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Infiniti colpi di coda dell'urbanistica privatizzata inaugurata dall'attuale ministro Lupi tanti anni fa, i quartieri del Documento di Inquadramento sono una truffa e un disastro. La Repubblica Milano, 7 ottobre 2013

È diventato un pezzo di città fantasma, il quartiere Adriano. I problemi riguardano in particolare le aree di proprietà di un operatore privato, che non ha mai risposto agli ultimatum del Comune. Adesso, per risolvere una situazione di «pericolo sanitario e di sicurezza sociale», Palazzo Marino passa alle maniere forti. Per la prima volta, userà i poteri sostitutivi per bonificare i terreni e realizzare il parco promesso. E ha avviato un procedimento di “requisizione”, che andrà condiviso con la prefettura, per entrare in possesso dei terreni, ripulirli e terminare le opere.

Dopo quasi due anni di ultimatum, il Comune passa alle maniere forti per riportare alla «normalità» il quartiere Adriano. Lì, su quella distesa di terra ai confini con Sesto San Giovanni dove un tempo sorgevano gli impianti della Magneti Marelli, i residenti sono rimasti intrappolati tra l’isolamento, l’insicurezza e il degrado. Un’eredità pesante, quella che si è trovata a gestire la giunta Pisapia. In particolare sulle aree di proprietà del gruppo immobiliare Pasini, che sono diventate un pezzo di città fantasma. «Superati i problemi di Santa Giulia è questa l’emergenza », dice la vicesindaco con delega all’Urbanistica, Ada Lucia De Cesaris.

La società che avrebbe dovuto realizzare case e servizi non ha mai riposto agli appelli di Palazzo Marino e per la zona, ormai, l’abbandono si è trasformato in una situazione di «grave pericolo igienico e sanitario e di sicurezza sociale ». Per questo, dopo aver cercato di tamponare con interventi per forza di cose parziali, l’amministrazione ha deciso di passare all’azione. Con due gesti estremi, che compierà per la prima volta. Il Comune utilizzerà i poteri che ha a disposizione per sostituirsi all’operatore e, così, bonificare direttamente i terreni e realizzare il parco promesso. E, soprattutto, ha già fatto partire quello che tecnicamente si chiama “procedimento di requisizione” e che, adesso, dovrà essere condiviso con la prefettura. In pratica, vuole entrare in possesso dell’area Pasini per terminare le opere di urbanizzazione, ripulire, mettere in sicurezza. E, successivamente, magari, trovare un altro operatore per completare ciò che mancherà all’appello.

Vogliono tornare alla vita, gli abitanti del quartiere Adriano. Tra raccolte di firme e un presidio che un gruppo di residenti farà oggi di fronte a Palazzo Marino. Il Comune ha già convocato un’assemblea pubblica per il 18 ed è lì che Ada Lucia De Cesaris spiegherà alle famiglie i piani dell’amministrazione. «Sicuramente — dice la vicesindaco — si tratta di una situazione di grave difficoltà. Purtroppo abbiamo ereditato i problemi creati da piani scellerati approvati in passato senza pensare alla loro sostenibilità. Stiamo lavorando da tempo e abbiamo già fatto moltissimo, ma continueremo a fare tutto ciò che sarà necessario perché questa zona torni alla normalità e il quartiere abbia finalmente i servizi di cui ha bisogno».

È una storia infinita, quella del quartiere Adriano. Iniziata nel 2005 con due diversi piani urbanistici: “Adriano Marelli” e “Adriano-Cascina San Giuseppe”. Sul primo disegno è calata la crisi, ma il Comune sostiene di essere riuscito a fare passi in avanti: «Entro la fine del mese, sull’area Gefim — spiega De Cesaris — sarà completato il parco, sono partiti i lavori per la materna e il nido, sono state risolte le criticità per il progetto della nuova Esselunga ed è stato definito quello per la piscina. A questo aggiungiamo altri interventi fatti sulla viabilità e i mezzi pubblici». Manca ancora la scuola media, ma Palazzo Marino sta discutendo con la Regione per realizzarla al posto di case che Aler avrebbe dovuto fare per il mercato “libero”. È sull’altra porzione, che le risposte non sono arrivate. Qualcosa ha fatto la giunta in emergenza: qualche spezzone di strada asfaltato, vie finora anonime hanno avuto un nome, qualche pulizia del verde.

Ma non basta. Rimangono i ruderi di cantieri lasciati a metà, una cascina che è già stata occupata; gli abitanti devono camminare lungo percorsi sterrati e non illuminati, zone non presidiate sono diventate discariche. È per questo che si è passati a quelle due misure straordinarie. «Ci prenderemo la responsabilità di far partire le bonifiche entro l’anno e realizzare il parco entro la fine del 2014», annuncia la vicesindaco. Toccherà a Palazzo Marino andare fino in fondo. Così come per quella procedura di “requisizione” che dovrà curare la grande incompiuta urbanistica.

Nota: impossibile riassumere in una postilla le riflessioni che suscita questa ennesima dimostrazione di fallimento (almeno per i cittadini) della stagione urbanistica liberista-ciellina-tangentizia, ho provato a sviluppare qualche breve ragionamento sul sito Millennio Urbano a cui collaboro da qualche tempo; sul sito eddyburg, già dalla pubblicazione del documento Ricostruire la Grande Milano, che dava sanzione ufficiale alla stagione della deregulation, si sono succedute critiche puntuali e sistematiche sul metodo e il merito delle specifiche scelte. A partire da questo ampio commento di Edoardo Salzano (f.b.)

L'Unità, 11 ottobre 1963 e 6 ottobre 2013
6 ottobre 2013
LA NOSTRA TINA CHE PER TANTI ANNI
URLÒ INASCOLTATA LA VERITÀ
di Toni De Marchi

Dopo «Vajont» di Paolini e dopo il film con Laura Morante, Tina Merlin divenne un personaggio incontournable, come direbbero i francesi. Una di cui non si può fare a meno, ineludibile. E in molti che l’avevano ignorata se non vilipesa, si scoprirono improvvisamente suoi inconsolabili amici. Parlo dei giornalistoni alla Pansa, ad esempio, che probabilmente quando arrivò a Longarone per La Stampa, non avrà neppure voluto saperne il nome. O dei Bocca, che difendevano la Sade (la società elettrica proprietaria dell’invaso del Vajont) scrivendo su Il Giorno due giorni dopo il disastro «nessuno ne ha colpa, nessuno poteva prevedere, nessuno può riparare....tutto è stato fatto dalla natura». Altro che nessuno poteva prevedere. Per quattro anni Tina aveva raccontato, urlato la verità: mai tragedia era stata più annunciata di questa. Articolo dopo articolo, assemblea dopo assemblea, lei donna, comunista, piccola e anonima corrispondente de l’Unità da Belluno aveva cercato di aprire gli occhi, svegliare le coscienze. Tanto che sarà processata, e assolta, per un articolo del 5 maggio 1959: La Sade spadroneggia ma i montanari si difendono. Come spiegò poi la sua «non era lotta contro il progresso, ma contro chi in nome del progresso si riempiva il portafoglio a spese altrui». Era una lotta per la vita, per il diritto dei montanari. Di quelle vite dure e rotte come era stata ed era la sua.

Conobbi Tina nel 1975, a Venezia. Cercava collaboratori per la redazione regionale. Lei, che da un retroterra intensamente cattolico era arrivata a essere una comunista convinta ma insofferente alle burocrazie del partito, cercò nelle sezioni del Pci di Venezia dei giovani da inserire in redazione. Voleva evitare che le imponessero qualche piccolo funzionario di federazione. Ovviamente all’inizio fui intimorito, non solo dall’essere arrivato senza rendermene conto in un giornale così importante, ma anche perché avevo di fronte questa compagna (allora si diceva e nessuno se ne vergognava) che mi sembrò subito forte e autorevole. Ma sentii che di lei potevo fidarmi, nonostante le sfuriate pluriquotidiane, gli articoli appallottolati e gettati nel cestino. C’erano ancora le macchine per scrivere e il primo fax, un Infotec arancione che arrivò qualche tempo dopo, era grande come una credenza.

Per molto tempo non seppi davvero chi fosse. Da buona montanara, Tina non parlava di sé. Neppure del «suo» Vajont. E anche di tutto il resto seppi molto tempo dopo. Del fatto che a 17 anni cominciò a fare la staffetta partigiana nel battaglione Manara: Joe il suo nome di battaglia. Bill era invece il nome da partigiano del fratello Toni, medaglia d’argento al valore militare, ucciso dai tedeschi il 26 aprile 1945. Remo era l’altro fratello, alpino, una delle centomila gavette di ghiaccio, scomparso da qualche parte in Russia.

Nonostante molto tempo passato con Tina, le cene nella sua casa alla Giudecca a Venezia, le discussioni a volte molto animate, con lei che bruciava una sigaretta dietro l’altra, la sua storia precedente l’ho scoperta soltanto leggendo molti anni dopo quel libro struggente che è La casa sulla Marteniga, il racconto di come è nata e si è formata la sua ribellione. La scuola interrotta prima di finire la quinta elementare, mandata a servire a Milano a tredici anni perché così si doveva in quegli anni. «Imparai quella volta, in quel cortile, una cosa nuova: l’emarginazione dei poveri. La sentii nella pelle come una frustata. Ebbi netta la sensazione d’essere considerata diversa dalle mie compagne che abitavano in piazza», racconta. E nonostante ciò, quella necessità indomita, infinita di rivolta contro tutte le disuguaglianze e le ingiustizie che segnerà la sua vita intera. Nel caso di Tina non si tratta di parole vuote, ma esperienza Sulla pelle viva, come intitolerà il suo libro sul Vajont. Il 13 ottobre 1963, con la gola ancora serrata per quello che era appena successo a Longarone, Erto, Casso, scrive su l’Unità delle parole che la definiscono mirabilmente: «Non volevo diventare famosa per un fatto così tragico quando scrivevo contro la Sade. Volevo semplicemente impedire che questo disastro colpisse i montanari della terra dove sono nata, dove ho fatto la guerra partigiana, dove ho vissuto tutta la mia vita. E ora non riesco neanche a esprimere la mia collera, il mio furore per non esserci riuscita».

12 ottobre 1963
L’UNITÀ AVEVA DENUNCIATO TUTTO
MAI CREDUTI E SOTTO PROCESSO
di Tina Merlin

Questo giornale aveva raccontato nel ’59 e nel ’61 
i rischi di quell’opera grazie
 ai pezzi della giovane cronista che fu accusata di falsità

È stato un genocidio. Lo gridano i pochi sopravvissuti, resi folli dal terrore della valanga d’acqua e dalla disperazione di trovarsi soli e impotenti a superare una realtà tragica, fatta oramai di nulla, o meglio fatta di sassi e melma amalgamati dal sangue dei loro cari. Una realtà che ha sconvolto all’improvviso la fisionomia di interi paesi, ma che era purtroppo. prevedibile da anni, da quando ancora all’inizio dei lavori del grande invaso idroelettrico del Vajont i tecnici sapevano di costruire su terreno argilloso e franabile, che perciò potevano portare alla catastrofe.

Genocidio quindi, da gridare ad alta voce a tutti, affinché il grido scuota le coscienze del popolo e il popolo, la cui pelle non conta mai niente di fronte ai dividendi dei padroni del vapore, spazzi via alfine con un’ondata di collera e di sdegno chi gioca impunemente, a sangue freddo, con la vita di migliaia di creature umane allo scopo di accrescere i propri profitti e il proprio potere. Che qualcuno, se ne ha il coraggio, mi smentisca in questo momento. Io assumo la responsabilità di quanto dico; i colpevoli si assumano la responsabilità di quanto hanno fatto. E la giustizia giudichi.

Affermo che ci sono a responsabilità morali e materiali. Ho seguito la vicenda dell’invaso del Vajont con passione non solo di giornalista, ma di figlia di questo popolo contadino e montanaro che si ribella alla retorica delle «virtù tradizionali», che mal nasconde il cinismo dello sfruttamento più spietato. Con questo cuore ho seguito tutte le vicissitudini, le resistenze, le paure dei montanari di Erto contro la «Sade», non per impedirle di costruire il grande bacino idroelettrico del Vajont, ma per impedirle di compiere un delitto. L’intuito e l’esperienza di quei montanari, confortati per altro da pareri di grandi geologi, indicavano la Valle del Vajont non adatta a reggere la pressione di di 160 milioni di metri-cubi d’acqua.

La realtà ha dimostrato la ragione dei montanari, non quella dei tecnici della «Sade». La società elettrica sapeva che le pareti dell’invaso erano formate dal terreno di una enorme frana caduta centinaia di anni fa, sulla quale è sorto in seguito il paese di erto. Sapeva che il monte Toc era esso stesso parte di quella frana e che era prevedibile che l’acqua immessa nel bacino dovesse erodere piano piano il sottosuolo e provocare disastri. Quattro anni fa, quando è stata sperimentata la resistenza del bacino, grosse fenditure avevano segnato le case di San Martino e delle altre frazioni di Erto alle pendici del Toc. Esse, piano piano, si estesero a ridosso del monte, facendo nascere la paura tra gli abitanti di Erto. Costoro si appellarono inutilmente ad ogni autorità possibile dando veste giuridica ad un largo comitato unitario che lottò per anni nel tentativo di opporsi alla costruzione. (...).

Io mi feci portavoce di quei montanari e scrissi un articolo per l’Unità, indicando quello che sarebbe potuto accadere e che oggi è accaduto. La pubblica autorità mi accusò di propagare notizie false atte a turbare l’ordine pubblico. Venni processata a Milano assieme al direttore de L’Unità. (...). lo e il compagno onorevole Bettiol, che rappresentavamo il Partito Comunista, fummo soli e sempre gli unici a sostenere attivamente le ragioni dei montanari. Essi mi difesero energicamente davanti ai giudici del Tribunale di Milano e dimostrarono, con prove e testimonianze, non solo che io avevo scritto la verità, ma che tutto il paese di Erto si trovava in pericolo assieme ai paesi del Longaronese. I giudici mi assolsero, ma le autorità che dovevano tenere conto dei fatti e impedire un possibile massacro, diedero invece via alla «Sade» per i suoi esperimenti criminosi. Fatti, oltretutto, con i miliardi del popolo italiano. (...) Quelle stesse autorità di governo che gestendo oggi gli impianti idroelettrici, e sapendo che da circa un mese la situazione del Vajont peggiorava, non hanno provveduto a scongiurare l’immane sciagura che si è abbattuta stanotte sul Bellunese (...). (11 ottobre 1963)

Rassegna sindacale, ottobre 2013

Torno ancora una volta nella valle del Piave. Mi attende un incontro con un comitato di cittadini in lotta contro il progetto di un'ennesima e devastante centrale idroelettrica. All’altezza di Longarone, come sempre, come tutti quelli che conoscono la tragica storia di cinquant’anni fa, volgo lo sguardo verso quella maledetta diga che incombe sulla valle.

Mi siedo sulle rive del Piave - il corso d’acqua più artificializzato del mondo, un deserto di ghiaia - e apro la mia copia, piena di sottolineature, di Sulla pelle viva, il libro di Tina Merlin di denuncia sul Vajont. Leggo il suo ineguagliabile epitaffio sulla tragica serata del 9 ottobre 1963:

«Sono le 22,39. Un lampo accecante, un pauroso boato. Il Toc frana nel lago sollevando una paurosa ondata d’acqua. Questa si alza terribile centinaia di metri sopra la diga, tracima, piomba di schianto sull’abitato di Longarone, spazzandolo via dalla faccia della terra. A monte della diga un’altra ondata impazzisce violenta da un lato all’altro della valle, risucchiando dentro il lago i villaggi di San Martino e Spesse. La storia del “grande Vajont” durata vent’anni, si conclude di tre minuti di apocalisse, con l’olocausto di duemila vittime».

Il mio pensiero corre a Tina, questa straordinaria giornalista dell’Unità che ho avuto il privilegio di conoscere. Al suo coraggio di affrontare da sola il colosso SADE, subendo processi per aver raccontato della diga.., per aver lanciato l’allarme due anni e mezzo prima della tragedia. Per aver denunciato l’arroganza di troppi poteri forti. L’assenza di controlli. La ricerca del profitto a tutti i costi. La complicità di tanti organi dello Stato. I silenzi stampa. L’umiliazione dei semplici, la sua gente, alla quale lei cerca in ogni modo di dare voce.

Per decenni il Vajont è rimasto un ricordo vago nella memoria nazionale. Se negli ultimi anni siamo tornati a parlarne lo si deve alla ristampa del suo libro e, soprattutto, all’orazione civile di Marco Paolini perché, come egli scrive,«le storie non esistono finché non c’è qualcuno che le racconta».

Ma se l’Italia dimentica – scrive Paolo Rumiz – «l’Enel ha la memoria lunga. L’acqua del Vajont c’è ancora nel bilancio idrico nazionale. Come se non fosse accaduto niente. S’inaugurano monumenti alle vittime dell’onda assassina, ma quei centocinquanta milioni di metri cubi servono ancora. Sono il lago di carta che giustifica la devastazione del Piave, disidratato dalle sorgenti alla foce.(…) Come dire che la tragedia ha accelerato, anziché frenarlo il dissesto idrogeologico».

Si è dato via libera al saccheggio. Risultato: se dovesse tornare l’alluvione degli anni sessanta, i danni sarebbero «dieci volte maggiori». Parola di Luigi D’Alpaos, ordinario d’idraulica all’università di Padova. Troppi detriti, troppi ostacoli sulla strada del fiume sacro della Patria.

A cinquant’anni di distanza è cambiato qualcosa? Finalmente salgono a Longarone il Presidente della Repubblica, Ministri e “governatori” per il “mea culpa” dello Stato, per chiedere scusa ai cittadini. Le parole pronunciate dal Ministro Orlando sono sagge: «Le resistenze delle popolazioni locali e dei comitati non si possono liquidare come localismi dei no, ci sono esperienze di chi vive nei luoghi che meritano altrettanto rispetto delle perizie tecniche».

Ancor più decise e autocritiche suonano le parole del “governatore” del Veneto, Zaia: «In questo Paese abbiamo bisogno di costruire meno strade e di realizzare più opere di prevenzione idrogeologica». Che il nostro Presidente sia rimasto folgorato sulla via di Damasco di fronte al ricordo della strage del Vajont? Non è la prima volta che egli pronuncia condivisibili parole che facevano presagire a una svolta ambientalista. L’aveva già fatto nel 2010 di fronte all’alluvione che ha colpito mezzo Veneto e l’ha ripetuto anche nella torrida estate del 2012: «Basta cemento. Serve una moratoria in piena regola!. Peccato però che nel frattempo la sua Giunta abbia dato il via libera a tutti i progetti voluti dagli immobiliaristi e dalla finanza.

Un diluvio di autostrade, bretelle, tangenziali, tunnel, camionabili; una costellazione di new Cities e il lasciapassare alle nuove lottizzazioni dei comuni in cerca di oneri di urbanizzazione. In un Veneto che già negli ultimi vent’anni ha visto diminuire la superfice agricola del 21,5%, un’estensione superiore a quella di tutta la provincia di Vicenza: con un ritmo di 38 ettari al giorno, corrispondenti a più di 53 campi di calcio! Mentre la Metropolitana di superfice è al palo da vent’anni e si taglia il trasporto pubblico locale, la Giunta del Veneto sembra affetta da bulimia autostradale.

Cambiano le Giunte, si avvicendano in carcere e agli arresti domiciliari i vertici dei consorzi, delle imprese e delle società che monopolizzano le “grandi opere”, la Guardia di Finanza documenta l’infiltrazione mafiosa nel mercato immobiliare del Veneto, il dissesto idrogeologico provoca danni in continuazione, la qualità dell’aria è la peggiore d’Europa ma la musica che suonano sul Canal Grande non cambia: cementificare e asfaltare. Lasciare mano libera ai progetti che le varie lobby finanziarie e del mattone hanno in programma e che “concerteranno” con i soliti assessori. Sui tavoli degli uffici regionali sono già pronte decine di “progetti strategici”: mentre si lasciano deperire i 2000 ettari già infrastrutturati di Porto Marghera si spreca altro suolo veneto con svariati milioni di metri cubi di volumetrie e centinaia di chilometri di nastri d’asfalto. Progetti che vanno approvati con le norme “semplificate” della Legge Obiettivo, degli Accordi di Programma, dei famigerati Project Financing “sporchi”. Si dice che costeranno poco. In realtà pagheranno molto i cittadini: nell’immediato con l’aumento dei pedaggi (il Passante di Mestre è l’autostrada più cara d’Italia) e per il futuro si costruisce un debito occulto che graverà sulle spalle delle prossime generazioni. Per i privati proponenti rischi zero. Per i cittadini oneri sicuri.

Ma per riuscirci la Regione ha bisogno di derogare alle norme e superare l’avversione e la protesta delle popolazioni locali che con manifestazioni e scioperi della fame si oppongono con determinazione e competenza alla privatizzazione della rete stradale veneta e alla devastazione del territorio. Opposizioni che, come dice il Ministro Orlando, «non si possono liquidare come localismi del no».

Non ho visto il film, ma intanto giudico questa una efficace recensione al Grande Raccordo Anulare, maestro di scempi del territorio là dove questo non è governato dalla pianificazione, strumento di una visione olistica, ma dagli interessi e dalle visioni settoriali. Luigi Piccinato definiva gli autori di quel prodotto territoriale “gli ingegneri anali”, certo in riferimento alla azienda di appartenenza. Dinamopress, 30 settembre 2013

Un film? Un documentario? O piuttosto un invito alla rassegnazione urbana?

In un punto che non sono riuscito a riconoscere il Grande Raccordo Anulare taglia, sovrastandola, una sinuosa pista dove scorrono velocissime automobiline telecomandate. Una serpentina di curve che, rincorrendosi, non spezzano il folle ritmo di quei bolidi. Il contrario di quello che avviene sopra. Qui le colonne di auto procedono lentamente in attesa di trovare come “tirarsi giù”da quell’anello di asfalto imposto, nell’immediato dopoguerra, alla città e fuori da ogni logica urbanistica, dall’ allora rinata Associazione nazionale strade (Anas). Un pesantissimo lascito a segnare per sempre il destino urbanistico di Roma e il proprio espandersi a macchia d’olio.

Non è però all’urbanistica, al comporre il disegno della città (almeno non direttamente), che guarda il Sacro GRA, la pellicola di Gianfranco Rosi vincitrice quest’anno del Leone d’oro della Mostra del Cinema di Venezia. Più che a quell’infrastruttura circolare, che accompagna alla semplicità del proprio tracciato la difficoltà di individuare i punti in cui quella strada entra nel tessuto urbano, Rosi sembra piuttosto domandarsi come un anello, che sembra fatto per percorrerlo senza fermarsi mai, abbia saputo farsi “territorio”.

I potenti signori dell’Anas battezzarono il Raccordo come “autostrada urbana”. Di fatto un ossimoro. Come può un largo nastro d’asfalto (l’autostrada) farsi largo nel tessuto compatto di una città costruita nel tempo: prima dentro le mura e, poi, con una marmellata di case, addossate le une alle altre con insufficienti strade (l’urbano, spalmate tra le vie consolari)? Girandogli intorno. Questo è quanto è stato fatto e, anche questo, ha segnato il primato del trasporto automobilistico privato come elemento principale del muoversi in città.

Solo che, a differenza del Grande Raccordo, che nel tempo prima si è saldato e poi si è andato facendo sempre più largo, la città, Roma, ha subito un metabolismo diverso. Fatto, certo, di aberranti forme di ingrassamento, figlie del processo bulimico della rendita, ma soprattutto facendo dell’urbanizzazione, e quindi della costruzione della città, la struttura principale dell’accumulazione capitalistica.

Il Grande Raccordo Anulare misurabile in termini di chilometri è invece immisurabile. In questa parte della metropoli perde (ma lo è mai stato?) il suo essere un elemento dimensionale, un limite (come le mura), un confine (non individua un dentro e un fuori), un essere lontano e un essere vicino in una città in cui la periferia non è mai stata capace di costruirsi come un’alternativa reale al centro storico. E’ un oltre. Un’ “astrazione“ come ci raccontava Renato Nicolini . Un segno artistico “senza nessun collegamento, dove gli snodi in cui le consolari attraversano il GRA non hanno motivo di essere, tranne l’assolutezza del cerchio”. Una “ macchina celibe , forse - ancora Renato - qualcosa di grande forza simbolica- continuazione ideale della cupola di San Pietro, ma anche, del tempietto di San Pietro in Montorio del Bramante”.

Un ritratto esatto. Il GRA poggiando sul territorio dell’oltrecittà, dice molto di più delle storie (delle vite) che incontra, diventa il simbolo di come il capitale finanziario costruisce la città scippando le trasformazioni urbane a chi materialmente le produce e privando chi è condannato a vivere in questo abitare di ogni diritto alla città. Il GRA è il simbolo dell’Oltrecittà, quella parte del proprio territorio dove Roma è diventata metropoli perché lì, ma non solo, è iniziata a pensarsi come luogo dove far coesistere le trasformazioni territoriali e quelle istituzionali.

E’ lì che si sommano gli immobili invenduti perché si vuole ogni cittadino indebitato per il resto della vita, ma anche con questo non avrà casa; è lì che i padroni dei “residence” succhiano soldi (tanti) al Comune per riciclare, in case dalle cento finestre corrispondenti ad altrettanti monolocali, le tante famiglie buttate sulla strada magari da quelle stesse case fonte dell’indebitamento; è lì che si costruiscono i recinti “ sicuri” in cui ci si accorge che si ha paura ad abitare in schiere edilizie circondati dall’isolamento sociale, è lì che si costruisce il disprezzo per le “periferie”, per chi le abita, per chi le attraversa; è lì che si torna elezione dopo elezione per dire che finalmente è pronto qualcuno a rappresentarti. E’ in questo magma che il film si cala, costruendo non una storia, ma sommandone alcune.

Solo che, tutte, sembrano avere in comune una sorta di rassegnazione. Lo è quella della ragazza, che vive con il padre in un monolocale, che aspetta che qualcosa accada; lo è quella di chi, sempre nel medesimo residence, rimpiange la casetta del campeggio dove era stata ospitata; lo è quella del sedicente convintissimo principe che affitta per location di set per fotoromanzi (esistono ancora?) una residenza costruita intorno una vasca da bagno dorata, lo è quella della ragazza che balla sul bancone di un bar (attenta a non sbattere la testa su una trave che, anche con le riprese fatte dall’esterno e la sapiente colorazione di Luca Bigazzi, riporta quel locale più che al “Nightawks” di Hopper alla trascuratezza costruttiva di un ingegneraccio romano) decisa a fare a meno del “rossetto rosso che la fa tanto troia”; lo è il pescatore di anguille che sta lì in una casa sul fiume come “mio padre e mio nonno” che ci fa capire, sbeffeggiando il “sapere” di chi si occupa delle sue stesse cose aggravato dal fatto di trovarselo scritto su di un giornale, il senso vero del film: andare a vedere chi ha rinunciato all’abitudine delle relazioni.

L’oltrecittà è metropoli, il luogo dove è più alta la forma di resistenza alla privazione del plusvalore prodotto dall’attività del comune. Nel cerchio del GRA di Rosi non c’è traccia . Ad accorgersene a suo modo è il cacciatore del “punteruolo rosso” che ha capito che per salvare le palme deve riuscire ad ascoltarle. C’è bisogno di ascolto. Lui lo fa con violenza forte della sua “missione”. L’unico a provarci è forse il barelliere con la sua giornata in cui, non per mestiere, mette in pratica esercizi di cura verso gli altri: asciuga le mani dell’anziana mamma preda ad una forma di perdita senile di memoria, le tira fuori i gorgoglii di quand’era bambina, fa lo stesso, aiutandosi con garze e fazzolettini, togliendo il sangue dal volto verso chi raccoglie dopo un incidente, ma non trova nessuno che mostri attenzione a lui. Così per avere compagnia mangia parlando con una ragazza pescata in un collegamento Skype con il computer infilato tra piatto e bicchiere.

Tutti i protagonisti del film, personaggi reali, che sullo schermo interpretano se stessi e le loro storie di ordinaria rinuncia, sembrano riciclare intorno quell’anello un abitare che non hanno mai avuto. Che sono decisi a rinunciare ad avere. Costretti a scegliere (ed accettare?), come sono: se in quei pochi metri quadri mettere un tavolo o un letto o, quando c’è la necessità di tutti e due, optare per la soluzione del letto a castello; a ricevere dalla città quale esclusivo elemento di spettacolo solo traffico; a stupirsi di vedere un segno urbano (ringraziare?) che “comunque il cupolone si vede anche da qui; ad assicurare ( quindi tutto funziona ?) che quella strada gira e rigira, ma trova sempre, se hai un incidente, come portarti all’Ospedale; che affittando stanze puoi tirar su i soldi e continuare a compiacerti della pergamena che elenca i tuoi “titoli”; che da solo puoi, non tanto salvare una palma, ma far valere le “tue ragioni” che tu si che….; che puoi continuare a vendere il tuo corpo con la libertà di scegliere di farlo a casa tua e, quindi, alzare il prezzo; di parlare di vini e di viaggi che non hai mai fatto, ma che devono essere certo descritti in qualche libro che forse hai letto…..

Percorrendo l’Oltrecittà solo pochi anni prima (il progetto ancora continua) gli Stalker (gruppo interdisciplinare di esplorazioni urbane) hanno saputo trovare e riportare sulla scena urbana altre storie. Persone e comunità resistenti, conflitti e progetti di trasformazione, saperi e lavori , affetti, lotte e sogni. Sempre, girando a piedi intorno lo stesso anello, ovunque incontrando in tutti (e fornendo a chi li ha accompagnati in questi anni di viaggio) la consapevolezza di essere lì dove viene rivendicato il diritto alla città.

L’occhio di Rosi pare non volersene accorgere preferendo sezionare la vita degli “altri” quasi con intento divulgativo. E’ casuale che faccia parte del gruppo di produzione il medesimo produttore (Marco Visalberghi) che da sempre segue le incursioni televisive di Piero Angela?

Solo qualche mese fa lo Gianfranco Rosi ci ha consegnato una preziosa “anteprima”; una sorta di “prologo”al suo lavoro, in cui Renato Nicolini ripreso in un viaggio sul GRA in un camper, ci raccontava una Roma diversa, perché sapeva che a quell’anello comunque erano aggrappati, o sfiorava, tanti “ futuri possibili”. Gianfranco Rosi, con straordinarietà, è riuscito in quell’occasione a farsi complice di Renato nel farci capire che il futuro a cui lui faceva riferimento era quello anteriore: il tempo in cui pensiamo all’oggetto del nostro interesse come realizzato anche se ancora ciò non è avvenuto. Renato sapeva che il dominio del capitale finanziario ci avrebbe stretto intorno questa città, ma che saremo stati capaci ( avremo lottato) per liberarsene.

Non ho “individuato” il posto dove il GRA seziona le piste de minibolidi, ma ho ben riconosciuto, per averla progettata qualche anno fa, una piazza ritagliata all’interno di una zona di edilizia popolare. Lasciata alla più completa assenza di ogni forma di manutenzione è oggi quasi una miniforesta. Vedendo che non ci sono però elementi di degrado o di rottura delle sedute o delle pavimentazioni mi pare di capire che chi quella piazza usa, anche lasciando crescere il verde, non ha rinunciato a far morire uno spazio di libertà dal cemento. Intorno al GRA nell’oltrecittà il viaggio continua.

». Altreconomia.info, 28 settembre 2013

"Se picchi emotivi di rabbia indignata non lasciano spazio alla rassegnazione, c'è ancora spazio per resistere alla devastazione del territorio". In occasione del “digiunoperlambiente promosso il 28 e 29 settembre da numerosi comitati veneti contro Grandi opere e Project Financing, Ae intervista Francesco Vallerani, geografo dell'Università Ca' Foscari e autore di Italia desnuda. Percorsi di resistenza nel Paese del cemento






«L'Italia sarà sempre più desnuda se, dopo i picchi emotivi di rabbia indignata, il disagio di vivere tra i cannibali del paesaggio si tramuterà in rassegnazione» scrive Francesco Vallerani presentando il suo libro, Italia desnuda. Percorsi di resistenza nel Paese del cemento (Edizioni Unicopli, 2013).
Vallerani, che insegna Geografia all'Università Ca' Foscari-Venezia, è veneto, ed il Veneto - un paesaggio che ha subito negli ultimi decenni eccessive trasformazioni- è l'ambito privilegiato dei suoi studi.

E poiché i processi di cementificazione non paiono destinati a fermarsi, il 28 e 29 settembre numerosi comitati veneti (cittadini che non si rassegnano, e coltivano la propria indignazione) hanno scelto di lanciare un messaggio contro le grandi opere, digiunando contro “la devastazione del territorio”. È un "digiunoperlambiente che - secondo Vallerani- rappresenta “una strategia valida per tenere alta l’attenzione sulla necessità assoluta di salvare il salvabile, e bloccare una volta per tutte la corsa folle verso l’accaparramento di ciò che ancora resta di preziose risorse territoriali”. 



Nel tuo libro, evidenzi il rischio di "noncuranza", "assuefazione", di una "indifferenza che placa i disagi" di questa invasione del cemento. In che modo il "digiuno a staffetta" -promosso al termine dell'iniziativa "solitaria" di Don Albino Bizzotto - rompe questo stato di cose? Che effetto può avere?


«Noncuranza è figlia dell’indifferenza, che va di pari passo con la superficialità con cui si affronta ogni aspetto della vita quotidiana, accontentandosi di spiegazioni semplificate e senza alcun interesse per un percorso esistenziale consapevole. Questo è uno dei frutti velenosi diffusi ampiamente nei decenni di videocrazia in cui siamo immersi, regime che senza manganelli e olio di ricino ha distratto e addormentato le coscienze, lasciando ampio spazio a una progressiva erosione e impoverimento delle regole necessarie alla convivenza civile. L’invasione del cemento, con tutte le sue devastanti tipologie, è uno degli esiti più appariscenti di questo elogio delle strategie per l’arricchimento individuale.

«Le conseguenze del disastro sono di fronte agli occhi di tutti e la politica, tenuta in scacco dagli immensi interessi immobiliari e delle grandi opere, si è rivelata incapace di governare l’evolversi della territorialità.
Se le leggi non servono, poiché trionfa il meccanismo delle deroghe e degli abusi, non restano che le azioni di elevato valore evocativo e simbolico, come la straordinaria scelta del digiuno di Don Albino, quanto mai opportuno e benefico sasso lanciato nel maleodorante e torbido stagno dell’indifferenza pubblica e privata. Dopo la risonanza mediatica del singolo fatto, fa piacere notare la reazione dei cittadini di buona volontà che nonostante tutto riescono a sopravvivere in una regione come il Veneto. L’indignazione e il disagio che ho potuto rilevare è causato non solo dalla colpevole latitanza delle istituzioni - che non hanno vigilato sul pregio di importanza globale dell’ex paesaggio palladiano, consegnandolo ai posteri sotto forma di una sgangherata accozzaglia di obbrobri edilizi, con inoltre aria e acque seriamente contaminate -, ma anche dai nuovi scenari previsti in un immediato futuro, fatto di nuove infrastrutture viarie, nuove e pervasive edificabilità, contaminazione definitiva dei paesaggi più attrattivi».



Per quale motivo, a tuo avviso, il Veneto -che è stato un esempio di urbanesimo per il nostro Paese- è diventato oggi un paradiso per capannoni? Perché sta accadendo questo, intorno ai centri storici e alle Ville palladiane, che sono un Patrimonio dell'umanità Unesco?

«In Veneto le popolazioni hanno trovato, fin dai tempi della colonizzazione romana (basti pensare alla intensa distribuzione di agri centuriati, ancora oggi facilmente visibili tra Padova, Treviso e Mestre) ottime condizioni ambientali per un vantaggioso insediamento, per lo più collegate alla fertilità dei suoli, all’abbondanza di acque, sia per l’irrigazione che per i trasporti verso il litorale, e di boschi.
Inoltre, la distribuzione sparsa delle abitazioni, raramente aggregatesi in villaggi compatti, si consolida in età medievale con una fitta distribuzione di pievi rurali, attorno a cui si aggregano le prime unità di villaggio. Queste costituiscono una fitta rete di relazioni legate al mondo rurale, da cui emergono numerose polarità di importanza strategica -soprattutto nel periodo di frequenti conflitti tra i liberi comuni di Verona, Vicenza, Padova e Treviso-.
 Centri che sono ancora oggi delimitati da importanti cinta murarie (Cittadella, Montagnana, Soave, Este etc.). 
L’eredità storica di case sparse e città murate sono simboli tuttora indelebili di spiccato individualismo e di chiusura contro l’altro, per cui fin dalle origini prevale il proprio tornaconto o quello di una comunità ristretta rispetto al bene comune. Il mancato rispetto dei contesti attorno ai centri storici e alla maggior parte delle ville di età veneta ha inoltre a che fare con le condizioni di profonda miseria e ignoranza, e soprattutto con le politiche nazionali che non sono riuscite a capire che l’emergenza del primo dopoguerra si era esaurita alla fine degli anni ’50, anche tra gli ex poveri emigranti veneti.
È mancata una guida urbanistica, ma soprattutto etica, con gravi responsabilità anche da parte della Chiesa, che non ha per nulla rallentato la china rovinosa verso l’insaziabile rincorsa al benavere, travolgendo ogni valore e sacralità del creato, deviando invece verso la nuova religione del denaro e del successo economico. Ecco perché è perfetta la definizione di “paradiso per capannoni”».



In "Italia desnuda" evidenzi come, da Calvino a Settis, il mondo della cultura abbia avuto un ruolo fondamentale nel descrivere il paesaggio e le sue trasformazioni a partire dagli anni Cinquanta. Se è vero che Antonio Cederna riuscì a far istituire il Parco dell'Appia antica, per quale motivo credi che oggi l'effetto congiunto di indignazione intellettuale ed "azione popolare" non producano gli stessi effetti?

«Il caso di Cederna e del parco dell’Appia Antica è più unico che raro: tutte le altre voci che si sono levate in difesa del paesaggio italiano tra gli anni ’50 e ‘60 hanno avuto poco esito, salvo il caso della legge di tutela dei Colli Euganei, nel 1971, che ha bloccato il prelievo di trachite dagli splendidi poggi amati e descritti da Petrarca, Foscolo, Byron e Shelley.
Oggi l’indignazione intellettuale è senza dubbio molto più diffusa, ma per incidere sull’opinione pubblica e smuovere i responsabili politici per un tempo poco più lungo di uno spot pubblicitario (è questa ormai l’unità di misura per valutare il livello di attenzione, in quest’epoca di superficialità liquida), è necessario l’intervento del personaggio molto esposto nelle reti televisive, di abilità oratoria, dotato di qualità telegenica, dunque un tipico esemplare da talk show.
Il contributo delle centinaia di altri prestigiosi intellettuali che per fortuna ancora operano in questo sciagurato Paese rimane relegato in qualche aula universitaria, nelle riunioni di comitati, in qualche libro o articolo di modesta tiratura, quasi mai recensiti dagli organi di stampa (anche i cosiddetti progressisti e democratici).

«Non resta che l’azione popolare, ma anche qui bisogna essere rumorosi (non violenti), elaborare strategie insolite, come nel caso (di enorme efficacia mediatica a livello globale) dei coraggiosi che a nuoto si sono messi di traverso alle grandi navi nel canale della Giudecca a Venezia.
Ricordo con nostalgia il generoso contributo dato da Andrea Zanzotto alla battaglia per la difesa del paesaggio veneto, producendo larga condivisione. Tale successo è stato addirittura avvallato dai vertici della regione, garantendo con retorica solennità la tanto auspicata inversione di tendenza. Le solite parole senza seguito, effimera condivisione che però mai hanno avuto seguito concreto: anche oggi il viaggio nell’entroterra di Venezia consente di riempire un ancora troppo spesso quaderno di doglianze».

Verso la rottura il miracoloso equilibrio tra città e campagna che il PRG di Giovanni Astengo (1965-72) aveva tentato di tutelare? Sembra di si. Occhi aperti su Assisi. Il Fatto Quotidiano, 25 settembre2013

Se Assisi è ancora quella che è, e cioè “un esempio unico di continuità storica di una città con il suo paesaggio culturale e l’insieme del sistema territoriale” (così la motivazione con la quale l’Unesco ha inserito la città nel canone del patrimonio dell’umanità), non lo si deve (solo) alla provvidenza di Dio, ma anche alla saggezza e alla lungimiranza dei suoi cittadini. Virtù, queste ultime, che si sono incarnate nel Piano Regolatore Generale del Comune di Assisi approvato nel 1972 e redatto sotto la guida dell’architetto Giovanni Astengo: un piano che ha permesso ad Assisi di superare, se non intatta, certo ancora “viva ” la stagione della grande cementificazione che ha stravolto l’Italia.

Ora c’è chi ritiene che quella saggezza si sia decisamente appannata. Lo scorso 8 agosto il Movimento 5 Stelle ha presentato, al Senato, un'interrogazione a risposta scritta ai Ministri dell’Ambiente e per i Beni Culturali in cui si chiede, tra l’altro, “quali misure intendano adottare per garantire, in uno dei luoghi più importanti al mondo, l’adozione di un piano regolatore regionale che non permetta nuova cementificazione”. Al fondo dell’interrogazione sta una forte preoccupazione per l’approvazione del nuovo Piano regolatore di Assisi, che manda in pensione quello di Astengo senza averne – secondo molti – le virtù. L’interrogazione ricalca in parte un dettagliato studio dell’ingegner Paolo Marcucci, consigliere comunale di opposizione, che dimostra come “rispetto al precedente Piano Astengo, la linea di inedificabilità assoluta a protezione del Colle Storico è stata arretrata verso la città murata, rendendo tale parte della zona agricola collinare posta al di sotto della città murata di Assisi priva della necessaria tutela”. La stessa riduzione di tutela si registra per le zone collinari ad ovest delle mura, e nella già provata pianura. In più il piano licenziato dal Comune prevede l'inserimento di nuove zone edificabili sulle mitiche colline di Assisi, e in zone finora agricole.

Il sindaco di Assisi ha risposto alle critiche nel modo peggiore, e cioè annunciando querele contro chi rovinerebbe l'immagine della città. Già: ma chi davvero la sta rovinando?

Non è aumentando la “moneta urbanistica” (i metri cubi edificabili), magari con la conferma di atti illegittimi della Giunta Alemanno, che si rigenerano la periferie, ma eliminando la stretta creditizia. La Repubblica, ed. Roma, 20 settembre 2013

ASSESSORE Caudo, i costruttori di Roma chiedono al Comune regole certe e tempi brevi per ottenere le concessioni. Anche perché, dicono, senza certezze le banche non aprono le borse...
«Con le associazioni dei costruttori, fin dall’insediamento, abbiamo aperto un tavolo operativo. Concordo con il presidente Bianchi, quando indica la rigenerazione urbana come un’opportunità anche per gli imprenditori. Delle sue argomentazioni mi sembra centrale quella dell’accesso al credito che è questione di rilevanza strategica».

Come risolvere il problema?
«Intanto diciamo che è un problema comune, perché la difficoltà di accesso al credito per le imprese ha fatto lievitare nei nostri uffici le giacenze dei permessi a costruire, già pronti ma non ritirati. I cantieri non aprono e le imprese sono in difficoltà. In difficoltà è anche il Comune che vede diminuire l’incasso degli oneri di urbanizzazione. Erano circa cento milioni di euro l’anno, prima della crisi, oggi siamo intorno ai 41 milioni di euro. E questo è un problema di risorse per le politiche sociali e i servizi ».

Perché i permessi non vengono ritirati?

«Per la mancanza di risorse economiche. Ad oggi abbiamo circa 700 permessi di costruzione non ritirati. Dall’aprile di quest’anno sono aumentati di ben 200».

Come sbloccare la situazione?
«Va sbloccata insieme: il Comune, le imprese, il sistema economico della città da una parte e il sistema creditizio dall’altro. Riporto qui quanto è emerso negli incontri che ho organizzato in proposito con gli istituti di credito.

Qual è la soluzione?
«Le banche sarebbero disposte ad aumentare la loro disponibilità al credito verso le imprese a fronte di una maggiore presenza anche di garanzie del sistema regionale ».

Come ci si può muovere?
«Proponiamo un patto civico tra Comune e imprese per rendere credibile nei confronti del sistema creditizio le proposte progettuali. L’obiettivo potrebbe essere di ridurre del 20% le giacenze entro l’anno. Oggi le difficoltà di finanziamento spingono le imprese a ricorrere a quella che viene definita la “moneta urbanistica”».

Ossia?
Le quantità edificabili sono utilizzate come garanzia ma il ricorso alla sola “moneta urbanistica” deforma il sistema economico e costruisce una città poco vivibile ».

In concreto?
«Riconosciamo l’esigenza di poter utilizzare queste garanzie ma dobbiamo anche riportare il ragionamento alla qualità dei quartieri che si realizzano, che non è solo misurabile in metri cubi. Per questo il patto che proponiamo è “civico”, perché aiuta le imprese e rende gli interventi urbanistici più sostenibili sotto il profilo sociale e ambientale».

Riferimenti

A proposito degli atti illeggittimi della maggioranza Alemanno vedi l’articolo di Giuseppe Paglino e la documentazione sul sito carteinregola

1l manifesto, 19 settembre 2013. Con postilla

Il 2 agosto 2013, a seguito dell'approvazione da parte del ministero per i Beni Culturali, la Giunta Regionale della Puglia presieduta da Nichi Vendola ha finalmente potuto adottare il Piano Paesaggistico Territoriale Regionale, predisposto dall'ottimo assessore alla qualità del territorio Angela Barbanente, frutto di un complesso e lungo lavoro, che ha visto all'opera una grande équipe di specialisti coordinata da Alberto Magnaghi, uno dei più grandi urbanisti a livello internazionale.

Com'era prevedibile si è scatenato un fuoco di fila di opposizioni, di distinguo, di cautele, di timori. Una dura opposizione che vede attivi non solo i partiti del centrodestra ma anche pezzi del Pd, oltre ad esponenti del mondo delle imprese e delle professioni e a sindaci di entrambi gli schieramenti: tutti a difesa di un vecchio modo di intendere lo sviluppo, basato sulla cementificazione, sul consumo delle risorse, sulla distruzione dei beni comuni, accomunati nella richiesta di rinvii o addirittura di revoche.

Le motivazioni dichiarate si basano su una presunta mancata condivisione. La motivazione reale è, invece, il terrore per un Piano che disegna una Puglia diversa, innovativa, con progetti di sviluppo sostenibile e compatibile con le peculiarità del territorio; un Piano che blocca il bulimico consumo di territorio; un Piano fondato su una solida base conoscitiva e dotato di una Carta Regionale dei Beni Culturali nella quale sono censiti oltre diecimila siti di interesse culturale; un Piano che non si limita a proporre un approccio estetico e a proteggere alcune énclaves, isole di "bel paesaggio" in un oceano di brutture e di cemento, ma che si occupa dell'intero territorio regionale, delle periferie, delle coste, delle aree interne; un Piano che è ormai considerato un modello, studiato e imitato da molte altre regioni italiane. Un vero primato pugliese, anche perché è effettivamente il primo Piano Paesaggistico adottato in Italia, con le nuove norme.

Assurda appare proprio la tardiva critica di mancata condivisione. Quello della Puglia è, infatti, un Piano largamente condiviso, frutto di un'impostazione realmente democratica e partecipata. Non solo perché ci hanno lavorato nel corso di molti anni decine di specialisti provenienti dalle quattro università della Puglia e di altre regioni italiane e un ampio gruppo di giovani ricercatori e di professionisti, con l'apporto di numerose associazioni e di migliaia di cittadini, ma perché è stato presentato e discusso in molte conferenze d'aria (non meno di 13) tenute tanto nelle città principali quanto in piccoli centri della Puglia. Il Piano è stato, inoltre, oggetto anche di numerose pubblicazioni ed è interamente consultabile fin dal 2010, data della prima approvazione regionale, su uno specifico sito web ( http://paesaggio.regione.puglia.it ).

Gli attacchi sono chiaramente strumentali e denotano anche una sostanziale ignoranza del Piano. Gli oppositori, inoltre, si affannano a presentare quanti hanno contribuito a predisporre il Piano e quanti ora ne difendono la filosofia, come dei talebani, illiberali, centralisti, vincolisti, fanatici che vogliono affamare la Puglia e bloccarne lo 2sviluppo". Nulla di più sbagliato! Il Pptr della Puglia è tutt'altro che vincolistico, ma insiste sulle premialità, sugli incentivi, sulle buone prassi da diffondere. Non pensa di trasformare la Puglia in un immenso museo o in un grande Parco naturalistico, ma di favorire nuove e più innovative procedure di sviluppo del territorio. Si tratta, dunque, di obiettivi che anche gli ambienti più avveduti degli imprenditori, degli stessi costruttori, dei professionisti dovrebbero condividere, ampliando lo sguardo alle realtà più evolute del mondo.

Mi auguro che i partiti della sinistra, le associazioni culturali e ambientali, i settori più avveduti e avanzati delle professioni e della società civile, facciano sentire forte la propria voce, per evitare che prevalgano gli interessi particolari nel bloccare o stravolgere il Pptr, sollecitando tutti semmai a contribuire a migliorare ulteriormente questo straordinario strumento democratico di pianificazione del futuro della Puglia.

Non mancano anche attacchi da parte di chi considera il Piano addirittura eccessivamente permissivo e accomodante. A costoro ricordo l'esperienza della giunta di Renato Soru in Sardegna, caduta proprio sul Piano Paesaggistico. Cosa è successo successivamente con le politiche di Ugo Cappellacci è sotto gli occhi di tutti.
In Puglia è aperto un confronto tra diverse visioni, non solo politiche ed economiche ma anche culturali, tra chi cerca di difendere e valorizzare i beni comuni, i patrimoni culturali, i monumenti e siti archeologici, i paesaggi unici, l'agricoltura sana, lo sviluppo turistico di qualità, l'industria culturale, la ricerca e innovazione, e chi propone ancora retrive e disastrose politiche di un malinteso sviluppo basato solo su cementificazione, inquinamento, consumo di territorio, devastazione di paesaggi, degrado delle periferie, deturpamento delle coste, avvelenamento dell'agricoltura, a vantaggio di pochissimi e con gravi danni economici, sociali, sanitari e culturali della stragrande maggioranza dei cittadini pugliesi,che certamente non intendono tornare ad un passato che solo pochissimi nostalgici rimpiangono. Un confronto che ha una valenza non solo regionale ma anche nazionale ed europea.

Puglia e Sardegna: due piani paesaggistici formati secondodue diversi modelli ma caratterizzati da un’identica volontà: tutelare ilpaesaggio, patrimonio delle comunità in tutte le sue scale dalla locale allaplanetaria. Tutelarlo a partire dalle aree più a rischio a causa dellepressioni del dilagare della “città della rendita”. Più che di modelli parlereidi diversi “modi”, con l’attenzione focalizzata su visioni e aspetti diversi manon contrastanti: l’uno orientato alla lenta, difficile, ma necessariaformazione di una consapevolezza diffusa, virtualmente maggioritaria, dellaqualità e del valore (parliamo ovviamente di valor d’uso, non di valore discambio) del patrimonio costituito dal paesaggio, l’altro diretto primariamentealla difesa nell’immediato di ciò che del Belpaese è ancora sopravvissuto eperciò è minacciato più rapidamente d’essere travolto e cancellato per sempredagli attacchi della speculazione fondiaria, resa più potente dal fulgore delnuovo moloch, il Mercato. Sulle differenze e sulla necessità d’integrazione traquesti due modi mi propongo di tornare più distesamente. Per ora voglio limitarmi ad annotare che ledue esperienze, quella pugliese e quella sarda, sono accomunate oltre che dalleintenzioni, da una circostanza: entrambe sono violentemente attaccate daifautori della mercificazione delpaesaggio e dalla cementificazione del territorio nel silenzio assoluto deimezzi d’informazione (si fa per dire) dell’opinione pubblica, pronti a denunciaregiustamente ogni fiammelle dell’incendio che devasta l’Italia , a deprecare,altrettanto giustamente, il consumo di suolo, e mai a difendere l’unicostrumento capace – se usato a fin di bene- di tutelare il territorio in tutti i suoiaspetti: la pianificazione.

In limine una precisazione all’articolo di Volpe. Il primopiano paesaggistico regionale approvato aisensi del Codice del paesaggio è stato quello della Sardegna, pienamentevigente dal settembre 2006. A partire dalla sconfitta di Renato Soru è iniziataun’operazione di svuotamento del PPR con leggi regionali della giunta del berlusconiano Cappellacci in pienocontrasto col piano, sottoposte al giudizio della Corte costituzionale ma, inattesa delle sentenze d’incostituzionalità, pienamente operanti benché illegittime. Nel silenzio generale dell’opinione pubblica nazionale.

L’ignobile schifezza delle “compensazioni“ difesa da un accordo bipartisan nella maggioranza consiliare che dice di sostenere Ignazio Marino mentre difende il lascito del devastatore Alemanno. Poi dichiarano di voler contrastare il consumo di suolo e difendere la legalità. Il Fatto quotidiano online, 17 settembre 2013

Cancellare e ritirare tutti gli atti dell’amministrazione Alemanno che aggravano il consumo di nuovo suolo agricolo”. Questa la promessa fatta in campagna elettorale dal candidato sindaco di Roma del centrosinistra, Ignazio Marino. “La città – recitava ancora il programma elettorale ‘Roma è vita’ – deve sapere con assoluta chiarezza che quel modello di sviluppo urbano è definitivamente concluso”. Ed effettivamente uno dei primi provvedimenti dell’ex senatore Pd, indossata la fascia tricolore, è stato – insieme alla discussa pedonalizzazione dei Fori imperiali – proprio quello di cancellare una delle scelte urbanistiche più contestate all’amministrazione Alemanno: il bando per il reperimento di aree agricole per la realizzazione di alloggi per l’housing sociale.

Nonostante l’impegno preso da Marino con i propri elettori, l’Agro romano potrebbe però essere ugualmente coperto da una nuova colata di cemento. Si dice infatti “allibito” il comitato cittadino Carte in regola, dopo la denuncia su Facebook del consigliere comunale del M5S, Daniele Frongia. Le commissioni congiunte Urbanistica e Patrimonio, entrambe presiedute da due esponenti del Pd (Antonio Stampete e Pierpaolo Pedetti), “si sono espresse in modo bipartisan (Pd-Pdl), con il solo voto contrario di Frongia e l’assenza dei consiglieri di Sel e Lista Marchini, a favore della immediata pubblicazione” di una delle delibere più contestate, tra quelle approvate in tutta fretta nell’ultima seduta di Consiglio comunale targato Alemanno lo scorso 10 aprile. E’ la 69/2012, con la quale vengono riconosciute all’Ater, Azienda territoriale per l’edilizia residenziale, e a numerosi proprietari privati di aree situate a Casal Giudeo compensazioni edificatorie. Per un totale di 1,3 milioni di metri cubi.

“Una delibera con forti dubbi di illegittimità” denuncia il comitato Carte in regola. Perché quei terreni nel 2003, con l’adozione del nuovo piano regolatore generale, vennero modificati da zona edificabile (secondo quanto prevedeva il P.R.G del 1965) a zona agricola con valenza ambientale. Nel merito si è espresso anche il Tar che, nei mesi scorsi, ha respinto il ricorso di un privato, confermando l’argomentazione formulata nel 2006 dal Comune di Roma, in risposta alle osservazioni presentate dallo stesso richiedente (“l’area in oggetto costituisce parte integrante del sistema ambientale”). E dunque: “Non tutte le volumetrie legittimamente soppresse per una scelta di riduzione delle quantità edilizie da parte dell’Amministrazione sviluppata nelle ultime tre Varianti, possono essere “compensate” senza vanificare le scelte urbanistiche dell’Ente locale – si legge nella sentenza del Tar del Lazio del novembre 2012 – (…) E’ necessario tener conto del perseguimento degli obiettivi di interesse pubblico o generale, fra i quali assume essenziale rilievo la riduzione delle volumetrie generali, cardine del NPRG”. Perciò “se venisse confermata – paventa il comitato Carte in regola – la delibera costituirebbe un precedente in grado di innestare un “effetto domino” devastante, perché autorizzerebbe tutti gli esclusi dalle “compensazioni” derivanti dalla Variante delle Certezze e previste dal PRG a pretendere dal Comune lo stesso trattamento”.

project financing e l'inerzia culturale nella tutela del territorio»
Un grazie molto sentito e sincero al Presidente Clodovaldo Ruffato e un saluto molto cordiale a tutti voi. In questi giorni ho pensato molto a questo incontro per dare al grido del digiuno non un significato di contrapposizione, ma di coinvolgimento.
Lo sapete che il digiuno prolungato mette le persone in uno stato di grande debolezza fisica per cui costituzionalmente si ha bisogno degli altri e qui anche istituzionalmente.

Voi forse vi aspettate che venga subito al nocciolo per quanto concerne la nostra Regione, il campo dove lavorate come nostri rappresentanti.
Invece sono obbligato da un'altra partenza. Non spetta a me e nemmeno sono competente per suggerire soluzioni tecniche. Ho scelto di esporvi il mio travaglio, senza pretese, ma con grande schiettezza pur nel rispetto e nella riconoscenza per quello che ognuno di voi cerca di realizzare per il bene comune. (Tenete presente che da anni la mia attività si muove su due versanti: quello sociale con le situazioni più povere e precarie; nello specifico oggi con le persone che hanno perso il lavoro e il settore dei sinti e rom. Sul versante politico alcuni interventi di interposizione nonviolenta in zone di conflitto armato ed educazione alla nonviolenza e alla pace; anche conoscenza e partecipazione alle attività di molti comitati ambientali grazie al servizio di informazione con Radio Cooperativa.

Il mio digiuno è partito alla chetichella la sera di ferragosto, ma è stato come avessi levato il tappo a una bottiglia.
Esiste una sofferenza diffusa per quanto concerne le scelte ambientali. Non avrei mai pensato che il digiuno sarebbe stato scelto come modo di impegnarsi per l’ambiente e per sensibilizzare la popolazione.
Vengo al mio percorso.
Quello che mi ha scioccato da due anni a questa parte sono due dati uno generale e uno locale.

1. Il pianeta.

Cito: “ Ci troviamo di fronte a una svolta nella storia del pianeta, in un momento in cui l’umanità deve scegliere il suo futuro (...) La scelta sta a noi: o creiamo un’alleanza globale per proteggere la Terra e occuparci gli uni degli altri, oppure rischiamo la distruzione, la nostra e quella della diversità della vita”. Ho citato dalla “Carta della Terra”.
Le due principali fonti di distruzione:
a) la macchina di morte della tecno-scienza: armi nucleari, chimiche e biologiche (25 modi diversi per distruggere l’umanità) b) il caos che abbiamo creato nel sistema Terra e che si manifesta attraverso il riscaldamento globale. Negli ultimi 5 anni si sta registrando, non solo il disgelo delle calotte polari, ma anche lo scioglimento del permafrost, il suolo perennemente ghiacciato del Canada e della Russia, con l’immissione in atmosfera di milioni di tonnellate di metano, che è 23 volte più dannoso dell’anidride carbonica per l’effetto serra. L’ossido nitroso, liberato dai fertilizzanti è 40 volte più distruttivo. Secondo l’ultimo rapporto ONU di valutazione degli Ecosistemi del Millennio, dei 24 elementi che sono fondamentali per la vita, 15 registrano un elevato grado di degenerazione; il pianeta è esausto, la madre Terra ha raggiunto il limite di sopportazione.

Il 20 agosto scorso l’umanità ha esaurito le risorse naturali che aveva a disposizione per l’intero 2013; in meno di 8 mesi sono state consumate le riserve di cibo (vegetale e animale), acqua e materia prime che sarebbero dovute bastare fino al 31 dicembre, immettendo nell’ambiente (suolo, fiumi, mari, atmosfera) una quantità di rifiuti e inquinanti superiore alla capacità di smaltimento del pianeta.

Questi dati, probabilmente noti a molti di voi, li sentite come una notizia pur importante o come una emergenza reale? E se è vera emergenza va affrontata direttamente e subito, o dobbiamo aspettare che tutti siano d’accordo per partire?
Quelli forniti non sono sentimenti, sono dati. Questo mondo in cui siamo cresciuti è finito, la crisi sta imprimendo un velocità imprevedibile. Qualcuno pensa che in qualche modo la crescita sarà una via d’uscita? Questa crisi non è solo economico finanziaria, è entropica.

Il pianeta così come stanno le cose, oggettivamente non ce la fa più.

2. Il Veneto

Vengo al secondo dato: il Veneto.

La mia origine è stata segnata dall’appartenenza alla Terra. I miei genitori, che vivevano da fittavoli in una grande famiglia patriarcale, hanno scelto di passare a una condizione di mezzadri pur di crescere una famiglia come sembrava loro giusto. La penultima categoria della società, dopo c’erano i braccianti.

Devo confessarvi che i dati riguardanti il consumo di suolo nel Veneto per me sono stati alla base della decisione del digiuno, perché sono direttamente collegati a quanto riferito sopra sulla situazione globale.
Il Veneto è una delle Regioni più attive nel mondo nell’affaticare il pianeta. C’è stata una crescita esponenziale delle infrastrutture viarie e delle urbanizzazioni, una crescita indifferente alla storia, alla natura dei luoghi e ai valori del paesaggio veneto, accompagnata dalla polverizzazione delle imprese diffuse ovunque, che hanno comportato la dispersione insediativa e la conseguente congestione delle infrastrutture della mobilità.

La cementificazione dei suoli riguarda quindi anche i terreni più fertili della pianura veneta, mentre la costruzione di sempre nuove strade, autostrade e superstrade, svincoli e tangenziali hanno determinato una ulteriore frammentazione degli spazi destinati all’agricoltura.

È stato un crescendo dagli anni 80 in poi: dai 72 milioni di mq all’anno di perdita di Suolo Agrario Utilizzato degli anni Ottanta, ai 97 milioni mq/anno negli anni Novanta, ai 182 milioni mq/anno dal 2000 in poi.
Un consumo di suolo pari a 38 ettari al giorno. Tra il 2000 e 2010, a fronte di un incremento della popolazione di 429.274 abitanti, sono state costruite 367.354 nuove abitazioni per una popolazione di 1 milione di abitanti.

Il Veneto così risulta la regione più cementificata d’Italia. Un modello di sviluppo la cui insostenibilità viene evidenziata anche dai dati relativi all’impronta ecologica dei suoi abitanti . Nel 2009 al Piano Regionale di Coordinamento (PTRC) si riscontra che, a fronte di una media nazionale pari a 4,2 ettari pro capite/anno, l’impronta ecologica degli abitanti del Veneto è pari a 6,43 ettari pro capite/anno . Cioè per sostenere i consumi e assorbire l’inquinamento di ogni abitante veneto sono necessari 6,43 ettari di terreni “biologicamente attivi”. Ma la “ bio-capacità ” del Veneto è pari a 1,62 ettari/abitante, quindi un “deficit ecologico” di 4,81 ettari pro capite/anno; deficit finora compensato con lo sfruttamento di risorse di altre regioni e continenti, ma che è facile prevedere, con la rapida crescita economica di Paesi emergenti, non sarà più praticabile in un prossimo futuro.

Il Veneto già oggi non ha l’autosufficienza alimentare.
So che conoscete bene i dati che vi ho esposto. Ma averli tutti davanti rimane comunque indispensabile per guardare a quello che stiamo facendo e cercare di trovare risposte per andare avanti.
Sono cifre che basta conoscere o cifre che ci impongono una svolta?
È in emergenza reale anche il Veneto o si trova soltanto in una situazione un po’ critica?
Al camper durante il digiuno erano appesi i 30 progetti iniziati o in partenza di strade e autostrade, i vari poli ospedalieri e le opere marittime. Non c’erano Veneto city – Tessera city – Motor city – né le cave, le discariche (a parte quella di Vianelle) le centrali idroelettriche, a biogas, a biomasse, né i dati rispetto alla fragilità idrica del territorio e all’inquinamento dell’aria. La pianura padana è una delle zone più inquinate e inquinanti d’Europa .

E pensare che a livello comunitario al 2050 dovremo ridurre del 70% il consumo energetico nei trasporti rispetto al 2009 e ridurre del 60% le emissioni di gas climalteranti rispetto al 2008!
Un documento della Chiesa italiana del settembre 2012 è intitolato “Educare alla custodia del creato per sanare le ferite della Terra” e testualmente dice: “Ritessere l’alleanza tra l’uomo e il creato significa anche affrontare con decisione i problemi aperti e i nodi particolarmente delicati, che mostrano quanto ampie e complesse siano le questioni legate all’intreccio tra realtà ambientale e comunità umana”.
Accanto all’annuncio infatti, è necessaria anche la denuncia di ciò che viola per avidità la sacralità della vita e il dono della Terra”.
E continua: “L’ambiente naturale non è una materia di cui disporre a piacimento, ma un’opera mirabile del Creatore, recanti in sé una grammatica che indica finalità e criteri per un uso sapiente, non strumentale e arbitrario.”
Veniamo tutti da un pensiero unico e cioè che lo sviluppo e la modernità ruotano attorno alla centralità dell’economia e della finanza, per cui anche il futuro si apre se saremo capaci ancora di crescita quantitativa.

Direi che siamo prigionieri, chi più chi meno, di questa concezione. A chi di noi è mai venuto in mente di prendere sul serio il punto di vista della Terra e dei suoi diritti, l’organismo vivo che fornisce gli elementi della vita a tutti gli altri esseri, viventi, noi compresi?

Mettiamoci con sincerità davanti a tutte le opere pubbliche e private, Mose compreso. Quante appartengono alla programmazione politica per un servizio alla popolazione e alla cura del paesaggio, quante invece rispondono allo sviluppo e al consolidamento di interessi di grandi gruppi della finanza e dell’economia? Vedete come i conti non tornano per gli enti pubblici, né a livello nazionale né a livello degli Enti locali. Sono sempre meno le risorse a disposizione. Eppure tanti privati si offrono a investire; per chi? Per il bene comune? Si fa sempre più ricorso al project financing pensando a benefici pubblici: un assunto del tutto falso. I privati realizzeranno le opere solo se l’Amministrazione pubblica si impegna a coprire i costi, anche qualora gli investimenti fossero maggiori del previsto o il traffico (nel caso delle opere viarie) minore del previsto. Dunque per i privati proponenti, rischio zero e guadagno certo. Per la collettività, utilità incerta e altissimo rischio di costruzione di un debito differito di ingenti proporzioni, addossato alle future generazioni. Questo è il nodo centrale, questo è il futuro. Progetti partiti in tempi ormai lontani e che non rispondono né ai servizi veri per la popolazione, né al restauro e alla bellezza del territorio e del paesaggio. Andando di questo passo non vi pare che di usufruibile gratuitamente da tutta la popolazione non rimarrà più niente neanche spostarsi da una località all’altra?

Sono in programma anche campi da golf, naturalmente con villette attorno e solo per ricchi....
Sto pensando al recupero fatto nelle città medioevali dell’Umbria, della Toscana, delle Marche. A tutti noi si allarga il cuore per questi scrigni recuperati e conservati di città e borghi. Perché deprezziamo il Veneto così ricco di arte, di gioielli disseminati ovunque e spesso ormai abbandonati, con bellezze naturali ineguagliabili e produzioni agricole di pregio? Nostalgia rivolta al passato o valore aggiunto per il futuro? Perché il territorio e il paesaggio in quanto tali non diventano il centro di interesse collettivo, capace di attirare gli investimenti necessari per mettere in sicurezza il sistema acqua bene comune, invece di fare le scelte più impattanti, mettendo a rischio le falde e le ricariche e rubando suolo alle coltivazioni?

Perché non è possibile un piano trasporti integrato ferrovia-strade a partire dai bisogni della popolazione, che si sposta sempre più con i mezzi pubblici per necessità, invece di privilegiare solo la fetta ricca della società, con TAV e fantomatici corridoi, che esistono solo nella testa di alcuni politici, ma certamente non nella realtà né all’est né all’ovest dell’Italia? Eppure una pioggia di miliardi. Perché non consolidare e rendere più efficiente e meglio coordinato l’esistente con un’occupazione costante?

Sappiamo tutti che ci sono molte falle di trasparenza e di legalità, conflitti di interessi in atto, non solo per il Mose. È una questione morale ineludibile, anche per il rischio ormai documentato di infiltrazioni mafiose.

Quanto avvenuto con gli ingegneri Baita e Mazzacurati non è un incidente di percorso; è la creazione e il funzionamento di un sistema di corruzione ramificato e stabilizzato.
Ho domandato ormai a tutti; nessuno mi ha fornito una risposta. Perché né ai parlamentari, né ai senatori, né ai consiglieri regionali è stato finora possibile accedere ai dati riguardanti il piano economico di un’opera pubblica della portata dell’autostrada pedemontana veneta? È un’opera pubblica; dovrebbe essere un diritto poter accedere agli atti. Ci sono due sentenze del TAR consolidate rispetto al mantenimento del commissario Silvano Vernizzi, che personalmente non conosco e che può essere la persona più straordinaria di questo mondo, ma che di fatto ricopre ruoli (presidente Veneto Strade e responsabile delle valutazioni del VIA) che comportano evidente conflitto di interessi.

Sapete che dopo le sentenze del TAR e il decreto del Governo Monti di riconferma del commissario si è aperta una eccezione di costituzionalità che finirà alla Corte Costituzionale. Penso sarebbe più onorevole per tutti, prima di tutto per l’istituzione regionale, mantenere il controllo e la vigilanza in corso d’opera invece che dover affrontare amare sorprese con perdita secca di credibilità a opera compiuta! Sarebbe veramente triste pensare che il palinsesto e il calendario della politica debbano dipendere dalle sentenze dei tribunali.

C’è un altro problema cruciale: il lavoro. Da sempre viene riproposto solo con le grandi opere pubbliche o private, con i grandi investimenti ad alto impatto ambientale e con ricavi esclusivamente a vantaggio dei privati. Sapete che c’è molta propaganda per giustificare scelte, che non sono per il bene della collettività. Ci sono esempi ormai eclatanti di modalità di lavoro diffuso, che concilia maggior risparmio e maggiore occupazione.

Faccio un semplice esempio. Con un miliardo di euro di investimento in raccolta differenziata spinta (porta a porta) e riciclo, si creano 200 mila posti di lavoro permanente. Per gestire la stessa quantità di rifiuti con l’incenerimento il costo si aggira sui 15 miliardi di euro con 3000 occupati.

Per l’occupazione, con la stessa spesa, c’è un rapporto di 1 a 1000 senza ricorrere a grandi opere. È quanto avvenuto a Ponte nelle Alpi: riciclo oltre il 90%; costo smaltimento rifiuti da 475.000 euro/anno a 40.000; occupazione da 5 operai a 13; con soddisfazione dei cittadini.

Oltre al Presidente di questo Consiglio regionale al camper del digiuno sono venuti altri rappresentanti politici di vari partiti. Mi sembra di capire che la linea sia quella di portare a termine quanto approvato e poi, un po’ alla volta rivedere programmi e progetti. Siamo di fronte a un impoverimento della popolazione sempre più veloce e diffuso. Partiamo dalle opere o partiamo dalle persone per affrontare la crisi? Non è problema di poco conto, sia per riorganizzare i servizi sociali nei singoli Comuni, che quelli sanitari e ambientali.

Una volta detto alle persone che sono esauriti i fondi per l’assistenza, non sono risolti i problemi, anzi. Rischiamo a breve di trovarci con una società a due velocità e con il rischio di conflitti sempre più forti per le necessità dei più poveri.

Per questo vi supplico di esercitare la vostra responsabilità umana e istituzionale verso tutti i cittadini: a partire dal riconoscimento dell’emergenza sociale e ambientale del Veneto (siamo in una crisi entropica e non solo strutturale) diamo un segnale di grande discontinuità con una moratoria su tutte le opere pubbliche e private che comportano un’ulteriore sottrazione di suolo coltivabile e una devastante colata di cemento e asfalto, snaturando ancora di più la realtà e la vocazione agricola del Veneto.

Infine una parola sui comitati. Da anni con Radio Cooperativa ho avuto modo di seguirne le vicende.
Generalmente si tenta di liquidarli tacciandoli di negatività fine a se stessa.
Devo confessare che, mai come in questi anni, i comitati hanno sviluppato competenze tecniche e giuridiche e soprattutto sono stati aperti al dialogo, se viene accettato, per offrire alternative. Tante volte mi sono domandato perché non venga preso in considerazione la ragionevolezza delle loro proposte, sapendo che nessuno di loro lavora per interessi privati o particolari.

Per me sono le sentinelle e i parafulmini della società e della Terra. Veramente la passione per il bene comune ha guidato in questi anni la loro attività e la loro dedizione. Se la vitalità della democrazia si misura dalla partecipazione attiva alle scelte importanti per tutti, dobbiamo ai comitati grande riconoscenza.

Vi prego di accogliere quanto esposto non come una pretesa, ma come una preghiera pressante.
Di nuovo grazie per avermi accolto e ascoltato.

Don Albino Bizzotto

Venezia, 3 settembre 2013


La merce va al nord: centomila euro per ricostruire un’intera zona
di Giuliano Foschini

Un pezzo di paesaggio pugliese in una villa in Brianza: l’ulivo secolare, il muretto a secco, il trullo. La scogliera sarda in una piscina sul litorale romano. Un casale umbro in Veneto, la terra rossa della Valle d’Itria all’Argentario. In Italia esiste un mercato assai particolare in grado di annullare la geografia, alterare l’ambiente e molto spesso consegnarsi al kitsch: è il mercato dei ladri di paesaggio. Sono contadini, vivaisti, architetti di esterni che si offrono di prendere un pezzo di un territorio e di riproporlo uguale e identico in qualsiasi parte d’Italia, anche a migliaia di chilometri di distanza.

Non lo fanno per bellezza, ma per denaro. Tanto: un albero secolare può costare anche diecimila euro, compreso di espianto e reimpianto. Mentre per ricostruire una zona si arriva a centomila euro. La regione che più delle altre viene saccheggiata è la Puglia, che ha nel suo territorio agricolo specificità chiare, a tratti uniche: gli ulivi secolari, per l’appunto. Ma anche la terra rossa nella quale crescono, i muretti a secco e addirittura i trulli. Ci sono vivai che vendono pacchetti interi mentre basta fare un giro su Internet per comprare un ulivo secolare. I prezzi variano dai mille ai cinquemila euro (compresi di trasporto e impianto), per realizzare un trullo non si va sotto i ventimila a cono mentre i muretti a secco, con pietre originali, non costano meno di 300 euro a metro quadrato. « mercato è florido, da quanto ci risulta le richieste sono molto alte» spiegano le forze di polizia che da anni hanno dichiarato guerra a questi predoni. Soltanto quest’anno ci sono stati un centinaio di sequestri: l’ultimo, effettuato dalla Finanza, è di sabato scorso quando su un camion sono stati trovati tre ulivi appena spiantati pronti a partire per un vivaio del Nord.


« vero problema - spiega il vice presidente nazionale di Legambiente, Edoardo Zanchini - è che non esistono leggi che tutelano un bene importante come il paesaggio. Proprio la Puglia ha, col governo Vendola, varato una legge importante per tutelare gli ulivi secolari. Ma evidentemente c’è qualcosa che non funziona, visto che il mercato non si è mai fermato: proprio l’altro giorno, con Goletta Verde, eravamo all’Argentario e ci siamo accorti che improvvisamente era spuntato un enorme ulivo secolare». Legambiente ha avviato una ricognizione per verificare i danni dei predoni del paesaggio. «È incredibile quello che è successo sulla costa dove è cambiata la morfologia: per creare spiagge laddove non ce n’erano, e creare accessi al mare dove esistono scogliere, sono state sbancate dune, rubata spiaggia qui e là che ha cambiato proprio la linea della costa».

«Effettivamente questo è un fenomeno nuovo però dal nostro punto di vista molto affascinante» commenta Mauro Agnoletti, professore della facoltà di Agraria dell’Università di Firenze e coordinatore della commissione di paesaggio agrario al ministero dell’Agricoltura. «Si sta riscoprendo l’importanza del paesaggio e non della singola pianta, ma dell’intero ambiente. Però il paesaggio va curato, restaurato ma non stravolto come sta accadendo anche perché non esistono catalogazioni e normative specifiche». Il professore cita per esempio il caso di querce secolari «prenotate l’anno precedente e poi spiantate con i bulldozer e le gru per essere trasportate in ville private. Ma anche alberi di agrumi, magari caratteristici della Sicilia, che finiscono al Nord. Il problema è che deve esistere una differenza tra una pianta e un soprammobile

Salviamo quei tesori dagli sfregi estetici
di Carlo Petrini

Mentre attraversavo il Salento non riuscivo a credere che per anni gli ulivi secolari e i muretti a secco che stavano rendendo il mio viaggio più piacevole fossero stati regolarmente estirpati dal territorio per finire in qualche spazio privato. Dopo anni di sciacallaggio del paesaggio (scusate la rima, ma questo è) ora in Salento ci sono controlli ferrei e i recenti arresti lo provano. Godevo di quegli scorci, di alberi che sono meglio di un’opera d’arte, di muretti che esprimono la cultura contadina meglio di qualsiasi parola, al pari di tanti buoni prodotti. Provavo a immedesimarmi nel ladro di paesaggio, o nel “mandante”: complici in un’azione criminale e responsabili di un’aberrazione estetica doppia. Data dal depauperamento del paesaggio, ma anche dall’idea triste, da parvenu ignorante, di poter mettere quei tesori altrove, fuori dal proprio contesto territoriale come in un giardino di una villetta. Mi dicevano che durante il boom di questo nefasto commercio gli ulivi venivano venduti per un paio di centinaia di euro. Ora divieti e controlli avranno fatto lievitare i prezzi sui mercati clandestini, ma quelle cifre comunicano perfettamente la bassezza di ladri e acquirenti: vengono i brividi solo al pensiero di dover quantificare in denaro il valore inestimabile di un ulivo cresciuto poderoso e produttivo, avvoltosi su se stesso in infinite forme per cento anni, sotto il sole cocente, battuto dal vento. Quell’ulivo è del proprietario della terra, certo, ma la combinazione esatta di quell’ulivo su quella terra sono un bene comune per chi ci si può perdere con gli occhi e con l’immaginazione. Sradicarlo e venderlo significa privatizzare un bene di tutti. Ed è una zappa sui piedi clamorosa per chi abita questa terra magica, oggi meta turistica molto popolare, ma che senza ulivi secolari e muretti a secco perderebbe identità riempiendo così di deserto gli spazi tra spiagge iperaffollate e svuotando di contenuti quella cosa che ci pregiamo di chiamare territorio. Vale per il Salento ma vale per ogni angolo di questa Nazione ancora bellissima: una “grande bellezza” (per dirla come il regista) più di tutto e nonostante tutto, che non merita ulteriori scempi.

Greenreport, 6 settembre 2013

Nel maggio 2012 abbiamo celebrato in un convegno internazionale - e con giusta enfasi - novanta anni di storia esaltante e per lunghi periodi drammatica del Parco Nazionale d’Abruzzo, oggi anche del Lazio e del Molise. Il convegno, i cui atti sono già stati editi in Italia e stanno per uscire in Gran Bretagna in edizione inglese, ha testimoniato la ricchezza di questa storia, la sua profonda e duratura risonanza nazionale e internazionale, il suo carattere pionieristico, le molteplici e straordinarie influenze che ha esercitato in più fasi sulla vita del territorio ma anche sulla politica e sulla cultura nazionale.

Uno straordinario patrimonio di esperienze e di conoscenze, insomma, un punto fermo nella coscienza ambientale locale, nazionale e internazionale e un’esperienza gestionale che ha pochi paragoni in Europa, come dimostra anche una messe di studi che si stanno ampliando di anno in anno. Arrivare – pur tra contraddizioni e contrasti a volte, ripetiamo, drammatici – ad accumulare questo eccezionale patrimonio che dal 1967 è riconosciuto da un importante diploma europeo ha implicato un formidabile contributo sia delle migliori energie locali, a partire dal fondatore Erminio Sipari, sia di una messe di tecnici, studiosi, politici di livello nazionale e internazionale. Per Pescasseroli e per il Parco sono passate in novanta anni figure che hanno fatto la storia della protezione della natura in Italia e nel mondo e vi hanno lasciato tracce spesso durature: da Riccardo Almagià a Pietro Romualdo Pirotta, da Ansel Hall a Filippo di Edimburgo, da Franco Pedrotti a Carmelo Bordone e tanti altri. Se si guarda agli organigrammi dei parchi nazionali e regionali italiani, all’informazione naturalistica, all’associazionismo ambientalista difficilmente si trova qualcuno che non abbia compiuto una parte della propria formazione o della propria esperienza professionale al Parco. Ciò è potuto avvenire, salvo brevi periodi, soprattutto grazie a un alto livello dei vertici gestionali, cioè dei presidenti e dei direttori dell’Ente.

Lungo novant’anni si può dire che soltanto per una ventina d’anni (dal 1933 al 1951 e dal 1963 al 1969) il Parco non ha avuto dei vertici di livello nazionale e internazionale, cioè grandi direttori come invece sono senz’altro stati Nicola Tarolla, Francesco Saltarelli, Franco Tassi e grandi presidenti come Erminio Sipari, Giulio Sacchi, Angelo Rambelli, Michele Cifarelli, Fulco Pratesi, Giuseppe Rossi. Persino la discussa esperienza di Aldo Di Benedetto, che noi stessi abbiamo avuto modo di criticare aspramente, rappresentava l’ambientalismo nazionale ad alti livelli e aveva una notevole esperienza di tutela alle spalle. Queste nomine, insomma, hanno sempre significato che la politica è stata in grado oppure è stata efficacemente indotta a riconoscere l’altissimo valore del Parco e a dotare il suo Ente di vertici adeguati, tecnicamente e culturalmente.

Questa lunga - ed estremamente feconda, come abbiamo visto - tradizione sembra ora interrompersi drammaticamente con la designazione da parte del ministro dell'Ambiente Andrea Orlando alla presidenza dell’Ente di un politico locale, sicuramente un galantuomo e un buon amministratore che però non possiede alcuna esperienza gestionale e soprattutto non possiede un profilo adeguato rispetto allo straordinario bagaglio che sarebbe chiamato a gestire. Questa scelta, perfettamente legittima sotto il profilo istituzionale, rappresenta però un cedimento inedito e assai grave a interessi di basso profilo: alla necessità di dotare un Ente, che peraltro viene da una storia recente difficile e paga il prezzo del progressivo decadimento della politica delle aree protette italiane, di un amministratore esperto, capace e inventivo viene infatti preferito il bilancino degli equilibri di potere provinciali.

La presidenza di una figura dalla storia straordinaria come Giuseppe Rossi meritava e merita senz’altro, coi suoi innegabili successi gestionali e d’immagine, un consolidamento e non si comprende come si sia potuto pensare di mettere da parte il suo prezioso contributo; il fatto – ancor peggiore – che a un costruttore del sistema delle aree protette nazionali come Rossi possa succedere un amministratore locale del tutto privo di esperienza non getta soltanto una luce sinistra sulle derive della politica delle aree protette italiane ma anche sul futuro del Parco Nazionale d’Abruzzo Lazio e Molise. La sua capacità di rappresentare un faro nell’universo delle aree protette europee, capacità che sembrava essere stata faticosamente ripristinata, è infatti destinata in questo modo a indebolirsi irrimediabilmente mentre non è difficile immaginare rischi ancor maggiori sul piano gestionale.È essenziale insomma che la scelta di un nuovo presidente per una riserva di eccezionale importanza nazionale e internazionale come il Parco Nazionale d’Abruzzo Lazio e Molise cada su una figura di alto profilo gestionale e/o scientifico, ripetiamo: un profilo nazionale e anche internazionale, come è stato negli anni migliori della sua lunga esistenza. La conferma di Giuseppe Rossi, a nostro avviso, sarebbe la strada più semplice e ovvia; un’eventuale alternativa a questa scelta non potrebbe in ogni caso che contemplare una figura di profilo non inferiore.

Due note per concludere questa riflessione. Per chi ha memoria sufficientemente lunga si può anzitutto osservare che paradossalmente proprio dalle file del partito che dovrebbe essere l’erede storico delle politiche più avanzate sulle aree protette, cioè il Pd, viene la vendetta postuma di Domenico Susi, cioè di colui che negli anni Settanta tentò tenacemente – e per fortuna vanamente – di aggiogare direttamente ed esclusivamente il Parco d’Abruzzo al notabilato locale di partito.

Infine, sorprende e amareggia come su questa vicenda si siano espressi soltanto gli amministratori locali mentre una spessa coltre di silenzio è stata stesa dall’associazionismo ambientalista.Un ulteriore segnale, se ce ne fosse bisogno, dei pericoli che ogni giorno di più incombono sulle aree protette italiane.

Il manifesto, 7 settembre 2013

Stop alla difesa completa delle coste sarde.
La giunta di centrodestra riscrive le regole del Piano paesaggistico regionale
di Costantino Cossu
Sulle coste sarde torna l'incubo cemento. Ai primi di ottobre Ugo Cappellacci, presidente della giunta di centrodestra che governa la Sardegna, presenterà in consiglio le proposte di modifica del Piano paesaggistico regionale (Ppr) varato nel 2004 dall'esecutivo guidato da Renato Soru. Sono però già note le linee guida del contro piano e sono più che sufficienti a rendere chiaro che l'obiettivo di Cappellacci e della sua maggioranza è quello di azzerare le misure di tutela che per quasi dieci anni hanno messo a riparo la Sardegna dagli appetiti degli speculatori immobiliari e degli impresari edili. Cappellacci ha fretta perché nella primavera del prossimo anno si terranno le elezioni regionali. Il leader del Pdl si ricandiderà e del via libera al partito del mattone vuole fare una dei due pilastri della sua campagna elettorale. L'altro pilastro sarà la proposta di fare della Sardegna un'unica zona franca, con lo scopo di garantire alle industrie già presenti sul territorio e a quelle che nell'isola vorranno investire consistenti riduzioni fiscali. Una ricetta semplice semplice, quindi: cemento e sgravi fiscali. Così il centro destra vorrebbe portare la Sardegna fuori dal tunnel di una crisi devastante, segnata dallo smantellamento di buona parte dell'apparato industriale e dal crollo dei tradizionali settori dell'agricoltura e della pastorizia. Il contro piano Nelle linee guida proposte da Cappellacci cambia tutto rispetto al Ppr. Le coste della Sardegna, che il Ppr considera un «bene paesaggistico» nel loro complesso, diventano un «sistema ambientale ad alta intensità di tutela». La salvaguardia non è più complessiva: si deciderà caso per caso con «regole più precise e quindi più trasparenti» - si legge nel documento - e una «maggiore qualità della pianificazione, con la massima cura delle peculiarità paesaggistico-ambientali». Che cosa esattamente significhino queste formule, lo chiarisce un altro passaggio della bozza approvata dalla giunta regionale e poi dal consiglio: «È necessario mediare tra la tutela delle risorse primarie del territorio e dell'ambiente e le esigenze socio-economiche della comunità, all'interno delle strategie di sviluppo territoriale e sostenibilità ambientale». Tutela sì, ma se questa blocca le «strategie di sviluppo territoriale» va eliminata o drasticamente ridotta. E siccome non è un mistero per nessuno che per la stragrande maggioranza dei comuni costieri le «strategie di sviluppo» coincidono con la lottizzazione del territorio per costruire alberghi e villaggi turistici, è chiaro dove vada a parare il contro piano di Cappellacci. Tanto più che il documento, subito dopo avere aver affermato la necessità di armonizzare «la tutela delle risorse primarie del territorio e dell'ambiente e le esigenze socio-economiche della comunità», fa riferimento sia al Piano casa lanciato da Berlusconi e per ben tre volte prorogato nell'isola da Cappellacci, sia ad una legge regionale, approvata da centro destra nel 2011, che prevedeva la costruzione di venti nuovi campi in tutta l'isola con altrettanti alberghi e strutture ricettive, soprattutto vicino alla costa (legge impugnata dal governo Monti che l'ha rimandata alla Corte costituzionale). Tutti alla corte dell'emiro. Ma c'è un altro motivo per cui Cappellacci vorrebbe chiudere al più presto la partita della revisione-cancellazione del Ppr. Lo scorso aprile la Costa Smeralda è stata acquistata dalla Qatar Holding, il fondo sovrano che è il braccio finanziario della famiglia reale dell'emirato arabo. A vendere è stato l'attuale socio di maggioranza del Consorzio Costa Smeralda, cioè la Colony Capital del milionario americano Tom Barrack. Con una quota del 14,3% la Qatar Holding era già socio della società che detiene quattro tra i più prestigiosi alberghi a cinque stelle del mondo, Cala di Volpe, Pitrizza, Romazzino e Cervo Hotel, oltre alla Marina e al Cantiere di Porto Cervo e al Pevero Golf Club, tra i più importanti campi da golf a livello internazionale. Ora la Qatar Holding possiede il 100 per cento della proprietà. Il complesso turistico alberghiero acquistato dalla Qatar Holding fu creato nel 1962 dall'Aga Khan e poi venduto a Barrack nel 2003. L'Aga Khan aveva deciso di disfarsi della sua creatura per le difficoltà che aveva incontrato ad ottenere dalla Regione Sardegna le autorizzazioni necessarie a realizzare un faraonico progetto di raddoppio della Costa Smeralda: una cosa come 2.300 ettari tra il comune di Arzachena e quello Olbia, sui quali sarebbero dovuti sorgere altri alberghi e strutture ricettive extra lusso. Barrack dal canto suo aveva investito 315 milioni di euro per diventare proprietario dei terreni e degli alberghi un tempo posseduti dall'Aga Khan. Ad aprile il magnate statunitense ha venduto agli arabi per 600 milioni. Anche lui, come l'Aga Khan, ha cercato di ampliare i limiti dell' insediamento turistico nato nel 1962, sia pure con obiettivi più modesti rispetto al principe ismailita. E anche lui ha dovuto cedere, bloccato dalle leggi di tutela, soprattutto dai vincoli stabiliti dal Piano paesaggistico voluto da Soru. Dalla Regione Barrack ha ottenuto solamente l'autorizzazione a restaurare alcuni degli alberghi storici. Troppo poco. Come l'Aga Khan, anche Barrack, non potendo costruire, è andato via, considerando la gestione dell'esistente poco remunerativa rispetto all'investimento sostenuto al momento dell'acquisto. Costa Smeralda 2 Il fondo sovrano Qatar Holding, che fa capo all'emiro Tamin al Thani, da poco succeduto al padre Hamad bin Kalifa al Thani, è un colosso della finanzia. In Europa investe nel settore turistico e dell'intrattenimento (in Italia ad esempio ha acquistato l'Hotel Gallia e in Francia la squadra di calcio del Paris Saint Germain). E come tutti sanno possiede l'emittente televisiva Al Jazeera. Con Barrack è socio nella proprietà dei Fairmont Raffles Hotel e della Miramax Film. In Costa Smeralda il fondo sovrano del Qatar cercherà di fare ciò che non è riuscito all'Aga Khan e a Barrack: gettare quanto più cemento possibile sui terreni acquistati non ancora edificati. Già sono stati presentati dei progetti di massima che danno un'idea molto precisa di quelle che sono le intenzioni dei manager dell'emiro. Sono quattro i nuovi alberghi che la Qatar Holding ha annunciato di voler costruire: uno col marchio Harrods da 150 camere, un family hotel da 200 posti letto con piscine e attività sportive e due hotel più piccoli, al Pevero da 90 stanze e a Razza di Juncu da 75. E siccome gli arabi vogliono anche diversificare e puntare ad un target un po' meno di élite, nei loro piani c'è anche un grande parco acquatico a Liscia Ruja, una delle zone più incantevoli della Costa Smeralda, ancora del tutto intatta. L'idea è quella di una maxi area del divertimento con scivoli e piscine a ridosso di una delle spiagge più belle del Mediterraneo. E poi ci sono le ville, queste sì per super ricchi: trenta extra lusso di altissimo pregio più altre novanta definite «normali». Ovviamente per fare tutto questo il Piano paesaggistico regionale deve andare in soffitta. Prima di comprare la Costa Smeralda, l'emiro (allora era sul trono c'era ancora Hamad bin Kalifa al Thani) ha incontrato a Doha Cappellacci, il quale ha garantito che presto il Ppr sarebbe stato modificato in modo da rendere possibili i progetti di espansione edilizia che né all'Aga Khan né a Tom Barrack era riuscito di realizzare. Non solo, il presidente della Regione Sardegna ha anche spiegato all'emiro che utilizzando il Piano casa regionale i suoi manager avrebbero potuto ristrutturare, fuori dai vincoli del Ppr, quasi una trentina di case coloniche dalla tipica architettura gallurese (gli stazzi) per trasformarle in ville di lusso. Cappellacci ha dato all'emiro la sua parola, ed è fermamente intenzionato a mantenerla. Se qualcuno non lo ferma prima.

Bray fermi il progetto di Cappellacci,
la tutela non può essere a singhiozzo»
di Renato Soru

«Confido in Massimo Bray, spero che non si vorrà rendere complice della cancellazione di una buona pratica, di un progetto che in questi anni ha mostrato il suo valore, diventando un modello studiato in Italia e fuori dei confini nazionali». È l'appello di Renato Soru al ministro per i Beni culturali perché impedisca che le modifiche al Piano paesaggistico della Sardegna allo studio da parte della giunta guidata da Ugo Cappellacci (Pdl) diventino realtà. Il Piano paesaggistico regionale (Ppr) è un'emanazione delle norme previste dal Codice Urbani per l'ambiente. Il che significa che così come l'approvazione del Ppr ha avuto bisogno dell'avvallo del governo, così dev'essere anche per ogni sua modifica. Quindi, se Bray dice «no», Cappellacci non può fare niente, il suo progetto di cancellare le misure di tutela varate nel 2004 dalla giunta Soru diventa impraticabile. Ce la farà, Bray, stretto nella morsa delle larghe intese, a resistere? Soru si augura di sì, e in questa intervista spiega quali rischi corrono il suo piano e le coste sarde.

A che cosa mira il contro piano di Cappellacci?
«Se le modifiche previste dalla giunta di centrodestra passeranno sarà cancellata l'idea che la fascia costiera sarda rappresenti un bene paesaggistico unitario. Le coste della Sardegna non sono la somma di tante cartoline, alcune belle e altre brutte. Sono nel loro insieme una cartolina. Sono nel loro insieme un valore paesaggistico da tutelare. Non c'è un pezzo più bello e un altro meno bello, un pezzo da difendere di più e un pezzo da difendere di meno. Nella visione del Ppr va difeso tutto allo stesso modo. «
Il Codice Urbani ha fatto un passo in avanti rispetto alle vecchie impostazioni: parla di paesaggio come insieme unitario e noi abbiamo utilizzato questa impostazione. Cappellacci ritorna alle singole cartoline e sceglie quali sono meritevoli di tutela e quali no. Si entra nel campo della discrezionalità: quello che decido che non merita di essere tutelato non lo merita perché a me sembra meno bello oppure perché ci sono interessi che devono essere favoriti?
«D'altra parte Cappellacci ha cercato di forzare il Ppr sin dalle prime settimane dopo la sua elezione. Anche prima. Durante la campagna elettorale Cappellacci diceva che il centro destra stava per liberare la Sardegna dal Ppr. Poi, dal governo, ci hanno provato in tutti i modi. Innanzitutto con il Piano casa, che in Sardegna si è cercato di utilizzare non solo per chiudere una veranda o per fare una stanza in più, ma per rimuovere il Ppr. Hanno cercato di introdurre norme che facessero rivivere i vecchi piani di lottizzazione cancellati da Ppr. Alcune di queste norme sono state cassate come illegittime, altre le abbiamo bloccate in consiglio regionale. Poi ci hanno provato con una legge che prevedeva la costruzione di un numero spropositato di campi di golf. Ma è stata impugnata dal governo perché anticostituzionale: contraddice il Ppr, che è una legge di valore superiore, emanazione del Codice Urbani, modificabile soltanto con il consenso del governo centrale.
«E ora c'è questo contro piano. Ci stiamo avvicinando alla conclusione della legislatura regionale, siamo già di fatto in campagna elettorale e Cappellacci per l'ennesima volta promette di cancellare il Ppr. Cappellacci ha dichiarato in maniera esplicita che modificare il Ppr serve, tra le altre cose, a rendere possibili sia gli investimenti in Gallura dell'emiro del Qatar sia altri simili. Certo. E prima diceva che le modifiche servivano a consentire gli investimenti di Tom Barrack e di tanti altri imprenditori che, secondo lui, sono scoraggiati dalle norme di tutela. Ora che Barrack ha venduto, bisogna venire incontro alle richieste dei nuovi proprietari, con i quali persino segretamente, nel passato, Cappellacci si è incontrato, andandoli a trovare a casa loro, a Doha, e promettendo di tutto e di più».
In Sardegna il centro sinistra le sembra sufficientemente attrezzato a condurre la battaglia contro la restaurazione del vecchio modello di turismo fondato sul mattone?
Dobbiamo lavorare perché i limiti politici e culturali ancora presenti nello schieramento di centro sinistra sulle questioni ambientali siano definitivamente superati. C'erano problemi nel 2004, quando la giunta che ho guidato ha cominciato il suo lavoro, e ci sono problemi oggi. Non siamo andati molto avanti. Credo però che in questi anni sia molto cresciuta un'opinione pubblica attenta alle questioni della difesa del paesaggio e dell'ambiente.
«E' aumentata la consapevolezza che il modello di sviluppo fondato sulla cementificazione delle coste non ha portato in passato alcun reale beneficio e che anche per il futuro non possa essere la risposta alla crisi pesantissima che la Sardegna sta attraversando. Ma vorrei dire anche che in Sardegna il centro destra è indietro persino rispetto agli stessi imprenditori, i quali oggi se anche avessero altri metri cubi a disposizione sulle coste non li utilizzerebbero, semplicemente perché le case non si vendono più. Nel passato la politica nazionale copriva i guasti di una pessima gestione della cosa pubblica stampando carta moneta. In Sardegna la illusoria via di uscita era un'altra, c'era un'altra carta moneta: i metri cubi. Non stampavano carta moneta, ma metri cubi. Ne hanno dato a chiunque. Il metro cubo era la carta moneta della cattiva politica in Sardegna. Oggi quella moneta è troppo inflazionata, non l'accetta più nessuno».

Una questione per nulla patetica e di guerra fra poveri, nell'uso dello spazio urbano, solleva problemi generali e attuali. La Repubblica Milano, 2 settembre 2013, postilla (f.b.)

Da una parte, i novanta anziani di Quarto Oggiaro che coltivano gli orti in via Lessona. Dall’altra, gli anziani di Novate in attesa che lì sia costruito un ospizio. La contesa per quei 1.800 metri quadrati di terreno si trascina da decenni. Ora Novate, proprietaria dell’area dal 1992, ha mandato ai milanesi lo sfratto: entro il 30 settembre dovranno lasciare gli orti per fare posto al cantiere della casa di riposo. Ma gli “ortisti” non ci stanno.

Alcuni degli anziani che entro fine mese dovranno sloggiare hanno più di 90 anni. A differenza della grande maggioranza degli orti milanesi — che nascono come abusivi, occupati nel primo Dopoguerra da famiglie pugliesi — in via Lessona la presenza agricola è nata in modo regolare. A partire dagli anni Sessanta, e fino al 1992, la grande maggioranza dei coltivatori ha pagato un affitto all’ente del Comune di Milano che ai tempi era proprietario dell’area. In quell’anno Palazzo Marino cedette ai vicini di Novate la proprietà del terreno, nonostante si trovi dal lato milanese dell’autostrada. «Dal 1992 al 2006 il Comune di Novate nemmeno si è preoccupato di registrare al catasto la proprietà del terreno — racconta Lorenzo Croce, presidente dell’associazione ambientalista Aidaa — quando ha deciso di entrarne in possesso, dopo 14 anni dalla cessione, si è messo a fare la guerra agli ortisti, definendoli abusivi. Tutto questo è assurdo esbagliato».

Ora Novate rivuole il suo terreno. Nonostante ancora non siano stati fatti i necessari carotaggi, i tecnici comunali hanno il forte sospetto che il sottosuolo richiederà una pesante bonifica prima dell’apertura del cantiere: sotto gli orti, infatti, si trova una vecchia cava, con ogni probabilità riempita di macerie dopo la seconda guerra mondiale. Scavando le fondamenta, sarà necessario bonificare. E bonifica significa due cose: costi elevati e tempi lunghi. «È evidente che il cantiere per edificare la casa di riposo non partirà a breve — dice Croce — per questo, non ha senso cacciare gli anziani prima del dovuto. Si lascino in pace, e intanto si trovi una soluzione alternativa». Essendo gli anziani ortisti quasi tutti milanesi, il Comune di Milano ha offerto loro appezzamenti alternativi, ma senza dare garanzie sulle dimensioni e soprattutto sulla collocazione, con il rischio che si possano trovare a chilometri di distanza. Gli ortisti, fra cui ci sono diversi vecchi partigiani della val d’Ossola, si dicono pronti a «resistere fino all’ultimo».

postilla
Emergono almeno tre questioni, che si possono riassumere anche se certo non esaurire in tre punti: 1) la destinazione d'uso a orti urbani non può più essere lasciata al caso per caso, ma rientrare in una strategia urbanistico-ambientale-sociale di lungo periodo; non sta né in cielo né in terra che un elemento base costitutivo del quartiere come il verde collettivo, tanto più essenziale quanto più autogestito e non gravante sulle casse comunali, sia alla mercé di decisioni discrezionali e private; 2) non sta neppure né in cielo né in terra che le strategie sullo spazio pubblico di quartiere (o più in generale quelle sullo spazio urbano inteso come rete) si sviluppino al chiuso di segrete e competenti stanze, rovesciando poi sulla cittadinanza le proprie deliberazioni, e aprendosi al massimo ex post al confronto, specie in un ambito così essenziale come le infrastrutture verdi, in cui gli orti si inseriscono: quell'area è coerente o meno rispetto alla logica di rete continua? Infine 3) il “cattivo” della favola altro non è che il Comune di Novate, ovvero non un'entità extraterrestre, ma la circoscrizione amministrativa i cui confini stanno un paio di isolati più a ovest dei quegli orti; probabilmente di cose del genere dovrebbe anche tenerne conto, la nostra politica, nel delineare le competenze della Città Metropolitana, che notoriamente si estende anche oltre le sale consiliari, e arriva ad esempio proprio a lambire gli orti, le case di riposo, e gli anziani che sono costretti a farsi inutilmente guerra (f.b.)

La Nuova Sardegna (e su eddyburg) la solitaria protesta contro i disastri territoriali, paesaggistici e (pardon) morali della Giunta Cappellacci, 31 agosto 2013

Capita di vederla con una frequenza inquietante questa scritta: uno dei tanti indizi della crisi che sta divorando il Paese. Come succede nei momenti di grande difficoltà c'è chi vende per tirare a campare. E c'è chi attende il momento più conveniente per comprare, e fa affari - d'oro appunto- perché da ogni tragedia, e pure nel corso delle guerre, c'è qualcuno che si arricchisce. Me l'immagino chi vende, il rimpianto e la vergogna a disfarsi del bracciale della nonna pensando che sarà fuso e perderà le sue sembianze per diventare un lingotto insieme a tanti altri ricordi di famiglia. Come gli stazzi galluresi, documenti preziosi della civiltà pastorale candidati a diventare inespressive ville con piscina.

La Sardegna è tra le aree più disarmate di fronte a questa dura prova di resistenza (il film “Cattedrali di sabbia” di Paolo Carboni descrive con efficacia lo smarrimento postindustriale).

E si ha l'impressione che c'entri poco la malasorte. Non penso a una regia occulta per gettare l'isola nel baratro della disoccupazione di massa. Ma che qualcuno, appena informato delle teorie del generale von Clausewitz, abbia pensato che disarmata sarebbe stata più facilmente espugnabile, è plausibile.

Ed ecco la sequenza di bandiere bianche per la gioia di chi si aspetta pure gli applausi qualsiasi cosa voglia fare in Sardegna. In fondo nessuno ha quasi mai trovato ostacoli nello sfruttamento dei beni naturali dell'isola, dal legno al corallo; alle spiagge e alle scogliere “naturalmente” destinate a fare da piedistalli di brutte case. E oggi tocca al sole, al vento, al sottosuolo.

Lo stesso programma, portare via senza investire granché, prendere senza restituire praticamente nulla, provocando danni irreversibili al paesaggio e all'ambiente. Gran parte delle coste sono state acquisite da avveduti pionieri negli anni Sessanta (anche a 50 lire a mq, quanto per sentire una canzone nel juke box). Con soddisfazione dei venditori d'oro, e gratitudine per l'imprenditore “innamorato della Sardegna”, ricevuto a Cagliari nel palazzo della Regione. Oggi - non si trascuri il valore simbolico - il presidente Cappellacci va a Doha e a Dubai, il piglio del piazzista, a chiedere a quegli investitori di volgere lo sguardo verso la Sardegna che sarà compiacente. Più la scaccio e più mi torna in mente la scena - “Maestà, gradisca! ”- nel film di Fellini.

Quei mercati sono spietati. I fondi di quegli stati sono gestiti da rapaci finanzieri a caccia di opportunità nel Mondo, prediligono comprare debiti. Ma ai sardi, prigionieri di un format, sono proposti come principi e cavalieri generosi, invaghiti della trasparenza del mare e della prestanza del cannonau; pronti a investire con liberalità nella filiera agroalimentare, nei trasporti o nei cavalli. Così che sembri un dettaglio l'interesse vero: il profitto che solo la speculazione edilizia può garantire nel brevissimo periodo.

Nessuna sorpresa, Cappellacci e Berlusconi lo hanno ripetuto in campagna elettorale: il disprezzo per il piano paesaggistico, il proposito di eliminare le tutele per favorire lo sviluppo (?) così come la destra in Italia lo intende al di la delle dissimulazioni. E poco conta che il ciclo edilizio per alimentare due mesi di turimo non sia la panacea, com'è ampiamente dimostrato. Altrimenti Gianni (intonachino spesso in nero) e Maria (aiuto cuoca 40 giorni all'anno) non sarebbero emigrati in Germania a cercare fortuna.

Colpisce invece che la sinistra, salvo eccezioni rare, mantenga un profilo basso che proviene anzitutto dalla esitazione del PD, diviso su questo e non solo. Una parte di quel partito non ha mai voluto bene al Ppr e ha spesso recriminato sulla ostinazione di Soru colpevole di averlo voluto (curioso che le sue dimissioni da presidente non abbiano mai portato a un chiarimento).

Così si lascia che M5S occupi la scena. Grillo è il solo leader nazionale che ha denunciato il pericolo, già evidente nelle leggi approvate della Regione per consentire le brutture di cui si legge su queste pagine. Ma è solo l'anteprima. I tre o quattro piani casa e la legge sul golf - impugnati dal governo per incostituzionalità [ma intanto “attivi”-ndr]._ non bastano per assicurare l'obiettivo di distribuire salvacondotti per più consistenti trasformazioni di aree di pregio (da Bosa a Alghero, dalla Gallura al Sulcis all'Ogliastra, e a domanda si vedrà). L'approvazione della grande variante del Ppr è annunciata per settembre. Non sappiamo se il disegno riuscirà: se il governo darà l'assenso a conclusione di un processo di copianificazione di cui non si sa quasi nulla, mentre si attende che parli il ministro (interrogato dai parlamentari Luigi Manconi, Michele Piras, Emanuela Corda). C'è - e questo è un segnale incoraggiante- una rete di movimenti che sta contrapponendo il buon senso a dissennati programmi di trasformazioni di territori non solo litoranei. Ne fanno parte molte donne determinate, “dolcemente complicate”, e questa è una garanzia.


Gli effetti perversi e previsti del Piano Casa (nelle suediverse edizioni) sono ormai visibili anche ai più distratti, compresi ifrequentatori stabili della Costa Smeralda. Manufatti improbabili sono sorticome funghi lungo le coste, così come negli insediamenti urbani vi sono statinumerosi abbattimenti di edifici, tanto di quelli degradati quanto di quelli dipregio, sostituiti da costruzioni sovradimensionate. Manufatti prevalentementevuoti perché, checché se ne dica, non c’è popolazione sufficiente che possaoccuparli e le persone che hanno bisogno di una casa, continuano a non vederesoddisfatto il loro bisogno primario perché non si possono permettere diaccendere i mutui per acquistare queste nuove residenze. A quanto pare anchegli sceicchi utilizzeranno lo strumento del Piano Casa per ampliare gli stazzi.E poco importa che ciò venga fatto con gusto (il nostro) oppure no. Di sicuropotranno permettersi architetti che faranno di tutto per assecondare i gusti dichi paga le loro parcelle. La responsabilità è degli architetti o dei nuoviproprietari? Direi di no, ma di chi ci amministra (male) regionalmente direi disì. Il Piano Casa ha risolto qualcuno dei problemi sociali ed economici deisardi, così come avevano promesso i promotori e sostenitori di questostrumento? Neppure uno. Si è creato un po’ di lavoro qua e là, pocoqualificato, a termine e sottopagato. Lavoro scarso e povero a fronte di unaltissimo costo in termini di aggressione al territorio e senza una qualsiasiidea di riqualificazione complessiva. Rispetto al Piano Casa poco hanno potutofare gli amministratori locali, giacché sono stati esautorati dal governoregionale e non hanno potuto impedire – anche se lo avessero voluto – i troppiscempi che si sono perpetrati in questi ultimi anni. I frequentatori abituali diCosta Smeralda (le Marzotta in prima fila) si sono accorti di questi effettiquando davanti alle loro ville immerse nella macchia mediterranea sono sortiedifici sovrastanti le colline che si affacciano sul mare e che impedisconoloro la bella vista di cui hanno goduto finora. Questo fatto ci rende solidalicon detti frequentatori? Neanche un po’, è ciò che è già accaduto ad Alghero,Castelsardo e via dicendo a persone che, magari, hanno investito la loroliquidazione per acquistare una casa al mare, che hanno pagato un sovraprezzoper i piani più alti e che all’improvviso si sono visti defraudare del bene (mail paesaggio non è un bene pubblico?) acquisito a caro prezzo. Ma avremmosolidarizzato anche con i frequentatori della Costa Smeralda se avesseroprotestato contro le politiche del presidente Cappellacci, così come ha fatto(inutilmente e per senso civico) una manciata di persone all’indomani delleprime dichiarazioni. Probabilmente, se avessero protestato anche loro, vista lasensibilità dei nostri governanti verso chi ha denaro e “conta”, a detta dellecronache mondane, forse saremmo riusciti ad evitare alla Sardegna uno strumento“fuori luogo” come il Piano Casa, così tanto voluto dall’allora presidenteBerlusconi e acquisito in tutta fretta dalla nostra Regione, la prima che haadottato il Piano Casa e che, almeno per questo, si colloca ai vertici dellagraduatoria.
Qualcuno dei fautori del Piano Casa ha pensato di fare unavalutazione costi/benefici delle loro decisioni? Ho paura di no. In Italia nonsi usa mai lo strumento della valutazione degli interventi proposti e adottati,né pre e né post. Eppure, sul PianoCasa non sono mancati i pareri degliesperti (dai giuristi ai sociologi ed economisti) e anche degli imprenditoripiù attenti e lungimiranti, e tutti hanno espresso pareri negativi. Inoltre,dar conto degli effetti equivarrebbe a dire che di affari se ne sono fattimolti in termini di speculazione, ma ciò non si è tradotto in ricchezza per lapopolazione e, tanto meno, in occupazione. Chi pagherà i danni prodottiall’ambiente e al territorio dal Piano Casa? Nessuno dei responsabili. Eppure,mi piacerebbe che anche in Italia e in Sardegna qualcuno iniziasse a pagare ilconto, magari bonificando a proprie spese quei territori che ha contribuito adegradare, oppure rendendosi utile ai servizi sociali.

Tra le molte ombre del governo napoletano di De Magistris anche qualche sprazzo di luce: l'Osservatorio sui Beni comuni: un tentativo controcorrente per restituire all'uso comune beni privatizzati. Il Fatto quotidiano, 30 agosto 2013 L'esperienza del governo napoletano di Luigi De Magistris presenta, come è ormai evidente, non poche zone d'ombra. Alcune di queste riguardano proprio la politica culturale: e in modo particolare la gestione infelicissima del luna park noto come Forum delle Culture, un progetto fallimentare ereditato dalla precedente amministrazione, e che il sindaco arancione non ha avuto il coraggio di cestinare. La vicenda ha registrato proprio in queste ore un passaggio grottesco: con l'assessore alla Cultura Nino Daniele (subentrato alla bravissima Antonella Di Nocera, rimossa per eccesso di onestà intellettuale) che affida al fratello del sindaco un importante incarico retribuito collegato al Forum. E quest'ultimo poi costretto a rinunciare.

Accanto alle ombre, tuttavia, ci sono anche luci. Tra queste credo che vada conteggiata l'istituzione di un Osservatorio sui Beni Comuni: lo credo al punto di aver accettato di farne parte insieme ad altri colleghi universitari (giuristi, economisti, storici). Il decreto istitutivo conferisce all'Osservatorio «funzioni di studio, analisi, proposta e controllo sulla tutela e gestione dei beni comuni».

Nelle nostre prime riunioni siamo partiti da una base giuridico-politica per nulla ovvia, e cioè che «laddove beni, anche in proprietà privata, siano abbandonati e perciò non assicurino quella funzione sociale, imposta dalla Costituzione, per cui il diritto di proprietà è riconosciuto e garantito dalla legge, sia possibile ritenere non più sussistente il diritto di proprietà e, dunque, acquisire il bene stesso alla collettività, ritenendolo un bene comune, ossia un bene oggetto di proprietà collettiva». Si tratta di tentare un'applicazione sistematica di quel radicalismo costituzionale che ha condotto a esperienze notissime (come il Valle a Roma, l'Asilo Filangieri a Napoli e molte altre in tutta Italia). Non solo: si tratta anche di alzare il piano di questa applicazione, coinvolgendo un'intera amministrazione comunale e non solo singoli cittadini, inevitabilmente più esposti ad eventuali azioni penali.

Da un punto di vista procedurale, l'Osservatorio sta definendo gli strumenti amministrativi di acquisizione di beni (privati o pubblici), abbandonati e dismessi. Nel merito, si tratta invece di elaborare una mappatura dei beni abbandonati e/o dismessi, e poi di elaborare procedure amministrative di nuova destinazione, di modelli partecipati di assegnazione e gestione, di piani di sostenibilità finanziaria.

Il caso del patrimonio artistico, di cui mi sto occupando, è particolarmente delicato. Non c'è città al mondo che abbia un patrimonio culturale tanto importante e al contempo tanto degradato, e inaccessibile ai cittadini. La cosa è atrocemente paradossale, se si pensa che il patrimonio, a Napoli, è diffuso capillarmente: ogni strada del gigantesco centro storico, anche la più devastata, è in qualche modo monumentale. In particolare, l'enorme «Napoli sacra», la cittadella religiosa fatta di chiese, oratori, confraternite, conventi, monasteri, innerva capillarmente il corpo della città: e ne è, in qualche modo, l'anima. Un'anima che può assolvere ad un cruciale funzione civile: la Napoli sacra offre alla Napoli di oggi un'enorme quantità di spazio pubblico di straordinaria qualità, ubicato in una zona popolarissima e disagiata.

Ma come è possibile rendere di nuovo accessibile ai cittadini (e specie agli ultimi) questo straordinario patrimonio negato? Con un intollerabile ritardo culturale (che, per esempio, rispetto agli Stati Uniti si misura in almeno tre decenni) l'opinione dominante in Italia vuole che la via d'uscita sia affidare in concessione questi luoghi monumentali a società private con scopo di lucro, o nel migliore dei casi ad onlus. La sfiducia nella gestione pubblica del bene comune è così elevata che siamo disposti a credere che società con il legittimo fine dell'interesse privato saprebbero coltivare l'interesse pubblico in modo più efficiente dello stato. Una posizione puramente ideologica, quest'ultima, che non solo rigetta alla base il progetto della Costituzione sul patrimonio culturale (rivolgendosi non a cittadini sovrani, ma a clienti a pagamento), ma non tiene in minimo conto i pessimi risultati della sostanziale privatizzazione della gestione del patrimonio inaugurata dalla Legge Ronchey all'inizio degli anni Novanta.

Un altra strada è, tuttavia, praticabile: e proprio Napoli può essere il laboratorio in cui sperimentarla. L'Osservatorio può individuare alcuni casi di monumenti importanti (da un punto di vista storico, artistico, sociale o altri ancora), in proprietà pubblica o privata, che siano negati e inaccessibili da molto tempo, per la cui riapertura non esistano progetti, o che addirittura siano esposti al rischio di distruzione (e l'elenco sarebbe assai lungo!). Questi monumenti andranno innanzitutto restaurati, lavorando in accordo con le strutture territoriali del Ministero per i Beni culturali, e cercando i fondi necessari (pubblici, europei, o anche di mecenati - ma non di sponsor - privati).Quindi si dovrà elaborare un progetto che tenga insieme la ricerca (e dunque la produzione di conoscenza e cultura) e l'apertura ai cittadini: un progetto che restituisca ognuno di questi monumenti alla città, sia sul piano culturale che su quello sociale. La gestione potrebbe allora essere affidata a cooperative di giovani storici dell'arte e dell'architettura laureati nelle università napoletane, che operino in convenzione sia col vomune sia con i fipartimenti universitari: secondo uno schema socialmente e culturalmente sostenibile, e orientato secondo i principi fondamentali della Costituzione.
Naturalmente, perché questa prospettiva sia credibile, il comune di Napoli deve essere un medico capace di curare prima di tutto se stesso: recuperando e utilizzando gli enormi spazi monumentali che possiede. L'Albergo dei Poveri di Ferdinando Fuga è solo il più clamoroso dei banchi di prova che attendono una gestione comunale che ha ereditato un bilancio completamente dissestato.
Ma non ci sono scorciatoie: se si crede che un altro modo di possedere è davvero possibile, bisogna saperlo dimostrare.

Il Fatto quotidiano, 28 agosto 2013, postilla

Il Prato della Valle a Padova, sul quale un tempo si affacciarono dai loro palazzi il cardinale Bessarione e Palla Strozzi, ne ha viste di tutti colori: sacre rappresentazioni e corse di cavalli, mercati popolari e assassini politici rinascimentali, raduni fascisti intorno a Mussolini e messe oceaniche di Giovanni Paolo II. Bisognava aspettare il 2013 perché questo luogo simbolo del paesaggio e della civiltà urbana veneti corresse il serio rischio di soccombere sotto le ingiurie collegate alla più rapace delle destinazioni: scatolone di cemento per parcheggio sotterraneo, con annessi gli immancabili centro commerciale e albergo. Il consigliere comunale Pd Giuliano Pisani,dopo aver difeso la Cappella degli Scrovegni (minacciata dai progetti dell'ex sindaco e ora ministro Zanonato), guida ora l’insurrezione dei padovani contro la sua stessa maggioranza, affidata al vicesindaco Ivo Rossi.

Gli argomenti del professor Pisani sono solidi: 1) il parcheggio sotterraneo non si può fare perché sotto il Prato si trova il cimitero medioevale dei monaci della prospiciente abbazia di Santa Giustina (un argomento, ahimè, che avrebbe dovuto bloccare anche il mostruoso scempio di Piazza Sant’Ambrogio a Milano, perpetrato con lo stesso fine speculativo); 2) Padova non ha bisogno di altri alberghi: i troppi costruiti negli ultimi anni hanno le camere vuote; 3) il Prato è uno straordinario spazio pubblico per cittadini liberi,è criminale trasformarlo nell'ennesimo supermercato/non-luogo rivolto a clienti anonimi; 4) i posti auto non saranno rivolti ai cittadini, ma saranno venduti, affittati, o comunque saranno a pagamento. Pisani promette una sacrosanta battaglia in consiglio comunale, affiancato da molte associazioni di cittadini (tra cui Amissi del Piovego, Legambiente e Italia Nostra).
Ma ciò che moltissimi padovani si chiedono è: come è possibile che la Soprintendenza per i Beni architettonici del Veneto Orientale abbia approvato la trasformazione di un simile luogo monumentale in un silos di cemento porta-auto? Una maggioranza di sinistra e una soprintendenza che aprono le porte ad una smaccatissima speculazione edilizia: le colate di cemento non coprono solo l'ambiente. Coprono anche troppi tradimenti.

postilla
I disastri delle città e dei territori appaiono e scompaiono all'attenzione dell'opinione pubblica come fiumi carsici. Lo scandalo dell'autosilo al Pra' della Valle emerse in tutta la sua ampiezza nel novembre 2010, grazie a un convegno organizzato a Padova, all'Accademia Galileiana, per iniziativa di un gruppo di associazioni ambientalistiche (vedi qui su eddyburg). Riemerge oggi, e nulla sembra cambiato da allora. Come già allora si argomentò, la vera questione, oltre le degnissime obiezioni dei padovani pensanti a questo stupido incistamento tumorale in un ambito storico-monumentale di pregio assoluto, è l'idea perversa degli autosilo che si sono fatti tanti amministratori. Forse ingannati dagli schizzi irrealistici sfornati dagli studi di progettazione, e che fanno apparire del tutto inserito e digerito dal contesto ciò che non lo è affatto, facendo sparire traffico, inquinamento, rampe di accesso e uscita, modifiche stradali indispensabili. Cose che rendono, in quasi tutti i casi, il modello dell'autosilo indigeribile per i nostri contesti storici, così come è indigeribile anche il suo presupposto, ovvero il diritto naturale all'accessibilità automobilistica se si è residenti, e relative trasformazioni edilizie. Come la cultura urbanistica italiana predica (e quando può pratica) da almeno mezzo secolo

Rinasce, grazie al prezioso lavoro della Cineteca nazionale un altro splendido film: dopo la Roma della lotta al fascismo (Roma città aperta, di Rossellini) è la volta della Napoli del comandante Lauro e della speculazione, Le mani sulla città di Rosi: quasi un documentario di un'Italia che è dura a morire. Il manifesto, 25 agosto 2013

Martedì 27 Agosto, a Venezia, verrà proiettato “Le Mani sulla Città” di Francesco Rosi, nella versione ristrutturata dalla Cineteca Nazionale. Si celebra così il cinquantennio del conferimento del Leone D’Oro al Festival Cinematografico al capolavoro neorealistico del Grande Regista (alla stessa ora RAI Movie ne offrirà visione TV).

Rosi denunciava lo sfascio urbanistico e politico di Napoli, in grande espansione in quegli anni. Non poteva sapere –forse lo intuiva- che la sua opera avrebbe costituito una magistrale, anche se assai inquietante, previsione circa i disastri delle politiche, non solo urbanistiche , che avrebbero segnato tutto il Paese,l’Italia intera, nei cinquantenni successivi. Sfregiandone irrimediabilmente quel volto “illuminato e gentile” colto dai viaggiatori del Gran Tour e che le era valso il soprannome di “Belpaese”.

Rod Steiger, nei panni del costruttore e politico Nottola, che spiega come un terreno agricolo “che vale 500 lire”, se diventa edificabile “ne vale 50.000”, costituisce una significativa interpretazione del ruolo della rendita speculativa nella crescita urbana, più efficace di molte lezioni di analisi urbanistica.,Il film spiega appunto il disfacimento delle politiche urbane rispetto agli interessi della rendita speculativa (la camorra restava sullo sfondo, allora, o come “utilizzatore finale” di piccolo cabotaggio).
Il film venne premiato con il Leone D’Oro nel settembre 1963: un mese dopo si sarebbe registrato il disastro del Vajont, seguito qualche tempo dopo dalla Frana di Agrigento e d’Alluvione di Firenze (1966). Eventi che dimostravano già come la crescita urbana, pure ancora relativa –e circoscritta alle città grandi e medio grandi- avveniva a scapito della sicurezza territoriale e della qualità ecopaesaggistica.

Nonostante i disastri, i tentativi di riforma urbanistica e di “nuovo regime dei suoli”, portata avanti dal democristiano Fiorentino Sullo con l’appoggio della sinistra socialista e del PCI venne bloccata, segnando addirittura la fine politica dell’ex ministro. Le emergenze ambientali della crescita territoriale portarono ad una serie di provvedimenti normativi, parziali, che nell’arco di un decennio, dal 1967 alla fine dei settanta, avviarono un processo pure timidamente riformista; la legge Ponte-Mancini, sulla scissione tra diritto di proprietà e di superficie, del ‘67; i decreti su zoning e standard, nel ‘68; la legge sulla casa e gli espropri, del ‘71; l’onerosità della concessione a costruire e degli oneri di urbanizzazione, del ‘77; l’avvio dei piani di recupero, del ‘78.

Questa intenzione –ed i modesti tentativi di pianificazione progressista che avevano comportato- venivano frustrati all’alba del decennio successivo da una serie di sentenze della Corte Costituzionale che mettevano in discussione vincoli urbanistici e criteri di esproprio. Annunciavano gli anni ottanta, con la crisi di Welfare state, l’avvio di un ventennio abbondante di iperconsumismo e una sorta di controriforma urbanistica, introdotta dalle sentenze citate e continuata con i tentativi di svuotare le capacità prescrittive dei piani con la cosiddetta “programmazione concertata”, in nome di un “Nuovo”, che invitava a “Fare”, in realtà a consumare senza senso e limiti,anche il territorio. E meno male che di lì a poco esplodeva anche in Italia la “questione ambientale”. In realtà, le criticità urbane e le “mani sul territorio nazionale” non si erano mai interrotte; la rendita speculativa, agraria ed edilizia, diventava industriale, poi commerciale e infrastrutturale,infine finanziaria dettata dal marketing urbano globalizzato:la semplice operazione di trasformazione diventava un affare, con i relativi lavori,più o meno grossi;migliore, se la nuova,anche ipotetica destinazione d’uso,trovava dei potenziali investitori. Neutralizzata la pianificazione efficace, razionalmente basata sulla domanda sociale, la città diffusa pervadeva sempre più i vari ambiti del territorio nazionale: una blobbizzazione cementizia industriale, che cancellava il paesaggio, seppelliva i beni culturali, degradava l’ambiente, deterritorializzava.

L’ex Belpaese diventava la Bengodi delle costruzioni e del consumo di suolo: laddove nel mondo, dal 1945 al 2005, si sono quintuplicati i volumi urbanizzati, e in Europa si è registrata una crescita di quasi otto volte, in Italia tale tasso supera i dieci punti, e nelle tre regioni ad alta densità mafiosa (in cui la criminalità organizzata era divenuta uno degli attori dominanti la scena politica) l’incremento è di oltre 13 volte!
Così, mentre si intensificavano i disastri sismici ed idrogeologici di un territorio fortemente indebolito dalla cementificazione, la quota di suolo nazionale consumato è oggi pari ad oltre il 20% dei 301.000 Kmq di superficie (raddoppio dell’ingombro negli ultimi 15 anni) e si producono costruzioni per una domanda inesistente (oltre 25 milioni di stanze vuote), mentre il bisogno sociale di abitazioni permane inevaso. Certo, questo è dovuto anche al fallimento della politica: il film di Rosi rappresentava perfettamente il dissolvimento dell’etica e della razionalità sociale che dovrebbe caratterizzare la gestione della cosa pubblica: il sistema decisionale viene prima circuito, poi incorporato dall’offerta di trasformazione urbana e territoriale, dettata da interessi speculativi. Finchè –a partire dagli anni novanta- una governance “ubriacata di pseudoliberismo” se ne fa strumento dichiarato: oggi, le politiche urbane e territoriali ai diversi livelli sono spesso extraistituzionali, dettate dalle imprese e soprattutto dagli istituti finanziari. Carlo Fermariello, che nel film rappresenta se stesso, è un’icona della buona politica legata alla reale domanda sociale: figura sempre più rara, poi quasi sparita, dalle nostre assemblee elettive.

.Per “aver fornito un contributo fondamentale alla cultura e alla cultura urbanistica nazionale”, Francesco Rosi qualche anno fa è stato insignito della Laurea ad honorem dal Corso di laurea in Urbanistica dell’Università di Reggio Calabria. È emblematico come –a causa dei tagli e delle controriforme Gelmini/Tremonti/Profumo - oggi, perfino quel Corso di laurea sia stato cancellato (i Corsi di laurea di Urbanistica e Pianificazione peraltro si continuano a tenere in diverse altre sedi). Nonostante le accorate declaratorie e denuncie sulla necessità di svolte radicali nelle politiche ambientali nazionali, il sistema politico decisionale restringe anche ricerca e formazione. Per tutto questo –ha ragione Roberto Saviano- il film resta un capolavoro, “una grande rappresentazione non solo di Napoli,ma dell’Italia, anche di oggi”. Anche se oggi forse Rosi girerebbe gli esterni in Val di Susa e gli interni tra Parlamento e Ministeri.

Riferimenti:
A proposito del film di Francesco Rosi e di un'iniziativa in proposito dell'Università di Reggio Calabria vedi anche qui su eddyburg un articolo in proposito e alcune scene del film

L'ermo colle che sovrasta Recanati e che fu sempre caro a Giacomo Leopardi rischia di scomparire sotto il peso di un residence. Siamo nel 2012 quando, sfruttando il piano casa regionale, spunta fuori un progetto chiamato «Piano di recupero di iniziativa privata», che prevede, tra le altre cose, la trasformazione della casa colonica sul colle da manufatto rurale a lotto residenziale: aumento delle volumetrie, metri cubi di cemento armato e locali interrati. Appresa la questione, i funzionari della sovrintendenza dei Beni culturali prima sbiancano e poi fanno presente ai costruttori che, su tutta l'area, esiste un vincolo imposto dal ministero nel 1955. La vendetta della modernità sulla poesia, però, si consuma qualche tempo dopo, in un'aula del Tar: il vincolo è da sciogliere, sull'ermo colle si può costruire, è proprietà privata. A nulla sono servite le parole dei tecnici, secondo i quali «l'incidenza visuale determinata dagli interventi in progetto si configurerebbe come un danno al patrimonio paesaggistico». Dall'altra parte si ribatte che «il colle così com'è non ha senso», che «la zona è abbandonata al degrado» e che la casa colonica è soltanto «un rudere», concludendo che, in ogni caso, i proprietari della zona hanno il diritto di disporre dei propri averi come meglio credono.

La questione va avanti da anni, con l'amministrazione e la famiglia Leopardi che si oppongono a oltranza al progetto della country house al posto della veduta che ispirò quello che forse è il componimento più famoso del poeta di Recanti. Dietro il progetto c'è una proprietaria terriera, Anna Maria Dalla Casapiccola, titolare di una dimora «esclusiva» nel recanatese nata nel '600 per ospitare i pellegrini diretti a Loreto e che ora dispone di tre camere doppie da 130 euro a notte. La signora, segnalano le gazzette locali, qualche tempo fa si esibì anche in un imperdibile «Corso di bon ton» nel quale lei «molto preparata sull'argomento, essendo continuamente in contatto con personalità di alto rango e del jet set internazionale, ha spiegato con modestia, semplicità e competenza le regole del buon vivere affascinando i partecipanti».
Ogni manuale di letteratura parla del rapporto difficile tra Leopardi e i suoi conterranei, ma il poeta, sicuramente, non si aspettava che i posteri avrebbero avuto in serbo per lui un contrappasso tanto doloroso: la ginestra si arrende alle «magnifiche sorti e progressive», il titanismo nulla può davanti alla ben più prosaica giustizia amministrativa e ai voleri di una donna che svende i propri quarti di nobiltà a turisti con le tasche piene e la voglia di immergersi, almeno per qualche ora, nel fascino per nulla discreto di un'aristocrazia affondata dalla Storia: altro che canto notturno, questa è proprio la notte in cui tutte le vacche sono nere. In Regione, d'altra parte, Leopardi torna utile soltanto quando c'è da far recitare qualche suo verso a uno spaesato Dustin Hoffman in un costosissimo spot delle bellezze locali mandato in onda qualche anno fa.
In Sovrintendenza sono disperati: «Non abbiamo i soldi, non abbiamo personale, non siamo in grado di gestire tutti i casi che ci arrivano», e allora la signora Dalla Casapiccola ha giocato sul velluto e, in poche udienze, ha ottenuto il permesso per fare quello che vuole con la casa colonica, che tra le altre cose è a un tiro di schioppo da un altro simbolo leopardiano: la torre del passero solitario. Un problema - quello della mancanza di fondi - che si presenta sempre uguale davanti ad ogni questione che riguarda i beni culturali sparsi lungo la penisola: Pompei cade a pezzi, ogni volta che dal sottosuolo delle città emerge qualche testimonianza del passato si preferisce coprire tutto e continuare i lavori, i pochi precari della cultura che dispongono di un contratto hanno stipendi da fame. Il paese che, secondo diverse statistiche, dispone della maggior parte dei beni artistici e culturali del pianeta Terra preferisce sempre voltarsi dall'altra parte. L'ultima carta da giocare prima dell'arrivo del cemento è un ricorso al Consiglio di stato. La Sovrintendenza sta lavorando a ritmo febbrile per produrre una documentazione convincente da depositare entro i primi di ottobre: bisogna dimostrare che, i progetti presentati dalla signora Dalla Casapiccola snaturerebbero un'area dall'indiscutibile valore storico e culturale, vincolata da sessant'anni. Detta così potrebbe anche sembrare una cosa semplice, ma il giudizio espresso dal Tar è un precedente inquietante. L'Infinito che scopre i suoi confini; un naufragare molto poco dolce, in questo mare di cemento.

Qui "l'infinito" nei suoi confini

ope legis) collaborazione tra Stato e Regione nella formazione e variazione dei piani paesaggistici: a proposito del PPR della Sardegna, dei tentativi deregolatori di Cappellacci e del silenzio di Bray. Il parere di un autorevole testimone della vicenda ancora in corso

Arrivato a gennaio 2008 in Sardegna come direttore regionale per i Beni culturali e paesaggistici, ho subito provato la sensazione di essere stato proiettato in una troppo facile riserva di caccia. All’interno di una bomba a orologeria che la troppa bellezza e il ritmo sfacciato della natura non potevano non aver innescato, di un’armonia continuamente insidiata.

Ho visto giorno dopo giorno materializzarsi sul mio tavolo i più svariati tentativi di violare quell’armonia ed ho presto “scoperto” uno strumento che (da lontano) conoscevo poco: il Piano paesaggistico regionale. Un modello di coerenza fra necessità, comportamenti e idee. Un Piano, familiarmente indicato con il brutto suono di Ppr, in cui le esigenze della tutela delle qualità avevano la priorità, il primo caso in cui le prescrizioni del “Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio” erano rispettate a pieno. Un documento unico e compiuto, con tanto di riconoscimenti conquistati su innumerevoli campi di battaglia, fino alla Corte Costituzionale e passando attraverso centinaia di ricorsi vinti ed un referendum abrogativo superato. E non senza medaglie appuntate, come la “menzione” dell’ONU.

Era però attiva anche un’informazione settoriale e fuorviante che, partendo da gruppi portatori di interessi concreti da soddisfare rapidamente, calava su un’opinione pubblica non sempre innocente, spesso impossessandosene. Insieme all’affermazione del Piano, si faceva avanti una gran voglia, anche pubblicamente dichiarata, di smantellarlo. E, contro le norme di tutela, la Giunta regionale ha lanciato in successione quattro siluri sotto forma di Piani Casa, in attesa di concludere il “procedimento di revisione” del Piano paesaggistico, iniziato e condotto in solitudine per oltre tre anni.

Ci si è alla fine arresi al fatto che la sola Regione, senza l’intervento del Mibac, non avrebbe potuto apportare nessuna modifica: e si è individuato un possibile grimaldello per la soluzione finale. Si sono improvvisamente ricordate le disposizioni inserite nel “Codice” nel 2008 (le quali, dopo l’approvazione del Ppr, hanno imposto la perimetrazione di tutti i beni paesaggistici e la definizione delle relative “prescrizioni d’uso”) e si è pensato di giustificare il quasi concluso procedimento di revisione con la necessità di recepire le “nuove” prescrizioni.

Sottoscritto l’accordo, le procedure adottate per “l’adeguamento” fanno malinconicamente pensare che il ruolo del Ministero sia stato ritenuto di mera sussidiarietà e sostanzialmente formale: ed è proprio su questa inaccettabile presunzione che ritengo di potere (anzi di dovere) esprimere il mio pensiero.

In particolare, dopo la tavola rotonda a Cagliari su “dove va il Piano paesaggistico della Sardegna” ed il dibattito che ne è seguito (a partire dalle considerazioni di M.P. Morittu per eddyburg.it), vorrei, utilizzando tre parole-chiave, riflettere invece proprio sul ruolo di primo attore -e non di semplice notaio- che spetta al Mibac nel procedimento di revisione. Un ruolo che non consiste solo nel prendere la parola, farsi ascoltare e co-pianificare, ma anche nella proposta di visioni alternative a quelle seguite dalla Regione fino a questo momento.

La prima parola-chiave è competenza.

Naturalmente non quella della burocrazia amministrativa: mi tocca…non mi tocca…muovo i miei bastoncini dello sciangai senza mai toccare i bastoncini -o le suscettibilità- altrui… Competenza, invece, intesa come specificità e capacità, come saperi esperti e comportamenti conseguenti, quelli che da sempre hanno caratterizzato le professionalità interne al Mibac. Competenze che, numerose, si sono sempre riconosciute nella tutela dei beni paesaggistici, nella loro individuazione e pianificazione, nel loro controllo e gestione. Come d’altronde indica con chiarezza il “Codice dei beni culturali e del Paesaggio” e come impone la Costituzione.

Elaborare congiuntamente alle Regioni i Piani paesaggistici è, per il Ministero, un’occasione unica di incidere nella realtà territoriale e far valere la propria vocazione tecnica e le proprie idee, che sono poi quelle della parte più avvertita del Paese. Puntando, ovunque, sul principio della competenza contro ogni crisi di rappresentatività.

Le comunità aspettano dal Ministero azioni energiche e coerenti, ponendo al centro dell’attenzione la tutela del paesaggio prima ancora dell’urbanistica e, ancor più, di ogni ipotetico atto negoziale. Senza debolezze, senza timidezze, senza assenze.

Naturalmente, non è questione di povertà di mezzi ma di volontà, di atti che devono essere ben concepiti, elaborati e motivati (e che, come tali, non “costano” nulla). Atti o strumenti che possono avere una forza dirompente con il semplice rispetto della legge.

Gli adeguamenti di co-pianificazione di un Piano che già c’è -e già assolve a pieno la sua funzione- sono un atto dovuto che va colto come la “madre di tutte le tutele”. Ma rappresentano anche, per il Ministero, la possibilità di dimostrare la reale e non burocratica competenza delle sue strutture e dei suoi tecnici e funzionari. Per dare un senso concreto alla propria esistenza (è questa la seconda parola-chiave), alla propria funzione civile, alla propria consapevolezza culturale.

In Sardegna si contrappongono due realtà. Una, apparentemente sonnolenta, è l’indifferenza, un albero secco che tuttavia molto contamina e infetta con il virus del disincanto. L’altra, come abbiamo visto molto viva ed agguerrita, esprime invece i molteplici interessi in gioco ed ha il dichiarato intento di annientare i sistemi di tutela, a partire dal Piano paesaggistico vigente. Ed ha fretta, molta fretta.

Le azioni che la Regione Sardegna va compiendo sembrano consequenziali a questa fretta. Esse implicano il recepimento di norme considerate incostituzionali dallo stesso Governo e ancora al vaglio della Corte. Comportano la “dimenticanza” dei vincoli definiti di “terzo genere” (che riguardano la fascia costiera, la necropoli di Tuvixeddu, gli insediamenti rurali sparsi che caratterizzano il territorio della Sardegna: stazzi, furriadroxius, medaus). Dimostrano inoltre una volontà di “spezzettamento” -come l’anomala trattazione delle aree archeologiche e della forma del paesaggio che include i siti archeologici- creando accordi diversi ed asincroni per problemi che sono invece unitari, senza coinvolgere nella revisione le Associazioni Ambientaliste, organismi giudicati “pericolosi”.

Funzionale a questa strategia appare l’adozione della procedura degli “incontri informali” e quella del “blocco” di tutti i PUC con procedure anche terminate. L’obiettivo sembra chiaro: giungere subito all’approvazione del Nuovo Piano, che diventerà -ed è questo il “punto”- immediatamente esecutivo appena portato in Giunta e senza la necessità di approvazione in Consiglio regionale.
Non sembra importare che il PPR comprenda invece la puntuale individuazione di oltre diecimila beni paesaggistici. Anzi, questa meticolosa individuazione è giudicata un elemento di disturbo da chi non tollera vincoli e tutele. Non sembra neppure interessare che, così facendo, si renda impossibile la proposizione di una disciplina paesaggistica unitaria, generale e specifica, dell’intero contesto naturale e storico-paesaggistico, a cominciare dalle fondamentali prescrizioni d’uso, altro strumento che ostacola chi coltiva una visione edificatoria del paesaggio sardo.

Non sembra importare neanche il principio generale che la Sardegna, Regione a statuto speciale, non possa comunque “diminuire la tutela” (come palesemente si tenta di fare) ma solo aumentarla e che tutto questo finirà all’esame della Corte Costituzionale. Importa “chiudere” le procedure in corso, in modo che sia possibile procedere con “i progetti strategici” e con tutta l’azione del costruire.

Sono stato Direttore Regionale in Sardegna, fino agli inizi dell’anno 2010 ed ho, tengo a dirlo con forza, piena fiducia (che è la terza parola-chiave) negli organi del Ministero, sia quelli locali che quelli centrali, e nella loro competenza tenacia e fermezza. Strutture che hanno un ruolo preciso, una loro missione e compito, e che mai potrebbero avallare scelte “paesaggistiche” come quelle che sembrano invece prendere corpo. E’ sul tappeto, oltre tutto, la fiducia nel Ministero come tale, in giorni in cui persino un ex Ministro della Cultura rilascia pubbliche dichiarazioni di possibile “soppressione” proprio di quella struttura e del conseguente suo spacchettamento.

Ecco: tre parole chiave, competenza, esistenza, fiducia. Tutte riferite a un Ministero che ha certo bisogno di cure ma che, già oggi, molto può fare per il bene della collettività. Molto può fare contro la soluzione finale che, rendendo innocuo il Ppr, lascerebbe la Sardegna sola e indifesa.

Alla vigilia dei probabili accordi fra Comune e Difesa, una riflessione alta sul ruolo di un patrimonio pubblico, che a uso pubblico dovrebbe sostanzialmente servire, in tutte le città. La Repubblica Milano, 19 agosto 2013 (f.b.)

Le caserme abbandonate non sono come le aree industriali dismesse. Sono spazi pubblici destinati alla servitù militare che ora tornano nella disponibilità dei cittadini. Non è una differenza da poco. Prima di tutto perché il loro futuro può essere deciso con una libertà molto maggiore, non essendoci in gioco interessi privati e quindi, giocoforza, la necessità di mediarli con l’interesse pubblico. In secondo luogo perché, a differenza che per le vecchie fabbriche, le vecchie caserme sono un territorio vergine, tutto da esplorare per la comunità civica. Chi ha avuto la fortuna di partecipare, nell’inverno 2011, all’anteprima di Piano city alla caserma di via Mascheroni sa a cosa si allude: un momento magico, una piccola città nella città dove il tempo si è fermato, spazi immensi e carichi di suggestione, infiniti sotterranei con gli archivi di generazioni di reclute.

Un ambiente nascosto alla città per decenni che ritrova una vita nuova attraverso la musica, che per una sera diventa padrona di un campo una volta occupato da ordini, divise, armi, sofferenze. Leggendo i nomi sconosciuti di questi luoghi risalta ancora di più questa distanza: Milano ha tollerato la presenza di infrastrutture militari sul suo territorio ma, a differenza di altre città — si pensi a Torino o a La Spezia — non ne è mai rimasta condizionata o prigioniera. Sara stato per via delle cannonate di Bava Beccaris al popolo affamato, o semplicemente perché questa è la città del 25 aprile partigiano.

Ma non c’è dubbio che Milano non sia mai stata prona alle divise o incline alla retorica militare. Anche per questo l’occasione di ripensare questi luoghi, di immaginarne altri usi e destinazioni è straordinariamente importante. Per la giunta Pisapia può rappresentare una grande scommessa anche nella modalità di approccio alla loro ridestinazione. Quale occasione migliore di sperimentare la via di una progettazione condivisa e partecipata? Per esempio immaginando una raccolta pubblica di idee e proposte per la grande area verde della Piazza d’armi ex Santa Barbara. O recuperando progetti di grande impatto, come l’idea dell’orto planetario lanciata, e poi abbandonata per Expo 2015, magari coinvolgendo il forum delle culture e delle comunità straniere.

E ancora: visto che il complesso militare delle vie Monti, Mascheroni e Pagano dovrebbe diventare la nuova sede dell’Accademia di Brera, perché non testare la possibilità di destinare parte di quegli enormi spazi a un villaggio per giovani artisti? A una specie di grande atelier che richiami talenti e intelligenze creative da tutto il mondo? O destinare una di queste strutture, naturalmente trasformata, a quel grande museo del «saper fare» l’automobile di cui Milano è stata capitale con l’Alfa, la Bianchi, l’Innocenti, l’Iso Rivolta, le carrozzerie Touring, Zagato, Castagna?

La possibilità di programmare un nuovo destino per edifici, complessi e spazi di centinaia di migliaia di metri quadri in aree centrali di Milano, senza vincoli dettati da interessi immobiliari (o principalmente dettati da questi) rappresenta un’opportunità probabilmente unica. Certo, è giusto immaginare che parte di queste risorse sia destinata all’edilizia popolare. Ma sarebbe un grave errore limitarsi a questo e non cogliere la grande occasione di indicare insieme ai cittadini un percorso verso una città più creativa, più aperta, più libera. Più desiderabile.

L'Unità, 18 agosto 2013 , con postilla.

Petrolio, petrolio!, un sol grido risuola dall'Alpi al Lilibeo, rimbalza da un grande giornale alla rete ammiraglia del servizio pubblico televisivo. Hanno scoperto nuovi e impensati giacimenti petroliferi in Italia? Macché. «Petrolio» sono, o sarebbero, i nostri beni culturali e paesaggistici, i 4mila musei, le 95mila chiese e cappelle, i 40mila castelli, le 2mila aree archeologiche e via sgasando idrocarburi.

La Rai dovrebbe esporre periodicamente il cartello: «È severamente vietato definire i beni culturali il “nostro petrolio”. Pena la reclusione di alcuni giorni in fortezza». E invece, venerdì, dalla mattina alla sera, con l’assenso di alcuni importanti testimonial, abbiamo visto campeggiare in una nuova trasmissione sulle risorse del nostro Paese la fulminante scritta: «I beni culturali petrolio del Belpaese».

Ora mi domando: come si fa a usare – in una trasmissione nuova di zecca – una espressione tanto equivoca, stantia e offensiva? Il petrolio puzza, inquina, sporca, corrode i nostri marmi, non è rinnovabile... Cose che abbiamo detto e ridetto milioni di volte da quando, decenni fa, un ministro dei Beni culturali, il non memorabile Mario Pedini, dc, emerso poi dalle liste P2, propose quella sciagurata equazione Beni culturali=Petrolio italiano.

Due volte sciagurata perché, oltre ad accostare semanticamente monumenti, palazzi, chiese, centri storici, paesaggi a un “nemico” dei più insidiosi, suggerisce che quei beni fragili e preziosi “devono” per forza rendere dei bei soldi. Come succede, a loro dire, in tutto il mondo tranne che in Italia dove siamo notoriamente dei poveri cretini.

Balle. Sonore balle. I musei - a cominciare dal colossale e pomposo Grand Louvre - non danno profitti (a Londra i dieci maggiori musei sono rigorosamente gratuiti). I danè, i schèi, le palanche, li sordi li può dare un turismo rispettoso e ben organizzato, cioè l’indotto di quel patrimonio sterminato che dovremmo tutelare, curare, manutenere, proteggere.

Anche dalla scemenza. Ho sentito alla radio lamentare che i quadri del sublime Lorenzo Lotto sono «troppo sparsi per le Marche». A parte il fatto che basta andare nella magnifica Loreto e nella non meno bella Jesi per ammirarne già un bel po’, cosa dovremmo fare? Un solo museo di Lorenzo Lotto? La nostra forza sta nella straordinaria, diffusa rete di musei (e non solo) unica al mondo. Attrezziamoci su entrambi i versanti, ma senza mai confondere i beni primari, unici e irriproducibili, con l’indotto economico che essi possono produrre. Non confondiamo la nostra identità nazionale, regionale, locale con lo sfruttamento di un giacimento petrolifero o con quella managerialità improvvisata che propone di accorpare i “troppi” musei italiani.

Turismo rispettoso? Ma non vedete che non si riesce a liberare davvero Venezia dall’incubo delle maxi-navi che portano masse di turisti da un panino, una birra e via? Non vedete che Roma è stata ridotta a una sorta di indistinta e ininterrotta “mangiatoia” dove si ammanniscono quei «surgelati precotti» che camion e furgoni portano a ogni ora (sindaco Marino, se vuol dare una immagine internazionale nuova alla sua città, pensi anche a questo e in fretta)?

A Firenze poi la micragnosità dei passati governi ha indotto anche i responsabili di grandi palazzi, giardini e musei a fissare un tariffario: 20mila per una cena di manager nel Dugento, 30 o 40 mila per un matrimonio esotico a Pitti, e via banchettando o ballando (sì, c’è stato anche un ballo non meno esotico). Non vi pare che siamo ormai ad una sorta di accattonaggio di Stato?

Negli ultimi anni ci sono tele e tavole del ’400, quindi delicatissime, come la Città Ideale di Urbino e la non meno urbinate Madonna di Senigallia di Piero della Francesca che hanno girato per mostre d’arte varia. In Giappone è andato, con altri fragili Raffaello (una trentina), il misterioso ritratto di dama, detta la Muta, perché non c’erano i soldi, 30mila euro, mi pare, per restaurarlo. Eppure una commissione di esperti creata da Francesco Rutelli, quand’era titolare al Collegio Romano, aveva stilato un codice rigoroso per viaggi e prestiti. Tutto dimenticato, ridicolizzato dai nostri petrolieri dell’arte. Un museo di provincia fa pochi ingressi? Chiudiamolo, o accorpiamolo. Pompei non ce la fa a governare problemi complessi aggravati dal turismo di massa e dalla camorra? Diamola ai privati. Magari ai petrolieri medesimi.

Il ministro Bray ha nominato una commissione assai larga di esperti per riformare il suo ministero che al corpaccione (o al testone) già esistente ora ha unito pure il Turismo. Prevarranno i Beni culturali come valore in sé, prevarranno la tutela, la didattica, lo studio, la ricerca, oppure la spettacolarizzazione, l’affitto a questo e a quello, la gestione privatistica? Un’ultima notazione: ma dei piani paesaggistici destinati a salvaguardare quanto resta e a frenare cemento e consumo di suoli liberi, a tenere insieme tutto il patrimonio descritto come in un millenario palinsesto che notizie ci sono? Tutto tace, o quasi. Di quelli non frega niente a nessuno, su giornali e tv.

postilla
Una precisazione sul filo della memoria, per dare il merito (e il demerito) a chi ne ha diritto. Non ho sottomano le annate di Urbanistica informazioni e non posso quindi trovare la referenza precisa, ma ricordo bene che l'invenzione del concetto cui si riferisce criticamente Vittorio Emiliani deve essere attribuita a un altro ministro, non democristiano piduista ma socialista craxiano, Gianni de Michelis. Fu l'abile e intelligente colonnello craxiano che, da ministro del settore, coniò l'espressione "giacimenti culturali". Su Urbanistica informazioni, che in quegli anni dirigevo, commentai quell'espressione, e la politica che le era sottesa, sostenendo che, proponendola, si prefigurava per i beni culturali lo stesso destino dei minerali estratti dalle miniere: essere, appunto, estratti, trasformati (da beni in merci), venduti, consumati, dissolti. Certo, a differenza di altri minerali il petrolio ha una ulteriore caratteristica negativa: inquina.

La Nuova Sardegna, 17 agosto 2013
Sarebbe bello se la strada Alghero-Bosa conquistasse il riconoscimento Unesco. Una strada di altri tempi, adagiata naturalmente in quella morfologia complessa, senza le forzature per accorciare le distanze consentite dai mezzi che oggi bucano le montagne. E' uno spettacolo fantastico quello che offre, con i colpi di scena che si susseguono andata e ritorno. Naturalmente diverso in ogni stagione, ma d'estate è davvero difficile immaginare quanto è Sturm und Drang d'inverno. Lo sguardo senza ostacoli da una parte e l'incombenza dei rilievi dall'altra (l' autoradio che a tratti riceve solo emittenti spagnole ti ricorda la posizione). Non sono molte le strade che si dispiegano per decine di chilometri senza deluderti o annoiarti (va bene anche in auto per chi non ce la fa a piedi o in bicicletta).

Ma soprattutto non ti aspetti – com'è raramente – l'assenza di tappe edificate per cui questo luogo sembra indivisibile e irriducibile. Un' amica molto devota prova a convincermi che quel profilo impervio è una scelta del Creatore in un impeto di precauzione: la difficoltà di accesso – e i costi di urbanizzazione nolto elevati – ne hanno impedito la razzia, toccata a luoghi espugnabili a più basso costo. La Provvidenza contro la speculazione.

Eppure ecco il programma di Condotte Immobiliare di rompere l'incantesimo. L'impresa romana che detiene una grande proprietà nel percorso, vuole fare un campo da golf con annessi 70mila mc proprio lì a Tentizzos nel Comune di Bosa. Una frattura in questo punto (un sacrilegio – secondo la mia amica) avrebbe un effetto travolgente, perché tutto si tiene in un ecosistema così delicato, habitat ideale per i grifoni che rischiano a ogni volo una overdose di biodiversità nella quale stanno felici.

Il benemerito piano paesaggistico regionale vieta la trasformazione di questo luogo interno alla fascia costiera tutelata. Il sindaco di Bosa sarebbe orgoglioso dell'attenzione Unesco, ma è fatalmente attratto dal progetto di Condotte. E quindi azzarda la solita capriola: sì a Tentizzos patrimonio del Mondo – spot ambito – ma no alle tutele del Ppr che la Regione di oggi rinnega. Attenzione: la Val d'Orcia ha rischiato di essere esclusa dall'elenco Unesco per poche case a schiera nei pressi di Montalcino.

A Cappellacci dell'Unesco non gli importa niente, e lavora alacremente per derogare a domanda il Ppr: immaginando il salvacondotto discrezionale (come il guidaticum medievale ?) in Planargia e in Gallura, e per conseguenza ovunque: a chi saprà bussare forte sarà aperto. Un piano riconfezionato a domanda. Un disegno palesemente illogico anticipato da atti traballanti che si puntellano a vicenda e già impugnati dal governo per sospetta incostituzionalità. Nel quale la gerarchia degli interessi è capovolta a vantaggio di quello edilizio, ovviamente subordinato nel Codice dei beni culturali a quello paesaggistico.

Il programma del governo regionale si dovrebbe concludere in autunno. Solo se lo Stato, che rappresenta un interesse non solo locale per la conservazione del paesaggio sardo, deciderà di farsi coinvolgere nel vortice di contraddizioni.

Conterà molto nei prossimi mesi la risposta che sapremo dare. Il gruppo di cittadini, organizzato nel web (SalviamoTentizzosPerBosa) ma con i piedi in terra, dimostra in modo clamoroso quanta attenzione si possa suscitare su questi temi. Questa mobilitazione, al di fuori di processi partecipativi sollecitati e assistiti, sta contribuendo a spiegare l'inutilità del ciclo edilizio nelle coste che da decenni sottrae bellezza all'isola senza restituire quasi nulla. Dalla difesa di Tentizzos alla difesa delle regole senza eccezioni: è la risposta che la Sardegna darà se potrà contare su una informazione senza reticenze e se la politica farà la sua parte senza ambiguità.
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