Il Fatto quotidiano, 26 marzo 2014
Asservire il patrimonio artistico alla propaganda dei valori del presente – per esempio asservirlo alle ragioni della politica attuale – significa disinnescarlo, neutralizzarlo: o peggio, pervertirlo, tradirlo, falsificarlo. Se l’arte dice la verità sulla condizione umana, difficilmente andrà d’accordo col potere: ed è per questo che in una democrazia basata su una Costituzione come la nostra, l’unico modo di gestire il patrimonio è metterlo al servizio della conoscenza, e dunque della verità, e non al servizio del potere, e dunque della propaganda e della mistificazione pianificata.
Facciamo un esempio. Nel settembre 2013 una grande (cinque metri per due e mezzo) Annunciazione di Sandro Botticelli è stata spedita in Israele, per celebrare i 65 anni dello Stato ebraico. Botticelli la affrescò nella loggia esterna di una specie di orfanotrofio della Firenze del Quattrocento: l’Ospedale di Santa Maria della Scala. Quella Madonna che culla il suo bambino nella pancia, quella casa accogliente e tranquilla perdono un po’ di significato per ogni chilometro che si allontanano da Firenze. Il passare del tempo scompone il mosaico della storia in tante tessere, che dovremmo sforzarci di rimettere insieme, e non di allontanare. Con amore, possibilmente. Ma quando il ministro Massimo Bray ha provato a bloccare il viaggio del Botticelli volante – che anche a lui pareva senza senso – è scoppiata quasi una crisi diplomatica.
Non si potevano mettere in discussione gli accordi dello sventato predecessore, e il ministro degli Esteri Emma Bonino riteneva l’ostensione di un singolo Botticelli assai più efficace di una seria pianificazione di rapporti culturali. Quando Bray ha chiesto al massimo istituto di restauro italiano, il fiorentino Opificio delle Pietre Dure, una relazione sulle condizioni dell’opera, ne è arrivata una così concepita: la vera relazione tecnica, scritta da una restauratrice, diceva che l’opera aveva subito danni durante spostamenti recenti e che un’ulteriore movimentazione sarebbe stata “pericolosa”. Ma questa verità scientifica veniva schiacciata dalla lettera di accompagnamento del soprintendente dell’Opificio, dove la ragion di Stato induceva a definire “non significative” le preoccupazioni sullo stato di conservazione. E così Bray si è arreso, e Botticelli è volato a Gerusalemme. D’altra parte esiste un precedente eloquente: nel 1930 proprio Botticelli fu protagonista di una spettacolare quanto criminale mostra voluta da Mussolini a Londra, esaltata dal Corriere della Sera dell’epoca come “un segno portentoso dell’eterna vitalità della razza italica”. E basta sostituire “brand Italia” a “razza italica” per ottenere la retorica propagandistica di oggi. Che travolge la verità della storia dell’arte e della scienza in nome delle ragioni di un potere autoreferenziale.
In una lettera scritta insieme a Sefy Hendler – che insegna Storia dell’arte all’Università di Tel Aviv – abbiamo provato a dire che entrambi crediamo profondamente nell’amicizia tra Italia e Israele, e nel ruolo che la cultura può e deve avere nel rafforzarla: il nostro stesso, continuo scambio scientifico è un minuscolo tassello di quell’amicizia. Ma siamo convinti che le relazioni culturali tra i popoli non possano essere rafforzate da scambi di singole opere “feticcio” decise dalle diplomazie senza nessun coinvolgimento della comunità scientifica, e anzi imponendo al museo prestatore e al museo ospitante un “evento” del tutto estraneo alla loro vita. Non siamo più nell’antico regime: nelle democrazie moderne le opere d’arte non sono più pedine della ragion di Stato, ma testi su cui fare ricerca, e da restituire alla conoscenza dei cittadini.
Una vera mostra di ricerca aperta al grande pubblico avrebbe ogni ragione di spostare dall’Italia a Israele, o viceversa, anche cento opere (magari meno fragili del Botticelli): non ha invece alcun senso spedire un’opera singola e irrelata, in un’operazione assai vicina al marketing. Crediamo che la regola fondamentale della conoscenza, e cioè il perseguimento della verità, debba stare anche alla base delle relazioni internazionali: specie quelle che si vogliono fondate sulla cultura. È per questo che dirsi la verità non può in nessun caso mettere in crisi, ma anzi può solo rafforzare, le relazioni culturali internazionali dell’Italia. Può sembrare curioso – certo sembra ingenuo – ricordarlo in un momento in cui “parole come verità o realtà sono divenute per qualcuno impronunciabili a meno che non siano racchiuse tra virgolette scritte o mimate”: ma “il ruolo dell’intellettuale è tirar fuori la verità. Tirar fuori la verità e poi spiegare perché è proprio la verità [...] La verità spiacevole, nella maggior parte dei luoghi, è di solito che ti stanno mentendo”. In questo consiste ogni serio programma di politica culturale, a questo serve il patrimonio culturale. A dire la verità.
La Repubblica, 24 marzo 2014
A chi tocca tutelare e promuovere il nostro patrimonio artistico? Lo svuotamento di risorse degli uffici di tutela e le conseguenti disfunzioni hanno fatto venire di moda la diceria che le Soprintendenze sono enti inutili, da eliminare. Quando la nave affonda, tutti se ne accorgono ma nessuno si prende la colpa: si fa prima a cercare un capro espiatorio. Così da una settimana all’altra la patria è salva se si aboliscono le Province, se chiude il Senato, se si smontano i Beni Culturali. Questa voglia di rottamare tutto e tutti, spacciata per moderna, non ha niente di nuovo: è del 1950 un intervento alla Camera del liberale Epicarmo Corbino su «l’enorme discredito» che getta sullo Stato chi dice «se si vuol fare una cosa seria, serviamoci di tutto, tranne che degli organi dello Stato».
L’ultimo libro di Sabino Cassese (
Governare gli italiani. Storia dello Stato), appena pubblicato dal Mulino, offre un lucidissimo sguardo di lungo periodo sul tarlo che rode l’organizzazione della cosa pubblica. Da sempre chi ci governa gonfia l’amministrazione di nuove funzioni e strutture con una mano, con l’altra la delegittima perché lenta, pletorica, inefficace. A lungo la soluzione per snellirla fu di creare aziende autonome (come le Ferrovie dello Stato, 1905) o enti pubblici (come l’Iri, 1933). Questo «processo di fuga dallo Stato» ne diventa, scrive Cassese, «un fattore di disaggregazione». È qui che si è innestato lo slogan di Reagan, «lo Stato non è la soluzione, è il problema»: l’impulso a privatizzare, spacciato per modernissimo, è tutto in questa frase datata 1981.
Ma la politica continua il gioco delle tre carte, delegittima lo Stato per asservirlo a sé: dopo la riforma del pubblico impiego (1993), la dirigenza è stata precarizzata, i concorsi per merito sono l’eccezione e non la regola, la competenza è esiliata, «il vertice amministrativo è composto di persone transeunti». «La politicizzazione del vertice si estende alla periferia, con assunzioni dettate da criteri di patronato politico, non da quello del merito». Si formano, in nome di una “flessibilità” contrabbandata per funzionale, legioni di precari, che impediscono di bandire concorsi e premono per assunzioni ope legis. Tutto contro la Costituzione (artt. 97-98), secondo cui «il personale pubblico dovrebbe esser retto dal principio di neutralità perché al servizio esclusivo della Nazione»: reclutamenti discrezionali e successive stabilizzazioni sono pertanto «un aggiramento della Costituzione». Lo Stato svaluta se stesso, delega funzioni a terzi e assume non per competenza e merito, ma secondo appartenenze e fedeltà.
Le Soprintendenze ai Beni Culturali, devastate dall’efferato dimezzamento dei bilanci perpetrato dal duo Tremonti-Bondi (2008), fanno solo in parte eccezione: da un lato i livelli dirigenziali sono sottoposti al voto di ubbidienza imposto dalla politica, ma il centro è ipertrofico rispetto agli uffici territoriali su cui pesano le funzioni costituzionali di conoscenza e tutela. Dall’altro, la mancanza di turn over (età media 57 anni) ha lasciato nelle soprintendenze molti funzionari assunti per competenza e per merito, che talora osano ancora opporsi alle voglie del politico di turno. Perciò spesso chi se la prende con le Soprintendenze o ne reclama l’abolizione non punta su una maggior funzionalità dell’amministrazione, ma su un suo totale asservimento alla politica: questo il senso di ripetute invettive del sindaco di Verona (il leghista Tosi) ma anche del sindaco di Firenze, ora presidente del Consiglio. A una frase di Renzi si ispira un professore di Architettura [Marco Romano, n.d.r.] ( Corriere, 3 marzo), secondo cui le Soprintendenze sono «un intralcio» e vanno soppresse; ma vuole affidarne le funzioni, guarda caso, alle facoltà di Architettura.
Questo il quadro entro il quale con monotone litanie si invoca da vent’anni l’intervento dei privati, inteso come supplenza a uno Stato in ritirata. In una recente intervista, il ministro Franceschini si è mostrato consapevole della differenza fra mecenatismo e sponsorizzazione (che in Italia sfugge ai più), e ha giustamente indicato come modello da seguire l’accordo del Ministero con la Fondazione Packard per gli scavi di Ercolano. “Mecenatismo” è infatti solo la donazione volontaria e senza alcun corrispettivo economico se non (com’è negli Stati Uniti, e dovrebbe essere da noi) qualche vantaggio fiscale.
Tutt’altra cosa è la presenza di ditte private che fanno quello che dovrebbe essere il core business dei musei (ricerca conoscitiva, mostre, programmi educativi): al Louvre o al Metropolitan a nessuno verrebbe in mente di appaltare una mostra a un privato. Ma il mecenatismo privato non può funzionare, se non in un quadro garantito da finanziamenti pubblici adeguati, come oggi non è. Lo ha scritto Eugenio Scalfari in queste pagine (11 novembre 2008): «cultura, ricerca, beni culturali, patrimonio pubblico, paesaggio sono considerati elementi opzionali dei quali si può fare a meno. Ma non si tratta di spese bensì di investimenti che, per loro natura, non possono esser interrotti senza causare nocumento e deperimento gravissimi. (...) La condizione in cui versano da anni le nostre Soprintendenze è quanto di più misero si possa immaginare: personale ridotto al minimo, sedi vacanti da tempo, servizi pressoché inesistenti. (...) Sarebbe necessario chiarire una normativa confusa, fonte di abusi continui che hanno devastato il nostro territorio disseminando mostri architettonici, lasciando deperire monumenti di importanza mondiale, occultando il mare con una cortina edilizia che ne ha confiscato la pubblica fruizione. (...) Da qui l’esigenza di una politica di tutela e di valorizzazione che sia unificata nei poteri e nelle competenze; tale unificazione non può avvenire che in capo allo Stato, il solo che sia depositario di una visione generale».
Perciò occorre non solo indicare un modello positivo di mecenatismo, come Franceschini ha già fatto, ma anche tenere a bada il patriottismo for profit di chi investe in beni culturali solo per averne un rientro economico (basterebbe seguire l’ottimo esempio della Francia). Ancor più importante è però tornare almeno ai livelli di investimento pubblico ante 2008 (già allora insufficienti), poiché i contributi privati sono virtuosi solo se si innestano su forti politiche pubbliche. In nome della Costituzione (art. 9), ma anche delle buone pratiche diffuse in tutto il mondo. In questo come in altri settori, il buon funzionamento delle istituzioni non è il problema. È la soluzione.
Fosse la volta buona! Intervista al sindaco Ignazio Marino. «In ritardo di 125 anni, per riportarci al centro del dibattito culturale mondiale». Il manifesto, 22 marzo 2014
Sindaco Ignazio Marino, sul progetto di demolizione di via dei Fori imperiali esiste già un vostro piano o siamo ancora alla discussione preliminare?
Esiste già un piano del Comune abbastanza dettagliato che mira a realizzare il parco archeologico più grande del pianeta. Un piano che purtroppo arriva tardivamente: basti pensare che la prima volta che si scrisse una legge per la sistemazione dell’area archeologica di Roma è stato nel 1881 con il ministro della Pubblica istruzione Guido Baccelli che insediò una commissione col compito di sistemare la zona monumentale della Capitale arrivando infine alla prima legge sulla zona archeologica romana, la 4730 del 14 luglio 1887. Quindi con 125 anni di ritardo, e già allora l’area indicata era la stessa che indichiamo oggi: il Foro romano, i Fori imperiali, il Colosseo, il Foro di Augusto, parte del Celio, il Circo Massimo, le terme di Caracalla e la via Appia antica.
Ma è proprio di questo che ha bisogno Roma?
È un’esigenza, non un’idea bizzarra: né di Guido Baccelli, né una mia reiterazione. Tutto questo si giustifica perché in questi luoghi è nata la civiltà occidentale. Sotto il balcone dell’ufficio del sindaco c’è la Tribuna dei Rostri dove è salito Marco Antonio per pronunciare l’orazione funebre per Giulio Cesare. Accanto c’è la via Sacra, dove i soldati che tornavano dalle campagne di guerra depositavano gli ori frutto dei saccheggi, e sulla quale hanno camminato Cicerone e Vercingetorige, Catilina e Catone. È chiaro insomma che è capitato a noi possedere queste aree ma abbiamo la responsabilità e il privilegio di custodirle e valorizzarle nell’interesse dell’umanità.
Ai romani, che vedranno sconvolta tutta la viabilità, probabilmente con grosse ripercussioni sul traffico cittadino, cosa ne verrà?
Sulla viabilità io sono molto netto: è vero, se aprissimo alle auto un tratto della Via Sacra certamente scaricheremmo una parte del traffico urbano, ma io sono assolutamente contrario. Non possiamo assumerci la responsabilità di danneggiare un’area già molto danneggiata e saccheggiata.
Ma il parco archeologico è anche una straordinaria e non utilizzata risorsa economica. Già da subito, dal 21 aprile prossimo, abbiamo programmato ogni sera tre cicli di spettacoli a pagamento in sei lingue diverse: attraverso ologrammi e tecnologie luminose ricostruiremo nell’aspetto originario la Roma di Augusto di duemila anni fa e il Tempio di Marte Vendicatore che venne costruito in 40 anni dall’imperatore Augusto a ridosso dei Mercati di Traiano. È un progetto realizzato non con i soldi del comune ma avremo un ritorno in tre anni del 150% delle risorse investite.
Chi ha investito su questo progetto?
Zètema, una società controllata dal comune con fondi propri. E questo è solo l’inizio. Perché credo che in nessun posto al mondo avrebbero utilizzato il Colosseo come una rotatoria spartitraffico, o lascerebbero al buio e non fruibili di notte queste nostre aree uniche al mondo. Vogliamo che Roma torni al centro del dibattito culturale del pianeta. Ma per continuare questo progetto abbiamo bisogno che il ministero dei Beni culturali istituisca una commissione per vedere quali dei vincoli imposti nel 2001 dall’allora governo Berlusconi è possibile rimuovere. Avevamo cominciato a discuterne col ministro Bray e tre giorni fa ho incontrato Franceschini, anche per parlare dell’accesso ai fondi europei a cui stiamo lavorando dall’inizio di febbraio.
Per il Colosseo, dopo il fallimento della via commissariale, si è dovuti arrivare al restauro sponsorizzato da Diego Della Valle. Per questo progetto, c’è l’ipotesi di trovare un “club di Mecenate”?
Non è solo un’ipotesi, è un lavoro molto avanzato con un gruppo di filantropi internazionali. Ma la differenza con una sponsorizzazione privata è che noi non vogliamo innescare risvolti di tipo commerciale o pubblicitario. Stiamo chiedendo di investire risorse economiche allo scopo di partecipare appunto a un “club di filantropi” che senta il bisogno, l’onore e l’orgoglio di partecipare a questa opera. E già abbiamo un numero di donatori certi o potenziali: singoli imprenditori molto benestanti o addirittura Stati che hanno interesse a dimostrare quanto ci tengano a questa area archeologica simbolo della civiltà occidentale.
Eppure, se tra gli esperti di archeologia si discute di quale era romana vada riportata alla luce, molti architetti e urbanisti propongono un’altra idea di città, con il centro antico di Roma arricchito e valorizzato da opere moderne, come avviene in altre capitali europee.
È un dibattito interessante e importantissimo, e per questo ho sollecitato Bray e adesso Franceschini a istituire una commissione di altissimo livello. Perché non ho l’arroganza di immaginare che possa essere io o la giunta a decidere. Sappiamo che al di sotto dei Fori imperiali si potrebbero riportare alla luce i Fori di Nerva e di Cesare e parte del Foro di Augusto. Ma sopra questi Fori si è costruito nei quasi due millenni successivi. Non posso essere io a dire quale progettualità e quale visione sia la migliore.
Ma poi, una volta riportata alla luce l’antica Roma, la lasceremo marcire come avviene ora, e non solo nella Capitale? D’altronde, sulla manutenzione dei siti archeologici e sugli sprechi di sovrintendenze e commissari ha già detto tutto la Corte dei conti…
Nella nostra visione, con gli incassi dei biglietti, insieme ai fondi europei e alle donazioni filantropiche, si può contribuire significativamente alla manutenzione di questi luoghi unici al mondo. Anche se deve essere garantita la possibilità di accesso culturale a chi ha meno risorse, come gli studenti o gli anziani. Presto avvieremo ulteriori pedonalizzazioni e posso dire che l’idea è di realizzare il parco archeologico entro la fine di questa consigliatura.

L'articolo integra l'analisi urbanistica di Parma di Paolo Scarpa, con un'ampia finestra sulle contraddizioni del sindaco grillino. Unn "rivoluzionario" imbrigliato dalla realpolitik della gestione quotidiana. Il manifesto, 20 marzo 2014
Pizzarotti ci ha costruito la campagna elettorale, l'impianto doveva essere fermato, smontato, venduto a pezzi ai cinesi. Ma da dieci mesi brucia immondizia nel cuore della food valley, a due passi dalla Barilla
Se è vero che la rivoluzione non russa, nella Stalingrado grillina sembra comunque sonnecchiare. Volevano rivoltare la città i giovani sanculotti a 5 Stelle che, ormai due anni fa, conquistarono il Comune di Parma in uno sfavillio di proclami e buone intenzioni. Strada facendo i loro forconi si sono spuntati contro la realpolitik della gestione quotidiana, inducendoli a più miti consigli.
«Rifiuti zero», il loro acuto grido di battaglia in campagna elettorale con il «No» a quell’impianto di incenerimento allora in costruzione a una manciata di chilometri dal centro storico. Doveva essere fermato, smontato, venduto a pezzi ai cinesi e, il resto, riconvertito dagli olandesi in un impianto di selezione evoluto. Parma come San Francisco, mecca internazionale del riciclo virtuoso. E Parma, umiliata dalle manette che avevano travolto la giunta comunale di Pietro Vignali, si aggrappò al credo ambientalista di Federico Pizzarotti, felice di riconquistare i riflettori nazionali per lo strabiliante risultato del voto, non più per le ruberie della città champagne.
Ma da dieci mesi l’inceneritore fuma alle porte della città, a due passi dalla Barilla, nel cuore della food valley. L’inaugurazione ufficiale avverrà tra qualche settimana, intanto comunque brucia i rifiuti del capoluogo e di un pezzo della provincia anche se all’orizzonte si profila il rischio che possa ospitare spazzatura da altri territori (se ne sta discutendo in Regione) fosse solo per restituire il favore di dieci anni di esportazione parmigiana. Ipotesi immediatamente stroncata dall’amministrazione pentastellata, con la stessa forza con la quale aveva bocciato anche l’accensione del camino. «Dovranno passare sul cadavere di Pizzarotti» tuonò in piena campagna elettorale Beppe Grillo contro quello che bollò come un tumorificio. «Avremo un cadavere schiacciato» chiosò con ironia Elvio Ubaldi, il sindaco che quel progetto lo vide nascere.
Eppure Pizzarotti, quel forno, dimostrò di volerlo spegnere davvero. Lo mise addirittura, nero su bianco, nel programma di insediamento: «Stop alla costruzione dell’inceneritore e sua riconversione in un centro di riciclo e recupero». E la sua maggioranza monocolore votò compatta. «Non ho mai detto che lo avrei fermato, ma che avrei fatto il possibile» afferma invece oggi il sindaco, sconfessando pubblicamente il suo stesso documento. Un’aperta contraddizione che i parmigiani accettano con rassegnato distacco, salvo che la questione non leda l’orgoglio locale. Se Grillo parte all’attacco — «Chi mangerà il parmigiano e i prosciutti imbottiti di diossina?» — il sindaco, animato da sano realismo, si affretta invece a premiare, proprio nella giornata del santo patrono, l’imbufalito Consorzio di tutela del salume ducale. «Un brand, quello del Prosciutto di Parma sinonimo di eccellenza e di qualità», si legge nella motivazione dal sentore riparatorio.
Più che una rivoluzione, quindi, quell’inceneritore si sta rivelando una via crucis per il primo cittadino, partito con candido slancio. «Mica mettiamo una bomba, si va da Iren e si parla», disse a urne ancora calde. E per tutta risposta la multiservizi, che aveva già investito 194 milioni di euro, chiese un risarcimento danni per stop al cantiere da 27 milioni (sulla cui congruità dovrà a breve decidere il Tar) ai quali se ne potrebbero aggiungere altri 7 a causa di un fermo deciso dallo stesso Pizzarotti.
Ma anche l’accensione costa e l’obiettivo «rifiuti zero» resta un miraggio nonostante la raccolta differenziata spinta sia stata estesa a tutta la città per portare Parma al di sopra di quel misero 50% che la relega a fondo classifica tra i comuni della regione. L’amministrazione 5 Stelle ce la sta mettendo tutta, ma il sistema di raccolta, lo stesso adottato da Iren in tutte le zone servite, è aspramente criticato dall’opposizione comunale che chiede un ritorno ai più igienici cassonetti mentre oggi i sacchetti dell’immondizia si accumulano nelle strade con i parmigiani confusi che abbandonano sui marciapiedi tutto quello che non sanno come e dove smaltire.
«La colpa di Pizzarotti agli occhi di Grillo - scrive il capogruppo del Pd in consiglio comunale Nicola Dall’Olio - è di non essere più, e probabilmente non essere mai stato, rivoluzionario». E sull’inceneritore aggiunge: «Non ha avuto il coraggio di immolarsi per fermarlo a ogni costo». I parmigiani però non hanno rispolverato la ghigliottina perché dopo la Parma champagne sembrano accontentarsi di un’onesta malvasia. «Almeno questi non rubano», il commento più diffuso che circola nei bar. Con buona pace della rivoluzione attesa.

Prosegue l'analisi del manifesto (20 marzo 2014) sulle città italiane. Dopo Milano (7 febbraio), Sassari(13 febbraio), Venezia (20 febbraio), Napoli (27 Febbraio), Avellino (6 marzo), Bologna (13 marzo), eccoci nel cuore della foodvalley.
Per comprendere l'evoluzione delle recenti trasformazioni urbane di Parma è forse sufficiente percorrere i cinquanta metri che, nel cuore della città storica, separano Piazzale della Pilotta da Piazza della Ghiaia. Pochi passi che permettono di inquadrare, una accanto all'altra, le espressioni di un'illuminata etica della cosa pubblica, probabilmente smarrita, l'arroganza miope degli anni del "fare" berlusconiano, la paralisi cerebrale dell'oggi. Ovvero, la rappresentazione delle diverse fasi di una crisi che a Parma ha avuto origini di carattere culturale, assai prima che di natura economica.
Piazzale della Pilotta è il grande squarcio lasciato dalla guerra davanti al palazzo del potere farnesiano, uno spazio rimasto abbandonato per decenni, in attesa che se ne definisse la destinazione urbanistica. Dopo una sequela di progetti e concorsi di idee, tutti finalizzati a costruire un volume, qualunque esso fosse, l'ultima Giunta di centrosinistra di Parma, alla fine degli anni novanta, decise di sciogliere quel nodo urbanistico irrisolto, pensando una sorta di consapevole spazio vuoto, senza volumi, né edifici, né emergenze. E così si realizzò il progetto di Mario Botta, semplicemente un grande prato ai piedi del Palazzo seicentesco, aperto alla città, costellato di radi segni minimali. Un progetto che ebbe il merito di restituire monumentalità al Palazzo ma che rappresentava anche l'espressione della resistenza coraggiosa alle pulsioni edificatorie.
Con il succedersi in Comune di maggioranze diverse (tre di centro destra e una del movimento Cinquestelle), si perdette progressivamente il senso di quella scelta, abbandonando di nuovo la piazza a se stessa, con il risultato che oggi è uno spazio degradato, mortificato da troppe aggiunte edilizie incongrue. Ma uno spazio degradato favorisce fatalmente comportamenti socialmente sbagliati e quindi la piazza è diventata anche scenario di attività illecite. Un problema di fronte al quale la miseria intellettuale dell'oggi sembra suggerire solo soluzioni imbarazzanti, come l'idea di recintare la piazza, chiudendola alla fruizione pubblica.
Poche decine di metri separano la Pilotta dalla Ghiaia, sede storica del mercato alimentare, che era il luogo più vivo della città e che un progetto promosso dalla Giunta di centrodestra nel 2005 e affidato a una gestione privata, ha portato alla sua desertificazione, con l'emigrazione definitiva dei vecchi negozi alimentari. Oggi grandi vele in acciaio e vetro coprono uno spazio inutilizzato, in cui nessuno ha ancora una chiara idea di cosa farci, e attorno al quale, al posto delle vecchie botteghe sfrattate per sempre, aprono profumerie in franchising e negozi di chincaglierie orientali. Un piano sotterraneo, senza illuminazione diretta, ospita negozi che sono già chiusi, perché a nessuno viene in mente di andare laggiù a fare la spesa. In realtà, la vera finalità, soprattutto economica, di questo progetto, che ha ucciso un pezzo fondamentale dell'identità di una città, era la costruzione di un parcheggio sotterraneo privato, sotto la piazza, la cui rampa di accesso costituisce oggi un improprio "retro", rivolto come un gesto irrispettoso verso la facciata laterale della Pilotta farnesiana, umiliando così la relazione tra le due piazze, come tra due progetti, accentuando la differenza tra due concezioni antitetiche della cosa pubblica, del rapporto tra storia, cultura e città.
Ma è forse nell'Oltretorrente, il quartiere popolare sull'altra sponda del torrente Parma, che si manifesta oggi, con ancora maggiore crudezza, la crisi della città, esplicitata nella distesa di cartelli "Vendesi" affissi alle saracinesche abbassate delle vecchie botteghe e nei portoni delle case di civile abitazione nella prima parte di Via Bixio, il cuore del quartiere. La sopravvivenza del quartiere è garantita ancora dalla presenza di alcuni dipartimenti universitari (salvati per fortuna dalle spinte alla delocalizzazione), quindi dagli studenti e da alcune comunità straniere. Ma il senso di abbandono che lo pervade è l'emblema di una ferita aperta.
L'Oltretorrente è il quartiere che aveva visto sconfitte le truppe di Italo Balbo nel 1922, fermate dalle barricate, e che venne poi punito, al punto che l'urbanistica del ventennio operò qui alcuni squarci traumatici, che non riuscirono tuttavia a sradicarne l'anima. Ma l'opera di scardinamento sociale, che non riuscì a Mussolini, sembra invece riuscita alle politiche urbanistiche degli ultimi anni, conseguenza diretta di una trasmutazione della forma urbana, che nella follia edificatoria di inizio millennio, in poco più di dieci anni ha sconvolto un equilibrio consolidato, realizzando una città fuori dalla città, che ha generato l'abbandono progressivo di molte funzioni del Centro, tra cui, in primis, residenza e terziario.
La nuova città è cresciuta attorno ai nuovi centri commerciali, seminati lungo le tangenziali: negli anni novanta ne esisteva solo uno, mentre ora ne sono stati realizzati altri sei, oltre a una trentina di supermercati, ipermercati, grandi centri di vendita specializzati. In una città, che rimane stabilmente sotto quota 200 mila abitanti, l'impatto sul tessuto esistente è stato pesante, perché ha indotto a nuovi comportamenti sociali e allo spostamento dei baricentri di interesse aggregativo. Sono trasformazioni urbane che derivano in linea diretta dall'evoluzione di alcuni passaggi politici, a partire dall'avventura neoliberista avviata nel 1998 dal Sindaco Elvio Ubaldi, sino all'implosione della maggioranza di centrodestra culminata con gli arresti, tra cui quello del suo successore, Pietro Vignali.
E il territorio è stato, come sempre in questo disgraziato paese, materiale di scambio privilegiato, tra politica e affari. Il mito della "città cantiere", la delegittimazione del Piano urbanistico come strumento di regolazione dei fenomeni, hanno reso agevole un processo di privatizzazione della cosa pubblica e di depredazione della risorsa suolo. Il piano regolatore, sempre derogabile tramite varianti, accordi di programma, strumenti attuativi, modifiche regolamentari, venne ridotto al paravento mobile dell'accondiscendenza alle istanze edificatorie. Sul Prg di Bruno Gabrielli, che la nuova maggioranza di centrodestra aveva ereditato dalla precedente nel 1998, furono approvate oltre 1.400 Osservazioni, sventrandone l'assetto dimensionale e dando il via a un assalto alla diligenza che non avrebbe avuto pause per quasi quindici anni. Un'escalation volumetrica, che doveva condurre fatalmente allo scoppio della bolla immobiliare, uno scoppio che è arrivato tuttavia molto tardi, forse troppo tardi, e che ha fatto le prime vittime proprio nel settore edile che aveva scommesso su un'espansione senza fine né limiti. La sezione fallimentare del Tribunale è diventata teatro di un'ecatombe di imprese, medie e piccole; la nuova periferia è costellata di cantieri abbandonati, di case fantasma invendute, in un mercato immobiliare esangue, tra eccesso di offerta e congelamento della domanda.
Quando la magistratura scoperchiò il vaso in cui erano racchiusi i vizi del sistema di potere, la reazione, di fatto, fu debole. Non seppe reagire soprattutto il centrosinistra, che riuscì a perdere nel 2012 elezioni comunali già vinte, nella presunzione che bastasse stringere un patto con alcuni centri di interesse (gli stessi che avevano appoggiato per anni le precedenti maggioranze), per "riprendersi" la città, con un'operazione di potere, che è stata umiliata dagli elettori. L'avvallo costante o, più precisamente, il non-dissenso che la Provincia, retta dal centro sinistra, aveva garantito alle politiche urbanistiche del centrodestra, aveva reso poco credibile la sua posizione di alternativa.
In questo contesto è nata la vittoria del movimento Cinquestelle, come reazione di una città libertaria, individualista e comunque poco incline alla disciplina di schieramento, a una politica in cui destra e sinistra apparivano corresponsabili del disastro, anche se in misure e modi diversi, e in cui quindi occorreva voltare radicalmente pagina. Quello che è stato poi avviato dai Cinquestelle è un esperimento ancora non delineato, ispirato a un principio di rigore, il "non rubare", che sembra già molto, nel quadro di un paese corrotto, ma che ad oggi non sembra dimostrare contorni o strategie definiti, né molte idee, impegnato come è soprattutto nel controllo del debito, tra diminuzione di servizi e aumenti tariffari.
Eppure proprio nelle politiche urbanistiche i primi segnali non sono stati esaltanti: appena insediati, i nuovi amministratori hanno ritenuto di dare immediata approvazione a strumenti attuativi di espansione edilizia, anche in casi controversi, in cui ritrovamenti archeologici, vizi procedurali, errori progettuali palesi avrebbero consigliato, se non altro, di ridiscutere scelte sbagliate della passata amministrazione. Una modalità vecchio stile, dettata dalla volontà di portare ad incasso, in un bilancio comunale esangue, ulteriori introiti per oneri di urbanizzazione, ma che è apparso, nella sostanza, anche un segnale di rassicurazione verso il settore immobiliare.
Le politiche locali attuali, una sorta di navigazione a vista senza molto orizzonte, sembrano volere accentuare il senso della ferita aperta, un'autopunizione che Parma si infligge per le proprie colpe, un cilicio politico che si traduce in una rassegnazione collettiva, si rispecchia nel degrado degli spazi pubblici, nell'abbandono diffuso dei rifiuti per le strade, come nell'addormentamento della vita culturale e nell'aumento del disagio sociale.
Da città capitale di tutto, un refrain ossessivo ripetuto per quindici anni, la Parma delle grandi opere, che voleva persino una metropolitana, come le capitali europee, nell'apice della crisi si trova ad essere cavia di un esperimento politico improvvisato, in cui, paradossalmente, la grande nuova opera che sembra meglio funzionare è quel termovalorizzatore, nel cuore della foodvalley, attorno al quale nel 2012 si consumò una battaglia elettorale, che portò alla vittoria di chi ne aveva con solennità promesso il blocco della costruzione. Un simbolo anch'esso, che, inutilmente, si vorrebbe oggi rimosso dalla coscienza collettiva, e che invece se ne sta lì, imponente, alle porte di accesso sull'autostrada, a esprimere in sé, nel bene e nel male, tutte le contraddizioni di una città e della sua cultura politica.

Finalmente inizia la realizzazione il progetto della nuova Roma, sognato da Antonio Cederna e avviato dal grande sindaco Luigi Petroselli. Un buon inizio: la rimozione dell'ingombro infrastrutturale con cui l'imperialismo fascista si era impossessato dei pezzi della storia della Roma antica. La Repubblica, ed. Roma, 18 marzo 2014
«UN SUBLIME spazio pubblico», l’aveva definito Benevolo. Un parco archeologico senza macchine che dai Fori abbraccia il Colosseo, il Palatino e il Circo Massimo, il vertice di un cuneo — lo chiamava così Cederna — che da piazza Venezia e poi dalla Passeggiata archeologica arriva all’imbocco dell’Appia Antica e si spinge fino ai Castelli. Caudo procede con prudenza (ne parlerà in
un convegno venerdì al Teatro dei Dioscuri organizzato dall’Associazione Bianchi Bandinelli). L’impianto è ambizioso, prevede che l’archeologia entri nel tessuto urbano e non sia solo un oggetto di contemplazione turistica. La fetta di strada da sopprimere è già a traffico limitato e sopporta un passaggio di macchine molto ridotto.
Caudo ha studiato il piano prima da urbanista. E ora da assessore. Non si parte da zero. «Quando mi sono insediato», racconta nel suo ufficio all’Eur, «ho trovato gli studi delle due commissioni che fra il 2004 e il 2006 lavorarono alla sistemazione dell’area. Le conclusioni, però, conducevano alla sopravvivenza della strada d’epoca fascista». Dunque un’ipotesi contraria alla sua, o no? «Le conclusioni, secondo me, erano in contrasto con tutte le analisi condotte dalle stesse commissioni, che invece portavano a ritenere superflua, anche dal punto di vista della mobilità, la via dei Fori imperiali, almeno nel tratto fino all’imbocco di via Cavour. E allora perché conservarla? Non vorrei che la sua permanenza fosse il frutto di un’ostinazione ideologica». Soluzioni di traffico alternative? «Una potrebbe essere rendere a doppio senso via Nazionale». Il piano deve essere condiviso da tutta l’amministrazione Marino, e dalle sovrintendenze, comunale e statale. L’ex ministro Bray si era impegnato a costituire due commissioni, una per rimuovere il vincolo imposto sulla strada nel 2001, un’altra per studiare l’assetto della zona. Ma le commissioni non sono partite. Ora la parola spetta al suo successore, Franceschini.

Caudo squaderna sul suo tavolo una mappa: «Gli studi mostrano che gli assi per accedere ai Fori erano trasversali e scendevano da Monti. Noi abbiamo intenzione di ripristinarne almeno uno entro agosto prossimo, creando un percorso pedonale che parte da via Baccina, nella Suburra, e collega via Alessandrina, attraversa i Fori imperiali, via della Consolazione, arrivando in via San Teodoro e via del Velabro. Il tracciato è previsto dalla commissione del 2006 e offre una prospettiva del tutto diversa da quella, storicamente meno fondata, che, come un cannocchiale, inquadra il Colosseo da piazza Venezia».
L’intesa con le sovrintendenze è indispensabile, insiste Caudo, per completare lo scavo una volta eliminata la strada che lo sovrasta. E anche in previsione di realizzare una maglia di passerelle rimovibili che consentiranno di scendere alla quota archeologica e di osservare dall’alto le strutture antiche.
Il piano di Caudo è a scadenza da definirsi, ma intanto il Campidoglio ha fissato una serie di passaggi in un cronoprogramma. Fra i più importanti figurano, entro giugno prossimo, l’introduzione della ZTL nel triangolo di Monti; successivamente, entro agosto, il senso unico riservato ai soli mezzi pubblici lungo via dei Cerchi (strada iche entro l’agosto 2015 verrà chiusa al traffico) in modo che il Palatino si ricongiunga con il Circo Massimo. Se scompare il tratto di via dei Fori imperiali fino a largo Corrado Ricci, che ne sarà dell’ultimo segmento, quello che giunge al Colosseo? «Resterà», risponde Caudo. «D’altronde sotto quel manto stradale non c’è strato archeologico: lì era la collina della Velia, distrutta per realizzare la via dell’Impero. La nostra intenzione è quella di riportare alla luce il Foro della Pace che è sotto largo Corrado Ricci. Le auto non potranno più spingersi in fondo a via Cavour e dunque il pezzo superstite di via dei Fori imperiali diventerà una passerella integralmente pedonale».
Riferimenti
Numerosi altri articoli e documebti sull'argomenbto, raccolti vel vecchio e nel nuovo archivio di eddyburg, sono raggiungibii scrivendo "progetto Fori" oppure "Vezio De Lucia" nella finestra sensibile in alto, tra la testata e la lente d'ngrandimento. Vedi anche la cartella Appia Antica.
Roars.it,
16 marzo 2014 (m.p.g.)
Negli anni in cui Matteo Renzi è stato sindaco di Firenze l’amministrazione non ha brillato per capacità di innovazione, al contrario. L’esposizione del teschio incrostato di diamanti di Damien Hirst a Palazzo Vecchio ha mostrato al mondo come si possa essere al tempo stesso pretenziosi e subalterni. Si è offerto l’edificio-simbolo della storia repubblicana di Firenze alla celebrazione di un oggetto assurdamente dispendioso, concepito come vessillo di disuguaglianza e trappola per la vanità degli oligarchi.
In programma questa primavera, la mostra dedicata a Michelangelo e Pollock prefigura un astorico confronto tra due artisti fumettisticamente presentati come “furiosi”. Il risibile match, che nelle intenzioni di Renzi dovrebbe costituire il dono d’addio alla città, conferma la predilezione per esposizioni-blockbuster di nessuna consistenza scientifica. L’ostinazione con cui si è infruttuosamente cercata la (perduta) Battaglia di Anghiari leonardesca in Palazzo Vecchio è sembrata un’avventata commistione tra dilettantismo storico-artistico, maldestro culto delle nuove tecnologie e fiction rinascimentale in chiave Dan Brown. Certo, esistevano i finanziamenti di National Geographic: ma perché emarginare la comunità scientifica italiana e internazionale? La proposta di “terminare” la basilica di San Lorenzo costruendo la facciata secondo l’”originario” progetto michelangiolesco, lanciata da Renzi a suo tempo in consiglio comunale, si è rivelata episodica e strumentale. Nel frattempo si è disinvestito da istituzioni che non avevano il sostegno dell’industria alberghiera (ma potevano rivelarsi importanti per la comunità dei residenti) e si sono patrocinate iniziative ambiguamente oscillanti tra scoutismo culturale e rapacità commerciale. Non si è infine esitato a impedire senza preavviso ai cittadini il passaggio dal Ponte Vecchio pur di assicurare maggiore privacy agli ospiti di un’esclusiva cena di gala di Luca Cordero di Montezemolo.
La prima cosa da dire è che l’attuale presidente del Consiglio sconta il limite sociologico della città da cui proviene. Firenze è una città di piccole o medie imprese attive in settori ipermaturi e a bassa tecnologia, a conduzione familiare. Alberghi, servizi, editoria finanziata o aggregata a poli museali. Salvo rare eccezioni l’orientamento non è alla competizione ma al controllo proprietario e, qualora possibile, alla rendita confortevole. Le più sbrigative “valorizzazioni” del patrimonio storico-artistico sono remunerative, relativamente anticicliche e non comportano rischio imprenditoriale: perché dunque darsi pena di finanziare progetti a medio e lungo termine, di cui beneficerebbero i cittadini, invece che “eventi” graditi ai visitatori, in primo luogo ai più abbienti? La produzione stereotipa di guide, foulard stampati con motivi botticelliani e cartoline con giglio non impone scelte strategiche né presenta le difficoltà di un’industria high-tech. “La cultura dovrebbe essere il baluardo di una sfida identitaria”, vaticina Renzi in Stil novo[1]. Non è chiaro tuttavia se intenda porre giusta enfasi sull’importanza dell’istruzione o semplicemente accompagnare le dichiarazioni dell’amico Farinetti sull’appeal di torroni e prosciutti doc. “Se è morta non è bellezza. Al massimo può essere storia dell’arte. Ma non suscita emozione”[2]. Ma che vuol dire?
Se per politica della cultura intendiamo una serie coerente di iniziative o provvedimenti volti a promuovere sollecitudine civile, discussione informata e ampiezza di confronti (quanto potremmo sinteticamente definire “apertura della mente”) dobbiamo riconoscere che tale politica non esiste per Matteo Renzi: esistono invece commercio e turismo. A mio parere l’adozione di un punto di vista aggressivamente consumistico costituisce un’incongruità per ciò che Renzi stesso rappresenta come segretario del Partito democratico. Provo a spiegare perché. Le nostre preferenze culturali sono modellate da differenti tipi di marketing. Se desideriamo che il “pubblico” (di una mostra, di un concerto) sia qualcosa di più e diverso da una folla plaudente che sorseggia cocktail e rende omaggio alla munificenza di mecenati pubblici o privati dovremmo porci il problema dell’inclusione. I “mercati culturali” non sono efficienti: esistono alti costi di accesso e pronunciate asimmetrie informative[3].
Personalmente ritengo che l’arte non debba trasformarsi in una sorta di testimonial della disuguaglianza né corteggiare in maniera esclusiva i mondi della ricchezza: almeno non se ci poniamo dal punto di vista dell’amministratore pubblico. Eppure questa è la tendenza dominante. Né credo sia lecita la riconduzione del patrimonio storico-artistico alla sola dimensione del profitto: obbliga la cultura a competere sul breve termine con industrie ben più remunerative. La Costituzione prevede l’investimento pubblico in cultura perché riconosce la specifica complessità del processo di partecipazione[4]. Al pari dell’indigenza, i deficit educativi creano “ostacoli” formidabili alla piena esplicazione sociale e professionale della persona. E’ tuttavia interesse generale, quantomeno in uno stato di diritto, che vi sia (e continui ad esservi attraverso le generazioni) un’opinione pubblica informata e indipendente. Sospinto da un pregiudizio “popolare” (o più semplicemente populista) e dallo spiccato amore per l’acclamazione, il più giovane presidente del consiglio della storia italiana ha sinora mostrato di ignorare le responsabilità di una seria politica culturale. Ha sottostimato i benefici economici e civili della ricerca. Si è circondato di collaboratori fugaci e modesti e ha privilegiato opache reti amicali. Non ha fatto ottimi studi né ha ragione di nasconderlo. In futuro farà tuttavia meglio a evitare dispersive polemiche con i “professori” per valutare senza pregiudizio punti di vista meditati[5]. Perché, malgrado accattivanti appelli all’”uguaglianza”, tanta disattenzione ai temi della cittadinanza? Suppongo che l’organicità di Renzi a cerchie economiche e d’opinione dominanti possa essere la risposta che cerchiamo.
[1] Matteo Renzi, Stil novo, Rizzoli, Milano 2012, p. 50.
[2] ibid., p. 55.
[3] Gustavo Zagrebelsky, Fondata sulla cultura, Einaudi, Torino 2014, p. 44: “le tante conoscenze particolari restano scomposte come tessere di mosaico che non compongono figure… Qualunque avventuriero della conoscenza [può] infilarsi, senza incontrare ostacoli, di fronte a un pubblico ignorante e inconsapevole. Il ‘pubblico’ è già vittima della capacità specialista e dell’ignoranza generalista”. Uno stato di diritto può trascurare il compito di un’educazione permanente dei suoi cittadini?
[4] Sul tema cfr. Salvatore Settis, Paesaggio costituzione cemento, Einaudi, Torino 2010, p. 122 e ss.
[5] Con un ampio e polemico intervento apparso su Repubblica, Giovanni Valentini si è recentemente posto in scia a Renzi attaccando le soprintendenze con argomenti che sono sembrati in larga parte pretestuosi, soprattutto per la mancata distinzione, quanto alle modalità di partnership pubblico|privato, tra filantropia culturale o no profit da un lato, sbrigative forme di “valorizzazione” commerciale dall’altro (I no delle soprintendenze che rovinano i tesori d’Italia, in: la Repubblica, 9.3.2014, pp. 1, 20). A mio avviso la differenza non passa tra capitale pubblico e capitale privato: ma tra “capitale paziente” (per usare la felice definizione di Mariana Mazzucato) e capitale speculativo o rendita. Checché se ne dica la piccola o media impresa attiva oggi in Italia nell’ambito dei servizi al patrimonio non è in grado di (né motivata a) produrre innovazione: sottocapitalizzata, trae la propria sopravvivenza da relazioni politiche e vive di progetti a breve termine (Paolo Sylos Labini, La crisi italiana, Laterza, Bari 1995, p. 9 e ss.). L’attività di agenzie pubbliche in grado di selezionare competenza, procurare strategia e finanziare trasformazione – qualcosa che il MiBACT di oggi, inutile dirlo, è del tutto incapace di fare – potrebbe risultare di grande vantaggio. L’editoriale di Valentini ha sorpreso quanti, sulla prima pagina del quotidiano romano, erano soliti trovare qualificate difese del patrimonio e dell’ambiente intesi come “bene comune”. Sulle retoriche della “sussidiarietà” e le loro implicazioni ideologiche (“neoguelfe” o meglio neocesaristiche) nel contesto della discussione italiana sulle politiche della tutela cfr. Michele Dantini, Inchiesta su “patrimonio” e “sussidiarietà”. Retoriche, politiche, usi pubblicitari, in: ROARS, 9.11.2012, qui. Per una ricostruzione dell’”industria delle concessioni” cfr. Tomaso Montanari, Le pietre e il popolo, minimum fax, Roma 2013, p. 21 e ss. Cfr. anche, di Valentini, l’elusiva controreplica dal titolo Quelli che difendono le soprintendenze, in: la Repubblica, 12.3.2014, p. 56.
Il Fatto Quotidiano, 13 marzo 2014
Non c’è davvero nulla di nuovo in Matteo Renzi, a parte la grinta: c’è solo un intenso bricolage che ritaglia da destra, e incolla malamente a sinistra, spezzoni di pensiero, parole d’ordine, slogan. Uno dei più impresentabili che Renzi ha preso di peso dal repertorio populista e selvaggiamente liberista di Silvio Berlusconi è il “padroni in casa propria”. Un’idea texana della convivenza civile che significa che ciascuno deve essere libero di cementificare, sfigurare, distruggere pezzi di ambiente, di paesaggio, di patrimonio storico artistico.
Fin da quando era sindaco, Renzi ha polemizzato aspramente contro quelle che chiama “le catene” imposte dalle soprintendenze, istituzioni “ottocentesche” che impedirebbero la “modernizzazione del Paese”. “Sovrintendente – ha scritto nel suo tragicomico libro Stil novo – è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario della burocrazia. È una di quelle parole che suonano grigie. Stritola entusiasmo e fantasia fin dalla terza sillaba. Sovrintendente de che?”. Renzi sembra non accorgersi di vivere in un paese massacrato da uno “sviluppo” pensato solo in termini di cementificazione: un paese compromesso non dai troppi no, ma semmai dai troppi sì, delle soprintendenze. E non sono solo le opinioni di Renzi, a preoccupare: è il suo governo di Firenze a far capire come la pensi in fatto di cemento. Vezio De Lucia ha notato come nel piano strutturale del 2010 “le previsioni relative alla proprietà Fondiaria (un milione e 200 mila metri cubi) sono riportate come fossero già attuate: per non smentire la propaganda del sindaco Renzi a favore del piano a sviluppo zero”. Sapendo che il cemento non è telegenico, Renzi cerca di non parlarne troppo. Tanto più stupisce che sia un giornale come Repubblica – subito improbabilmente seguito da Italia Oggi – ad abbracciare, in scala uno a uno, un simile programma. Archiviato il pensiero di Antonio Cederna, sconfessato quello di Salvatore Settis, ora è Giovanni Valentini a scrivere sul giornale di De Benedetti che “troppo spesso le soprintendenze diventano fattori di conservazione e di protezionismo in senso stretto, cioè di freno e ostacolo allo sviluppo, alla crescita del turismo, e dell’economia”.
L’articolo, in prima pagina domenica scorsa, ha lasciato basiti migliaia di lettori che vedevano da sempre in Repubblica un presidio sicuro per la difesa dell’articolo 9 della Costituzione: e da allora si susseguono sul web risposte incredule e indignate di associazioni, funzionari di soprintendenza, singoli cittadini.
È in questa prospettiva che Renzi diventa il campione delle “mani libere” contro le soprintendenze, che l’avrebbero ostacolato nell’allestimento della cena della Ferrari su Ponte Vecchio e fermato nei “sondaggi tecnici” sulla Battaglia di Anghiari di Leonardo in Palazzo Vecchio. Peccato sia tutto falso: sull’osceno noleggio del ponte l’asservita soprintendenza fiorentina non ha aperto bocca, ed è stata una partita tutta giocata dal Comune, con tanto di permesso ufficiale concesso il giorno dopo la manifestazione, e con un incasso pari alla metà di quello sbandierato da Renzi. Quanto a Palazzo Vecchio, giova ricordare che la Battaglia di Anghiari semplicemente non esiste, e che Renzi è stato fermato non dalla soprintendenza (anche in quel caso succube), ma dalla comunità scientifica internazionale, compattamente insorta contro una farsa pseudoscientifica che fa ancora ridere i direttori dei più grandi musei del mondo. Ma i banali dati di fatto non devono oscurare la retorica del Presidente del Fare che spezza trionfalmente i lacci e i lacciuoli frapposti da questa oscura genìa di burocrati. A quando un suo ritratto a torso nudo, mentre aziona una betoniera calpestando l’articolo 9?
L’altra faccia di questa usurata medaglia è l’incondizionato inno ai salvifici privati. Chiedendo la fiducia al Senato, l’unica cosa che Renzi ha saputo dire sulla cultura è che “se è vero che con la cultura si mangia, allora bisogna fare entrare i privati nel patrimonio culturale”. Peccato che i privati ci siano da vent’anni, nel patrimonio, e che a mangiarci da allora non sia lo Stato, ma solo un oligopolio di concessionari fortemente connessi con la politica. E la ricetta è tanto originale che il punto 41 di Impegno Italia (il documento cui ha inutilmente provato ad aggrapparsi Enrico Letta) prevedeva un’unica ideona: “Incentivare lo sviluppo dei servizi aggiuntivi da dare in concessione ai privati”.
Di fronte ai crolli di Pompei, Renzi ha gridato: “L’Italia è il paese della cultura, e allora sfido gli imprenditori: che state aspettando?”. Quando era sindaco di Firenze, Renzi sfidava sistematicamente lo Stato a fare il proprio dovere in fatto di tutela del patrimonio. Ora che lo Stato è lui, sfida gli imprenditori. Fosse il presidente di Confindustria, ce l’avrebbe con gli enti locali. Non c'è davvero nulla di nuovo, se non che il repertorio da palazzinaro anni Sessanta è passato tale e quale dal fondatore di Forza Italia al segretario del Partito democratico. È il manifesto di una nuova stagione di Mani sulla città, un ritorno alla bandiera inverosimile del “più cemento = più turismo”. E siamo solo all’inizio.
«Fino all’inizio della seconda metà degli Settanta, urbs e civitas erano tenute insieme. Ma il silenzio istituzionale sui fatti del ’77 e la tempestiva riconversione privatistica della gestione pubblica hanno portato alla crisi della coincidenza tra pratica politica e sentimento civico». il manifesto, 12 marzo 2014
«A che punto è la città?/La città in un angolo singhiozza./Improvvisamente da via Saragozza/le autoblindo entrano a Bologna./C’è un ragazzo sul marmo, giustiziato». Così Roberto Roversi ne Il Libro Paradiso. L’anno era il 1977, il giorno era l’11 marzo, il corpo quello di uno studente, Francesco Lo Russo, ucciso dalle forze dell’ordine nel corso di una manifestazione. E il senso dell’evento (a una lettura immediata come quella di Federico Stame) venne individuato nel tentativo di ricomprensione da parte dello stato dell’intera società civile bolognese all’interno del sistema politico-istituzionale nazionale, secondo la logica di una tensione tra governo urbano comunista e potere centrale di segno opposto alimentatasi nel corso dell’intero dopoguerra.
Ma i fatti del 1977, dal marzo che registrò la frattura tra città e università fino al Convegno Internazionale sulla Repressione in settembre, significarono molte altre cose, toccando in profondità, senza che la stessa cittadinanza ne fosse davvero consapevole, la natura di Bologna, la sua memoria e perciò la sua coscienza: al punto che l’intera transizione post-comunista della città, quella ancora in atto, riesce a svolgersi e a (auto)legittimarsi soltanto sulla base del sistematico, strutturale silenzio istituzionale su di essi. Proprio quel silenzio che ha garantito e garantisce la sopravvivenza della politica (della polis) al prezzo della progressiva divaricazione tra civitas e urbs, tra le possibilità di messa in comune della capacità cittadina di manipolazione simbolica e la crescita della città nella forma di semplice manufatto urbano, di complesso plurifunzionale di costruzioni, secondo la concezione andante di organismo urbano: quella che, codificata nell’Encyclopédie, domina da più di due secoli i nostri dizionari, e perciò la nostra mente. Lo stesso silenzio rispetto al quale la mancata elaborazione del lutto per il crollo del muro di Berlino, alla fine degli anni Ottanta, si porrà, nel nostro Paese, come replica allargata e ancora più fragorosa. Come ha scritto in proposito, icasticamente, Mauro Boarelli: «Anche quella che veniva esibita con orgoglio come la capitale del comunismo europeo non ha trovato alcuno spazio pubblico per confrontarsi con la propria storia».
Nel dopoguerra e ancora fino all’inizio della seconda metà degli Settanta, al tempo del «buongoverno» inaugurato da Giuseppe Dozza, i funzionari della polis ponevano al contrario la massima cura nel tenere insieme l’urbs e la civitas, lo sviluppo e la manutenzione della città materiale con quello della coscienza civica intesa come riconoscimento di un unico, comune sentire, oltre che di comuni concreti bisogni. Erano i tempi della «democrazia sociale» bolognese, al cui interno la riorganizzazione dei servizi era concepita, per riprendere una distinzione di Nadia Urbinati, non come un semplice atto dovuto ma come una proattiva «funzione della cittadinanza democratica», in grado cioè di favorire la complessiva emancipazione sociale di tutti i soggetti, anche quelli che in apparenza del singolo servizio non usufruivano: si pensi soltanto all’invenzione della scuola a tempo pieno, in grado di riconfigurare il complesso delle relazioni tra i tempi del lavoro, dell’apprendimento e della cura famigliare, e perciò di trasformare la struttura temporale del meccanismo dell’intera città; oppure si pensi, prima ancora, alla riflessione sul decentramento e alla nascita dei quartieri, volta a consolidare la partecipazione dei bolognesi alla vita in comune.
Se a partire dalla fine degli anni Ottanta l’autocritica manca, la riconversione in senso privatistico della gestione pubblica è però tempestiva, quasi che proprio questa fosse l’implicita ragione del nuovo corso del governo locale. Giusto al 1989 risale il progetto di privatizzare le farmacie comunali volute da Dozza nel 1949, mandato poi ad effetto un decennio dopo dal sindaco Walter Vitali in seguito a un referendum consultivo che i dirigenti del Pds invitarono a disertare: con pieno successo, anche se in assoluto dispregio degli strumenti di partecipazione diretta previsti dallo Statuto comunale.
In tale episodio si è voluto vedere l’avvio del processo di «trasmutazione di tutti i valori» dell’amministrazione pubblica di sinistra culminata nel progetto di riforma nazionale dei servizi locali promosso durante il secondo governo Prodi. Ma nell’immediato le conseguenze di tale decisione sull’ethos civico bolognese furono evidentemente demolitorie: ridotto in tal modo alla passiva esibizione dei caratteri culturali e identitari petroniani (non escluso lo stesso buon governo definitivamente ridotto a mito) esso diverrà il terminale sempre meno ricettivo di pratiche e discorsi sempre più discosti rispetto al comune sentire.
Al riguardo la parabola è esemplare, e tutta orientata nel senso della progressiva crisi della coincidenza tra pratica politica e sentimento civico: parte dal sindaco Giorgio Guazzaloca (1999–2004), il primo sindaco di centro-destra, alfiere di una stereotipata «bolognesità» e termina con la gestione commissariale dell’ex ministra Annamaria Cancellieri (2010–11), vale a dire con l’azzeramento di ogni possibile rappresentanza politica locale. In mezzo due figure, molto differenti tra loro, vissute però dalla cittadinanza, per ragioni diverse, come due autentici infortuni: il sindaco Sergio Cofferati (2004–9), percepito alla fine dai bolognesi in termini di quasi assoluta estraneità, e il sindaco Flavio Delbono (2009–10) il cui brevissimo governo terminò scandalosamente nelle aule giudiziarie.
Dato in tal modo fondo a ogni plausibile mossa e gettata la spugna, altro non restò alla fine al ceto politico che affidarsi, in contraddizione con tutta la storia amministrativa precedente, all’emissario del governo centrale, significativamente invitato dai due principali antagonisti partiti, alla fine del suo mandato, a presentarsi alle elezioni comunali come candidato di spicco nelle proprie liste.
Le ragioni di tale cortocircuito politico-amministrativo appartengono però non alla cronaca ma alla storia, alla matrice della coscienza politica, all’estesa mente (mind) urbana costituita dalla collettività nel suo rapporto con la materiale struttura cittadina (brain) che allo stesso tempo la produce e ne è il prodotto. E proprio l’ignoranza della natura di tale matrice è oggi all’origine dell’incapacità della politica locale ad assolvere il proprio compito: a Bologna più manifestamente che altrove.
Già un secolo fa avvertiva Adolf Loos che non si ha idea della quantità di veleno che abili pubblicazioni spargono ogni giorno sull’idea di città, al punto da impedire ogni autentica comprensione del fatto urbano. Tale veleno consiste in sostanza nella trasformazione della realtà urbana in semplice aggregato edilizio, appunto secondo la canonica definizione illuministica all’inizio richiamata, formulata da Diderot in persona. Così, riportata all’organismo cittadino, la celebre affermazione della Thatcher per cui «non esiste la società, esistono solo gli individui, di sesso maschile e femminile» enuncia non soltanto la fine di ogni idea di civitas, di collettività civile, ma anche di ogni relazione tra questa e l’urbs, secondo un processo di riduzione dell’idea di città che culmina oggi nel concetto di smart city: che significa non città «intelligente», come si dice, ma piuttosto «furbescamente alla moda», da gestire secondo programmi elettronici volti alla trasformazione in senso aziendale della città stessa.
Bologna però non è una città intelligente, è molto di più: è una città per natura cognitiva, nel senso che fin dalle origini il suo compito è stato quello di svolgere ruoli quaternari, connessi cioè alla produzione, all’interpretazione e alla messa in circolazione di informazione specializzata. A volerla restringere all’essenziale, nell’ultimo millennio e mezzo la sua storia svolge in maniera esemplare la vicenda dell’autorganizzazione di un sistema che attraverso la propria crescente complessificazione trasforma la propria struttura concreta senza però mutare la propria logica, e con essa la propria costituzionale identità. E ciò in virtù della capacità di trarre partito dalla perturbazione per rinchiudersi in maniera diversa su se stessa, generando nuovi ruoli e attività in grado di mantenere e rinforzare la natura originaria del funzionamento. Essenziale resta il fatto che per qualsiasi organismo i meccanismi dell’autorganizzazione sono quelli dell’attività cognitiva, i soli a permettere, attraverso il riconoscimento e il superamento della crisi, la nascita di nuove funzioni in grado di garantirne la sopravvivenza e la crescita. E che cosa fu, all’alba del Mille, l’invenzione a Bologna dello «Studio», dell’università, se non il risultato di tale attività da parte dell’organismo urbano bolognese?
Di converso: che cosa furono i fatti del 1977 se non l’effetto della sopravvenuta incapacità da parte di Bologna di accogliere, trattare, metabolizzare e rimettere in circuito il carico informazionale che dalla seconda metà degli anni Sessanta si era diretto verso di essa, e tradurlo in termini politici? Della incapacità di superare insomma un’ulteriore soglia del proprio processo auto organizzativo, di operare come mille anni prima nel senso di una progressiva articolazione della propria natura quaternaria, la sola il cui sviluppo sarebbe stato in grado di continuare a preservarne l’identità e perciò la coscienza, anzi il complesso delle coscienze?
Sul cerchio di gesso che marca contro il muro di via Mascarella il segno dei proiettili che l’11 marzo del 1977 uccisero Francesco Lo Russo qualcuno ha di recente apposto un tag nero: concretissimi soggetti, diversi dagli stessi studenti, provenienti da lontano e portatori di culture altre sono nel frattempo diventati visibili e si aggirano sotto i portici e lungo i viali. In fondo, come ha scritto Edgar Morin, «tutto ciò che esiste e si crea è qualcosa d’improbabile che hic et nunc diventa necessario». Il ritardo del dispositivo politico bolognese nel pensare la possibilità che «le cose potessero andare diversamente», per dirla con Karl Kraus, vale a dire il ritardo politico di Bologna dovuto alla sua mancanza di memoria, si traduce così nel dover fare i conti con necessità della cui portata soltanto oggi, a fatica e senza più grandi riferimenti, essa inizia a rendersi conto.
Il centro di Roma è un buco. Un buco nero urbanistico, culturale, politico, sociale. >>>
Il centro di Roma è un buco. Un buco nero urbanistico, culturale, politico, sociale. L'area archeologica più importante al mondo rappresenta una ferita aperta nel cuore della città che continua ad interrogarci da decenni in cerca di risposte.Ridotta ad un suk a cielo aperto senza forma, faticoso e scarsamente leggibile nel suo insieme da turisti e cittadini, spazio irrisolto la cui vocazione culturale irrevocabile, stuprata dalla costruzione dello stradone fascista, via dei Fori Imperiali, nel 1932, continua ad essere contraddetta quasi per inerzia da presenze e attività incongrue e soprattutto da una desolante mancanza di progetto.
Abbandonato in una situazione ibrida dall'ignavia della politica e dall'impotenza della cultura, questo spazio possiede tuttavia una forza intrinseca che ha continuato a reclamare, in tutti questi anni, una soluzione adeguata.ll progetto Fori, l'idea di trasformare l'area centrale in un grandioso parco archeologico che, eliminando via dei Fori Imperiali, ricongiunga il foro romano e i fori imperiali e si saldi al suo naturale ampliamento, l'Appia Antica, riappare così nella storia della città a più riprese. Ma è solo col sindaco Petroselli, che tale progetto, fortemente voluto dall'allora Soprintendente Adriano La Regina riesce ad entrare in una fase operativa. A partire dagli ultimi mesi del 1979, il progetto Fori diventa il perno su cui ridisegnare un'altra idea di città: è quindi, come comprende prima di tutti Antonio Cederna, sostenitore ad oltranza di quell'idea, un progetto urbanistico e culturale, prima che archeologico.Inserire un cuneo di natura e cultura che si allargasse a partire dall'area centrale, significava cercare di ricucire, almeno in parte, il tessuto già fortemente compromesso di una città stravolta da una crescita informe e allo stesso tempo restituire ai cittadini romani uno spazio adeguato per leggere la loro storia.Era, insomma, un modo per riavvicinare al loro passato anche chi abitava nelle più lontane periferie, dandogli l'occasione per godere collettivamente di una bellezza unica. Da questo punto di vista il progetto Fori rappresentava un altro tassello di quella strategia di recupero delle periferie più degradate cui ha ispirato la propria azione politica Luigi Petroselli.
Entrato in una sorta di limbo alla morte improvvisa del sindaco, il progetto Fori ha però continuato a vivere una sorta di esistenza carsica, riapparendo a tratti nel dibattito cittadino anche se sempre più snaturato e sminuito.La strada fascista, ritenuta inamovibile per esigenze di mobilità e poi congelata da un'incredibile vincolo nel 2001, ha nel frattempo perso di importanza nel sistema viario cittadino. Ai lati si è ricominciato a scavare, quasi peggiorando la situazione di incompiutezza dei fori imperiali, a tutt'oggi abbandonati senza una sistemazione che ne permetta una fruizione decorosa e anche solo la leggibilità.
Poi, l'anno scorso, Ignazio Marino, fin dalla campagna elettorale, ha riportato quel progetto al centro del suo programma e, fra i primissimi atti di governo, ha decretato la pedonalizzazione di via dei Fori Imperiali. Da subito si sono levate schiere di detrattori di ogni tipo. Fra le critiche più ricorrenti, quella che, sventolando le cifre del disastroso bilancio capitolino, ridotto alla questua governativa da troppi anni di dissipazioni, bolla il progetto Fori come inutile sperpero di soldi pubblici per quello che viene considerato una sorta di capriccio di intellettuali nostalgici. Che diamine, rispetto alle priorità delle aziende pubbliche sull'orlo del disastro, delle periferie degradate e senza servizi, di una mobilità molto al di sotto dei parametri europei, perchè trastullarsi con l'area centrale?
Perchè quest'area, da troppo tempo esclusa dalla fruizione dei cittadini, non è solo il centro fisico della città. Ne è l'ombelico simbolico: e da lì bisogna ripartire. Ne è l'ombelico storico, lì dove è nata fisicamente una storia che è alla radice di tutta la cultura occidentale ed europea in primis.Perchè riqualificare questa zona a partire dalla sua storia, significa riuscire a determinare un'inversione di tendenza nell'evoluzione urbanistica della città che avrà effetti dirompenti. E significa dimostrare una capacità gestionale, da parte dell'amministrazione pubblica, smarrita da troppo tempo. E infine significa, sul piano culturale, tornare ad avere una visione sistemica di lungo periodo e di altissima innovazione.E questa sfida molteplice, una volta affrontata, non potrà che divenire la chiave di volta per affrontare i mille altri problemi che gravano su questa città.
Certo si tratta di una sfida complicatissima, che ha bisogno di un progetto perfettamente elaborato in molteplici aspetti: economico, urbanistico, trasportistico, archeologico.
Proprio per cominciare questo percorso, almeno sul piano, peraltro fondamentale, della discussione culturale, l'Associazione Bianchi Bandinelli ha organizzato un incontro che si terrà il 21 marzo prossimo a Roma, presso il Teatro dei Dioscuri.Archeologia e città: dal progetto Fori all'Appia Antica, è il titolo del convegno che riproporrà quindi, anche il tema della necessaria, ma finora negata, complementarietà dell'area archeologica centrale con la sua naturale prosecuzione extra moenia, l'Appia Antica. La regina viarum, splendido e sempre più isolato esempio di quanto una gestione pubblica, quella della Soprintendenza Archeologica dello stato, con mezzi risibili, possa contrastare la pressione dell'abusivismo e della speculazione edilizia, regalando a cittadini e turisti spazi pubblici di bellezza incomparabile.
È tempo che si torni ad affrontare questo nodo in modo non estemporaneo, rintuzzando una volta per tutte i gattopardismi di sempre, che puntuali si riaffacciano anche in questi giorni. Si pensi allo scombiccherato progetto che sotto l'etichetta di Grande Programma Europeo Roma Grand Tour (tutte maiuscole, of course) vorrebbe ridurre l'archeologia romana ad un catalogo di una decina di monumenti-bignami, frantumando in una serie di figurine didattiche l'irripetibile complessità di un patrimonio unico.
È tempo di ribadire che il centro di Roma, non può essere un non-luogo, quasi una terra di nessuno, ma deve tornare ad essere, finalmente, quel "sublime spazio pubblico" (Benevolo) che la città e i cittadini aspettano e devono tornare a pretendere.
Qui il programma del convegno "Archeologia e città: dal progetto Fori all'Appia Antica", Roma, 21 marzo 2014
L'articolo è pubblicato contemporaneamente su L'Unità on-line, "nessundorma"
Il metodo grandi opere, autoritario e con decisioni prese lontano dal confronto con cittadini e bisogni, al confronto con una società matura e la ricerca di strategie diverse. Per ora, in un vicolo cieco: esiste un approccio progressista diverso dal No?
La recente bocciatura e sospensione del progetto delle Vie d’Acqua previsto nell’ambito della realizzazione delle opere connesse al sito Expo2015, merita qualche riflessione di approfondimento.
Oggi, chi volesse esercitarsi nell’assemblaggio e nell’analisi di una rassegna stampa dedicata all’argomento, potrebbe trarre la conclusione che si tratti di un intervento “predestinato al fallimento” e maturato in un generale clima di perplessità e scetticismo. In realtà le cose non stanno proprio in questo modo e le numerose prese di posizione delle ultime settimane che utilizzano definizioni come quella di “flop annunciato”, “occasione perduta” e via discorrendo sono, nella migliore delle ipotesi, tardive e ininfluenti. Ma andiamo con ordine, cercando di ricostruire le modalità e le ragioni di questo insuccesso.
La vicenda ha inizio con la predisposizione del Dossier di candidatura al B.I.E.; l’amministrazione comunale (all’epoca presieduta dal sindaco Moratti) aveva presentato un Masterplan, dai contenuti assimilabili ad un ex tempore elaborato da una “consulta di architetti” appositamente istituita, nel quale era stato inserito un canale denominato “Via d’Acqua” che dalla Darsena di Porta Genova, punto di congiunzione dei Navigli milanesi, andava a connettersi con la periferia nord ovest di Milano in corrispondenza delle aree interessate dal sito espositivo.
La connessione idraulica, presentata con caratteristiche di un nuovo canale navigabile e corredata da interventi e progetti di ricomposizione paesistico-ambientale del quadrante “Città-Expo-Canale Villoresi-Naviglio Grande” è stata da subito accolta favorevolmente da un’opinione pubblica sensibile al tema e che ha visto in questo tipo di iniziativa un primo step e uno strumento per rivitalizzare connessioni, usi e manutenzione del complesso sistema delle acque che caratterizza l’area metropolitana milanese e che ha le sue direttrici di forza nei Navigli storici.

A seguito dell’aggiudicazione della manifestazione, la società di scopo (Expo S.p.A.) alla quale è stato affidato il mandato di sviluppare la realizzazione del sito e delle opere connesse ha avviato le fasi di progettazione dell’intervento. Probabilmente, in funzione del precisarsi di alcune scelte tecnologiche in ordine ai caratteri edilizi e impiantistici del sito e a qualche ragionamento in più sulla morfologia del contesto territoriale (dato che “l’acqua da sola non va in salita”), l’impostazione e lo sviluppo progettuale hanno mutato l’orientamento iniziale, generando due distinte “vie d’Acqua”.
La prima, Lotto1 - Via d’Acqua Nord, a cui è stato affidato il compito di assicurare il fabbisogno idrico del sito Expo mediante una derivazione che parte dal Canale Villoresi, storico vettore irriguo che taglia orizzontalmente l’area metropolitana milanese e che si attesta a nord sul limite tra il pianalto ferrettizzato e la pianura irrigua.
La seconda, Lotto 2 - Vie d’Acqua Sud, che dal sito Expo si congiunge con il Naviglio Grande in corrispondenza della Darsena, con la funzione di smaltire i volumi d’acqua in uscita, con un tracciato che attraversa una serie di quartieri residenziali e alcuni parchi urbani. In sostanza, questa configurazione comporta la realizzazione di circa 12 km. di condotte idrauliche, di cui circa il 40% in sotterraneo, con sezioni e portate (2mc/sec) assimilabili ad un adduttore di medio-piccole dimensioni. Gli interventi sul vettore idraulico sono corredati dalla presenza di una dorsale ciclopedonale che si sviluppa per una quindicina di chilometri, e da alcune strutture edilizie (passerelle, affiancamenti a cavalcavia, sovrappassi). Gli interventi di “ricomposizione paesaggistica” sono limitati alle parti di tracciato in sovrapposizione con i parchi urbani esistenti. Costo stimato, 100.000.000 di €.
Evidente, che stiamo parlando di un brusco cambiamento di rotta rispetto ai propositi e alle aspettative iniziali. E interessante sottolineare che, nonostante l’evoluzione del processo di definizione e avanzamento della progettazione portasse verso una direzione con esiti molto distanti rispetto alle suggestioni prospettate alla Commissione della B.I.E., la roboante espressione “vie d’Acqua” è stata ostinatamente mantenuta dall’Amministrazione comunale, nel frattempo presieduta da nuovo sindaco Pisapia, e dalla società Expo sia negli atti ufficiali che nella comunicazione e sulla stampa.
Così come è opportuno chiarire che questo tipo di aggiornamenti dell’impostazione progettuale non sono stati pubblicizzati come sarebbe stato opportuno e doveroso, consolidando nell’opinione pubblica le aspettative e una erronea consapevolezza dell’imminente realizzazione di una nuova vera e propria Via d’Acqua. Opinione pubblica che del resto aveva confermato i propri orientamenti attraverso lo svolgimento di un partecipato referendum consultivo (2011) il cui esito aveva determinato l’impegno verso la riqualificazione della Darsena e il sistema dei Navigli storici.
Nonostante un contesto caratterizzato da una complessiva scarsità di informazioni sull’andamento del progetto, nel 2012 cominciano a levarsi voci critiche e pareri molto negativi.
Significativo è il parere espresso dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici (dicembre 2012) che muove pesanti critiche sia dal punto di vista procedurale che di merito tecnico. Tra gli aspetti di tipo procedurale i rilievi più significativi riguardano una generale lacunosità del livello progettuale, la mancanza di uno studio di impatto ambientale e del relativo svolgimento della procedura di V.I.A. (o quantomeno di uno screening), una scarna documentazione a supporto dell’intervento dal punto di vista del regime idraulico e, infine una “compatibilità urbanistica” tutta basata su dichiarazioni di principio e di intenti e non documentata da una puntuale verifica.Sul versante del merito tecnico viene sottolineata la “non corrispondenza” tra la denominazione del progetto e le sue caratteristiche e lamentata l’assenza di riscontri dal punto di vista del contenuto rispetto ai dichiarati obiettivi di ricomposizione del paesaggio urbano del quadrante Città-Expo-Canale Villoresi-Naviglio Grande.
Un secondo parere fortemente critico è della “Consulta Milanese per l’attuazione dei 5 referendum consultivi sull’ambiente” (quelli del 2011) che ne richiedeva addirittura l’eliminazione riprendendo argomentazioni analoghe a quello del C.S.L.P.
Da registrare anche le prese di posizione di alcune associazioni ambientaliste quali Italia Nostra e Milanosimuove. Quest’ultima promotrice nel giugno 2013 di un esposto alla Corte dei Conti per l’avvio di una indagine conoscitiva, ritenendo ingiustificati gli impegni di spesa programmati in relazione ai fini effettivi del progetto.
Questi pareri, di cui uno vincolante, non hanno comunque condizionato o prodotto interferenze rispetto all’operato della società Expo che comunque ha avviato e svolto la procedura di gara per l’assegnazione degli appalti tra la primavera e l’estate del 2013. Quindi possiamo affermare che fino all’estate del 2013 il progetto e la realizzazione delle Vie d’Acqua avevano il vento in poppa, tutt’altro che indebolite e fiacche.
Cosa è accaduto dall’estate ad oggi? Molto semplicemente l’acquisizione delle aree da espropriare, la posa delle recinzioni dei cantieri e l’arrivo delle ruspe hanno evidenziato la lacunosità dei contenuti, le leggerezze e la sommatoria degli impatti locali di questo progetto, sollecitando da parte dei residenti dei quartieri del quadrante nord ovest una coriacea e organizzata reazione.
In sintesi, il vaso di Pandora è stato scoperchiato.Chi è abituato a vivere con poche risorse non concepisce lo spreco. Pertanto, gli abitanti di questi quartieri periferici con una matrice popolare, per lo più realizzati molto velocemente negli anni 60-70 e che hanno visto conseguire un ancora insufficiente sistema di servizi, parchi, verde e arredo urbano solo negli ultimi due decenni, hanno ritenuto inaccettabile vedere che queste risorse venissero in qualche modo brutalizzate da un intervento che “non parlava” con gli investimenti così faticosamente conquistati e realizzati.
Una reazione comprensibile quindi, dato che alcune delle aree verdi che danno vita a parchi urbani e parchi dei quartiere interessati dall’attraversamento del manufatto idraulico, come il Parco Pertini, il Parco di Trenno e il Parco delle Cave rappresentano luoghi faticosamente acquisiti dalla cittadinanza, sia negli usi che nella tutela, rispetto alla presenza fenomeni di degrado ambientale e sociale e pertanto divenuti importanti elementi di caratterizzazione identitaria.Molto consapevolmente e con argomentazioni ragionevoli, questi residenti si sono chiesti il senso di un così consistente utilizzo di risorse, non solo in termini economici ma anche in termini sociali e di affaticamento del sistema urbano, per il conseguimento di obiettivi così modesti, probabilmente raggiungibili con mezzi diversi e un corretto utilizzo dell’esistente, a partire proprio dalla rete irrigua.
La relazione che l’amministrazione comunale ed Expo hanno stabilito con i diversi Comitati NoCanal non è stata particolarmente efficace dal punto di vista dell’ascolto ed è passata per una prima fase di stigmatizzazione del dissenso per poi successivamente riconoscere, attraverso un confronto aspro, l’esistenza di criticità significative per la fattibilità dell’intervento.
Attualmente, il progetto è temporaneamente sospeso. Non è ancora chiaro se questa sospensione rappresenta il preludio ad un abbandono definitivo o se Expo si muoverà verso una radicale revisione dei tracciati, delle modalità realizzative e degli spazi da impegnare. Il sindaco Pisapia ha dichiarato di considerare la vicenda “una grande occasione perduta”. Probabilmente anche molti milanesi la definirebbero nello stesso modo ma magari da una visuale molto diversa.
Roars.it,
16 marzo 2014 (m.p.g.)
Negli anni in cui Matteo Renzi è stato sindaco di Firenze l’amministrazione non ha brillato per capacità di innovazione, al contrario. L’esposizione del teschio incrostato di diamanti di Damien Hirst a Palazzo Vecchio ha mostrato al mondo come si possa essere al tempo stesso pretenziosi e subalterni. Si è offerto l’edificio-simbolo della storia repubblicana di Firenze alla celebrazione di un oggetto assurdamente dispendioso, concepito come vessillo di disuguaglianza e trappola per la vanità degli oligarchi.
In programma questa primavera, la mostra dedicata a Michelangelo e Pollock prefigura un astorico confronto tra due artisti fumettisticamente presentati come “furiosi”. Il risibile match, che nelle intenzioni di Renzi dovrebbe costituire il dono d’addio alla città, conferma la predilezione per esposizioni-blockbuster di nessuna consistenza scientifica. L’ostinazione con cui si è infruttuosamente cercata la (perduta) Battaglia di Anghiari leonardesca in Palazzo Vecchio è sembrata un’avventata commistione tra dilettantismo storico-artistico, maldestro culto delle nuove tecnologie e fiction rinascimentale in chiave Dan Brown. Certo, esistevano i finanziamenti di National Geographic: ma perché emarginare la comunità scientifica italiana e internazionale? La proposta di “terminare” la basilica di San Lorenzo costruendo la facciata secondo l’”originario” progetto michelangiolesco, lanciata da Renzi a suo tempo in consiglio comunale, si è rivelata episodica e strumentale. Nel frattempo si è disinvestito da istituzioni che non avevano il sostegno dell’industria alberghiera (ma potevano rivelarsi importanti per la comunità dei residenti) e si sono patrocinate iniziative ambiguamente oscillanti tra scoutismo culturale e rapacità commerciale. Non si è infine esitato a impedire senza preavviso ai cittadini il passaggio dal Ponte Vecchio pur di assicurare maggiore privacy agli ospiti di un’esclusiva cena di gala di Luca Cordero di Montezemolo.
La prima cosa da dire è che l’attuale presidente del Consiglio sconta il limite sociologico della città da cui proviene. Firenze è una città di piccole o medie imprese attive in settori ipermaturi e a bassa tecnologia, a conduzione familiare. Alberghi, servizi, editoria finanziata o aggregata a poli museali. Salvo rare eccezioni l’orientamento non è alla competizione ma al controllo proprietario e, qualora possibile, alla rendita confortevole. Le più sbrigative “valorizzazioni” del patrimonio storico-artistico sono remunerative, relativamente anticicliche e non comportano rischio imprenditoriale: perché dunque darsi pena di finanziare progetti a medio e lungo termine, di cui beneficerebbero i cittadini, invece che “eventi” graditi ai visitatori, in primo luogo ai più abbienti? La produzione stereotipa di guide, foulard stampati con motivi botticelliani e cartoline con giglio non impone scelte strategiche né presenta le difficoltà di un’industria high-tech. “La cultura dovrebbe essere il baluardo di una sfida identitaria”, vaticina Renzi in Stil novo[1]. Non è chiaro tuttavia se intenda porre giusta enfasi sull’importanza dell’istruzione o semplicemente accompagnare le dichiarazioni dell’amico Farinetti sull’appeal di torroni e prosciutti doc. “Se è morta non è bellezza. Al massimo può essere storia dell’arte. Ma non suscita emozione”[2]. Ma che vuol dire?
Se per politica della cultura intendiamo una serie coerente di iniziative o provvedimenti volti a promuovere sollecitudine civile, discussione informata e ampiezza di confronti (quanto potremmo sinteticamente definire “apertura della mente”) dobbiamo riconoscere che tale politica non esiste per Matteo Renzi: esistono invece commercio e turismo. A mio parere l’adozione di un punto di vista aggressivamente consumistico costituisce un’incongruità per ciò che Renzi stesso rappresenta come segretario del Partito democratico. Provo a spiegare perché. Le nostre preferenze culturali sono modellate da differenti tipi di marketing. Se desideriamo che il “pubblico” (di una mostra, di un concerto) sia qualcosa di più e diverso da una folla plaudente che sorseggia cocktail e rende omaggio alla munificenza di mecenati pubblici o privati dovremmo porci il problema dell’inclusione. I “mercati culturali” non sono efficienti: esistono alti costi di accesso e pronunciate asimmetrie informative[3].
Personalmente ritengo che l’arte non debba trasformarsi in una sorta di testimonial della disuguaglianza né corteggiare in maniera esclusiva i mondi della ricchezza: almeno non se ci poniamo dal punto di vista dell’amministratore pubblico. Eppure questa è la tendenza dominante. Né credo sia lecita la riconduzione del patrimonio storico-artistico alla sola dimensione del profitto: obbliga la cultura a competere sul breve termine con industrie ben più remunerative. La Costituzione prevede l’investimento pubblico in cultura perché riconosce la specifica complessità del processo di partecipazione[4]. Al pari dell’indigenza, i deficit educativi creano “ostacoli” formidabili alla piena esplicazione sociale e professionale della persona. E’ tuttavia interesse generale, quantomeno in uno stato di diritto, che vi sia (e continui ad esservi attraverso le generazioni) un’opinione pubblica informata e indipendente. Sospinto da un pregiudizio “popolare” (o più semplicemente populista) e dallo spiccato amore per l’acclamazione, il più giovane presidente del consiglio della storia italiana ha sinora mostrato di ignorare le responsabilità di una seria politica culturale. Ha sottostimato i benefici economici e civili della ricerca. Si è circondato di collaboratori fugaci e modesti e ha privilegiato opache reti amicali. Non ha fatto ottimi studi né ha ragione di nasconderlo. In futuro farà tuttavia meglio a evitare dispersive polemiche con i “professori” per valutare senza pregiudizio punti di vista meditati[5]. Perché, malgrado accattivanti appelli all’”uguaglianza”, tanta disattenzione ai temi della cittadinanza? Suppongo che l’organicità di Renzi a cerchie economiche e d’opinione dominanti possa essere la risposta che cerchiamo.
[1] Matteo Renzi, Stil novo, Rizzoli, Milano 2012, p. 50.
[2] ibid., p. 55.
[3] Gustavo Zagrebelsky, Fondata sulla cultura, Einaudi, Torino 2014, p. 44: “le tante conoscenze particolari restano scomposte come tessere di mosaico che non compongono figure… Qualunque avventuriero della conoscenza [può] infilarsi, senza incontrare ostacoli, di fronte a un pubblico ignorante e inconsapevole. Il ‘pubblico’ è già vittima della capacità specialista e dell’ignoranza generalista”. Uno stato di diritto può trascurare il compito di un’educazione permanente dei suoi cittadini?
[4] Sul tema cfr. Salvatore Settis, Paesaggio costituzione cemento, Einaudi, Torino 2010, p. 122 e ss.
[5] Con un ampio e polemico intervento apparso su Repubblica, Giovanni Valentini si è recentemente posto in scia a Renzi attaccando le soprintendenze con argomenti che sono sembrati in larga parte pretestuosi, soprattutto per la mancata distinzione, quanto alle modalità di partnership pubblico|privato, tra filantropia culturale o no profit da un lato, sbrigative forme di “valorizzazione” commerciale dall’altro (I no delle soprintendenze che rovinano i tesori d’Italia, in: la Repubblica, 9.3.2014, pp. 1, 20). A mio avviso la differenza non passa tra capitale pubblico e capitale privato: ma tra “capitale paziente” (per usare la felice definizione di Mariana Mazzucato) e capitale speculativo o rendita. Checché se ne dica la piccola o media impresa attiva oggi in Italia nell’ambito dei servizi al patrimonio non è in grado di (né motivata a) produrre innovazione: sottocapitalizzata, trae la propria sopravvivenza da relazioni politiche e vive di progetti a breve termine (Paolo Sylos Labini, La crisi italiana, Laterza, Bari 1995, p. 9 e ss.). L’attività di agenzie pubbliche in grado di selezionare competenza, procurare strategia e finanziare trasformazione – qualcosa che il MiBACT di oggi, inutile dirlo, è del tutto incapace di fare – potrebbe risultare di grande vantaggio. L’editoriale di Valentini ha sorpreso quanti, sulla prima pagina del quotidiano romano, erano soliti trovare qualificate difese del patrimonio e dell’ambiente intesi come “bene comune”. Sulle retoriche della “sussidiarietà” e le loro implicazioni ideologiche (“neoguelfe” o meglio neocesaristiche) nel contesto della discussione italiana sulle politiche della tutela cfr. Michele Dantini, Inchiesta su “patrimonio” e “sussidiarietà”. Retoriche, politiche, usi pubblicitari, in: ROARS, 9.11.2012, qui. Per una ricostruzione dell’”industria delle concessioni” cfr. Tomaso Montanari, Le pietre e il popolo, minimum fax, Roma 2013, p. 21 e ss. Cfr. anche, di Valentini, l’elusiva controreplica dal titolo Quelli che difendono le soprintendenze, in: la Repubblica, 12.3.2014, p. 56.
«Nel cuore dell’Appennino, nonostante tutti gli sfregi che ha subito è un posto comodo, al centro della Campania. Dove si può anche trovare il silenzio e la luce dell’Irpinia d’Oriente. Ma sembra fatta apposta per dimostrare come il Sud possa sprecare le sue bellezze e le sue opportunità». Il manifesto, 6 marzo 2014
Arrivo ad Avellino verso le nove. Per arrivarci da casa mia ci vuole un’ora di autostrada che somiglia assai poco a un’autostrada. Attraverso una provincia ancora bellissima, a dispetto del valzer delle betoniere seguito al terremoto dell’ottanta.
Avellino è più viva di tante cittadine europee. C’è una rinnovata vivacità, i buoni ci sono ancora, anche se sono attori non protagonisti. Nonostante tutti gli sfregi che ha subito è un posto comodo, al centro della Campania. In meno di un’ora si possono raggiungere posti famosi come Paestum e la costiera amalfitana, ma si può anche trovare il silenzio e la luce dell’Irpinia d’Oriente. Avellino è in mezzo all’Appennino. Il suo futuro non è la decadenza, perché non sarà la decadenza il futuro dell’Appennino.
Intanto il suo presente è molto simile a una via crucis, una città che sembra fatta apposta per dimostrare come il Sud possa sprecare le sue bellezze e le sue opportunità.
Prima stazione
Entro in città dalla la zona del nuovo ospedale. Lo chiamano città ospedaliera. Non so chi ha costruito la struttura, non deve essere un bravo architetto. Ma il problema più grande è fuori. Arrivare al pronto soccorso è come fare una caccia al tesoro. E poi si sono dimenticati di fare i parcheggi davanti alla struttura. I lavori per porre rimedio ovviamente vanno a rilento. E così chi entra ad Avellino da questo lato subito può farsi l’idea di una città slow, ma il riferimento è ai cantieri, non al cibo.
Seconda stazione
Sono davanti al teatro Gesualdo. Anche qui l’opera ha una disegno architettonico molto discutibile, anche qui il disastro è fuori. Prima hanno cercato di recuperare dei ruderi microscopici di un castello col risultato che adesso non si notano i ruderi, ma una scala di metallo. Ora forse si vorrebbe sistemare lo spazio intorno al teatro, ma i lavori procedono per avanzamenti millimetrici. Lo spiazzo che vorrebbero ricavarne è una sorta di Aspettando Godot dell’urbanistica. Dunque il teatro si fa dentro e anche fuori, dove vanno in scena infinite repliche del teatro dell’assurdo.
Terza stazione
Piazza Macello. Qui ci sono gigantesche palazzine anni sessanta, qui c’è sempre stato e c’è ancora il punto da cui partono e arrivano i pullman. Si parla da decenni di far traslocare l’autostazione, ma non succede nulla. I lavori sono stati fatti, i soldi sono stati spesi. Questo conta, per il resto i pullman possono restare dove sono. Per spendere altri soldi hanno provato a fare una piazza. Non è venuta bene, forse gli unici a goderne sono i cani che possono fare indisturbati i loro bisogni.
Quarta stazione
Vado verso il centro della città. Qui c’è il cantiere totem, la metafora di tutti i fallimenti della politica avellinese. Difficile credere che potesse essere utile un tunnel in una città che ha meno di sessantamila abitanti. Il progetto originario è stato stravolto e la possibile utilità è ancor più diminuita. I lavori al momento sono arenati e il tunnel è solo una buca dove sono stati buttati un sacco di soldi pubblici.
Quinta stazione
Sono arrivato al corso. Questo è il centro della città, la spada dritta, la gruccia a cui è appeso tutto il resto. Qui i lavori per farne un’isola pedonale sono stati portati al termine. Un luogo molto bello, nonostante ci siano ancora molti palazzi che attendono di essere ricostruiti. L’effetto è strano. Non si vedono biciclette, gli avellinesi senza macchina sembrano creature a disagio, a parte i luminari dello struscio che parlano di sport e di politica. Avellino è una città che parla molto di sport e di politica. Le due cose hanno destini congiunti. L’ascesa della squadra di calcio alla serie A e la sua lunga permanenza nell’olimpo del calcio coincise con il fulgore dei politici irpini. Il più noto è De Mita, poi ci sono Mancino e Bianco, Gargani, De Vito. Su queste figure si è scritto molto, non è il caso di aggiungere altro, se non che sono tutti ancora in attività, a parte De Vito, sindaco del mio paese, morto senza il calore del popolo al suo capezzale. Non so quale sarà il destino degli altri, auguro a tutti lunga vita, ma ho la sensazione che il volere a tutti i costi mantenere un ruolo stia offuscando la loro opera anche agli occhi dei loro sodali.
Sesta stazione
Vado verso il centro storico e la sensazione molto netta è che non esiste. A fianco al Duomo c’è un cantiere allo stato fossile, sembra provenire da un’altra era geologica. Non ci sono negozi, non si vedono persone. Hanno ricostruito le case, ma sembra un luogo senza futuro. In tante città del Sud i centri storici hanno ripreso un bel vigore, basti pensare a Bari o a Lecce. Qui c’è solo la pessima edilizia del post-terremoto e qualche cantiere. Gli avellinesi, a parte rarissime eccezioni, sembra proprio che non ce l’hanno in testa il cuore della loro città. Una volta qui aveva sede il centro Dorso. C’è ancora, ma da quando è morto Elio Sellino, l’editore che lo dirigeva, non ci ho più messo piede. Sellino aveva una grande passione per l’Irpinia, ha fatto molte cose per valorizzarne la storia passata e per ravvivare la vita intellettuale: non si può dire che le sue imprese abbiano avuto particolari riconoscimenti.
Settima stazione
Avellino ha come propaggine due paesi che si sono saldati alla città, cumulando le loro bruttezze a quelle cittadine: al Sud i paesi di maggiore dinamismo economico quasi sempre sono i più incuranti della bellezza. La strada che va verso Mercogliano è perennemente intasata di traffico. Ogni volta che mi trovo in questo ingorgo sento che non ha nessuna logica, come se servisse solo a dare l’idea di stare in città.
Ottava stazione
Sono col mio amico Livio Borriello. Dei tanti scrittori della città è quello a cui sono più legato. Avellino non è un posto privo di talenti. Un altro mio amico è il bravissimo videoartista Antonello Matarazzo. In questo caso il riferimento alle stazioni della via crucis si giustifica col fatto che una città piena di energie intellettuali non è mai riuscita a costruire un evento culturale duraturo e capace di uscire dai confini cittadini. Artisti, scrittori, teatranti avellinesi hanno sicuramente meno attenzioni di quelle che meritano; e meriterebbero, per cominciare, che l’ex cinema Eliseo, ristrutturato da tempo, non restasse chiuso come bersaglio per i vandali; e che l’ex palazzo della Dogana trovasse la via per essere sottratto alla ragnatela dei propositi mai realizzati.
Nona stazione
Sono davanti a una costruzione vasta e pretenziosa. A vederla da lontano pare la sede di una grande multinazionale. Ti avvicini e scopri che si tratta della sede di una piccola banca. Una volta si chiamava Banca Popolare dell’Irpinia. Ha cambiato nome già una volta e sta per cambiarlo di nuovo. Non ci sono più i soldi del post– terremoto. Insomma, sono davanti a una grandeur che adesso sembra decisamente fuori posto. L’Irpinia non è diventata quello che immaginavano negli anni ottanta i notabili democristiani.
Decima stazione
Nel mio girovagare in cerca di una città che non c’è da nessuna parte, ora sono davanti alla clinica Malzoni. Anche qui un senso di decadenza. La sanità pubblica, tenuta per anni volutamente in condizioni pietose, ha fatto qualche passo avanti, e questa clinica che godeva di un prestigio immotivato, sta facendo molti passi indietro.
Undicesima stazione
Di nuovo nel centro della città. Qui una volta c’era il carcere borbonico. Ora è uno spazio assai bello che può accogliere attività culturali. Il cruccio in questo caso è che anche quando si fa qualcosa di interessante non sembra godere dell’interesse dei cittadini. L’estate scorsa ci provò un coraggioso editore ad allestire un nutrito programma che si chiamava la Bella estate. Risposta tiepida, come tutte le cose che si fanno fuori dai recinti dello sport e della politica.
Dodicesima stazione
Ipercoop. Qui trovo molta gente. Vago tra li scaffali stracolmi di merce, non trovo tracce di prodotti irpini. Una terra che ha ancora tanti contadini non trova il modo di consumare i suoi prodotti. Anche da questo punto di vista la città ha le sue colpe. Invece di essere quello che è: una città in mezzo a montagne bellissime, un capoluogo che guarda ai suoi paesi, Avellino sembra protendersi inutilmente verso occidente, verso Napoli e Salerno, col risultato di prenderne i difetti e non i pregi.
Tredicesima stazione
Col mio amico Livio mi faccio un giro per i quartieri periferici. Rispetto ad altre città del Sud, non sembra esserci una grande differenza col centro. Il motivo è che in questo caso non è la periferia a far sfigurare il centro, ma il centro che tende a imitare la periferia. Mazzini, Valle, San Tommaso, cambiano i quartieri, ma i palazzi più o meno sono sempre gli stessi e pure le macchine parcheggiate e pure le facce della gente. Forse la nota più dolente viene dal quartiere Ferrovia dove c’è un sito di interesse nazionale da bonificare: l’ex stabilimento dell’Isochimica dove si scoibentava amianto. Amianto sotterrato dappertutto in quel quartiere, anche sotto i binari della ferrovia. Piccola consolazione: nella chiesa del quartiere c’è Il murale della pace, una pregevole opera di arte contemporanea.
Avellino è particolarmente omogenea nel suo grigiore. Più giriamo e più mi sembra di fare il giro della mosca nella bottiglia. È una sensazione che mi danno molte città, come se la grandezza e il senso dell’infinito ormai si fossero andati a nascondere nei luoghi più piccoli e sperduti.
Quattordicesima stazione
Passiamo davanti al mercatone. Doveva essere un contenitore di botteghe artigiane. Aperto per alcuni mesi, si è rivelato ingestibile. Architettura pessima per forma e dimensioni, costo di riqualificazione altissimo. Si aspetta solo che il tempo la trasformi in rovina.
Mi sono stancato, ho voglia di tornare verso l’altura. Lascio la parola al mio amico Livio Borriello e alla sua percezione del grigiore cittadino: Dire Avellino non è dire il nome di una città, ma quello di un posto, di una variante di luogo. Il nome Avellino non evoca nessun mondo, nessuna dimensione psichica, come accade per le vere città che hanno delle vere caratteristiche. Proprio questo però è il suo aspetto interessante, essere una città neutra, una città incolore e trasparente.
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www.left.it, 28 febbraio 2014
Nel rumore di fondo dell’eterno pettegolezzo intorno ai nuovi potenti si è più volte ripetuto che quando Matteo Renzi è a Roma, dorme all’Hotel Bernini Bristol, dell’amico Bernabò Bocca, senatore di Forza Italia e genero di Geronzi. Quel Bocca che, intervistato da Vittorio Zincone nel settembre scorso, si scagliava contro i «divieti» dei soprintendenti, auspicava la realizzazione di due campi da golf a Capalbio e invocava il messianico intervento dei privati. Bocca è nel consiglio di amministrazione di Civita, il più grande concessionario del patrimonio culturale, dunque sapeva cosa diceva. E uno si chiede: ma quando, la sera, Renzi e Bocca si trovano a fare due chiacchere in albergo, se parlano di politica culturale, sono d’accordo o no?
Tutto indica che la «profonda sintonia» che Renzi ha dichiarato di avere con la destra di Berlusconi in tema di riforma della Costituzione (sic!), vige anche in tema di beni culturali. Il nuovo presidente del Consiglio ha detto più volte di voler abolire le soprintendenze («Sovrintendente è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario della burocrazia. È una di quelle parole che suonano grigie. Stritola entusiasmo e fantasia fin dalla terza sillaba. Sovrintendente de che?», così nel suo libro Stil novo, a p. 23), e, nella manciata di parole che ha dedicato alla cultura in chiusura del comizio di paese con cui ha chiesto la fiducia al Senato il 24 febbraio, è riuscito a dire solo che «se è vero che con la cultura si mangia, allora dobbiamo aprire i Beni culturali agli investimenti privati».
Anche da questo punto di vista, il governo Renzi-Alfano si pone in perfetta continuità con quello Letta-Alfano. Alla vigilia della sanguinosa staffetta che lo ha cancellato, Enrico Letta aveva presentato Impegno Italia, sedicente manifesto di una svolta possibile. L’unico punto dedicato alla «cultura» (il 41esimo, su 50) prevedeva di «rafforzare la gestione economica dei beni artistici e culturali. Incentivare lo sviluppo dei servizi aggiuntivi da dare in concessione ai privati». Se si ricorda che il presidente di Civita si chiama Gianni Letta, si comprenderà forse perché il governo Enrico Letta avvertisse questa urgenza. Ma il problema va ben oltre il contingente conflitto di interessi. Infatti, il documento di Letta è stato fatto proprio dalla direzione Pd che lo ha defenestrato, ed è proprio quella l’unica cosa detta da Renzi al Senato.
Una vera telepatia unisce dunque Renzi a quel Dario Franceschini che solo pochi anni fa definiva «il vicedisastro» e «una delusione continua», e che ora ha messo alla guida del ministero per i Beni culturali, pardon al ministero del Petrolio.
Intervistato dal Sole 24 Ore all’indomani della nomina, Franceschini non ha infatti trovato di meglio che riesumare l’ormai inascoltabile luogo comune del patrimonio culturale come petrolio d’Italia: «Penso che il ministero della cultura sia in Italia come quello del petrolio in un paese arabo». E ancora: «La cultura è il nostro petrolio». Insomma, il ministro è riuscito ad avverare in un batter d’occhio il profetico anagramma sfornato poche ore prima da Stefano Bartezzaghi: «Dario Franceschini = Dir frasi canoniche». Il copyright della canonicissima metafora del petrolio spetta al deputato democristiano Mario Pedini (1918-2003), noto soprattutto per essere uscito nelle liste della P2. Ma a renderla celebre fu Gianni De Michelis, che nel 1985 proclamò che: «Le risorse necessarie alla conservazione non ci saranno finché non ne viene evidenziata la valorizzazione economica». Partiva allora il tormentone dei “giacimenti culturali”, al cui prodotto finale ben si attaglia questa analisi di Joseph Stiglitz: «I Paesi che abbondano di risorse naturali sono tristemente famosi per le attività di ricerca della rendita. In tali Paesi è molto più facile diventare ricchi ottenendo un accesso privilegiato alle risorse che generando ricchezza. Questo è spesso un gioco a somma negativa».
La politica culturale, ancora una volta, non cambia verso. |

La partita che si gioca a Roma è un episodio del lavorio dei neoliberisti per strozzare progressivamente i possessori dei patrimoni collettivi per privatizzarli e ridurli a strumenti del capitale finanziario. Attivissimi in questa impresa gli esponenti della politica delle "larghe intese", annidati nelle istituzioni e nel nuovo parastato. Il manifesto, 28 febbraio 2014
Strano esordio quello del premier Renzi, che, dal patetico insediamento a Presidente del Consiglio, non perde occasione per rimarcare il legame che vuole mantenere con i territori, rivendicando il modello del «sindaco d’Italia». Strano esordio perché il primo atto significativo del suo governo è stato il ritiro del decreto «Salva Roma», mettendo così a rischio l’approvazione del bilancio di Roma Capitale e facendola pericolosamente avvicinare al totale default.
Attribuire tutto questo alle forze di opposizione, che, in quanto tali, non hanno i numeri per far saltare alcunché, appare decisamente poco credibile; e forse le ragioni di quanto sta succedendo andrebbero ricercate nel riassetto degli equilibri interni alle diverse elite politico-finanziarie, che, a diversi livelli, hanno contribuito al raggiungimento della poltrona più ambita (per ora) da parte del ragazzo che non ha l’età.
In realtà, la partita che si sta giocando sui destini di Roma Capitale costituisce un interessantissimo laboratorio del conflitto che, nei prossimi mesi, vedrà gli enti locali al centro dello scontro.
Sapientemente spogliati nell’arco degli ultimi quindici anni da un combinato disposto di misure formato dal patto di stabilità interno, dalla drastica riduzione dei trasferimenti erariali, da vecchi tagli e più moderne spending review, fino alla costituzionalizzazione del pareggio d bilancio, gli enti locali sono ora cotti a puntino per divenire i più efficienti esecutori delle politiche liberiste, rese «inevitabili» dalla trappola del debito pubblico e dall’aver assunto come priorità indiscutibili i vincoli monetaristi imposti dall’Unione Europea.
Gli enti locali sono al centro del conflitto, in quanto ancora detentori di una quantità di beni – territorio, patrimonio immobiliare e servizi pubblici– valutabili attorno ai 570 miliardi (stime Deutsche Bank del 2011) ed entrati da tempo nel mirino dei grandi capitali finanziari, alla disperata ricerca di asset sui quali investire l’enorme massa di ricchezza privata prodotta dalle speculazioni finanziarie dell’ultimo decennio.
Non è certo un caso la trasformazione, in atto negli ultimi anni, di Cassa Depositi e Prestiti da ente per il sostegno a tassi agevolati degli investimenti degli enti locali a SpA mista pubblico-privata che si pone come partner finanziario per il sostegno alle grandi opere, per la «valorizzazione» del patrimonio degli enti locali, per l’aggregazione in grandi multiutility della gestione dei servizi pubblici locali.
Se questa è la partita, appare a dir poco insufficiente l’indignazione del sindaco Marino con relative minacce di dimissioni. Ciò che sta per essere progressivamente dismessa è la funzione pubblica e sociale dell’ente locale in quanto tale, per trasformarne il ruolo da erogatore e garante dei servizi per la collettività a facilitatore dell’espansione degli interessi finanziari e speculativi su ogni settore delle comunità territoriali.
Una soluzione immediata per evitare oggi il default di Roma Capitale verrà sicuramente trovata e avrà, in piena sintonia con il decreto «Salva Roma» appena ritirato, le medesime caratteristiche di dare un po’ di respiro nel breve per rendere più stringente la catena del ricatto nel medio periodo.
L’idea del sindaco e della giunta capitolina di poter governare la città non mettendo in discussione alcuno dei vincoli strutturali che ne imprigionano la possibilità di azione è destinata in breve tempo a rivelarsi per quello che è: nient’altro che una pura illusione oggi, destinata a divenire complicità domani.
Per questo, una soluzione vera al conflitto in corso fra Governo e Roma Capitale non può venire dalle dinamiche istituzionali, bensì solo ed unicamente da una mobilitazione sociale ampia contro la trappola del debito e per un’indagine popolare e indipendente sullo stesso, contro il patto di stabilità e per la fuoriuscita immediata dallo stesso di ogni investimento relativo alla riappropriazione dei beni comuni e alla realizzazione del welfare locale, contro le privatizzazioni e per una gestione partecipativa dei servizi pubblici locali, contro gli interessi finanziari e per una nuova finanza pubblica e sociale.
Si tratta semplicemente di riappropriarsi della democrazia
Il Fatto Quotidiano, 25 febbraio 2014 (m.p.g.)
Come una perversa macchina del tempo, il discorso pubblico sul patrimonio culturale ci ha riportati di peso nei plumbei anni Ottanta. Intervistato dal Sole 24 Ore, il neoministro per i Beni culturali Dario Franceschini non ha trovato di meglio che riesumare l’ormai inascoltabile luogo comune del patrimonio culturale come petrolio d’Italia: “Penso che il ministero della Cultura sia in Italia come quello del petrolio in un paese arabo”. E ancora: “La cultura è il nostro petrolio”. Insomma, il ministro è riuscito ad avverare in un batter d'occhio il profetico anagramma sfornato poche ore prima da Stefano Bartezzaghi: “Dario Franceschini = Dir frasi canoniche”.
Il copyright della canonicissima metafora del petrolio spetta al deputato democristiano Mario Pedini (1918-2003), noto soprattutto per essere uscito nelle liste della P2. Ma a renderla celebre fu Gianni De Michelis, che nel 1985 proclamò che: “Le risorse necessarie alla conservazione non ci saranno finché non ne viene evidenziata la valorizzazione economica”. Partiva allora il tormentone dei giacimenti culturali, al cui prodotto finale ben si attaglia questa analisi di Joseph Stiglitz: “I paesi che abbondano di risorse naturali sono tristemente famosi per le attività di ricerca della rendita. In tali paesi è molto più facile diventare ricchi ottenendo un accesso privilegiato alle risorse che generando ricchezza. Questo è spesso un gioco a somma negativa”. Parole che evocano la privatizzazione dei cosiddetti “servizi aggiuntivi” avviata da Alberto Ronchey su quell'onda, nei primi anni Novanta: un processo che doveva riguardare solo caffetterie e bookshop, e che ha invece finito per fagocitare l'intera vita del sistema museale italiano, inclusa la didattica e la progettazione delle mostre. Per intendersi è come se una scuola pubblica avesse dato in gestione al Cepu non la mensa, ma l’insegnamento stesso. Un’economia di rendita che ha prodotto un oligopolio di concessionari con importanti connessioni politiche (i primi due sono Civita, presieduta da un certo Gianni Letta, ed Electa, di proprietà Berlusconi...), creando pochi posti di lavoro stabili, una produzione culturale di infima qualità (la cosiddetta “valorizzazione”) e non di rado danni materiali al patrimonio: la peggiore delle economie petrolifere.
Ma degli anni Ottanta non abbiamo solo i nostalgici: ne abbiamo ancora i protagonisti. Giuliano Amato ha dichiarato ieri al Corriere che “i beni culturali hanno uno spaventoso bisogno di manager dei Beni culturali, non necessariamente chi ha gestito un McDonald’s riesce a esserlo, ma difficilmente può esserlo un bravo archeologo”. Chissà se il giudice costituzionale Amato sa che le sue parole (oltre a cozzare col fatto che il direttore-presidente del più grande museo del mondo, il Louvre, è proprio un archeologo) cozzano con la costante giurisprudenza della Corte costituzionale, imperniata sul principio che nel governo del patrimonio la “primarietà del valore estetico-culturale non può essere subordinata ad altri valori, ivi compresi quelli economici” (così una sentenza del 1986).
Ma il più anni Ottanta di tutti è Matteo Renzi, il quale, nel suo comizietto al Senato, ha biascicato che “se è vero che con la cultura si mangia, allora dobbiamo aprire i Beni culturali agli investimenti privati”. Una vera telepatia lo unisce a quel Dario Franceschini che solo pochi anni fa definiva “il vicedisastro” e “una delusione continua”: ecco perché lo ha messo a far la guardia al barile del petrolio. Speriamo che ora non gli passi anche un cerino.
Mentre auspichiamo che il piano paesaggistico possa entrare in vigore al più presto, sfuggendo alle forche caudine della cattiva politica, per dare una risposta certa e concreta al consumo di suolo, portiamo all’attenzione la contraddizione di una Regione che favorisce da decenni una devastazione senza precedenti in un Parco Regionale, da due anni promosso GeoParco Unesco, cioè il Parco Regionale delle Alpi Apuane. Il Parco è nato con le cave al suo interno, è nato ostaggio della politica e di pochi industriali.
Qui in un’area di grande bellezza, all’interno di una vasta ZPS e di ben 10 SIC continuano a lavorare indisturbate, in totale violazione di tutti i commi dell’art. 142 del Codice, delle leggi europee di tutela della acque superficiali e carsiche, del principio di precauzione, una cinquantina di cave: miniere a cielo aperto e cave in galleria.
Cave adiacenti a geositi, cave sopra i 1.200 metri, all’interno di boschi, di circhi glaciali, cave di cresta, cave in prossimità di ingressi carsici, inghiottitoi e abissi tra i profondi d’Italia (ad esempio il Roversi: m.1.350 m di dislivello), o tra i più estesi d’Italia (l’Antro del Corchia : 54 km di gallerie sotterranee), cave in diretta corrispondenza con le sorgenti con il risultato che, dopo le piogge, i fiumi invasi dalla marmettola sono bianchi come il latte.
Estrazione significa devastazione, dal momento che una leggeregione consente che solo il 25% del marmo estratto sia costituito da blocchi; il 75% sono perciò informi, scaglie, che vengono utilizzati nelle industrie farmaceutiche, alimentari, nella colla per piastrelle, nelle creme, nei dentifrici: l’alta percentuale di carbonato di calcio le rende un ottimo sbiancante e anche lo schermante ideale per materiale radioattivo (e qui si potrebbe aprire una parentesi sulle navi dei veleni partite dal porto di Marina di Carrara e autoaffondate davanti alle coste calabresi, ma attendiamo il materiale de-secretate recentemente dall’on. Boldrini). Dalla pesa pubblica della sola città di Carrara sono passati tra 2001 e 2010 50 milioni di tonnellate di marmo, un datocertamente inferiore alla realtà, che offre la misura della immanedistruzione di queste montagne, teoricamente tutelate per legge, essendo in gran parte all’interno di un Parco.
Non siamo di fronte soltanto a violazioni della normativa italiana ed europea di tutela dell’ambiente, del paesaggio, del principio di precauzione, ma delle più elementari regole di pianificazione, nel momento in cui una normativa regionale consente di fare approvare in tempi diversi un piano del Parco (in cui non vi è menzione di cave!!!) ed un piano delle attività estrattive (già formulato quest’ultimo nel 2002, ma non varato fino ad oggi per l’ostilità dei concessionari che hanno trovato una sponda nei sindaci).
A gennaio sono scadute le osservazioni alla VAS limitatamente a quel piano del Parco silente sulle cave, che era stato controdedottonel 2012: un’assurdità la VAS inserita a fine percorso; così come privo di sostanza e di logica pianificatoria appare un piano del Parco che ignori la presenza delle 50 cave attive ed altrettanto assurdo si profila oggi l’avvio del piano per le attività estrattive.
In questo contesto si inserisce il Piano Paesaggistico approvatorecentemente dalla Giunta , che relativamente alle cave nel Parcoafferma di voler promuovere la “progressiva riduzione delle attività estrattive a favore di funzioni coerenti con i valori e le potenzialità del sistema territoriale interessato” e “il recupero paesaggistico delle cave dismesse” , “escludendo l’apertura di nuovi siti estrattivi e ampliamenti di quelli esistenti nelle aree ove le attività di coltivazione e quelle ad esse collegate possono compromettere la conservazione e la percezione dei siti”. Nelle norme di salvaguardia , che vietano ampliamenti nelle aree contigue intercluse del Parco, si specifica anche checontinueranno le attività autorizzate svolte in conformità ai piani di coltivazione ed entro i termini indicati nei provvedimenti autorizzativi, conformi alla legge regionale 78/98: dunque continueremo a vedere vette tagliate, montagne demolite sopra i 1.200, sorgenti imbiancate fino alla scadenza delle concessioni, edassisteremo impotenti alla distruzione del paesaggio in attesa della nuova legge regionale sulle cave che contemplerà –si spera-un diverso rapporto marmo in blocchi /marmo in scaglie.
Ebbene, di fronte ad un piano paesaggistico che prevede in un futuro indeterminato la chiusura di cave che per la loro natura sono illegittime in un Parco, di cave che inquinano le acque di superficie e le cavità carsiche, di cave che violano l’art. 142 del Codice in tutti i suoi commi, fuori luogo e impropria, per la carica che riveste, appare l’esternazione dell’attuale presidente del Parco, pubblicata nei quotidiani locali, nel Corriere fiorentino…. unPresidente del Parco, scelto dalla politica, che , sotto il pretesto di posti di lavoro, ignora la devastazione ambientale per difendere la lobby dei concessionari.
Certamente l’economia degli abitanti del Parco e delle aree contigue non può trovare beneficio nell’attività distruttiva delle cave: pochi sono gli addetti, sostituiti dalle macchine, e la filiera corta è scomparsa perché i concessionari trovano più remunerativo lavorare altrove i marmi. Sarebbe doveroso che la Regione cominciasse a promuovere il territorio, applicando e facendo applicare la disattesa sentenza della Corte Costituzionale (488/1995): le concessioni a Massa e a Carrara devono diventaretemporanee ed onerose, le rendite parassitarie devono sparire, e “i canoni annui di beni appartenenti al patrimonio indisponibile dei comuni” devono essere determinati secondo un valore “non inferiore a quello di mercato”. Non lo dicono gli ambientalisti, lo dice la legge, lo impone la sentenza della Corte Costituzionale ignorata fino ad oggi dalle amministrazioni locali, con il consenso di una inattiva Regione.
Oggi a Massa le cave si lasciano in eredità, si vendono , si subappaltano; il Comune riscuote un canone annuo sulla base del reddito agrario e preleva da ogni tonnellata di marmo in blocchi (indipendentemente dalla qualità del marmo, il cui valore oscillada 300 a 4.000 euro a tonnellata) euro 8,30.
Il futuro di questa zona può e deve trovare un volano in un piano paesaggistico che riconosca al Parco l’essenza di area protetta ein una legge sulle cave che restituisca il giusto valore ad una risorsa non rinnovabile, e che renda applicabile , dopo venti anni, la sentenza della Corte Costituzionale.
L'autrice è Consigliere nazionale di Italia Nostra
Il Fatto Quotidiano, 15 febbraio 2014
Cosa c’è di male a far sfilare alcuni Masai agli Uffizi in occasione di una sfilata di moda, si chiede Caterina Soffici. C’è di male che il tema di quella sfilata era il “neocolonialismo”, e che ai ricchi bianchi fasciati da lini chiari seguivano i selvaggi in costumi tradizionali, portati a Firenze come bestie da serraglio. Alla faccia della diversity! Qualunque direttore di museo americano ci avrebbe rimesso il posto.
I musei, in Italia, hanno a che fare con la conoscenza e l’educazione (lo dice l’articolo 9 della Costituzione), e con il pieno sviluppo della persona umana (art. 3). Nell’età del totalitarismo ideologico neoliberista per cui tutto è merce, e nell’Italia di Matteo Renzi, Oscar Farinetti e Marco Goldin sembrerà strano: ma è per questo che i musei sono mantenuti (anche se a stento) con il denaro delle tasse di tutti, e non quello di chi ci fa le serate cafonal. Ma – si obietta – in America e in Inghilterra nei musei si banchetta eccome. Il Victoria and Albert di Londra – scrive Soffici – la sera si trasforma in “un circo Barnum”
Prima risposta: non lo fa per sopravvivere, lo fa per libera scelta e con regole precise; da noi ci sia arrangia svendendo i gioielli di famiglia a prezzi da ribasso, e in condizioni rischiose. Seconda risposta: i musei italiani sono diversi, perché non nascono quasi mai come tali, ma sono in luoghi storici delicatissimi, inadatti a simili carnevalate. Terza risposta: non è un caso che abbiamo l’articolo 9, da noi l’arte è per tradizione inclusiva e non esclusiva; quello che conta è il tessuto diffuso e la sua funzione civile, difficilmente compatibile con l’esclusività del lusso.
Quarta risposta: anche là esiste un dibattito assai acceso. Lo scrittore americano Jonathan Franzen ha scritto: “Un autentico spazio pubblico è un luogo dove ogni cittadino è il benvenuto, e dove la sfera puramente privata è esclusa o limitata. Il motivo per cui negli ultimi anni i musei d’arte hanno registrato un forte aumento di visitatori è che i musei rappresentano ancora quel genere di spazio pubblico. Com’è piacevole l’obbligo del decoro e del silenzio, la mancanza di consumismo sfacciato”.
E Michael J. Sandel, venerato professore di Filosofia politica ad Harvard: “Perché preoccuparsi del fatto che stiamo andando verso una società in cui tutto è in vendita? Per due ragioni, una riguarda la disuguaglianza; l’altra la corruzione (...) Assegnare un prezzo alle cose buone può corromperle. Se trasformate in merci, alcune delle cose buone della vita vengono corrotte e degradate. Dunque, per stabilire dove va collocato il mercato e a che distanza andrebbe tenuto, dobbiamo decidere come valutare i beni in questione: la salute, l’istruzione, la sfera familiare, la natura, l’arte, i doveri civici, e così via”. Non per tutti, in inglese, “museo” è sinonimo di “circo Barnum”.

Quale alibi migliore della Scienza per derogare un piano urbanistico a privatizzare un pezzo di litorale? Ecco un ulteriore colpo di piccone volto distruggere un progetto urbanistico odiato dal “blocco edilizio”, dai fanatici dello sviluppismo e tenacemente difeso degli ambientalisti e, soprattutto, dei comitati cittadini. L’ennesimo episodio di malgoverno urbanistico di una giunta molto discussa. Riferimenti in calce
Il 30 gennaio il sindaco di Napoli ha firmato presso il Ministero della coesione territoriale un accordo preliminare con la fondazione Idis-Città della Scienza, che consentirà a quest’ultima di ricostruire in loco i fabbricati del museo scientifico bruciati l’anno scorso. Un blocco di oltre 100mila metri cubi di fronte al mare, arretrato di qualche metro per consentire la realizzazione della spiaggia pubblica. Ma quello che per De Magistris costituisce un buon compromesso viene invece denunciata come una scelta sciagurata da molte realtà di base napoletane ed associazioni ambientaliste, tra cui Italia Nostra. Quest’ultima ha preannunciato un ricorso al TAR contro la firma dell’Accordo di programma quadro, fissato per il 4 marzo, primo anniversario dell’incendio. L’Accordo si rende necessario per modificare gli strumenti urbanistici comunali: infatti la Variante al PRG per la zona occidentale, approvata nel 1998, ed il Piano urbanistico attuativo per Bagnoli-Coroglio, ratificato nel 2005, prevedono il trasferimento di tutti i volumi edilizi esistenti sul litorale (inclusa una parte di Città della scienza) per fare posto ad una spiaggia pubblica di quasi due chilometri.
Città della Scienza, che occupa un’ex area industriale di 6,5 ettari sita ‘a cavallo’ della strada litoranea, è stata infatti realizzata con un Accordo di programma del 1997 che andava in deroga alla variante, adottata l’anno prima dal consiglio comunale ed all’epoca in via di approvazione: l’accordo stabilì che il trasferimento dei volumi ricadenti nell’area destinata a spiaggia sarebbe avvenuto una volta ammortizzato il finanziamento pubblico erogato per ristrutturare a science center i fatiscenti capannoni della ex Federconsorzi. Questo espediente, voluto dall’allora sindaco Bassolino, ha aperto un pericoloso vulnus nella realizzazione del piano, di cui si sono avvantaggiati anche altri soggetti: basti ricordare che, al momento di approvare il Piano attuativo, si stabilì di posporre parimenti il trasferimento dell’adiacente borgo di Coroglio (una misura tacitamente estesa de facto anche al vicino circolo ILVA). Di fatto, rinviando indefinitamente la liberazione del lungomare, si è permesso il progressivo coagulo di numerosi interessi privati intorno al suo utilizzo ‘provvisorio’: nello stesso anno, il 2005, un consorzio di concessionari balneari ha privatizzato con l’avallo di Comune ed Autorità portuale gran parte degli arenili esistenti, ancorchè non fosse avvenuta alcuna bonifica del mare e della spiaggia.
Avverso le disposizioni urbanistiche, nonché in contrasto con la legge 582/1996 (che all’articolo 1, comma 4, prevede “il ripristino della morfologia naturale della costa”) ed il vincolo paesaggistico posto nel 1999 sulla piana di Bagnoli-Coroglio (che aveva esplicitamente escluso una richiesta di vincolo per archeologia industriale avanzato dalla locale soprintendenza su sollecitazione dell’Idis per i propri capannoni), intorno alla struttura di Vittorio Silvestrini è cresciuto negli anni un fronte del rifiuto che considera inattuabile la riqualificazione urbanistica ed ambientale disposta dalla Variante e ne propugna la modifica per garantire la valorizzazione degli interessi privati esistenti. Queste forze, agevolate dalle vecchie amministrazioni di centrosinistra, non sono state contrastate nemmeno dalla nuova giunta arancione che, malgrado le forti aspettative iniziali, si è posta in sostanziale continuità con il loro operato. Il ‘braccio di forza’ ingaggiato con l’Idis all’indomani del rogo per assicurare il rispetto del piano con la ricostruzione in altra sede dei volumi distrutti (essendo tragicamente venuta meno ogni esigenza di ammortamento) si è infine risolto a favore di quest’ultima; non è forse un caso che l’assessore all’urbanistica De Falco, sostenitore delle posizioni di Italia Nostra, sia stato dimissionato nel bel mezzo della trattativa.
Eppure non mancano le ragioni e i mezzi per contrastare le pretese di Città della Scienza, oltre quelle già esposte; qualcuna De Magistris ha tentato di giocarla, senza però andare fino in fondo. Con un’ordinanza sindacale emessa lo scorso 3 dicembre, ha imposto (vanamente) all’Idis di presentare il certificato definitivo di bonifica delle proprie aree: nel corso della trattativa è infatti emerso che per quindici anni Città della Scienza ha ospitato milioni di visitatori (in gran parte bambini) senza avere il necessario attestato di sicurezza ambientale. E’ poi legittimo sostenere l’opportunità, prima di ogni decisione, di aspettare che l’indagine giudiziaria in corso faccia luce sugli autori e le ragioni che si celano dietro l’incendio della struttura: benchè i dirigenti di Città della Scienza sostengano che il rogo sia collegabile a non meglio precisate mire speculative della camorra, i giornali hanno più volte riferito l’esistenza di un ‘pista interna’, che ha portato la magistratura a sequestrare i registri contabili della fondazione. Last but not least, va fatta valere l’esistenza di una delibera d’iniziativa popolare, sottoscritta da 13mila cittadini ed approvata il 25 settembre 2012 dal consiglio comunale, che dispone la destinazione ad uso balneare gratuito e la gestione comunale di tutto il litorale da Coroglio a Bagnoli.
E’ comunque evidente come l’indisponibilità dell’Idis ad abbandonare la spiaggia non sia determinato dalle pur spesso addotte ragioni funzionali bensì dal valore economico dell’area, come candidamente esplicitato sulla stampa locale dal consigliere delegato della fondazione, Vincenzo Lipardi. Non va poi dimenticato che il progetto di Città della Scienza redatto dall’architetto Pica Ciamarra prevede la realizzazione di un attracco per le Vie del Mare sul vecchio pontile della ex Federconsorzi: una scelta attualmente sospesa ma su cui l’Idis punta ancora, e che, se realizzata, incrementerebbe notevolmente i visitatori della struttura ma al prezzo di compromettere la balneabilità di gran parte del litorale vicino Nisida.
In conclusione, la questione non ruota intorno a qualche metro quadro di spiaggia in più o in meno, come piace credere al sindaco De Magistris, bensì sulla legittimità e credibilità delle norme urbanistiche per Bagnoli. Cedere (e stavolta definitivamente) su Città della Scienza significa aprire la strada ad una revisione peggiorativa della Variante e del Piano attuativo, con lo spostamento dei volumi edificabili sul lungomare ed il ridimensionamento di indispensabili attrezzature pubbliche, come il parco urbano e la spiaggia. La vicenda si inserisce infatti in un contesto estremamente critico sia per Bagnoli che per la città: la bonifica è in stallo, le aree sono sequestrate ed è appena iniziato il processo per truffa e disastro ambientale. Il 13 febbraio è stata messa in liquidazione Bagnoli-Futura, la società di trasformazione urbana del Comune incaricata della riqualificazione, indebitata per centinaia di milioni di euro con le banche e con Fintecna, ex proprietaria dei suoli industriali di Bagnoli; quest’ultima, reagendo all’ordinanza sindacale che le imponeva di rimuovere la colmata a mare realizzata nel 1962 sul litorale dall’ex Italsider, aveva già chiesto al Tribunale il fallimento di BagnoliFutura per recuperare 60 mln di indennità mai corrisposti. La possibilità che i suoli e le opere pubbliche finora realizzate finiscano per pochi soldi in mani private, che un’amministrazione comunale politicamente debole e sottoposta al rischio del dissesto finanziario ceda al ricatto e modifichi gli strumenti urbanistici secondo le convenienze degli speculatori, è quindi più che un’ipotesi. Infatti pochi giorni fa il Sindaco, per coinvolgere la Cassa depositi e prestiti (proprietaria di Fintecna) e gli investitori privati, ha comunicato l’avvio di una revisione ad hoc del piano urbanistico, preannunciando modifiche inquietanti, come la realizzazione di un porto turistico nella riserva naturale marina di Nisida.
Lungi dal costituire il faro della riqualificazione di Bagnoli, Città della Scienza (che ha già usufruito di due Accordi di Programma in deroga alle norme urbanistiche, nel 1997 e nel 2003) sta contribuendo attivamente al suo affossamento, con la complicità di quegli intellettuali e mass media che l’hanno avvolta in un’aura di incriticabilità. Solo una decisa mobilitazione dei cittadini potrà porre con forza i decisori pubblici coinvolti (Ministero dell’Ambiente, Soprintendenza, Sindaco e Consiglio Comunale) di fronte alla loro precisa responsabilità di difendere l’interesse collettivo. E’ quello che le realtà territoriali di base napoletane si stanno impegnando a fare tra mille difficoltà, e per cui chiedono il sostegno attivo del mondo urbanistico ed ambientale nazionale. Al di là dei giochi di parole, per Bagnoli e Napoli si tratta davvero dell’ultima spiaggia.
Riferimenti
Il manifesto, 15 febbraio 2014
Domani in Sardegna si vota per l’elezione del presidente della Regione. Seggi aperti per tutta la giornata di domenica. I risultati si conosceranno lunedì. La consultazione arriva in un momento del tutto particolare. Per Matteo Renzi sarà infatti il primo impegnativo test elettorale. Naturale quindi che su Cagliari si siano accesi in questi giorni tutti i riflettori nazionali. E che l’esito sia molto atteso. I principali candidati in corsa sono Ugo Cappellacci per il centrodestra, Francesco Pigliaru per il centrosinistra, Michela Murgia per la coalizione Sardegna possibile. C’è grande incertezza. Cappellacci e Pigliaru sarebbero testa a testa, ma Michela Murgia potrebbe rimontare grazie al voto degli indecisi, un’area che, a sole ventiquattro ore dal voto, è ancora molto vasta. Murgia punta anche sul consenso dei grillini, che alle ultime politiche hanno preso in Sardegna il 29,68 per cento dei voti e che alle regionali non sono riusciti a presentare una lista a causa delle laceranti divisioni interne al movimento.
Nell’isola il clima è teso. Ieri, nella giornata di chiusura dei comizi, con un blitz la giunta di centrodestra presieduta da Cappellacci ha adottato in via definitiva il nuovo Piano paesaggistico della Sardegna (Pps), mandando in soffitta il Piano paesaggistico regionale (Ppr) varato nel 2006 da Renato Soru. La delibera è stata approvata nonostante la mancanza della «valutazione ambientale strategica» (Vas) obbligatoria per legge, ed è quindi priva di effetti validi sul piano giuridico. Va anche ricordato che la revisione del Ppr targata Cappellacci è stata impugnata dal governo davanti alla Corte costituzionale su sollecitazione del ministero per i beni culturali.
Nell’antivigilia dell’apertura delle urne, con Berlusconi impegnato a sostenere Cappellacci in una convention del centrodestra ad Arborea e Francesco Pigliaru che ha battuto in autobus il nord Sardegna da Porto Torres a Olbia, la notizia dell’approvazione del Ppr è arrivata come una bomba. La prima reazione è stata di Pigliaru: «L’adozione del Pps da parte della giunta Cappellacci — ha detto il leader del centrosinistra — è un’approvazione di cartone, fatta soltanto per fini elettorali. Rimango a bocca aperta: il centrodestra ha avuto cinque anni per fare le cose nel modo corretto, confrontandosi con il governo secondo le regole. Invece, a conferma dell’incapacità di questa giunta, Cappellacci ha voluto forzare, mostrando un incredibile disprezzo per le regole».
Bordate a Cappellacci anche dal segretario di Rifondazione Paolo Ferrero, ieri a Cagliari per un tour elettorale. «Il voto serve a evitare che Cappellacci ritorni a essere il presidente della Sardegna: non solo non ha mantenuto le promesse, ma è evidente che non ha fatto nulla per il lavoro e per il territorio». «Lo dico anche — ha aggiunto Ferrero — a chi non è entusiasta dei candidati del centrosinistra: il voto a Michela Murgia non aiuta a mandare via Cappellacci». Anche Rifondazione fa parte della coalizione guidata da Pigliaru. Per Ferrero è il lavoro che deve stare al centro dei programmi, a Cagliari come a Roma. «Ma perché questo avvenga — ha aggiunto il segretario del Prc — con il voto bisogna rafforzare la sinistra». E in effetti il tema del lavoro è in Sardegna drammatico. Giovedì a Cagliari è ripartita la mobilitazione dei lavoratori in cassa integrazione della Alcoa, con un corteo davanti alla sede della Regione. Gli operai chiedono risposte sullo stato della vertenza, al momento in una fase di stallo, con la fabbrica chiusa, e la convocazione di un incontro al ministero per lo sviluppo economico. Durante il corteo i lavoratori hanno lanciato uova sui manifesti elettorali e hanno annunciato l’intenzione di restituire le schede elettorali.
Chi sembra assolutamente convinto della vittoria di Cappellacci è Berlusconi. «Non c’è bisogno — ha detto ad Arborea di fronte a migliaia di persone — di convincere i sardi: sanno già chi votare. Ugo, possiamo fare così: tu canti, io racconto storielle. E facciamo uno show patriottico». Poi l’attacco a Michela Murgia: «Ho saputo che la signora Murgia ha già presentato la sua giunta, e si è tenuta lei l’assessorato dei trasporti: forse da piccola giocava con i trenini. Ma lei è una che ha insegnato l’odio». Due accenni alla situazione nazionale: «Sono l’ultimo premier eletto dal popolo», con riferimento alla staffetta Letta-Renzi: «Nel 2009 avevo il consenso del 75% degli italiani. Ecco perché la magistratura ha deciso di farmi fuori. E nel 2001 contro di me c’è stato un golpe. Sono sceso in campo contro il comunismo, che ha fatto 120 milioni di morti». Berlusconi parlava ad Arborea, che quando fu fondata, nel 1928, si chiamava Mussolinia
Il Fatto Quotidiano, 15 febbraio 2014
Cosa c’è di male a far sfilare alcuni Masai agli Uffizi in occasione di una sfilata di moda, si chiede Caterina Soffici. C’è di male che il tema di quella sfilata era il “neocolonialismo”, e che ai ricchi bianchi fasciati da lini chiari seguivano i selvaggi in costumi tradizionali, portati a Firenze come bestie da serraglio. Alla faccia della diversity! Qualunque direttore di museo americano ci avrebbe rimesso il posto.
I musei, in Italia, hanno a che fare con la conoscenza e l’educazione (lo dice l’articolo 9 della Costituzione), e con il pieno sviluppo della persona umana (art. 3). Nell’età del totalitarismo ideologico neoliberista per cui tutto è merce, e nell’Italia di Matteo Renzi, Oscar Farinetti e Marco Goldin sembrerà strano: ma è per questo che i musei sono mantenuti (anche se a stento) con il denaro delle tasse di tutti, e non quello di chi ci fa le serate cafonal.
Ma – si obietta – in America e in Inghilterra nei musei si banchetta eccome. Il Victoria and Albert di Londra – scrive Soffici – la sera si trasforma in “un circo Barnum”.
Prima risposta: non lo fa per sopravvivere, lo fa per libera scelta e con regole precise; da noi ci sia arrangia svendendo i gioielli di famiglia a prezzi da ribasso, e in condizioni rischiose. Seconda risposta: i musei italiani sono diversi, perché non nascono quasi mai come tali, ma sono in luoghi storici delicatissimi, inadatti a simili carnevalate. Terza risposta: non è un caso che abbiamo l’articolo 9, da noi l’arte è per tradizione inclusiva e non esclusiva; quello che conta è il tessuto diffuso e la sua funzione civile, difficilmente compatibile con l’esclusività del lusso.
Quarta risposta: anche là esiste un dibattito assai acceso.
Lo scrittore americano Jonathan Franzen ha scritto: “Un autentico spazio pubblico è un luogo dove ogni cittadino è il benvenuto, e dove la sfera puramente privata è esclusa o limitata. Il motivo per cui negli ultimi anni i musei d’arte hanno registrato un forte aumento di visitatori è che i musei rappresentano ancora quel genere di spazio pubblico. Com’è piacevole l’obbligo del decoro e del silenzio, la mancanza di consumismo sfacciato”.
E Michael J. Sandel, venerato professore di Filosofia politica ad Harvard: “Perché preoccuparsi del fatto che stiamo andando verso una società in cui tutto è in vendita? Per due ragioni, una riguarda la disuguaglianza; l’altra la corruzione (...) Assegnare un prezzo alle cose buone può corromperle. Se trasformate in merci, alcune delle cose buone della vita vengono corrotte e degradate. Dunque, per stabilire dove va collocato il mercato e a che distanza andrebbe tenuto, dobbiamo decidere come valutare i beni in questione: la salute, l’istruzione, la sfera familiare, la natura, l’arte, i doveri civici, e così via”. Non per tutti, in inglese, “museo” è sinonimo di “circo Barnum”.
SAVI Tecnicamente lo strumento di pianificazione è stato approvato in via definitiva malgrado mancasse il parere motivato «obbligatorio e vincolante» dell’ufficio Savi, responsabile della Vas, la valutazione ambientale strategica. Non solo: gli assessori regionali hanno dato il via libera senza che la maggior parte delle osservazioni fondamentali depositate da comuni, associazioni ecologiste e culturali sia stata ammessa a integrare o modificare il testo considerato finale del Pps, intervenendo almeno sulle parti in cui vengono cancellati con un colpo di spugna molti beni paesaggistici per lasciare spazio al cemento.
Osservazioni. Quelle osservazioni potevano anche essere respinte, ma a decidere doveva essere il Savi. Comunque sia norme, mappe, elenchi di beni paesaggistici, ambientali e identitari sono piovuti in sala giunta senza che l’ufficio deputato a valutarne la compatibilità ambientale abbia potuto esprimersi formalmente, come stabilisce la legge. Cappellacci ha spiegato la fretta di chiudere la partita con la necessità di stabilire «regole certe, che consentano di evitare le sabbie mobili della burocrazia». Ma è facile prevedere che su quelle regole si aprirà una battaglia giudiziaria senza esclusione di colpi.
Vas. Per sapere se si tratta di un bluff elettorale basterà attendere il dopo voto, quando il candidato vincente potrà revocare l’atto di approvazione con il ricorso all’autotutela, riaprendo la procedura interrotta. Perché secondo la valutazione generale la delibera sarebbe illegittima: quindi dovrebbe bastare un ricorso ai giudici amministrativi perché venga annullata. Per adesso, ha spiegato il capo di gabinetto dell’Urbanistica Massimiliano Tavolacci, il documento non sarà pubblicato sul bollettino ufficiale della Regione. Quando comparirà, verrà integrato col parere del Savi. Così - ha spiegato il dirigente - il Pps non dovrà ripassare in giunta.
Però le norme, che derivano da una direttiva comunitaria del 2001 recepita dall’Italia quattro anni dopo, indicano un scansione diversa: la Vas deve precedere l’approvazione dell’atto di pianificazione e il suo contenuto, tutte le modifiche e le prescrizioni, deve entrare nel testo da portare in giunta. In altre parole il giudizio di compatibilità ambientale firmato dal Savi deve prevalere sull’indirizzo politico, adeguando ogni previsione alle regole. Cappellacci ha imposto una sorta di inversione della procedura: prima si approva quanto proposto dalla giunta e poi si valuta. Una giurisprudenza sterminata, che riguarda altre regioni, getta più d’un ombra sulla legittimità di questa scelta. La delibera firmata ieri mattina potrebbe non avere alcun valore giuridico e di conseguenza alcuna efficacia. Due mesi. Impossibile prevedere se il Savi andrà avanti nell’esame delle osservazioni e della compatibilità ambientale e paesaggistica del Pps: legge alla mano l’ufficio avrebbe ancora due mesi abbondanti per concludere il lavoro, che in base alla legge è indispensabile e dovrebbe svolgersi in perfetta autonomia dalla politica. Ma in mancanza di precedenti, nessuno sa che cosa fare. La giunta Cappellacci ha avuto cinque anni di tempo per realizzare la revisione del Ppr di Renato Soru, come annunciato nella campagna elettorale del 2009. A due giorni dal voto il governatore ha tagliato corto, con una lettura molto soggettiva delle norme europee e statali. Cappellacci peraltro era già passato leggero sull’obbligo di co-pianificazione: per questo pende già un ricorso dello Stato alla Corte Costituzionale.
La Vas decisiva
per qualsiasi
pianificazione
Qualsiasi strumento pubblico di pianificazione dev’essere sottoposto per legge alla Vas, la valutazione d’impatto strategica. L’obbiettivo stabilito dalla direttiva comunitaria 2001/42 che ne regola la procedura è di garantire un elevato livello di protezione dell’ambiente. In base alla legge statale che ha recepito nel 2005 il dettato comunitario la Vas dev’essere effettuata durante la fase preparatoria del piano e comunque prima della sua approvazione. La procedura è pubblica, di conseguenza aperta alla partecipazione di enti, associazioni e cittadini attraverso le osservazioni ed è seguita da una fase di monitoraggio destinata a correggere errori nel caso di effetti negativi per l’ambiente. Il servizio regionale che cura la Vas è il Savi - Servizio sostenibilità ambientale e valutazione impatti - che a partire dalla prima adozione del piano (in questo caso il Ppr) da parte della giunta regionale e del successivo deposito delle osservazioni ha complessivamente 90 giorni di tempo per valutare la compatibilità ambientale dello strumento proposto e decidere in perfetta autonomia quali modifiche e integrazioni apportarvi a tutela dell’ambiente. Concluso il lavoro, il piano modificato in base alla Vas passa all’ufficio dell’urbanistica, che deve applicare obbligatoriamente modifiche e prescrizioni motivate dal Savi. Il passaggio successivo - in questo caso - è l’approvazione definitiva da parte della giunta regionale, che può intervenire ancora sul piano soltanto ripartendo da zero, quindi ripetendo la procedura di elaborazione e la procedura di Vas. (m.l)
Il Fatto quotidiano online, 14 febbraio 2014
Se le parole sentite in questa campagna elettorale avessero una corrispondenza con la realtà, dovremmo buttare a mare la promessa tragicomica della Sardegna zona franca integrale, affogare senza pietà il nuovo spaventoso Piano paesaggistico che, privo di ogni legittimità e di decenza, è stato approvato oggi, a due giorni dalle elezioni e distruggerebbe quello che resta dell’isola. Scaraventare in acqua le promesse baggiane di felicità e indipendenza insiemealla balla per i creduli pinocchietti sardi di un’isola senza tasse e dove la benzina costa poco. Consegnare alle onde anche l’idea di una lingua sarda ufficiale, sintetica, inventata in un grigio ufficio regionale, foraggiata con 19 milioni di euro e ricordarci che una lingua non la impone certo una povera Giunta di passaggio verniciata di falso sovranismo né tanto meno qualche malinconico burocrate.
Se le parole di questi giorni avessero un collegamento con i fatti e con il nostro vero benessere avremmo dovuto scagliare in mare la legge elettorale sarda che un consiglio regionale di molti indagati ha varato con lo scopo di auto-conservarsi in eterno. Una simulazione di democrazia senza rappresentanza reale dell’elettorato. Una legge che alla prova dei fatti esclude le “grandi minoranze” e si ritorce oggi anche contro chi l’ha votata.
In Sardegna ci chiediamo in tanti che democrazia possa essere quella che prevede molti voti per il candidato presidente ma nessuna possibilità di ingresso in consiglio per il terzo classificato e, magari, nessuna o quasi nessuna rappresentanza per le sue liste. Nello sport la medaglia di bronzo ha un valore enorme, ma non da queste parti. Qui, chi arriva terzo è fuori da tutto. Mentre i girini della politica, trasportati dalle correnti maggiori oggi sono gongolanti.
Ma il “legislatore furbo” spesso muore di troppa furbizia, si sa. Dovrebbero, domenica, finire a mare anche le surreali considerazioni filosofiche dei partiti sui candidati-indagati.
In acqua si sono buttati da soli gli aspiranti candidati di 5stelle in Sardegna. Un suicidio di massa, come i lemmings dei mari del Nord. Un piccolo esercito di rimasugli elettorali, una raccolta indifferenziata della politica. C’erano dentro il movimento anche molte ottime persone, s’intende. Però sono state travolte dai lemmings suicidi. La prossima volta faranno di meglio, speriamo.
Dunque non si va a votare per il disgusto? Non si vota per protesta? Sembrano questi i sentimenti di metà dell’elettorato. Un milione e quattrocentomila votanti (un’isola di vecchi, visto che siamo un milione e seicentomila abitanti) con un’astensione che si prevede oltre il cinquanta per cento.
Anche questo è la Sardegna. Non certo la terra della giudicessa medievale Eleonora d’Arborea o quella del giudice rivoluzionario Giovanni Maria Angioy favoleggiata da indipendentisti sognanti, capaci di molte parole, talvolta perfino belle, ma incapaci di spiegarci come e quando l’isola potrebbe raggiungere una reale autodeterminazione.
Tuttavia l’unica possibilità di cambiare qualcosa è ancora solo nel voto. I cosiddetti partiti-feudo (il feudo non scompare mai dalla storia sarda) vorrebbero pochi, fidi votanti. E il migliore dei mondi consisterebbe, per loro, nel votarsi a vicenda. Coltivano il sogno di essere sessanta votanti e sessanta consiglieri il cui obiettivo è votare fedelmente se stessi e i figli dei figli per l’eternità. Il “non voto” è ambito, auspicato e ricercato. “Non votate” è lo slogan di chi è interessato alla conservazione e a un governo di pochi. Molti eletti e pochi elettori. “Non votate, oppure votate me”.
Ma dalla memoria comune non sono scomparsi i sedici morti dell’alluvione del 18 novembre, una tragedia così piena di significati che rappresenta la Sardegna e la stessa Nazione. “La prossima volta” ha detto un povero sfollato che spalava fango: “Non credo più a nessuno” e in quel “la prossima volta” era contenuta un’intera filosofia.“Le prossime volte” sono diventate talmente numerose nel nostro Paese che nessuno crede più a nulla.
Però c’è il rischio paradossale – è già accaduto dopo l’alluvione di Capoterra nel 2008 – di sentire ancora un coro a favore dell’alluvione di metri cubi che il nuovo Piano paesaggistico vorrebbe rovesciare sull’isola e che porterebbe inevitabilmente nuove disgrazie, altri morti e una definitiva povertà economica e culturale. C’è il rischio di sentire di nuovo sindaci a favore dei venticinque campi da golf e dei milioni di metri cubi che gli sono collegati perché, dice l’attuale Presidente della Regione, non si possono lasciare senza un tetto i golfisti, come degli sfollati. Alla Sardegna servono club house.
Lo spieghino agli sfollati di Terralba, di Uras, di Olbia.
Oggi, a due giorni dalle elezioni, con un colpo di mano, il Presidente ha approvato il suo nuovo Piano paesaggistico bocciato da tutti, dal Ministero, dalle Associazioni, dai movimenti. Si gioca tutto, disperatamente. Sa che è illegittimo, ma se n’è impipato. Deve risposte ai suoi referenti. Qatar compreso. Però, esibendo la sua forza ha mostrato la sua debolezza e la sua vera sostanza politica.
Sapremo presto quale sentimento vincerà e quale idea di progresso prevedono i sardi per se stessi.
Il manifesto sardo online, 13 febbraio 2014
Come facilmente preventivabile, il Presidente della Regione autonoma della Sardegna Ugo Cappellacci vuole e pretende l’approvazione definitiva del “suo”stravolgimento del piano paesaggistico regionale prima delle elezioni regionali del 16 febbraio 2014. Magari al cospetto del suo sempiterno nume tutelare,SilvioBerlusconi, il prossimo venerdi 14.
Per questo, incurante delle conseguenze, forse anche di carattere penale, è disposto anche a commissariare il povero ing. Gianluca Cocco, Direttore del Servizio valutazione impatti (S.A.V.I.) della Regione che deve esprimere il necessario parere conclusivo della procedura di valutazione ambientale strategica (V.A.S.), tuttora in corso e regolarmente nei termini (180 giorni).
Il suo stravolgimento del nostro (di tutti noi cittadini) piano paesaggistico regionale è già davanti alla Corte costituzionale, impugnato dal Governo per violazione delle necessarie e vincolanti procedure di co-pianificazione, come già la Corte costituzionale ha recentemente indicato proprio in riferimento alla Regione autonoma della Sardegna (sentenza n. 308/2013)(1), con buona pace dei soliti soccorritori dell’arbitrio regionale di sinistra, progressisti, ambientalisti, e chi più ne ha più ne metta.
E non finirà qui. Perché il “nostro” P.P.R., pur migliorabile in vari punti, tutela il “nostro” paesaggio e continueremo a difenderlo in tutte le sedi. Il ricorso è già pronto. Le modifiche della Giunta Cappellacci sono infatti un autentico stravolgimento, illegittimo perché in violazione del Codice del paesaggio. Quali sono? Eccole, in estrema sintesi:
- i fiumi e i torrenti ritenuti “irrilevanti” non sono inclusi, con le relative sponde, fra i beni paesaggistici;
- “negli ambiti di paesaggio, in qualunque articolazione del territorio disciplinata dal PPR, sono ammessi”interventi edilizi e ristrutturazioni con aumenti di volumetrie fino al 15 per cento;
- gli accordi Regione – Comune possono prevedere anche nelle aree tutelate per legge, nei beni paesaggistici, “nuove strutture residenziali e ricettive connesse ai campi da golf”;
- in via transitoria, fino all’adeguamento degli strumenti urbanistici comunali al piano, sono realizzabili gli interventi edilizi di quel piano per l’edilizia parzialmente a giudizio davanti alla Corte costituzionale, come la legge sul golf e quella per la “svendita” dei demani civici;
- sempre in via transitoria, si applicano gli strumenti urbanistici attuativi in base ad accordi Regione–Comune, possono essere resuscitati i progetti edilizi “zombie”nei Comuni dotati di P.U.C. approvati in base ai vecchi e illegittimi piani territoriali paesistici, si possono edificare strutture residenziali in area agricola, possono esserci interventi di ristrutturazione/completamento degli insediamenti edilizi e ampliamenti volumetrici fino al 25 per cento delle strutture ricettive anche nella fascia costiera dei trecento metri dalla battigia.
Di fatto un vero e proprio far west nella parte più pregiata del territorio sardo. L’operazione spregiudicata e demagogica, effettuata a fini elettoralistici sotto le elezioni regionali, sarà giudicata sul piano giuridico.
Siamo in uno Stato di diritto, per fortuna. Sta, però, agli elettori sardi far sì che questa povera Isola non sia amministrata in questo modo scellerato per altri cinque lunghi anni.
(1) Testualmente: “l’art. 135 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, nel testo in vigore dal 2008, stabilisce, all’ultimo periodo del comma 1, l’obbligo della elaborazione congiunta dei piani paesaggistici tra Ministero e Regioni «limitatamente ai beni paesaggistici di cui all’articolo 143, comma 1, lettere b), c) e d), nelle forme previste dal medesimo art. 143»” (Corte cost., 17 dicembre 2013, n. 308). Si tratta delle aree tutelate con vincolo paesaggistico in base a provvedimenti specifici di individuazione ovvero direttamente dalla legge, nonché le ulteriori aree tutelate in base ad altri puntuali provvedimenti.