come gli avatar e tanti altri profili e scenari che andranno comunque verificati. Se esisterà energia, nel senso più ampio del termine, sarà data dalla conoscenza, dalla capacità di metabolizzare la qualità e la quantità dei saperi, per applicarne poi i risultati. Potrebbe anche accadere che i paradigmi vengano rovesciati, per cui si studierà sempre e si lavorerà solo part time. Pasolini, già 40 anni fa, parlava di liberazione dal lavoro grazie alla tecnologia, intuendo che l'industrializzazione italiana sarebbe passata attraverso l'incremento dei beni privati e non delle infrastrutture pubbliche (scuole, ospedali, ferrovie) e che questo non avrebbe portato un vero benessere.
Il traguardo del lavoro si preannuncia difficile, alla fine di un percorso che prevede formazione, mediazione, prevenzione e informazione a ciclo continuo. E dei nostri capannoni, che occupano città e territori limitrofi senza soluzione di continuità, che ne faremo, in uno scenario siffatto? Li raderemo al suolo, intitolando a Pier Paolo Pasolini i parchi che sorgeranno dalle loro ceneri? O continueremo a parlare di crisi e di crescita, a fasi alterne?
La tutela dei beni paesaggistico-ambientali è un principio fondamentale della Costituzione perché riguarda la «persona umana nella sua vita, sicurezza e sanità, con riferimento anche alle generazioni future, in relazione al valore estetico-culturale assunto dall’ordinamento quale “valore primario ed assoluto” insuscettibile di essere subordinato a qualsiasi altro» (Ordinanza della Corte costituzionale n. 46 del 6 marzo 2001). Eppure fino al 2004, prima dell’emanazione della legge «salva coste» - che impose come misura di salvaguardia l’inedificabilità dei territori entro i due 2 chilometri dalla battigia - la distruzione della Sardegna sembrava inarrestabile. Dopo soli due anni, ci fu l’approvazione del primo stralcio del piano paesaggistico che dichiarò la fascia costiera bene d’insieme e adeguò la tutela alle caratteristiche dei luoghi. Singole misure di protezione imposero l’inedificabilità per le aree più a rischio, fino all’adeguamento degli strumenti urbanistici, da effettuarsi entro il limite massimo di un anno per i 102 comuni interamente ricompresi negli ambiti costieri.
Il pericolo sembrava scongiurato. Ma bisognava ancora fare i conti con l’avidità e le continue aggressioni dei soliti “gufi dal gozzo pieno”. Immediatamente fioccarono i ricorsi per ottenere l’annullamento del piano. Respinto quello alla Corte costituzionale ne arrivarono centinaia davanti ai giudici amministrativi, tutti conclusi con la conferma dell’intero impianto normativo e solo in pochi casi con la soppressione di qualche comma privo di rilevanza. Ci fu addirittura un referendum popolare abrogativo, fallito per il mancato raggiungimento del quorum.
E’ naturale che un simile clima rallentasse le procedure per l’adeguamento dei piani urbanistici al Ppr, protraendo l’efficacia delle norme di salvaguardia, che difesero i beni comuni sino al varo del primo “Piano casa” («Disposizioni straordinarie per il sostegno dell’economia mediante il rilancio del settore edilizio e per la promozione di interventi e programmi di valenza strategica per lo sviluppo») introdotto nell’ottobre 2009 dalla nuova maggioranza politica, eletta con il compito di smantellare il Piano paesaggistico regionale.
Intanto le “disposizioni straordinarie”, inizialmente previste dalla legge regionale per un anno e mezzo, sono state integrate e prorogate fino a novembre 2013 con tre successive edizioni del “piano casa” originario, quando, forse, scadrà la sua ultima edizione.Una lotta impari: quattro Piani casa contro un Piano paesaggistico.
Eppure, nonostante tutto, 58 comuni hanno avviato le procedure di adeguamento e 16 le hanno concluse. Certo, mancano ancora Comuni importanti, come quello di Cagliari, ma l’inerzia sembra dovuta più alla volontà di evitare le misure di salvaguardia, che alla complessità del procedimento: le deroghe introdotte dal Piano casa si applicano fino all’approvazione dei nuovi piani urbanistici e solo pochi sindaci virtuosi sono disposti a rinunciare a simili “vantaggi”.
Nel giugno 2010, inoltre, ha avuto ufficialmente inizio il procedimento di revisione del Ppr, con l’esordio pubblico del progetto Sardegna Nuove Idee e l’attivazione dei «laboratori del paesaggio» - conclusi nel febbraio 2011 - creati per accogliere le richieste dei sindaci, interessati all’annullamento delle «misure di tutela talebane». Nello stesso anno viene emanata anche la legge sullo «sviluppo golfistico», che introduce nuove deroghe al Ppr per costruire ville e alberghi intorno a 25 nuovi campi da golf: altri tre milioni di metri cubi di cemento su oltre 3 mila ettari di territorio, prevalentemente agricolo.
Nel frattempo la Regione lavora alacremente per elaborare le nuove norme di attuazione del Ppr, Tutto avviene nel più stretto riserbo, ma le notizie che filtrano sono molto inquietanti. Si parla della cancellazione di importanti disposizioni di salvaguardia, comprese quelle che vincolano la fascia costiera, i centri storici e gli insediamenti rurali, tutti declassati da bene paesaggistico a semplice “componente di paesaggio”.
Nel luglio 2012 il Consiglio regionale approva le nuove «Linee guida» che rinviano alle procedure della legge sul Piano casa. Mai formalmente coinvolti il Mibac e le associazioni ambientaliste, nonostante la loro partecipazione sia considerata obbligatoria ai fini della validità dell’intero processo: i numerosi appelli inoltrati da Italia Nostra alla Regione e al Ministero sono rimasti a lungo inascoltati. L’arroganza della Regione arriva al punto di approvare le «Norme di interpretazione autentica in materia di beni paesaggistici» al fine di ridurre la tutela prevista per le zone umide, aggirando anche una sentenza del Consiglio di Stato. L’opera di demolizione del piano paesaggistico prosegue, dunque, inesorabile e senza soste.
Nessun cedimento da parte della giunta Cappellacci neanche quando, pochi mesi dopo, il governo Monti impugna la nuova legge sulle zone umide davanti alla Corte costituzionale; o quando nel gennaio 2012 finiscono davanti alla Consulta alcune disposizioni della legge sul Piano casa per avere violato le norme del Codice dei beni culturali e del paesaggio. Erano stati del resto impassibili anche l’anno prima, quando fu addirittura il governo Berlusconi a impugnare alcune norme della Legge sul golf.
Troppo forti gli interessi in gioco e ognuno deve avere la sua parte, dal piccolo imprenditore locale all’emiro del Qatar. Per difenderli la Regione acquista perfino due pagine dei maggiori quotidiani locali, ricordando ai cittadini la necessità di revisione perché «le regole di oggi vietano e bloccano».
Nel marzo 2013, finalmente, dopo che la Regione ha agito in completa solitudine per tre anni e col dichiarato intento di annientare il sistema di tutela, il Mibac firma il disciplinare d’intesa per la verifica del Ppr dell’ambito costiero. L’attività di revisione diviene di colpo necessaria per l’adeguamento delle norme di attuazione alle decisioni del giudice amministrativo (cioè per cancellare qualche comma da alcuni articoli), per recepire le leggi sul piano casa, sul golf e sull’interpretazione autentica del Ppr, nonché per eliminare le incongruenze rilevate negli elaborati del piano.
Compaiono improvvisamente anche le attività “obbligatorie” richieste dal Codice fin dal 2008: la ricognizione - con le prescrizioni d’uso - degli immobili e delle aree dichiarati beni paesaggistici da singoli provvedimenti (art. 136), dalla legge (art. 142) e dallo stesso piano paesaggistico ai sensi dell’art. 134, comma 1, lettera c) del Codice. Ma per questi ultimi, in violazione alla normativa vigente, il disciplinare non prevede l’obbligo di dettare le prescrizioni d’uso. Tutte le attività, inoltre, dovranno svolgersi in soli 210 giorni - per garantire l’approvazione del nuovo piano entro la fine della legislatura - nonostante il Ppr comprenda la puntuale individuazione di oltre 10 mila beni paesaggistici. La revisione - si precisa - avverrà secondo il procedimento indicato dal Piano casa, malgrado tale disposizione sia stata impugnata dal Governo e si trovi ancora al vaglio della Consulta. Come si è detto, infine, vengono recepite norme certamente incostituzionali, impugnate dallo stesso Governo di cui fa parte il Ministero che ha siglato l’accordo.
L’illegittimità di tutta l’operazione è sempre più evidente. Gli adempimenti richiesti dal Codice, del resto, devono rendere più efficaci i sistemi di tutela vigenti, non annullarli.
Di avviso contrario, ovviamente, il presidente Cappellacci. Intervistato dalla Nuova Sardegna un mese dopo l’accordo con il Ministero egli afferma: «le modifiche al Ppr vanno nella direzione di qualsiasi tipo di intervento e investimento, non solo del Qatar. Se oggi si vuole fare un intervento di rilevanza strategica è necessario levare alcuni vincoli. Ma non solo. All’interno di quel processo di revisione c’è anche il recepimento dei progetti strategici previsti dal Piano casa che richiedono una attenzione straordinaria e un approccio multidisciplinare». “Progetti strategici” che pare valgano 50 milioni di metri cubi. Come diecimila palazzi di sei piani. Un nuovo capoluogo di oltre 300 mila abitanti sparpagliato lungo le coste della Sardegna.
La decisione, ora spetta al Mibac. Il futuro della Sardegna è nelle sue mani. Svolgerà con coraggio e fermezza il proprio ruolo istituzionale o abbandonerà la Sardegna alla triste profezia di Antonio Cederna, lasciandola sprofondare sotto il peso del cemento?
In un paese un pochino più avvezzo al giornalismo attento, forse sarebbe sbucata già nel titolo la parola chiave: sprawl, o equivalente. E magari qualche giornalista più preparato avrebbe perfino accennato al fatto che gli enti sovracomunali, e i loro compiti di pianificazione, sono necessari. Corriere della Sera Lombardia, 29 giugno 2013 (f.b.)
MILANO — La rivoluzione verde? In Lombardia tarda ancora ad arrivare. Se è vero che biciclette e trasporti pubblici hanno sempre più appeal è altrettanto vero che, nonostante la crisi, le auto circolanti in tutta la regione sono ancora in crescita: 674.673 quelle contate in più in 16 anni, dal 1995 al 2011 (ultimo dato disponibile). Sono i numeri dell'Aci elaborati dall'Anfia, l'associazione nazionale filiera industria automobilistica che ha fotografato però una realtà molto variegata all'interno della regione. Mentre in quasi tutti i dodici comuni capoluogo il parco auto circolante (cioè le macchine immatricolate in un dato anno più quelle immatricolate negli anni precedenti e non rottamate) è in diminuzione, nelle province è in aumento.
Nel comune di Mantova, per esempio, le auto circolanti nel 1995 erano 31.055, mentre al 31 dicembre 2011 sono scese a 29.131. In provincia, invece, erano 209.791 nel '95, sono salite a 255.297 nel 2011. Stessa dinamica a Bergamo, Brescia, Como, Cremona, Milano, Pavia, Sondrio e Varese. Fanno eccezione solo Lecco, Lodi e Monza (di cui si ha il dato del comune dal 2005, mentre quello della provincia nel '95, nel 2000 e nel 2005 è compreso in quella di Milano), dove il parco auto è in aumento sia nei comuni che nelle province. Fatto sta che in 16 anni nei dodici comuni capoluogo le auto si sono ridotte di più di 84 mila unità, mentre nelle province sono aumentate di quasi 760 mila. E anche se il possesso di un mezzo non implica automaticamente il suo utilizzo, è comunque probabile che all'aumentare del parco circolante corrisponda un traffico maggiore sulle strade.
Secondo gli esperti, diversi sono i motivi. Il primo è quello demografico. «Da molti anni ormai le grandi città si stanno svuotando a favore dei piccoli centri in provincia», prova a spiegare Andrea Boitani, docente di Economia politica alla Cattolica di Milano ed esperto di mobilità e trasporti. «Qui la vita e le case costano meno, la popolazione quindi aumenta e con questa il numero delle auto. E dal momento che la maggior parte delle sedi di lavoro si trova nei capoluoghi, aumentano anche gli spostamenti e quindi il traffico dalle cinture extraurbane alle città».
Secondo motivo, la scarsa capillarità dei trasporti pubblici. «A Milano e nelle altre grandi città le aziende di trasporti locali soddisfano abbastanza bene la domanda di mobilità — dice Dario Balotta, responsabile trasporti di Legambiente Lombardia —. Tenuto anche conto che si hanno meno soldi a disposizione, si tende a usare meno la macchina. Nelle province, invece, e nelle città più piccole i servizi sono carenti. Le aziende di trasporti tendono a privilegiare i centri dove la domanda è maggiore e così, nonostante la crisi, molti sono costretti comunque a usare la macchina. Il servizio pubblico, però, proprio in quanto tale dovrebbe essere presente ed efficiente ovunque».
Per decongestionare le province, dunque, parecchio ci sarebbe da fare. «Bisogna intervenire sugli spostamenti sistematici casa-lavoro — dice Boitani — garantendo collegamenti migliori con gli autobus tra i piccoli centri e le stazioni ferroviarie». Utile anche l'integrazione tariffaria: «In Lombardia servirebbe un biglietto unico per tutti i mezzi gestito dallo stesso soggetto, cioè la Regione», aggiunge Balotta. «E poiché la maggior parte degli spostamenti che si fanno in auto sono a media e corta percorrenza, il Pirellone dovrebbe smetterla di costruire nuove autostrade per concentrarsi invece solo sulle strade che davvero servono».
il Fatto quotidiano online, 25 giugno 2013
L’idea è sbagliata perché i depositi dei musei non sono magazzini polverosi, ma una riserva (visitabile per tutti coloro che lo chiedano) che funziona come la cassa di espansione di un fiume: il museo si allarga e si contrae, ed è un unico campo di ricerca, che non si può smembrare a piacimento per decenni. Sarebbe come noleggiare, per anni, i volumi meno richiesti delle nostre biblioteche.
Ed è un’idea anche pericolosa, perché per la prima volta una norma di legge prevederebbe non una valorizzazione culturale (come impone il Codice dei beni culturali), ma una messa a reddito diretta del patrimonio: e di qui alla vendita il passo sarebbe quasi automatico, e giustificabile con gli stessi (pessimi) argomenti.
È poi facile immaginare che le stesse pressioni che oggi i direttori dei musei subiscono per prestare i ‘capolavori’ alle mostre, domani le subirebbero per periferizzarli nei depositi: e metterli così a disposizione dei noleggiatori. E, a quel punto, chi potrebbe resistere ai fondi sovrani dei paesi arabi, che si accingono a comprare l’Alitalia?
Dal ministero dei Beni culturali replicano che questa sarebbe solo una ‘facoltà’, e che i direttori dei musei potrebbero sempre opporsi. È un’obiezione curiosa: lo strapagato staff centrale del Mibac apre una falla confidando che venga chiusa dai sottopagati e umiliati direttori dei musei! Quegli stessi direttori che (insieme ai funzionari responsabili del territorio, vera trincea della tutela) una pessima circolare diramata proprio in questi giorni dal segretario generale del ministero, Antonia Pasqua Recchia, sottopone alla vessazione di una rotazione triennale che è il frutto avvelenato di una pedissequa applicazione di alcune norme internazionali per la prevenzione della corruzione.
La circolare rischia di stroncare ogni serio progetto di ricerca e divulgazione museale: e la motivazione appare pretestuosa, perché i musei italiani non sono (purtroppo) autonomi centri di spesa. Se proprio qualcuno deve essere a rischio di corruzione, si tratta semmai dei gradi superiori: i soprintendenti e i direttori regionali. E invece questa norma rischia di avere risultati paradossali: potrebbe dover ruotare Antonio Natali (che è lo specchiato direttore degli Uffizi dal 2006) e invece rimanere fermissima al suo posto Cristina Acidini (dallo stesso anno sua superiora diretta come soprintendente di Firenze), che è in attesa di giudizio alla Corte dei Conti per un danno erariale di 600.000, per aver fatto comprare allo Stato un Crocifisso ligneo implausibilmente attribuito a Michelangelo. La verità è che i direttori di museo sono spesso gli ultimi argini che proteggono il patrimonio da una valorizzazione selvaggia: e invece di rafforzarne la dignità e l’autonomia (come da tempo sarebbe necessario), con questa assurda norma una parte della burocrazia centrale del Ministero sembra cercare una facile resa dei conti.
E in tutto questo che fa il ministro Massimo Bray, che tanta fiducia ha suscitato nei ranghi periferici della tutela, e nei cittadini che amano il patrimonio culturale? L’impressione è che non sia facile risalire la china di anni in cui i ministri dei Beni culturali sono stati soggiogati dai colleghi dell’Economia e dello Sviluppo (i quali si permettono di proporre per decreto modifiche al Codice dei Beni culturali), ma anche immobilizzati da una alta burocrazia interna che è ormai la vera guida del Mibac.
Bray si sta dedicando con passione ed energia a risolvere le singole, quotidiane emergenze partorite da un sistema al collasso. È riuscito ad arginare l’imperialismo della Protezione Civile, e ha rigettato l’ipotesi di cedere alla gestione dei privati con fini di lucro i monumenti economicamente improduttivi: ma non è riuscito a bloccare il noleggio ai musei stranieri, e ha potuto leggere la circolare sui direttori dei musei (approvata da Ornaghi) quando ormai era stata diramata.Gli alti papaveri del Mibac (benevolissimi verso gli imbelli Bondi, Galan e Ornaghi) osteggiano e ora criticano apertamente Bray, perché è fin troppo evidente che ha davvero voglia di cambiare lo stato delle cose.
Ma se questa voglia non si trasforma velocemente in una visione precisa e coerente, e nella forza di attuarla, la maledizione dei Beni culturali rischia di colpire anche Bray. E se anche questi dovesse fallire, per il nostro povero patrimonio storico e artistico ci sarebbe ben poco da fare.
Fatto Quotidiano, 24 giugno 2013, con articoli di Ferruccio Sansa, Roberto Morini e Thomas Mackinson, dedicato ai danni gravissimi provocati a una delle più straordinarie isole del Mediterraneo. Ma le responsabilità non sono solo degli immobiliaristi che crescono all'ombra dei cappellacci, né solo dei Mazzarò locali, anche dei ministeri romani: in particolare del MIBAC. Come spieghiamo sinteticamente in una postilla
Sardegna oggi
di Thomas Mackinson e Ferruccio Sansa
Salvare la Sardegna. Ora o mai più. Sull’isola di Smeraldo stanno per riversarsi 50 milioni di metri cubi di cemento. Una colata senza precedenti, concentrata su coste tra le più belle e delicate del mondo. Luoghi che rendono unica la Sardegna e, proprio perché intatti, garantiscono la maggiore ricchezza economica di un’isola in gravissima crisi.
C’è la minaccia del cemento targato Qatar, uno schiaffo irrimediabile al paesaggio, ma anche all’orgoglio della gente sarda che vedrebbe la propria terra colonizzata con i soldi del petrolio. E ci sono imprenditori nostrani, come i Benetton, che alle origini della loro fortuna - prima di diventare i padroni delle Autostrade - amavano darsi un’immagine politically correct. Poi tanti grandi della finanza italiana, come il Monte dei Paschi o i Marcegaglia, che hanno chiesto di poter costruire o gestire alberghi. Insomma, nomi che contano nei salotti della politica e del potere nazionale, di fronte ai quali la gente di Sardegna pare disarmata.
Il grimaldello per aprire la porta è quello della crisi, come ricorda Stefano Deliperi, che con il Gruppo di Intervento Giuridico è una delle voci più appassionate e agguerrite nella difesa della terra di Sardegna: “Il 30% dei residenti in Sardegna in età lavorativa - dai 15 anni in poi – sono disoccupati o sottoccupati, mentre il 62,7% è privo di qualifica professionale. In tre anni (2008-2011) l’edilizia in Sardegna ha perso il 40,86% degli addetti, passando da 44.032 a 26.176 (dati Fillea Cgil)”.
La risposta della politica e della giunta di centrodestra guidata da Ugo Cappellacci sembra essere solo una: costruire. Non importa che l’attuale maggioranza tra pochi mesi scada e che decisioni tanto importanti non debbano essere prese da chi, forse, presto tornerà a casa. Non importa, soprattutto, che altre strade siano percorribili, “con vantaggi per l’ambiente e per l’economia”, come ricorda Deliperi. Una, per dire: la giunta di Renato Soru aveva previsto investimenti per mezzo miliardo per recuperare paesi e borghi dell’entroterra. Un modo per dare lavoro al settore edile, per portare il turismo oltre le coste, ma anche per risparmiare il paesaggio. Salvando i centri dell’interno - la vera anima della civiltà e della cultura sarde - altrimenti destinati all’abbandono. Eccole, allora, le principali minacce che incombono sulla Sardegna. Pericolose, soprattutto perché fatte con il benestare dell’amministrazione. A norma di legge.
Costa Smeralda, la grande preda è sempre lei il sogno degli immobiliaristi di mezzo mondo. Quella manciata di chilometri di granito affacciati sul blu. Ma stavolta l’incubo potrebbe diventare realtà: nel 2012 l’intera Costa Smeralda è stata acquistata (per 600 milioni) dalla Qatar Holding, il braccio finanziario della famiglia Al Thani, casa regnante del Qatar. “Con la benedizione di Cappellacci e degli amministratori di Olbia e Arzachena, è stato presentato un piano di massima per investimenti immobiliari da un miliardo”, racconta Deliperi. Un progetto che prevede tra l’altro: 500 mila nuovi metri cubi, il restyling della famosa piazzetta di Porto Cervo e dei quattro hotel “storici”, un “parco acquatico” a Liscia Ruja, un kartodromo, decine di ville extra-lusso, trasformazione di 27 caratteristici “stazzi” galluresi in ville esclusive. E subito sono partiti gli esposti delle associazioni ecologiste Gruppo d’Intervento Giuridico onlus e Amici della Terra e i provvedimenti del Servizio valutazione impatti della Regione autonoma della Sardegna. Sostiene Deliperi: “A nostro avviso il progetto viola il piano paesaggistico regionale e le altre normative di salvaguardia ambientale. Non ci risulta che siano stati svolti i necessari procedimenti sulle valutazioni di impatto sull’ambiente”. Risultato : la “Costa Smeralda 2” targata Qatar finora è stata bloccata dagli uffici tecnici della Regione.
Dune di Badesi. Costruire perfino in riva al mare. Addirittura sulle dune. “A Badesi”, racconta Deliperi, “a poche decine di metri dalla battigia, stanno fiorendo ville sulle dune. E nell’immediato entroterra appartamenti”. Servizio completo. Ancora Deliperi: “Mancherebbero le necessarie procedure di impatto sull’ambiente (come certificato del Servizio valutazione impatti della Regione autonoma della Sardegna) e il piano di lottizzazione degli anni 70 del secolo scorso è ormai ampiamente scaduto”.
Il contrattacco degli ambientalisti è a colpi di carte bollate, interrogazioni al Parlamento europeo (del deputato ecologista Andrea Zanoni), al Senato e alla Camera (Cinque Stelle) e in Regione (l’indipendentista Claudia Zuncheddu). La Commissione europea e il Ministero dell’Ambiente hanno chiesto chiarimenti.
Piscinas – Ingurtosu. Siamo sulla costa occidentale, in una distesa di verde a perdita d’occhio. Poi profumo di mirto e davanti solo mare. Ma il paesaggio cambierà se arriveranno 40-50 mila metri cubi di ville, residence, centro benessere, campo da golf. Nelle aree minerarie di Ingurtosu e Piscinas, a ridosso delle splendide dune costiere di Piscinas – Scivu. E le norme per la tutela del paesaggio? “Non sono state rispettate”, scrivono ambientalisti e comitati nei loro esposti. Ancora una volta la sorte del paesaggio sardo è nelle mani dei giudici.
Tuvixeddu. La più importante area archeologica sepolcrale punico-romana del Mediterraneo (oltre 2.500 tombe dal VI sec. avanti Cristo fino all’Alto Medioevo). Dentro Cagliari. All’estero ne farebbero un’attrazione capace di richiamare centinaia di migliaia di turisti (e tanto denaro). In Italia invece neanche sappiamo che c’è. C’è voluto il giornale inglese Times per tirare fuori la storia. Se digiti “Tuvixeddu” su internet ti compare il sito della società costruttrice: “Abitare non è mai stato così piacevole”, con tanto di immagini della futura colata. L’accordo del 2000 prevedeva 400 mila metri cubi affacciati sulla necropoli. Un progetto caro alla potentissima famiglia Cualbu, sostenitrice di Cappellacci, ma con amici nel centrosinistra. Marcello Sanna, che abita a pochi metri la descrive così: “Qui non è solo una questione di ambiente e storia. Ma di rispetto dei morti”. Ma dopo anni di dispute legali le ruspe affilano di nuovo i denti.
Capo Malfatano. Una lingua di terra e di vegetazione bassa, piegata dal vento. Una manciata di case di pietra, i furriadroxus, testimonianza di una comunità unica: anziani pastori, tutti uomini, che hanno speso qui ogni giorno della loro vita. Ecco cos’è Capo Malfatano, nell’estremo sud della Sardegna. Per rendervene conto potete vedere su internet il bellissimo documentario “Furriadroxus” di Michele Mossa e Michele Trentini. Un luogo perso in fondo alla Sardegna, ma gli appetiti delle grandi imprese sono arrivati fin qui: il progetto prevede 140mila metri cubi di cemento, come dieci grandi palazzi, sui 700 ettari incontaminati del promontorio. Un’operazione voluta da colossi nazionali del settore: società della famiglia Toti, dei Benetton, del Monte dei Paschi. Per capire cosa ne verrebbe fuori basta vedere il sito www.silvanototi.com . Anche la Mita che fa capo ai Marcegaglia era pronta a gestire gli alberghi. Ma il progetto per adesso è fermo dopo la sentenza del Tar. La parola al Consiglio di Stato. Una buona notizia per i vecchi abitanti dei Furriadroxus che temevano di dover lasciare le loro case dopo una vita. Per far posto ad alberghi e centri benessere.
Stintino, spiaggia Pelosa sarà ben poco virtuosa
di Roberto Morini
La Turisarda potrà costruire altri 40mila metri cubi di cemento davanti alla spiaggia più bella del nord Sardegna, la Pelosa di Stintino, in una delle zone più belle del Mediterraneo, capo Falcone, in faccia alla splendida isola-parco dell’Asinara. Aumenterà così del 20 per cento la volumetria di quello che è giustamente considerato uno degli ecomostri sardi più noti, l’hotel Roccaruja.
Il lungo serpentone alto quattro piani costruito dai Moratti negli anni Sessanta, quando in mezzo a quelle dune non si era ancora visto nemmeno un mattone, passato poi sotto il controllo dell’Eni attraverso Snam, quando i petrolieri di stato facevano ancora gli imprenditori turistici, è finito nel 2000 in mano a una società sarda, la Turisarda, appunto. Di volontà di eliminazione dell’ecomostro riferirono tutti i giornalisti presenti alla conferenza stampa durante la quale il sindaco di Stintino Antonio Diana aveva presentato nel giugno 2010 quello che aveva battezzato “Puc salva coste”. Diana, il politico che nell’ultimo decennio ha partecipato più di tutti gli altri alle decisioni relative al cemento sulle coste di Stintino, prima come assessore all’Urbanistica poi, dal 2007, come sindaco, rieletto l’anno scorso per il secondo mandato, in quella conferenza stampa aveva parlato di svolta ambientalista. Aveva annunciato che l’albergo sarebbe stato demolito e ricostruito più lontano dalla spiaggia, che la Pelosa sarebbe rinata anche attraverso la cancellazione della strada che ora separa la spiaggia dall’albergo e dalla lunga e ininterrotta teoria di ville costruite in quarant’anni a Capo Falcone.
Una spiaggia ormai dimezzata nella sua superficie, trasformata in duro campo di sabbia umida e battuta dalle centinaia di migliaia di turisti che la calpestano ogni estate in ogni suo centimetro, rendendola impraticabile per chi non sia disposto a conquistarsi un posto al sole alle 7 del mattino. “L’hotel Roccaruja – aveva detto in quella occasione Antonio Diana – dovrà essere sottoposto a un radicale adeguamento con un progetto meno impattante”. Eppure a Stintino la distanza tra parole e fatti era stata osservata più volte. Come quando, negli anni Novanta, il Comune di Stintino aveva sfregiato uno dei panorami più belli del mondo con l’installazione di un filare di lampioni che spezzava, e continua a spezzare, una vista fino ad allora mozzafiato. Ora dietro le parole ambientaliste viene lanciato un aumento di cubature di cui nessuno si era accorto.
Il vero contenuto del Puc del Comune di Stintino viene alla luce solo ora perché a puntare la lente d’ingrandimento sui numeri del piano urbanistico ci ha pensato un geometra sassarese, Alfonso Chessa, con un esposto alle procure della Repubblica di Cagliari e Sassari e al Tribunale di Brescia. Chessa si riteneva vittima indiretta del grande crac Bagaglino-Italcase, un fallimento da 600 milioni di euro che in primo grado aveva visto la condanna di alcuni dei nomi più grossi della finanza nazionale, da Cesare Geronzi a Roberto Colaninno a Stena Marcegaglia, poi assolti in appello da una sentenza che confermava solo le condanne di Mario Bertelli, titolare del gruppo turistico bresciano travolto dal fallimento, e di alcuni imprenditori locali. Secondo il geometra sassarese, infatti, il Comune di Stintino aveva trasferito nel 2006 le cubature precedentemente attribuite al Country Village, il villaggio turistico di Bertelli, ad altre aree, tra le quali quella dell’hotel Roccaruja. Proprio nella causa relativa al fallimento Bagaglino-Italcase, Chessa era poi diventato perito del Tribunale di Brescia, che si era trovato svalutati, perché non più edificabili, i terreni che avrebbe dovuto vendere per tentare di pagare i numerosi creditori. E aveva già denunciato, con una serie di esposti, quell’operazione da lui ritenuta illegittima.
Ora, dopo il Puc, il nuovo esposto presentato da Chessa fa emergere la conferma di quella scelta, fatta nel 2006 quando l’attuale sindaco era ancora assessore all’Urbanistica nella giunta guidata da Lorenzo Diana. Nel Puc l’ipotesi di demolizione e ricostruzione dell’ecomostro esiste, ma sembra poco allettante per i proprietari dell’albergo: la premialità aggiuntiva in caso di demolizione e ricostruzione è infatti di soli 6mila metri cubi. Mentre i 40mila metri cubi, che si aggiungono agli attuali 200mila, sono immediatamente utilizzabili, senza nessuna demolizione, senza nessuno spostamento lontano dal mare.
A sua difesa il Comune sostiene di aver addirittura ridotto la volumetria che l’attuale proprietario del Roccaruja avrebbe a sua disposizione, dai 50mila metri cubi concessi nel 2006 ai 40mila del Puc. Ma Chessa afferma, norme e carte alla mano, che il diritto di costruire, in base alla lottizzazione avvenuta negli anni Sessanta, era scaduto nel 1978 ed era stato rinnovato solo fino al 1992. Da allora i proprietari avevano perso la possibilità di realizzare nuove costruzioni.
Lo scontro legale arriva a raffinatezze normative e verifiche sul campo come quella relativa all’esistenza o meno delle opere di urbanizzazione: strade, fogne, acquedotto. Secondo il Comune erano già quasi terminate e quindi il nuovo cemento sarebbe un diritto acquisito anche se l’area è a meno di trecento metri dal mare. Secondo Chessa quelle opere non ci sono, non ce n’è traccia. E all’occhio del profano sembra abbia ragione lui. Secondo il Comune invece ci sono. Ma in un atto della Regione, servizio Tutela del paesaggio, che nel 2006 autorizzava le nuove costruzioni approvate dal Comune negandone l’impatto ambientale, si affermava: “Resta fermo che tutte le opere di urbanizzazione (…) dovranno essere specificamente autorizzate”. Pare dunque che dovessero essere ancora realizzate.
C’è un altro fatto che solleva dubbi sull’operazione. Nel 2003, tre anni prima delle delibere con cui il Comune autorizza per la prima volta l’aumento di cubatura per il Roccaruja, Turisarda srl vendeva a Forrazzu srl un terreno di 16mila metri quadri di fronte alla Pelosa. Secondo alcuni a prezzi stracciati. I protagonisti hanno sempre difeso la correttezza dell’operazione. Un altro passaggio di proprietà tra le due società è registrato alla fine del 2006, pochi mesi dopo le due delibere favorevoli a Turisarda. In quel periodo Antonio Diana è assessore all’Urbanistica e contemporaneamente amministratore unico della Forrazzu srl. Si dimette da quell’incarico societario nel giugno 2007, quando viene eletto sindaco di Stintino. E resta socio al 25 per cento. Chiara e immutata una domanda di fondo: chi difenderà quel che resta di questo meraviglioso angolo di Sardegna che rischia di diventare una striscia di cemento senza soluzioni di continuità?
“Basta consumare terra, rischiamo catastrofi”
intervista al ministro dell'Ambiente, di Ferruccio Sansa
Il territorio non regge più. Ce ne siamo accorti tutti. In pochi anni per colpa di frane e alluvioni abbiamo rischiato che si ripetesse un Vajont. Basta. Serve una legge che difenda senza tentennamenti il nostro territorio. Per questo abbiamo presentato il disegno di legge per contenere drasticamente il consumo del territorio”.
Andrea Orlando (Pd), è ministro dell’Ambiente da pochi mesi. Al suo arrivo c’era stato chi aveva puntato il dito sulla sua mancanza di esperienza specifica. Proprio al dicastero che deve affrontare nodi come l’Ilva. Ma ecco che Orlando si appresta a presentare un disegno di legge sul consumo del territorio più severo di quello (molto criticato) lanciato da Ermete Realacci. Una disciplina che raccoglie consensi anche tra gli ambientalisti.
Ministro, che cosa prevede il vostro testo? Vogliamo ridurre drasticamente il consumo del territorio.
Come, concretamente? Tanto per cominciare prima di consumare suolo il pianificatore dovrà dimostrare il recupero e il riuso dell’esistente. Secondo, sarà fissato - regione per regione - un limite all'estensione massima di terreni agricoli consumabili. Ancora, si prevede l'istituzione di un Comitato interministeriale che controlli e monitori il consumo.
Le associazioni ambientaliste, come il Wwf, chiedono che ogni comune predisponga un “bilancio” del consumo del proprio suolo... Sono previsti censimenti comunali delle aree già interessate all’edificazione, ma non utilizzate e dove è possibile fare rigenerazione e recupero dei terreni. Sarà anche vietato per cinque anni trasformare i terreni agricoli che hanno usufruito di aiuti di Stato o Comunitari.
Basteranno cinque anni? La proposta di Realacci, che pure viene dal mondo dell’ambientalismo, è stata bersaglio di critiche perché non abbandonerebbe la logica delle compensazioni. Nel nostro decreto c’è un punto chiave: i comuni potranno utilizzare i proventi di concessioni e autorizzazioni edilizie solo per le opere di urbanizzazione primaria e secondaria, per il risanamento dei centri storici e la messa in sicurezza del rischio sismico e idrogeologico. É un passo avanti epocale. Finora i comuni erano istigati a cedere il suolo, a far costruire perché gli oneri potevano essere utilizzati per far quadrare i bilanci. Ora basta.
Non si potrebbe osare ancora di più e premiare chi non costruisce? Le premesse ci sono. Viene incentivato il recupero del patrimonio edilizio rurale evitando la costruzione di nuovi edifici con finanziamenti in materia edilizia. Ed è istituito il Registro dei Comuni che non prevedono un incremento di aree edificabili. Con le leggi di stabilità si potranno prevedere premi ai comuni virtuosi.
Ministro, dobbiamo crederle? Possibile che d’un tratto ci si ricordi dell’ambiente? La questione non era più rinviabile. Abbiamo rischiato tragedie, il nostro territorio non regge più.
È pensabile che la lobby del mattone che ha tanti appoggi nel centrodestra, e anche nel suo Pd, pieghi il capo? Non nego che le lobbies del cemento abbiano ancora peso politico e che magari ci sia chi vorrebbe reagire alla crisi con la solita soluzione: il mattone.
Appunto, non finirà con le solite belle intenzioni e il nulla di fatto? É un momento ideale per voltare pagina: in Italia ci sono milioni di case nuove invendute. Non si può costruire ancora. Non solo: oggi non costruire, risparmiare il suolo può portare più denaro e lavoro. Pensi che l’85% del nostro patrimonio di 2 miliardi di metri quadrati di abitazioni richiede una riqualificazione. É un’occasione straordinaria per imprese e lavoratori. Ancora: la principale industria del nostro Paese è il turismo, che si tutela proteggendo il territorio. Infine: riducendo il consumo del territorio diamo un forte impulso all’agricoltura, un settore in espansione.
Insomma, meno cemento più sviluppo? Sì.
Perdoni la diffidenza, ma voi siete alleati con il centrodestra dei condoni... Il condono non ci sarà mai. E sul consumo del suolo non ho avuto ostacoli. Chissà, forse le mire delle grandi imprese si sono concentrate sulle infrastrutture.
O forse sono tutti convinti che non arriverete in fondo e resteranno belle parole? Può darsi che qualcuno creda che il cammino sia troppo lungo. Che speri in emendamenti. Ma io credo che non sarà così, e i punti essenziali del nostro disegno di legge potremmo proporli con un decreto perché diventino subito legge. Ora o mai più. Difendere il territorio oggi significa uscire dalla crisi. Ed evitare tragedie. Gli italiani lo sanno e ci sosterranno.
SUOLO CONTRO TUTTI
di Thomas Mackinson
Non c’è più tempo, non c’è più lo spazio. Ogni quattro secondi - il tempo di terminare questa frase - 32 metri quadri di suolo vengono coperti dal cemento che viaggia ormai alla velocità media di quasi 90 ettari al giorno. Ogni cinque mesi divora una superficie grande come la città di Napoli, in cinquant’anni ha ricoperto un’area come il Trentino e il Friuli messi insieme e di questo passo, tempo vent’anni, avremo cementificato pure la Basilicata.
Dati e previsioni della pubblicazione più completa mai realizzata in Italia sul consumo di suolo e sulla rigenerazione del territorio che il WWF ha presentato insieme alla sua proposta di legge per “fermare la rapina del territorio” proprio mentre in Parlamento partiva una delicata discussione sullo stop al cemento. L’indagine è condotta dall’Università dell’Aquila e si basa sul confronto tra estratti originali delle cartografie storiche del secondo Dopoguerra e le carte regionali digitali d’uso del suolo. Monitora 13 regioni, il 58% del territorio nazionale, quindi è significativa dell’andamento generale dell’urbanizzazione: “Il tasso medio - spiega Bernardino Romano, professore di Pianificazione territoriale e curatore della ricerca - è passato dall’1,9% degli anni 50 al 7,5. La media pro capite è triplicata ai quasi 380 m2/ab. Il che porta a stimare oggi l’ammontare delle aree urbanizzate sui 2,5 milioni di ettari”.
Il paradosso è che altro cemento proprio non serve. Secondo Adriano Paolella, direttore generale di WWF Italia ci sono 210mila capannoni inutilizzati, 6.700 chilometri di ferrovie dismesse, 5 milioni di abitazioni vuote. A fronte di questa situazione è ormai maturata nel Paese una domanda sociale, diffusa e organizzata, che aspira ad una riqualificazione degli insediamenti urbani e del territorio. Il WWF l’ha colta con la campagna “Riutilizziamo l’Italia” che in cinque mesi ha prodotto 575 schede di segnalazione di ambiti di patrimonio inutilizzato e altrettante proposte di riuso. Il censimento può essere “il primo contributo per avviare un grande processo di recupero del territorio italiano dopo quello dei centri storici nel Dopoguerra”. Sempre che arrivino le risposte politico-normative che si cercano in Parlamento.
Perché se lo spirito del tempo è cambiato, questa sensibilità nuova chiama in causa la politica. In Parlamento, nel giro di poche settimane, si sono materializzate 11 proposte di legge sul consumo di suolo accompagnate da furibonde polemiche. Le iniziative corrono su un binario parallelo. Sul fronte parlamentare si è aperto un caso intorno alla proposta “Norme per il contenimento dell’uso di suolo e la rigenerazione urbana”, primo firmatario Ermete Realacci (PD), che ammette la possibilità di consumare nuovo suolo previo pagamento di un “contributo per la tutela del suolo e la rigenerazione urbana” (art. 2), l’attribuzione di quote di edificabilità e di diritti edificatori per compensare i proprietari di immobili ceduti al comune o per incentivare le trasformazioni, i recuperi e le demolizioni (art. 6). Tanti, compresa Italia Nostra , hanno preso le distanze; altri gruppi parlamentari si sono precipitati a depositare proposte alternative. Quelle di Pd, M5S e Scelta Civica hanno in comune l’eliminazione dei proventi delle concessioni edilizie per il finanziamento della spesa corrente dei comuni. Sel ha fatto propria al Senato quella elaborata dal WWF che chiede l’istituzione di un registro del consumo di suolo presso l’Istat e spinge sul recupero, indicando strumenti di fiscalità urbanistica che penalizzano chi spreca suolo e premiano chi riusa. Poco o nulla si sa, invece, di quella del Pdl. Intanto a muoversi è stato il governo che lo scorso 15 giugno ha approvato una versione rivisitata del Ddl dell’ex ministro Mario Catania, presentato alla fine della scorsa legislatura. Il testo mantiene il focus sulla tutela dei terreni agricoli ma fa riferimento anche al paesaggio. Salutato da tanti come un interessante passo avanti su cui avviare la discussione, definisce il suolo “bene comune” e “risorsa non rinnovabile” (art. 1) e ascrive a riuso e rigenerazione il primato in materia di governo del territorio (art. 2). Due principi che vanno al cuore del problema. Sempre che le contrapposizioni tra paladini del verde (sinceri e non) non blocchino tutto, lasciando ancora e sempre il suolo contro tutti.
Non lasciamo sola la Sardegna
di Ferruccio Sansa
Non lasseus assola sa Sardigna. Si deppeus ponni de bona voluntadi e aggiudai sa genti sarda. Cust'Isola non deppit accabbai pappada de su ciumentu.
Non lasciamo sola la Sardegna. Prendiamo questo impegno. Non abbandoniamo quest’isola che rischia di finire in pasto al cemento: 50 milioni di metri cubi di nuove costruzioni sulla costa significano la fine. Non porteranno turismo, ma un’umiliante colonizzazione compiuta con i soldi del Qatar o della nostra finanza.
Ce ne dimentichiamo facilmente, basta scendere dal traghetto che ci riporta a casa alla fine delle ferie. Ma alla Sardegna dobbiamo molto. Non solo vacanze felici. Il blu della sua acqua per tanti di noi è la misura di ogni mare. Il profumo che ci accoglie all’arrivo appena si apre il portellone della nave resta dentro per mesi, anni. Ricorda che c’è un altrove dove tornare e rifugiarsi. Anche solo nei pensieri.
Questa è la Sardegna che appartiene alla sua gente, ma cui tutti siamo legati. Una terra grande, con una sua cultura. Una lingua (noi abbiamo azzardato un passaggio nella variante campidanese).
Arriva l’estate, la stagione del riposo, della leggerezza. Del distacco da pensieri e fatiche. Forse ormai crediamo che questo bisogno dentro di noi, proprio nel corpo, sia suggerito dal calendario del lavoro, delle fabbriche (dove ci sono ancora). No, non è così. Le stagioni dell’uomo sono dettate da quelle della natura. Ce ne accorgiamo soprattutto in estate: questo risveglio che sentiamo nei muscoli (ahimè, quando ci sono) è lo stesso che vediamo negli alberi, nell’aria, negli animali. L’estate riavvicina al mondo, ricorda che ne siamo parte. Allora le vacanze - giuste, sacrosante, spesso dimenticate per colpa della crisi - potrebbero farci riallacciare un legame essenziale. Con il mondo, ma anche proprio con la terra... avete presente quelle zolle rosse, luccicanti che emergono quando l’aratro è appena passato nei campi... ecco quella. Un’appartenenza che a volte temiamo possa svilire il nostro essere uomini e che, invece, può essere fonte di consolazione e compagnia. Come diceva Vladimir Nabokov: “Mi sentii tuffato di colpo in una sostanza fluida e lucente che altro non era se non il puro elemento del tempo. Lo si condivideva con creature - proprio come bagnanti eccitati condividono la scintillante acqua del mare - che non erano te, ma a te erano unite dal comune scorrere del tempo”. Non sembrano parole scritte nel mare della Sardegna?
Il ministro Andrea Orlando, intervistato da noi ha preso impegni di rilievo. Ha ricordato l’importanza della terra che ci dà la vita e, se maltrattata, ce la toglie. Prendiamo anche noi un impegno, in italiano o in sardo: non abbandoniamo la Sardegna e la terra dove viviamo. Ricordiamocene mentre ci tuffiamo. Buona estate.
Postilla
E' giusto sollevare l'allarme sugli scempi che stanno avvenendo in Sardegna, Da tempo: da quando, grazie anche ai cedimenti dei suoi alleati, Renato Soru è stato battuto dall'uomo di Berlusconi, Cappellacci. Da quando, nell'indifferenza dei troppo deboli supporters di Soru, Cappellacci e i suoi hanno cominciato a tentar di demolire l'argine eretto in difesa delle coste della Sardegna e dei suoi paesaggi: il Piano paesaggistico regionale, approvato nel settembre 2006 e da allora vigente. Non riuscendo a demolirlo per via giudiziaria hanno tentato via via di svuotarlo con leggi derogatorie incostituzionali (le quali però, fino alla dichiarazione d'incostituzionalità, venivano applicate dagli immobiliaristi e dalle autorità locali loro succubi), e con lo smantellamento dell'ufficio regionale costruito per redigere vil piano e gestirne l'attuazione. Ma gli argini del PPR hanno retto: allora i berlusconiani e i loro nuovi alleati hanno avviato un processo di "revisione e adeguamento" del piano, dichiaratamente orientato a indebolire, moderare, alleggerire i maledetti "vincoili" volti alla tutela del paesaggio della Sardegna, Spiace doverlo affermare, ma in questa vicenda lo stesso Ministero per i beni e le attività culturali, che dovrebbe "copianificare" con la Regione per garantire il rispetto dell'articolo 9 della Costituzione, si appresta a coprire gli interessi economici dello sfruttamento del paesaggio sardo a vantaggio non solo degli emiri dei regni lontani, ma anche dei numerosi locali avvoltoi, grandi e piccini, che stanno arrotando becchi ed artigli. E' quindi soprattutto al titolare del MIBAC, più che a quello dell'Ambiente, che i valorosi giornalisti del Fatto quotidiano avrebbero dovuto, e dovrebbero, rivolgersi
La Repubblica 22 giugno 2013
COLPO di coda di Ornaghi, colpo di grazia ai musei italiani. Delegittimati davanti ai colleghi stranieri dallo scarso potere decisionale, umiliati da stipendi miserevoli, marginalizzati dall’assenza di risorse, i direttori dei nostri musei sono ora ufficialmente messi alla gogna da una circolare in gestazione da mesi (quando Ornaghi eraministro).
Ma diffusa solo ora dal segretario generale del ministero dei Beni culturali. Ne ha dato notizia il 20 giugno in queste pagine Francesco Erbani: l’idea di base è che nessun funzionario potrà restare allo stesso posto per più di tre anni, e ciò «come misura di prevenzione della corruzione». Il tutto in un intrico di norme e codicilli che, si pretende, risponderebbero a superiori disposizioni nientemeno che dell’Onu e del Consiglio d’Europa. Peccato che tali sollecitazioni, se pure esistono, non siano affatto vincolanti per l’Italia, dove l’obbligo costituzionale della tutela, come ha dimostrato Giuseppe Severini, costituisce un’“eccezione culturale” anche rispetto alle norme, in altri settori ben più cogenti, dell’Unione Europea. Peccato che in nessun Paese aderente all’Onu o al Consiglio d’Europa si stiano mettendo sul banco degli imputati i direttori di museo, ritenendoli (come vuole la circolare ministeriale) «particolarmente esposti alla corruzione».
Negli ultimi mesi, nuovi direttori sono stati nominati in importanti musei: al Louvre Jean-Luc Martinez (dopo dodici anni di brillante direzione di Henri Loyrette), al Getty Museum Timothy Potts, per fare solo due esempi. In nessuno di questi e altri casi è venuto in mente a qualcuno di contingentare la durata della direzione invocando pretese “sollecitazioni Onu”.
La sorda matrice burocratica che informa il tortuoso linguaggio della circolare è dunque made in Italy:ma è il prodotto dell’Italia di oggi con le sue marcate tendenze al suicidio, e non di quell’Italia dove fu creata l’istituzione-museo, non di quella dove nacque l’idea stessa di norme e strutture pubbliche della tutela, che dagli antichi Stati italiani si irradia fino ad oggi in tutto il pianeta. A monte dei pretestuosi giri di parole con cui la circolare schiaffeggia l’intero staff del ministero si legge la stolta concezione che assimila funzionari di soprintendenza e direttori di museo a passivi ingranaggi di una qualsiasi burocrazia, prefettura o anagrafe o catasto.
Si è dunque perso per strada, in questo smemorato Paese, l’alto progetto con cui l’Italia liberale da cui tanto ci resta da imparare inventò le soprintendenze territoriali e le articolazioni museali: strutture concepite come istituti di ricerca sul territorio, di conoscenza del patrimonio e dei paesaggi, di protezione della memoria storica, di custodia dell’anima stessa del Paese. Eppure fu questa concezione, nobile e funzionale insieme, a ispirare l’altissimo statuto della tutela scolpito nell’art. 9 della Costituzione. Perciò le soprintendenze furono espressamente ricordate, nella discussione in Costituente, da Concetto Marchesi, uno dei due proponenti dell’art.9 (l’altro fu Aldo Moro). Perciò la Corte costituzionale ha riconosciuto il ruolo delle soprintendenze e di «particolari misure di tutela» per «salvaguardare beni cui sono connessi interessi primari per la vita culturale del Paese e conservare e garantire la fruizione da parte della collettività» (sentenza nr. 269/1995).
Si parla tanto oggi, spesso a vuoto, di gestione e di valorizzazione dei beni culturali: ma come si fa a valorizzare quel che non si conosce? Le funzioni conoscitive (cioè di ricerca) delle direzioni museali e delle soprintendenze sono essenziali non solo alla loro missione, ma alla democrazia e alla vita culturale del Paese. Il loro obiettivo è di accrescere le conoscenze sul patrimonio e sui paesaggi, di farli conoscere ai cittadini, di consegnarli alle generazioni future migliorandone lo stato di conservazione e il contesto di fruizione. Quel che accomuna i musei di tutto il mondo (quelli, beninteso, che meritano questo nome) è la centralità della ricerca, la specificità delle competenze, la continuità dei programmi. È su questa base che inthe profession, come si dice, si svolge una perpetua conversazione, alla pari, fra archeologi e storici dell’arte di ogni Paese.
È su questa base che si stendono progetti di mostre, si formulano programmi di cooperazione, si stabiliscono sinergie, si scoprono affinità, si coltivano differenze. Professionalità e potere decisionale sono sempre intimamente connessi, anche se l’Italia mortifica i direttori dei musei sottoponendoli a una schiacciante gerarchia che toglie loro quel che i colleghi americani, francesi o tedeschi hanno di norma: il potere di dire l’ultima parola. Se di una riforma c’è bisogno, è per dare più potere, più indipendenza e più responsabilità ai direttori di museo, e non per umiliarli considerandoli d’ufficio come esposti alla corruzione. Chi ha scritto la circolare non sa forse che tre anni non bastano per conoscere a fondo un territorio e tutelarlo adeguatamente? Non sa che i musei più seri (per esempio negli Usa) progettano mostre ed altri eventi con cinque o sei anni di anticipo?
Non sospetta che denunciare la supposta corruttibilità dei funzionari italiani vuol dire esporli al ridicolo e al disprezzo dei loro colleghi? O il vero scopo di chi ha concepito la perversa misura è di impedire la conoscenza dei territori e dei musei, di paralizzare la tutela, di rendere impossibile la ricerca, di vietare ogni rapporto alla pari con i musei stranieri?
Qualcuno parla di oscure manovre di corridoio, secondo cui il pessimo ex ministro Ornaghi avrebbe deciso di sparare nel mucchio per colpire pochi funzionari a lui sgraditi. Se a un provvedimento già di per sé negativo si dovesse aggiungere questo ulteriore ingrediente, il degrado di quel ministero ne risulterebbe ancor più evidente. Ma è arrivato ora il momento della verità: se queste pretese sollecitazioni Onu sono vere, saranno applicate immediatamente anche ad altre categorie, come i professori universitari, i direttori generali di tutti i ministeri, i magistrati? O il sospetto di corruzione è riservato ai funzionari di soprintendenza?
Il nuovo ministro Massimo Bray ha trovato al Collegio Romano un paesaggio di rovine, e in qualche altro caso ha già mostrato la volontà di rimediare. Fiduciosamente aspettiamo che salvi presto dalla gogna il personale che da lui dipende, e che anzi ne valorizzi e riconosca le capacità migliorando la job description e le prospettive di carriera, accrescendo gli stipendi, provvedendo alle nuove massicce assunzioni che sono necessarie. Un ministro giovane e colto come lui non può essere il becchino del suo ministero. Può e deve essere il difensore della Costituzione.
La Repubblica, 20 giugno 2013
Dirigere un museo come la Galleria Borghese o Palazzo Barberini a Roma, gli Uffizi a Firenze, un sito archeologico, Pompei o Ercolano, per esempio, un complesso monumentale, sarà una mansione a termine. Durerà tre anni. Poi bisognerà cambiare aria, per evitare che si formino “posizioni dominanti”. E che si sia a rischio di corruttela. E lo stesso vale per un funzionario di soprintendenza: niente vigilanza per più di trentasei mesi sul medesimo paesaggio, sulla vallata o sulla cresta di collina di cui lui conosce ogni albero. È scritto in una circolare appena emessa dal segretario generale del ministero per i Beni culturali, Antonia Pasqua Recchia. Il ministro Massimo Bray di questa vicenda, pur sollecitato, non vuol parlare. Fa però sapere di aver chiesto un appunto a Recchia per verificare se è possibile interpretare diversamente le direttive internazionali da cui la circolare ha origine.
Il documento sta girando per gli uffici, dove suscita forti malumori: per alcuni è un colpo durissimo, l’ennesimo, che si abbatte su un corpo sfibrato, quello di chi custodisce il nostro patrimonio culturale ed è chiamato a compiti delicatissimi, ma da anni viene mortificato a causa dei tagli di bilancio, con un personale ridotto ai minimi termini, invecchiato e pochissime possibilità di ricambio.
La circolare è stata scritta, spiega l’architetto Recchia, in ossequio alla legge approvata nel novembre del 2012 (la numero 190) che risponde a una sollecitazione dell’Onu e del Consiglio d’Europa e che impone un piano triennale di prevenzione della corruzione. Ogni amministrazione deve stilarne uno. Il ministero per i Beni culturali lo ha adottato il 3 aprile scorso, quando c’era ancora Lorenzo Ornaghi (Bray gli è subentrato il 28 aprile). Già nel piano di Ornaghi si legge che la tutela archeologica, storico-artistica, architettonica e paesaggistica, divisa per zone di competenza e affidata, zona per zona, a singoli funzionari risponde a esigenze di competenza, che si acquisiscono col tempo, ed è dunque necessaria, ma, al tempo stesso, favorisce «la costituzione di posizioni dominanti nell’esercizio della funzione autorizzativa e suscettibili di episodi corruttivi». E per queste figure, il vero nerbo della tutela in Italia, sempre di meno, sempre più anziane (la media d’età è oltre i 57anni), costrette a pagarsi la benzina per i sopralluoghi, si auspica l’introduzione della rotazione.
Ma la circolare compie un passo in più. Oltre ai funzionari di zona, indica i direttori dei musei, quelli delle aree archeologiche e dei siti monumentali. Anche loro sarebbero, si legge, «particolarmente esposti alla corruzione». E per questo si invitano le Direzioni generali e quelle regionali ad applicare una serie di misure. Fra le quali, appunto, «risulta necessario prevedere un termine triennale per la durata dell’incarico ». La rotazione non è obbligatoria, aggiunge Recchia, «ma se un soprintendente ritiene indispensabile mantenere al suo posto oltre i tre anni un direttore di museo, deve motivarlo adeguatamente e, nel caso di episodi di corruzione, ne risponde personalmente». Ma i tre anni partono da subito? Chi li ha compiuti in una sede è già a rischio di rotazione? «Per quanto mi riguarda, sì», replica Recchia.
Anna Coliva dirige la Galleria Borghese dal 2007 e su di lei potrebbe cadere la mannaia della rotazione. Come su molti suoi colleghi, Anna Lo Bianco, per esempio, che dirige da oltre tre anni la Galleria di Palazzo Barberini, dove ha gestito un difficile riallestimento, una volta recuperate le sale occupate per decenni dal Circolo Ufficiali. A Maria Paola Guidobaldi, che dal 2000 regge il sito archeologico di Ercolano, impegnata in un esperimento di collaborazione con il magnate americano David Packard, esempio di partnership pubblico-privato fra i più produttivi in Italia. Ma di casi se ne possono citare infiniti fra i funzionari, che hanno accumulato anni di competenze e di esperienze e che, per 1.300-1.400 euro al mese, sorvegliano come possono che non si compiano scempi al paesaggio o non si manomettano opere d’arte.
La rotazione, come principio in sé, viene auspicato: ciò che colpisce è la rotazione triennale per decreto. Un direttore di museo come Rita Paris (che guida dal 2004 il Museo nazionale romano di Palazzo Massimo a Roma, stipendio 1.700 euro al mese) segnala il rischio «che si interrompano progetti scientifici, che si perdano saperi. È necessario intensificare i controlli, ma che cosa c’entriamo noi con la corruzione? ». E cita diversi esempi: «Uno scavo archeologico comporta anni di indagini, come pure la realizzazione di un catalogo o il rinnovo di alcune sale. Mantenere i contatti con i colleghi di altri paesi è un impegno che dura nel tempo. E che dire della programmazione di una mostra. Sono stata di recente al Metropolitan di New York dove abbiamo portato la statua del Pugile a riposo: lì pianificano esposizioni già per il 2016».
Uno dei più interessanti progetti per il rinnovamento urbano legati all'Expo, che pur nella sostanziale estraneità al tema ambientale centrale può far molto per un futuro più sostenibile. Corriere della Sera Milano, 15 giugno 2013, postilla (f.b.)
Milano è l'unica metropoli europea che, pur essendo collocata in un'area strategica come la Pianura Padana e con una rete di vie d'acqua così importante, ha rinunciato a essere una città d'acqua con tutte le conseguenze strutturali e simboliche che ciò ha comportato.
I lavori di chiusura dei Navigli iniziarono nel 1929 a partire dalla Cerchia per concludersi negli anni 60 con l'interramento del canale Martesana lungo via Melchiorre Gioia. Le motivazioni furono molteplici.
L'igiene urbana — i Navigli venivano utilizzati come fognature a cielo aperto — e lo «slancio verso la modernità» — leggasi motorizzazione di massa — che vedeva nelle vie d'acqua un ostacolo alla circolazione in città. Tutte ragioni pratiche e superabili — come dimostra l'esperienza di tante città europee — che hanno, però, cancellato una traccia fondamentale e peculiare di Milano.
Un progetto di riapertura dei Navigli, dunque, ha il grande vantaggio di ristabilire una connessione — storica, urbanistica e identitaria — tra la metropoli di oggi e quella del passato. Tuttavia non può essere vissuto come un semplice restauro, ma deve rappresentare un «ritorno al futuro». Un modo per realizzare una nuova Milano a misura d'uomo e di bicicletta, in cui a fianco di quella delle auto possa affiancarsi, e via via sostituirsi, una mobilità dolce in una nuova città più «pulita» fatta di isole pedonali e piste ciclabili.
I Navigli sono uno strumento con cui Milano potrà acquisire una nuova immagine rafforzando la sua centralità nell'area metropolitana e padana e arricchendo le sue relazioni con tutti quei territori che vivono ancora le vie d'acqua come parte integrante del proprio paesaggio urbano o rurale. La loro riapertura testimonierebbe la saldatura tra storia e sviluppo e si concilierebbe bene l'idea di una «città verticale» — a misura di ascensore e di cui constatiamo i limiti — con quella orizzontale, a misura d'uomo.
Il nuovo «paesaggio milanese» sarebbe un forte elemento di attrattività turistica non solo per gli stranieri (oggi il 63 per cento dei 9 milioni di presenze annue), ma anche per gli italiani. Tutti interessati a una città che fa della contaminazione — tecnologia e tradizione — un elemento di distintività, costituendo un esperimento eccezionale per una via italiana alle smart cities. Per i milanesi, la città d'acqua rappresenterebbe un elemento innovativo di riconoscimento, di incontro, di «pausa» urbanistica.
Questo progetto è espressione dell'essenza stessa del turismo che non è un bene, ma un prodotto di sistema. Esiste e acquisisce valore solo quando si afferma una relazione virtuosa tra tutte le componenti di un territorio: da chi governa le risorse culturali e paesaggistiche, agli attori economici e alla cittadinanza. L'operazione navigli, infine, può essere vissuta come legata a Expo 2015. Non lo è nella realtà, essendo indipendente, ma riflette il clima culturale nel quale l'Expo 2015 dovrebbe svilupparsi. Se c'è un elemento, infatti, che mette assieme il concetto di nutrizione e di energia, questo è proprio l'acqua, che gode già di tutte le attenzioni delle scienze umane e, in particolare, dell'antropologia culturale. I due progetti sono contemporanei e pertanto, nell'immaginario e nelle eredità che l'Expo 2015 può lasciare, quello di una «città dei navigli» sarebbe un segno duraturo di grande attrattività per il turista che viene a Milano, come lo è il Duomo che oggi è visitato da oltre 3 milioni di persone ogni anno.
(Franco Iseppi è presidente del Touring Club Italiano)
Parola di non-conservazionista a oltranza: il ripristino del sistema d'acqua centrale di Milano (magari presupposto per qualcosa di più ampio a scala metropolitana) è davvero potenzialmente un'operazione post-moderna. Così come nel segno della modernità ottimista e progressista erano state, tutto sommato, le varie iniziative urbanistiche parallele alla tombatura dei Navigli nella prima metà del '900, quando fra city terziaria, sventramenti auto-oriented, architetture in tema, pareva che il tessuto urbano della tradizione fosse da consegnare legato mani e piedi alla pura nostalgia, al folklore di qualche appassionato. A ben vedere anche un paladino della storia dell'arte e del restauro come Gustavo Giovannoni, in alcuni passaggi poco noti e citati, definiva la sua cosiddetta “teoria del diradamento edilizio” come ripiego temporaneo strategico di fronte alla modernità, in attesa di tempi migliori a cui quasi fatalmente ci avrebbero condotto gli sviluppi tecnologici, ad esempio quelli legati alla telefonia o alle scienze dei nuovi materiali da costruzione. Oggi queste idee le conosciamo come sostenibilità, mobilità dolce, smart city e, purché gestite in una logica progressista di politiche urbane integrate, potranno davvero realizzare ciò che promettono: efficienza, bellezza, e magari anche un po' di giustizia, che con le altre due non sempre si accompagna. Ma questo è compito della politica e della società, non certo di qualche antica via d'acqua ripristinata fra tante speranze (f.b.)
Si tratta di una vecchia, ottima idea. Di più: si tratta di una necessità. Già nel 1979 il sindaco, comunista, e storico dell'arte Giulio Carlo Argan diceva: «O le automobili, o i monumenti», e il grande Antonio Cederna rilanciava, scrivendo sul «Corriere della sera», che era ormai tempo di rimediare allo scempio di Via dei Fori Imperiali, realizzata dal Fascismo per «far vedere il Colosseo da Piazza Venezia, allora scambiata per ombelico del mondo».
Come Italia Nostra, Legambiente e molte altre associazioni ricordano, oggi quelle ragioni si sono moltiplicate: anche solo i lavori della Metro C, per esempio, impongono di diminuire lo stress subìto dai monumenti, e di ridare visibilità a questi ultimi, allentando la morsa del traffico e aumentando lo spazio per i visitatori.
Tutto bene dunque? Sì, purché l'annuncio clamoroso di Marino sia la parte emersa e mediatica di un progetto di città, e non un gesto fine a se stesso e isolato. Induce a qualche timore l'entusiastica citazione del modello Firenze da parte del neosindaco di Roma. Se chiedete a un fiorentino cosa ha fatto, di concreto, l'amministrazione di Matteo Renzi, questi risponderà – ormai con più di un filo di ironia – che ha pedonalizzato Piazza del Duomo: che è in effetti l'unico vero cambiamento che si può accreditare all'ex rottamatore. Ma a guardar bene non è per nulla un successo: si tratta dell'ennesimo passo verso la musealizzazione e la turisticizzazione di Firenze. Un altro passo verso il disastro di Venezia, insomma. La pedonalizzazione, infatti, è stata fatta dall'oggi al domani, ed è stata concepita non come una misura urbanistica, ma solo come un provvedimento stradale. E il risultato è che la piazza appartiene ancor meno ai cittadini (che non riescono a raggiungerla con mezzi pubblici), e che le attività commerciali sono sempre più da luna park. Così, oggi Piazza del Duomo non è più una piazza, se per piazza si intende uno spazio pubblico animato dalla vita civile.
Ecco, la speranza è che Marino non segua il modello Renzi, ma ne costruisca uno suo: all'altezza del suo ambizioso, e bel programma di governo. Cominciando dalla squadra di governo: laddove Renzi si è circondato di mezze figure che non rischiassero di fargli ombra, si spera che Marino scelga invece delle vere competenze. Potrebbe, per esempio, avere un ruolo importante l'archeologa Rita Paris, appena eletta con Marino in Consiglio Comunale, che ha combattuto con efficacia l'abusivismo sull'Appia, e dirige il Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo. È molto significativo che la Paris abbia sposato con entusiasmo l'idea di prolungare fino almeno al Colosseo la linea 8 del tram: solo con un servizio pubblico (possibilmente ecocompatibile come il tram) i Fori potranno tornare ad essere parte della città.
Perché è questo il punto vero. Occorre un progetto didattico che restituisca una leggibilità archeologica e storica ai Fori per chi li vede per la prima (e magari unica) volta nella vita, e occorre certo ripulirli dalla umiliante presenza terzomondista dei camion-bar e dei penosi personaggi in costume da gladiatore o centurione. Ma occorre soprattutto reintegrare i Fori nella città, rigettando radicalmente la visione fascista o cinematografica che ce li ha consegnati come retorico sfondo di parate, eventi o spettacoli vari.
È dunque vitale che chiudere i Fori voglia dire, in realtà, aprirli. Aprirli alle gite domenicali dei romani in bicicletta, alle passeggiate delle famiglie, ad un tempo liberato che renda consapevoli i cittadini della storia straordinaria della loro città. E soprattutto che aumenti la qualità della loro vita. L'errore cruciale della cosiddetta 'valorizzazione' dei centri storici delle città d'arte italiane è quello che li vuole infiocchettare e trasformare in tante San Gimignano o Alberobello. Il destinatario elettivo di queste operazione di make up è sempre e solo il turista, nuovo signore delle nostre città. Ai cittadini, invece, tocca vivere in periferie inguardabili a cui nessuno ha il coraggio di por mano. Per non ripetere questo errore Marino deve avere molto coraggio, e deve riprendere in seria considerazione l'idea che l'Italia Nostra di Cederna avanzò negli anni settanta: quella di realizzare una 'spina verde' che trasformi «in vero 'parco archeologico' tutta la zona monumentale che va dall'Appia Antica e attraverso la Via di San Gregorio (già dei Trionfi), Colosseo, Foro Romano e Fori Imperiali arriva praticamente alle soglie di Piazza Venezia». È una scommessa, scriveva Cederna, non sulla salvezza dei Fori, ma sul «riscatto del centro storico di Roma».
Se il chirurgo genovese facesse suo questo progetto, e fosse capace di realizzarlo, lascerebbe davvero il suo nome negli annali della storia romana: altro che Gianni Alemanno, o Matteo Renzi.
Emerge chiarissimo il cumulo di miserie dietro ai "sogni" di Umberto Veronesi per la sua mega-cittadella sanitaria privata. Si spera, con poca convinzione, che il professore finalmente prenda le distanze. Articoli di Simona Ravizza, Andrea Senesi, Alessandra Corica, Alessia Gallione, Corriere della Sera e la Repubblica ed. Milano, 13 giugno 2013 (f.b.)
Corriere della Sera
«Sconto dal Comune o Cerba a rischio»
di Simona Ravizza, Andrea Senesi
A quindici giorni dalla scadenza della convenzione è tutto o quasi da rifare. Del Cerba — la cittadella ospedaliera che deve nascere in fondo a via Ripamonti a due passi dallo Ieo (Istituto europeo di oncologia) — rischiano di rimanere solo i rendering ingialliti dal tempo.
La riunione della commissione Sanità della Regione di ieri è servita a fotografare la distanza che separa gli attori in scena. Da una parte gli avvocati rappresentanti per la curatela fallimentare della Im.Co di Ligresti, che deteneva i terreni del Parco Sud; dall'altra le istituzioni, la Regione e soprattutto il Comune.
Tutto da rifare. L'accordo di programma firmato nel 2009 non è più economicamente sostenibile, dicono i curatori fallimentari. A cominciare da quei 92 milioni di oneri d'urbanizzazione che andrebbero pagati al Comune. «Troppi per trovare un soggetto che si faccia carico di proseguire il progetto», dice l'avvocato Umberto Grella. La cifra andrebbe ridotta più o meno a un terzo. «Sono accordi basati su valutazioni economiche e finanziarie risalenti al 2003, durante il boom del mercato immobiliare e ora non più sostenibili né per un soggetto pubblico né per un soggetto privato», aggiunge il consulente legale per il fallimento della Im.Co.
Secondo Grella gli oneri di urbanizzazione andrebbero quindi rinegoziati e poi dilazionati. Da rivedere anche la questione della manutenzione del parco che secondo l'accordo sarebbe a carico del nuovo proprietario delle aree per 30 anni, la possibilità di realizzare housing sociale (il Comune vorrebbe che le case fossero assegnate solo a medici e infermieri) e la necessità di impiantare in via Ripamonti negozi e supermercati (Palazzo Marino è contrario a nuovi centri commerciali). «Se il Comune ha davvero a cuore il futuro del Cerba dovrebbe sedersi a un tavolo e rinegoziare».
Secca la replica dell'assessore all'Urbanistica Ada Lucia De Cesaris: «Qui non si tratta di fare generici richiami alla collaborazione o alla ragionevolezza, ma di intraprendere azioni per tutelare il concreto interesse pubblico». Secondo il Comune la strada è una e una sola: «I patti vanno rispettati e non è accettabile modificare un progetto scientifico, snaturandolo, con la previsione di housing sociale e, addirittura, di una media struttura di vendita, ossia un centro commerciale». Pessimista anche il consigliere pd Carlo Borghetti: «Al momento non mi sembra che ci siano le condizioni per una modifica del piano integrato che possa vedere d'accordo la curatela fallimentare e il Comune di Milano».
La vicenda dovrebbe avere un epilogo entro il 28 giugno, data di scadenza dell'accordo di programma. Altrimenti? L'ipotesi più immediata è quella del ricorso al Tar da parte dei curatori fallimentari. Ma sul medio periodo è già pronto un piano B. «Potremmo vendere alla Regione le aree per realizzare lì la Città della salute».
la Repubblica
Scontro sul futuro del Cerba
di Alessandra Corica
È SCONTRO tra Comune e banche sul futuro del Cerba. I curatori fallimentari di Ligresti hanno chiesto a Palazzo Marino di ridurre gli oneri sui terreni da 92 a 30 milioni di euro, per far partire la costruzione del polo di ricerca accanto allo Ieo. Netto il no dell’assessore De Cesaris: «Non si tratta di fare richiami alla collaborazione o alla ragionevolezza, ma di rispettare i patti e tutelare l’interesse pubblico». Se entro il 28 giugno banche e Comune non troveranno un accordo, il progetto rischia di naufragare.
Un braccio di ferro. Con una stretta di mano finale molto difficile. Sempre più vicina la rottura tra Palazzo Marino e banche sulla partita del Cerba. Ieri i curatori fallimentari (che rappresentano i creditori di Ligresti, tra cui ci sono i maggiori istituti bancari del Paese) lo hanno detto senza giri di parole: o gli oneri sui terreni si riducono a un terzo, e passano da 92 milioni di euro a 30, oppure l’accordo non si fa. «La cifra andrebbe ridotta — spiega Umberto Grella, consulente legale della curatela — perché si basa su valutazioni fatte nel 2003, prima della crisi. Oggi stipulare una fideiussione del genere, da pagare in un’unica tranche, è impossibile. Se il Comune ha a cuore il progetto dovrebbe negoziare».
La partita del Cerba è legata a quella del crac di ImCo e Sinergia, le due immobiliari di Ligresti, fallite l’anno scorso con un buco di 460 milioni di euro, di cui 330 di debiti con le banche, compresa un’ipoteca di 120 milioni sui terreni del Cerba. Che allo stato agricolo valgono 3 milioni di euro: l’edificazione farebbe schizzare la cifra oltre i 200 milioni. Un affare conveniente per gli istituti bancari, che non solo sono tra i creditori di Ligresti, ma sono anche soci della Fondazione Cerba, che patrocina il progetto del polo di ricerca. La cui realizzazione è stata messa in forse dal crac: per cercare di salvare l’operazione, i curatori hanno chiesto al Comune alcune modifiche al progetto iniziale, per avviare comunque la costruzione del polo, che con isuoi 1,3 miliardi di euro di valore rappresenta il cuore del patrimonio di ImCo e Sinergia. Oltre alla riduzione degli oneri, la curatela ha proposto di mantenere allo stato agricolo la zona verde e di realizzare 40mila metri quadri di housing sociale (400 alloggi, che permetterebbero l’entrata nella partita di Cassa depositi e prestiti) e un centro commerciale. Proposte, però, ritenute irricevibili dal Comune, anche per il no dei curatori a trattare su un altro immobile di Ligresti, la cascina Campazzo, di cui Palazzo Marino vorrebbe la cessione.
Per discutere ancora della situazione, il 18 giugno si riunirà la Segreteria tecnica. Tra i nodi, anche la mancanza (a un anno dal crac) del concordato fallimentare, e di un soggetto che stipuli con il Comune gli atti per portare avanti il Cerba. «Ma il concordato — dicono i curatori — sarà presentato entro luglio, da una società che ha già scritto a Comune, Regione e Provincia». Ovvero, Visconti srl, società nata a marzo e capitalizzata proprio dalle banche creditrici di Ligresti. Sul fronte politico, la Provincia (tra i firmatari dell’Accordo di programma) sottolinea «l’importanza per Milano della ricerca. Abbiamo sempre sostenuto il progetto — ricorda il presidente Guido Podestà — Per questo avevamo proposto di realizzare la Città della salute su quei terreni». Per il Pd l’obiettivo non deve essere «risolvere i problemi urbanistici, ma potenziare ricerca e cura. Questi problemi — dicono i consiglieri Carlo Borghetti e Sara Valmaggi — non vanno quindi sottovalutati, ma non devono far perdere di vista il nodo centrale della questione».
L’eredità scomoda del crac Ligresti
di Alessia Gallione
L’impero è crollato sotto una valanga di debiti. Ma l’eredità di Salvatore Ligresti e di quel monòpoli fatto di terreni nel Parco Sud, cascine, cantieri aperti e palazzi realizzati da anni ma ancora problematici, è un’eredità pesante. Macerie lasciate in città dall’ex re del mattone. E molti fronti ancora aperti su cui si continua a combattere. Perché — dai fascicoli che si trascinano da anni a quelli appena inaugurati — per questioni legate alle vecchie proprietà della vecchia galassia legata all’ingegnere di Paternò ci sono una ventina di contenziosi urbanistici con il Comune. E Palazzo Marino, soltanto per oneri di urbanizzazione mai versati o obblighi dimenticati, pretende 10 milioni di euro.
Passano gli anni, ma l’obbiettivo sembra rimanere quello: il Parco Sud. È lì, su quella distesa di verde tutelata ai confini della città, che Ligresti ha sempre sognato di costruire. Aree potenzialmente d’oro, che il Pgt ha blindato. Ed è proprio per conquistare quel tesoro (che non si può spendere) che i curatori fallimentari della Imco hanno impugnato davanti al Tar il Piano per chiederne l’annullamento. Epoche diverse,interessi diversi, visto che in questo caso c’è un buco da 460 milioni da colmare. Ma lo stesso traguardo: passare all’incasso. E questa è soltanto una delle cause ancora aperte legate all’impero dell’ex re del mattone. In tutto, tra oneri mai versati, richieste di danni, piani decaduti, abusi edilizi, sono ancora una ventina i contenziosi sopravvissuti alle macerie. Con Palazzo Marino che, complessiva-mente, aspetta di ricevere almeno 10 milioni di euro.
È una mappa che comprende un po’ tutta Milano, quella disegnata dalle proprietà che Ligresti ha accumulato nei decenni. Un’eredità un tempo suddivisa in due tronconi: il ramo assicurativo con Fondiaria Sai e quello strettamente immobiliare con la cassaforte Sinergia che racchiudeva Imco e decine di altre società. Proprietà e problemi che, oggi, sono suddivisi tra la Unipol e i curatori fallimentari. Partiamo dai beni in mano a questi ultimi che, per recuperare quei 460 milioni, hanno continuato o apertoex novo diversi contenziosi. Perché i guai sopravvissuti al crac non riguardano solo i terreni del Cerba. A due passi dalla futura cittadella della scienza e dal Parco Sud ci sono le aree di Macconago. È per sbloccare quel vecchio piano edilizio (insieme ad altri due progetti) che Ligresti, nel 2009, dichiarò guerra a Palazzo Marino quando governava Letizia Moratti. Tutto rientrò in extremis e la possibilità di far venir su le case di via Macconago sembrò concretizzarsi: l’aula dette il via libera. Eppure, già sull’orlo del baratro, Ligresti non firmò mai la convenzione per il piano che — dopo una diffida delComune — è decaduto nel 2012. Per resuscitare quel quartiere da 60mila metri quadrati, i curatori hanno fatto ricorso.
Nell’elenco c’è di tutto: dalla cascina Campazzo ai presunti abusi edilizi per un centro sportivo. La causa più vecchia va avanti dal 2001. Per un progetto datato 1993 in zona stazione Centrale, piazza Scala pretende 2 milioni di oneri di urbanizzazione. Altri 2 milioni, invece, sono i danni che Palazzo Marino pretende per una vicenda preistorica: vicino a delle case Ligresti si era impegnato a cedere alla città un’area che, poi, vendette a un altro privato. Il carico da novanta, però, èarrivato con il ricorso dei curatori contro il Pgt che svaluterebbe troppe proprietà: dal Forlanini al Parco Sud, è vietato cementificare. Tra i cantieri c’è una torre che sta venendo su vicino a Porta Nuova. Per passare alla parte oggi in mano a Unipol, si arriva a uno dei simboli della città abbandonata: la Torre Galfa.
In questo caso l’atteggiamento verso l’amministrazione sembra essere più conciliante, visto che i proprietari avrebbero chiesto un incontro con Palazzo Marino per sanare vecchi guai. Questa parte dell’eredità è altrettanto strategica perché, tra l’altro, comprende molte delle cosiddette aree d’oro del Parco del Ticinello. Un ramoscello d’ulivo è rappresentato anche dalle case di via dei Missaglia: per anni gli inquilini sono stati in guerra con l’ingegnere perché le sue società non avrebbero adempiuto ai patti sull’equo canone e l’edilizia convenzionata. Oggi si cerca di aprire un tavolo, con il Comune come mediatore.
«E' dalle trincee comunali che può iniziare la ricostruzione di una forma di partecipazione, la voglia di cambiare le cose». Il manifesto, 9 giugno 2013
«Il popolo della sinistra chiede dappertutto una politica che le viene negata. E perciò diserta o rinnega i simboli che dovrebbero rappresentarla quando questi non corrispondono alla politica attesa». Questa la ragione ragioni del successo di Ignazio Marino nelle elezioni comunali a Roma, e per questo occorre votare per lui al ballottaggio . Il manifesto, 4 giugno 2013
Nuovo capitolo nella saga metropolitana di riorganizzazione dei poli ospedalieri dentro la cosiddetta Cittadella della Salute, i cui volumi e localizzazione paiono molto più importanti di organizzazione funzioni e contenuti. Articoli e interviste di Alessandra Corica e Rodolfo Sala, la Repubblica Milano, 31 maggio 2013 (f.b.)
Città della salute, Mantovani frena “Ritardi a Sesto, si può fare altrove”
di Alessandra Corica
Una frenata brusca. Per certi versi, inaspettata. E che adesso apre un grosso punto interrogativo sul futuro. Si riaccende la polemica sulla Città della salute: ieri l’assessore regionale alla Salute Mario Mantovani, in visita al Neurologico Besta, ha fatto vacillare le certezze sulla costruzione dell’ospedale nelle ex aree Falck. «C’è una convenzione con il Comune di Sesto San Giovanni ed è già partita la presentazione dei progetti — ha detto il vicepresidente della Regione — Non nascondo, però, che i problemi sono molti. E che non sappiamo se le bonifiche dureranno mesi, anni o secoli». Nulla di sicuro, quindi. Tranne che per l’istituto Carlo Besta, come ha sottolineato il suo presidente Alberto Guglielmo, «è fondamentale avere risposte in tempi brevi: la programmazione non è nostro compito, la Regione ci dica dove andare ». Ora il derby tra Milano e Sesto San Giovanni per accaparrarsi il sito del nuovo ospedale potrebbe ricominciare. «Per adesso c’è la certezza — ha detto Mantovani — di trasferire il Besta, ristrutturarlo e migliorarlo. Se però dovessimo riscontare che in quella sede (le aree Falck, ndr) ci sono troppi problemi, decideremo cosa fare. Siamo a Milano, di posti ce ne sono tanti».
Quella della Città della salute è una questione aperta da anni: la prima volta in cui se ne parlò era il 2000. Da allora le ipotesi su dove — e come — costruire la cittadella si sono moltiplicate, da quella di realizzarla a Vialba (unendo il Besta, l’Istituto dei tumori e il Sacco), fino alla querelle tra Milano (che offriva l’area dell’ex caserma Perrucchetti) e Sesto San Giovanni. I due Comuni si sono contesi la localizzazione della cittadella fino a giugno 2012, quando la Regione ha scelto (sembrava in via definitiva) le ex aree Falck. «Una decisione — ha commentato però Mantovani — presa dalla passata amministrazione. Noi non sappiamo quanto questo, sul piano ambientale, sia possibile: stiamo valutando». La situazione, a onor del vero, è complicata: il sito (200mila metri quadri sugli 1,3 milioni che compongono l’intera area) dovrebbe essere concesso dal Comune di Sesto, che a sua volta dovrebbe riceverlo dalla proprietà privata. Ovvero Sesto Immobiliare spa, cordata guidata da Davide Bizzi che lo ha comprate nel 2010 da Risanamento spa: proprio ieri però l’azienda ha annunciato di aver chiesto l’annullamento dell’acquisto e la restituzione dei 345 milioni sborsati, «considerando le gravi omissioni e reticenze delle controparti nella trattativa».
Anche la bonifica del sito dovrebbe essere a carico del gruppo Bizzi. Un fatto, questo, che un anno fa contribuì a far pendere l’ago della bilancia su Sesto: in questo modo le operazioni prima di costruire non sarebbero state un problema del Pirellone. Ora, però, anche su questo si aprono interrogativi: il ministero dell’Ambiente ha fatto numerosi rilievi al progetto Bizzi. Che, per questo, ha deciso di appellarsi al Consiglio di Stato con un ricorso che non verte sulla bonifica per l’ospedale, ma sul resto dell’area. Risultato, i primi rallentamenti. Perché, anche se ancora non è stato posto un mattone, rispetto al programma il ritardo è già di tre mesi. Unica certezza, i fondi necessari. Molti. Perché con i suoi 450 milioni di euro (di cui 330 regionali) la Città della salute è stata la partita più importante dei 17 anni del governo Formigoni. Che, non a caso, nel 2011 prese in mano la questione sciogliendo il consorzio di Besta, Int e Sacco incaricato di sviluppare il progetto. E lo affidò alla vicina - e controllata - Infrastrutture Lombarde.
“Progetto ormai stravolto con tutti quei finanziamenti ristrutturiamo quel che c’è”
intervista a un top manager della sanità
«PORTARE avanti questo progetto, adesso e a queste condizioni, è assurdo». È netto Alberto Scanni, ex direttore generale dell’ospedale Sacco e dell’Istituto dei tumori, sull’ennesima querelle nata intorno alla Città della salute. «La cittadella aveva un senso per unire il Besta, l’Int di via Venezian e l’ospedale Sacco. Quando però questa ipotesi è tramontata, l’intera operazione non ha avuto più ragion d’essere. Piuttosto, meglio utilizzare i fondi per ristrutturare gli attuali istituti».
Scanni, lei faceva parte del Consorzio Città della salute, che sotto la guida di Luigi Roth riuniva Besta, Int e Sacco e aveva avviato uno studio di fattibilità per realizzare l’ospedale.
«Non solo uno studio di fattibilità: il progetto era quasi pronto. Avevamo anche trovato un modo
per risolvere il problema di viabilità che rende complesso raggiungere il quartiere Vialba: allo studio, in collaborazione con il Comune di Milano, c’era l’ipotesi di realizzare un metrò a cielo
aperto che partisse dalla Fiera, si ricongiungesse con la linea gialla e migliorasse i collegamenti tra la zona e il resto della città».
Cosa è successo?
Perché?
Però sia il neurologico di via Celoria sia l’Int hanno denunciato più volte le carenze delle loro sedi.
Come?
E con via Celoria come la mettiamo?
In questo modo, però, tramonterebbe per sempre il sogno dell’“ospedale modello”.
Il Comune: “Riapriamo il tavolo”
Sembrano dunque riaprirsi i giochi sulla storia infinita della Città della salute. Un progetto sulla cui bontà le istituzioni locali si sono sempre dette d’accordo. La materia del contendere riguarda la localizzazione. Con la Regione targata Formigoni ostinatamente ancorata all’idea di realizzare sotto il cielo di Sesto San Giovanni l’unificazione dell’Istituto dei tumori con il Besta, finalmente accorpati in un polo sanitario d’eccellenza domiciliato in un’area industriale dismessa, l’ex Falck. Idea caparbia, quella del Celeste; e ovviamente condivisa dagli amministratori “rossi” della ex città delle fabbriche, ansiosi di dare finalmente una destinazione a quegli spazi vuoti. Formigoni ha fatto di tutto per lasciare immaginare che dietro la sua proposta ai partner si nascondesse in realtà una decisione già presa. Nonostante gli altolà che fin dall’inizio la giunta di Milano, con il sindaco in prima fila, aveva opposto, invitando la Regione a non ridurre il problema della localizzazione della Città della salute a «un’asfittica questione tecnica urbanistica », come ebbe a scrivere Giuliano Pisapia all’allora governatore nel maggio dello scorso anno, quando ormai la rottura tra Regione e Comune si era consumata.
Ma bisogna partire dall’aprile del 2009 per ricostruire una vicenda che, ridotta all’osso, racconta il tentativo di mettere insieme sanità lombarda, banche e interessi immobiliari. Dunque, quattro anni fa si costituisce, sotto la guida del formigoniano Luigi Roth, un consorzio tra Istituto dei tumori, Besta e Sacco (poi escluso dai finanziamenti), con il compito di avviare uno studio di fattibilità in vista della realizzazione di un unico polo sanitario nella zona di Vialba. Salta tutto nel 2011: ci sono problemi logistici e, soprattutto, a Vialba c’è un corso d’acqua di cui nessuno sembrava sapere nulla, e che impedirebbe al progetto di andare avanti.
Ecco allora che si fa avanti Giorgio Oldrini, all’epoca sindaco di Sesto: il posto giusto per la
Città della salute è l’ex Falck, area di proprietà di un’immobiliare che nel 2010 l’aveva rilevata dal costruttore Luigi Zunino. L’immobiliare fa capo a Davide Bizzi, che vuole ovviamente investire nel mattone (il piano di intervento contempla un milione di metri quadri tra residenze, alberghi, uffici, servizi e un megacentro commerciale, con un valore di mercato stimato attorno ai 4 miliardi). E la Città della salute, in tempi di crisi del mercato immobiliare, potrebbe costituire il quid che manca per risolvere il problema dell’invenduto. I soliti maligni puntano subito il dito contro gli interessi convergenti di costruttori vicini a Comunione e Liberazione e delle Coop rosse di Bologna, che
sono in cordata con Bizzi. Formigoni e gli amministratori sestesi non hanno dubbi: la Città della salute si farà lì, i 450 milioni che servono verranno coperti dalla Regione (330) e dallo Stato (40); gli altri 80 arriveranno dai privati.
Ma a Milano storcono il naso. E avanzano la candidatura dell’ex caserma Perrucchetti come sede del nuovo polo sanitario. C’è un problema: il ministero della Difesa non vuole cedere quello spazio, e Formigoni acchiappa l’occasione al volo. Fa la voce grossa, e nella primavera del 2012 lancia un ultimatum a Pisapia: un pugno di settimane per dire sì o no al progetto da realizzare a Sesto, e chissenefrega se Pisapia chiede tempo, «mantenendo al tavolo sia il Comune di Sesto sia quello di Milano ». Il Celeste non ne vuole sapere e il 30 maggio del 2012 (a due settimane dalla scadenza dell’ultimatum di Formigoni), Palazzo Marino si sfila, abbandonando il progetto. Ieri l’uscita di Mantovani. Che potrebbe rimettere tutto in discussione.
Dal 1 gennaio 2014 dieci grandi città italiane (Roma, Torino, Milano, Bologna, Venezia, Genova, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria) ai sensi della legge 135 del 2012 diventeranno “città metropolitana” con contestuale abolizione delle rispettive Province
Dopo la prima e timida comparsa della dicitura città metropolitana nell’ordinamento giuridico italiano (con la Legge 142 del 1990 sul riordino delle autonomie locali), ora sembra essere giunto finalmente il tempo del grande passo. I processi di internazionalizzazione economica in atto, infatti, pongono nuove e pressanti domande anche nei confronti delle politiche pubbliche, soprattutto in termini di dotazione infrastrutturale, di sostegno allo sviluppo locale, di strategie di marketing territoriale, di politiche per la riconversione della base produttiva, di miglioramento della qualità ambientale, di attenzione alle nuove emergenze sociali e di accesso ai fondi e ai finanziamenti comunitari. Senza soffermarsi ulteriormente sul ritardo con il quale il nostro Paese si è deciso ad affrontare questi temi rispetto allo scenario europeo né sull’estrema necessità di un livello di governo che sappia elaborare politiche di scala territoriale e quindi rispondere in modo efficace alle nuove sfide dell’economia globale, si ritiene utile entrare nel merito del percorso intrapreso dall’area milanese per l’istituzione dell’organismo metropolitano.
La regione urbana milanese è certamente una delle realtà territoriali italiane più complesse, nella quale la vivacità storica del proprio tessuto produttivo l’ha resa uno dei più importanti motori di sviluppo dell’economia italiana, in cui si concentrano funzioni e attività che sono alla base di processi economici di dimensione europea. Nonostante alcune ricerche abbiano attestato, a partire dalla metà degli anni Novanta, una progressiva perdita di competitività del territorio milanese rispetto ad altre aree europee dove, grazie ad accorte politiche di livello locale e metropolitano, si è saputo attrarre imprese multinazionali e aumentare il livello di competitività internazionale, Milano rimane un sistema territoriale fondamentale per il nostro Paese.
Numerosi studi (*) dimostrano come la perdita di appeal dell’area milanese sia da imputare non solo alle difficoltà, che comunque esistono, del tessuto economico, ma anche alla debolezza delle politiche pubbliche e in particolare di quelle legate alla pianificazione e all’ambiente, che ne comprometterebbero, nel medio e lungo periodo, la competitività complessiva. La mancanza di sinergia tra attori istituzionali ed economici, un sistema della mobilità (soprattutto quello relativo al trasporto pubblico) poco efficiente e bassa qualità urbana rappresentano le principali debolezze del sistema.
Investimenti volti a migliorare la connettività e la vivibilità, politiche per la riduzione dell’inquinamento e della congestione, strumenti volti a minimizzare tendenze di diffusione insediativa che compromettono le qualità ambientali, incentivi per i settori della ricerca e dell’innovazione necessitano di una regia istituzionale capace di elaborare uno scenario di sviluppo che sappia coniugare la dotazione territoriale con le dinamiche economiche e sociali. Per attuare tutto questo la città metropolitana appare, anche a Milano, il livello di governo più adatto.
In questo quadro locale però i principali nodi da sciogliere sembrano riguardare, ancora una volta, questioni di natura squisitamente amministrativa e politica. La legge di stabilità approvata nello scorso dicembre ha, di fatto, sospeso il ruolo della Conferenza Metropolitana, organo che avrebbe dovuto riunire tutti i sindaci dell’attuale territorio provinciale e deliberare lo Statuto provvisorio del nuovo ente entro il 31 ottobre 2013.
Dal prossimo 1° gennaio 2014 la Provincia di Milano verrà di fatto soppressa e il Sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, diventerà il Sindaco metropolitano fino all'adozione dello Statuto, lasciando senza però norme precise sull’attribuzione di competenze e sul funzionamento del nuovo ente. In un contesto come quello italiano, dove la sovrapposizione delle competenze tra diversi enti rappresenta una delle prime cause di inefficienza della pubblica amministrazione, ciò appare come un forte ostacolo a un serio processo di riforma della governance locale.
La città metropolitana rischia così di diventare solo un ulteriore livello amministrativo, dalle competenze piuttosto vaghe, che sostituirebbe l’attuale struttura provinciale.
A ciò si aggiunge l’atteggiamento ambiguo del Comune di Milano che, se da una parte ha affidato alle principali università milanesi studi e ricerche sui diversi settori, dall’altra sembra essere scarsamente in grado di esercitare un ruolo da leader nei confronti dell’hinterland, limitandosi a gestire l’intero processo in un’ottica fortemente milanocentrica, poco rispettosa delle risorse e delle potenzialità che l’area metropolitana, nel suo complesso, può offrire. Questi problemi rischiano non solo di compromettere l’intero processo di riforma istituzionale ma anche di far apparire la “questione metropolitana” come un tema distante dai cittadini e dalla loro vita quotidiana.
Eppure per l’esercizio delle funzioni attribuite obbligatoriamente al nuovo ente, tra cui la pianificazione territoriale e la mobilità, è necessaria una forte azione di coordinamento tra le amministrazioni e di coinvolgimento della cittadinanza.
E’ necessario che Milano superi le logiche localistiche ed accentratrici portate avanti finora (anche nel proprio Piano di Governo del Territorio è assente qualunque riferimento alla dimensione metropolitana) e si decida ad assumere un ruolo di coordinamento nei confronti delle amministrazioni dell’hinterland. Si tratta di elaborare una serie di politiche di natura integrata in grado di:
- indirizzare uno sviluppo del sistema insediativo che punti sulla riqualificazione delle aree dismesse, soprattutto di quelle localizzate a ridosso delle principali infrastrutture esistenti, per limitare il consumo di nuovo suolo, così da scongiurare nuovi interventi di urbanizzazione (residenziali, commerciali o terziari) che rompono la continuità del sistema degli spazi agricoli ed ambientali residui così come nuovi insediamenti a ridosso delle principali reti stradali (esistenti e in progetto) che rischiano di generare un’urbanizzazione continua e ampliamenti dei nuclei esistenti che, realizzati secondo una logica dell’addizione, non tengono conto del rispetto del limite dell’urbanizzato;
- estendere e rafforzare tutto il sistema di mobilità. L’intermodalità diventa determinante per garantire l’interscambio tra tutte le linee trasportistiche: più i diversi sistemi di trasporto saranno interconnessi, più facile e veloce sarà muoversi sul territorio. In quest’ottica il potenziamento e la riqualificazione dei nodi del trasporto pubblico dovrà essere prioritario. Le diverse modalità di trasporto esistenti (ferroviarie, automobilistiche, ciclabili e pedonali) se rafforzate e messe in rete consentiranno alle persone e alle merci di muoversi in modo più efficiente sia alla scala locale che a quella sovra locale;
- valorizzare il sistema ambientale esistente. La capacità di coniugare spazio costruito, densità, popolazione e infrastrutture con una buona dotazione di spazio aperto naturale consentirà di migliorare la qualità della vita e la vivibilità dell’intera regione urbana;
- ideare un sistema di incentivazione per sostenere il campo della ricerca e dell’innovazione, che rappresenta una potenzialità latente, non pienamente sfruttata della metropoli milanese, e che necessita di un indirizzo pubblico, capace, al contempo, di attrarre risorse economiche private e di promuove modelli virtuosi di partnership pubblico/privati, creando maggiori sinergie tra il mondo della formazione e ricerca e quello della produzione;
- promuovere un modello di sviluppo sostenibile, secondo le linee guida elaborate dagli organismi dell’Unione Europea (come la Carta di Lipsia del 2007), che dia priorità alla qualità dello spazio pubblico, all’efficienza energetica, all’innovazione, alla coesione sociale, al trasporto pubblico e al mercato del lavoro locale.
Solo in questo modo la futura città metropolitana potrà definire obiettivi di sviluppo coerenti e realistici per l’intera area urbana ed elaborare una visione di scala vasta condivisa, che sia all’altezza delle sfide internazionali alle quali Milano è chiamata a rispondere.
(*) In particolare si fa riferimento allo studio elaborato dall’OCSE, Territorial Reviews - Milan, OECD Publishing, Paris, 2006
Nota: su Eddyburg abbondano i contributi sul tema della sovracomunalità e dell'ente di governo, per individuare almeno un quadro generale basta digitare "Città Metropolitana" nella finestrella del motore di ricerca interno, in alto nella homepage (f.b.)
La Repubblica, 21 maggio 2013
La demeritocrazia incalza e, col favore delle “larghe intese”, occupa il Palazzo, e già il Pdl torna a intonare la litania dei condoni. Qualche curriculum: Giancarlo Galan ha presieduto la regione Veneto negli anni (1995-2010) che l’hanno issata in cima alle classifiche per la cementificazione del territorio, 11% a fronte di una media europea del 2,8 %; da ministro dei Beni culturali, ha chiamato come consigliere per le biblioteche Marino Massimo De Caro, che col suo consenso è diventato direttore della biblioteca dei Girolamini a Napoli, dove ha rubato migliaia di libri (è stato condannato a sette anni di galera per furto e peculato). Per tali benemerenze, Galan oggi presiede la Commissione Cultura della Camera. Maurizio Lupi ha presentato nel 2006 un disegno di legge che annienta ogni pianificazione territoriale in favore di una concezione meramente edificatoria dei suoli, senza rispetto né per la loro vocazione agricola né per la tutela dell’ambiente. Ergo, oggi è ministro alle Infrastrutture e responsabile delle “grandi opere” pubbliche. La commissione Agricoltura del Senato è naturalmente presieduta da Roberto Formigoni, ricco di virtù private e pubbliche, fra cui spicca la presidenza della Regione Lombardia negli anni (1995-2012), in cui è diventata la regione più cementificata d’Italia (14%) battendo persino il Veneto di Galan. Flavio Zanonato, in qualità di sindaco di Padova, ha propugnato la costruzione di un auditorium e due torri abitative a poca distanza dalla Cappella degli Scrovegni, mettendo a rischio i preziosissimi affreschi di Giotto: dunque è ministro per lo Sviluppo economico, che di Giotto, si sa, può fare a meno. Vincenzo De Luca come sindaco di Salerno ha voluto il cosiddetto Crescent o “Colosseo di Salerno”, 100 mila metri cubi di edilizia privata in area demaniale che cancellano la spiaggia e i platani secolari: come negargli il posto di viceministro alle Infrastrutture? Marco Flavio Cirillo, che a Basiglio (di cui è stato sindaco), presso Milano, ha pilotato operazioni immobiliari di obbedienza berlusconiana, disseminando nuova edilizia residenziale in un’area dove il 10% delle case sono vuote, ascende alla poltrona di sottosegretario dell’Ambiente. E quale era mai il dicastero adatto a Nunzia Di Girolamo, firmataria di proposte di legge contro la demolizione degli edifici abusivi in Campania, per l’incremento volumetrico mascherato da riqualificazione energetica e per la repressione delle “liti temerarie” delle associazioni ambientaliste? Ma il ministero dell’Agricoltura, è ovvio.
Che cosa dobbiamo aspettarci da un parterre de rois di tal fatta? Primo segnale, l’onorevole De Siano (Pdl) ha presentato un disegno di legge per riaprire i termini del famigerato condono edilizio “tombale” del 2003, estendendoli al 2013, con plauso del condonatore doc, Nitto Palma, neopresidente della commissione Giustizia del Senato, e con la scusa impudica di destinare gli introiti alle vittime del terremoto. Se il governo Letta manterrà la rotta del governo “tecnico” che gli ha aperto la strada col rodaggio delle “larghe intese”, si preannunciano intanto cento miliardi per le cosiddette “grandi opere”, meglio se inutili, con conseguente criminalizzazione degli oppositori per “lite temeraria” o per turbamento della pubblica quiete. Più o meno quel che è successo all’Aquila al “popolo delle carriole”, un gruppo di volontariato che reagiva all’inerzia dei governi sgombrando le macerie del sisma, e venne prontamente disperso e schedato dalla Digos. In compenso, i finanziamenti per le attività ordinarie dei Comuni e delle Regioni sono in calo costante, e sui ministeri-chiave (come i Beni culturali) incombono ulteriori tagli selvaggi travestiti da razionale spending review, come se un’etichetta anglofona bastasse a sdoganare le infamie. La tecnica dell’eufemismo invade le veline ministeriali, e battezza “patto di stabilità” i meccanismi che imbrigliano i Comuni, paralizzano la crescita e la tutela ambientale, scoraggiano gli investimenti, condannano la spesa sociale emarginando i meno abbienti, comprimono i diritti e la democrazia.
Ma il peggior errore che oggi possiamo commettere è di fare la conta dei caduti dimenticando la vittima principale, che è il territorio, la Costituzione, la legalità. In definitiva, l’Italia. L’unica “grande opera” di cui il Paese ha bisogno è la messa in sicurezza del territorio e il rilancio dell’agricoltura di qualità. Il consumo di suolo va limitato tenendo conto di parametri ineludibili: l’enorme quantità di invenduto (almeno due milioni di appartamenti), che rende colpevole l’ulteriore dilagare del cemento; gli edifici abbandonati, che trasformano importanti aree del Paese in una scenografia di rovine; infine, il necessario rapporto fra corrette previsioni di crescita demografica e pianificazione urbana. Manodopera e investimenti vanno reindirizzati sulla riqualificazione del patrimonio edilizio e sulla manutenzione del territorio.
Su questi fronti, il governo Monti ha lasciato una pesante eredità. Ai Beni culturali, Ornaghi ha sbaragliato ogni record per incapacità e inazione; all’Ambiente, Clini, che come direttore generale ne era il veterano, ha evitato ogni azione di salvaguardia, ma in compenso si è attivato in difesa di svariate sciocchezze, a cominciare dallo sgangherato palazzaccio di Pierre Cardin a Venezia. Ma dal governo Monti viene anche un’eredità positiva, il disegno di legge dell’ex ministro Catania per la difesa dei suoli agricoli e il ritorno alla disciplina Bucalossi sugli oneri di urbanizzazione: un buon testo, ergo lasciato in coda nelle priorità larghintesiste di Monti & C. e decaduto con la fine della legislatura.
Verrà ripreso e rilanciato il ddl Catania? Vincerà, nel governo Letta, il partito dei cementificatori a oltranza, o insorgeranno le voci attente alla legalità e al pubblico bene? Il Pd, sempre opposto ai condoni, riuscirà a sgominare la proposta di legge dell’alleato Pdl? Anche i forzati dell’amnesia, neosport nazionale assai in voga in quella che fu la sinistra, sono invitati non solo a sperare nei ministri e parlamentari onesti (che non mancano), ma anche a ripassarsi icurricula devastanti dei professionisti del disastro. Se saranno loro a vincere, sappiamo che cosa ci attende. Se verrà assodato che il demerito è precondizione favorevole a incarichi ministeriali, presidenze di commissioni ed altre incombenze, si può preconizzare la fase successiva, quando il supremo demerito, se possibile condito di qualche condanna penale, sarà conditio sine qua nonper ogni responsabilità di governo. Che cosa dovremmo aspettarci da questa nuova stagione della storia patria? Il capitano Schettino alla Marina? Previti alla Giustizia? Berlusconi al Quirinale?
Eddyburg di norma non entra nelle campagne elettorali e non sponsorizza nè suggerisce liste o candidati. Roma e la candidatura di Rita Paris rappresentano però un caso eccezionale, per le ragioni che Andrea Costa bene esprime nel suo scritto. Rita ci dà la garanzia che, se entrerà in Campidoglio, aiuterà nella lotta contro le nefandezze urbanistiche succedutesi dai tempi delle giunte Rutelli e Veltroni, ed esplose con Alemanno.
Sono reduce da un tour de force romano. Una contro-visita turistica della nostra città. Scatto fotografie e ogni qual volta, arriva qualcosa di nuovo e che non va. La Roma di Alemanno che non ci ha mai convinto ci stava però, rassegnando. Ci rassegnava a un grigiore perenne, una sorta di inverno atomico della mediocrità, al silenzio delle idee e della creatività. Una tranquillità delle paludi non dei luoghi ameni e delle riflessioni. L'ecosistema ideale per la proliferazione d'intere famiglie affaristiche e commerci d'ogni genere, naturalmente celati all'opinione pubblica.
La friendship addiction del sindaco ha, di fatto, ricostruito negli uffici comunali un'intera filiera dell'estremismo nero degli anni settanta e ottanta. La città di cotanti estremisti della "legge", ha raramente vissuto momenti peggiori di questi, se pensiamo al numero di omicidi da cinque anni a questa parte. Per chi impostò un'intera campagna elettorale speculando sul caso Reggiani, può ben dirsi un fallimento senza appelli.
Il cemento inonda le delibere di un consiglio comunale ridotto a pulsantiera a comando dei soliti noti e di altri meno noti. In questi cinque anni bisestili sono entrati nell'agenda comunale progetti talmente assurdi e ridicoli che nemmeno negli studi di "Portobello" del compianto e rimpianto Enzo Tortora, sarebbero stati presi in considerazione. La Formula 1 è poi fortunatamente caduta, ma solo dopo una lunga battaglia dei cittadini.
Capito per Piazza Venezia, e mi rendo conto dello straordinario passo in avanti fatto dai trasporti pubblici locali: da un poco opportuno capolinea tramviario davanti a un teatro del settecento (largo argentina), avremo da luglio uno stupido e costoso capolinea tramviario attaccato a un palazzo del quattrocento (Palazzo Venezia). Aumenta il valore di ben tre secoli.
L'autobus che ho preso va talmente piano che stimola riflessioni profonde. Nella Roma alemanna la mobilità è immobile, mentre gli immobili (quelli di proprietà comunale, cioè nostra) sono in mobilità... pronti per essere svenduti a banche e furbetti del cantierino.
Facciamo il giro ed ecco il Teatro Marcello. Mi ricordo di aver letto delle nuove intenzioni del sindaco-motociclista-solitario-nella-notte: affidare per qualche decennio il monumento con annessi e connessi (area archeologica) a privati che "potranno gestire il beni con eventi, regolare la chiusura dei cancelli e introdurre il pagamento di un biglietto".
Arrivo in una via dei Fori Imperiali che misura il tempo che manca per la sua prossima chiusura settennale, causa gli scavi per una metro inutile e pericolosa per la stabilità di tutto il centro. I giardini di Villa Rivaldi ospiteranno per l'occasione l'intera divisione dei camions, attrezzi di cantiere e caterpillar. Questo sul fronte sinistro. Volgendo a destra lo sguardo, "novi tormenti e novi tormentati": ecco l'alternarsi postmoderno e volgare di gladiatori di cartone (alcuni, con l'ombrello, sono irresistibili), chioschi modello "Tredicine" con gelatino a sedici euro, improbabili fachiri indiani prodotti in serie con levitazione servo-assistita, sfingi egizie varie, Cola di Rienzo alla porporina e ancora chioschi, gladiatori, fachiri, e controfigure di Papa Woytila. Sembrano i fantasmi di Cinecittà venuti a cercar casa da qualche altra parte, vista la fine voluta da Alemanno anche per l'unica industria cinematografica romana.
Il Colosseo attende l'esculsiva per un ventennio data ad un resistibilissimo imprenditore privato. Nè il governo italiano né il sindaco della capitale han saputo trovare diciotto milioni di euro per la ripulitura del monumento più visitato d'Italia. Lo racconto ad un turista francese e non ci crede. Come cedere in comodato la Tour Eiffel al proprietario della Fernovus, in cambio di una mano di antiruggine.
Svoltiamo per la via Labicana e gli occhi cadono sul Ludus magnus riguadagnato dall'incuria alemanna alle erbacce spontanee. Orti spontanei un po' in tutte le aree archeologiche e persino sui tetti del centro. Subito sopra l'antica palestra dei gladiatori, la celebre Domus "Scajola"...dal nome di un senatore ligure appartenuto alla gens...insaputa.
A questo punto dico basta e mi dico che per dare una mano al prossimo sindaco Ignazio Marino, c'è bisogno di qualcosa di anche più forte di un candidato capace. Di più: una vita spesa bene e con competenza per questi temi che sono nel cuore di tutti noi: i beni culturali, i beni pubblici, l'Appia antica. I nostri beni pubblici che rappresentano il volto ed il corpo della nostra città. Beni, anche quelli naturali (alberi, ville storiche, agro romano) e faunistici che non hanno diritto di voto, non hanno rappresentanti, nessun lobbista a libro paga e non finanziano campagne elettorali. Tanti nemici e troppo soli. Bambini indifesi con genitori troppo spesso distratti.
Il patrimonio culturale come baluardo di democrazia ed uguaglianza: un bene comune sotto attacco. Recensione dell'ultimo volume di Tomaso Montanari "Le pietre e il popolo. Restituire ai cittadini l’arte e la storia delle città italiane " (minimum fax)
Civitas è il termine latino da cui deriva il nostro ‘città’, ma in latino indica, nella sua prima accezione, la cittadinanza e i diritti ad essa connessi. Le città che sono al centro dell’indagine di Tomaso Montanari nel suo ultimo libro Le pietre e il popolo. Restituire ai cittadini l’arte e la storia delle città italiane (minimum fax, 2013), sono appunto civitates, ossia l’insieme, inscindibile, di edifici, monumenti, chiese e cittadini.
Attraverso la denuncia dell’uso distorto del patrimonio culturale di molte delle nostre città più importanti, da Roma a Milano, da Napoli a Venezia, da Siena a Firenze e L’Aquila, il volume (che si presenta domani a Roma) ricostruisce l’inesorabile processo di privatizzazione cui i nostri beni culturali sono sottoposti. Da patrimonio di tutti, costituito nei secoli per la publica utilitas o comunque divenuto tale da lungo tempo, questo bene comune sta subendo una trasformazione radicale per quanto riguarda la funzione – da sociale ad economica – che ne comporta appunto la vendita, e più spesso svendita, a privati, spesso mascherati sotto la veste di fondazioni.
Come ha ben visto Salvatore Settis, la privatizzazione delle città, è l’altra faccia della privatizzazione della tutela (i cui costi continuano peraltro ad essere pagati dallo Stato, cioè da tutti noi). Il patrimonio culturale è elemento fondamentale dello spazio pubblico, e lo spazio pubblico rappresenta il cardine del concetto di città: come ben sanno i lettori di eddyburg, senza spazio pubblico non c’è città e i cittadini sono di fatto rigettati in una condizione di abitanti o turisti la cui funzione prevalente diviene il consumo. A partire da questi principi, si snoda il ragionamento di Montanari, sottolineando con forza come il degrado e la sottrazione pubblica di monumenti e siti non sia solo un danno culturale, pur gravissimo ed irrisarcibile, ma costituisca un fattore, non secondario, dell’involuzione della vita democratica attualmente in atto in Italia, e non solo. L’assalto ai beni comuni scatenato a livello mondiale dalla fase neoliberista, in Italia particolarmente si esprime attraverso un attacco ai beni culturali, particolarmente violento sui centri storici e non casuale vista l’importanza e la vastità del nostro patrimonio.
Ci avviamo verso un impoverimento radicale della civitas, non solo dal punto di vista patrimoniale quindi, ma da quello dei diritti, perché se i cittadini avranno sempre minori possibilità di accedere ad opere d’arte, monumenti, architetture, in maniera non superficiale, ne sarà diminuita la loro possibilità di conoscenza e consapevolezza della storia attuale e presente e quindi ne verranno drasticamente circoscritte le possibilità di formazione e crescita sociale.
Ne Le pietre e il popolo si dimostra esemplarmente come dietro la stucchevole affermazione, che però tanto piace ai privati, del patrimonio culturale come “volano per lo sviluppo” oltre alla vecchia ma mai rinnegata equivalenza fra beni culturali e petrolio dei tempi di De Michelis, ci sia soprattutto il vuoto pneumatico di idee sulla funzione di quel patrimonio.
Non sapendo più a che serve, politici di ogni parte e intellettuali a loro organici ne cercano affannosamente un uso possibile: inevitabile che in un’epoca di trionfo dell’economia sulla politica, quello mercantile non possa che essere il fine privilegiato. Da qui l’accento sempre più esasperato sulle attività di valorizzazione, intesa principalmente come marketing orientato al turista. E quindi mostre prive di qualsiasi retroterra scientifico ed eventi che utilizzano i nostri monumenti e siti come quinte di lusso. La tutela al servizio del mercato, in estrema sintesi.
Leggendoli tutti assieme gli orrori che i nostri politici hanno architettato e gli alti funzionari Mibac hanno permesso (o addirittura favorito) si coglie anche l’accelerazione spaventosa che questo processo di privatizzazione ha subito negli ultimi anni.
Questo libro è importante perché rompe il velo di ipocrisia che circonda questo ambito: storia dell’arte, monumenti, mostre, sono confinati sui media fra i temi di “alleggerimento”, quelli con cui si conclude, “in bellezza” appunto, un tg, rivelando in questo modo quale ne sia la considerazione generale: il bello come momento di svago, di evasione rispetto alle cose che contano sul serio.
Ed è importante perché nell’additare, con lucidissima spietatezza, le responsabilità, Tomaso Montanari non si ferma alle solite risposte: certo i politici, gli alti dirigenti Mibac brillano per ignoranza e arroganza, ma la responsabilità va cercata anche in chi questa ignoranza non ha saputo o voluto dissiparla. E quindi l’accademia in genere e gli storici dell’arte in particolare che solo in pochi casi hanno compreso come fosse prioritaria quella funzione di diffusione della conoscenza che costituisce il primo e più efficace strumento di tutela. Come ci aveva insegnato Andrea Emiliani: “La coscienza del possesso sociale è la sola garanzia valida ad allontanare lo spettro della distruzione”.
Ma l’importanza di Le pietre e il popolo risiede principalmente nella sua capacità di riadditarci il senso smarrito: beni culturali e paesaggio non servono a suscitare emozioni estetiche, tanto passeggere quanto superficiali, ma sono attrezzi poderosamente efficaci per capire il presente e la realtà, interpretandone la complessità senza banalizzazioni. A disposizione di tutti: esserne privati significa quindi essere più poveri non solo dal punto di vista culturale, ma anche da quello politico, essere insomma cittadini più indifesi perché meno armati contro le insidie della semplificazione e dell’omologazione.
E’ una battaglia politica, quindi quella a difesa del nostro patrimonio: non è un caso, allora, che fra i più scatenati fautori della valorizzazione mercantile dei beni culturali ci siano quegli esponenti della nostra classe politica più abili nell’uso dei media e nell’acquisizione di un consenso inteso fine e non come mezzo. La politica come marketing di sé stessi, così come il patrimonio culturale.
L’esempio paradigmatico di questa doppia equivalenza politica = cultura = marketing è proprio la città del fiorentino Montanari, dove da anni, con la connivenza e le omissioni dei più alti dirigenti del Ministero dei beni culturali, il patrimonio culturale, considerato alla stregua di una vera gallina dalle uova d’oro, è asservito a finalità di puro marketing e di visibilità personale, finalità del resto teorizzate nell’imbarazzante Stil Novo, pamphlet dell’attuale sindaco.
Triste ironia della sorte che ciò avvenga proprio nella città del Rinascimento, l’epoca nella quale, proprio attraverso la cultura, gli uomini erano riusciti a costruire potenti mezzi di emancipazione e a rendere ancora più vero il detto di origine medioevale secondo il quale “ l’aria della città renda liberi”.
Le pietre e il popolo si presenta domani, 21 maggio, alle h. 17, a Roma, presso la sede della Soprintendenza Archeologica a Capo di Bove, via Appia Antica, 222.
Ne parleranno, assieme all’autore, Paolo Berdini, Vezio De Lucia e Maria Pia Guermandi.
L'articolo è inviato contemporaneamente a L'Unità on-line, blog "nessun dorma"
Utile iniziativa di divulgazione e sensibilizzazione degli spazi aperti metropolitani, che restino tali, fruibili a tutti, produttivi, nello spirito della greenbelt. Corriere della Sera Milano, 20 maggio 2013 (f.b.)
Un viaggio alla scoperta della campagna lombarda per valorizzare una delle aree agricole più vaste d'Europa: 47 mila ettari di coltivazioni attorno a Milano, 925 mila in tutta la regione. È «Via Lattea», il progetto del Fondo ambiente italiano che dal 2011 promuove il patrimonio rurale locale con visite alle cascine, ai borghi storici e alle vie d'acqua. Ieri mattina in piazza Duomo è stata inaugurata, davanti a una colorata mongolfiera, la terza edizione, che sarà più lunga e più ampia rispetto alle precedenti: le iniziative del Fai non riguarderanno più solo il Parco Agricolo Sud Milano ma si estenderanno a tutta la regione, con un programma di gite in bici, a piedi e in barca che durerà fino a settembre.
Ci sono molti equivoci sull’Ilva e Taranto, come il conflitto fra lavoro e salute Ma lo scandalo è nelle istituzioni della politica, che non hanno fatto il loro mestiere, ma ceduto il loro cervello a «una cultura allegramente industrialista». La Repubblica, 18 maggio 2013
Ci sono molti equivoci sull’Ilva e Taranto. Come il conflitto fra lavoro e salute. Come se i lavoratori non fossero cittadini – e figli mariti fratelli genitori – e sicurezza e malattie sul lavoro non fossero essenziali per tutti. L’equivoco vuol coprire un passato in cui l’azienda ha ottenuto una extraterritorialità, violando leggi e manipolando l’opinione; e oggi raschia un fondo di barile esausto, scansandone il risarcimento.
E c’è l’equivoco di una disfida fra una famiglia di imprenditori e i loro dirigenti (cui il governo si associò fino a offuscare la distinzione) e una giudice fotoromanzata, fanatica per gli uni, eroica per altri – riconoscendo comunque gli uni e gli altri che abbiano finora, magistrati dell’accusa e giudice, parlato solo attraverso gli atti. L’equivoco fa passare come un aggiornato duello rusticano un trapasso d’epoca nel modo di lavorare e di abitare. Quello che si è chiamato sistema Ilva non si spiega solo con la trama di corruzioni e intimidazioni: la carne è debole, ma ad abbattere gli argini occorreva l’alibi di una cultura allegramente “industrialista” e un’abitudine al quieto vivere fra poteri, padronali, curiali, amministrativi e spesso di malavita, così radicata da rendere fin superflua la consapevole corruzione.
Si dice amaramente, a Taranto: “si sono venduti pure gratis”. Così i colpi di scena che portano in carcere personaggi di rango pubblico, e il misto di sorpresa e scandalo che li accoglie (simulati ormai l’una e l’altro) oscurano la posta, che non è da magistrati: che si deve produrre, amministrare e fare politica e sindacato in altro modo. Rotta dall’avvento dei magistrati, dei custodi giudiziali, di carabinieri e Guardia di Finanza indipendenti, l’extraterritorialità ha portato allo scoperto decenni di monnezze sepolte sotto asfalto o riversate nelle acque o gettate nelle fornaci: abusi di una tale portata dovrebbero essere riseppelliti e continuati? Fin qui è affare di magistrati altrimenti responsabili di una colossale omissione, altro che eccesso di zelo. Da qui in poi, tocca alla società e le istituzioni altre, quelle che l’abitudine minaccia altrettanto e più della corruzione.
Le micidiali strategie speculative della lunga surreale stagione di urbanistica private-oriented crollano, lasciando la città devastata e il futuro tutto da costruire, ci sono prospettive? Intanto il loro regista è diventato ministro delle Infrastrutture. Articoli di F. Ravelli e A. Stella, La Repubblica, Corriere della Sera, 17 maggio 2013, postilla (f.b.)
MILANO — «Non ci dormo la notte», confessa Ada Lucia De Cesaris, assessore all’Urbanistica e vicesindaco, che pure ha fama di donna tostissima. Poltrona scomoda la sua, di questi tempi. Prima le è toccata una dura battaglia per mettere un argine alla delirante colata di cemento concepita dalla giunta di Letizia Moratti, e per far passare un Pgt (Piano di gestione del territorio, quello che si chiamava piano regolatore) che fosse un po’ più vicino alla realtà di Milano. E adesso la crisi: il ballo del mattone è finito, la città dei nuovi grattacieli e dei grandi progetti arranca. Non passa giorno che nell’ufficio del vicesindaco non si presenti un costruttore che alza bandiera bianca. «Hanno fatto tutto l’iter, che è durato un paio d’anni. Hanno pagato gli oneri. Arrivano e dicono: non lo faccio più. Quest’anno ho restituito più di 22 milioni di euro di oneri di urbanizzazione». In questo scenario cosa resta dei mega-progetti che nei prossimi anni puntano a cambiare lo skyline di Milano?
PROGETTI RIDIMENSIONATI
L’ultimo segno, fortemente simbolico, della crisi è stata la notizia che dei tre grattacieli dell’area City Life — là dove c’era la vecchia Fiera Campionaria — se ne farà per ora uno solo. Resiste quello progettato da Arata Isozaki. Gli altri due, di Daniel Libeskind e Zaha Hadid, sono rimandati a tempi migliori, se verranno, mentre non si parla più del museo di arte contemporanea. Il progetto Santa Giulia a Rogoredo, dopo le disavventure giudiziarie dell’immobiliarista Luigi Zunino, è impantanato fra bonifiche del terreno — mai fatte, o fatte in maniera truffaldina — e rinunce: non vedranno la luce gli appartamenti ipertecnologici concepiti da Norman Foster. Al Portello — che è forse l’intervento messo meglio — sono alle prese con il famigerato tunnel progettato ancora ai tempi della giunta Albertini, che doveva convogliare il traffico delle autostrade verso i capannoni della Fiera: peccato che la Fiera Campionaria non esista più, e che il tunnel — costato una montagna di quattrini — sia lì in attesa di un’idea per il suo riciclo. Anche a Porta Vittoria, nell’ex-area ferroviaria, le rovinose sorti del costruttore Danilo Coppola stanno rallentando il progetto, e ancora si aspettano i fondi dello Stato per la Beic, la biblioteca europea di informazione e cultura.
Certo, i nuovi grattacieli vengono su come funghi nell’area Garibaldi-Porta Nuova. Poche settimane fa c’era una folla a curiosare nella piazza Gae Aulenti, fra specchi d’acqua e pietre grigie, sotto la mega-sede di Unicredit progettata da Cesar Pelli, che con i suoi 230 metri di altezza (antenna compresa) è l’edificio più alto della nuova Milano. Così come grandi folle si erano riversate a visitare il Palazzo Lombardia, 161 metri, progetto di Pei-Cobb-Freed e Partners, il sogno della megalomania di Roberto Formigoni. I milanesi sono fatti così: dagli qualcosa di nuovo da toccare con mano e accorreranno in massa. Anche i video e le visite guidate agli appartamenti-pilota erano molto seguiti. Ma, con questi chiari di luna, sarà ben difficile piazzare le nuove bellissime “residenze” a 10 o anche 12 mila euro al metro quadro.
EDILIZIA IN CRISI
Il mercato è in crisi, i prezzi scendono, migliaia di posti di lavoro nell’edilizia sono a rischio. «L’occupazione nell’edilizia è in caduta libera — dice Luca Beltrami Gadola, costruttore, fiero oppositore della giunta Moratti — La crisi è drammatica. Basta guardare ai dati della Cassa edile, che pure si riferiscono solo alle assunzioni regolari, e non illuminano tutto il nero del settore. E se si vanno a vedere gli sfratti e le aste giudiziarie degli immobili, viene freddo». «Sì, il mercato non va bene — ammette Mario Breglia di Scenari Immobiliari, società di ricerca — Ma i numeri significativi non sono tanto quelli dei nuovi progetti. Ogni anno si scambiano 20 mila case, e quelle nuove sono 2 mila. E, per esempio, City Life e Porta Nuova rappresentano 3-400 alloggi. Il vero tema, a Milano, è lo svuotamento degli uffici. Il nuovo terziario si costruisce solo se è già venduto. Ma in 2-3 anni dovremmo avere 1 milione di metri quadri che verranno dismessi. Il mercato soffre perché l’economia va male, e i grandi investitori hanno difficoltà a trovare risorse. E in tempi di sofferenza, il mercato cambia: si comprava sulla carta, ora si aspetta di vedere l’immobile finito». Ma si può imputare solo alla crisi il freno messo al ballo del mattone? Quali sono gli altri fattori in gioco?
PREVISIONI DISSENNATE
La crisi pesa, ma conta anche la pianificazione sbagliata. Il Pgt della giunta Moratti, coordinato dall’assessore all’Urbanistica Carlo Masseroli, era fondato sulla previsione di una Milano (nel 2030) da 2 milioni di abitanti, poi ridimensionata a 1 milione e 700 mila. Vale a dire, quasi 500 mila residenti più di adesso. Uno studio curato dai docenti del Politecnico Matteo Bolocan Goldstein e Luca Gaeta dice questo: le previsioni del Cresme (centro ricerche economiche, sociologiche e di mercato) fissano la popolazione di Milano nel 2019 fra 1 milione e 329 mila e 1 milione e 335 mila, con un fabbisogno di 282 mila alloggi, 28.200 all’anno. Ma bisogna tener presente anche le 190 mila abitazioni che finiscono sul mercato per morte dei proprietari anziani. «Il piano Moratti — spiega la ricerca — era dimensionato per circa 1 milione e 600 mila abitanti, con il presupposto che l’offerta crea domanda, che il volume edificabile è una variabile indipendente e genera popolazione futura». Una previsione che, usando un eufemismo, si può definire dissennata.
La giunta Pisapia s’è trovata sul tavolo un Pgt che prevedeva 26 nuovi quartieri, e ha deciso — sempre per usare un eufemismo — di “riequilibrare”. Ha tagliato drasticamente l’indice di edificabilità da 2,70 a 0,70, e ha cancellato il criterio di “perequazione” che avrebbe permesso ai proprietari di aree del Parco Sud di “densificare” ulteriormente i loro progetti in altre zone della città. Si trattava, in poche parole, di fare un enorme favore a Salvatore Ligresti, che nell’area di via Stephenson (periferia Nord-Ovest, a ridosso dell’Expo) avrebbe tirato su (con altri) qualcosa come 50 nuovi grattacieli. «Come nelle favole — aveva scherzato l’assessore Masseroli — il rospo di via Stephenson potrebbe diventare un principe se a baciarlo sarà la principessa Pgt». Ora questo progetto, che qualcuno fantasiosamente aveva accostato alla Défense parigina, pare accantonato. Ma quali sfide restano in campo? Quali opportunità? Di cosa ha bisogno il mercato delle costruzioni?
CASE LOW COST
Il mercato residenziale, dove pure i prezzi scendono, non ha poi certo gran fame di abitazioni a 10 mila euro al metro, quanto di case e anche affitti abbordabili dalla classe media, dalle giovani coppie, dagli anziani. È quella che si chiama — genericamente — residenza sociale o social-housing, e che nel Pgt Moratti vedeva alcuni progetti possibili all’interno degli ex-scali ferroviari. Sono alcune aree sterminate, il cui futuro — vista la crisi — è ancora in alto mare. Il vicesindaco De Cesaris lavora perché la residenza sociale trovi spazio nel futuro di Milano: «Le scelte che abbiamo fatto trovano conferme, perché riequilibrano, e ci permettono di agire senza gigantismi. Negli scali ferroviari il Pgt precedente prevedeva alcuni obblighi di residenza sociale. Noi stiamo proponendo di ridurre alcuni piani, mantenendo però l’attenzione a quel che chiede il mercato, cioè case a basso costo e in particolare ad affitto moderato».
Mica facile, fino a quando gli investimenti saranno condizionati solo dall’alta redditività. Che è poi il criterio che ha contribuito ad aggravare la crisi. Al centro c’è l’idea di città che deve stare alla base della progettazione, e che deve essere un’idea lungimirante: i Pgt lavorano sull’arco dei decenni. «Bisogna partiredall’ideacheivaloricresconoperlaqualitàurbana complessiva — dice Giancarlo Consonni, docente diUrbanisticaalPolitecnico—Laqualitàladetermini. Invece si fanno super-appartamenti, si fanno specie di bunker di lusso, quando il vero valore è la città. E la città è quel che trovi quando esci di casa». Al professor Consonni i nuovi progetti non piacciono: «Trovo fallimentare l’intera area Garibaldi- Porta Nuova, che sembrava trionfale e ora mostra la corda ».Un’areacheporta il peso di una pianificazione duratadecenni, da quando la si immaginava come nuovo Centro direzionale, e che l’inserimento di molta residenza — però di lusso, smisurata in altezza oppure bassa ma sovrastata da grattacieli alti 150 metri — non ha sostanzialmente modificato.
Ora si cerca, in qualche modo, di adattarsi alla crisi, o anche di trasformarla in opportunità. Il Comune spera di convincere gli imprenditori a ridurre i propri profitti, magari riconvertendo con l’aiuto dell’amministrazione il terziario sfitto in residenza accessibile. Un modello — fatto di incentivi fiscali e credito facilitato — già adottato in Inghilterra. La crisi, a volte, può servire. Basti pensare che il Parco Sempione, l’area verde più grande dentro Milano, fu un regalo del crack della Banca Romana, a fine Ottocento. C’era un progetto di lottizzazione per abitazioni di lusso, finirono i quattrini e spuntarono gli alberi.
Corriere della Sera Gli emiri sul tetto di Milano: il Qatar compra i grattacieli
di Armando Stella
MILANO — Porta Nuova, provincia araba di Doha. Non sarà il paesaggio di Cala di Volpe, l'incontaminata dreaming Sardegna da cartolina, ma anche questa è «diversificazione degli investimenti». Architetture vertiginose. La Milano proiettata verso l'Expo, rigenerata nel tessuto e rimodellata nelle forme: torri tagliate come diamanti; un Bosco verticale da abitare; il nuovo quartier generale Unicredit e un'ambiziosa Biblioteca degli alberi, quando verrà. Gli emiri erano già rimasti affascinati dalla Costa Smeralda e ne avevano conquistato i resort. Ora hanno raggiunto la terraferma. Operazione in grande stile: sono saliti sul tetto di Milano. Il fondo sovrano Qatar Holding ha ufficializzato ieri l'acquisto del 40 per cento di Porta Nuova, il piano di sviluppo immobiliare da oltre due miliardi di euro che sta rivoltando e costruendo su 290 mila metri quadrati del centro città, nei quartieri Garibaldi-Repubblica, appena oltre la cerchia monumentale dei Bastioni spagnoli: «Il progetto — è l'annuncio, o forse l'auspicio — imprimerà una trasformazione radicale per il Paese e creerà valore per tutti i soggetti coinvolti». In sintesi: il Qatar scommette sul real estateitaliano augurandosi che si riprenda, e renda. Intanto, suggerisce Manfredi Catella, «va colto il segnale di fiducia» trasmesso da questa partnership: «Agli occhi del mondo — riflette l'ad di Hines Italia, società capofila di Porta Nuova — è arrivata un'immagine di Milano vincente, competitiva, solida e affidabile».
Le prime voci sullo shopping di grattacieli griffati (Cesar Pelli e Stefano Boeri tra le firme) s'erano diffuse un mese fa, dalla Londra dei magazzini Harrods (altro business di Doha), ed erano pessimiste: «Il Qatar è in trattativa per acquistare alcuni edifici del distretto Porta Nuova, visto che la crisi economica italiana spreme (squeezes, ndr) il promotore americano Hines...». L'iniezione di risorse assicurata dall'emiro Hamad Bin Khalifa Al Thani consente al gestore italiano di «rafforzarsi e riprendere slancio»: «La società — rimarca Catella — si conferma come un'importante piattaforma domestica d'investimento e gestione per conto di investitori nazionali e internazionali». Il centro di Milano non è la Costa Smeralda, qui il fondo sovrano non ha acquistato un blocco di palazzi: «Resta minoritario e partecipa al progetto». La prospettiva è di lungo periodo. Il crollo del settore immobiliare ha stressato i calendari, rallentato le vendite (uffici e appartamenti sono stati collocati per metà) e fiaccato le imprese (la ditta del Bosco ha appena lasciato il cantiere: troppi debiti, sostituita). C'è da lavorare, insomma.
La notizia dell'accordo ha avuto l'effetto d'un tranquillante sugli scambi dei titoli immobiliari in Borsa. Riprende Catella: «Il territorio è la risorsa naturale più importante che abbiamo. Territorio nel suo significato più ampio: paesaggio, turismo, qualità, salute, università... Solo valorizzando le nostre ricchezze possiamo riattivare un motore strategico per la ripresa del Paese». L'aveva detto con parole analoghe, a novembre, l'ex premier Mario Monti: «Chi pensasse che queste operazioni di acquisizioni, di investimenti esteri in Italia siano modi per svendere società o beni italiani, farebbe un grandissimo errore...». Sei mesi fa il fondo strategico di Cassa depositi e prestiti aveva firmato con Qatar Holding per una joint venture da 2 miliardi di euro. La società mista ora c'è. La sede è in corso Magenta al 71. Sono tre chilometri dalla zona di Garibaldi-Repubblica.
Il fondo sovrano aveva già investimenti enormi nell'eurozona: Barclays plc e Credit Suisse, Harrods e London Stock Exchange, Lagardere e Porsche. In Italia, fino a ieri, un meraviglioso pezzo di Sardegna e gli affari con Cassa depositi e prestiti. Ora si sono aggiunti i grattacieli di Porta Nuova. Ma nei dossier dell'emiro compaiono anche aziende del settore alimentare e della moda. I prossimi obiettivi.