Infiniti colpi di coda dell'urbanistica privatizzata inaugurata dall'attuale ministro Lupi tanti anni fa, i quartieri del Documento di Inquadramento sono una truffa e un disastro. La Repubblica Milano, 7 ottobre 2013
È diventato un pezzo di città fantasma, il quartiere Adriano. I problemi riguardano in particolare le aree di proprietà di un operatore privato, che non ha mai risposto agli ultimatum del Comune. Adesso, per risolvere una situazione di «pericolo sanitario e di sicurezza sociale», Palazzo Marino passa alle maniere forti. Per la prima volta, userà i poteri sostitutivi per bonificare i terreni e realizzare il parco promesso. E ha avviato un procedimento di “requisizione”, che andrà condiviso con la prefettura, per entrare in possesso dei terreni, ripulirli e terminare le opere.
Dopo quasi due anni di ultimatum, il Comune passa alle maniere forti per riportare alla «normalità» il quartiere Adriano. Lì, su quella distesa di terra ai confini con Sesto San Giovanni dove un tempo sorgevano gli impianti della Magneti Marelli, i residenti sono rimasti intrappolati tra l’isolamento, l’insicurezza e il degrado. Un’eredità pesante, quella che si è trovata a gestire la giunta Pisapia. In particolare sulle aree di proprietà del gruppo immobiliare Pasini, che sono diventate un pezzo di città fantasma. «Superati i problemi di Santa Giulia è questa l’emergenza », dice la vicesindaco con delega all’Urbanistica, Ada Lucia De Cesaris.
La società che avrebbe dovuto realizzare case e servizi non ha mai riposto agli appelli di Palazzo Marino e per la zona, ormai, l’abbandono si è trasformato in una situazione di «grave pericolo igienico e sanitario e di sicurezza sociale ». Per questo, dopo aver cercato di tamponare con interventi per forza di cose parziali, l’amministrazione ha deciso di passare all’azione. Con due gesti estremi, che compierà per la prima volta. Il Comune utilizzerà i poteri che ha a disposizione per sostituirsi all’operatore e, così, bonificare direttamente i terreni e realizzare il parco promesso. E, soprattutto, ha già fatto partire quello che tecnicamente si chiama “procedimento di requisizione” e che, adesso, dovrà essere condiviso con la prefettura. In pratica, vuole entrare in possesso dell’area Pasini per terminare le opere di urbanizzazione, ripulire, mettere in sicurezza. E, successivamente, magari, trovare un altro operatore per completare ciò che mancherà all’appello.
Vogliono tornare alla vita, gli abitanti del quartiere Adriano. Tra raccolte di firme e un presidio che un gruppo di residenti farà oggi di fronte a Palazzo Marino. Il Comune ha già convocato un’assemblea pubblica per il 18 ed è lì che Ada Lucia De Cesaris spiegherà alle famiglie i piani dell’amministrazione. «Sicuramente — dice la vicesindaco — si tratta di una situazione di grave difficoltà. Purtroppo abbiamo ereditato i problemi creati da piani scellerati approvati in passato senza pensare alla loro sostenibilità. Stiamo lavorando da tempo e abbiamo già fatto moltissimo, ma continueremo a fare tutto ciò che sarà necessario perché questa zona torni alla normalità e il quartiere abbia finalmente i servizi di cui ha bisogno».
È una storia infinita, quella del quartiere Adriano. Iniziata nel 2005 con due diversi piani urbanistici: “Adriano Marelli” e “Adriano-Cascina San Giuseppe”. Sul primo disegno è calata la crisi, ma il Comune sostiene di essere riuscito a fare passi in avanti: «Entro la fine del mese, sull’area Gefim — spiega De Cesaris — sarà completato il parco, sono partiti i lavori per la materna e il nido, sono state risolte le criticità per il progetto della nuova Esselunga ed è stato definito quello per la piscina. A questo aggiungiamo altri interventi fatti sulla viabilità e i mezzi pubblici». Manca ancora la scuola media, ma Palazzo Marino sta discutendo con la Regione per realizzarla al posto di case che Aler avrebbe dovuto fare per il mercato “libero”. È sull’altra porzione, che le risposte non sono arrivate. Qualcosa ha fatto la giunta in emergenza: qualche spezzone di strada asfaltato, vie finora anonime hanno avuto un nome, qualche pulizia del verde.
Ma non basta. Rimangono i ruderi di cantieri lasciati a metà, una cascina che è già stata occupata; gli abitanti devono camminare lungo percorsi sterrati e non illuminati, zone non presidiate sono diventate discariche. È per questo che si è passati a quelle due misure straordinarie. «Ci prenderemo la responsabilità di far partire le bonifiche entro l’anno e realizzare il parco entro la fine del 2014», annuncia la vicesindaco. Toccherà a Palazzo Marino andare fino in fondo. Così come per quella procedura di “requisizione” che dovrà curare la grande incompiuta urbanistica.
Nota: impossibile riassumere in una postilla le riflessioni che suscita questa ennesima dimostrazione di fallimento (almeno per i cittadini) della stagione urbanistica liberista-ciellina-tangentizia, ho provato a sviluppare qualche breve ragionamento sul sito Millennio Urbano a cui collaboro da qualche tempo; sul sito eddyburg, già dalla pubblicazione del documento Ricostruire la Grande Milano, che dava sanzione ufficiale alla stagione della deregulation, si sono succedute critiche puntuali e sistematiche sul metodo e il merito delle specifiche scelte. A partire da questo ampio commento di Edoardo Salzano (f.b.)
L'Unità, 11 ottobre 1963 e 6 ottobre 2013
6 ottobre 2013
LA NOSTRA TINA CHE PER TANTI ANNI
URLÒ INASCOLTATA LA VERITÀ
di Toni De Marchi
Dopo «Vajont» di Paolini e dopo il film con Laura Morante, Tina Merlin divenne un personaggio incontournable, come direbbero i francesi. Una di cui non si può fare a meno, ineludibile. E in molti che l’avevano ignorata se non vilipesa, si scoprirono improvvisamente suoi inconsolabili amici. Parlo dei giornalistoni alla Pansa, ad esempio, che probabilmente quando arrivò a Longarone per La Stampa, non avrà neppure voluto saperne il nome. O dei Bocca, che difendevano la Sade (la società elettrica proprietaria dell’invaso del Vajont) scrivendo su Il Giorno due giorni dopo il disastro «nessuno ne ha colpa, nessuno poteva prevedere, nessuno può riparare....tutto è stato fatto dalla natura». Altro che nessuno poteva prevedere. Per quattro anni Tina aveva raccontato, urlato la verità: mai tragedia era stata più annunciata di questa. Articolo dopo articolo, assemblea dopo assemblea, lei donna, comunista, piccola e anonima corrispondente de l’Unità da Belluno aveva cercato di aprire gli occhi, svegliare le coscienze. Tanto che sarà processata, e assolta, per un articolo del 5 maggio 1959: La Sade spadroneggia ma i montanari si difendono. Come spiegò poi la sua «non era lotta contro il progresso, ma contro chi in nome del progresso si riempiva il portafoglio a spese altrui». Era una lotta per la vita, per il diritto dei montanari. Di quelle vite dure e rotte come era stata ed era la sua.
Conobbi Tina nel 1975, a Venezia. Cercava collaboratori per la redazione regionale. Lei, che da un retroterra intensamente cattolico era arrivata a essere una comunista convinta ma insofferente alle burocrazie del partito, cercò nelle sezioni del Pci di Venezia dei giovani da inserire in redazione. Voleva evitare che le imponessero qualche piccolo funzionario di federazione. Ovviamente all’inizio fui intimorito, non solo dall’essere arrivato senza rendermene conto in un giornale così importante, ma anche perché avevo di fronte questa compagna (allora si diceva e nessuno se ne vergognava) che mi sembrò subito forte e autorevole. Ma sentii che di lei potevo fidarmi, nonostante le sfuriate pluriquotidiane, gli articoli appallottolati e gettati nel cestino. C’erano ancora le macchine per scrivere e il primo fax, un Infotec arancione che arrivò qualche tempo dopo, era grande come una credenza.
Per molto tempo non seppi davvero chi fosse. Da buona montanara, Tina non parlava di sé. Neppure del «suo» Vajont. E anche di tutto il resto seppi molto tempo dopo. Del fatto che a 17 anni cominciò a fare la staffetta partigiana nel battaglione Manara: Joe il suo nome di battaglia. Bill era invece il nome da partigiano del fratello Toni, medaglia d’argento al valore militare, ucciso dai tedeschi il 26 aprile 1945. Remo era l’altro fratello, alpino, una delle centomila gavette di ghiaccio, scomparso da qualche parte in Russia.
Nonostante molto tempo passato con Tina, le cene nella sua casa alla Giudecca a Venezia, le discussioni a volte molto animate, con lei che bruciava una sigaretta dietro l’altra, la sua storia precedente l’ho scoperta soltanto leggendo molti anni dopo quel libro struggente che è La casa sulla Marteniga, il racconto di come è nata e si è formata la sua ribellione. La scuola interrotta prima di finire la quinta elementare, mandata a servire a Milano a tredici anni perché così si doveva in quegli anni. «Imparai quella volta, in quel cortile, una cosa nuova: l’emarginazione dei poveri. La sentii nella pelle come una frustata. Ebbi netta la sensazione d’essere considerata diversa dalle mie compagne che abitavano in piazza», racconta. E nonostante ciò, quella necessità indomita, infinita di rivolta contro tutte le disuguaglianze e le ingiustizie che segnerà la sua vita intera. Nel caso di Tina non si tratta di parole vuote, ma esperienza Sulla pelle viva, come intitolerà il suo libro sul Vajont. Il 13 ottobre 1963, con la gola ancora serrata per quello che era appena successo a Longarone, Erto, Casso, scrive su l’Unità delle parole che la definiscono mirabilmente: «Non volevo diventare famosa per un fatto così tragico quando scrivevo contro la Sade. Volevo semplicemente impedire che questo disastro colpisse i montanari della terra dove sono nata, dove ho fatto la guerra partigiana, dove ho vissuto tutta la mia vita. E ora non riesco neanche a esprimere la mia collera, il mio furore per non esserci riuscita».
12 ottobre 1963
L’UNITÀ AVEVA DENUNCIATO TUTTO
MAI CREDUTI E SOTTO PROCESSO
di Tina Merlin
Questo giornale aveva raccontato nel ’59 e nel ’61 i rischi di quell’opera grazie ai pezzi della giovane cronista che fu accusata di falsità
È stato un genocidio. Lo gridano i pochi sopravvissuti, resi folli dal terrore della valanga d’acqua e dalla disperazione di trovarsi soli e impotenti a superare una realtà tragica, fatta oramai di nulla, o meglio fatta di sassi e melma amalgamati dal sangue dei loro cari. Una realtà che ha sconvolto all’improvviso la fisionomia di interi paesi, ma che era purtroppo. prevedibile da anni, da quando ancora all’inizio dei lavori del grande invaso idroelettrico del Vajont i tecnici sapevano di costruire su terreno argilloso e franabile, che perciò potevano portare alla catastrofe.
Genocidio quindi, da gridare ad alta voce a tutti, affinché il grido scuota le coscienze del popolo e il popolo, la cui pelle non conta mai niente di fronte ai dividendi dei padroni del vapore, spazzi via alfine con un’ondata di collera e di sdegno chi gioca impunemente, a sangue freddo, con la vita di migliaia di creature umane allo scopo di accrescere i propri profitti e il proprio potere. Che qualcuno, se ne ha il coraggio, mi smentisca in questo momento. Io assumo la responsabilità di quanto dico; i colpevoli si assumano la responsabilità di quanto hanno fatto. E la giustizia giudichi.
Affermo che ci sono a responsabilità morali e materiali. Ho seguito la vicenda dell’invaso del Vajont con passione non solo di giornalista, ma di figlia di questo popolo contadino e montanaro che si ribella alla retorica delle «virtù tradizionali», che mal nasconde il cinismo dello sfruttamento più spietato. Con questo cuore ho seguito tutte le vicissitudini, le resistenze, le paure dei montanari di Erto contro la «Sade», non per impedirle di costruire il grande bacino idroelettrico del Vajont, ma per impedirle di compiere un delitto. L’intuito e l’esperienza di quei montanari, confortati per altro da pareri di grandi geologi, indicavano la Valle del Vajont non adatta a reggere la pressione di di 160 milioni di metri-cubi d’acqua.
La realtà ha dimostrato la ragione dei montanari, non quella dei tecnici della «Sade». La società elettrica sapeva che le pareti dell’invaso erano formate dal terreno di una enorme frana caduta centinaia di anni fa, sulla quale è sorto in seguito il paese di erto. Sapeva che il monte Toc era esso stesso parte di quella frana e che era prevedibile che l’acqua immessa nel bacino dovesse erodere piano piano il sottosuolo e provocare disastri. Quattro anni fa, quando è stata sperimentata la resistenza del bacino, grosse fenditure avevano segnato le case di San Martino e delle altre frazioni di Erto alle pendici del Toc. Esse, piano piano, si estesero a ridosso del monte, facendo nascere la paura tra gli abitanti di Erto. Costoro si appellarono inutilmente ad ogni autorità possibile dando veste giuridica ad un largo comitato unitario che lottò per anni nel tentativo di opporsi alla costruzione. (...).
Io mi feci portavoce di quei montanari e scrissi un articolo per l’Unità, indicando quello che sarebbe potuto accadere e che oggi è accaduto. La pubblica autorità mi accusò di propagare notizie false atte a turbare l’ordine pubblico. Venni processata a Milano assieme al direttore de L’Unità. (...). lo e il compagno onorevole Bettiol, che rappresentavamo il Partito Comunista, fummo soli e sempre gli unici a sostenere attivamente le ragioni dei montanari. Essi mi difesero energicamente davanti ai giudici del Tribunale di Milano e dimostrarono, con prove e testimonianze, non solo che io avevo scritto la verità, ma che tutto il paese di Erto si trovava in pericolo assieme ai paesi del Longaronese. I giudici mi assolsero, ma le autorità che dovevano tenere conto dei fatti e impedire un possibile massacro, diedero invece via alla «Sade» per i suoi esperimenti criminosi. Fatti, oltretutto, con i miliardi del popolo italiano. (...) Quelle stesse autorità di governo che gestendo oggi gli impianti idroelettrici, e sapendo che da circa un mese la situazione del Vajont peggiorava, non hanno provveduto a scongiurare l’immane sciagura che si è abbattuta stanotte sul Bellunese (...). (11 ottobre 1963)
Rassegna sindacale, ottobre 2013
Mi siedo sulle rive del Piave - il corso d’acqua più artificializzato del mondo, un deserto di ghiaia - e apro la mia copia, piena di sottolineature, di Sulla pelle viva, il libro di Tina Merlin di denuncia sul Vajont. Leggo il suo ineguagliabile epitaffio sulla tragica serata del 9 ottobre 1963:
«Sono le 22,39. Un lampo accecante, un pauroso boato. Il Toc frana nel lago sollevando una paurosa ondata d’acqua. Questa si alza terribile centinaia di metri sopra la diga, tracima, piomba di schianto sull’abitato di Longarone, spazzandolo via dalla faccia della terra. A monte della diga un’altra ondata impazzisce violenta da un lato all’altro della valle, risucchiando dentro il lago i villaggi di San Martino e Spesse. La storia del “grande Vajont” durata vent’anni, si conclude di tre minuti di apocalisse, con l’olocausto di duemila vittime».
Il mio pensiero corre a Tina, questa straordinaria giornalista dell’Unità che ho avuto il privilegio di conoscere. Al suo coraggio di affrontare da sola il colosso SADE, subendo processi per aver raccontato della diga.., per aver lanciato l’allarme due anni e mezzo prima della tragedia. Per aver denunciato l’arroganza di troppi poteri forti. L’assenza di controlli. La ricerca del profitto a tutti i costi. La complicità di tanti organi dello Stato. I silenzi stampa. L’umiliazione dei semplici, la sua gente, alla quale lei cerca in ogni modo di dare voce.
Per decenni il Vajont è rimasto un ricordo vago nella memoria nazionale. Se negli ultimi anni siamo tornati a parlarne lo si deve alla ristampa del suo libro e, soprattutto, all’orazione civile di Marco Paolini perché, come egli scrive,«le storie non esistono finché non c’è qualcuno che le racconta».
Ma se l’Italia dimentica – scrive Paolo Rumiz – «l’Enel ha la memoria lunga. L’acqua del Vajont c’è ancora nel bilancio idrico nazionale. Come se non fosse accaduto niente. S’inaugurano monumenti alle vittime dell’onda assassina, ma quei centocinquanta milioni di metri cubi servono ancora. Sono il lago di carta che giustifica la devastazione del Piave, disidratato dalle sorgenti alla foce.(…) Come dire che la tragedia ha accelerato, anziché frenarlo il dissesto idrogeologico».
Si è dato via libera al saccheggio. Risultato: se dovesse tornare l’alluvione degli anni sessanta, i danni sarebbero «dieci volte maggiori». Parola di Luigi D’Alpaos, ordinario d’idraulica all’università di Padova. Troppi detriti, troppi ostacoli sulla strada del fiume sacro della Patria.
A cinquant’anni di distanza è cambiato qualcosa? Finalmente salgono a Longarone il Presidente della Repubblica, Ministri e “governatori” per il “mea culpa” dello Stato, per chiedere scusa ai cittadini. Le parole pronunciate dal Ministro Orlando sono sagge: «Le resistenze delle popolazioni locali e dei comitati non si possono liquidare come localismi dei no, ci sono esperienze di chi vive nei luoghi che meritano altrettanto rispetto delle perizie tecniche».
Ancor più decise e autocritiche suonano le parole del “governatore” del Veneto, Zaia: «In questo Paese abbiamo bisogno di costruire meno strade e di realizzare più opere di prevenzione idrogeologica». Che il nostro Presidente sia rimasto folgorato sulla via di Damasco di fronte al ricordo della strage del Vajont? Non è la prima volta che egli pronuncia condivisibili parole che facevano presagire a una svolta ambientalista. L’aveva già fatto nel 2010 di fronte all’alluvione che ha colpito mezzo Veneto e l’ha ripetuto anche nella torrida estate del 2012: «Basta cemento. Serve una moratoria in piena regola!. Peccato però che nel frattempo la sua Giunta abbia dato il via libera a tutti i progetti voluti dagli immobiliaristi e dalla finanza.
Un diluvio di autostrade, bretelle, tangenziali, tunnel, camionabili; una costellazione di new Cities e il lasciapassare alle nuove lottizzazioni dei comuni in cerca di oneri di urbanizzazione. In un Veneto che già negli ultimi vent’anni ha visto diminuire la superfice agricola del 21,5%, un’estensione superiore a quella di tutta la provincia di Vicenza: con un ritmo di 38 ettari al giorno, corrispondenti a più di 53 campi di calcio! Mentre la Metropolitana di superfice è al palo da vent’anni e si taglia il trasporto pubblico locale, la Giunta del Veneto sembra affetta da bulimia autostradale.
Cambiano le Giunte, si avvicendano in carcere e agli arresti domiciliari i vertici dei consorzi, delle imprese e delle società che monopolizzano le “grandi opere”, la Guardia di Finanza documenta l’infiltrazione mafiosa nel mercato immobiliare del Veneto, il dissesto idrogeologico provoca danni in continuazione, la qualità dell’aria è la peggiore d’Europa ma la musica che suonano sul Canal Grande non cambia: cementificare e asfaltare. Lasciare mano libera ai progetti che le varie lobby finanziarie e del mattone hanno in programma e che “concerteranno” con i soliti assessori. Sui tavoli degli uffici regionali sono già pronte decine di “progetti strategici”: mentre si lasciano deperire i 2000 ettari già infrastrutturati di Porto Marghera si spreca altro suolo veneto con svariati milioni di metri cubi di volumetrie e centinaia di chilometri di nastri d’asfalto. Progetti che vanno approvati con le norme “semplificate” della Legge Obiettivo, degli Accordi di Programma, dei famigerati Project Financing “sporchi”. Si dice che costeranno poco. In realtà pagheranno molto i cittadini: nell’immediato con l’aumento dei pedaggi (il Passante di Mestre è l’autostrada più cara d’Italia) e per il futuro si costruisce un debito occulto che graverà sulle spalle delle prossime generazioni. Per i privati proponenti rischi zero. Per i cittadini oneri sicuri.
Non ho visto il film, ma intanto giudico questa una efficace recensione al Grande Raccordo Anulare, maestro di scempi del territorio là dove questo non è governato dalla pianificazione, strumento di una visione olistica, ma dagli interessi e dalle visioni settoriali. Luigi Piccinato definiva gli autori di quel prodotto territoriale “gli ingegneri anali”, certo in riferimento alla azienda di appartenenza. Dinamopress, 30 settembre 2013
Un film? Un documentario? O piuttosto un invito alla rassegnazione urbana?
In un punto che non sono riuscito a riconoscere il Grande Raccordo Anulare taglia, sovrastandola, una sinuosa pista dove scorrono velocissime automobiline telecomandate. Una serpentina di curve che, rincorrendosi, non spezzano il folle ritmo di quei bolidi. Il contrario di quello che avviene sopra. Qui le colonne di auto procedono lentamente in attesa di trovare come “tirarsi giù”da quell’anello di asfalto imposto, nell’immediato dopoguerra, alla città e fuori da ogni logica urbanistica, dall’ allora rinata Associazione nazionale strade (Anas). Un pesantissimo lascito a segnare per sempre il destino urbanistico di Roma e il proprio espandersi a macchia d’olio.
Non è però all’urbanistica, al comporre il disegno della città (almeno non direttamente), che guarda il Sacro GRA, la pellicola di Gianfranco Rosi vincitrice quest’anno del Leone d’oro della Mostra del Cinema di Venezia. Più che a quell’infrastruttura circolare, che accompagna alla semplicità del proprio tracciato la difficoltà di individuare i punti in cui quella strada entra nel tessuto urbano, Rosi sembra piuttosto domandarsi come un anello, che sembra fatto per percorrerlo senza fermarsi mai, abbia saputo farsi “territorio”.
I potenti signori dell’Anas battezzarono il Raccordo come “autostrada urbana”. Di fatto un ossimoro. Come può un largo nastro d’asfalto (l’autostrada) farsi largo nel tessuto compatto di una città costruita nel tempo: prima dentro le mura e, poi, con una marmellata di case, addossate le une alle altre con insufficienti strade (l’urbano, spalmate tra le vie consolari)? Girandogli intorno. Questo è quanto è stato fatto e, anche questo, ha segnato il primato del trasporto automobilistico privato come elemento principale del muoversi in città.
Solo che, a differenza del Grande Raccordo, che nel tempo prima si è saldato e poi si è andato facendo sempre più largo, la città, Roma, ha subito un metabolismo diverso. Fatto, certo, di aberranti forme di ingrassamento, figlie del processo bulimico della rendita, ma soprattutto facendo dell’urbanizzazione, e quindi della costruzione della città, la struttura principale dell’accumulazione capitalistica.
Il Grande Raccordo Anulare misurabile in termini di chilometri è invece immisurabile. In questa parte della metropoli perde (ma lo è mai stato?) il suo essere un elemento dimensionale, un limite (come le mura), un confine (non individua un dentro e un fuori), un essere lontano e un essere vicino in una città in cui la periferia non è mai stata capace di costruirsi come un’alternativa reale al centro storico. E’ un oltre. Un’ “astrazione“ come ci raccontava Renato Nicolini . Un segno artistico “senza nessun collegamento, dove gli snodi in cui le consolari attraversano il GRA non hanno motivo di essere, tranne l’assolutezza del cerchio”. Una “ macchina celibe , forse - ancora Renato - qualcosa di grande forza simbolica- continuazione ideale della cupola di San Pietro, ma anche, del tempietto di San Pietro in Montorio del Bramante”.
Un ritratto esatto. Il GRA poggiando sul territorio dell’oltrecittà, dice molto di più delle storie (delle vite) che incontra, diventa il simbolo di come il capitale finanziario costruisce la città scippando le trasformazioni urbane a chi materialmente le produce e privando chi è condannato a vivere in questo abitare di ogni diritto alla città. Il GRA è il simbolo dell’Oltrecittà, quella parte del proprio territorio dove Roma è diventata metropoli perché lì, ma non solo, è iniziata a pensarsi come luogo dove far coesistere le trasformazioni territoriali e quelle istituzionali.
E’ lì che si sommano gli immobili invenduti perché si vuole ogni cittadino indebitato per il resto della vita, ma anche con questo non avrà casa; è lì che i padroni dei “residence” succhiano soldi (tanti) al Comune per riciclare, in case dalle cento finestre corrispondenti ad altrettanti monolocali, le tante famiglie buttate sulla strada magari da quelle stesse case fonte dell’indebitamento; è lì che si costruiscono i recinti “ sicuri” in cui ci si accorge che si ha paura ad abitare in schiere edilizie circondati dall’isolamento sociale, è lì che si costruisce il disprezzo per le “periferie”, per chi le abita, per chi le attraversa; è lì che si torna elezione dopo elezione per dire che finalmente è pronto qualcuno a rappresentarti. E’ in questo magma che il film si cala, costruendo non una storia, ma sommandone alcune.
Solo che, tutte, sembrano avere in comune una sorta di rassegnazione. Lo è quella della ragazza, che vive con il padre in un monolocale, che aspetta che qualcosa accada; lo è quella di chi, sempre nel medesimo residence, rimpiange la casetta del campeggio dove era stata ospitata; lo è quella del sedicente convintissimo principe che affitta per location di set per fotoromanzi (esistono ancora?) una residenza costruita intorno una vasca da bagno dorata, lo è quella della ragazza che balla sul bancone di un bar (attenta a non sbattere la testa su una trave che, anche con le riprese fatte dall’esterno e la sapiente colorazione di Luca Bigazzi, riporta quel locale più che al “Nightawks” di Hopper alla trascuratezza costruttiva di un ingegneraccio romano) decisa a fare a meno del “rossetto rosso che la fa tanto troia”; lo è il pescatore di anguille che sta lì in una casa sul fiume come “mio padre e mio nonno” che ci fa capire, sbeffeggiando il “sapere” di chi si occupa delle sue stesse cose aggravato dal fatto di trovarselo scritto su di un giornale, il senso vero del film: andare a vedere chi ha rinunciato all’abitudine delle relazioni.
L’oltrecittà è metropoli, il luogo dove è più alta la forma di resistenza alla privazione del plusvalore prodotto dall’attività del comune. Nel cerchio del GRA di Rosi non c’è traccia . Ad accorgersene a suo modo è il cacciatore del “punteruolo rosso” che ha capito che per salvare le palme deve riuscire ad ascoltarle. C’è bisogno di ascolto. Lui lo fa con violenza forte della sua “missione”. L’unico a provarci è forse il barelliere con la sua giornata in cui, non per mestiere, mette in pratica esercizi di cura verso gli altri: asciuga le mani dell’anziana mamma preda ad una forma di perdita senile di memoria, le tira fuori i gorgoglii di quand’era bambina, fa lo stesso, aiutandosi con garze e fazzolettini, togliendo il sangue dal volto verso chi raccoglie dopo un incidente, ma non trova nessuno che mostri attenzione a lui. Così per avere compagnia mangia parlando con una ragazza pescata in un collegamento Skype con il computer infilato tra piatto e bicchiere.
Tutti i protagonisti del film, personaggi reali, che sullo schermo interpretano se stessi e le loro storie di ordinaria rinuncia, sembrano riciclare intorno quell’anello un abitare che non hanno mai avuto. Che sono decisi a rinunciare ad avere. Costretti a scegliere (ed accettare?), come sono: se in quei pochi metri quadri mettere un tavolo o un letto o, quando c’è la necessità di tutti e due, optare per la soluzione del letto a castello; a ricevere dalla città quale esclusivo elemento di spettacolo solo traffico; a stupirsi di vedere un segno urbano (ringraziare?) che “comunque il cupolone si vede anche da qui; ad assicurare ( quindi tutto funziona ?) che quella strada gira e rigira, ma trova sempre, se hai un incidente, come portarti all’Ospedale; che affittando stanze puoi tirar su i soldi e continuare a compiacerti della pergamena che elenca i tuoi “titoli”; che da solo puoi, non tanto salvare una palma, ma far valere le “tue ragioni” che tu si che….; che puoi continuare a vendere il tuo corpo con la libertà di scegliere di farlo a casa tua e, quindi, alzare il prezzo; di parlare di vini e di viaggi che non hai mai fatto, ma che devono essere certo descritti in qualche libro che forse hai letto…..
Percorrendo l’Oltrecittà solo pochi anni prima (il progetto ancora continua) gli Stalker (gruppo interdisciplinare di esplorazioni urbane) hanno saputo trovare e riportare sulla scena urbana altre storie. Persone e comunità resistenti, conflitti e progetti di trasformazione, saperi e lavori , affetti, lotte e sogni. Sempre, girando a piedi intorno lo stesso anello, ovunque incontrando in tutti (e fornendo a chi li ha accompagnati in questi anni di viaggio) la consapevolezza di essere lì dove viene rivendicato il diritto alla città.
L’occhio di Rosi pare non volersene accorgere preferendo sezionare la vita degli “altri” quasi con intento divulgativo. E’ casuale che faccia parte del gruppo di produzione il medesimo produttore (Marco Visalberghi) che da sempre segue le incursioni televisive di Piero Angela?
Solo qualche mese fa lo Gianfranco Rosi ci ha consegnato una preziosa “anteprima”; una sorta di “prologo”al suo lavoro, in cui Renato Nicolini ripreso in un viaggio sul GRA in un camper, ci raccontava una Roma diversa, perché sapeva che a quell’anello comunque erano aggrappati, o sfiorava, tanti “ futuri possibili”. Gianfranco Rosi, con straordinarietà, è riuscito in quell’occasione a farsi complice di Renato nel farci capire che il futuro a cui lui faceva riferimento era quello anteriore: il tempo in cui pensiamo all’oggetto del nostro interesse come realizzato anche se ancora ciò non è avvenuto. Renato sapeva che il dominio del capitale finanziario ci avrebbe stretto intorno questa città, ma che saremo stati capaci ( avremo lottato) per liberarsene.
Non ho “individuato” il posto dove il GRA seziona le piste de minibolidi, ma ho ben riconosciuto, per averla progettata qualche anno fa, una piazza ritagliata all’interno di una zona di edilizia popolare. Lasciata alla più completa assenza di ogni forma di manutenzione è oggi quasi una miniforesta. Vedendo che non ci sono però elementi di degrado o di rottura delle sedute o delle pavimentazioni mi pare di capire che chi quella piazza usa, anche lasciando crescere il verde, non ha rinunciato a far morire uno spazio di libertà dal cemento. Intorno al GRA nell’oltrecittà il viaggio continua.
». Altreconomia.info, 28 settembre 2013
"Se picchi emotivi di rabbia indignata non lasciano spazio alla rassegnazione, c'è ancora spazio per resistere alla devastazione del territorio". In occasione del “digiunoperlambiente promosso il 28 e 29 settembre da numerosi comitati veneti contro Grandi opere e Project Financing, Ae intervista Francesco Vallerani, geografo dell'Università Ca' Foscari e autore di Italia desnuda. Percorsi di resistenza nel Paese del cemento
«L'Italia sarà sempre più desnuda se, dopo i picchi emotivi di rabbia indignata, il disagio di vivere tra i cannibali del paesaggio si tramuterà in rassegnazione» scrive Francesco Vallerani presentando il suo libro, Italia desnuda. Percorsi di resistenza nel Paese del cemento (Edizioni Unicopli, 2013). Vallerani, che insegna Geografia all'Università Ca' Foscari-Venezia, è veneto, ed il Veneto - un paesaggio che ha subito negli ultimi decenni eccessive trasformazioni- è l'ambito privilegiato dei suoi studi. E poiché i processi di cementificazione non paiono destinati a fermarsi, il 28 e 29 settembre numerosi comitati veneti (cittadini che non si rassegnano, e coltivano la propria indignazione) hanno scelto di lanciare un messaggio contro le grandi opere, digiunando contro “la devastazione del territorio”. È un "digiunoperlambiente che - secondo Vallerani- rappresenta “una strategia valida per tenere alta l’attenzione sulla necessità assoluta di salvare il salvabile, e bloccare una volta per tutte la corsa folle verso l’accaparramento di ciò che ancora resta di preziose risorse territoriali”.
Nel tuo libro, evidenzi il rischio di "noncuranza", "assuefazione", di una "indifferenza che placa i disagi" di questa invasione del cemento. In che modo il "digiuno a staffetta" -promosso al termine dell'iniziativa "solitaria" di Don Albino Bizzotto - rompe questo stato di cose? Che effetto può avere?
«Noncuranza è figlia dell’indifferenza, che va di pari passo con la superficialità con cui si affronta ogni aspetto della vita quotidiana, accontentandosi di spiegazioni semplificate e senza alcun interesse per un percorso esistenziale consapevole. Questo è uno dei frutti velenosi diffusi ampiamente nei decenni di videocrazia in cui siamo immersi, regime che senza manganelli e olio di ricino ha distratto e addormentato le coscienze, lasciando ampio spazio a una progressiva erosione e impoverimento delle regole necessarie alla convivenza civile. L’invasione del cemento, con tutte le sue devastanti tipologie, è uno degli esiti più appariscenti di questo elogio delle strategie per l’arricchimento individuale.
«Le conseguenze del disastro sono di fronte agli occhi di tutti e la politica, tenuta in scacco dagli immensi interessi immobiliari e delle grandi opere, si è rivelata incapace di governare l’evolversi della territorialità. Se le leggi non servono, poiché trionfa il meccanismo delle deroghe e degli abusi, non restano che le azioni di elevato valore evocativo e simbolico, come la straordinaria scelta del digiuno di Don Albino, quanto mai opportuno e benefico sasso lanciato nel maleodorante e torbido stagno dell’indifferenza pubblica e privata. Dopo la risonanza mediatica del singolo fatto, fa piacere notare la reazione dei cittadini di buona volontà che nonostante tutto riescono a sopravvivere in una regione come il Veneto. L’indignazione e il disagio che ho potuto rilevare è causato non solo dalla colpevole latitanza delle istituzioni - che non hanno vigilato sul pregio di importanza globale dell’ex paesaggio palladiano, consegnandolo ai posteri sotto forma di una sgangherata accozzaglia di obbrobri edilizi, con inoltre aria e acque seriamente contaminate -, ma anche dai nuovi scenari previsti in un immediato futuro, fatto di nuove infrastrutture viarie, nuove e pervasive edificabilità, contaminazione definitiva dei paesaggi più attrattivi».
Per quale motivo, a tuo avviso, il Veneto -che è stato un esempio di urbanesimo per il nostro Paese- è diventato oggi un paradiso per capannoni? Perché sta accadendo questo, intorno ai centri storici e alle Ville palladiane, che sono un Patrimonio dell'umanità Unesco?
«In Veneto le popolazioni hanno trovato, fin dai tempi della colonizzazione romana (basti pensare alla intensa distribuzione di agri centuriati, ancora oggi facilmente visibili tra Padova, Treviso e Mestre) ottime condizioni ambientali per un vantaggioso insediamento, per lo più collegate alla fertilità dei suoli, all’abbondanza di acque, sia per l’irrigazione che per i trasporti verso il litorale, e di boschi.
Inoltre, la distribuzione sparsa delle abitazioni, raramente aggregatesi in villaggi compatti, si consolida in età medievale con una fitta distribuzione di pievi rurali, attorno a cui si aggregano le prime unità di villaggio. Queste costituiscono una fitta rete di relazioni legate al mondo rurale, da cui emergono numerose polarità di importanza strategica -soprattutto nel periodo di frequenti conflitti tra i liberi comuni di Verona, Vicenza, Padova e Treviso-.
Centri che sono ancora oggi delimitati da importanti cinta murarie (Cittadella, Montagnana, Soave, Este etc.).
L’eredità storica di case sparse e città murate sono simboli tuttora indelebili di spiccato individualismo e di chiusura contro l’altro, per cui fin dalle origini prevale il proprio tornaconto o quello di una comunità ristretta rispetto al bene comune. Il mancato rispetto dei contesti attorno ai centri storici e alla maggior parte delle ville di età veneta ha inoltre a che fare con le condizioni di profonda miseria e ignoranza, e soprattutto con le politiche nazionali che non sono riuscite a capire che l’emergenza del primo dopoguerra si era esaurita alla fine degli anni ’50, anche tra gli ex poveri emigranti veneti.
È mancata una guida urbanistica, ma soprattutto etica, con gravi responsabilità anche da parte della Chiesa, che non ha per nulla rallentato la china rovinosa verso l’insaziabile rincorsa al benavere, travolgendo ogni valore e sacralità del creato, deviando invece verso la nuova religione del denaro e del successo economico. Ecco perché è perfetta la definizione di “paradiso per capannoni”».
In "Italia desnuda" evidenzi come, da Calvino a Settis, il mondo della cultura abbia avuto un ruolo fondamentale nel descrivere il paesaggio e le sue trasformazioni a partire dagli anni Cinquanta. Se è vero che Antonio Cederna riuscì a far istituire il Parco dell'Appia antica, per quale motivo credi che oggi l'effetto congiunto di indignazione intellettuale ed "azione popolare" non producano gli stessi effetti?
«Il caso di Cederna e del parco dell’Appia Antica è più unico che raro: tutte le altre voci che si sono levate in difesa del paesaggio italiano tra gli anni ’50 e ‘60 hanno avuto poco esito, salvo il caso della legge di tutela dei Colli Euganei, nel 1971, che ha bloccato il prelievo di trachite dagli splendidi poggi amati e descritti da Petrarca, Foscolo, Byron e Shelley.
Oggi l’indignazione intellettuale è senza dubbio molto più diffusa, ma per incidere sull’opinione pubblica e smuovere i responsabili politici per un tempo poco più lungo di uno spot pubblicitario (è questa ormai l’unità di misura per valutare il livello di attenzione, in quest’epoca di superficialità liquida), è necessario l’intervento del personaggio molto esposto nelle reti televisive, di abilità oratoria, dotato di qualità telegenica, dunque un tipico esemplare da talk show.
Il contributo delle centinaia di altri prestigiosi intellettuali che per fortuna ancora operano in questo sciagurato Paese rimane relegato in qualche aula universitaria, nelle riunioni di comitati, in qualche libro o articolo di modesta tiratura, quasi mai recensiti dagli organi di stampa (anche i cosiddetti progressisti e democratici).
«Non resta che l’azione popolare, ma anche qui bisogna essere rumorosi (non violenti), elaborare strategie insolite, come nel caso (di enorme efficacia mediatica a livello globale) dei coraggiosi che a nuoto si sono messi di traverso alle grandi navi nel canale della Giudecca a Venezia.
Ricordo con nostalgia il generoso contributo dato da Andrea Zanzotto alla battaglia per la difesa del paesaggio veneto, producendo larga condivisione. Tale successo è stato addirittura avvallato dai vertici della regione, garantendo con retorica solennità la tanto auspicata inversione di tendenza. Le solite parole senza seguito, effimera condivisione che però mai hanno avuto seguito concreto: anche oggi il viaggio nell’entroterra di Venezia consente di riempire un ancora troppo spesso quaderno di doglianze».
Verso la rottura il miracoloso equilibrio tra città e campagna che il PRG di Giovanni Astengo (1965-72) aveva tentato di tutelare? Sembra di si. Occhi aperti su Assisi. Il Fatto Quotidiano, 25 settembre2013
Se Assisi è ancora quella che è, e cioè “un esempio unico di continuità storica di una città con il suo paesaggio culturale e l’insieme del sistema territoriale” (così la motivazione con la quale l’Unesco ha inserito la città nel canone del patrimonio dell’umanità), non lo si deve (solo) alla provvidenza di Dio, ma anche alla saggezza e alla lungimiranza dei suoi cittadini. Virtù, queste ultime, che si sono incarnate nel Piano Regolatore Generale del Comune di Assisi approvato nel 1972 e redatto sotto la guida dell’architetto Giovanni Astengo: un piano che ha permesso ad Assisi di superare, se non intatta, certo ancora “viva ” la stagione della grande cementificazione che ha stravolto l’Italia.
Ora c’è chi ritiene che quella saggezza si sia decisamente appannata. Lo scorso 8 agosto il Movimento 5 Stelle ha presentato, al Senato, un'interrogazione a risposta scritta ai Ministri dell’Ambiente e per i Beni Culturali in cui si chiede, tra l’altro, “quali misure intendano adottare per garantire, in uno dei luoghi più importanti al mondo, l’adozione di un piano regolatore regionale che non permetta nuova cementificazione”. Al fondo dell’interrogazione sta una forte preoccupazione per l’approvazione del nuovo Piano regolatore di Assisi, che manda in pensione quello di Astengo senza averne – secondo molti – le virtù. L’interrogazione ricalca in parte un dettagliato studio dell’ingegner Paolo Marcucci, consigliere comunale di opposizione, che dimostra come “rispetto al precedente Piano Astengo, la linea di inedificabilità assoluta a protezione del Colle Storico è stata arretrata verso la città murata, rendendo tale parte della zona agricola collinare posta al di sotto della città murata di Assisi priva della necessaria tutela”. La stessa riduzione di tutela si registra per le zone collinari ad ovest delle mura, e nella già provata pianura. In più il piano licenziato dal Comune prevede l'inserimento di nuove zone edificabili sulle mitiche colline di Assisi, e in zone finora agricole.
Il sindaco di Assisi ha risposto alle critiche nel modo peggiore, e cioè annunciando querele contro chi rovinerebbe l'immagine della città. Già: ma chi davvero la sta rovinando?
Non è aumentando la “moneta urbanistica” (i metri cubi edificabili), magari con la conferma di atti illegittimi della Giunta Alemanno, che si rigenerano la periferie, ma eliminando la stretta creditizia. La Repubblica, ed. Roma, 20 settembre 2013
ASSESSORE Caudo, i costruttori di Roma chiedono al Comune regole certe e tempi brevi per ottenere le concessioni. Anche perché, dicono, senza certezze le banche non aprono le borse...
«Con le associazioni dei costruttori, fin dall’insediamento, abbiamo aperto un tavolo operativo. Concordo con il presidente Bianchi, quando indica la rigenerazione urbana come un’opportunità anche per gli imprenditori. Delle sue argomentazioni mi sembra centrale quella dell’accesso al credito che è questione di rilevanza strategica».
Come risolvere il problema?
«Intanto diciamo che è un problema comune, perché la difficoltà di accesso al credito per le imprese ha fatto lievitare nei nostri uffici le giacenze dei permessi a costruire, già pronti ma non ritirati. I cantieri non aprono e le imprese sono in difficoltà. In difficoltà è anche il Comune che vede diminuire l’incasso degli oneri di urbanizzazione. Erano circa cento milioni di euro l’anno, prima della crisi, oggi siamo intorno ai 41 milioni di euro. E questo è un problema di risorse per le politiche sociali e i servizi ».
Perché i permessi non vengono ritirati?
«Per la mancanza di risorse economiche. Ad oggi abbiamo circa 700 permessi di costruzione non ritirati. Dall’aprile di quest’anno sono aumentati di ben 200».
Come sbloccare la situazione?
«Va sbloccata insieme: il Comune, le imprese, il sistema economico della città da una parte e il sistema creditizio dall’altro. Riporto qui quanto è emerso negli incontri che ho organizzato in proposito con gli istituti di credito.
Qual è la soluzione?
«Le banche sarebbero disposte ad aumentare la loro disponibilità al credito verso le imprese a fronte di una maggiore presenza anche di garanzie del sistema regionale ».
Come ci si può muovere?
«Proponiamo un patto civico tra Comune e imprese per rendere credibile nei confronti del sistema creditizio le proposte progettuali. L’obiettivo potrebbe essere di ridurre del 20% le giacenze entro l’anno. Oggi le difficoltà di finanziamento spingono le imprese a ricorrere a quella che viene definita la “moneta urbanistica”».
Ossia?
Le quantità edificabili sono utilizzate come garanzia ma il ricorso alla sola “moneta urbanistica” deforma il sistema economico e costruisce una città poco vivibile ».
In concreto?
«Riconosciamo l’esigenza di poter utilizzare queste garanzie ma dobbiamo anche riportare il ragionamento alla qualità dei quartieri che si realizzano, che non è solo misurabile in metri cubi. Per questo il patto che proponiamo è “civico”, perché aiuta le imprese e rende gli interventi urbanistici più sostenibili sotto il profilo sociale e ambientale».
Riferimenti
A proposito degli atti illeggittimi della maggioranza Alemanno vedi l’articolo di Giuseppe Paglino e la documentazione sul sito carteinregola
1l manifesto, 19 settembre 2013. Con postilla
Il 2 agosto 2013, a seguito dell'approvazione da parte del ministero per i Beni Culturali, la Giunta Regionale della Puglia presieduta da Nichi Vendola ha finalmente potuto adottare il Piano Paesaggistico Territoriale Regionale, predisposto dall'ottimo assessore alla qualità del territorio Angela Barbanente, frutto di un complesso e lungo lavoro, che ha visto all'opera una grande équipe di specialisti coordinata da Alberto Magnaghi, uno dei più grandi urbanisti a livello internazionale.
Le motivazioni dichiarate si basano su una presunta mancata condivisione. La motivazione reale è, invece, il terrore per un Piano che disegna una Puglia diversa, innovativa, con progetti di sviluppo sostenibile e compatibile con le peculiarità del territorio; un Piano che blocca il bulimico consumo di territorio; un Piano fondato su una solida base conoscitiva e dotato di una Carta Regionale dei Beni Culturali nella quale sono censiti oltre diecimila siti di interesse culturale; un Piano che non si limita a proporre un approccio estetico e a proteggere alcune énclaves, isole di "bel paesaggio" in un oceano di brutture e di cemento, ma che si occupa dell'intero territorio regionale, delle periferie, delle coste, delle aree interne; un Piano che è ormai considerato un modello, studiato e imitato da molte altre regioni italiane. Un vero primato pugliese, anche perché è effettivamente il primo Piano Paesaggistico adottato in Italia, con le nuove norme.
Assurda appare proprio la tardiva critica di mancata condivisione. Quello della Puglia è, infatti, un Piano largamente condiviso, frutto di un'impostazione realmente democratica e partecipata. Non solo perché ci hanno lavorato nel corso di molti anni decine di specialisti provenienti dalle quattro università della Puglia e di altre regioni italiane e un ampio gruppo di giovani ricercatori e di professionisti, con l'apporto di numerose associazioni e di migliaia di cittadini, ma perché è stato presentato e discusso in molte conferenze d'aria (non meno di 13) tenute tanto nelle città principali quanto in piccoli centri della Puglia. Il Piano è stato, inoltre, oggetto anche di numerose pubblicazioni ed è interamente consultabile fin dal 2010, data della prima approvazione regionale, su uno specifico sito web ( http://paesaggio.regione.puglia.it ).
Gli attacchi sono chiaramente strumentali e denotano anche una sostanziale ignoranza del Piano. Gli oppositori, inoltre, si affannano a presentare quanti hanno contribuito a predisporre il Piano e quanti ora ne difendono la filosofia, come dei talebani, illiberali, centralisti, vincolisti, fanatici che vogliono affamare la Puglia e bloccarne lo 2sviluppo". Nulla di più sbagliato! Il Pptr della Puglia è tutt'altro che vincolistico, ma insiste sulle premialità, sugli incentivi, sulle buone prassi da diffondere. Non pensa di trasformare la Puglia in un immenso museo o in un grande Parco naturalistico, ma di favorire nuove e più innovative procedure di sviluppo del territorio. Si tratta, dunque, di obiettivi che anche gli ambienti più avveduti degli imprenditori, degli stessi costruttori, dei professionisti dovrebbero condividere, ampliando lo sguardo alle realtà più evolute del mondo.
Mi auguro che i partiti della sinistra, le associazioni culturali e ambientali, i settori più avveduti e avanzati delle professioni e della società civile, facciano sentire forte la propria voce, per evitare che prevalgano gli interessi particolari nel bloccare o stravolgere il Pptr, sollecitando tutti semmai a contribuire a migliorare ulteriormente questo straordinario strumento democratico di pianificazione del futuro della Puglia.
Non mancano anche attacchi da parte di chi considera il Piano addirittura eccessivamente permissivo e accomodante. A costoro ricordo l'esperienza della giunta di Renato Soru in Sardegna, caduta proprio sul Piano Paesaggistico. Cosa è successo successivamente con le politiche di Ugo Cappellacci è sotto gli occhi di tutti.
In Puglia è aperto un confronto tra diverse visioni, non solo politiche ed economiche ma anche culturali, tra chi cerca di difendere e valorizzare i beni comuni, i patrimoni culturali, i monumenti e siti archeologici, i paesaggi unici, l'agricoltura sana, lo sviluppo turistico di qualità, l'industria culturale, la ricerca e innovazione, e chi propone ancora retrive e disastrose politiche di un malinteso sviluppo basato solo su cementificazione, inquinamento, consumo di territorio, devastazione di paesaggi, degrado delle periferie, deturpamento delle coste, avvelenamento dell'agricoltura, a vantaggio di pochissimi e con gravi danni economici, sociali, sanitari e culturali della stragrande maggioranza dei cittadini pugliesi,che certamente non intendono tornare ad un passato che solo pochissimi nostalgici rimpiangono. Un confronto che ha una valenza non solo regionale ma anche nazionale ed europea.
L’ignobile schifezza delle “compensazioni“ difesa da un accordo bipartisan nella maggioranza consiliare che dice di sostenere Ignazio Marino mentre difende il lascito del devastatore Alemanno. Poi dichiarano di voler contrastare il consumo di suolo e difendere la legalità. Il Fatto quotidiano online, 17 settembre 2013
Cancellare e ritirare tutti gli atti dell’amministrazione Alemanno che aggravano il consumo di nuovo suolo agricolo”. Questa la promessa fatta in campagna elettorale dal candidato sindaco di Roma del centrosinistra, Ignazio Marino. “La città – recitava ancora il programma elettorale ‘Roma è vita’ – deve sapere con assoluta chiarezza che quel modello di sviluppo urbano è definitivamente concluso”. Ed effettivamente uno dei primi provvedimenti dell’ex senatore Pd, indossata la fascia tricolore, è stato – insieme alla discussa pedonalizzazione dei Fori imperiali – proprio quello di cancellare una delle scelte urbanistiche più contestate all’amministrazione Alemanno: il bando per il reperimento di aree agricole per la realizzazione di alloggi per l’housing sociale.
Nonostante l’impegno preso da Marino con i propri elettori, l’Agro romano potrebbe però essere ugualmente coperto da una nuova colata di cemento. Si dice infatti “allibito” il comitato cittadino Carte in regola, dopo la denuncia su Facebook del consigliere comunale del M5S, Daniele Frongia. Le commissioni congiunte Urbanistica e Patrimonio, entrambe presiedute da due esponenti del Pd (Antonio Stampete e Pierpaolo Pedetti), “si sono espresse in modo bipartisan (Pd-Pdl), con il solo voto contrario di Frongia e l’assenza dei consiglieri di Sel e Lista Marchini, a favore della immediata pubblicazione” di una delle delibere più contestate, tra quelle approvate in tutta fretta nell’ultima seduta di Consiglio comunale targato Alemanno lo scorso 10 aprile. E’ la 69/2012, con la quale vengono riconosciute all’Ater, Azienda territoriale per l’edilizia residenziale, e a numerosi proprietari privati di aree situate a Casal Giudeo compensazioni edificatorie. Per un totale di 1,3 milioni di metri cubi.
“Una delibera con forti dubbi di illegittimità” denuncia il comitato Carte in regola. Perché quei terreni nel 2003, con l’adozione del nuovo piano regolatore generale, vennero modificati da zona edificabile (secondo quanto prevedeva il P.R.G del 1965) a zona agricola con valenza ambientale. Nel merito si è espresso anche il Tar che, nei mesi scorsi, ha respinto il ricorso di un privato, confermando l’argomentazione formulata nel 2006 dal Comune di Roma, in risposta alle osservazioni presentate dallo stesso richiedente (“l’area in oggetto costituisce parte integrante del sistema ambientale”). E dunque: “Non tutte le volumetrie legittimamente soppresse per una scelta di riduzione delle quantità edilizie da parte dell’Amministrazione sviluppata nelle ultime tre Varianti, possono essere “compensate” senza vanificare le scelte urbanistiche dell’Ente locale – si legge nella sentenza del Tar del Lazio del novembre 2012 – (…) E’ necessario tener conto del perseguimento degli obiettivi di interesse pubblico o generale, fra i quali assume essenziale rilievo la riduzione delle volumetrie generali, cardine del NPRG”. Perciò “se venisse confermata – paventa il comitato Carte in regola – la delibera costituirebbe un precedente in grado di innestare un “effetto domino” devastante, perché autorizzerebbe tutti gli esclusi dalle “compensazioni” derivanti dalla Variante delle Certezze e previste dal PRG a pretendere dal Comune lo stesso trattamento”.
project financing e l'inerzia culturale nella tutela del territorio»
Un grazie molto sentito e sincero al Presidente Clodovaldo Ruffato e un saluto molto cordiale a tutti voi. In questi giorni ho pensato molto a questo incontro per dare al grido del digiuno non un significato di contrapposizione, ma di coinvolgimento.
Lo sapete che il digiuno prolungato mette le persone in uno stato di grande debolezza fisica per cui costituzionalmente si ha bisogno degli altri e qui anche istituzionalmente.
Voi forse vi aspettate che venga subito al nocciolo per quanto concerne la nostra Regione, il campo dove lavorate come nostri rappresentanti. Invece sono obbligato da un'altra partenza. Non spetta a me e nemmeno sono competente per suggerire soluzioni tecniche. Ho scelto di esporvi il mio travaglio, senza pretese, ma con grande schiettezza pur nel rispetto e nella riconoscenza per quello che ognuno di voi cerca di realizzare per il bene comune. (Tenete presente che da anni la mia attività si muove su due versanti: quello sociale con le situazioni più povere e precarie; nello specifico oggi con le persone che hanno perso il lavoro e il settore dei sinti e rom. Sul versante politico alcuni interventi di interposizione nonviolenta in zone di conflitto armato ed educazione alla nonviolenza e alla pace; anche conoscenza e partecipazione alle attività di molti comitati ambientali grazie al servizio di informazione con Radio Cooperativa.
Il mio digiuno è partito alla chetichella la sera di ferragosto, ma è stato come avessi levato il tappo a una bottiglia.
Esiste una sofferenza diffusa per quanto concerne le scelte ambientali. Non avrei mai pensato che il digiuno sarebbe stato scelto come modo di impegnarsi per l’ambiente e per sensibilizzare la popolazione.
Vengo al mio percorso.
Quello che mi ha scioccato da due anni a questa parte sono due dati uno generale e uno locale.
1. Il pianeta.
Cito: “ Ci troviamo di fronte a una svolta nella storia del pianeta, in un momento in cui l’umanità deve scegliere il suo futuro (...) La scelta sta a noi: o creiamo un’alleanza globale per proteggere la Terra e occuparci gli uni degli altri, oppure rischiamo la distruzione, la nostra e quella della diversità della vita”. Ho citato dalla “Carta della Terra”.
Le due principali fonti di distruzione:
a) la macchina di morte della tecno-scienza: armi nucleari, chimiche e biologiche (25 modi diversi per distruggere l’umanità) b) il caos che abbiamo creato nel sistema Terra e che si manifesta attraverso il riscaldamento globale. Negli ultimi 5 anni si sta registrando, non solo il disgelo delle calotte polari, ma anche lo scioglimento del permafrost, il suolo perennemente ghiacciato del Canada e della Russia, con l’immissione in atmosfera di milioni di tonnellate di metano, che è 23 volte più dannoso dell’anidride carbonica per l’effetto serra. L’ossido nitroso, liberato dai fertilizzanti è 40 volte più distruttivo. Secondo l’ultimo rapporto ONU di valutazione degli Ecosistemi del Millennio, dei 24 elementi che sono fondamentali per la vita, 15 registrano un elevato grado di degenerazione; il pianeta è esausto, la madre Terra ha raggiunto il limite di sopportazione.
Il 20 agosto scorso l’umanità ha esaurito le risorse naturali che aveva a disposizione per l’intero 2013; in meno di 8 mesi sono state consumate le riserve di cibo (vegetale e animale), acqua e materia prime che sarebbero dovute bastare fino al 31 dicembre, immettendo nell’ambiente (suolo, fiumi, mari, atmosfera) una quantità di rifiuti e inquinanti superiore alla capacità di smaltimento del pianeta.
Questi dati, probabilmente noti a molti di voi, li sentite come una notizia pur importante o come una emergenza reale? E se è vera emergenza va affrontata direttamente e subito, o dobbiamo aspettare che tutti siano d’accordo per partire? Quelli forniti non sono sentimenti, sono dati. Questo mondo in cui siamo cresciuti è finito, la crisi sta imprimendo un velocità imprevedibile. Qualcuno pensa che in qualche modo la crescita sarà una via d’uscita? Questa crisi non è solo economico finanziaria, è entropica.
Il pianeta così come stanno le cose, oggettivamente non ce la fa più.
2. Il Veneto
Vengo al secondo dato: il Veneto.
La mia origine è stata segnata dall’appartenenza alla Terra. I miei genitori, che vivevano da fittavoli in una grande famiglia patriarcale, hanno scelto di passare a una condizione di mezzadri pur di crescere una famiglia come sembrava loro giusto. La penultima categoria della società, dopo c’erano i braccianti.
Devo confessarvi che i dati riguardanti il consumo di suolo nel Veneto per me sono stati alla base della decisione del digiuno, perché sono direttamente collegati a quanto riferito sopra sulla situazione globale. Il Veneto è una delle Regioni più attive nel mondo nell’affaticare il pianeta. C’è stata una crescita esponenziale delle infrastrutture viarie e delle urbanizzazioni, una crescita indifferente alla storia, alla natura dei luoghi e ai valori del paesaggio veneto, accompagnata dalla polverizzazione delle imprese diffuse ovunque, che hanno comportato la dispersione insediativa e la conseguente congestione delle infrastrutture della mobilità.
La cementificazione dei suoli riguarda quindi anche i terreni più fertili della pianura veneta, mentre la costruzione di sempre nuove strade, autostrade e superstrade, svincoli e tangenziali hanno determinato una ulteriore frammentazione degli spazi destinati all’agricoltura.
È stato un crescendo dagli anni 80 in poi: dai 72 milioni di mq all’anno di perdita di Suolo Agrario Utilizzato degli anni Ottanta, ai 97 milioni mq/anno negli anni Novanta, ai 182 milioni mq/anno dal 2000 in poi. Un consumo di suolo pari a 38 ettari al giorno. Tra il 2000 e 2010, a fronte di un incremento della popolazione di 429.274 abitanti, sono state costruite 367.354 nuove abitazioni per una popolazione di 1 milione di abitanti.
Il Veneto così risulta la regione più cementificata d’Italia. Un modello di sviluppo la cui insostenibilità viene evidenziata anche dai dati relativi all’impronta ecologica dei suoi abitanti . Nel 2009 al Piano Regionale di Coordinamento (PTRC) si riscontra che, a fronte di una media nazionale pari a 4,2 ettari pro capite/anno, l’impronta ecologica degli abitanti del Veneto è pari a 6,43 ettari pro capite/anno . Cioè per sostenere i consumi e assorbire l’inquinamento di ogni abitante veneto sono necessari 6,43 ettari di terreni “biologicamente attivi”. Ma la “ bio-capacità ” del Veneto è pari a 1,62 ettari/abitante, quindi un “deficit ecologico” di 4,81 ettari pro capite/anno; deficit finora compensato con lo sfruttamento di risorse di altre regioni e continenti, ma che è facile prevedere, con la rapida crescita economica di Paesi emergenti, non sarà più praticabile in un prossimo futuro.
Il Veneto già oggi non ha l’autosufficienza alimentare. So che conoscete bene i dati che vi ho esposto. Ma averli tutti davanti rimane comunque indispensabile per guardare a quello che stiamo facendo e cercare di trovare risposte per andare avanti. Sono cifre che basta conoscere o cifre che ci impongono una svolta? È in emergenza reale anche il Veneto o si trova soltanto in una situazione un po’ critica? Al camper durante il digiuno erano appesi i 30 progetti iniziati o in partenza di strade e autostrade, i vari poli ospedalieri e le opere marittime. Non c’erano Veneto city – Tessera city – Motor city – né le cave, le discariche (a parte quella di Vianelle) le centrali idroelettriche, a biogas, a biomasse, né i dati rispetto alla fragilità idrica del territorio e all’inquinamento dell’aria. La pianura padana è una delle zone più inquinate e inquinanti d’Europa .
E pensare che a livello comunitario al 2050 dovremo ridurre del 70% il consumo energetico nei trasporti rispetto al 2009 e ridurre del 60% le emissioni di gas climalteranti rispetto al 2008! Un documento della Chiesa italiana del settembre 2012 è intitolato “Educare alla custodia del creato per sanare le ferite della Terra” e testualmente dice: “Ritessere l’alleanza tra l’uomo e il creato significa anche affrontare con decisione i problemi aperti e i nodi particolarmente delicati, che mostrano quanto ampie e complesse siano le questioni legate all’intreccio tra realtà ambientale e comunità umana”. Accanto all’annuncio infatti, è necessaria anche la denuncia di ciò che viola per avidità la sacralità della vita e il dono della Terra”. E continua: “L’ambiente naturale non è una materia di cui disporre a piacimento, ma un’opera mirabile del Creatore, recanti in sé una grammatica che indica finalità e criteri per un uso sapiente, non strumentale e arbitrario.” Veniamo tutti da un pensiero unico e cioè che lo sviluppo e la modernità ruotano attorno alla centralità dell’economia e della finanza, per cui anche il futuro si apre se saremo capaci ancora di crescita quantitativa.
Direi che siamo prigionieri, chi più chi meno, di questa concezione. A chi di noi è mai venuto in mente di prendere sul serio il punto di vista della Terra e dei suoi diritti, l’organismo vivo che fornisce gli elementi della vita a tutti gli altri esseri, viventi, noi compresi?
Mettiamoci con sincerità davanti a tutte le opere pubbliche e private, Mose compreso. Quante appartengono alla programmazione politica per un servizio alla popolazione e alla cura del paesaggio, quante invece rispondono allo sviluppo e al consolidamento di interessi di grandi gruppi della finanza e dell’economia? Vedete come i conti non tornano per gli enti pubblici, né a livello nazionale né a livello degli Enti locali. Sono sempre meno le risorse a disposizione. Eppure tanti privati si offrono a investire; per chi? Per il bene comune? Si fa sempre più ricorso al project financing pensando a benefici pubblici: un assunto del tutto falso. I privati realizzeranno le opere solo se l’Amministrazione pubblica si impegna a coprire i costi, anche qualora gli investimenti fossero maggiori del previsto o il traffico (nel caso delle opere viarie) minore del previsto. Dunque per i privati proponenti, rischio zero e guadagno certo. Per la collettività, utilità incerta e altissimo rischio di costruzione di un debito differito di ingenti proporzioni, addossato alle future generazioni. Questo è il nodo centrale, questo è il futuro. Progetti partiti in tempi ormai lontani e che non rispondono né ai servizi veri per la popolazione, né al restauro e alla bellezza del territorio e del paesaggio. Andando di questo passo non vi pare che di usufruibile gratuitamente da tutta la popolazione non rimarrà più niente neanche spostarsi da una località all’altra?
Sono in programma anche campi da golf, naturalmente con villette attorno e solo per ricchi.... Sto pensando al recupero fatto nelle città medioevali dell’Umbria, della Toscana, delle Marche. A tutti noi si allarga il cuore per questi scrigni recuperati e conservati di città e borghi. Perché deprezziamo il Veneto così ricco di arte, di gioielli disseminati ovunque e spesso ormai abbandonati, con bellezze naturali ineguagliabili e produzioni agricole di pregio? Nostalgia rivolta al passato o valore aggiunto per il futuro? Perché il territorio e il paesaggio in quanto tali non diventano il centro di interesse collettivo, capace di attirare gli investimenti necessari per mettere in sicurezza il sistema acqua bene comune, invece di fare le scelte più impattanti, mettendo a rischio le falde e le ricariche e rubando suolo alle coltivazioni?
Perché non è possibile un piano trasporti integrato ferrovia-strade a partire dai bisogni della popolazione, che si sposta sempre più con i mezzi pubblici per necessità, invece di privilegiare solo la fetta ricca della società, con TAV e fantomatici corridoi, che esistono solo nella testa di alcuni politici, ma certamente non nella realtà né all’est né all’ovest dell’Italia? Eppure una pioggia di miliardi. Perché non consolidare e rendere più efficiente e meglio coordinato l’esistente con un’occupazione costante?
Sappiamo tutti che ci sono molte falle di trasparenza e di legalità, conflitti di interessi in atto, non solo per il Mose. È una questione morale ineludibile, anche per il rischio ormai documentato di infiltrazioni mafiose.
Quanto avvenuto con gli ingegneri Baita e Mazzacurati non è un incidente di percorso; è la creazione e il funzionamento di un sistema di corruzione ramificato e stabilizzato. Ho domandato ormai a tutti; nessuno mi ha fornito una risposta. Perché né ai parlamentari, né ai senatori, né ai consiglieri regionali è stato finora possibile accedere ai dati riguardanti il piano economico di un’opera pubblica della portata dell’autostrada pedemontana veneta? È un’opera pubblica; dovrebbe essere un diritto poter accedere agli atti. Ci sono due sentenze del TAR consolidate rispetto al mantenimento del commissario Silvano Vernizzi, che personalmente non conosco e che può essere la persona più straordinaria di questo mondo, ma che di fatto ricopre ruoli (presidente Veneto Strade e responsabile delle valutazioni del VIA) che comportano evidente conflitto di interessi.
Sapete che dopo le sentenze del TAR e il decreto del Governo Monti di riconferma del commissario si è aperta una eccezione di costituzionalità che finirà alla Corte Costituzionale. Penso sarebbe più onorevole per tutti, prima di tutto per l’istituzione regionale, mantenere il controllo e la vigilanza in corso d’opera invece che dover affrontare amare sorprese con perdita secca di credibilità a opera compiuta! Sarebbe veramente triste pensare che il palinsesto e il calendario della politica debbano dipendere dalle sentenze dei tribunali.
C’è un altro problema cruciale: il lavoro. Da sempre viene riproposto solo con le grandi opere pubbliche o private, con i grandi investimenti ad alto impatto ambientale e con ricavi esclusivamente a vantaggio dei privati. Sapete che c’è molta propaganda per giustificare scelte, che non sono per il bene della collettività. Ci sono esempi ormai eclatanti di modalità di lavoro diffuso, che concilia maggior risparmio e maggiore occupazione.
Faccio un semplice esempio. Con un miliardo di euro di investimento in raccolta differenziata spinta (porta a porta) e riciclo, si creano 200 mila posti di lavoro permanente. Per gestire la stessa quantità di rifiuti con l’incenerimento il costo si aggira sui 15 miliardi di euro con 3000 occupati.
Per l’occupazione, con la stessa spesa, c’è un rapporto di 1 a 1000 senza ricorrere a grandi opere. È quanto avvenuto a Ponte nelle Alpi: riciclo oltre il 90%; costo smaltimento rifiuti da 475.000 euro/anno a 40.000; occupazione da 5 operai a 13; con soddisfazione dei cittadini.
Oltre al Presidente di questo Consiglio regionale al camper del digiuno sono venuti altri rappresentanti politici di vari partiti. Mi sembra di capire che la linea sia quella di portare a termine quanto approvato e poi, un po’ alla volta rivedere programmi e progetti. Siamo di fronte a un impoverimento della popolazione sempre più veloce e diffuso. Partiamo dalle opere o partiamo dalle persone per affrontare la crisi? Non è problema di poco conto, sia per riorganizzare i servizi sociali nei singoli Comuni, che quelli sanitari e ambientali.
Una volta detto alle persone che sono esauriti i fondi per l’assistenza, non sono risolti i problemi, anzi. Rischiamo a breve di trovarci con una società a due velocità e con il rischio di conflitti sempre più forti per le necessità dei più poveri.
Per questo vi supplico di esercitare la vostra responsabilità umana e istituzionale verso tutti i cittadini: a partire dal riconoscimento dell’emergenza sociale e ambientale del Veneto (siamo in una crisi entropica e non solo strutturale) diamo un segnale di grande discontinuità con una moratoria su tutte le opere pubbliche e private che comportano un’ulteriore sottrazione di suolo coltivabile e una devastante colata di cemento e asfalto, snaturando ancora di più la realtà e la vocazione agricola del Veneto.
Infine una parola sui comitati. Da anni con Radio Cooperativa ho avuto modo di seguirne le vicende. Generalmente si tenta di liquidarli tacciandoli di negatività fine a se stessa. Devo confessare che, mai come in questi anni, i comitati hanno sviluppato competenze tecniche e giuridiche e soprattutto sono stati aperti al dialogo, se viene accettato, per offrire alternative. Tante volte mi sono domandato perché non venga preso in considerazione la ragionevolezza delle loro proposte, sapendo che nessuno di loro lavora per interessi privati o particolari.
Per me sono le sentinelle e i parafulmini della società e della Terra. Veramente la passione per il bene comune ha guidato in questi anni la loro attività e la loro dedizione. Se la vitalità della democrazia si misura dalla partecipazione attiva alle scelte importanti per tutti, dobbiamo ai comitati grande riconoscenza.
Vi prego di accogliere quanto esposto non come una pretesa, ma come una preghiera pressante. Di nuovo grazie per avermi accolto e ascoltato.
Don Albino Bizzotto
Venezia, 3 settembre 2013
La merce va al nord: centomila euro per ricostruire un’intera zona
di Giuliano Foschini
Un pezzo di paesaggio pugliese in una villa in Brianza: l’ulivo secolare, il muretto a secco, il trullo. La scogliera sarda in una piscina sul litorale romano. Un casale umbro in Veneto, la terra rossa della Valle d’Itria all’Argentario. In Italia esiste un mercato assai particolare in grado di annullare la geografia, alterare l’ambiente e molto spesso consegnarsi al kitsch: è il mercato dei ladri di paesaggio. Sono contadini, vivaisti, architetti di esterni che si offrono di prendere un pezzo di un territorio e di riproporlo uguale e identico in qualsiasi parte d’Italia, anche a migliaia di chilometri di distanza.
Non lo fanno per bellezza, ma per denaro. Tanto: un albero secolare può costare anche diecimila euro, compreso di espianto e reimpianto. Mentre per ricostruire una zona si arriva a centomila euro. La regione che più delle altre viene saccheggiata è la Puglia, che ha nel suo territorio agricolo specificità chiare, a tratti uniche: gli ulivi secolari, per l’appunto. Ma anche la terra rossa nella quale crescono, i muretti a secco e addirittura i trulli. Ci sono vivai che vendono pacchetti interi mentre basta fare un giro su Internet per comprare un ulivo secolare. I prezzi variano dai mille ai cinquemila euro (compresi di trasporto e impianto), per realizzare un trullo non si va sotto i ventimila a cono mentre i muretti a secco, con pietre originali, non costano meno di 300 euro a metro quadrato. « mercato è florido, da quanto ci risulta le richieste sono molto alte» spiegano le forze di polizia che da anni hanno dichiarato guerra a questi predoni. Soltanto quest’anno ci sono stati un centinaio di sequestri: l’ultimo, effettuato dalla Finanza, è di sabato scorso quando su un camion sono stati trovati tre ulivi appena spiantati pronti a partire per un vivaio del Nord.
«Effettivamente questo è un fenomeno nuovo però dal nostro punto di vista molto affascinante» commenta Mauro Agnoletti, professore della facoltà di Agraria dell’Università di Firenze e coordinatore della commissione di paesaggio agrario al ministero dell’Agricoltura. «Si sta riscoprendo l’importanza del paesaggio e non della singola pianta, ma dell’intero ambiente. Però il paesaggio va curato, restaurato ma non stravolto come sta accadendo anche perché non esistono catalogazioni e normative specifiche». Il professore cita per esempio il caso di querce secolari «prenotate l’anno precedente e poi spiantate con i bulldozer e le gru per essere trasportate in ville private. Ma anche alberi di agrumi, magari caratteristici della Sicilia, che finiscono al Nord. Il problema è che deve esistere una differenza tra una pianta e un soprammobile
Salviamo quei tesori dagli sfregi estetici
di Carlo Petrini
Mentre attraversavo il Salento non riuscivo a credere che per anni gli ulivi secolari e i muretti a secco che stavano rendendo il mio viaggio più piacevole fossero stati regolarmente estirpati dal territorio per finire in qualche spazio privato. Dopo anni di sciacallaggio del paesaggio (scusate la rima, ma questo è) ora in Salento ci sono controlli ferrei e i recenti arresti lo provano. Godevo di quegli scorci, di alberi che sono meglio di un’opera d’arte, di muretti che esprimono la cultura contadina meglio di qualsiasi parola, al pari di tanti buoni prodotti. Provavo a immedesimarmi nel ladro di paesaggio, o nel “mandante”: complici in un’azione criminale e responsabili di un’aberrazione estetica doppia. Data dal depauperamento del paesaggio, ma anche dall’idea triste, da parvenu ignorante, di poter mettere quei tesori altrove, fuori dal proprio contesto territoriale come in un giardino di una villetta. Mi dicevano che durante il boom di questo nefasto commercio gli ulivi venivano venduti per un paio di centinaia di euro. Ora divieti e controlli avranno fatto lievitare i prezzi sui mercati clandestini, ma quelle cifre comunicano perfettamente la bassezza di ladri e acquirenti: vengono i brividi solo al pensiero di dover quantificare in denaro il valore inestimabile di un ulivo cresciuto poderoso e produttivo, avvoltosi su se stesso in infinite forme per cento anni, sotto il sole cocente, battuto dal vento. Quell’ulivo è del proprietario della terra, certo, ma la combinazione esatta di quell’ulivo su quella terra sono un bene comune per chi ci si può perdere con gli occhi e con l’immaginazione. Sradicarlo e venderlo significa privatizzare un bene di tutti. Ed è una zappa sui piedi clamorosa per chi abita questa terra magica, oggi meta turistica molto popolare, ma che senza ulivi secolari e muretti a secco perderebbe identità riempiendo così di deserto gli spazi tra spiagge iperaffollate e svuotando di contenuti quella cosa che ci pregiamo di chiamare territorio. Vale per il Salento ma vale per ogni angolo di questa Nazione ancora bellissima: una “grande bellezza” (per dirla come il regista) più di tutto e nonostante tutto, che non merita ulteriori scempi.
Greenreport, 6 settembre 2013
Nel maggio 2012 abbiamo celebrato in un convegno internazionale - e con giusta enfasi - novanta anni di storia esaltante e per lunghi periodi drammatica del Parco Nazionale d’Abruzzo, oggi anche del Lazio e del Molise. Il convegno, i cui atti sono già stati editi in Italia e stanno per uscire in Gran Bretagna in edizione inglese, ha testimoniato la ricchezza di questa storia, la sua profonda e duratura risonanza nazionale e internazionale, il suo carattere pionieristico, le molteplici e straordinarie influenze che ha esercitato in più fasi sulla vita del territorio ma anche sulla politica e sulla cultura nazionale.
Uno straordinario patrimonio di esperienze e di conoscenze, insomma, un punto fermo nella coscienza ambientale locale, nazionale e internazionale e un’esperienza gestionale che ha pochi paragoni in Europa, come dimostra anche una messe di studi che si stanno ampliando di anno in anno. Arrivare – pur tra contraddizioni e contrasti a volte, ripetiamo, drammatici – ad accumulare questo eccezionale patrimonio che dal 1967 è riconosciuto da un importante diploma europeo ha implicato un formidabile contributo sia delle migliori energie locali, a partire dal fondatore Erminio Sipari, sia di una messe di tecnici, studiosi, politici di livello nazionale e internazionale. Per Pescasseroli e per il Parco sono passate in novanta anni figure che hanno fatto la storia della protezione della natura in Italia e nel mondo e vi hanno lasciato tracce spesso durature: da Riccardo Almagià a Pietro Romualdo Pirotta, da Ansel Hall a Filippo di Edimburgo, da Franco Pedrotti a Carmelo Bordone e tanti altri. Se si guarda agli organigrammi dei parchi nazionali e regionali italiani, all’informazione naturalistica, all’associazionismo ambientalista difficilmente si trova qualcuno che non abbia compiuto una parte della propria formazione o della propria esperienza professionale al Parco. Ciò è potuto avvenire, salvo brevi periodi, soprattutto grazie a un alto livello dei vertici gestionali, cioè dei presidenti e dei direttori dell’Ente.
Lungo novant’anni si può dire che soltanto per una ventina d’anni (dal 1933 al 1951 e dal 1963 al 1969) il Parco non ha avuto dei vertici di livello nazionale e internazionale, cioè grandi direttori come invece sono senz’altro stati Nicola Tarolla, Francesco Saltarelli, Franco Tassi e grandi presidenti come Erminio Sipari, Giulio Sacchi, Angelo Rambelli, Michele Cifarelli, Fulco Pratesi, Giuseppe Rossi. Persino la discussa esperienza di Aldo Di Benedetto, che noi stessi abbiamo avuto modo di criticare aspramente, rappresentava l’ambientalismo nazionale ad alti livelli e aveva una notevole esperienza di tutela alle spalle. Queste nomine, insomma, hanno sempre significato che la politica è stata in grado oppure è stata efficacemente indotta a riconoscere l’altissimo valore del Parco e a dotare il suo Ente di vertici adeguati, tecnicamente e culturalmente.
Questa lunga - ed estremamente feconda, come abbiamo visto - tradizione sembra ora interrompersi drammaticamente con la designazione da parte del ministro dell'Ambiente Andrea Orlando alla presidenza dell’Ente di un politico locale, sicuramente un galantuomo e un buon amministratore che però non possiede alcuna esperienza gestionale e soprattutto non possiede un profilo adeguato rispetto allo straordinario bagaglio che sarebbe chiamato a gestire. Questa scelta, perfettamente legittima sotto il profilo istituzionale, rappresenta però un cedimento inedito e assai grave a interessi di basso profilo: alla necessità di dotare un Ente, che peraltro viene da una storia recente difficile e paga il prezzo del progressivo decadimento della politica delle aree protette italiane, di un amministratore esperto, capace e inventivo viene infatti preferito il bilancino degli equilibri di potere provinciali.
La presidenza di una figura dalla storia straordinaria come Giuseppe Rossi meritava e merita senz’altro, coi suoi innegabili successi gestionali e d’immagine, un consolidamento e non si comprende come si sia potuto pensare di mettere da parte il suo prezioso contributo; il fatto – ancor peggiore – che a un costruttore del sistema delle aree protette nazionali come Rossi possa succedere un amministratore locale del tutto privo di esperienza non getta soltanto una luce sinistra sulle derive della politica delle aree protette italiane ma anche sul futuro del Parco Nazionale d’Abruzzo Lazio e Molise. La sua capacità di rappresentare un faro nell’universo delle aree protette europee, capacità che sembrava essere stata faticosamente ripristinata, è infatti destinata in questo modo a indebolirsi irrimediabilmente mentre non è difficile immaginare rischi ancor maggiori sul piano gestionale.È essenziale insomma che la scelta di un nuovo presidente per una riserva di eccezionale importanza nazionale e internazionale come il Parco Nazionale d’Abruzzo Lazio e Molise cada su una figura di alto profilo gestionale e/o scientifico, ripetiamo: un profilo nazionale e anche internazionale, come è stato negli anni migliori della sua lunga esistenza. La conferma di Giuseppe Rossi, a nostro avviso, sarebbe la strada più semplice e ovvia; un’eventuale alternativa a questa scelta non potrebbe in ogni caso che contemplare una figura di profilo non inferiore.
Due note per concludere questa riflessione. Per chi ha memoria sufficientemente lunga si può anzitutto osservare che paradossalmente proprio dalle file del partito che dovrebbe essere l’erede storico delle politiche più avanzate sulle aree protette, cioè il Pd, viene la vendetta postuma di Domenico Susi, cioè di colui che negli anni Settanta tentò tenacemente – e per fortuna vanamente – di aggiogare direttamente ed esclusivamente il Parco d’Abruzzo al notabilato locale di partito.
Infine, sorprende e amareggia come su questa vicenda si siano espressi soltanto gli amministratori locali mentre una spessa coltre di silenzio è stata stesa dall’associazionismo ambientalista.Un ulteriore segnale, se ce ne fosse bisogno, dei pericoli che ogni giorno di più incombono sulle aree protette italiane.
Bray fermi il progetto di Cappellacci,
la tutela non può essere a singhiozzo»
di Renato Soru
Una questione per nulla patetica e di guerra fra poveri, nell'uso dello spazio urbano, solleva problemi generali e attuali. La Repubblica Milano, 2 settembre 2013, postilla (f.b.)
Da una parte, i novanta anziani di Quarto Oggiaro che coltivano gli orti in via Lessona. Dall’altra, gli anziani di Novate in attesa che lì sia costruito un ospizio. La contesa per quei 1.800 metri quadrati di terreno si trascina da decenni. Ora Novate, proprietaria dell’area dal 1992, ha mandato ai milanesi lo sfratto: entro il 30 settembre dovranno lasciare gli orti per fare posto al cantiere della casa di riposo. Ma gli “ortisti” non ci stanno.
Alcuni degli anziani che entro fine mese dovranno sloggiare hanno più di 90 anni. A differenza della grande maggioranza degli orti milanesi — che nascono come abusivi, occupati nel primo Dopoguerra da famiglie pugliesi — in via Lessona la presenza agricola è nata in modo regolare. A partire dagli anni Sessanta, e fino al 1992, la grande maggioranza dei coltivatori ha pagato un affitto all’ente del Comune di Milano che ai tempi era proprietario dell’area. In quell’anno Palazzo Marino cedette ai vicini di Novate la proprietà del terreno, nonostante si trovi dal lato milanese dell’autostrada. «Dal 1992 al 2006 il Comune di Novate nemmeno si è preoccupato di registrare al catasto la proprietà del terreno — racconta Lorenzo Croce, presidente dell’associazione ambientalista Aidaa — quando ha deciso di entrarne in possesso, dopo 14 anni dalla cessione, si è messo a fare la guerra agli ortisti, definendoli abusivi. Tutto questo è assurdo esbagliato».
Ora Novate rivuole il suo terreno. Nonostante ancora non siano stati fatti i necessari carotaggi, i tecnici comunali hanno il forte sospetto che il sottosuolo richiederà una pesante bonifica prima dell’apertura del cantiere: sotto gli orti, infatti, si trova una vecchia cava, con ogni probabilità riempita di macerie dopo la seconda guerra mondiale. Scavando le fondamenta, sarà necessario bonificare. E bonifica significa due cose: costi elevati e tempi lunghi. «È evidente che il cantiere per edificare la casa di riposo non partirà a breve — dice Croce — per questo, non ha senso cacciare gli anziani prima del dovuto. Si lascino in pace, e intanto si trovi una soluzione alternativa». Essendo gli anziani ortisti quasi tutti milanesi, il Comune di Milano ha offerto loro appezzamenti alternativi, ma senza dare garanzie sulle dimensioni e soprattutto sulla collocazione, con il rischio che si possano trovare a chilometri di distanza. Gli ortisti, fra cui ci sono diversi vecchi partigiani della val d’Ossola, si dicono pronti a «resistere fino all’ultimo».
postilla
Emergono almeno tre questioni, che si possono riassumere anche se certo non esaurire in tre punti: 1) la destinazione d'uso a orti urbani non può più essere lasciata al caso per caso, ma rientrare in una strategia urbanistico-ambientale-sociale di lungo periodo; non sta né in cielo né in terra che un elemento base costitutivo del quartiere come il verde collettivo, tanto più essenziale quanto più autogestito e non gravante sulle casse comunali, sia alla mercé di decisioni discrezionali e private; 2) non sta neppure né in cielo né in terra che le strategie sullo spazio pubblico di quartiere (o più in generale quelle sullo spazio urbano inteso come rete) si sviluppino al chiuso di segrete e competenti stanze, rovesciando poi sulla cittadinanza le proprie deliberazioni, e aprendosi al massimo ex post al confronto, specie in un ambito così essenziale come le infrastrutture verdi, in cui gli orti si inseriscono: quell'area è coerente o meno rispetto alla logica di rete continua? Infine 3) il “cattivo” della favola altro non è che il Comune di Novate, ovvero non un'entità extraterrestre, ma la circoscrizione amministrativa i cui confini stanno un paio di isolati più a ovest dei quegli orti; probabilmente di cose del genere dovrebbe anche tenerne conto, la nostra politica, nel delineare le competenze della Città Metropolitana, che notoriamente si estende anche oltre le sale consiliari, e arriva ad esempio proprio a lambire gli orti, le case di riposo, e gli anziani che sono costretti a farsi inutilmente guerra (f.b.)
Capita di vederla con una frequenza inquietante questa scritta: uno dei tanti indizi della crisi che sta divorando il Paese. Come succede nei momenti di grande difficoltà c'è chi vende per tirare a campare. E c'è chi attende il momento più conveniente per comprare, e fa affari - d'oro appunto- perché da ogni tragedia, e pure nel corso delle guerre, c'è qualcuno che si arricchisce. Me l'immagino chi vende, il rimpianto e la vergogna a disfarsi del bracciale della nonna pensando che sarà fuso e perderà le sue sembianze per diventare un lingotto insieme a tanti altri ricordi di famiglia. Come gli stazzi galluresi, documenti preziosi della civiltà pastorale candidati a diventare inespressive ville con piscina.
La Sardegna è tra le aree più disarmate di fronte a questa dura prova di resistenza (il film “Cattedrali di sabbia” di Paolo Carboni descrive con efficacia lo smarrimento postindustriale).
E si ha l'impressione che c'entri poco la malasorte. Non penso a una regia occulta per gettare l'isola nel baratro della disoccupazione di massa. Ma che qualcuno, appena informato delle teorie del generale von Clausewitz, abbia pensato che disarmata sarebbe stata più facilmente espugnabile, è plausibile.
Ed ecco la sequenza di bandiere bianche per la gioia di chi si aspetta pure gli applausi qualsiasi cosa voglia fare in Sardegna. In fondo nessuno ha quasi mai trovato ostacoli nello sfruttamento dei beni naturali dell'isola, dal legno al corallo; alle spiagge e alle scogliere “naturalmente” destinate a fare da piedistalli di brutte case. E oggi tocca al sole, al vento, al sottosuolo.
Lo stesso programma, portare via senza investire granché, prendere senza restituire praticamente nulla, provocando danni irreversibili al paesaggio e all'ambiente. Gran parte delle coste sono state acquisite da avveduti pionieri negli anni Sessanta (anche a 50 lire a mq, quanto per sentire una canzone nel juke box). Con soddisfazione dei venditori d'oro, e gratitudine per l'imprenditore “innamorato della Sardegna”, ricevuto a Cagliari nel palazzo della Regione. Oggi - non si trascuri il valore simbolico - il presidente Cappellacci va a Doha e a Dubai, il piglio del piazzista, a chiedere a quegli investitori di volgere lo sguardo verso la Sardegna che sarà compiacente. Più la scaccio e più mi torna in mente la scena - “Maestà, gradisca! ”- nel film di Fellini.
Quei mercati sono spietati. I fondi di quegli stati sono gestiti da rapaci finanzieri a caccia di opportunità nel Mondo, prediligono comprare debiti. Ma ai sardi, prigionieri di un format, sono proposti come principi e cavalieri generosi, invaghiti della trasparenza del mare e della prestanza del cannonau; pronti a investire con liberalità nella filiera agroalimentare, nei trasporti o nei cavalli. Così che sembri un dettaglio l'interesse vero: il profitto che solo la speculazione edilizia può garantire nel brevissimo periodo.
Nessuna sorpresa, Cappellacci e Berlusconi lo hanno ripetuto in campagna elettorale: il disprezzo per il piano paesaggistico, il proposito di eliminare le tutele per favorire lo sviluppo (?) così come la destra in Italia lo intende al di la delle dissimulazioni. E poco conta che il ciclo edilizio per alimentare due mesi di turimo non sia la panacea, com'è ampiamente dimostrato. Altrimenti Gianni (intonachino spesso in nero) e Maria (aiuto cuoca 40 giorni all'anno) non sarebbero emigrati in Germania a cercare fortuna.
Colpisce invece che la sinistra, salvo eccezioni rare, mantenga un profilo basso che proviene anzitutto dalla esitazione del PD, diviso su questo e non solo. Una parte di quel partito non ha mai voluto bene al Ppr e ha spesso recriminato sulla ostinazione di Soru colpevole di averlo voluto (curioso che le sue dimissioni da presidente non abbiano mai portato a un chiarimento).
Così si lascia che M5S occupi la scena. Grillo è il solo leader nazionale che ha denunciato il pericolo, già evidente nelle leggi approvate della Regione per consentire le brutture di cui si legge su queste pagine. Ma è solo l'anteprima. I tre o quattro piani casa e la legge sul golf - impugnati dal governo per incostituzionalità [ma intanto “attivi”-ndr]._ non bastano per assicurare l'obiettivo di distribuire salvacondotti per più consistenti trasformazioni di aree di pregio (da Bosa a Alghero, dalla Gallura al Sulcis all'Ogliastra, e a domanda si vedrà). L'approvazione della grande variante del Ppr è annunciata per settembre. Non sappiamo se il disegno riuscirà: se il governo darà l'assenso a conclusione di un processo di copianificazione di cui non si sa quasi nulla, mentre si attende che parli il ministro (interrogato dai parlamentari Luigi Manconi, Michele Piras, Emanuela Corda). C'è - e questo è un segnale incoraggiante- una rete di movimenti che sta contrapponendo il buon senso a dissennati programmi di trasformazioni di territori non solo litoranei. Ne fanno parte molte donne determinate, “dolcemente complicate”, e questa è una garanzia.
Tra le molte ombre del governo napoletano di De Magistris anche qualche sprazzo di luce: l'Osservatorio sui Beni comuni: un tentativo controcorrente per restituire all'uso comune beni privatizzati. Il Fatto quotidiano, 30 agosto 2013 L'esperienza del governo napoletano di Luigi De Magistris presenta, come è ormai evidente, non poche zone d'ombra. Alcune di queste riguardano proprio la politica culturale: e in modo particolare la gestione infelicissima del luna park noto come Forum delle Culture, un progetto fallimentare ereditato dalla precedente amministrazione, e che il sindaco arancione non ha avuto il coraggio di cestinare. La vicenda ha registrato proprio in queste ore un passaggio grottesco: con l'assessore alla Cultura Nino Daniele (subentrato alla bravissima Antonella Di Nocera, rimossa per eccesso di onestà intellettuale) che affida al fratello del sindaco un importante incarico retribuito collegato al Forum. E quest'ultimo poi costretto a rinunciare.
Nelle nostre prime riunioni siamo partiti da una base giuridico-politica per nulla ovvia, e cioè che «laddove beni, anche in proprietà privata, siano abbandonati e perciò non assicurino quella funzione sociale, imposta dalla Costituzione, per cui il diritto di proprietà è riconosciuto e garantito dalla legge, sia possibile ritenere non più sussistente il diritto di proprietà e, dunque, acquisire il bene stesso alla collettività, ritenendolo un bene comune, ossia un bene oggetto di proprietà collettiva». Si tratta di tentare un'applicazione sistematica di quel radicalismo costituzionale che ha condotto a esperienze notissime (come il Valle a Roma, l'Asilo Filangieri a Napoli e molte altre in tutta Italia). Non solo: si tratta anche di alzare il piano di questa applicazione, coinvolgendo un'intera amministrazione comunale e non solo singoli cittadini, inevitabilmente più esposti ad eventuali azioni penali.
Da un punto di vista procedurale, l'Osservatorio sta definendo gli strumenti amministrativi di acquisizione di beni (privati o pubblici), abbandonati e dismessi. Nel merito, si tratta invece di elaborare una mappatura dei beni abbandonati e/o dismessi, e poi di elaborare procedure amministrative di nuova destinazione, di modelli partecipati di assegnazione e gestione, di piani di sostenibilità finanziaria.
Il caso del patrimonio artistico, di cui mi sto occupando, è particolarmente delicato. Non c'è città al mondo che abbia un patrimonio culturale tanto importante e al contempo tanto degradato, e inaccessibile ai cittadini. La cosa è atrocemente paradossale, se si pensa che il patrimonio, a Napoli, è diffuso capillarmente: ogni strada del gigantesco centro storico, anche la più devastata, è in qualche modo monumentale. In particolare, l'enorme «Napoli sacra», la cittadella religiosa fatta di chiese, oratori, confraternite, conventi, monasteri, innerva capillarmente il corpo della città: e ne è, in qualche modo, l'anima. Un'anima che può assolvere ad un cruciale funzione civile: la Napoli sacra offre alla Napoli di oggi un'enorme quantità di spazio pubblico di straordinaria qualità, ubicato in una zona popolarissima e disagiata.
Ma come è possibile rendere di nuovo accessibile ai cittadini (e specie agli ultimi) questo straordinario patrimonio negato? Con un intollerabile ritardo culturale (che, per esempio, rispetto agli Stati Uniti si misura in almeno tre decenni) l'opinione dominante in Italia vuole che la via d'uscita sia affidare in concessione questi luoghi monumentali a società private con scopo di lucro, o nel migliore dei casi ad onlus. La sfiducia nella gestione pubblica del bene comune è così elevata che siamo disposti a credere che società con il legittimo fine dell'interesse privato saprebbero coltivare l'interesse pubblico in modo più efficiente dello stato. Una posizione puramente ideologica, quest'ultima, che non solo rigetta alla base il progetto della Costituzione sul patrimonio culturale (rivolgendosi non a cittadini sovrani, ma a clienti a pagamento), ma non tiene in minimo conto i pessimi risultati della sostanziale privatizzazione della gestione del patrimonio inaugurata dalla Legge Ronchey all'inizio degli anni Novanta.
Il Fatto quotidiano, 28 agosto 2013, postilla
Il Prato della Valle a Padova, sul quale un tempo si affacciarono dai loro palazzi il cardinale Bessarione e Palla Strozzi, ne ha viste di tutti colori: sacre rappresentazioni e corse di cavalli, mercati popolari e assassini politici rinascimentali, raduni fascisti intorno a Mussolini e messe oceaniche di Giovanni Paolo II. Bisognava aspettare il 2013 perché questo luogo simbolo del paesaggio e della civiltà urbana veneti corresse il serio rischio di soccombere sotto le ingiurie collegate alla più rapace delle destinazioni: scatolone di cemento per parcheggio sotterraneo, con annessi gli immancabili centro commerciale e albergo. Il consigliere comunale Pd Giuliano Pisani,dopo aver difeso la Cappella degli Scrovegni (minacciata dai progetti dell'ex sindaco e ora ministro Zanonato), guida ora l’insurrezione dei padovani contro la sua stessa maggioranza, affidata al vicesindaco Ivo Rossi.
postilla
I disastri delle città e dei territori appaiono e scompaiono all'attenzione dell'opinione pubblica come fiumi carsici. Lo scandalo dell'autosilo al Pra' della Valle emerse in tutta la sua ampiezza nel novembre 2010, grazie a un convegno organizzato a Padova, all'Accademia Galileiana, per iniziativa di un gruppo di associazioni ambientalistiche (vedi qui su eddyburg). Riemerge oggi, e nulla sembra cambiato da allora. Come già allora si argomentò, la vera questione, oltre le degnissime obiezioni dei padovani pensanti a questo stupido incistamento tumorale in un ambito storico-monumentale di pregio assoluto, è l'idea perversa degli autosilo che si sono fatti tanti amministratori. Forse ingannati dagli schizzi irrealistici sfornati dagli studi di progettazione, e che fanno apparire del tutto inserito e digerito dal contesto ciò che non lo è affatto, facendo sparire traffico, inquinamento, rampe di accesso e uscita, modifiche stradali indispensabili. Cose che rendono, in quasi tutti i casi, il modello dell'autosilo indigeribile per i nostri contesti storici, così come è indigeribile anche il suo presupposto, ovvero il diritto naturale all'accessibilità automobilistica se si è residenti, e relative trasformazioni edilizie. Come la cultura urbanistica italiana predica (e quando può pratica) da almeno mezzo secolo
Rinasce, grazie al prezioso lavoro della Cineteca nazionale un altro splendido film: dopo la Roma della lotta al fascismo (Roma città aperta, di Rossellini) è la volta della Napoli del comandante Lauro e della speculazione, Le mani sulla città di Rosi: quasi un documentario di un'Italia che è dura a morire. Il manifesto, 25 agosto 2013
Rosi denunciava lo sfascio urbanistico e politico di Napoli, in grande espansione in quegli anni. Non poteva sapere –forse lo intuiva- che la sua opera avrebbe costituito una magistrale, anche se assai inquietante, previsione circa i disastri delle politiche, non solo urbanistiche , che avrebbero segnato tutto il Paese,l’Italia intera, nei cinquantenni successivi. Sfregiandone irrimediabilmente quel volto “illuminato e gentile” colto dai viaggiatori del Gran Tour e che le era valso il soprannome di “Belpaese”.
Nonostante i disastri, i tentativi di riforma urbanistica e di “nuovo regime dei suoli”, portata avanti dal democristiano Fiorentino Sullo con l’appoggio della sinistra socialista e del PCI venne bloccata, segnando addirittura la fine politica dell’ex ministro. Le emergenze ambientali della crescita territoriale portarono ad una serie di provvedimenti normativi, parziali, che nell’arco di un decennio, dal 1967 alla fine dei settanta, avviarono un processo pure timidamente riformista; la legge Ponte-Mancini, sulla scissione tra diritto di proprietà e di superficie, del ‘67; i decreti su zoning e standard, nel ‘68; la legge sulla casa e gli espropri, del ‘71; l’onerosità della concessione a costruire e degli oneri di urbanizzazione, del ‘77; l’avvio dei piani di recupero, del ‘78.
Questa intenzione –ed i modesti tentativi di pianificazione progressista che avevano comportato- venivano frustrati all’alba del decennio successivo da una serie di sentenze della Corte Costituzionale che mettevano in discussione vincoli urbanistici e criteri di esproprio. Annunciavano gli anni ottanta, con la crisi di Welfare state, l’avvio di un ventennio abbondante di iperconsumismo e una sorta di controriforma urbanistica, introdotta dalle sentenze citate e continuata con i tentativi di svuotare le capacità prescrittive dei piani con la cosiddetta “programmazione concertata”, in nome di un “Nuovo”, che invitava a “Fare”, in realtà a consumare senza senso e limiti,anche il territorio. E meno male che di lì a poco esplodeva anche in Italia la “questione ambientale”. In realtà, le criticità urbane e le “mani sul territorio nazionale” non si erano mai interrotte; la rendita speculativa, agraria ed edilizia, diventava industriale, poi commerciale e infrastrutturale,infine finanziaria dettata dal marketing urbano globalizzato:la semplice operazione di trasformazione diventava un affare, con i relativi lavori,più o meno grossi;migliore, se la nuova,anche ipotetica destinazione d’uso,trovava dei potenziali investitori. Neutralizzata la pianificazione efficace, razionalmente basata sulla domanda sociale, la città diffusa pervadeva sempre più i vari ambiti del territorio nazionale: una blobbizzazione cementizia industriale, che cancellava il paesaggio, seppelliva i beni culturali, degradava l’ambiente, deterritorializzava.
.Per “aver fornito un contributo fondamentale alla cultura e alla cultura urbanistica nazionale”, Francesco Rosi qualche anno fa è stato insignito della Laurea ad honorem dal Corso di laurea in Urbanistica dell’Università di Reggio Calabria. È emblematico come –a causa dei tagli e delle controriforme Gelmini/Tremonti/Profumo - oggi, perfino quel Corso di laurea sia stato cancellato (i Corsi di laurea di Urbanistica e Pianificazione peraltro si continuano a tenere in diverse altre sedi). Nonostante le accorate declaratorie e denuncie sulla necessità di svolte radicali nelle politiche ambientali nazionali, il sistema politico decisionale restringe anche ricerca e formazione. Per tutto questo –ha ragione Roberto Saviano- il film resta un capolavoro, “una grande rappresentazione non solo di Napoli,ma dell’Italia, anche di oggi”. Anche se oggi forse Rosi girerebbe gli esterni in Val di Susa e gli interni tra Parlamento e Ministeri.
L'ermo colle che sovrasta Recanati e che fu sempre caro a Giacomo Leopardi rischia di scomparire sotto il peso di un residence. Siamo nel 2012 quando, sfruttando il piano casa regionale, spunta fuori un progetto chiamato «Piano di recupero di iniziativa privata», che prevede, tra le altre cose, la trasformazione della casa colonica sul colle da manufatto rurale a lotto residenziale: aumento delle volumetrie, metri cubi di cemento armato e locali interrati. Appresa la questione, i funzionari della sovrintendenza dei Beni culturali prima sbiancano e poi fanno presente ai costruttori che, su tutta l'area, esiste un vincolo imposto dal ministero nel 1955. La vendetta della modernità sulla poesia, però, si consuma qualche tempo dopo, in un'aula del Tar: il vincolo è da sciogliere, sull'ermo colle si può costruire, è proprietà privata. A nulla sono servite le parole dei tecnici, secondo i quali «l'incidenza visuale determinata dagli interventi in progetto si configurerebbe come un danno al patrimonio paesaggistico». Dall'altra parte si ribatte che «il colle così com'è non ha senso», che «la zona è abbandonata al degrado» e che la casa colonica è soltanto «un rudere», concludendo che, in ogni caso, i proprietari della zona hanno il diritto di disporre dei propri averi come meglio credono.
Qui "l'infinito" nei suoi confini
ope legis) collaborazione tra Stato e Regione nella formazione e variazione dei piani paesaggistici: a proposito del PPR della Sardegna, dei tentativi deregolatori di Cappellacci e del silenzio di Bray. Il parere di un autorevole testimone della vicenda ancora in corso
Arrivato a gennaio 2008 in Sardegna come direttore regionale per i Beni culturali e paesaggistici, ho subito provato la sensazione di essere stato proiettato in una troppo facile riserva di caccia. All’interno di una bomba a orologeria che la troppa bellezza e il ritmo sfacciato della natura non potevano non aver innescato, di un’armonia continuamente insidiata.
Ho visto giorno dopo giorno materializzarsi sul mio tavolo i più svariati tentativi di violare quell’armonia ed ho presto “scoperto” uno strumento che (da lontano) conoscevo poco: il Piano paesaggistico regionale. Un modello di coerenza fra necessità, comportamenti e idee. Un Piano, familiarmente indicato con il brutto suono di Ppr, in cui le esigenze della tutela delle qualità avevano la priorità, il primo caso in cui le prescrizioni del “Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio” erano rispettate a pieno. Un documento unico e compiuto, con tanto di riconoscimenti conquistati su innumerevoli campi di battaglia, fino alla Corte Costituzionale e passando attraverso centinaia di ricorsi vinti ed un referendum abrogativo superato. E non senza medaglie appuntate, come la “menzione” dell’ONU.
Era però attiva anche un’informazione settoriale e fuorviante che, partendo da gruppi portatori di interessi concreti da soddisfare rapidamente, calava su un’opinione pubblica non sempre innocente, spesso impossessandosene. Insieme all’affermazione del Piano, si faceva avanti una gran voglia, anche pubblicamente dichiarata, di smantellarlo. E, contro le norme di tutela, la Giunta regionale ha lanciato in successione quattro siluri sotto forma di Piani Casa, in attesa di concludere il “procedimento di revisione” del Piano paesaggistico, iniziato e condotto in solitudine per oltre tre anni.
Ci si è alla fine arresi al fatto che la sola Regione, senza l’intervento del Mibac, non avrebbe potuto apportare nessuna modifica: e si è individuato un possibile grimaldello per la soluzione finale. Si sono improvvisamente ricordate le disposizioni inserite nel “Codice” nel 2008 (le quali, dopo l’approvazione del Ppr, hanno imposto la perimetrazione di tutti i beni paesaggistici e la definizione delle relative “prescrizioni d’uso”) e si è pensato di giustificare il quasi concluso procedimento di revisione con la necessità di recepire le “nuove” prescrizioni.
Sottoscritto l’accordo, le procedure adottate per “l’adeguamento” fanno malinconicamente pensare che il ruolo del Ministero sia stato ritenuto di mera sussidiarietà e sostanzialmente formale: ed è proprio su questa inaccettabile presunzione che ritengo di potere (anzi di dovere) esprimere il mio pensiero.
In particolare, dopo la tavola rotonda a Cagliari su “dove va il Piano paesaggistico della Sardegna” ed il dibattito che ne è seguito (a partire dalle considerazioni di M.P. Morittu per eddyburg.it), vorrei, utilizzando tre parole-chiave, riflettere invece proprio sul ruolo di primo attore -e non di semplice notaio- che spetta al Mibac nel procedimento di revisione. Un ruolo che non consiste solo nel prendere la parola, farsi ascoltare e co-pianificare, ma anche nella proposta di visioni alternative a quelle seguite dalla Regione fino a questo momento.
La prima parola-chiave è competenza.
Naturalmente non quella della burocrazia amministrativa: mi tocca…non mi tocca…muovo i miei bastoncini dello sciangai senza mai toccare i bastoncini -o le suscettibilità- altrui… Competenza, invece, intesa come specificità e capacità, come saperi esperti e comportamenti conseguenti, quelli che da sempre hanno caratterizzato le professionalità interne al Mibac. Competenze che, numerose, si sono sempre riconosciute nella tutela dei beni paesaggistici, nella loro individuazione e pianificazione, nel loro controllo e gestione. Come d’altronde indica con chiarezza il “Codice dei beni culturali e del Paesaggio” e come impone la Costituzione.
Elaborare congiuntamente alle Regioni i Piani paesaggistici è, per il Ministero, un’occasione unica di incidere nella realtà territoriale e far valere la propria vocazione tecnica e le proprie idee, che sono poi quelle della parte più avvertita del Paese. Puntando, ovunque, sul principio della competenza contro ogni crisi di rappresentatività.
Le comunità aspettano dal Ministero azioni energiche e coerenti, ponendo al centro dell’attenzione la tutela del paesaggio prima ancora dell’urbanistica e, ancor più, di ogni ipotetico atto negoziale. Senza debolezze, senza timidezze, senza assenze.
Naturalmente, non è questione di povertà di mezzi ma di volontà, di atti che devono essere ben concepiti, elaborati e motivati (e che, come tali, non “costano” nulla). Atti o strumenti che possono avere una forza dirompente con il semplice rispetto della legge.
Gli adeguamenti di co-pianificazione di un Piano che già c’è -e già assolve a pieno la sua funzione- sono un atto dovuto che va colto come la “madre di tutte le tutele”. Ma rappresentano anche, per il Ministero, la possibilità di dimostrare la reale e non burocratica competenza delle sue strutture e dei suoi tecnici e funzionari. Per dare un senso concreto alla propria esistenza (è questa la seconda parola-chiave), alla propria funzione civile, alla propria consapevolezza culturale.
In Sardegna si contrappongono due realtà. Una, apparentemente sonnolenta, è l’indifferenza, un albero secco che tuttavia molto contamina e infetta con il virus del disincanto. L’altra, come abbiamo visto molto viva ed agguerrita, esprime invece i molteplici interessi in gioco ed ha il dichiarato intento di annientare i sistemi di tutela, a partire dal Piano paesaggistico vigente. Ed ha fretta, molta fretta.
Le azioni che la Regione Sardegna va compiendo sembrano consequenziali a questa fretta. Esse implicano il recepimento di norme considerate incostituzionali dallo stesso Governo e ancora al vaglio della Corte. Comportano la “dimenticanza” dei vincoli definiti di “terzo genere” (che riguardano la fascia costiera, la necropoli di Tuvixeddu, gli insediamenti rurali sparsi che caratterizzano il territorio della Sardegna: stazzi, furriadroxius, medaus). Dimostrano inoltre una volontà di “spezzettamento” -come l’anomala trattazione delle aree archeologiche e della forma del paesaggio che include i siti archeologici- creando accordi diversi ed asincroni per problemi che sono invece unitari, senza coinvolgere nella revisione le Associazioni Ambientaliste, organismi giudicati “pericolosi”.
Non sembra importare neanche il principio generale che la Sardegna, Regione a statuto speciale, non possa comunque “diminuire la tutela” (come palesemente si tenta di fare) ma solo aumentarla e che tutto questo finirà all’esame della Corte Costituzionale. Importa “chiudere” le procedure in corso, in modo che sia possibile procedere con “i progetti strategici” e con tutta l’azione del costruire.
Ecco: tre parole chiave, competenza, esistenza, fiducia. Tutte riferite a un Ministero che ha certo bisogno di cure ma che, già oggi, molto può fare per il bene della collettività. Molto può fare contro la soluzione finale che, rendendo innocuo il Ppr, lascerebbe la Sardegna sola e indifesa.
Alla vigilia dei probabili accordi fra Comune e Difesa, una riflessione alta sul ruolo di un patrimonio pubblico, che a uso pubblico dovrebbe sostanzialmente servire, in tutte le città. La Repubblica Milano, 19 agosto 2013 (f.b.)
Le caserme abbandonate non sono come le aree industriali dismesse. Sono spazi pubblici destinati alla servitù militare che ora tornano nella disponibilità dei cittadini. Non è una differenza da poco. Prima di tutto perché il loro futuro può essere deciso con una libertà molto maggiore, non essendoci in gioco interessi privati e quindi, giocoforza, la necessità di mediarli con l’interesse pubblico. In secondo luogo perché, a differenza che per le vecchie fabbriche, le vecchie caserme sono un territorio vergine, tutto da esplorare per la comunità civica. Chi ha avuto la fortuna di partecipare, nell’inverno 2011, all’anteprima di Piano city alla caserma di via Mascheroni sa a cosa si allude: un momento magico, una piccola città nella città dove il tempo si è fermato, spazi immensi e carichi di suggestione, infiniti sotterranei con gli archivi di generazioni di reclute.
Un ambiente nascosto alla città per decenni che ritrova una vita nuova attraverso la musica, che per una sera diventa padrona di un campo una volta occupato da ordini, divise, armi, sofferenze. Leggendo i nomi sconosciuti di questi luoghi risalta ancora di più questa distanza: Milano ha tollerato la presenza di infrastrutture militari sul suo territorio ma, a differenza di altre città — si pensi a Torino o a La Spezia — non ne è mai rimasta condizionata o prigioniera. Sara stato per via delle cannonate di Bava Beccaris al popolo affamato, o semplicemente perché questa è la città del 25 aprile partigiano.
Ma non c’è dubbio che Milano non sia mai stata prona alle divise o incline alla retorica militare. Anche per questo l’occasione di ripensare questi luoghi, di immaginarne altri usi e destinazioni è straordinariamente importante. Per la giunta Pisapia può rappresentare una grande scommessa anche nella modalità di approccio alla loro ridestinazione. Quale occasione migliore di sperimentare la via di una progettazione condivisa e partecipata? Per esempio immaginando una raccolta pubblica di idee e proposte per la grande area verde della Piazza d’armi ex Santa Barbara. O recuperando progetti di grande impatto, come l’idea dell’orto planetario lanciata, e poi abbandonata per Expo 2015, magari coinvolgendo il forum delle culture e delle comunità straniere.
E ancora: visto che il complesso militare delle vie Monti, Mascheroni e Pagano dovrebbe diventare la nuova sede dell’Accademia di Brera, perché non testare la possibilità di destinare parte di quegli enormi spazi a un villaggio per giovani artisti? A una specie di grande atelier che richiami talenti e intelligenze creative da tutto il mondo? O destinare una di queste strutture, naturalmente trasformata, a quel grande museo del «saper fare» l’automobile di cui Milano è stata capitale con l’Alfa, la Bianchi, l’Innocenti, l’Iso Rivolta, le carrozzerie Touring, Zagato, Castagna?
La possibilità di programmare un nuovo destino per edifici, complessi e spazi di centinaia di migliaia di metri quadri in aree centrali di Milano, senza vincoli dettati da interessi immobiliari (o principalmente dettati da questi) rappresenta un’opportunità probabilmente unica. Certo, è giusto immaginare che parte di queste risorse sia destinata all’edilizia popolare. Ma sarebbe un grave errore limitarsi a questo e non cogliere la grande occasione di indicare insieme ai cittadini un percorso verso una città più creativa, più aperta, più libera. Più desiderabile.
L'Unità, 18 agosto 2013 , con postilla.
Petrolio, petrolio!, un sol grido risuola dall'Alpi al Lilibeo, rimbalza da un grande giornale alla rete ammiraglia del servizio pubblico televisivo. Hanno scoperto nuovi e impensati giacimenti petroliferi in Italia? Macché. «Petrolio» sono, o sarebbero, i nostri beni culturali e paesaggistici, i 4mila musei, le 95mila chiese e cappelle, i 40mila castelli, le 2mila aree archeologiche e via sgasando idrocarburi.
La Rai dovrebbe esporre periodicamente il cartello: «È severamente vietato definire i beni culturali il “nostro petrolio”. Pena la reclusione di alcuni giorni in fortezza». E invece, venerdì, dalla mattina alla sera, con l’assenso di alcuni importanti testimonial, abbiamo visto campeggiare in una nuova trasmissione sulle risorse del nostro Paese la fulminante scritta: «I beni culturali petrolio del Belpaese».
Ora mi domando: come si fa a usare – in una trasmissione nuova di zecca – una espressione tanto equivoca, stantia e offensiva? Il petrolio puzza, inquina, sporca, corrode i nostri marmi, non è rinnovabile... Cose che abbiamo detto e ridetto milioni di volte da quando, decenni fa, un ministro dei Beni culturali, il non memorabile Mario Pedini, dc, emerso poi dalle liste P2, propose quella sciagurata equazione Beni culturali=Petrolio italiano.
Due volte sciagurata perché, oltre ad accostare semanticamente monumenti, palazzi, chiese, centri storici, paesaggi a un “nemico” dei più insidiosi, suggerisce che quei beni fragili e preziosi “devono” per forza rendere dei bei soldi. Come succede, a loro dire, in tutto il mondo tranne che in Italia dove siamo notoriamente dei poveri cretini.
Balle. Sonore balle. I musei - a cominciare dal colossale e pomposo Grand Louvre - non danno profitti (a Londra i dieci maggiori musei sono rigorosamente gratuiti). I danè, i schèi, le palanche, li sordi li può dare un turismo rispettoso e ben organizzato, cioè l’indotto di quel patrimonio sterminato che dovremmo tutelare, curare, manutenere, proteggere.
Anche dalla scemenza. Ho sentito alla radio lamentare che i quadri del sublime Lorenzo Lotto sono «troppo sparsi per le Marche». A parte il fatto che basta andare nella magnifica Loreto e nella non meno bella Jesi per ammirarne già un bel po’, cosa dovremmo fare? Un solo museo di Lorenzo Lotto? La nostra forza sta nella straordinaria, diffusa rete di musei (e non solo) unica al mondo. Attrezziamoci su entrambi i versanti, ma senza mai confondere i beni primari, unici e irriproducibili, con l’indotto economico che essi possono produrre. Non confondiamo la nostra identità nazionale, regionale, locale con lo sfruttamento di un giacimento petrolifero o con quella managerialità improvvisata che propone di accorpare i “troppi” musei italiani.
Turismo rispettoso? Ma non vedete che non si riesce a liberare davvero Venezia dall’incubo delle maxi-navi che portano masse di turisti da un panino, una birra e via? Non vedete che Roma è stata ridotta a una sorta di indistinta e ininterrotta “mangiatoia” dove si ammanniscono quei «surgelati precotti» che camion e furgoni portano a ogni ora (sindaco Marino, se vuol dare una immagine internazionale nuova alla sua città, pensi anche a questo e in fretta)?
A Firenze poi la micragnosità dei passati governi ha indotto anche i responsabili di grandi palazzi, giardini e musei a fissare un tariffario: 20mila per una cena di manager nel Dugento, 30 o 40 mila per un matrimonio esotico a Pitti, e via banchettando o ballando (sì, c’è stato anche un ballo non meno esotico). Non vi pare che siamo ormai ad una sorta di accattonaggio di Stato?
Negli ultimi anni ci sono tele e tavole del ’400, quindi delicatissime, come la Città Ideale di Urbino e la non meno urbinate Madonna di Senigallia di Piero della Francesca che hanno girato per mostre d’arte varia. In Giappone è andato, con altri fragili Raffaello (una trentina), il misterioso ritratto di dama, detta la Muta, perché non c’erano i soldi, 30mila euro, mi pare, per restaurarlo. Eppure una commissione di esperti creata da Francesco Rutelli, quand’era titolare al Collegio Romano, aveva stilato un codice rigoroso per viaggi e prestiti. Tutto dimenticato, ridicolizzato dai nostri petrolieri dell’arte. Un museo di provincia fa pochi ingressi? Chiudiamolo, o accorpiamolo. Pompei non ce la fa a governare problemi complessi aggravati dal turismo di massa e dalla camorra? Diamola ai privati. Magari ai petrolieri medesimi.
Il ministro Bray ha nominato una commissione assai larga di esperti per riformare il suo ministero che al corpaccione (o al testone) già esistente ora ha unito pure il Turismo. Prevarranno i Beni culturali come valore in sé, prevarranno la tutela, la didattica, lo studio, la ricerca, oppure la spettacolarizzazione, l’affitto a questo e a quello, la gestione privatistica? Un’ultima notazione: ma dei piani paesaggistici destinati a salvaguardare quanto resta e a frenare cemento e consumo di suoli liberi, a tenere insieme tutto il patrimonio descritto come in un millenario palinsesto che notizie ci sono? Tutto tace, o quasi. Di quelli non frega niente a nessuno, su giornali e tv.
postilla
Una precisazione sul filo della memoria, per dare il merito (e il demerito) a chi ne ha diritto. Non ho sottomano le annate di Urbanistica informazioni e non posso quindi trovare la referenza precisa, ma ricordo bene che l'invenzione del concetto cui si riferisce criticamente Vittorio Emiliani deve essere attribuita a un altro ministro, non democristiano piduista ma socialista craxiano, Gianni de Michelis. Fu l'abile e intelligente colonnello craxiano che, da ministro del settore, coniò l'espressione "giacimenti culturali". Su Urbanistica informazioni, che in quegli anni dirigevo, commentai quell'espressione, e la politica che le era sottesa, sostenendo che, proponendola, si prefigurava per i beni culturali lo stesso destino dei minerali estratti dalle miniere: essere, appunto, estratti, trasformati (da beni in merci), venduti, consumati, dissolti. Certo, a differenza di altri minerali il petrolio ha una ulteriore caratteristica negativa: inquina.
La Nuova Sardegna, 17 agosto 2013
Sarebbe bello se la strada Alghero-Bosa conquistasse il riconoscimento Unesco. Una strada di altri tempi, adagiata naturalmente in quella morfologia complessa, senza le forzature per accorciare le distanze consentite dai mezzi che oggi bucano le montagne. E' uno spettacolo fantastico quello che offre, con i colpi di scena che si susseguono andata e ritorno. Naturalmente diverso in ogni stagione, ma d'estate è davvero difficile immaginare quanto è Sturm und Drang d'inverno. Lo sguardo senza ostacoli da una parte e l'incombenza dei rilievi dall'altra (l' autoradio che a tratti riceve solo emittenti spagnole ti ricorda la posizione). Non sono molte le strade che si dispiegano per decine di chilometri senza deluderti o annoiarti (va bene anche in auto per chi non ce la fa a piedi o in bicicletta).
Eppure ecco il programma di Condotte Immobiliare di rompere l'incantesimo. L'impresa romana che detiene una grande proprietà nel percorso, vuole fare un campo da golf con annessi 70mila mc proprio lì a Tentizzos nel Comune di Bosa. Una frattura in questo punto (un sacrilegio – secondo la mia amica) avrebbe un effetto travolgente, perché tutto si tiene in un ecosistema così delicato, habitat ideale per i grifoni che rischiano a ogni volo una overdose di biodiversità nella quale stanno felici.
A Cappellacci dell'Unesco non gli importa niente, e lavora alacremente per derogare a domanda il Ppr: immaginando il salvacondotto discrezionale (come il guidaticum medievale ?) in Planargia e in Gallura, e per conseguenza ovunque: a chi saprà bussare forte sarà aperto. Un piano riconfezionato a domanda. Un disegno palesemente illogico anticipato da atti traballanti che si puntellano a vicenda e già impugnati dal governo per sospetta incostituzionalità. Nel quale la gerarchia degli interessi è capovolta a vantaggio di quello edilizio, ovviamente subordinato nel Codice dei beni culturali a quello paesaggistico.
Il programma del governo regionale si dovrebbe concludere in autunno. Solo se lo Stato, che rappresenta un interesse non solo locale per la conservazione del paesaggio sardo, deciderà di farsi coinvolgere nel vortice di contraddizioni.