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L'innovazione spaziale, come quella tecnologica, non funziona senza adeguato supporto organizzativo: forse stiamo cominciando a capirlo per un aspetto essenziale della struttura dei quartieri. La Repubblica Milano, 10 giugno 2014, postilla (f.b.)

Le scuole comunali apriranno le porte ai cittadini, ospitando corsi, attività sportive e altre attività alla fine dell’orario di lezione. Palazzo Marino ha varato l’ufficio “Scuole aperte” che coordinerà e aiuterà le scuole a organizzarsi. L’esempio è il comprensivo Cadorna, che già accoglie corsi sportivi e culturali, e persino un mercato della Coldiretti con prodotti a chilometro zero. L’idea dell’amministrazione è di replicare l’esperimento in più istituti possibile.

Le scuole che spalancano le porte e fanno rete per diventare un patrimonio a disposizione dei quartieri e della città. Con le palestre dove organizzare attività sportive per grandi e piccoli. Aule e biblioteche che accolgono incontri culturali e cineforum. Cortili che ospitano mercati di frutta e verdura a chilometro zero. A Palazzo Marino apre l’ufficio “Scuole aperte”, un quartier generale che coordinerà asili, elementari e medie per trasformarli in luoghi d’incontro aperti a tutti quando i bambini non sono a lezione. Il primo passo era stato fatto un anno e mezzo fa, con una bozza di modifica del regolamento degli edifici scolastici comunali per concedere spazi alle associazioni, uniformando tariffe e norme.

Un documento però accantonato: «Ci siamo resi conto che non era lo strumento giusto — spiega Chiara Bisconti, assessore al Benessere e al Tempo libero — c’erano scuole troppo all’avanguardia che ne avrebbero risentito negativamente, e altre così arretrate e chiuse che l’avrebbero vissuta come un’imposizione. Una soluzione univoca non andava bene ma abbiamo continuato a lavorarci: c’è dietro una ricchezza sociale enorme per la città». Da qui, una nuova strada: la creazione di una cabina di regia che aiuterà le scuole a organizzarsi, partendo da modelli di riferimento che già funzionano. A capo dell’ufficio “Scuole aperte”, in sinergia con l’Ufficio scolastico regionale, c’è il preside del comprensivo Cadorna, Giovanni Del Bene, che del concetto di scuola come patrimonio comune ha fatto un cavallo di battaglia. Il suo istituto è aperto fino a tarda sera per corsi di danza e di nuoto, dibattiti, corsi di italiano per stranieri, proiezioni di film e mercati della Coldiretti in cortile.

Durante la settimana come nel weekend, nelle vacanze di Natale come nei mesi estivi. «Cercheremo di diffondere la nostra esperienza a tutta la città — spiega Del Bene — ci metteremo a disposizione dei presidi, valuteremo le proposte delle associazioni e le ricadute che possono avere sul territorio». L’idea è replicare in più istituti possibile quelle pratiche che hanno permesso a Milano di diventare capofila del progetto del Ministero dell’Istruzione che punta a estendere questo modello in tutte le regioni d’Italia. Il 16 giugno all’istituto Cardano ci sarà il sottosegretario all’Istruzione, Roberto Reggi, al convegno organizzato proprio su questo. Verrà lanciato il primo forum nazionale delle scuole aperte che si terrà in autunno a Firenze. «Sono tantissime le scuole che lo fanno già, con un fortissimo ruolo sociale sul territorio — spiega l’assessore alla Scuola, Francesco Cappelli — la nuova sfida è creare una rete che le metta in comunicazione e permetta un’ulteriore crescita».

postilla

Forse non è un caso che questa idea delle scuole al centro dei quartieri fosse emersa durante la campagna per le primarie, sostenuta dall'urbanista Stefano Boeri: la cosiddetta neighborhood unit è cosa che (purtroppo non sempre, diciamo a volte) si studia nelle facoltà di Architettura, e sta al centro del dibattito novecentesco sulla dimensione ottimale della parte di città legata alle funzioni quotidiane e relativi servizi. Almeno dagli anni '30 in poi in tutto il mondo, dal paradigmatico progetto di Radburn in New Jersey, attraverso le New Town britanniche fino ai nostri quartieri INA-Casa e altro, l'unità di vicinato si struttura fisicamente come raggio di percorrenza pedonale proprio a partire dal complesso delle scuole. Con una fondamentale lacuna: a differenza di altre attrezzature come il verde e lo spazio pubblico, la scuola funziona solo per la didattica, ha i suoi tempi morti molto estesi, e si apre esclusivamente per eventi eccezionali, come le elezioni. Mentre nell'idea originaria del sociologo Clarence Perry, derivante da studi del 1913 a Chicago, perfezionati dieci ani più tardi nel piano regionali di New York, le funzioni dell'edificio scolastico sono multiple e articolate sulle esigenze dei cittadini di tutte le età. Una iniziativa da seguire quindi, quella del comune di Milano, che non a caso già si propone oltre i confini. Qualche particolare in più e alcuni link ai documenti originali tradotti, in un articolo su Millennio Urbano (f.b.)

sprawl esprime patologie notoriamente collegate al medesimo stile di vita. Ma non si può dire, per non contraddire i mandanti ciellini pro-sprawl. Corriere della Sera, 8 giugno 2014, postilla (f.b.)

MONZA —Il dato più preoccupante riguarda i più piccoli: il 30% dei bambini brianzoli tra i 6 e gli 11 anni supera i limiti di peso per l’età, il 20% è in netto sovrappeso (19% maschi e 21% femmine), il 6% francamente obeso. Sono i dati raccolti da uno studio condotto a Vimercate, Agrate, Ornago, Mezzago, Bellusco e in metà delle scuole elementari di Monza dall’Università di Milano Bicocca e dalla Federazione Italiana Medici Pediatri della Lombardia.

«L’obesità infantile è in aumento — spiega Alfredo Vanotti, professore in Dietetica e Nutrizione all’università di Milano Bicocca e direttore del nuovo servizio Nutrizione ed Educazione Alimentare alla Clinica Zucchi di Monza e Carate — è colpa dell’eccessiva sedentarietà, troppa televisione e troppo poco sport, più computer che giochi in cortile». Per dichiarare lo stato di obesità si deve fare riferimento all’indice di massa corporea (Bmi), che si calcola dividendo il peso per l’altezza al quadrato: si è obesi se il risultato va dai 30 in su, ovviamente con differenti gradi di «gravità».

L’allarme-obesità scende (anche se di poco) nei comuni dove la Asl di Monza e Brianza ha effettuato progetti di promozione alla salute. Tra i 2007 e il 2010 i bambini sovrappeso tra i 6 e i 10 anni a Carate, Cavenago e Verano sono scesi dal 29% al 21%, gli obesi dal 9 al 7%.
Tra gli adulti le rilevazioni più recenti dicono che in Brianza i sovrappeso sono il 36% della popolazione (+1.1% rispetto alla media italiana), gli obesi il 12,7% (+2,8% rispetto all’Italia). L’obesità poi aumenta con l’età e colpisce più gli uomini delle donne. Tra i 18 e i 75 anni il 42% degli uomini è in sovrappeso e il 14% è obeso, mentre tra le donne il 21% è sovrappeso e il 9% è obeso. Le donne rischiano il sovrappeso con la menopausa (una su due è in sovrappeso dopo i 60 anni), mentre gli uomini perdono il pesoforma già dopo i 35 anni (1 su 2 è sovrappeso o obeso già a 35 anni).

L’altro dato curioso che riguarda gli uomini è l’aumento ponderale dopo il matrimonio: «Abbiamo studiato un gruppo di uomini prima del matrimonio e abbiamo registrato il 29% in sovrappeso e il 6% di obesi — conclude Vanotti — dopo qualche anno di matrimonio la percentuale dei sovrappeso è cresciuta al 48%, gli obesi al 13%». «Sono percentuali che fotografano la società dell’opulenza — è il commento di Vittorio Sironi, professore di Storia della Medicina e della Sanità all’Università Bicocca —: nell’Ottocento nei nostri comuni il problema era semmai la carenza alimentare. In Brianza si soffriva di pellagra, rachitismo, disturbi tiroidei. Oggi siamo una società ricca e l’obesità è una delle patologie più diffuse che colpisce l’8% della popolazione e cresce con l’aumentare dell’età».

Il consiglio? «Bisognerebbe tornare all’alimentazione dei nostri nonni — conclude Sironi — ai primi anni del Novecento quando si consumavano grandi quantità di frutta e verdura e il piatto della “cuccagna” era un’eccezione solo per alcune occasioni». Un gesto concreto contro l’obesità l’ha fatto il Comune di Seregno: con la palestra «Officine del benessere» ha partecipato a Let’s move, la sfida mondiale (176 i centri fitness in gara in rappresentanza di 10 Paesi) promossa dal colosso del wellness Technogym ed ha vinto. In un mese 950 persone si sono alternate sugli attrezzi e hanno accumulato 5,8 milioni di «move», che equivalgono a circa 12 milioni di calorie consumate. In palio attrezzi per 40 mila euro, che sono stati donati alla scuola media Don Milani. La Asl di Monza ha invece in programma per quest’anno alcuni progetti di educazione alla salute rivolti alle donne in gravidanza, agli educatori degli asili nido e alle scuole di ogni ordine e grado. Lo scorso anno ha invece fatto installare distributori di «snacks salutari» in otto scuole secondarie della provincia.

postillaPare quasi ovvio, che in una regione dove ormai da lustri il personale sanitario viene selezionato sulla base dell'appartenenza alle cordate cielline, nessuno si sogni neppure lontanamente di citare (nemmeno in sede di teoria, almeno da quanto si capisce dall'articolo) la montagna di ricerche americane e non, che legano direttamente l'organizzazione del territorio e l'indice di massa corporea. Ovvero che stabiliscono un legame quasi diretto fra gli stili di vita caratteristici dello sprawl suburbano, modello notoriamente ultra-dominante in Brianza, e la ciccia cronica di grandi e piccini. Ma non si può dire, perché si contraddirebbero così i ciellini profeti delle ubique autostrade, delle sedicenti comunità locali fatte di schiere di villette “immerse nel verde”, dove i ragazzini non escono se non accompagnati dalla mamma o dal nonno in Suv, e passano il resto del tempo quasi naturalmente rimpinzandosi di merendine davanti alla Tv. Probabilmente alche al sovrappeso ci dovrà pensare il “privato”, ricetta magica pervicacemente riproposta ad ogni piè sospinto dai nostri eroi. L'America va bene per i viaggi studio pagati dal contribuente, ma leggere le ricerche che non fanno comodo ai propri sponsor quello mai. Ad esempio gli studi seminali tradotti qui su Eddyburg tanti tanti anni fa, che magari i non medici devoti vorranno riguardare con occhi diversi oggi. Qualche considerazione in più su Millennio Urbano (f.b.)

L'ennesimo articolo che fa promozione immobiliare – presumibilmente indebita - all'ormai noto progetto di Porta Nuova a Milano, ma forse per via dell'ansia scivola nel ridicolo. Corriere della Sera, 7 giugno 2014, postilla (f.b.)

A Milano c’è un cantiere (il più grande d’Europa) che si avvia alle battute finali: è quello di Porta Nuova. Un complesso di uffici, abitazioni, servizi e collegamenti nati in un’area che era una «terra di nessuno» nel mezzo della città. Oggi, che i lavori sono in buona parte completati, il bilancio può essere considerato positivo. Merito, forse, anche della gestione del piano urbanistico e dei progettisti chiamati a lavorarci: architetti e studi di livello internazionale, che grazie alle loro esperienze in ogni angolo del pianeta, hanno introdotto una varietà di stili ma anche un’innovazione tipologica e tecnologica che hanno contribuito al successo. I milanesi che passeggiano con grande curiosità tra questi edifici (e si cimentano nel fotografare nuove suggestive prospettive urbane) hanno la sensazione è di trovarsi di fronte a una sfilata di forme, una grande fiera campionaria dell’architettura.

Da un po’ di anni in caso di interventi di questo tipo è diventata prassi abituale chiamare diversi progettisti, assegnando a ciascuno uno specifico intervento all’interno del piano generale. Una scelta che non porta a riprodurre in maniera pedissequa le megalopoli orientali o le metropoli Usa ma reinterpreta edifici e grattacieli adattandoli a una scala urbana più modesta e a uno stile di vita europeo. Un po’ come fece lo studio Bbpr con la Torre Velasca, sempre a Milano, più di 50 anni fa.

Uno degli esempi più noti, di questo «modus operandi» è quello di Renzo Piano per la riqualificazione di Potsdamer Platz a Berlino nel 1992: l’architetto genovese definì il programma di intervento, dando indicazioni su volumi edificabili e materiali utilizzabili, riservandosi la realizzazione di otto edifici e chiamando altri progettisti per le restanti costruzioni. Da Hans Koolhoff, che ha disegnato la torre affacciata sulla piazza, a Helmut Jahn, che ha ideato la sede Sony, il risultato è una zona frequentatissima da turisti e berlinesi, che la animano a tutte le ore del giorno e della notte. Questa usanza, di interventi a scala urbana a più mani, ha un precedente storico e famoso: Ludwig Mies van der Rohe, nel 1926, in qualità di vicepresidente del Werkbund che organizzava la II esposizione a Stoccarda, riuscì a farsi assegnare un’altura alla periferia della città per dare vita a un quartiere modello, il Weissenhof, in cui chiamò a cimentarsi le «archistar» dell’epoca: da Le Corbusier a Gropius, da Behrens a Scharoun. Furono 16 gli architetti invitati a dare il meglio di sé: non c’è stata una progettazione d’insieme e i vari edifici sono stati semplicemente accostati. Anche se va precisato che lo scopo del Weissenhof, non era tanto di creare un «bel» quartiere, quanto di definire nuove tipologie e schemi abitativi per l’edilizia popolare. Il tema della varietà però, fu perfettamente centrato, perché, al di là di alcune caratteristiche (edifici bianchi, non allineati al filo stradale e separazione tra traffico pedonale e veicolare), il rione manteneva tratti unitari riconoscibili senza che per questo si venisse a creare monotonia o addirittura l’effetto straniante del «superblocco» (edilizio) di stampo sovietico.

Un’immagine alienante che peraltro è molto presente anche sull’altra sponda dell’oceano, in America: fin dal dopoguerra gli interventi di lottizzazione periferica statunitensi, hanno portato alla realizzazione di interi quartieri impiegando una semplice tipologia di villetta monofamiliare (o bifamiliare) con il suo bravo giardinetto, il vialetto, l’alberello e l’immancabile berlinona nel box, ripetuta praticamente all’infinito. Il risultato è uno degli aspetti più inquietanti dell’«American way of life». Un’abitudine peraltro niente affatto tramontata, se si pensa ad esempio a uno dei nuovi quartieri di West Palm Beach, in Florida. Evidentemente, alla «middle class» a stelle e strisce piace così.

La tendenza attuale è quella di chiamare un certo numero di progettisti per introdurre quella molteplicità che, altrimenti, produrrebbe l’effetto di «quartiere-ghetto» se affidata ad un’unica matita. In Italia, nel dopoguerra, ci sono state fasi altalenanti, ad esempio in occasione della ricostruzione postbellica: in alcuni casi sono stati raggiunti risultati eccellenti (come il quartiere Ina-Casa Tiburtino, di Ridolfi, Quaroni, Fiorentino e altri 9 architetti) in altri, invece, decisamente scarsi tanto da coniare le definizioni di «case-alveare» o, appunto, «quartiere-ghetto». Ma allora, la bontà del risultato finale è merito della bravura degli architetti, della loro sensibilità progettuale e dell’apporto multiprofessionale? Sicuramente è così. Resta il fatto che, sia negli interventi di edilizia intensiva (grattacieli) o estensiva (quartieri di villette), quando i progettisti lavorano con coscienza e abilità, lontano da preconcetti ideologici, politici e alla larga da teorie ed esperimenti di edilizia sociale (vedi Corviale, Scampia e Zen) il risultato è (quasi sempre) di buon livello.

postillaOrmai il quartiere del “grattacielo più alto d'Italia” del Bosco Verticale eccetera, dove come ci spiega puntiglioso l'Autore i progettisti lavorano “lontano da preconcetti ideologici e politici” conta innumerevoli tentativi di promozione immobiliare travestiti da articoli. Il developer ovviamente ringrazia, ma in questo caso dovrebbe ringraziare molto meno il lettore, trascinato per i capelli dentro il temerario accostamento fra questo privatissimo progetto a suon di architar e dintorni, e il catalogo di architettura modernista rappresentato dal Weissenhof di Stoccarda negli anni '20, quando (spiegateglielo, all'Autore) ideologia e politica erano pane quotidiano per gli architetti e la società riformista della Repubblica di Weimar, con rispetto parlando. Ma la vera madornale sciocchezza di questo spot pubblicitario sta nel non scritto, probabilmente nel rimosso: giusto a Milano, più o meno a mezza strada nel tempo tra Weissenhof e Porta Nuova, c'è un equivalente catalogo di architetture moderne, opera collettiva dichiaratamente ispirata all'originale tedesco, e che ben più del privatistico catalogo di appetiti immobiliari attuale ne ripercorre lo spirito. Si chiama QT8, e anche se non si conosce la storia della Ottava Triennale che gli dà il nome, basta guardare le fermate della Metropolitana per scoprirne l'esistenza, e magari farci un giro. Ma il ritmo frenetico della vita moderna all'inseguimento dei traballanti valori immobiliari probabilmente non concede questo lusso, oppure la sola idea di citare quell'opera “comunista” ripugna al rampollo del conformismo rampante? (f.b.)

Territorialmente, 29 maggio 2014

Non c’è pace in Mugello. Autostrada del sole, autodromo, invaso di Bilancino, villaggio Outlet, alta velocità, raddoppio dell’A1: opere che insistono su pochi chilometri quadrati in un’area interna, non ricca ma già bella, che da decenni ha ceduto al ricatto occupazionale. Per un lavoro fugace, non sicuro, dai connotati schiavistici come denuncia Simona Baldanzi dai cantieri TAV. Ora però l’attacco al territorio cambia di segno e si chiama “valorizzazione”.

La villa di Cafaggiòlo, da poco iscritta nel patrimonio Unesco, e l’intera fattoria medicea, sono al centro di una storia annosa che riparte nel 2011, quando Regione Toscana, Provincia di Firenze, comuni di Barberino di Mugello e San Piero a Sieve, Autorità di Bacino dell’Arno, MIBAC-Direzione generale per i beni culturali e paesaggistici della Toscana, siglano un protocollo d’intesa con la proprietaria Società Cafaggiolo srl rappresentata dall’argentino Alfredo Lowenstein. Un «modello di collaborazione istituzionale» che nei giorni a ridosso delle elezioni ha raggiunto un’ulteriore tappa: il protocollo è approvato, con un atto di indirizzo, da entrambi i comuni mugellani, di cui uno – San Piero – in mano al commissario prefettizio. Il protocollo, «ispirato a principi di tutela, sviluppo e valorizzazione della villa e della tenuta», sostiene un progetto della Cafaggiolo srl medesima, che interessa circa 370 ettari ripartiti tra i comuni di Barberino e San Piero, inclusi nella zona di rispetto Unesco (buffer zone).

Il “Progetto Cafaggiolo” prevede il riuso del patrimonio edilizio esistente per finalità ricettive turistico-alberghiere di gran lusso, nonché «la creazione di un polo museale con attività culturali e la realizzazione di uno spazio per lo sport ed il tempo libero, attraverso interventi di recupero e riqualificazione dell’esistente e, in parte, interventi di nuova edificazione, nonché interventi per la riqualificazione paesaggistica dell’area». Ad insaporire la pietanza, l’industriale argentino promette a Rossi un investimento di 170 milioni di euro che darebbe vita a 700 (sì, proprio 700!) posti di lavoro diretto e indiretto, e 120 per la realizzazione.
Vediamo cosa prevede la “valorizzazione”: col parere favorevole della sovrintendenza, la villa – malgrado il vincolo ex lege 1939 – sarà squartata in 36 eleganti suites dotate di ogni comodità postmedicea; negli annessi (manica lunga, falegnameria, ma anche conigliera e lavatoio) troveranno posto 59 lussuose camere; l’insieme delle case coloniche, ragguardevole per consistenza, sarà trasformato in 82 suites, per un totale di 164 posti letto. Medesima sorte per fienili e mulini, e per la canonica di Campiano. Un nuovo resort in località Santini sarà composto da 24 nuovi appartamenti costruiti ex novo mettendo a frutto le volumetrie dei demolendi silos; e poi piscine, biopiscine, saune, campi da polo, spazi espositivi. Per l’argentino sussiste tuttavia un unico, insopportabile, neo: la strada statale della Futa che attraversa l’insediamento monumentale.
La Regione si dimostra comprensiva e con solerzia prevede lo spostamento della viabilità in tre possibili varianti, a spese del contribuente (che non vedrà più la villa attraversando il Mugello) e, naturalmente, dell’ambiente rurale. A parte il comitato giallo “Cafaggiolo deve risplendere” che spinge per la realizzazione del resort, la cittadinanza (e la lista “LiberaMente a sinistra” ora in consiglio comunale a San Piero-Scarperia) si oppone a questa valorizzazione sui generis contravvenente all’art. 6 del Codice dei beni culturali, che con il termine “valorizzazione” intenderebbe la messa in valore sociale, la garanzia della fruizione collettiva del bene, e non l’esclusiva messa in valore economico con sottrazione alla vista del bene, come nel caso in esame. Il nuovo piano paesaggistico regionale, ora in discussione presso le commissioni regionali, rafforza le aspirazioni della cittadinanza mugellana prevedendo la salvaguardia dell’assetto insediativo di lunga durata, ivi compreso, da un lato il reticolo stradale storico, dall’altro l’assetto generale della fattoria che verrebbe stravolto dalla trasformazione estilo pampero. Di concerto, la riscrittura della legge urbanistica, in via di approvazione, impedirà ogni nuova ulteriore edificazione residenziale (e ricettiva) sui terreni agricoli, e comunque renderà oggetto di copianificazione di area vasta gli interventi di modifica a fini non residenziali in aree non urbanizzate.
La schizofrenia messa in scena nelle stanze della Regione Toscana offre dunque uno spettacolo sconfortante. E, dando respiro (per un pugno di posti di lavoro) al Progetto Cafaggiolo, rende impossibile perfino immaginare un progetto di conversione ecologicamente e antropologicamente sostenibile, sperimentabile sull’area. Speriamo che l’esempio mugellano non intacchi le sorti di un’altra fattoria storica, oggetto di interessanti tentativi partecipati dal basso: la fattoria di Mondeggi, proprietà della Provincia di Firenze, oggi in vendita per pochi spiccioli, questa volta schiettamente nel segno della politica renziana.
Riferimenti

Territorialmente è il bel portale della Rete dei comitati per la difesa del territorio, il cui focus è suklla Toscana ma lo sguardo aperto a tutto il paese

Come per l'isola di Poveglia nella Laguna di Venezia, anche a Torino i cittadini si associano per impedire che un bene comune (e pubblico) venga privatizzato e trattato come una merce, Corriere della sera, 31 maggio 2014 (m.p.r.)

Nei giorni scorsi alcuni cittadini hanno cercato (purtroppo senza riuscirci) di ri-comprarsi ciò che già appartiene loro in quanto cittadini sovrani: l’Isola di Poveglia, nella Laguna di Venezia, che è stata messa in vendita dal Demanio dello Stato. Ora un altro gruppo di cittadini ha occupato la Cavallerizza Reale, nel cuore di Torino, chiedendo che questo importantissimo monumento rimanga un grande e articolato teatro, e non venga trasformato in un centro commerciale. In entrambi i casi la buona notizia è che, in un modo o in un altro, «la Repubblica tutela il patrimonio storico e artistico della nazione»: proprio come impone l’articolo 9 della Costituzione. Perché laddove le istituzioni e i poteri pubblici faticano a farlo, o fanno il contrario, sono spesso i cittadini – singoli o riuniti in associazioni, comitati, gruppi – a prendersi a cuore il loro territorio e i loro monumenti. Era ciò che avevano in mente i costituenti quando hanno scritto «Repubblica» e non «Stato»: nel senso di vigilanza e impegno civile (un senso lato, ma profondo e fondamentale), la tutela non spetta solo agli organi previsti dalle leggi, ma spetta appunto alla Repubblica, e cioè ad ogni cittadino.

Il caso di Torino è emblematico. La Cavallerizza Reale è un grande complesso costruito tra Seicento e Ottocento come sede dell’Accademia militare: un complesso che è protetto da un vincolo, e che fa parte del sistema delle residenze reali sabaude dichiarato patrimonio dell’umanità dall’Unesco. Ceduta dal Demanio al Comune di Torino, la Cavallerizza è divenuta parte del Teatro Stabile, e nel 2001 si è aperta alla città come luogo di spettacolo, ottenendo un grande successo. Ma in seguito ai tagli selvaggi ai bilanci degli enti locali, l’amministrazione comunale ha rinunciato a raccogliere i frutti (sociali, ma anche economici) del suo investimento, e ha deciso di mettere in vendita il complesso: nel 2009 è stato affidato alla Cartolarizzazione Città di Torino srl, e nel 2013 sono state interrotte le rappresentazioni e sono iniziate le visite degli speculatori privati che vorrebbero acquistare il monumento (a prezzo di saldo: 12 milioni di euro).

Ma non tutti, in città, sono disposti ad accettare una simile sconfitta collettiva. Da sei mesi alcuni cittadini si riuniscono in un percorso partecipativo autoconvocato per decidere il futuro di quel grande spazio storico, e venerdì scorso hanno annunciato tre giorni di occupazione: «Come Assemblea Cavallerizza 14e45 [l'ora a cui è fermo l'orologio del teatro] una risposta la abbiamo, ovvero noi, gli abitanti di questa città. Con questi tre giorni vogliamo cominciare a immaginare un futuro diverso dall’abbandono o dalla svendita. Non possiamo accettare che ancora una volta sotto i nostri occhi avvenga lo spreco del nostro patrimonio senza interpellare nessuno. Vorremmo che la cavallerizza fosse un laboratorio dell’abitare, ovvero uno spazio a partire da cui ripensare I modi in cui viviamo questa città, per riprenderci possibilità di decidere della vita dei nostri territori. La parabola della Cavallerizza è la stessa di tanti siti di valore storico e artistico che vengono lasciati all’incuria più totale finché non subiscono danni strutturali, a quel punto o vengono completamente abbandonati o venduti. Noi soldi per comprare la Cavallerizza non ne abbiamo, ma non ci sembra un motivo valido perché la nostra voce di cittadini resti inascoltata. Sappiamo con certezza che non vogliamo un albergo, un bel ristorante, ma neanche un bel museo in cui costerà caro entrare, sappiamo che vogliamo un luogo che risponda alle esigenze di chi vive la città, non di chi ci specula».

L’occupazione della Cavallerizza ha finalmente aperto una discussione pubblica, ed ha guadagnato solidarietà importanti. Italia Nostra ha detto di condividere gli obiettivi degli occupanti, e ha chiesto al Comune «che vengano tassativamente esclusi usi impropri di carattere speculativo». Mario Martone, direttore del Teatro Stabile, ha dichiarato che «se è un’occupazione fatta con rispetto delle norme di sicurezza, è giusto dialogare con questi ragazzi, è la prima regola della democrazia. Come Stabile, ci è dispiaciuto abbandonare questo luogo». Naturalmente non mancano le preoccupazioni e gli equivoci. In un suo comunicato di sabato scorso, l’Ansa ha scritto che la Cavallerizza è stata occupata da un «collettivo anarchico». In realtà, quei cittadini torinesi non predicano l’anarchia, ma anzi chiedono l’applicazione della Costituzione. E non sono soli. In un suo libro recente (Il territorio bene comune degli italiani, Donzelli) l’ex vicepresidente della Corte Costituzionale Paolo Maddalena ha spiegato perché le alienazioni di beni demaniali siano «provvedimenti legislativi di eccezionale gravità, che vanno contro la lettera e lo spirito della Costituzione»: si tratta – continua il giudice – «di svendite da considerare assolutamente nulle, poiché contrastano con i prevalenti interessi pubblici del popolo italiano».

È allora vitale che i cittadini facciano sentire direttamente la loro voce: la storia italiana dimostra che non è affatto inutile. Se il 18 maggio 1980 – per esempio – duemila siciliani non avessero occupato il cantiere della litoranea che doveva congiungere San Vito lo Capo e Scopello, non sarebbe mai nata la Riserva dello Zingaro, che oggi protegge e fa vivere un luogo meraviglioso e sostiene un’economia diversa da quella fondata sulla speculazione. Uno degli slogan degli occupanti torinesi è «La Cavallerizza è reale». Ebbene, queste parole non dicono solo che quel monumento è tornato nella realtà della vita sociale torinese, ma possono anche significare che ciò che apparteneva ai Savoia – re di Sardegna e poi re d’Italia – ora appartiene al nuovo sovrano: il popolo italiano. È per questo che il vento che soffia da Torino riguarda tutta l’Italia, e apre una battaglia civile, giuridica e culturale che riguarda le implicazioni della sovranità popolare sul governo del territorio, e cioè l’essenza stessa della democrazia. Che, come la Cavallerizza, o è reale o non è.

La costruzione dell'Arzanà dei vinissiani" iniziò mille anni fa. Dante ne scrisse 7 secoli fa nella Commedia. Oggi sembra che abbia inizio la distruzione di un complesso il cui valore culturale non è inferiore a quello del Colosseo romano o dell'Acropoli ateniese, ma forse ancora più importante di quei monumenti per la storia della città e del territorio di cui è parte. La Nuova Venezia, 29 maggio 2014

Mentre sta dando gli ultimi ritocchi al suo piano per le destinazioni d'uso delle varie aree comprese nel complesso dell'Arsenale, il Comune ha convocato per il 30 maggio un "workshop" o seminario di lavoro il cui titolo è "Scenari per il rinnovato uso e la gestione dell'Arsenale di Venezia" (traduco dall'annuncio originale, che è naturalmente in inglese). Al seminario sono invitate una dozzina di organizzazioni internazionali, che dovranno presentare idee e proposte. Ai partecipanti il Comune indica gli scopi ai quali intende mirare e che gli esperti dovranno tenere in mente: i "goals" del seminario.

Ci si aspetterebbe che il primo di tali scopi o intendimenti fosse qualcosa come: "Il totale rispetto e recupero del valore storico, culturale, di testimonianza e di bellezza costituito da questo complesso, unico al mondo e monumento tra i più prestigiosi del pianeta". Prima di tutto, insomma, una presa di coscienza dell'estrema delicatezza del compito. Ma no, il primo goal è questo: "Generare un dinamismo economico, sociale e culturale attraverso la creazione di nuove idee, nuove tecnologie e nuovi posti di lavoro". E così via per altri cinque punti su questo tenore.
Ma allora andiamo a guardare chi sono gli esperti invitati. Storici di Venezia? Professori di storia navale o dell'architettura? Conoscitori delle tecniche degli antichi arsenalotti? No, per carità. Sono dipendenti o titolari di una dozzina di imprese specializzate prima di tutto in attività di "real estate" ( investimenti immobiliari, seconde case, stime), nel settore di "media & communications", scienze digitali e "grande distribuzione organizzata, centri commerciali, Retail Park". Gli "esperti" faranno una visita guidata al mattino e si pronunceranno nel pomeriggio (15-17,30). Alla discussione sono invitati anche i principali portatori d'interesse ("stakeholders"), tra i quali un'associazione cittadina, il Forum Futuro Arsenale.
Ma chi sono gli altri? I soliti noti, che hanno "interessi" ben pesanti e consistenti nel futuro del complesso: prima di tutti il Consorzio Venezia Nuova, poi il Tethis (che appartiene al Consorzio, ma interviene anche in proprio), e poi Biennale, ACTV, Marina militare, Magistrato alle acque e, un po' sperduta in mezzo a ventisei convocati, anche la Soprintendenza ai Beni architettonici e paesaggistici. Nel frattempo l'Ufficio Arsenale del Comune (creato appositamente dopo la consegna dell'area da parte del Demanio marittimo) avrà stabilito le destinazioni d'uso delle varie zone (è già previsto che l'edificio dei "sommergibilisti" sarà destinato ad "attività ricettiva extra-alberghiera").
Tutto fa prevedere che, se non ci sarà un forte intervento della cittadinanza, nell'antico Arsenale sarà operata una manomissione in linea con quelle che stanno avvenendo nel Fontego dei tedeschi, trasformato in centro commerciale, nell'Ospedale al Mare, nella stessa laguna di Venezia con il passaggio delle grandi navi. Ci permettiamo di offrire un suggerimento per quanto riguarda i "goals", gli obiettivi ai quali dovrebbe fermamente mirare l'opera di rinascita dell'Arsenale. Chi ci entra deve prima di tutto percepire la Storia, che qui parla da ogni pietra e da ogni colonna, e la Bellezza, alla quale quasi inconsciamente miravano gli artefici delle tante sezioni del miracoloso complesso. Deve poter vedere la lunga sfilata di archi e colonne sotto le Tese (poi murata dagli austriaci e oggi "foderata" da contenitori di uffici, come se non ci fossero palazzi antichi a sufficienza in città per ospitarli).
L'Arsenale non è Pompei, è più che Pompei. È stato il centro della carpenteria navale europea per molti secoli, un luogo studiato, ammirato e invidiato che possiamo far rinascere quasi del tutto. Non merita di diventare un centro di "retail" e di "vibrant high quality experiences" come si chiede agli esperti dell "urban regeneration workshop".
Paolo Lanapoppi è vicepresidente Italia Nostra, Sezione di Venezia

Riferimenti

Si vedano su questo sito:
per Venezia e la Laguna
: le cartelle e nella vecchia e nella nuova edizione;
per la rigenerazione urbana l'articolo di Francesco Erbani
Basta costruire gli architetti ora rigenerano
e i materiali della Scuola di eddyburg.
La Repubblica, 28 maggio 2014 (m.p.g.)

La cruda eloquenza dei numeri ci dice che l'Italia, che fino al 2009 spendeva in cultura lo 0,9% del Pil, è calata allo 0,6% nel 2011, finendo così all'ultimo posto fra i 27 Paesi dell'Unione. Il 2012 conferma questo dato terrificante. Lieve incremento nelle regioni del Nord, quelle del Centro stabili sugli stessi valori, ma al Sud un ulteriore, drammatico calo In Europa l'Italia evidenzia il più alto disinvestimento nel decennio (meno 33,3%), più del doppio rispetto alla Grecia (meno 14,3%).

Intanto altri Paesi, dall'Olanda all'Ungheria, dalla Danimarca alla Slovenia, investono nel settore oltre 1'1,5% del Pil, e quasi tutti gli altri Paesi europei oscillano tra l'1 e l'1,5%.Tutt'altro che consolante la spesa in consumi culturali delle famiglie italiane, uno striminzito 7,2%, nettamente inferiore alla media europea (8,9%).Secondo dati del 2013, l'Italia è in fondo alla classifica per livello di partecipazione dei cittadini ad attività culturali 8%, un dato davvero imbarazzante a petto del 43% della Svezia, 36% in Danimarca, 34% in Olanda, e così via.La contrazione della spesa in questo settore è stata più pesante che in qualsiasi altro (siamo passati da 51,62 euro pro capite nel 2000 a 30,52 nel 2011 ), ma si è distribuita nelle diverse aree del Paese in modo non uniforme. Val d'Aosta, Friuli, Lazio e Sardegna fanno eccezione, ma tutte le altre regioni sono penalizzate da un disinvestimento rilevante, che colpisce specialmente le regioni del Sud, accentuando il divario storico dal centronord.

Le risorse aggiuntive (fondi strutturali e fondi comunitari), che privilegiano il Sud, sono tuttavia lontanissime dal colmare l'enorme gap che lo separa dal Nord, senza contare che in alcune regioni ( come Puglia e Sicilia) si è registrato dopo il 2009 un forte crollo della spesa aggiuntiva.«Un ulteriore fattore di differenziazione territoriale - scrive il Rapporto - è il ruolo assunto dalle Imprese Pubbliche Territoriali», a cominciare dalle Fondazioni il loro peso «è fortemente cresciuto nel decennio, nell'ambito del calo della spesa pubblica e di una maggiore articolazione della governance», ma con scarsissimo beneficio per l'intero Mezzogiorno (con la parziale eccezione della Campania ), e una forte concentrazione nel Centro-Nord.Nel 2011, il contributo delle Imprese Pubbliche Territoriali alla spesa totale nel settore cultura è pari al 22% nel Nord, al 18% al Centro, all'8% al Sud percentuale bassissima su una spesa complessiva gia assai ridotta, con effetti devastanti sul gia endemico squilibrio Nord-Sud.

«La cultura è tradizionalmente un asse strategico nelle dichiarazioni degli amministratori e dei politici - conclude il Rapporto - ma è al tempo stesso il primo oggetto di taglio di risorse in tutte le fasi di restrizione della finanza pubblica».L'analisi delle dinamiche di investimento e di spesa evidenzia che «lo sviluppo del settore necessita un'offerta pubblica in grado di stimolare la domanda, e ciò soprattutto nei territori caratterizzati da un grado inferiore di sviluppo sociale ed economico». E invece prevale «una visione del settore culturale come lusso per tempi felici, effimero rispetto ad altre esigenze».
Il Rapporto raccomanda «un solido miglioramento del contesto intersettoriale, dai trasporti alla sicurezza, dalla comunicazione alla semplificazione amministrativa»; «una chiara e lungimirante politica nazionale nell'ambito di una governance unitaria»; l'accorta gestione delle politiche di coesione «non solo per le risorse aggiuntive che garantiscono, ma per la capacità progettuale che richiedono»; infine, l'integrazione di risorse pubbliche e private, anche con strumenti di agevolazione fiscale. A quest'ultimo obiettivo risponde, nel decreto Franceschini recentemente varato, la nuova normativa sul mecenatismo, un passo avanti che però resterà lettera morta se non accompagnato da una forte e consapevole politica di nuovi investimenti che capovolga la perversa tendenza alla carestia perpetua, evidenziata dai dati ora emersi.

È vano fare la ruota elogiando qualità e quantità del nostro patrimonio culturale, sbandierando stolte vanterie (come la pseudostatistica, stancamente ripetuta da finti esperti d'ogni colore, secondo cui l'Italia avrebbe il 50, 60, 70% dei beni culturali del mondo ), se poi continuiamo a disinvestire e chiudiamo gli occhi per non accorgercene.

È vano sognare miracolosi interventi di privati, se non facciamo nulla per rilanciare le strutture pubbliche della tutela: che non sono, come talora si blatera, passive strutture di mera conservazione, ma enti di ricerca e conoscenza territoriale, fase ne cessaria per qualsivoglia "valorizzazione" che non sia vuota retorica e flatus vocis. Il Ministero dei Beni Culturali ha bisogno di riavere con estrema urgenza le risorse di cui è stato borseggiato dalla banda del buco Tremonti-Bondi nel 2008; ha bisogno di massicce nuove assunzioni di giovani preparati, in deroga a qualsiasi retorica del blocco della spesa pubblica; ha bisogno di nuove idee, e prima di tutto della coscienza condivisa che l'investimento nel settore, conforme alla Costituzione, non è un optional ma ingranaggio essenziale dell'orizzonte dei diritti, della costruzione dell'eguaglianza e della dignità della persona.

Il ministro Franceschini ha saggiamente ripudiato la volgare metafora del patrimonio culturale come "petrolio" d'Italia, e giustamente insiste sulle sue potenzialità. Ma per dispiegarle non occorrono né commissari né manager, genericissima qualifica che fino ad ora nulla ha prodotto nel settore se non sprechi e rovine, e che invece il decreto addita come soluzione salvifica, senza il minimo sforzo di spiegare perché. A fronte di risorse in calo, nessun manager di qualità sarà mai interessato a lavorare nel settore; e se uno ve ne fosse, non potrà che fallire.

Quando, invece che stracciarsi le vesti sulla cronica mancanze di risorse e inventare palliativi, il governo getterà sul tappeto il tema, perpetuamente rimosso, della gigantesca evasione fiscale che affligge il Paese, terzo al mondo per evasione dopo Messico e Turchia? Basterebbe recuperare un decimo dei 154 miliardi di euro l'anno di tasse non pagate, e come per incanto la scuola, i beni culturali, i servizi sociali potrebbero rifiorire.

proprietarie delle più belle dimore storiche tra i vigneti dell'Amarone». L'Espresso, 23 maggio 2014
Anche le le ville venete insorgono contro il cemento. Succede in Valpolicella, tra Verona e il Lago di Garda, in una zona doc che è famosa nel mondo per la qualità dei suoi vini, come l'Amarone e il Recioto. E per la bellezza del paesaggio, con distese di vigneti e ciliegi contornate da antichi muri in pietra, chiese romaniche, paesini storici e splendide ville nobiliari.

A partire dagli anni Sessanta, purtroppo, anche questa provincia veneta, come troppe parti d'Italia, è stata stravolta da un'ondata di nuove costruzioni speculative, con schiere di lottizzazioni-conigliere, orridi capannoni e mostruosi ipermercati, che hanno arricchito pochi affaristi danneggiando un territorio che è la vera ricchezza di tutti. Uno dei maggiori comuni della Valpolicella, Negrar, è diventato addirittura un luogo-simbolo di questi decenni di cementificazione insensata. Eppure proprio qui una giunta di centrodestra, ora in scadenza, ha varato un nuovo “piano di assetto del territorio” che minaccia di consegnare agli speculatori anche le ultime aree verdi, perfino nella frazione-gioiello di Arbizzano, tanto che le opposizioni lo hanno ribattezzato “piano d'assalto del territorio”.

Per cercare di salvare ciò che resta dell'ambiente e del paesaggio, da mesi si stanno mobilitando dozzine di associazioni civiche e comitati locali. Tra i cittadini più informati e sensibili c'è un ricercatore, Gabriele Fedrigo, autore di un libro-inchiesta che documenta decenni di orrori urbanistici, con un titolo eloquente: «Negrarizzazione: speculazione edilizia, agonia delle colline e fuga dalla bellezza». Nell'agosto scorso, di fronte ai nuovi progetti speculativi della giunta di destra, aggravati dalla scoperta di gravi casi di inquinamento industriale delle falde, Fedrigo ha affisso alle finestre della propria abitazione, a Negrar, due striscioni con queste scritte di protesta: «Basta cemento» e «Acqua e aria sane».

A fine aprile, l'amministrazione comunale ha reagito: il ricercatore si è visto notificare un avviso di apertura di un procedimento sanzionatorio, che gli contesta una pretesa violazione del regolamento comunale sul «decoro urbano delle aree scoperte». Come se a rovinare il paesaggio di Negrar fossero gli striscioni di protesta, anziché le colate di cemento o gli avvelenatori delle acque. Il singolare provvedimento, emesso a ridosso delle elezioni comunali del 25 maggio, si chiude con una diffida a rimuovere le scritte di protesta, sotto minaccia di multe salate. Alla rituale richiesta di presentare una difesa scritta, Fedrigo ha risposto comunicando che «la mia memoria difensiva è la Costituzione italiana, che tutela il paesaggio e la libertà di pensiero»: «Gli striscioni sono stati esposti come forma di manifestazione del mio pensiero, per esprimere la mia protesta e indignazione contro una politica di gestione del territorio palazzinara e devastante».

Il tentativo politico di zittire il ricercatore scomodo, proprio in coincidenza con la fase finale di una campagna elettorale che è diventata una specie di referendum pro o contro il cemento, ha scandalizzato molti cittadini. E tra i tanti indignati sono comparse, a sorpresa, alcune delle più nobili famiglie veronesi, proprietarie delle più famose ville storiche della Valpolicella. In breve, sulle splendide facciate di queste dimore secolari, sono comparse le stesse scritte di protesta, in aperta solidarietà con Fedrigo: «Basta cemento». Ora il tam-tam dell'iniziativa sta facendo il giro di Internet, dove cittadini e associazioni si scambiano una cartolina con la casa di Fedrigo contornata dagli striscioni di protesta comparsi sulle prime otto ville (come gli otto comuni della Valpolicella) che hanno raccolto la sfida contro la definitiva cementificazione del territorio.

Il Fatto quotidiano, 22 maggio 2014, con postilla

Difficile dimenticare un’alba tra le torri di San Gimignano, a buon diritto definita dall’Unesco (che nel 1990 ne ha incluso il centro storico nel patrimonio dell’umanità) un “capolavoro del genio creativo umano”. Ma se uno fa l’errore di rimanerci fino alle 11 di mattina, sarà indimenticabile anche l’invasione turistica che fa della cittadina medioevale della Val d’Elsa una piccola Venezia. Nei giorni di punta anche ventimila consumisti della vista marciano a passo di corsa lungo le due strade e nelle due piazze in cui consiste la meravigliosa ruota da criceti in cui si autoconfina questo rito di conformismo di massa. Quasi ventimila pullman e due milioni di auto fanno sbarcare – spesso dopo chilometri di coda – tre milioni di persone all’anno (anzi in otto mesi: perché dai Morti a Pasqua non c'è quasi nessuno) in un centro che conta poco più di mille residenti.

Qualche anno fa il costante aumento di queste cifre da capogiro aveva indotto l’Unesco a chiedere (inutilmente) un numero chiuso, per difendere i monumenti dall’usura: ma il vero problema non riguarda le pietre, riguarda la qualità della vita dei cittadini. Il sito web del Comune è una gigantesca excusatio non petita: “Se un viaggiatore, entrando in San Gimignano, avesse l’impressione che la dimensione prevalente è quella a misura di turista farebbe bene a ricredersi alla svelta”, perché “San Gimignano non è solo le sue splendide torri, né solo il tessuto urbano, o l’ingente patrimonio artistico che chiese, palazzi e musei conservano, ma è anche un corpo vivo e attivo”. Quel corpo è ancora vivo, sì: ma non lo sarà ancora per molto. Negli ultimi trent’anni, il centro storico ha perso due terzi dei suoi residenti: man mano che il turismo è diventato la monocultura economica e l’unica dimensione esistenziale, San Gimignano ha progressivamente perso i connotati della città per assomigliare sempre più a una quinta cinematografica, a una Disneyland del Medioevo, con tanto di ben tre ‘musei’ della tortura.

I paurosi prezzi delle case, la riduzione e l’omologazione delle professioni possibili, il bassissimo livello di un turismo da mezza giornata (quando va bene) mettono in fuga i giovani.

Tutto è per i turisti, e prima e dopo il loro grottesco turno (11-18) la città non c’è più: e fa davvero impressione sentirsi dire che la sera d'inverno, dopo le nove, l’unico posto pubblico in cui ci si può trovare per fare quattro chiacchiere è la lavanderia a gettone.

Di fronte a questa situazione, l’unica strada sarebbe coltivare un turismo di qualità, diversificare l’economia, e soprattutto ridare un senso civico e comunitario al patrimonio artistico. E invece che fa la giunta guidata dal Pd Giacomo Bassi? Affida per cinque anni tutti i musei comunali (seconda voce delle entrate del Comune, dopo i parcheggi) a Opera Laboratori Fiorentini, del gruppo Civita (presidente Gianni Letta): il più grande oligopolista del patrimonio italiano, che gestisce già – tra il molto altro – gli Uffizi e i musei di Siena. E questo vuol dire uscire dal circuito della ricerca ed entrare definitivamente in quello dell’intrattenimento di cassetta: vuol dire che vedremo a San Gimignano mostre trash profumate di Van Gogh e Caravaggio, come in qualunque altro non-luogo sfigurato dalla triste omologazione commerciale che opprime le nostre città d’arte. E così i ragazzi di San Gimignano avranno un motivo in più per andarsene. Chi ha capito benissimo la situazione sono i cinesi. La multinazionale ForGood ha deciso di costruire un’altra San Gimignano nei sobborghi di Chongqing, uno degli agglomerati urbani maggiori del mondo (circa 33 milioni di abitanti).

Avete capito bene: 253 ettari saranno impiegati per ‘ricreare’ un angolo di paesaggio toscano – con tanto di colline e di piante tipiche, viti incluse – che ospiterà una San Gimignano 2: non una copia esatta, ma una sorta di generica cittadina toscana “medioevale” con torri. L’allucinante iniziativa è stata presentata ai cittadini di San Gimignano dagli architetti dello studio pisano che sta seguendo il progetto, i quali l’hanno descritto come “un nuovo incredibile centro turistico, con la nostra atmosfera artistico culturale: un'esperienza commerciale unica”. Già, perché i cinesi hanno intuito che copiare San Gimignano non vuol dire copiare una città, ma un centro commerciale medioevale, un outlet della storia, un mall della “cultura” senza veri abitanti, ma solo con clienti. La domanda è: hanno preso un abbaglio o hanno, tragicamente, capito quello che sta succedendo?

Domenica si vota anche nella cittadina toscana: una buona occasione per invertire la rotta. Forse l’ultima: prima che San Gimignano diventi la copia della sua copia cinese.

postilla
Luigi Scano definiva "razionamento programmato dell'offerta turistica" all'inizio degli anni Ottanta, una politica del turismo volta a definire (e a tradurrre in regole e azioni) un equilibrato rapporto tra la capacità di carico delle risorse e le presenze di visita e soggiorno, di estendere la fruizione a tutte le numerosissime aree ricche di qualità ambientali e paesaggistiche e di evitare che l’unica discriminante alla fruizione sia quella del reddito.

«Ogni opi­nione, natu­ral­mente, è lecita; però dire che Expò sarà una colata di cemento, men­tre l’eredità di Expo sarà un parco di quasi 50 ettari, uno dei più grandi d’Europa, non ha niente a che vedere con il legit­timo dissenso». Il manifesto, 22 maggio 2014 (m.p.r.)

Ho letto l’articolo di Guido Viale su Expo e sic­come il suo giu­di­zio è costruito anche su infor­ma­zioni ine­satte, credo sia mio dovere cor­reg­gerle e spie­gare le scelte della mia ammi­ni­stra­zione. Ogni opi­nione, natu­ral­mente, è lecita; però dire che Expo sarà una colata di cemento, men­tre l’eredità di Expo sarà un parco di quasi 50 ettari, uno dei più grandi d’Europa, non ha niente a che vedere con il legit­timo dissenso. Parto anch’io dalla cam­pa­gna elet­to­rale per ricor­dare che nel pro­gramma della coa­li­zione, voluto da tutti i par­titi che mi soste­ne­vano — da Prc a Sel al Pd — non c’era scritto da nes­suna parte che Milano avrebbe abban­do­nato l’Expo.

Anzi, c’era scritto che si trat­tava di un appun­ta­mento irri­nun­cia­bile. Certo, tutti, a comin­ciare da me, pro­met­te­vano un Expo ben diversa da quella descritta nell’articolo di Guido Viale e que­sta pro­messa è stata mantenuta.

Expo non sarà sem­pli­ce­mente un’esposizione uni­ver­sale; sarà una vetrina di con­te­nuti. Come a Kyoto si sono get­tate le basi per com­bat­tere i cam­bia­menti cli­ma­tici, a Milano in occa­sione di Expo, quando avremo qui 140 Paesi, get­te­remo le basi di una nuova e più sana poli­tica ali­men­tare che lotti con­tro la fame nel mondo, gli spre­chi ali­men­tari, l’accaparramento dei ter­reni agri­coli dei paesi poveri, che sia per l’acqua bene comune, per la soste­ni­bi­lità della catena alimentare.

Leggo equi­voci anche sul dopo Expo. Su quelle aree – che non abbiamo scelto noi — non ci sarà nes­suna spe­cu­la­zione edi­li­zia o finan­zia­ria. Il 54 per cento del sito sarà desti­nato a verde e la restante parte ad un grande pro­getto, scelto attra­verso un bando tra­spa­rente e aperto a tutti, che abbia anche una uti­lità pub­blica. Lascito di Expo sarà anche una sto­rica e bel­lis­sima cascina mila­nese, la Cascina Triulza, ristrut­tu­rata dopo anni pro­prio per que­sta occa­sione. Sarà la sede del volon­ta­riato, della coo­pe­ra­zione inter­na­zio­nale, delle Ong, dell’associazionismo sociale. Un sede per­ma­nente, defi­ni­tiva, che rimarrà anche dopo il 2015. E la Dar­sena, il vec­chio porto di Milano, sarà ria­perto dopo decenni di abbandono.

In momenti dif­fi­cili come que­sti, con­fesso che non trovo per niente da snob­bare nem­meno la pos­si­bi­lità di avere oltre 200 mila posti di lavoro. O gli effetti posi­tivi sul Pil e sull’occupazione che con­ti­nue­ranno fino al 2020, gene­rati da un indotto che sarà di dieci miliardi di euro.

Comun­que, anche per me, sono i con­te­nuti l’aspetto più impor­tante. E in que­sto abbiamo avuto for­tuna: l’Expo, per una que­stione di repu­ta­zione inter­na­zio­nale, avremmo dovuto farla comun­que, a meno di non fare davanti al mondo la figura di una repub­blica delle banane, però farla sul tema della nutri­zione ci con­sente di avere un peso su un tema fon­da­men­tale. E su que­sto, forse a Viale è sfug­gito, stiamo lavo­rando con le migliori intel­li­genze, a par­tire pro­prio da Car­lin Petrini che con Slow Food avrà un ruolo deci­sivo sui temi car­dine dell’Esposizione.

Credo che Viale giu­di­chi la città in base a degli ste­reo­tipi: vero che il Salone del Mobile è un momento magni­fico. Ma, caro Guido, c’è anche altro: Book City riem­pie la città di eventi legati alla let­tura e avre­sti dovuto essere con noi la set­ti­mana scorsa, quando il pro­getto Piano City ha acceso la città di oltre tre­cento con­certi in ogni angolo di Milano. Tutte ini­zia­tive legate ad ‘Expo in città’. Avre­sti visto – e non è un’esagerazione – per­sone felici, come saranno felici le per­sone che lunedì saranno in Piazza Duomo per ascol­tare gra­tui­ta­mente la Filar­mo­nica della Scala.

Diciamo che il modello–salone, nell’accezione di coin­vol­gere il mag­gior numero di per­sone pos­si­bili, di toc­care con ini­zia­tive ogni zona della città, di fare cul­tura dif­fusa, è il nostro modello. E così sarà, natu­ral­mente, per Expo, quando Milano sarà una città ancora più acco­gliente, alle­gra, aperta. Pronta a rice­vere tante per­sone che arri­vano da tutto il mondo, non certo per scam­biare affari, ma per scam­biare cono­scenza e imma­gi­nare un futuro migliore per tutti.

Capi­sco che nes­suno sia pro­feta in patria, però per uscire da un certo pes­si­mi­smo cosmico, sug­ge­ri­sco di dare una scorsa ai gior­nali stra­nieri: ieri era­vamo su Le Monde, apprez­zati per avere vinto un pre­mio impor­tante dell’Ocse, primi tra tutte le città euro­pee. Una sorta di ‘Oscar’ per quanto abbiamo fatto e stiamo facendo per la mobi­lità soste­ni­bile. Siamo stati chia­mati a far parte dei C-40, le città lea­der nelle poli­ti­che ambien­tali. Ci chie­dono il know how per la rac­colta dif­fe­ren­ziata visto che siamo insieme a Vienna al livello più alto tra le grandi città d’Europa. Insomma, non mi sem­bra affatto che abbiamo perso un’occasione. Piut­to­sto, l’occasione, abbiamo saputo coglierla, ora dob­biamo col­ti­varla insieme a tutte le forze sane del Paese. Altro che cemento…

«Expo e corruzione. Sfilarsi dal progetto, scegliere il modello "fuori salone", decidere di seguire l’idea di Petrini sulla trasformazione del parco agricolo di Milano. Invece ha vinto la colata di cemento.Il manifesto, 20 maggio 2014
Come per De Magi­stris, Zedda e Doria anche il sin­daco Pisa­pia era stato eletto sull’onda di una mobi­li­ta­zione straor­di­na­ria per par­te­ci­pa­zione, entu­sia­smo, crea­ti­vità. Pisa­pia doveva porre fine alle male­fatte di Leti­zia Moratti. E tra quelle tante male­fatte la peg­giore è senz’altro l’Expò: un “Grade evento” fatto di “Grandi Opere” che non hanno alcuna giu­sti­fi­ca­zione se non distri­buire com­messe, incas­sare tan­genti e tenere in piedi un comi­tato di affari impre­gnato di cor­ru­zione e di mafia che aveva già deva­stato la città per anni. Si badi bene: le tan­genti sono una con­se­guenza e non la causa.

Se ci fos­sero solo le tan­genti, il ter­ri­to­rio non ne rice­ve­rebbe danni irre­pa­ra­bili. Il vero danno sono le Grandi opere, la deva­sta­zione del ter­ri­to­rio e delle rela­zioni sociali; e il modello di busi­ness di cui sono frutto, fon­dato sull’indifferenza per le esi­genze delle comu­nità locali, sullo stra­po­tere di ban­che e finanza, sul subap­palto del subap­palto, che apre le porte alle mafie, sul pre­ca­riato (e ora anche sul lavoro gra­tuito) che hanno fatto dell’Expò il labo­ra­to­rio dell’Italia di Renzi; e, ovvia­mente, anche sulla corruzione.

Avendo ere­di­tato l’Expò dalla Moratti, Pisa­pia si era impe­gnato a ren­derla comun­que meno pesante pos­si­bile. Ma ha tra­dito quel man­dato. Non è in discus­sione la sua one­stà, né la sua buona fede; lo sono le sue scelte. Appena inse­diato è stato tra­sci­nato a Parigi da For­mi­goni per sot­to­scri­vere gli impe­gni con l’Ufficio Inter­na­zio­nale dell’Expò. Da allora l’Expò ha preso il posto dei pro­getti pre­sen­tati in cam­pa­gna elet­to­rale, alcuni dei quali san­citi dalla vit­to­ria di sei refe­ren­dum cit­ta­dini (senza seguito). E con l’Expò ha comin­ciato a dis­sol­versi quell’ondata di entu­sia­smo e di spe­ranze che aveva por­tato Pisa­pia in Comune.

Oggi in città la par­te­ci­pa­zione, che era stata la grande pro­messa di quella cam­pa­gna elet­to­rale, è a zero. E le forze che si erano impe­gnate per soste­nerlo – e soprat­tutto i gio­vani, e tra i gio­vani i cen­tri sociali — sem­brano ormai orien­tate a non votare nem­meno più: per nes­suno. E’ que­sto l’effetto peg­giore di quel tradimento.Poteva andare diver­sa­mente? Cer­ta­mente sì. Ma solo con un taglio netto nei con­fronti della cul­tura domi­nante: il pen­siero unico; il refrain del “non c’è alter­na­tiva”.

L’osservanza dei vin­coli di bilan­cio e del Patto di sta­bi­lità che stran­gola i Comuni per costrin­gerli a sven­dere suolo, beni comuni e ser­vizi pub­blici locali; e a repri­mere la par­te­ci­pa­zione della cit­ta­di­nanza. E tut­ta­via la Giunta non si è sen­tita le mani legate quando si è trat­tato di stan­ziare 480 milioni (ma forse molto di più, per­ché molte opere gra­vano su altre voci del bilan­cio) per fare l’Expò.

«Sarà un rilan­cio per l’economia per tutto il paese», ci hanno detto uno dopo l’altro Prodi, Ber­lu­sconi, Monti, Letta e Renzi. Ma c’è qual­cuno che vera­mente ci crede? Gli ultimi Expò, con l’eccezione di Sivi­glia, sono stati un bagno di san­gue per le città e i paesi che li hanno ospi­tati. «Sarà il rilan­cio dell’immagine dell’Italia nel mondo» ripe­tono. Sì, ma dell’Italia come il paese più cor­rotto dell’Ocse, e forse del mondo.

Lo si poteva capire dall’inizio. Due anni per nego­ziare l’organigramma senza nem­meno sapere che cosa fare vera­mente dell’Expò fanno capire a tutti qual era la posta in gioco. Adesso ci vogliono far cre­dere che i mana­ger al ver­tice dell’Expò erano ignari di tutto. Se dav­vero lo fos­sero, sono stu­pidi e incom­pe­tenti, e certo non meri­tano le cen­ti­naia di migliaia di euro del loro sti­pen­dio. Se non lo erano, com’è ovvio, non lo era nean­che chi li ha messi lì.

Eppure Pisa­pia le alter­na­tive le aveva: quando si è inse­diato, basta­vano 20 milioni di euro di penale (una “baz­ze­cola” rispetto a quelli che ci costerà l’Expò) per sfi­larsi dal pro­getto. Le ragioni per farlo non man­ca­vano: nell’epoca di inter­net una espo­si­zione uni­ver­sale è un’idea stu­pida; e da tempo le Expò sono bagni di san­gue: si aspet­tano milioni di turi­sti stra­ric­chi dall’estero e poi biso­gna fare appello alle visite scon­tate dei con­na­zio­nali per risol­le­vare un po’ i bilanci; d’altronde, “nutrire il pia­neta” con una colata di cemento non è un’idea geniale o innovativa.

La seconda opzione era l’Expò dif­fuso (sul modello del “fuori salone” abbi­nato da anni alla fiera del mobile, che ha sem­pre molto suc­cesso). A Pisa­pia quel pro­getto glielo aveva messo in mano un gruppo di archi­tetti, desi­gner e urba­ni­sti che ci lavo­rava da tempo (c’è anche una pub­bli­ca­zione in pro­po­sito); sarebbe costato molto meno, non avrebbe com­por­tato penali, e i soldi spesi sareb­bero ser­viti per ren­dere più bella la città; ma più dif­fi­cili e meno remu­ne­ra­tive spe­cu­la­zione e corruzione.

La terza opzione era seguire i sug­ge­ri­menti di Petrini: nutrire Milano per inse­gnare a nutrire il pia­neta. Cioè pro­muo­vere la tra­sfor­ma­zione del parco agri­colo Sud Milano, il più grande d’Europa, in un giar­dino col­ti­vato a frutta e ortaggi, per ali­men­tare le mense gestite dal Comune (80.000 pasti al giorno); per pro­muo­vere una rete di Gas (gruppi di acqui­sto soli­dale, tra­sfe­rendo a costo zero il know-how di chi un Gas lo sa fare, per­ché lo ha già fatto, a chi vor­rebbe farlo e non sa da dove comin­ciare; magari con un piz­zico di pro­mo­zione); per inse­gnare a tutti a magiare meglio e a chi lavora la terra a tra­sfor­marla in vera ric­chezza; e poi, por­tare i visi­ta­tori a vedere quel mira­colo.

Invece si è scelto il cemento: per rea­liz­zare la cosid­detta “pia­stra” (un nome, un pro­gramma), cioè la sede espo­si­tiva dell’Expo, che all’inizio doveva essere un grande orto; loca­liz­zan­dola per di più, unico caso per tutte le Expò, su ter­reni pri­vati da com­prare a caro prezzo, per poi costruirci sopra tanti stand di cemento che dovranno poi essere demo­liti. E si è scelto l’asfalto; per­ché per far arri­vare i visi­ta­tori stra­nieri si è dato il via alla costru­zione di tre auto­strade periur­bane, come se i milioni di visi­ta­tori cinesi, sta­tu­ni­tensi e austra­liani attesi arri­vas­sero in auto­mo­bile da Bre­scia, Lodi o Varese. Natu­ral­mente tutto in pro­ject-finan­cing; ma in attesa dei soldi di pri­vati e ban­che che non arri­ve­ranno mai, si è comun­que prov­ve­duto a scas­sare il ter­ri­to­rio in vari punti lungo le tra­iet­to­rie di que­ste auto­strade per met­tere tutti di fronte al fatto com­piuto: in qual­che modo quei soldi dovranno sal­tare fuori, per­ché intanto il danno è fatto.

Dul­cis in fundo, il pro­getto ini­ziale pre­ve­deva un canale navi­ga­bile per farvi arri­vare in barca i visi­ta­tori - le “vie d’acqua” - paral­lelo a un navi­glio leo­nar­de­sco, come segno di sfida tra “moderni” e “anti­chi”. Nel corso del tempo quel pro­getto si è tra­sfor­mato in una fogna in cemento di due metri di lar­ghezza, per far defluire le acque della fon­tana che ornerà la “pia­stra”. Poi si è deciso di inter­rarne una buona parte per far fronte alle pro­te­ste degli abi­tanti di alcuni quar­tieri. Ma il costo è rima­sto immu­tato (80 milioni) e l’appaltatore pure (Mal­tauro, quello delle maz­zette); anche se il pro­getto non sarà comun­que pronto per l’Expo.

Poi c’è il “dopo”. Che fare di tutto quel cemento? Pro­blema risolto: For­mi­goni e Maroni vole­vano farci le Olim­piadi. Ma Roma ha detto no. Pisa­pia ha ripie­gato su uno sta­dio. Non che a Milano uno sta­dio, man­chi. C’è; si chiama San Siro. Ma gra­zie a una legge appro­vata dal governo Monti oggi fare uno sta­dio vuol dire poter costruire alber­ghi, case, cen­tri com­mer­ciali, par­cheggi, disco­te­che e cinema mul­ti­sala: cioè altro cemento. Finan­ziato dalle stesse ban­che che, per con­ce­dere i nuovi pre­stiti, pren­de­ranno in garan­zia, come fanno da tempo, i grat­ta­cieli vuoti già edi­fi­cati con i pre­stiti pre­ce­denti, che quei costrut­tori, quasi tutti in ban­ca­rotta, non sono in grado di rimborsare.

Il pro­blema vero che tutti i cit­ta­dini di Milano e d’Italia si pon­gono è invece que­sto: quante altre cose mera­vi­gliose si sareb­bero potute fare con i miliardi dell’Expò? Ma è una domanda che a Pisa­pia non ha fatto nessuno.

Il Fatto Quotidiano, 20 maggio 2014

La riforma della P.A. annunciata dal premier Matteo Renzi e dalla ministra Marianna Madia prevede di superare i “blocchi” dei pareri paesistici e delle Soprintendenze (“dobbiamo ridurre i casi in cui il parere serve”, ha detto Renzi). La filosofia sottostante è quella espressa da Giovanni Valentini su Repubblica: le soprintendenze “troppo spesso” sarebbero “di freno e ostacolo allo sviluppo”. Galoppando su questa linea, che si potrebbe chiamare delle mani (libere) sul territorio, alcuni senatori del Partito Democratico hanno usato la legge di conversione del cosiddetto Decreto Casa (sarà approvata definitivamente oggi, dopo che ieri la Camera ha detto sì alla questione di fiducia del governo) per imbucare un articolo che allarga la possibilità - già concessa dal lettiano decreto del Fare - di installare ovunque “case mobili” senza chiedere alcun permesso di costruire.

Così le piazzole per tende dei campeggi di tutta Italia potrebbero trasformarsi per incanto in altrettante schiere di casette e bungalow: e, chissà, un domani potrebbero mettere radici e trasformarsi in vere case di vero cemento. Molte recenti sentenze dei Tar, del Consiglio di Stato e della Cassazione hanno invece ribadito che se questi insediamenti sono permanenti (per esempio attraverso l’allaccio alle reti idriche, energetiche e fognarie ), essi incidono sul territorio e dunque devono passare attraverso tutti i vagli di legge. Al contrario, l’emendamento del Pd permette di fare esattamente quel che sognano Renzi e Madia, e cioè aggirare piani regolatori, piani paesaggistici e vincoli e costruire ovunque: perfino nei parchi nazionali o in aree archeologiche. Un parere dell’Ufficio legislativo del Mibac ha cercato di circoscrivere le nefaste conseguenze di questo punto del decreto del Fare, chiarendo che le autorizzazioni paesaggistiche non possono essere omesse: ma si tratta pur sempre solo di un parere, e questa nuova riscrittura della legge rischia di aprire un grosso varco. Un varco alla costruzione di strutture ufficialmente mobili, è vero: ma la storia italiana insegna che non c’è niente di più stabile dell’effimero. E le nostre pinete e le nostre coste non hanno certo bisogno di un’ondata di urbanizzazione selvaggia.

Il simpatico grimaldello distruggi-paesaggio, introdotto in Senato, da oggi sarà legge grazie alla scelta del governo di includerlo nel pacchetto sottoposto a duplice voto di fiducia, che rende nere tutte le vacche nella notte della democrazia. I promotori sono stati quattro senatori pd: Stefano Collina, primo firmatario, eletto in Emilia Romagna, Mario Morgoni, eletto nelle Marche, Andrea Marcucci e Manuela Granaiola, entrambi eletti in Toscana ed entrambi firmatari nel novembre scorso di un emendamento che aveva l’obiettivo di vendere ai proprietari degli stabilimenti balneari le spiagge demaniali che hanno in concessione per “contribuire al risanamento dei conti pubblici”. Un provvedimento che hanno poi dovuto ritirare, sommersi dall’onda di sdegno suscitata da un’idea di svendita dei beni comuni tanto intimamente berlusconiana.

È da notare che Marcucci (già Pli, già Lista Dini, già Margherita, ora renziano di ferro) è stato sottosegretario ai Beni culturali (e dunque anche al paesaggio) ed è ora nientemeno che presidente della commissione Cultura del Senato. Difficile liquidare questa uscita come l’iniziativa estemporanea del primo che passa: è invece un segno del fatto che la “Svolta buona” di Renzi rischia di avere un inconfondibile color cemento. E c’è da chiedersi se non sia proprio a causa di questo orientamento “maniliberista” del senatore Marcucci se la commissione del ministero per i Beni culturali (presieduta da Salvatore Settis, che certo ha un altro orientamento) che dovrebbe revisionare il Codice dei Beni culturali e del paesaggio non sia ancora riuscita, dopo nove mesi dalla nomina, ad avere la delega dal Parlamento.

Il caso è stato sollevato pubblicamente dal consigliere nazionale di Italia Nostra Emanuele Montini, e inutilmente nelle ultime ore il blog Carteinregola (che riunisce centotrenta associazioni e comitati romani) ha scritto ad ogni deputato “sperando che qualche politico di buon senso, come è già successo per la privatizzazione delle spiagge,faccia sentire la voce dei cittadini più forte di quella delle lobbies”.

Antonio Cederna non si stancava di ripetere che bisogna stare attenti “perché sennò ci strappano il territorio da sotto i piedi, perché l’Italia è il Paese più provvisorio che ci sia”. È ancora così. Il Paese è terribilmente provvisorio, ma le case provvisorie di cui Marcucci & c. vorrebbero coprirlo rischiano, invece, di essere eterne.

Riferimenti

Sull'argomento vedi su eddyburg gli articoli di Annamaria Bianchi e, dal manifesto, di Paolo Berdini.

Stasera la banca d’affari newyorchese Morgan Stanley accoglierà i suoi danarosissimi ospiti per una cena ultraesclusiva (organizzata dall’albergo di lusso Four Seasons) nel Cappellone degli Spagnoli, che è la sala capitolare trecentesca di Santa Maria Novella a Firenze. Si chiama così perché, a metà del Cinquecento, divenne la cappella dove si riunivano gli spagnoli del seguito di Eleonora di Toledo, moglie del granduca Cosimo I. È, insomma, una chiesa – con tanto di grande crocifisso marmoreo sull’altare – completamente coperta di affreschi che raccontano la spiritualità e le opere dell’ordine mendicante fondato da San Domenico.

La brillante idea di usarla come location al servizio della grande finanza responsabile della crisi è del vicesindaco e candidato a sindaco Dario Nardella: la cappella è, infatti, compresa nel circuito museale comunale. Rispettando più il desiderio di discrezione del gruppetto di super-ricchi che non il diritto dei cittadini a essere informati dell’uso del loro patrimonio monumentale, il Comune ha tenuto finora segreto l’evento. Ma si apprende che il beneficio economico sarà minimo: meno di 20 mila euro, che dovrebbero essere destinati al restauro di un’opera d’arte. La precipitosa e silenziosa organizzazione della serata – gestita direttamente da Lucia De Siervo, responsabile della Direzione cultura di Palazzo Vecchio e membro del cerchio magico renziano – potrebbe comportare la temporanea chiusura della chiesa di Santa Maria Novella (eventualità che ha fatto infuriare il Fondo Edifici di Culto del ministero dell’Interno, proprietario del tempio), e obbligherà a collocare le cucine in un chiostro del convento ancora di proprietà dei frati, all’oscuro di tutto.

Nardella, evidentemente, non cambia verso rispetto a Renzi: l’unico uso del patrimonio pubblico è ancora quello commerciale. Ma vista la grottesca esiguità del canone, è evidente che il vero movente è piuttosto quello di disporre di queste location per costruire e consolidare la rete dei rapporti politici ed economici del gruppo dirigente renziano, assai proclive a frequentare la più spregiudicata finanza internazionale. Colpisce che il connubio chiesa-lusso-affari non turbi i sonni di politici che non perdono occasione per esibire il proprio cattolicesimo. Negli affreschi del Cappellone i milionari vedranno San Domenico, ardente di amore per la povertà, che converte e confessa coloro che vivono nel lusso: ci si riconosceranno? Poco più in là vedranno rappresentato il trionfo di San Tommaso d’Aquino, il grande filosofo medioevale che scrisse che “il lucro non può essere un fine, ma solo una ricompensa proporzionata alla fatica”, e che “nessuno deve ritenere i beni della terra come propri, ma come comuni, e dunque deve impiegarli per sovvenire alle necessità degli altri”. Chissà cosa avrebbe pensato se avesse saputo che la sua immagine dipinta avrebbe un giorno decorato la location di un banchetto per i super squali che hanno costruito la più grande disuguaglianza della storia umana.

Il prossimo passo quale sarà? Far sfilare modelle in biancheria intima su un altare? Ma si è già fatto, e proprio a Firenze: in Santo Stefano al Ponte, con la benedizione della Curia. Si arriverà a prestare pezzi di chiese gotiche a centri commerciali? Già fatto anche questo: Oscar Farinetti ha appena annunziato che porterà un pezzo del Duomo di Milano nel suo supermercato sulla Fifth Avenue, a New York, per la precisione “due guglie”. E sì, la Veneranda Fabbrica del Duomo (quella che voleva mettere un ascensore per fare una terrazza da aperitivi sul tetto della Cattedrale) gli presta due guglie da tempo musealizzate, con relative statue di santi. Non per un progetto scientifico, ma come attrazione: insieme a quattro di quelle che Farinetti ha chiamato “grondaie” (le gronde gotiche), e a quella che ha definito “una statua di Santa Lucia incinta”. Ora, Santa Lucia era vergine e finì martire: ma incinta non risulta, e probabilmente l’esuberante Farinetti ha frainteso la veste goticamente cinta sotto il seno della bellissima Santa Lucia del Maestro del San Paolo Eremita, che verrebbe strappata al circuito del Museo del Duomo. Ma il punto non è la gravidanza della statua, né la cultura del patron di Eataly: il punto è chiedersi se abbia senso portare pezzi di una grande chiesa medioevale in un supermercato di cibo a New York, o far banchettare i banchieri in una chiesa del Trecento.

Il Vangelo dice che non si può servire a due padroni, e che si deve scegliere tra Dio e il denaro: bisogna riconoscere che sia la Veneranda Fabbrica sia Nardella hanno scelto. Ma anche chi non ha scrupoli religiosi dovrebbe preoccuparsi per la distruzione della funzione civile del patrimonio culturale. Chi crede nel marketing dovrebbe interrogarsi sulla ridicola entità degli utili, e chi immagina che questa privatizzazione sia la via del futuro dovrebbe farsi qualche domanda sulla mancanza di trasparenza. Gli unici che in nessun caso avranno dubbi sono i pochissimi che ci guadagnano: questo è certo.

Tutti piangono la città, la società e l'ambiente feriti a morte, insieme a lavoro e operai. Quarant'anni fa si prevedevano le conseguenze, nessuno ascoltava, Cederna considerato una Cassandra: ma le visioni della sacerdotessa di Apollo erano sempre giuste. Il manifesto, 15 maggio 2014

«Sof­fo­cata a occi­dente dall’enorme zona indu­striale (cen­tro side­rur­gico Ital­si­der) e a oriente da una sgan­ghe­rata espan­sione edi­li­zia, Taranto offre oggi al visi­ta­tore uno spet­ta­colo rac­ca­pric­ciante, esem­pio da manuale di che cosa può pro­durre il sonno della ragione, cioè il siste­ma­tico disprezzo per le norme ele­men­tari del vivere asso­ciato nel nostro tempo». Non è un’inchiesta dei giorni nostri, è un arti­colo pro­fe­tico di Anto­nio Cederna sul Cor­riere della Sera del 18 aprile del 1972, qua­ran­ta­due anni fa. In un pezzo di qual­che giorno prima aveva scritto: «Era logico pen­sare che un’impresa così gigan­te­sca che coin­volge tutto il ter­ri­to­rio dovesse essere inqua­drata in un prov­ve­di­mento urba­ni­stico ed eco­no­mico stret­ta­mente coor­di­nato e inte­grato con ogni altra atti­vità (agri­col­tura, media e pic­cola indu­stria, difesa delle risorse ambien­tali, edi­li­zia eco­no­mica e popo­lare, ecce­tera) prov­ve­dendo nello stesso tempo ad affron­tare i pro­blemi creati dal pro­prio peso schiac­ciante (dalla pro­gres­siva ana­lisi del traf­fico all’inquinamento dell’aria e dell’acqua).

Niente di tutto que­sto: è tri­ste dover rico­no­scere che l’industria a par­te­ci­pa­zione sta­tale, che bene­fi­cia di enormi con­tri­buti e age­vo­la­zioni da parte dello Stato pre­tende di far a meno di piani che appena esor­bi­tino dal suo limi­tato set­tore e, gio­van­dosi della debo­lezza dei respon­sa­bili a tutti i livelli, impone le pro­prie scelte par­ti­co­lari alla comu­nità». Cederna si rife­ri­sce al rad­dop­pio (da mille a due­mila ettari) del cen­tro side­rur­gico allora avviato, con lavori ciclo­pici che alte­ra­vano la geo­gra­fia dei luo­ghi, in con­tra­sto con gli stru­menti urbanistici.
Eppure, in que­gli stessi anni, il Comune di Taranto era attra­ver­sato da sor­pren­denti spinte inno­va­tive, quasi con­tem­po­ra­nea­mente a Bolo­gna, e comin­ciava a pro­get­tare il recu­pero del cen­tro sto­rico, cioè di Città Vec­chia, l’isola, anima e sim­bolo di Taranto, che separa il Mar Pic­colo dal Mar Grande, dove si erano inse­diati i primi coloni greci. Fu una vicenda straor­di­na­ria legata al nome dell’architetto Franco Blan­dino, che ha dedi­cato la vita allo stu­dio, alla con­ser­va­zione e alla rina­scita della sua città (espe­rienza che Enrico Gri­foni e altri gio­vani urba­ni­sti stanno cer­cando di rilan­ciare). Nel 1974 il Con­si­glio d’Europa rico­nobbe a Bolo­gna e a Taranto il pri­mato in mate­ria di recu­pero del patri­mo­nio abi­ta­tivo sto­rico. E gra­zie alle leggi di riforma degli anni Set­tanta e a ces­sioni volon­ta­rie il comune acquisì circa tre­cento alloggi degra­dati desti­nan­doli a edi­li­zia popo­lare. La mag­gior parte delle poche fami­glie che oggi abi­tano nella Città Vec­chia sono inqui­lini di que­gli alloggi. Il recu­pero andò avanti abba­stanza coe­ren­te­mente fino all’inizio degli anni Ottanta, soste­nuto in par­ti­co­lare dal sin­daco comu­ni­sta Giu­seppe Can­nata, in carica dal 1976 al 1983.

Poi, a mano a mano, è cam­biato tutto e il recu­pero è finito su un bina­rio morto. Nel 1993 fu eletto sin­daco Gian­carlo Cito, una spe­cie di Ber­lu­sconi in for­mato ridotto. Anche lui, all’inizio degli anni Novanta, usando spre­giu­di­ca­ta­mente una sua tele­vi­sione locale, rac­colse cre­scenti con­sensi e nel 1993 fu eletto sin­daco con un suo par­tito, AT6 — Lega d’Azione Meri­dio­nale. Assunse ini­zia­tive spet­ta­co­lari, ma durò poco. Nel 1995 fu rin­viato a giu­di­zio per con­corso esterno in asso­cia­zione mafiosa. Depu­tato nel 1996, è stato poi defi­ni­ti­va­mente con­dan­nato e incar­ce­rato. Da ricor­dare anche Ros­sana Di Bello, la prima donna sin­daco di Taranto dal 2000 a 2006, espo­nente di Forza Ita­lia, che pro­vocò un pau­roso dis­se­sto nelle finanze comunali.

Intanto Taranto diventa sem­pre più «la pic­cola appen­dice di un gigan­te­sco mon­nez­zaio» (Adriano Sofri). Accanto al più grande cen­tro side­rur­gico d’Europa con­vi­vono un porto indu­striale, una raf­fi­ne­ria, un cemen­ti­fi­cio, due ter­mo­va­lo­riz­za­tori, cen­ti­naia di altre atti­vità cre­sciute ver­ti­gi­no­sa­mente: un immane com­plesso indu­striale è sca­gliato addosso a una città dalle strut­ture fra­gi­lis­sime. Dall’inizio dell’industrializzazione, la super­fi­cie urba­niz­zata si è almeno decu­pli­cata, da circa 500 a oltre 5.000 ettari, più della metà per atti­vità produttive.

Una città e un pae­sag­gio fino a cinquant’anni fa di emo­zio­nante bel­lezza, sono oggi irri­co­no­sci­bili. L’isola versa in con­di­zioni orri­bili, è in rovina, in gran parte disa­bi­tata e murata per impe­dire l’accesso nelle aree a rischio di crolli. I muri espo­sti ai venti che ven­gono dalla fab­brica sono mar­cati dai segni ros­sa­stri delle pol­veri dei par­chi mine­rari cri­mi­no­sa­mente col­lo­cati a ridosso del cimi­tero, del cen­tro sto­rico e del quar­tiere Tam­buri. Ai bam­bini del quar­tiere è proi­bito gio­care negli spazi verdi (si fa per dire) con­ta­mi­nati da beril­lio, anti­mo­nio, piombo, zinco, cobalto nichel e altri veleni. La rovina col­pi­sce anche la cam­pa­gna in gran parte tra­sfor­mata in una scon­fi­nata e deso­lata distesa di ster­pa­glie bru­ciate dal sole e dagli incendi. Viene proi­bito l’allevamento del bestiame e sono sop­pressi gli ani­mali con­ta­mi­nati. Sono state smal­tite in disca­rica mon­ta­gne di cozze col­ti­vate nel Mar Piccolo.

Ma la poli­tica locale e nazio­nale e i sin­da­cati stanno dalla parte dell’industria, in difesa pur­ches­sia del lavoro, poco attenti alle con­se­guenze mici­diali di una dis­sen­nata indu­stria­liz­za­zione. I primi con­trolli ambien­tali a norma di legge comin­ciano nel 2006 con la pre­si­denza di Nichi Ven­dola alla Regione Puglia. All’assenza di poli­ti­che pub­bli­che la città risponde con la ricerca pri­vata di migliori con­di­zioni ambien­tali. I taran­tini vol­tano le spalle alla fab­brica e fug­gono verso est, da capo San Vito a Marina di Pul­sano e oltre, in quella «sgan­ghe­rata peri­fe­ria» che dalla denun­cia di Cederna del 1972 ha con­ti­nuato a essere coman­data dal cemento e dall’asfalto. In trent’anni, i resi­denti in città sono dimi­nuiti di circa 30 mila, una spe­cie di si salvi chi può.

La scena cam­bia repen­ti­na­mente nel luglio del 2012, quando la giu­dice per le inda­gini pre­li­mi­nari Patri­zia Todi­sco impone all’Ilva della fami­glia Riva di sospen­dere la pro­du­zione fino a quando non fos­sero eli­mi­nate le emis­sioni nocive. L’Italia del Palazzo rimane spiaz­zata e cerca impos­si­bili com­pro­messi. Il mini­stro dell’Ambiente Cor­rado Clini arriva a negare la sto­ria soste­nendo che è stata la città a cir­con­dare la fab­brica. Il con­tra­sto fra la magi­stra­tura da una parte e il governo e l’Ilva dall’altra diventa imba­raz­zante e set­tori sem­pre più vasti dell’opinione pub­blica si schie­rano a soste­gno della magistratura.

Si sus­se­guono le inchie­ste, i ser­vizi gior­na­li­stici, le inter­vi­ste, i son­daggi, che affron­tano soprat­tutto il rap­porto fabbrica-salute dando conto dei gra­vis­simi danni inflitti ai lavo­ra­tori e a tutti i taran­tini dall’apocalittico inqui­na­mento. Ma non man­cano le dispe­rate dichia­ra­zioni di chi pre­fe­ri­sce la morte alla disoccupazione.

La vasta discus­sione sull’inquinamento tra­scura però quasi del tutto le vistose respon­sa­bi­lità del Comune e degli altri pub­blici poteri in mate­ria di poli­ti­che ter­ri­to­riali. Men­tre avanza il degrado, le scelte più impor­tanti fra Comune e Regione hanno riguar­dato il discu­ti­bile impianto — in loca­lità Cimino, in pros­si­mità del cen­tro com­mer­ciale Auchan e della lot­tiz­za­zione Sir­com, sem­pre nella sgan­ghe­rata peri­fe­ria orien­tale — del nuovo polo ospe­da­liero S. Cataldo, che sosti­tui­sce l’antico ospe­dale della SS. Annun­ziata e quello più recente di Statte.

Invece, a Taranto, pro­prio per com­pen­sare la pre­po­tenza di una spie­tata indu­stria­liz­za­zione sarebbe stato impor­tante — è impor­tante — un impe­gno ecce­zio­nale di Comune e Regione per non arren­dersi alla spi­rale per­versa della degra­da­zione e dell’abbandono. Ma forse non tutto è per­duto se in un recente docu­mento di Anna Migliac­cio desti­nato alla Regione si legge quanto segue. «Per ricon­ci­liare ambiente e società biso­gna appron­tare la cura per i danni accer­tati e, con­tem­po­ra­nea­mente, costruire una nuova via allo svi­luppo locale, ripar­tendo dai valori patri­mo­niali resi­stenti. Taranto è una città ancora ricca di risorse e, mal­grado le offese, capace ancora di con­vin­cente bel­lezza. (…). Dallo splen­dore resi­stente di que­sta anti­chis­sima città del Medi­ter­ra­neo si può e si deve ripar­tire per ritro­vare il ban­dolo del futuro»

Verso il Castello. Foto F.B.

Botta e risposta sul monumento “effimero” (non si sa quanto) che dovrebbe accogliere il visitatore nel suo percorso dalla città storica verso il sito espositivo e i suoi contenuti culturali. Fulvio Irace e Giancarlo Consonni si schierano rispettivamente pro e contro le scelte progettuali. La Repubblica, 8 e 10 maggio 2014, postilla (f.b.)

L’EXPO GATE ASCOLTA ILCUORE DELLA CITTÀ

di Fulvio Irace

Sabato 10 maggio sarà il giorno della riconciliazione tra Milano e il cantiere dell’Expo: alle 17.30 una parata musicale da piazza San Babila raggiungerà via Beltrami, nella zona di Piazza Castello, dove sarà consegnato alla città Expo Gate, il complesso dei due padiglioni gemelli che funzioneranno da infopoint della manifestazione e, si spera, da centro di rianimazione di un’operazione che sino a questo momento è apparsa a molti tanto problematica quanto nebulosa. Nonostante la sua trasparenza, il Gate di vetro e metallo non sarà tuttavia il Cristal Palace di Milano: progettato dall’architetto Alessandro Scandurra, può essere infatti considerato come un sincero contributo alla storia di Milano capitale del Moderno: laboratorio di un progetto che ancora non è si arreso agli stereotipi del pensiero unico e anzi sfrutta i pochi spazi ancora a disposizione per rivitalizzare una tradizione che la nuova Milano di porta Garibaldi e dell’ex Fiera ha cercato di sterilizzare e rendere del tutto obsoleta.

Per quanto marginali e temporanei, i due padiglioni di Scandurra ci danno una misura di come sarebbe potuta essere Milano se la sua pianificazione fosse stata più meditata e meno succube alle esigenze del Real Estate e dei capitali globali. Cos’ha di particolare l’Expo Gate che i milanesi dovrebbero imparare ad apprezzare, se non amare? Innanzitutto la devozione di un pensiero progettuale che non parte da una forma stravagante da vendere come scatola delle meraviglie per indigeni ingenui. Il progetto è semplice e al tempo stesso sottile e complesso. Parte dal luogo e cerca di dare una risposta alle esigenze di rivitalizzazione di un’area che funzionava più o meno da parcheggio o da crocevia caotico di traffico. La pedonalizzazione dell’area del Castello ha trovato così una giustificazione e una gratificazione per i cittadini che rinunciando all’auto troveranno il piacere di una piazza che mette in evidenza la visuale del rettilineo di via Dante con i suoi corollari monumentali. Un commentario, insomma, sulla città ottocentesca del Beruto, ma anche alla visionarietà del grande piano del Foro Bonaparte dell’Antolini, che rende omaggio a uno dei punti più consolidati dell’urbanistica milanese. I due padiglioni gemelli sono infatti inclinati in modo da lasciare sempre aperta questa visuale e anzi rafforzare l’asse tra la Torre del Filarete, la fontana e la statua di Garibaldi. Questo gesto suggerisce un metodo di intervento basato sulla suggestione del famoso libro dedicato a Milano da Alberto Savinio: “ascolto il tuo cuore città”.

Folla il giorno di inaugurazione. Foto F.B.

Fa parte di quest’ascolto anche la forma dei padiglioni: due triangoli di sottili aste metalliche che fanno pensare a prima vista a un castello di carte o al gioco di bastoncini shangai. Subito dopo affiorano alla mente, però, i disegni del Cesariano che nel 1521 mostrava le geometrie triangolari del Duomo di Milano come un miracolo di equilibrio tra verticalismo gotico e armonie rinascimentali. Ma si pensa anche agli allestimenti razionalisti della vicina Triennale dove Albini e Persico negli anni Trenta sfidavano le leggi della gravità disegnando impalcature di tubi sottili per sostenere immagini ed oggetti. Di questo va reso grazie a Scandurra: di aver tenuto alta la posta e restituito un’immagine di Milano né conservatrice né pacchiana. Sembra poco? Basta spostarsi in piazza San Babila con il suo funesto baldacchino per la vendita di maglie e gadget per decidere la risposta.

CHE SCEMPIO QUEI CASELLIDAVANTI AL CASTELLO

di Giancarlo Consonni

Verrebbe da scegliere il silenzio. Perché, dopo questo mio intervento, chi ha responsabilità di governo della città potrà ribadire la formula auto-assolutoria: «È un progetto di rottura, e come tutti i progetti di questo tipo possono piacere e non piacere». Solo che scempio e rottura non sono sinonimi. Dopo le rotture — gli accanimenti littori e la spregiudicatezza postbellica a celebrazione del mito della capitale economica — questa nostra Milano, un tempo cultrice di una bellezza riservata (Alberto Savinio), ha visto moltiplicarsi gli scempi, piccoli e grandi, in misura esponenziale.

La bruttezza dilagante sta diventando il marchio di una fase storica iniziata con la dismissione industriale (e la Milano da bere), di cui non si intravede la fine. Eppure Fulvio Irace (nel suo intervento pubblicato su Repubblica Milano di giovedì 8 maggio) dice che i due organismi gemelli dell’Expo gate firmati da Alessandro Scandurra sono il segno di una svolta. Parto da Carlo Emilio Gadda che, con Savinio, è l’altro grande interprete novecentesco dell’anima di Milano. Si legge nell’Adalgisa: «Valerio ed Elsa, nella luce di un pomeriggio bramantesco, poterono involarsi alla folla, e alla guardatura della sfavillante lanterna filaretiana, che li aveva seguitati fin là, cioè fino allo sbocco di via degli Orefici nella piazza del re a cavallo, e del duomo».

Qui Gadda rende omaggio a Luca Beltrami: a quel falso storico che è il Castello Sforzesco, il capolavoro architettonico- urbanistico che ha consentito a Milano di trovare una degna conclusione all’asse di via Dante e di muoversi in direzione di un rinnovato policentrismo. Una linea su cui il Novecento non ha saputo/voluto proseguire (con conseguente indebolimento dell’armatura urbana). Bene: fin da via Orefici, man mano che si procede verso il fulcro della torre “del Filarete”, i “caselli” di Scandurra manifestano il loro carattere di corpi estranei: sono due ospiti invadenti e ottusi, sbagliati sul piano urbanistico come su quello architettonico.

Piazza Castello necessitava di essere sottratta alla funzione di parcheggio che l’aveva degradata? Certamente; ma l’operazione avrebbe dovuto limitarsi a un’adeguata sistemazione della pavimentazione e delle sedute che ne esaltasse il doppio carattere di interno urbano e di soglia. Per il resto l’architettura di questo spazio era già ottimamente definita sui quattro lati.

Viene rispettata la simmetria rispetto all’asse via Dante-Castello? Questo non garantisce alcunché dal momento che i due bianchi gemelli di ferro e vetro si oppongono al luogo. Lo occupano spaccandolo: forzano la prospettiva in senso assiale, quando qui l’interazione di quanto c’è già è ben più ricca e complessa. Per questo il vuoto non andava riempito: occorreva solo favorire l’interazione dialogica e sinfonica delle presenze che lo strutturano come un palcoscenico: i fulcri del Castello e del monumento equestre a Garibaldi e le testate dei due grandi circus del Foro Bonaparte (architettura raffinata nell’impaginato quanto negli accostamenti materico-cromatici, perfettamente integrata dai possenti bagolari). I due intrusi sono sbagliati anche sul piano architettonico. Velleitaria combinazione di ludico e gotico, non riescono a mascherare la loro natura di parvenu. Quanto è lontana la leggerezza armoniosa dell’architettura di ferro e vetro con cui l’Ottocento ha costruito esposizioni, biblioteche e giardini d’inverno.

postilla

Expo Gate verso via Dante. Foto F.B.

Senza nulla aggiungere o togliere alle considerazioni sulla forma urbana dei due illustri studiosi, va sottolineato quanto non solo il loro approccio sia deliberatamente teorico-critico, ma anche che essi sviluppano i propri ragionamenti a partire dai rapporti fra progetto, contesto, storia. In pratica, anche indipendentemente dalle specifiche scelte degli Autori, le cose di cui parlano non possono basarsi anche, eventualmente, sul modus operandi “a regime” dell'Expo Gate, inaugurato insieme all'operativa pedonalizzazione di Piazza Castello dalla giornata di sabato 10 maggio. Ebbene, quello che accade operativamente, in questa giornata in cui la solita folla di milanesi e city users si sposta sull'asse Duomo-Sempione, è che quel portale rappresenta un vero e proprio tappo, visivo come sottolinea Consonni, ma anche e soprattutto rispetto ai flussi. Il sistema della pedonalizzazione sull'ultimo tratto di via Dante, di fatto si interrompe in una serie di strettoie, per iniziare di nuovo a respirare, visivamente e letteralmente, nella nuova piazza ancora in attesa di sistemazione e arredi. Se questa scelta è deliberata, si tratta di una patente sciocchezza. Se, come si spera vivamente, dopo l'evento quella discutibile ingombrante architettura verrà smontata, e la torre del Filarete restituita a chi si avvicina dalla direzione del Duomo, magari si potrà discutere quale soluzione di continuità pensare, per uno spazio in effetti forse un po' troppo vasto per la sola libera circolazione dei pedoni. Qualcuno dal Comune aveva insinuato tempo fa “stiamo lavorando per rendere definitivo l'Expo Gate”, beh: si riposi un po', ha già lavorato a sufficienza, e fatto abbastanza danni così (f.b.)
p.s. vista l'esplosione dello scandalo tangenti più o meno in contemporanea all'inaugurazione della struttura, la scelta del nome "ExpoGate" si rivela nefasta

La nuova urbanistica (che ha un cuore antico): «Ciò che conta non sono più i contenuti delle scelte insediative e pianificatorie, ma la loro funzionalità a muovere il business immobiliare da spartirsi». Inviato a eddyburg il 10 maggio 2014

“Per piacere: evitateci lo stupore scandalizzato, «chi se lo immaginava?», «non l’avrei mai detto…». Tutto sono, gli arresti di ieri per l’Expo 2015, tranne che una clamorosa sorpresa. Perché, ferma restando l’innocenza di tutti fino alle sentenze, le cose stavano procedendo esattamente come era andata troppe altre volte. Il solito copione. Recitato per i Mondiali di nuoto, le Universiadi, la World Cup di calcio, l’Anno Santo... Anni perduti nei preliminari, discussioni infinite sui progetti, liti e ripicche sulla gestione e poi, di colpo, l’allarme: oddio, non ce la faremo mai! Ed ecco l’affannosa accelerazione, le deroghe, il commissariamento, le scorciatoie per aggirare lacci e lacciuoli, le commesse strapagate, i costosissimi cantieri notturni non stop.”

Così scrive G.A. Stella nell’editoriale del Corriere della Sera del 9 maggio scorso. Parole sante, cui ci sarebbe poco o nulla da aggiungere, se non fosse che mettendo sullo stesso piano inefficienze, litigi e ripicche, ritardi e deroghe nella procedura attuativa dei progetti con il terreno germinativo di quelle distorsioni, e cioè ciò che Francesco Indovina nel bel titolo di un suo libro del 1993 ha icasticamente definito “la città occasionale”, si rischia di oscurare la radice originaria su cui quelle distorsioni trovano modo di attecchire e prosperare e cioè la sostanziale sfiducia in un progetto di lungo periodo della città, fondato su scelte collettivamente discusse e condivise, ciò che costituisce il nucleo fondativo del pensiero urbanistico moderno. Non è un caso che le pratiche corruttive all’ origine dell’ondata di arresti non riguardino solo il progetto di Expo 2015, maturato originariamente dalla collusione della lobby politico-affaristica di Cl-Compagnia delle Opere annidatasi contestualmente nella conduzione politica e dirigenziale dell’assessorato all’urbanistica del Comune di Milano - tenuto dai ciellini Lupi prima, durante la sindacatura Albertini,e Masseroli poi, durante la sindacatura Moratti -; della lunga presidenza del ciellino Formigoni alla Regione Lombardia e infine della presidenza di Fondazione Fiera, consegnata da Formigoni al ciellino Luigi Roth.
Roth, con la straordinaria valorizzazione immobiliare consentitagli dal Comune di Milano nella vendita dell’area dismessa del vecchio recinto fieristico in città, ha trovato le risorse non solo per completare il nuovo polo fieristico di Rho-Pero, ma anche quelle per acquisire a basso costo le aree a destinazione agricola su cui oggi si sta attuando in modo raffazzonato l’evento Expo 2015, dopo averle cedute a prezzo quasi decuplicato alla società regionale Arexpo. La medesima distorsione corruttiva, con il coinvolgimento più o meno delle stesse figure dirigenziali nelle istituzioni e stessi referenti del mondo della sussidiarietà, cooperazione e imprenditoria di vario orientamento politico si ritrova, infatti, anche nella vicenda della Città della Salute a Sesto San Giovanni (comune da sempre amministrato dalle sinistre) quasi a forza ficcata nello strumento-veicolo delle aree pubbliche del piano di valorizzazione immobiliare dell’ex acciaieria Falck, che, in deroga al PRG, ha ottenuto gli stessi assurdi indici edificatori dell’ex Fiera di Milano, come ormai giudizialmente accertato grazie alle facilitazioni mediate dall’ex sindaco Penati, a seguito dei contributi erogati dalla proprietà immobiliare alla sua Fondazione “Fare Metropoli”.
La scelta di realizzazione a Sesto di una nuova cosiddetta Città della Salute per riallocarvi integralmente gli istituti scientifico-ospedalieri di Milano (Neurologico Besta, Istituto Nazionale Tumori, ecc.) ora insediati nel quartiere Città Studi e che avrebbero potuto più utilmente trovare spazio alle proprie esigenze di riassetto funzionale in aree pubbliche, oggi sottoutilizzate e attigue alle sedi esistenti, appare, quindi, più che altro un’opzione orientata ad alimentare una catena di prospettive immobiliari (il passo successivo sarebbe inevitabilmente quello del riutilizzo immobiliare delle vecchie sedi liberate in città). Ciò favorisce la possibilità di condizionamento corruttivo da parte di ambiti imprenditoriali clientelari delle varie tendenze politiche, e non, viceversa, una scelta insediativa razionalmente individuata dalle pubbliche amministrazioni nel pubblico interesse.
Le vicende giudiziarie di questi giorni ne sono la coerente conseguenza e non un incomprensibile episodio dovuto ad avidità o debolezze umane di singoli individui. Certo la fretta necessitata forse ad arte dai ritardi procedurali e il conseguente allentamento dei controlli di legittimità sono un’ulteriore facilitazione al prevalere della spartizione clientelare dei frutti del condizionamento corruttivo, ma la ragione di fondo è la sudditanza della pianificazione pubblica ad esigenze particolaristiche, cosa che ormai caratterizza quasi indifferentemente amministrazioni locali di qualsiasi colore politico a fronte di bilanci pubblici sempre più asfittici e condizionabili da economie esterne.
Ciò che conta non sono più i contenuti delle scelte insediative e pianificatorie, ma la loro funzionalità a muovere il business immobiliare da spartirsi. É ciò che si profila all’orizzonte per il destino finale dell’area dell’Expo 2015, dopo l’evento intitolato al tema “Nutrire il pianeta” (un grande tema sfruttato come mero pretesto per giustificare i cambi di destinazione d’uso, dato che trascura completamente il rapporto tra settore agro-alimentare e modi di produzione sul territorio) nel semestre maggio-ottobre 2015, che quasi certamente si concluderà con un clamoroso “flop” di affluenza dei visitatori ed un enorme deficit di bilancio.
Ciò servirà a giustificare la necessità di rivendere l’area ad uno scalpitante mondo della sussidiarietà cooperativistica ansioso di nuove occasioni in campo edilizio e dei servizi sociali, in particolare su un’area resa accessibile dall’infrastrutturazione per l’evento Expo, ma quanto mai isolata dal resto del contesto sociale ed urbano. Un vero e proprio feudo per il rilancio di collateralismi negli ultimi decenni ormai svaniti nella crisi di credibilità della politica propriamente detta. Solo con questo orizzonte allargato di considerazioni potremo evitare che episodi come quelli di questi giorni tornino nuovamente ad apparirci come imprevedibili e sorprendenti.

Gli arresti per tangenti Expo illuminano di luce sinistra anche il grande progetto “itinerante” per anni nell'area metropolitana. Corriere della Sera Milano, 9 maggio 2014, postilla (f.b.)

Di nuovo sanità e affari sporchi. Stavolta il tentativo è stato quello di spartirsi illecitamente appalti per quasi 350 milioni di euro. Sono quelli del più importante progetto di edilizia sanitaria d’Italia, la Città della Salute, da ieri al centro dell’ennesima bufera giudiziaria. Con un’infilata di sette arresti, per un totale di 19 indagati. È una nuova Tangentopoli all’ombra di Expo? Di sicuro, per quanto riguarda la sanità, adesso più che mai viene messo a nudo il sistema di assegnazione degli appalti in Lombardia. Un sistema dove gli interessi bipartisan si saldano per dividersi le torte milionarie dell’edilizia sanitaria e della fornitura dei servizi ospedalieri no core (appalti per le pulizie, la ristorazione, la lavanderia).

Emblematica a tal proposito è l’iscrizione, ieri, nel registro degli indagati del super manager delle cooperative Claudio Levorato, 54 anni, alla testa di Manutencoop, colosso del facility management. Proprio Manutencoop, insieme con l’impresa di costruzione Maltauro, avrebbe dovuto vedersi assicurata la vittoria dell’appalto per la progettazione definitiva ed esecutiva della Città della Salute, con la relativa gestione dei servizi ospedalieri non sanitari. È a questo che dovevano portare gli accordi sottobanco tra l’ex politico dc Gianstefano Frigerio & C. e Antonio Rognoni, alla guida di Infrastrutture lombarde (la holding che gestisce gli appalti pubblici per conto del Pirellone), già arrestato a marzo in un altro filone d’indagine. Negli atti della Procura, ora, viene fatto chiaramente riferimento alla ripartizione politica che sta dietro la costituzione della cordata (ati) creata per partecipare alla gara d’appalto.

In questo caso ci sono aspetti penali: ma il meccanismo di accordi bipartisan per l’aggiudicazione degli appalti sanitari svelato dall’indagine giudiziaria in corso, in Lombardia è una costante, anche se non ci sono prove di illeciti. Due gli esempi su tutti. Già nel 2009 il ministero dell’Economia aveva messo sotto accusa gli affari che ruotavano intorno al Niguarda, un’operazione da oltre un miliardo di euro che ha visto per protagoniste la Nec Spa (vicino a Cl) e la Progeni Spa (legata alle cooperative rosse). E, in una ricostruzione realizzata dal Corriere nell’estate 2012 sulla lobby degli appalti in sanità, veniva documentato come le società degli uomini vicini all’allora governatore Roberto Formigoni (Mario Saporiti e Fabrizio Rota) saldassero i loro interessi con quelli delle coop.

Con l’arresto di Antonio Rognoni lo scorso marzo anche la gara per la Città della Salute si è bloccata. E adesso la nuova indagine allunga pesanti ombre sull’intero progetto, che prevede il trasloco nell’ex area Falck di Sesto dell’Istituto dei tumori e del neurologico Besta. Si andrà avanti lo stesso, anche a costo di rifare da zero la gara d’appalto? Il progetto già da tempo è al centro di un altro interrogativo: l’opera edilizia è necessaria a migliorare le cure dei malati o l’unione dei due ospedali è un business immobiliare? Gli interessi in gioco sono notevoli: la Città della Salute è prevista su un’area di 210 mila metri quadrati all’interno de gli 1,5 milioni di metri quadrati delle acciaierie ex Falck, acquistate dalla SestoImmobiliare dell’imprenditore Davide Bizzi. La presenza dell’Istituto dei tumori e del Besta servono come volano per lo sviluppo dell’intera area. Nel frattempo l’altro affare, quello delle bonifiche (vale 50 milioni), è in mano all’azienda Ambienthesis riconducibile alla famiglia Grossi. Lui, il patron Giuseppe Grossi, scomparso nel 2011, era finito in carcere per le bonifiche di Santa Giulia.

postilla
In questo sito, molto probabilmente, basta scrivere la parola “salute” nella finestrella del motore di ricerca interno, per ripercorrere alla luce degli ultimi eventi almeno parecchi indizi di una vicenda che non aveva, non poteva avere, sviluppi lineari davvero comprensibili, se non appunto nella logica distorta che pare emergere dalle indagini. Ogni occhiello, ogni postilla, e tanti, troppi contraddittori passaggi di quegli articoli, raccontano criteri surreali, di pura facciata, a volte oltre la spudoratezza, per le scelte localizzative di questa fantomatica Città della Salute, quando non addirittura per la logica della sua esistenza. Milioni di metri cubi che schizzavano inopinatamente qui e là per l'area metropolitana, su e giù per le Tangenziali, ma oggi si scopre che seguivano forse invece i percorsi delle Tangenti. Un progetto di riorganizzazione sanitaria e della ricerca che, secondo il parere anche di molti operatori di prestigio, non avrebbe neppure avuto necessità di interventi edilizi e urbanistici, almeno su quella scala e rilevanza, ma che al contrario vedeva in primissimo piano, quasi esclusivo, proprio le trasformazioni urbane e la loro localizzazione. Una storia decisamente surreale, dove la Salute svolgeva un ruolo di puro paravento, per interessi e appetiti di ben altra natura. Non a caso più o meno identica a quella parallela di Expo, dove al posto della Salute c'è l'Alimentazione, ma oggetto del contendere sono metri quadri, appalti, tracciati … Già (f.b.)

p.s. Rinnovando l'invito a scrivere "Città della Salute" nel motore interno di ricerca Eddyburg, propongo ad esempio questo articolo dedicato agli interessi sottesi, ripreso dal Fatto Quotidiano di un anno e mezzo fa circa

«Il nocciolo strategico della politica comunale appare centrato sulla modernizzazione dell’immagine cittadina come confezione accattivante dello sfruttamento intensivo delle rendite di posizione. Tutto ruota intorno a vicende asfitticamente edilizie che delineano una prospettiva decisamente implosiva per la città. Due casi su tutti: il Crescent e la variante 2012 al Puc». Il manifesto, 8 maggio 2014

Salerno ha un ter­ri­to­rio di quasi 59 kmq, per la mag­gior parte col­li­nare, a tratti anche imper­vio; la zona pia­neg­giante costiera non ne copre più di un terzo. La popo­la­zione resi­dente, pari a circa 91mila abi­tanti nel 1951, salì a oltre 157mila nel 1981 ridu­cen­dosi poi pro­gres­si­va­mente fino a quasi 133mila nel 2011. La città crebbe fisi­ca­mente soprat­tutto negli anni del boom (circa 11mila abi­ta­zioni e oltre 42mila stanze in più sol­tanto negli otto anni fra 1961 e 1968) sfrut­tando fino all’ultimo metro qua­drato le zone edi­fi­ca­bili del piano rego­la­tore gene­rale (Prg) redatto da Pli­nio Mar­coni (1958). Quel Prg non fu mai ade­guato alla nor­ma­tiva sugli stan­dard (1968) e, gio­cando sull’equivoco, molte lot­tiz­za­zioni suc­ces­sive rea­liz­za­rono ingenti volu­me­trie pri­vate senza tra­sfe­rire al comune le pre­scritte urba­niz­za­zioni pri­ma­rie e le aree per le urba­niz­za­zioni secon­da­rie. Le peri­fe­rie recenti saler­ni­tane sono fra quelle più carenti in Ita­lia di spazi e attrez­za­ture col­let­tive e il traf­fico auto­mo­bi­li­stico a Salerno è da allora un pro­blema sem­pre più grave.

In que­gli anni le ambi­zioni della bor­ghe­sia impren­di­to­riale e mer­can­tile, con inte­ressi for­te­mente intrec­ciati ai mec­ca­ni­smi della ren­dita urbana, si con­cen­tra­rono — gra­zie anche alle rela­zioni pri­vi­le­giate con il governo e la Cassa per il Mez­zo­giorno — sulla costru­zione del nuovo porto, da un lato, e sull’infrastrutturazione dell’area indu­striale, dall’altro, ubi­cati agli estremi oppo­sti della città: il porto a ridosso della costa alta del primo tratto della Costiera d’Amalfi, l’area indu­striale all’imbocco della piana del Sele. Due ope­ra­zioni che con­fe­ri­vano un sup­porto non solo sim­bo­lico al ruolo pola­riz­zante di Salerno nella regione, docu­men­tato dalla immi­gra­zione dall’hinterland, ruolo che la diri­genza saler­ni­tana ha ten­tato a più riprese di valo­riz­zare secondo l’aspirazione, invero un po’ vel­lei­ta­ria, a un qual­che «sor­passo» sulla Napoli ex capi­tale in declino.

La gestione ter­ri­to­riale della città negli anni ’80 dimo­strò la gra­vità delle con­trad­di­zioni anti­che e recenti. Si ten­ta­rono varie solu­zioni spesso con­fuse e con­torte (negli anni di «tan­gen­to­poli» ci fu anche chi pro­pose di attri­buire nuova edi­fi­ca­bi­lità alle aree per stan­dard rima­ste ille­gal­mente in pro­prietà ai pri­vati), fin­ché si decise di dare alla città un nuovo stru­mento urba­ni­stico gene­rale (1989) con la con­su­lenza di grido del cata­lano Oriol Bohigas.

Nel regno di De Luca

Negli anni seguenti l’Amministrazione comu­nale gui­data da Vin­cenzo De Luca, dive­nuto sin­daco nel 1993, forte della gestione effi­cace della città con­so­li­data che vi ha con­se­guito con­di­zioni di vivi­bi­lità e decoro incon­suete nel pano­rama meri­dio­nale, ha paral­le­la­mente svi­lup­pato, attra­verso mec­ca­ni­smi nego­ziali su pro­getti spe­ci­fici, una stra­te­gia urbana orien­tata alla rea­liz­za­zione di nuove sedi dei ser­vizi di rango non locale, affi­data a famosi archi­tetti stra­nieri, e, insieme, di ingenti den­si­fi­ca­zioni edilizie.

Il Prg ha avuto una tor­men­tata ela­bo­ra­zione all’insegna della pre­va­lenza, sulle regole dell’urbanistica, dell’immagine archi­tet­to­nica col­le­gata con le grandi edi­fi­ca­zioni. Nel 2003 viene resa nota la ver­sione finale del Prg che tut­ta­via non viene ancora adot­tato: nel dicem­bre 2004 l’approvazione della nuova legge urba­ni­stica regio­nale giu­sti­fica una ulte­riore rie­la­bo­ra­zione che tra­sforma il Prg in Puc: «piano urba­ni­stico comu­nale», secondo la modi­fica tutt’altro che nomi­na­li­stica della legge regio­nale 16/2004, la quale arti­cola il piano in dispo­si­zioni strut­tu­rali valide a tempo inde­ter­mi­nato e dispo­si­zioni ope­ra­tive da rie­la­bo­rare con fre­quenza. In realtà il Puc con­serva l’impianto e la fiso­no­mia tecnico-normativa tra­di­zio­nali del Prg, ma con­tiene nuove scelte ulte­rior­mente favo­re­voli alla cemen­ti­fi­ca­zione. «Il con­fronto tra il piano del 2003 e quello del 2005 mette in evi­denza una serie di varia­zioni, tutte peg­gio­ra­tive, che la dicono lunga sui veri motivi della man­cata ado­zione nel 2003: pur lasciando inal­te­rato il dimen­sio­na­mento del piano, cre­sce l’edificabilità totale di mezzo milione di metri cubi; aumen­tano gli indici di con­ver­sione degli immo­bili indu­striali; l’edilizia resi­den­ziale pub­blica, che Bohi­gas avrebbe voluto dif­fusa in tutta la città, viene con­cen­trata in enormi e peri­fe­rici quartieri-ghetto, capaci di ospi­tare fino a 5000 abi­tanti» (Fau­sto Mar­tino). Gra­zie a una valu­ta­zione «poli­tica», l’Amministrazione pro­vin­ciale approva tut­ta­via il Puc senza troppi approfondimenti.

Il noc­ciolo stra­te­gico della poli­tica comu­nale appare cen­trato sulla moder­niz­za­zione dell’immagine cit­ta­dina come con­fe­zione accat­ti­vante dello sfrut­ta­mento inten­sivo delle ren­dite di posi­zione. La visione del rap­porto con il con­te­sto ter­ri­to­riale delle giunte De Luca è priva di ogni con­no­tato «metro­po­li­tano» dimo­stran­dosi cen­tra­li­stica e auto­re­fe­ren­ziale: tutta l’edificazione pos­si­bile nel ter­ri­to­rio comu­nale, le cose di pre­gio nel qua­drante urbano occi­den­tale, le cose ingom­branti nel qua­drante sud-orientale (dall’ospedale allo sta­dio, dagli impianti per il tempo libero all’industria resi­dua), la cosa occa­sio­nal­mente suscet­ti­bile di grandi oppor­tu­nità finan­zia­rie — cioè l’inceneritore — in quell’estremo lembo orien­tale del comune che è incu­neato nel ter­ri­to­rio di comuni con­fi­nanti (saranno così que­sti a subirne la mag­gior quota dell’impatto).

Il mirag­gio del porto

Una vicenda di segno diverso è sem­brata tem­po­ra­nea­mente pro­fi­larsi nei primi anni 2000 in rela­zione al porto. L’impianto, gestito in modo accorto ed effi­ciente, ha visto cre­scere il suo movi­mento fino a esau­rire ogni pos­si­bi­lità espan­siva e, in pre­senza di pro­spet­tive inter­na­zio­nali con­for­tanti, ha rite­nuto di poter pun­tare a un salto di scala che obbliga però a una radi­cale delo­ca­liz­za­zione con la costru­zione di un «porto-isola» davanti alla parte nord della piana del Sele. È sem­brato così pos­si­bile imma­gi­nare un grande nodo infra­strut­tu­rale e logi­stico che metta a sistema il pro­po­sto porto-isola, l’aeroporto di Pon­te­ca­gnano, la futura sta­zione Av di Bat­ti­pa­glia e i ser­vizi che un simile nodo può atti­rare. È la prima volta che da Salerno si lan­cia un’idea che coin­volga altri ter­ri­tori in pro­spet­tive di svi­luppo rile­vanti (gran parte dell’Università, nei tardi anni ’80, fu loca­liz­zata a Fisciano-Baronissi solo per l’imposizione di De Mita che volle il «cam­pus» come strut­tura in con­do­mi­nio fra il Saler­ni­tano e l’Avellinese). Pur­troppo l’aeroporto è gestito invece molto male e stenta a con­qui­starsi un ruolo. E le poli­ti­che restrit­tive di governo e regione non solo obbli­gano oggi a rin­viare a tempi inde­fi­niti il salto di qua­lità sia per il porto che per la linea Av, ma impon­gono anche la ces­sa­zione del «metrò» fer­ro­via­rio che a Salerno ha ser­vito per qual­che anno gli inse­dia­menti comu­nali costieri, con un bacino di utenza evi­den­te­mente insufficiente.

Occorre a que­sto pro­po­sito sot­to­li­neare ancora la mio­pia muni­ci­pa­li­stica che non ne aveva con­si­de­rato stra­te­gico l’inserimento orga­nico e vivi­fi­cante nella cosid­detta «cir­cum­sa­ler­ni­tana». Que­sta linea fer­ro­via­ria col­lega — con livelli di ser­vi­zio oggi peral­tro poco più che sim­bo­lici — la parte nord della piana del Sele con il capo­luogo, con Cava de’ Tir­reni e il Noce­rino e con le valli della Solo­frana e dell’Irno: una linea che serve la prin­ci­pale strut­tura urbana della pro­vin­cia, con l’Università e ser­vizi con­nessi e i poli indu­striali ancora attivi. Ma Salerno l’ha giu­di­cata meno impor­tante del «metrò» comu­nale, sol­tanto per il quale ha voluto binari e con­vo­gli appositi. Sic­ché quelle odierne di Salerno sono vicende asfit­ti­ca­mente edi­li­zie che sem­brano deli­neare una pro­spet­tiva deci­sa­mente implo­siva per la città. Due casi su tutti: il Cre­scent e la variante 2012 al Puc.

Il Cre­scent

Il cosid­detto Cre­scent (su pro­getto di Ricardo Bofill) inve­ste aree in parte dema­niali al bordo del porto sto­rico di Salerno e al mar­gine occi­den­tale del cen­tro medie­vale. Il pro­getto pre­vede un edi­fi­cio pri­vato per resi­denze e uffici, alto 28 m e lungo quasi 300, ubi­cato sull’arco aperto verso il mare della cir­con­fe­renza di una grande piazza cir­co­lare; si stima che l’edificio possa ospi­tare 500 resi­denti e qual­che cen­ti­naio di addetti al ter­zia­rio in un sub com­parto del Puc che resta privo di urba­niz­za­zioni secon­da­rie. L’intervento è ini­ziato (il rustico impo­nente già incide pesan­te­mente sul pae­sag­gio della prima Costiera), ma non ne è ancora certa la legit­ti­mità: si discute della ammis­si­bi­lità di inter­venti pri­vati su aree dema­niali, si afferma che un vin­colo idro­geo­lo­gico rela­tivo a un pic­colo corso d’acqua sia stato igno­rato, è in ogni caso neces­sa­ria ora una espli­cita auto­riz­za­zione pae­sag­gi­stica visto che anni addie­tro la Soprin­ten­denza fece sca­dere i ter­mini senza espri­mersi. Il can­tiere è stato seque­strato dalla magi­stra­tura nel novem­bre scorso e le pole­mi­che infu­riano tuttora.

La variante al Puc del 2012

Dopo 5 anni dall’approvazione del piano, invece di rie­la­bo­rare la sola com­po­nente ope­ra­tiva del Puc (inter­venti prio­ri­tari negli ambiti clas­si­fi­cati come tra­sfor­ma­bili a fini inse­dia­tivi dalla com­po­nente strut­tu­rale del Puc), l’amministrazione comu­nale dichiara delle «cri­ti­cità» ripor­ta­bili a una stasi dell’attività edi­li­zia con il con­se­guente man­cato introito degli oneri con­ces­sori che pena­lizza il bilan­cio comu­nale. Essa adotta per­ciò una variante al Puc che incide sulla tra­sfor­ma­bi­lità delle aree ai fini della «valo­riz­za­zione del patri­mo­nio immo­bi­liare comu­nale»: in effetti ciò si tra­duce nell’attribuzione di rile­vanti diritti edi­fi­ca­tori a aree libere, di pro­prietà pub­blica, col­lo­cate in zone cen­tra­lis­sime della città e, peral­tro, già clas­si­fi­cate come stan­dard. Il cer­chio si chiude: quello che non era riu­scito ai tempi di «tan­gen­to­poli» potrebbe rea­liz­zarsi oggi, impo­ve­rendo radi­cal­mente la città delle sue dota­zioni di spazi col­let­tivi e incre­men­tando la den­si­fi­ca­zione edi­li­zia e la con­ge­stione dei quar­tieri cen­trali ancora a van­tag­gio sol­tanto delle ren­dite parassitarie

Riferimenti

Le precedenti puntate della serie di inchieste sulle città italiane dopo 30 anni di neoliberalismo sono state dedicate a Milano (7 febbraio), Sassari(13 febbraio), Venezia (20 febbraio), Napoli (27 Febbraio), Avellino (6 marzo), Bologna (13 marzo), Parma (20 marzo 2014), Roma (27 marzo), Firenze (3 aprile), Reggio Calabria e Messina (10 aprile), Cagliari (17 aprile 2014).


Mentre volge al termine questa bella giornata di sole e di democrazia, – questa giornata civile in cui centinaia di persone scendono in piazza, come ha detto Giovanni Losavio, per chiedere restauri! – vorrei per prima cosa ringraziarvi tutti. Vorrei ringraziare coloro che ne hanno avuto l'idea: e cioè Maria Pia Guermandi e Giuseppina Tonet, di Italia Nostra. E tutta Italia Nostra; Nicoletta Arbìzzi, presidente dell'Associazione Nostra Mirandola e nostra guida stamani: specialissimo genius loci di questa terra e dei suoi vivi monumenti. Vorrei ringraziare Santa Nastro, che ci ha aiutato generosamente a comunicare questa giornata, e tutti coloro che ci hanno accolto e ristorato con generosità, e vorrei dire con affetto.
Tutte le altre associazioni che hanno aderito: ANISA, Bianchi Bandinelli, Comitato della Bellezza, Eddyburg, il FAI. Gli organi di tutela dell'Emilia: nostri principali interlocutori.E Massimo Bray, che ha voluto essere qua con noi. E il cui mandato da ministro è stato uno dei pochi motivi di speranza per il nostro patrimonio.

Vorrei infine ringraziare tutti gli oratori che hanno appena parlato, e voi tutti che oggi siete qua.All'Aquila – l'Aquila, a cui va il nostro saluto e il nostro continuo pensiero – abbiamo riascoltato le parole di Roberto Longhi con le quali proprio ha poco fa concluso il suo intervento Salvatore Settis.
Qua a Mirandola vorrei iniziare con altre parole, scritte più o meno negli stessi anni da un altro protagonista dei nostri studi umanistici.Dopo l'8 settembre del 1943 Augusto Campana non riuscì a rientrare a Roma, dove lavorava come scriptor della Biblioteca Apostolica Vaticana. Così, egli rimase nella sua Romagna fino alla Liberazione. Ma non si chiuse a studiare tra altri libri. Quasi ogni pomeriggio egli percorse in bicicletta i 18 chilometri che separano Sant'Arcangelo da Rimini: per sapere cosa fosse successo alle amatissime pietre di Rimini, minacciate, scomposte, distrutte dalle bombe. Egli tenne un diario, oggi edito appunto con il titolo Pietre di Rimini, che andrebbe fatto leggere ad ogni studente di Lettere del primo anno.Ve ne leggo solo una pagina:

«30 gennaio 1944, domenica. Le voci giunte a Sant'Arcangelo sul Tempio Malatestiano sono catastrofiche. Andiamo a Rimini. Il Tempio è aperto, e gente e operai vanno e vengono. Si tratta, salvo errore, di una sola bomba, caduta fortunatamente sulla parte posteriore della chiesa, che è crollata in gran parte, fino alle arcate gotiche aggiunte: nessun danno sostanziale alla parte originale, ma sbertucciature, anche ai bassorilievi. Lo spostamento d'aria ha scoperchiato totalmente il tetto, di cui rimane la sola travatura, ha distrutto il bussolone di legno alla porta d'ingresso e ha aperto la porta della cella delle reliquie (qui è intatto l'affresco di Piero della Francesca). Danni non gravi alla tomba di Sigismondo, scoperchiata dal contraccolpo il 28 dicembre. Vedo le ossa scoperte, tra calcinacci e frammenti ... Una nuova perdita grave è la casetta del Rinascimento in Via Gambalunga, un vero gioiello e un monumento a me carissimo, al quale penso da tanti anni, e con Gino Ravaioli siamo d'accordo di illustrarlo, se le mie ricerche storiche giungeranno in porto. Colpita in pieno la casetta, più che metà della facciata è crollata. Anche qui il problema è di raccogliere accuratamente i frammenti architettonici; la ricostruzione è indispensabile».

È una pagina dove ritroviamo tutti i fili che oggi ci hanno condotto qua. Campana non era un architetto, un urbanista, uno storico dell'arte. Non era un funzionario di soprintendenza. Era un umanista, un epigrafista, un filologo: ma non si curava solo di incunaboli, lapidi, manoscritti. Si curava del contesto, del palinsesto unico che circonda, accoglie, plasma le nostre vite.Era un cittadino: ed è per questo che aveva a cuore le pietre della sua citta.Ancora. Campana ccorre al Tempio Malatestiano, certo. Ma si china in egual modo sulla casetta di Via Gambalunga. Sa che ciò conta è il tessuto continuo, la relazione tra le cose, il contesto.Raccoglie i frammenti, e li connette ai suoi studi.E, soprattutto, non ha alcun dubbio: «la ricostruzione è indispensabile». In quei mesi terribili, questa è l'unica certezza. L'Italia, Rimini, sarebbero risorte com'erano e dov'erano. Era la certezza da cui scaturì la Costituzione, con il suo articolo 9. La Repubblica tutela: una «rivoluzione promessa», avrebbe detto Piero Calamandrei. Una promessa che sta a noi mantenere.

Oggi siamo qua nello spirito di Augusto Campana. Coscienti che gli storici dell'arte hanno smesso di occuparsi di architettura, felici di baloccarsi con le loro opere mobili. Che gli architetti non sanno e non vogliono saper nulla di urbanistica, presi dai loro disegni irrelati e irresponsabili. Che gli urbanisti rigettano la dimensione politica del loro lavoro. I nostri studi ci hanno costretto in una crescente segregazione. Le nostre soprintendenze hanno diviso le loro competenze in modo tale che ormai tra gli affreschi e i muri che li sostengono passano confini guardati col filo spinato.

Sappiamo che tutto questo è vero: ma sappiamo anche che ciò che è successo all'Aquila, ciò che è successo in Emilia, qua a Mirandola, ci costringe a ricordare che il nostro testo comune è la città. Questo il nostro oggetto di studio, questo il campo della nostra tutela. Se vogliamo riconquistare la capacità di incidere sulla politica, dobbiamo ricominciare ad occuparci della polis. Ed è per questo che oggi siamo qui.Uno degli episodi più luminosi del post-sisma è stata la creazione, all'interno del Palazzo Ducale di Sassuolo, di un Centro di raccolta e cantiere di primo intervento sulle opere mobili danneggiate: un centro organizzato in modo esemplare, coordinato da Stefano Casciu, soprintendente di Modena e diretto da Marco Mozzo, funzionario della stessa soprintendenza: che sono lieto di salutare. Ma se oggi siamo qua è perché la stessa attenzione non è toccata agli edifici che contenevano quelle opere. La grandissima pala d'altare della Chiesa del Gesù di Mirandola è oggi al sicuro a Sassuolo. Ma è la chiesa del Gesù a non essere al sicuro. Dopo due anni è ancora scoperchiata, e ingombra di macerie, arredi, decorazioni. Non è in sicurezza, e dunque è impossibile svuotarla: ma dopo due anni è impossibile accettare che non sia in sicurezza. Mancano soldi? Personale?

Qualunque sia il punto, siamo qua per dire ai nostri amici degli organi di tutela emiliani: ditecelo, ditelo in pubblico, sollevate il problema. Permetteteci di aiutarvi a salvare il nostro patrimonio. Non trasformatevi in una controparte dei cittadini che chiedono di riavere i loro monumenti. Siamo dalla stessa parte.Anzi. Vorremo che questa giornata fosse anche una giornata di solidarietà – vorrei dire di amore – verso le soprintendenze italiane. I 44 punti della cosiddetta rivoluzione della Pubblica Amministrazione appena annunciata dal governo di Matteo Renzi prevede l'«accorpamento delle sovrintendenze e gestione manageriale dei poli museali» e la presenza di «un solo rappresentante dello Stato nelle conferenze di servizi, con tempi certi»: e siamo certi che quel rappresentante non sarà un soprintendente. Perché, cito il presidente del Consiglio, occorre «superare i "blocchi" dei pareri paesistici e delle Soprintendenze: dobbiamo ridurre i casi in cui il parere serve». Ecco che il linciaggio delle soprintendenze iniziato su quello che fu un grande giornale di sinistra acquista ora una chiara chiave di lettura: siamo evidentemente alla resa dei conti con l'unica magistratura che, tra mille difficoltà, cerca di salvare quel che rimane del paesaggio e dell'ambiente italiani.

Siamo molto dispiaciuti che oggi non sia tra noi il ministro per i Beni culturali, Dario Franceschini: che abbiamo ripetutamente invitato.Ci avrebbe fatto piacere chiedergli da che parte sta: con il suo presidente del consiglio, o con le sue soprintendenze? Non so voi, ma io non l'ho ancora capito.In ogni caso noi lo sappiamo, da che parte stiamo. E oggi vogliamo dirlo chiaro e forte: siamo con le donne e con gli uomini che ogni giorno lavorano esemplarmente nelle trincee dei nostri organi di tutela.È per questo che abbiamo voluto invitare il Direttore regionale per i beni culturali dell'Emilia Romagna, Carla Di Francesco. Per ribadire il nostro profondo rispetto per il sistema della tutela. E insieme per chiedere ascolto.Siamo vicini – o almeno lo speriamo – al momento in cui le soprintendenze architettoniche e la direzione regionale dovranno varare i progetti per la ricostruzione del patrimonio monumentale. Ebbene, in questi due anni si sono moltiplicati i segnali che ci hanno allarmato. L'astratta dottrina di alcuni teorici del restauro si è saldata ai concreti interessi di alcuni costruttori: nel cercare di far passare un messaggio che giudichiamo eversivo, quello per cui bisognerebbe, sì ricostruire il patrimonio dov'era, ma non com'era.

Al Salone del Restauro di Ferrara del 2013 lo stand del Ministero per i Beni Culturali si intitolava «Dov'era ma non com'era»: questa era la linea della ricostruzione. Il testo ufficiale, firmato proprio da Carla Di Francesco e stampato su grandi pannelli, si concludeva affermando: «di considerare questo evento drammatico come un'opportunità. L'opportunità di affermare una cultura architettonica della ricostruzione capace di prendere le mosse dalla reale situazione e consentire la coesistenza tra le preesistenze e gli edifici contemporanei, l'attualizzazione del bene culturale laddove era, dando ad esso nuovi significati vitali».Ecco, cara dottoressa Di Francesco, glielo diciamo con estrema, ma garbata, franchezza: vorremmo che nessun responsabile della tutela definisse il terremoto un'opportunità.Gli interventi che mi hanno preceduto hanno dimostrato perché rinunciare al com'era e dov'era sia un errore: un errore tecnico, architettonico, urbanistico, giuridico, storico-artistico.Se nel 1945 si fossero considerate le distruzioni della guerra un'opportunità, oggi vivremmo in città storiche largamente rifatte negli anni cinquanta: e non saremmo più felici. Equesto ci insegna a guardare, oggi, al di là del feticismo dell'edificio 'originale': a guardare invece al contesto, al tessuto, alla funzione civile e sociale dei nostri centri storici.

Ma accanto alle fondamentali ragioni culturali, ce ne sono altre: ancora più profonde. E sono quelle dei cittadini, di coloro che fanno parte della comunità ancorata a quei monumenti e a quel territorio.In un momento in cui l'unico sguardo che sappiamo posare sui nostri monumenti è uno sguardo economico è legittimo credere che i monumenti emiliani non siano stati restituiti a noi perché non sono monumenti di rilevanza turistica. Non sono Venezia, non sono Firenze: e dunque, cosa abbiamo da guadagnare nel restaurarli?Ecco: oggi siamo qua a dire che quei monumenti vanno restaurati e riaperti perché sono la riserva di futuro delle comunità che vivono intorno ad essi. E che quella comunità non è solo quella emiliana, ma è quella italiana: come dicemmo all'Aquila un anno fa, l'Emilia è un grande problema italiano.

Ed è importante aggiungere una cosa. Una parte rilevante, forse preponderante, di questo patrimonio è costituita da chiese: da luoghi di culto della religione cattolica. Noi non crediamo che il restauro di queste chiese sia un problema del clero cattolico. È un problema nostro. Perché non crediamo che quei luoghi siano proprietà solo della comunità cristiana che vi prega.La Repubblica tutela non solo il patrimonio in sé, ma la sua appartenenza alla Nazione: ogni cittadino, membro della nazione e sovrano è così proprietario dell’intero patrimonio nazionale, senza altre limitazioni. È per questo che un cittadino italiano di religione musulmana o semplicemente ateo possiede San Francesco di Mirandola non meno del prete che la officia.La chiesa del Gesù, sempre qua a Mirandola, era tenuta aperta da oltre dieci anni non dal clero, ma dall'associazione Nostra Mirandola. C'è una funzione nuova del patrimonio ecclesiastico: che non nega la sua sacralità, ma la integra con valori laici, costituzionali, repubblicani.

Chi impara a parlare la lingua di queste chiese storiche non abbraccia la storia delle istituzioni occidentali o la religione cattolica, e nemmeno la storia dell’arte italiana, ma i valori inclusivi, tolleranti e aperti della Costituzione. Non si vincola alle «radici» della identità collettiva italiana, ma accetta di fluire nelle acque – felicemente impure, mescolate, contaminate – della tradizione italianaIl patrimonio artistico è dunque divenuto un luogo dei diritti della persona, una leva di costruzione dell’eguaglianza, un mezzo per includere coloro che erano sempre stati sottomessi ed espropriati. È difficile capirlo perché nessuno, nemmeno a sinistra, ha inteso il Ministero per i Beni culturali come un ministero per i diritti. Alla sua nascita lo si è inteso come ministero per il Patrimonio, cioè per le «cose» da difendere; all’epoca di Veltroni lo si è voluto «per le Attività culturali» (cioè per lo svago e per il tempo libero); il governo Letta l’ha reso anche per il Turismo (anzi, del Turismo), e c’è chi lo vorrebbe astrattamente «della Cultura».Ma, almeno nei fatti, il Ministero per i Beni culturali dovrebbe essere, invece, un ministero per i diritti della persona: come quello della Salute, come quello dell’Istruzione. Un ministero che lavori per garantire l’accesso di ogni cittadino al patrimonio: innanzitutto l’accesso materiale, ma soprattutto quello conoscitivo, intellettuale, culturale. Un ministero che sia capace di tutelare l'integrità del patrimonio che appartiene anche a chi non ha nient'altro: e cioè il paesaggio e il patrimonio della nazione.

Cicerone racconta che Verre, corrotto governatore della Sicilia, ingiunse al Senato di Segesta di donargli una grande statua di Diana che era stata razziata dai Cartaginesi, e che Scipione l'Africano aveva riportata in Sicilia e collocata di fronte ad un tempio su un piedistallo che raccontava questa storia eroica. La perdita di quell'insieme di arte, memoria collettiva e storia era era potuta avvenire solo «magno cum luctu et gemitu totius civitatis, multis cum lacrimis et lamentationibus virorum mulierumque omnium».Ecco, questo è il messaggio che oggi parte da Mirandola: è il momento di ricostruire il patrimonio monumentale dell'Emilia dov'era e com'era. Perché lo dice la Costituzione, perché lo dice la legge, perché lo dice la nostra storia, perché lo chiedono i cittadini. Perché la forma dei nostri luoghi possa ancora dare forma alla nostra comunità, aiutarci a ricostruire la nostra democrazia. Perché ogni ferita al patrimonio dobbiamo piangerla «con un gran lutto e con il pianto di tutta la comunità, con molte lacrime di tutti gli uomini e di tutte le donne». Perché non sono degli oggetti ad esser feriti: sono i nostri diritti, la nostra democrazia, il nostro futuro.

Ed è per questo che l'Emilia monumentale distrutta dal terremoto va ricostruita dov'era e com'era.
Ora. Senza se e senza ma.

Una manifestazione e un dossier sulle inarrestabili fortune di un complesso post-industriale nato e cresciuto vigorosamente all'ombra della "Larghe intese" e della greeneconomy. Il manifesto online, 5 maggio 2014

Una grande abba­iata per imi­tare il coro di una­nime plauso che acco­glie ogni ini­zia­tiva di Oscar Fari­netti, il patron di Eataly, il pre­sti­gia­tore dell’autentico made in italy. Il flash mob #lagran­deab­ba­iata è stato orga­niz­zato sabato 3 mag­gio dalla rete mila­nese Atti­tu­dine NoExpo: Euro­may­days and The Ned, Macao, Off­to­pic, La terra trema, San pre­ca­rio, Zam, Lam­bretta, Boc­cac­cio, Farro e fuoco, Rimake, Rima­flow, all’ex tea­tro Sme­raldo, oggi Eataly Milano, in Piazza XXV Aprile a un passo da Corso Como.

Sme­raldo, il tea­tro chiuso da un parcheggio

Pro­prio quello inau­gu­rato il 18 marzo scorso, per il momento cono­sciuto per le pole­mi­che sol­le­vate dalla ristrut­tu­ra­zione. Eataly si è affi­data all’impresa “Costru­zioni euro­pee” di Peru­gia che ha subap­pal­tato una parte dei lavori di ristrut­tu­ra­zione dello Sme­raldo a una ditta romena, la Cobe­tra: 25 ope­rai, di cui uno spe­cia­liz­zato in restauri e un solo capo­ma­stro. Secondo la Filca Cisl, gli ope­rai romeni avreb­bero per­ce­pii sti­pendi da fame: 500–800 euro per 40 ore set­ti­ma­nali. Eataly ha soste­nuto di essere all’oscuro di que­sto subap­palto. Sul suo Libro Unico del lavoro lo sti­pen­dio men­sile dei mura­tori era di 2100 euro men­sili, con­tri­buti inclusi. L’importazione del per­so­nale a basso costo dalla roma­nia sarebbe avve­nuto a sua insaputa.

Lo Sme­raldo era un tea­tro che a Milano ha ospi­tato Cats, il Fan­ta­sma dell’opera, Evita, David Bowie, Astor Piaz­zolla e Spring­steen. Oscar Fari­netti, pro­prie­ta­rio di Eataly lo ha rile­vato da Gian­ma­rio Lon­goni che ha cer­cato di sal­vare il tea­tro dal fal­li­mento. Lon­goni ha rice­vuto lo Sme­raldo da un lascito di fami­glia, una di quelle anti­che e nobili della Brianza. L’ex gestore del Ciak di Milano lo rilevò che era un cinema porno, por­tan­dolo ad essere un luogo per una pro­gram­ma­zione più consona.

Una vicenda tor­men­tata, quella che ha por­tato il tea­tro a chiu­dere, e poi ad essere acqui­stato da Fari­netti. Aperto il 28 luglio del 2006, e ter­mi­nato nel luglio 2012, il can­tiere per i box di piazza XXV Aprile ha dimez­zato la clien­tela e gli spet­ta­coli del tea­tro. Ste­fano Boeri lan­ciò dallo Sme­raldo la sua can­di­da­tura, Giu­liano Pisa­pia fece il punto sulla sua giunta pro­prio qui. Lon­goni ha detto di essere stato lasciato solo dall’amministrazione di centro-sinistra. Ha detto anche di essere stato schiac­ciato dalla con­cor­renza sleale degli altri tea­tri che tra l’altro per­ce­pi­vano aiuti pub­blici, men­tre lui ha cer­cato di fare da solo,da impren­di­tore indipendente.

Una brutta sto­ria, e tri­ste, che parla della com­mi­stione tra cul­tura e spet­ta­colo, unico stru­mento per far soprav­vi­vere un tea­tro dove i fondi pub­blici sono sem­pre più esi­gui e sem­pre più nelle mani di pochi.

Apo­lo­gia del tem­pio del gusto

Da quando la cultura-spettacolo-Tv, quella per inten­dersi degli spet­ta­coli di Bri­gnano o Pana­riello a tea­tro, è stata inte­grata e rico­di­fi­cata nel nuovo del made in Italy — Eataly — i tea­tri sono diven­tati i pos­si­bili con­te­ni­tori di una forma di mar­ke­ting aggres­sivo e vin­cente. Come lo Sme­raldo a Milano oggi, o il Tea­tro Valle a Roma. Tre anni fa, prima della sua occu­pa­zione, voci insi­stenti par­la­vano di una sua tra­sfor­ma­zione in un “tem­pio del gusto” Eataly, con dire­zione arti­stica a cura di Ales­san­dro Baricco.

Sulle ceneri dello Sme­raldo, la cul­tura della tra­di­zione gastro­no­mica ita­liana diventa l’alto cibo — hanno spie­gato i pro­mo­tori della pro­te­sta mila­nese — nel cen­tro di uno dei quar­tieri più gen­tri­fi­cati di Milano si pro­clama al con­sumo (di classe!), come se la cul­tura non avesse spa­zio nel pro­getto di una città da Expo. E che con­sumo: la tra­di­zione della terra diventa pro­dotto di élite, stando attenti che il fascino del locale, del tra­di­zio­nale, del pro­dotto buono, sano e giu­sto, rimanga intatta.

Decine di per­sone hanno ulu­lato con­tro la “grande abba­iata” del con­senso verso il “fascino del locale”, una forma per­va­siva del con­senso poli­tico che lavora sull’immaginario di un paese in crisi, che ago­gna un posti­cino nella “com­pe­ti­zione” sui mer­cati glo­bali, ma non sa cosa vendere.

Fari­netti, che è un impren­di­tore poli­tico post­for­di­sta, lavora sul bran­ding, e ha avuto un’idea: biso­gna ven­dere l’immagine del paese-che-ama-il-buon-cibo, un paese otti­mi­sta per­ché la fatica, i sacri­fici, la crisi non aiu­tano a ven­dere. E così ha inter­pre­tato il desi­de­rio di riscatto delle classi domi­nanti (quelle che pen­sano che “la cul­tura è il petro­lio d’Italia” o che l’Italia è un mera­vi­glioso paese dove tutti devono stu­diare da cuo­chi o came­rieri e lavo­rare in un ristorante.

Feno­me­no­lo­gia Eataliana

Acqui­stando tea­tri, ex cen­tri della logi­stica (come il Cen­tro Agro Ali­men­tare Bolo­gnese — CAAB — una sorta di mer­cati gene­rali nella zona nord di Bolo­gna dove sor­gerà “Eataly WORLD”, forse per sot­to­li­neare le ambi­zioni degli inve­sti­tori ceduto dal comune senza con­tro­par­tite per costruire il F.I.C.O.), grandi palazzi o ex sta­zioni abban­do­nate come a Roma, Fari­netti inter­preta la pro­pria impresa al cen­tro di un pro­getto di civi­liz­za­zione urba­ni­stica. Riqua­li­fica i vec­chi immo­bili, ne tra­sforma la sto­ria, la incor­pora nella pro­pria impresa poli­tica e intende nobi­li­tare la città dove lui porta lavoro e il suo iper­mer­cato di cose buone e costose.

Un mondo bello, curato, pulito, in cui tutto-va-bene — spie­gano ancora i pro­mo­tori del flash mob — ci pro­pon­gono uno stile di vita accat­ti­vante, in cui non c’è spa­zio per il disor­dine, il dis­senso, la cri­tica. Ci ane­ste­tizza. Come una pas­seg­giata in Corso Como, come i grat­ta­cieli di Porta Nuova, ci sug­ge­ri­sce non solo un’idea della città, ma anche un’idea di ciò che noi dob­biamo essere e di come noi dob­biamo vivere. Di ciò a cui, da brave per­sone, dovremmo aspi­rare. Per que­sto, oggi ulu­liamo. Siamo indi­sci­pli­nati nell’affermare quel che vogliamo essere, fare, come vogliamo vivere la città, quale lavoro vogliamo sce­gliere e con chi lo vogliamo fare. Senza mori­ge­ra­tezza, disor­di­na­ta­mente, e con intel­li­genza: ulu­liamo libe­ra­mente con­tro la grande abbaiata.

Un com­plesso indu­striale trasversale

Il flash mob #lagran­deab­ba­iata è stata una nuova azione di pro­te­sta con­tro l’Expo 2015 ad un anno esatto dalla sua inau­gu­ra­zione. Fa parte di un festi­val d’arte per­for­ma­tivo “Folle agire urbano” orga­niz­zato dal primo mag­gio (giorno della May­day) al 5 mag­gio, ricor­renza dell’occupazione della Torre Galfa a Milano nel 2012 (vedi qui e qui).

In un dos­sier su Slow Food, COOP Ita­lia ed Eataly, Nes­suna fac­cia buona, pulita e giu­sta a EXPO 2015, i movi­menti hanno rico­struito anche la sto­ria di Eataly.

Fon­data nel 2004, l’azienda verrà quo­tata in borsa entro il 2017. Dal 2007 al 2014 le aper­ture di iper­mer­cati sono arri­vate a 25, una metà in Ita­lia, l’altra metà nel mondo. Solo a New York pro­duce un fat­tu­rato annuo con entrate per circa 80 milioni di euro. Nei pros­simi due anni è pre­vi­sta un’altra quin­di­cina di nuove aperture.

La fami­glia Fari­netti pos­siede l’80% di Eatin­vest srl, la finan­zia­ria del gruppo, che a sua volta con­trolla Eataly srl, che ha un fat­tu­rato annuo di 400 milioni di euro. Eataly srl a sua volta que­sta con­trolla la società Eataly Distri­bu­zione srl alla quale par­te­ci­pano COOP, COOP Adria­tica, COOP Ligu­ria, NOVA COOP, per un totale del 40%. Tutti gli store della catena Eataly sono for­mal­mente nelle mani di que­sta terza strut­tura socie­ta­ria alla quale COOP dà appog­gio sul know-how e sull’area della for­ma­zione e del per­so­nale. Eataly srl siede negli orga­ni­grammi di diverse società pro­dut­trici –spesso già pre­sidi Slow Food– la cui merce è ven­duta nei negozi Eataly come le bibite Luri­sia o la pasta Alferta, vini e carni.

Eataly ha ria­dat­tato il modello Auto­grill alle città e con cri­teri qua­li­ta­tivi più alti. Auto­grill man­tiene in un angolo dei suoi store i pro­dotti tipici. Fari­netti ha invece creato spazi enormi fatto di pro­dotti tipici. Se sulle auto­strade il “tipico”, il pro­dotto Dop, è un’eccezione in una risto­ra­zione fatta di panini e pizze uni­ver­sali, a Eataly l’eccezione è la norma. E anche il panino e la pizza hanno il loro posto d’onore nella triade ideo­lo­gica che vede nel cibo ita­liano, e nelle sue mol­te­plici ver­sioni dia­let­tali, le idee pla­to­ni­che del Buono, del Pulito e del Giu­sto. Que­sta è la tri­nità che sta alla base della demo­cra­zia del Gusto pagata a prezzi non certo popolari.

Una tri­nità che uni­sce, nell’impresa fari­net­tiana, Coop, Eataly e Slow-food. Nel dicem­bre 2013, que­sta entità una e trina ha fir­mato con l’amministratore unico di Expo 2015 Giu­seppe Sala un accordo per rap­pre­sen­tare il tema della mani­fe­sta­zione mila­nese: “Nutrire il Pia­neta. Ener­gia per la Vita”. Un blocco di imprese spe­cia­liz­zato in “food-branding”, crea­zione com­mer­cia­liz­za­zione e distri­bu­zione del cibo.

Un com­plesso impren­di­to­riale tra­sver­sale e bi-partisan, dalle ban­che all’edilizia all’editoria e all’università (l’ateneo di scienze della gastro­no­mia di Pol­lenzo vicino a Bra in Pie­monte), e con un’aura di auto­re­vo­lezza in mate­ria ali­men­tare si can­dida cre­di­bil­mente a rap­pre­sen­tare il vero con­te­nuto di un Expo sgan­ghe­rato e mul­ti­mi­liar­da­rio dove, si asfal­tano campi di mezza Lom­bar­dia per costruire strade che con­du­cano al sito di EXPO o si costrui­sce la Via d’acqua che stra­volge i par­chi della cer­chia nord-ovest di Milano (Trenno, Bag­gio, Cave, Bosco in città e aree verdi limi­trofe). Senza con­si­de­rare le prime inda­gini della pro­cura di Milano che nel marzo 2014 ha arre­stato Anto­nio Giu­lio Rognoni, diret­tore gene­rale di “Infra­strut­ture Lom­barde”, già can­di­dato al posto di sub­com­mis­sa­rio di Expo 2015 per una sto­ria di appalti truc­cati, insieme ad altre 8 per­sone. Il giro di appalti a Milano per l’Expo è di 11 miliardi di euro.

Nel marzo 2014 Eatin­vest srl ha ven­duto alla società Tam­buri Invest­ment Part­ners (Tip) il 20% delle quote di Eataly per circa 120 milioni di euro, dove un altro 20% era già pos­se­duto da uno dei soci della di Fari­netti, Luca Baf­figo Filan­geri. Alla Tip par­te­ci­pano alcune delle più influenti fami­glie dell’alimentare ita­liano: Lavazza, Lunelli del vino Fer­rari, Fer­rero.

“Sono spe­cia­liz­zati nelle ope­ra­zioni di borsa e ci accom­pa­gne­ranno alla quo­ta­zione di Eataly nel 2016–2017 — ha detto Fari­netti — E poi per­ché è una società ita­liana: abbiamo rice­vuto molte pro­po­ste da stra­nieri, che ci offri­vano anche di più, ma abbiamo scelto Tip per­ché Eataly deve restare al 100% ita­liana. Inve­sti­remo nell’Expo 2015 e nel nuovo pro­getto Fico.

L’evoluzione di Eataly viene spie­gata nel dos­sier nella cor­nice del capi­ta­li­smo basato sulle grandi opere e sui grandi eventi. Grandi opere come il TAV, il MOSE, e grandi eventi come Espo­si­zioni, Olim­piadi, Mon­diali di sport, Fiere sono il frutto della ricerca di visi­bi­lità, con­senso, ren­dita fon­dia­ria e pro­fitto da parte di sog­getti poli­tici e di gruppi di potere legati alle costru­zioni, alle infra­strut­ture, alle coo­pe­ra­tive, al mondo delle società anche mul­ti­na­zio­nali– che oggi vivono di bandi, con­su­lenze, appalti e fondi pubblici.

Eataly a Sharm-el-Sheik


“Godo quando assumo un gio­vane” ha detto Fari­netti. Molte di que­ste assun­zioni sono a ter­mine. Non solo per­ché Fari­netti è un impren­di­tore ren­ziano che applica alla let­tera la ricetta “moder­niz­za­trice” del suo sodale poli­tico, ma per­ché inter­preta lo spi­rito dell’impresa nel paese dove l’ex capo dell’Alleanza delle Coo­pe­ra­tive, rosse e bian­che, Giu­liano Poletti rico­pre il ruolo mini­stro del Lavoro. Fari­netti ne applica il Decreto lavoro e assume i suoi dipen­denti tra­mite agen­zia inte­ri­nale, con con­tratti a pro­getto o a tempo deter­mi­nato. Molti rice­vono circa 8 euro lordi all’ora, che equi­val­gono a 800 euro netti al mese nel caso di 40 ore set­ti­ma­nali, 500 per il part-time. Poco più, o poco meno, degli ope­rai rumeni che hanno ristrut­tu­rato lo Sme­raldo. Un lavoro all’italiana, un eata­lyan job.
Un eata­lyan job ini­zia sca­te­nando la potenza di fuoco del mar­chio. Gli enti locali fanno di tutto per inca­sto­nare il brand nel loro ter­ri­to­rio. Que­sta è la forza dell’impresa made in Italy: ven­dere il mar­chio affin­ché il ter­ri­to­rio, la città, quell’immobile riac­qui­stino valore nell’immaginario. Si dichiara uno stato di emer­genza e le pro­ce­dure diven­tano veloci. E’ già suc­cesso a Torino nel 2007 dove l’allora sin­daco Chiam­pa­rino con­cesse gra­tui­ta­mente a Fari­netti l’ex fab­brica della Car­pano per 60 anni, in cam­bio la com­pleta ristrut­tu­ra­zione dell’edificio.
E’ acca­duto a Bari, primo pre­si­dio a sud dell’azienda, nella Fiera del Levante. Un fiera ago­niz­zante, che cerca ogni stru­mento per mone­tiz­zare e pri­va­tiz­zare un’area di 280 mila metri qua­dri a ridosso del porto. Fari­netti è piom­bato sulla città, ha vinto un bando con i suoi soci baresi (tra cui c’è Fabri­zio Lom­bardo Pijola al cen­tro del caso dell’emittente tv Antenna Sud in crisi e con gior­na­li­sti licen­ziati), per una “mostra tem­po­ra­nea” del suo Eataly per sei mesi. Per sei mesi Fari­netti avrebbe stan­ziato 15 milioni di euro? Poco cre­di­bile. Si può invece pen­sare che la for­mula “mostra tem­po­ra­nea” per un immo­bile di migliaia di metri qua­drati è stato lo stru­mento per sospen­dere tutta la “buro­cra­zia” e far aprire le porte al “tempo del gusto”.
L’apertura è stata a tempo di record, le auto­rità locali hanno fatto “mira­coli”, e l’azienda non aveva fatto a tempo a creare un orga­nico defi­ni­tivo. In realtà, Eataly Bari (inve­sti­mento: 15 milioni di euro) aveva un per­messo tem­po­ra­neo di aper­tura di sei mesi, come “mostra-mercato”. E per que­sto non poteva assu­mere a tempo inde­ter­mi­nato. Fari­netti è aggres­sivo. La sua potenza è attual­mente legata ad una buona liqui­dità, ma si regge fon­da­men­tal­mente sulla spe­ranza di creare occu­pa­zione, non importa quale, l’importante è che sia lavoro. Que­sta è la for­mula usata da Renzi e Poletti per far pas­sare il decreto che pre­ca­rizza tutti i con­tratti a ter­mine. Uno stru­mento spac­ciato come la solu­zione con­tro la disoc­cu­pa­zione strut­tu­rale e di lunga durata.
E poi c’è la debo­lezza dei poten­tati locali stroz­zati dai debiti e dalla crisi. A Bari il blitz di Fari­netti deve avere creato qual­che pro­blema con i ver­tici di una Fiera del Levante. Al punto che ci hanno ripen­sato: “Mai più un caso Eataly” ha detto il 4 feb­braio 2014 al Cor­riere del Mez­zo­giorno il pre­si­dente Ugo Patroni-Griffi. Da domani si pro­ce­derà con il clas­sico bando per fare gestire ai pri­vati 75 mila metri qua­dri per 30 anni. Non è escluso che Fari­netti par­te­cipi anche a que­sti. Lui a Sharm-el-Sheikh porta lavoro in un paese di came­rieri e risto­ranti ad uso turistico.

The Eata­lyan Job

All’inizio di ago­sto 2013, poco dopo il varo della sede barese di Eataly alla Fiera del Levante, la prima in quel Sud che dovrebbe essere come Sharm-el-Skeikh, Cgil-Csil e Uil ave­vano denun­ciato Fari­netti per 160 “assun­zioni fuo­ri­legge”, arri­vate a 180 durante la Fiera a set­tem­bre. Troppi inte­ri­nali e pochi a tempo inde­ter­mi­nato. Era stata vio­lata la legge Biagi che per­mette di assu­mere l’8% di inte­ri­nali con un minimo di 3 e non 160. Poi c’erano 10 con­tratti a tempo deter­mi­nato e 3 indeterminati.

La rego­la­riz­za­zione poi è avve­nuta, i sin­da­cati si sono pla­cati, Fari­netti ha otte­nuto che la sua mostra tem­po­ra­nea diven­tasse permanente.i, anche per­ché il can can è stato intenso e tutti hanno fatto capire a Fari­netti (“quello del Nord”) che la sua atti­tu­dine da colonizzatore-che-porta-il-lavoro-a-Sud doveva con­fron­tarsi con la richie­sta di un lavoro rego­lare. Atten­zione alle pro­por­zioni: 63 a tempo inde­ter­mi­nato, 66 appren­di­sti, 34 a tempo deter­mi­nato, 1 som­mi­ni­strato): 100 su 163 sono lavo­ra­tori a ter­mine. Ma il ter­mine quanto dura?Le assun­zioni sono state fatte secondo le regole del decreto “Letta-Giovannini” per gli under 29, a due con­di­zioni: i “gio­vani” dove­vano essere disoc­cu­pati o avere una fami­glia a carico. Quando entrerà in vigore, il “Decreto Poletti” sta­bi­li­sce che que­sti 100 potranno essere rin­no­vati a ter­mine fino al 2017. Nel mezzo potranno esserci più rin­novi e più pro­ro­ghe. Poi potreb­bero essere assunti.

Sem­pre che Eataly Bari non chiuda prima. Le pro­ie­zioni a 12 mesi par­lano di 10 milioni sui 20 pro­gram­mati. A luglio si faranno i conti. Tra mille distin­guo in città si è ini­ziato a dire che sarà dif­fi­cile man­te­nere l’occupazione. Nes­suno di que­sti lavo­ra­tori è iscritto ai sin­da­cati con­fe­de­rali, nono­stante abbiano vinto una ver­tenza in due mesi. Non è il primo caso di lavo­ra­tori a ter­mine, non sin­da­ca­liz­zati, nelle grandi colo­nie indu­striali create nel sud-senza-lavoro. Può darsi che il clima azien­dale abbia influito. Fari­netti tiene molto a dire che la sua azienda è “una grande fami­glia”. E una fami­glia si gesti­sce da sola i con­flitti e soprat­tutto le com­pa­ti­bi­lità con i suoi “figli”, i lavo­ra­tori. Del resto, “i sin­da­cati sono medioe­vali” ha detto il patron.

Basta con lacci e lac­ciuoli per chi crea lavoro. Piut­to­sto creare “zone spe­ciali”, come in Cina, a sud come nelle metro­poli del Nord, dove il diritto del lavoro viene ridotto alla misura dei con­tratti a ter­mine senza cau­sale. L’obiettivo è col­ti­vare un indi­vi­duo come con­su­ma­tore, utente, visi­ta­tore. O come turi­sta, come sug­ge­rito in que­sti anni dagli stessi ver­tici di Expo 2015 e dai poli­tici ita­liani.

«Lo sciacallaggio intensivo del Rinascimento è l’unica economia della città, e guai a chi dice che ormai la vacca non solo stramazza dalle mungiture, ma è anzi prossima alla macellazione o sciacallaggio intensivo del Rinascimento è l’unica economia della città, e guai a chi dice che ormai la vacca non solo stramazza dalle mungiture, ma è anzi prossima alla macellazione». Il Fatto Quotidiano, 3 maggio 2014

«Gli Uffizi sono una macchina da soldi, se li facciamo gestire nel modo giusto», ha dichiarato Matteo Renzi il 29 novembre 2012. A giudicare da quel che si è visto giovedì sera a Servizio Pubblico, almeno quest’unico punto del programma dell’ex sindaco di Firenze si è avverato: nel celebre palazzo vasariano, un invalicabile muro di corpi traspiranti preclude ogni possibilità di vedere le opere d’arte.

Il limite di sicurezza prevede la compresenza di 980 persone al massimo. Nelle scorse settimane, dipendenti e giornalisti ne hanno contate invece almeno fino a punte di 3.500. Meglio non chiedersi cosa sarebbe successo nel caso di un’evacuazione d’emergenza. No, è una novità: negli ultimi anni si sono susseguiti esposti e denunce, soprattutto da parte dei sindacati dei dipendenti, ma senza sortire alcun effetto: lo sciacallaggio intensivo del Rinascimento è l’unica economia della città, e guai a chi dice che ormai la vacca non solo stramazza dalle mungiture, ma è anzi prossima alla macellazione. Ci vogliono un Leonardo distrutto o un turista morto per far capire che gli Uffizi sono sul punto di esplodere?

La faccia della soprintendente Cristina Acidini, di fronte alle telecamere di Santoro, è la risposta: non sento, non vedo, non parlo. D’altra parte, un processo della Corte dei conti chiede 600.000 euro di danno erariale alla signora, che nel 2009 ha fatto comprare allo Stato un crocifisso ligneo attribuito a Michelangelo e prezzato da lei stessa. E se nessuno dei cinque ministri che si sono succeduti da allora ha pensato bene di destinarla ad altro incarico è anche perché la Acidini garantisce il rapporto di ferro che lega il Polo Museale al concessionario, che è Opera Laboratori Fiorentini, di Civita Cultura (presidente Luigi Abete), a sua volta parte di Associazione Civita (presidente Gianni Letta). Tanto che il portavoce del concedente (cioè il Polo Museale) è un ex giornalista del Giornale della Toscana di Denis Verdini, ora dipendente di Opera: un portavoce a cui la Acidini ha addirittura consentito di curare un’incredibile mostra di documenti storici a Palazzo Pitti.

Il legame tra Opera e Polo è ormai cementizio: la concessione risale nientemeno che al 1996, ed è andato avanti di proroga in proroga, alla faccia della libera concorrenza. Ed è Opera a staccare i biglietti per gli Uffizi, e dunque a governarne gli accessi e a decidere la sorte delle opere, la condizioni della visita, lo stato reale della sicurezza. In verità, la legge Ronchey prevede che si possa (ma non che si debba) cedere a un privato for profit come Opera la biglietteria di un museo come gli Uffizi. E le immagini di Servizio Pubblico dimostrano che non è una buona idea dare le chiavi del nostro patrimonio culturale a chi non ha altra bussola che il proprio profitto. Perché il risultato è la socializzazione delle perdite e la privatizzazione degli utili: incassando a percentuale, il concessionario ha interesse a farcire il museo come il tacchino del Ringraziamento, senza curarsi dell'usura delle opere, del drastico abbassamento della qualità della visita, e del rischio sicurezza.

E non è solo un problema di biglietti. Nello scorso dicembre, i lavoratori del Polo hanno contestato la decisione dell'Acidini di affidare le visite guidate del Corridoio Vasariano alla solita Opera. Essi fecero notare che i dipendenti pubblici erano più che capaci di gestire da soli la cosa, il che avrebbe evitato le assurde tariffe del servizio privatizzato con Civita: 34 euro a prezzo pieno, 25 il ridotto e 16 il... gratuito! Ma nonostante tutto, si continua a perseverare sulla strada della “macchina da soldi”. Nemmeno le immagini girate in galleria hanno indotto Philippe Daverio (ospite di Santoro) a cogliere il punto: il noto divulgatore ha pensato bene di ripetere che gli Uffizi dovrebbero fare i numeri del Louvre. Qualcuno dovrebbe spiegargli che il Louvre è quasi 12 volte più grande degli Uffizi per dimensioni fisiche e ha un numero di opere d'arte che è circa 76 volte quello degli Uffizi. Considerando che i visitatori del Louvre sono solo 5 volte più di quelli degli Uffizi, dovremmo piuttosto meravigliarci che non ci sia stato ancora il morto. Al contrario, nei 44 punti che strutturano la sua “rivoluzione” della Pubblica amministrazione, Renzi ha incluso l'idea di introdurre “una gestione manageriale nei poli museali”: il che vuol dire continuare a badare solo ai profitti (sperando almeno che siano pubblici), e non alla sostenibilità culturale e alla sicurezza dei lavoratori e dei visitatori dei musei. Chissà se Renzi si è mai chiesto perché da 20 anni gli Uffizi non appartengono più ai fiorentini, che ci mettono piede solo da bambini e poi si tengono alla larga da quella specie di pericoloso bagno turco sontuosamente decorato.

Il manifesto, 3 maggio 2014 (m.p.r.)

L’identità di un popolo si fonda, da una parte, sul vin­colo di valori comuni e, dall’altra, sull’ accet­tazione di un pas­sato con­di­viso. La memo­ria cul­tu­rale fa da ponte con l’oggi, favo­rendo – secondo la defi­ni­zione dell’egittologo tede­sco Jan Ass­man – la «strut­tura con­net­tiva» di una società. La rimo­zione del ricordo, dun­que, ci rende non solo più poveri di sapere ma ci con­danna a una pena ben più one­rosa: la per­dita del senso di appar­te­nenza, l’incapacità di tra­sfor­mare l’immagine del sé in noi. Tale pro­cesso, osser­va­bile anche nell’Italia che boi­cotta gli studi clas­sici e svi­li­sce il suo patri­mo­nio storico-artistico, è ancor più accen­tuato in paesi dove una tri­ste sequenza di con­flitti e atti ter­ro­ri­stici ha lasciato ferite aperte e traumi inde­le­bili, che si vor­reb­bero can­cel­lare con l’artificio della menzogna.

Camus in cerca di radici.
In Alge­ria, l’instaurazione di un’ideologia nazio­na­li­sta post-indipendenza, ha por­tato al disco­no­sci­mento dell’eredità romana, nega­ti­va­mente asso­ciata alle esplo­ra­zioni otto­cen­te­sche delle truppe fran­cesi e al rap­porto – spesso infe­lice – tra il Magh­reb e l’Europa. Il rifiuto delle radici latine è fun­zio­nale all’elaborazione di un’identità fit­ti­zia, che prende le distanze dal colo­nia­li­smo ed esclu­dendo dalla pro­pria Sto­ria i non-arabi e i non-musulmani, pro­voca una muti­la­zione cul­tu­rale. Quella che Albert Camus – agli inizi della sua car­riera let­te­ra­ria – ebbe l’ansia di col­mare, resti­tuendo la con­so­la­zione dei miti a un popolo che sem­brava esau­rirsi nel pre­sente. Le parole del cele­bre filo­sofo esi­sten­zia­li­sta risplen­dono su una stele ele­vata dai suoi amici sullo sfondo del monte Che­noua, tra l’azzurro del mare e il giallo caldo delle pie­tre di Tipasa: «Io com­prendo, qui, ciò che chia­miamo glo­ria: il diritto di amare senza misura».
Fu infatti nell’essai Nozze a Tipasa (1938) – nar­ra­zione nostal­gica della gio­vi­nezza tra­scorsa in Alge­ria – che Camus esaltò lo spo­sa­li­zio delle rovine con la pri­ma­vera, nella cui armo­nia con­fessò di aver tro­vato la misura pro­fonda di sé. In un suc­ces­sivo rac­conto – pub­bli­cato nel 1953 e inti­to­lato Ritorno a Tipasa – affiora invece la disil­lu­sione dinanzi alla scon­fitta della bel­lezza, al filo spi­nato soprag­giunto a cir­con­dare i ruderi alla stre­gua delle tiran­nie, della guerra e della morale, venute a chiu­dere per sem­pre l’età dell’innocenza. Inse­rita dal 1982 nella lista del patri­mo­nio dell’umanità, l’antica città romana di Tipasa – impian­ta­tasi sul luogo di un empo­rio feni­cio – si sta­glia su due col­line roc­ciose, sepa­rate dal porto di epoca moderna.
La sparizione di Tipasa.
Una rigo­gliosa vege­ta­zione arbo­rea adorna strade e monu­menti, accom­pa­gnando il visi­ta­tore sulle alture del foro e fino al pro­mon­to­rio che guarda a Occi­dente. Là, verso l’orizzonte del Medi­ter­ra­neo, si affac­ciano alteri i resti della Villa degli Affre­schi e le arcate delle basi­li­che paleo­cri­stiane: «c’è un tempo per vivere e un tempo per testi­mo­niare di vivere», scri­veva ancora Camus in Nozze. Ed è amaro con­sta­tare come, a Tipasa, il valore della testi­mo­nianza non sia ade­gua­ta­mente pre­ser­vato. Nel 2002, a causa del degrado e della cre­scente spe­cu­la­zione edi­li­zia, il sito venne segna­lato dall’Unesco fra quelli in peri­colo di dispa­ri­zione e a tutt’oggi il rischio non è stato scon­giu­rato. All’ingresso del parco, la costru­zione di un risto­rante insi­nua con pre­po­tenza le volte di un com­plesso ter­male. Nell’attiguo giar­dino archeo­lo­gico, stele riverse, bas­so­ri­lievi sfi­gu­rati e capi­telli sor­mon­tati da rifiuti mostrano la mise­ria del van­da­li­smo e dell’incuria. Sulla col­lina orien­tale – detta di Santa Salsa, dal nome della mar­tire che, secondo la leg­genda, vi fu sepolta nel IV sec. d.C. – si svi­luppò una delle più vaste necro­poli della tarda anti­chità: un’immensa distesa di sar­co­fagi aperti al vento, ora meta indi­stur­bata di bivacchi.
Lace­rata dalle distru­zioni e dagli scon­vol­gi­menti urba­ni­stici dell’occupazione fran­cese, anche la città numida di Iol – riba­tez­zata Cae­sa­rea da Giuba II in onore dell’imperatore Augu­sto e capi­tale della Mau­re­ta­nia Cesa­riense sotto Cali­gola – sem­bra aver ceduto l’anima all’oblio. Per­sino le sta­tue delle divi­nità che ne deco­ra­rono un tempo i son­tuosi edi­fici, sof­fo­cano nel cel­lo­fan di restauri mai ulti­mati. Stessa sorte – nella dimen­ti­canza – affligge Lam­bae­sis, for­ma­tasi nel I secolo d.C. come distac­ca­mento della legione III Augu­sta e sede del comando mili­tare romano in Africa. Il muni­ci­pium di vete­rani, dive­nuto colo­nia sotto Set­ti­mio Severo, è asse­diato da cespu­gli e rovi che ne occul­tano muri e mosaici.
A metà del XIX secolo, sulle vesti­gia del castrum fu edi­fi­cato un peni­ten­zia­rio e oggi solo il cosid­detto pre­to­rio si eleva gran­dioso dalle ster­pa­glie, quasi a sfi­dare l’indifferenza. Con cadenza annuale, i siti di Cuicul/ Dje­mila e Tha­mu­gadi/Timgad – entrambi insi­gniti del pre­sti­gioso «mar­chio» Une­sco – bal­zano invece agli onori della cro­naca. Attra­verso l’organizzazione di eventi musi­cali, il Mini­stero della Cul­tura per­se­gue uffi­cial­mente l’obiettivo di sen­si­bi­liz­zare le popo­la­zioni locali alla pro­te­zione del patri­mo­nio archeo­lo­gico. Il discu­ti­bile scopo peda­go­gico di tali ini­zia­tive ha però avuto, fino adesso, esiti controproducenti.
L’installazione di un’impalcatura di metallo e cemento sul piaz­zale dei Severi durante il Festi­val di Dje­mila ha arre­cato danni incom­men­su­ra­bili. Il più cla­mo­roso è il crollo par­ziale della sca­li­nata del tem­pio dedi­cato alla gens Sep­ti­mia.Mal­grado nel 2012 le pro­te­ste di nume­rosi atti­vi­sti della società civile por­ta­rono alla delo­ca­liz­za­zione della ker­messe nella vicina Sétif, nel 2013 gli spet­ta­coli si sono svolti nuo­va­mente a Cui­cul. E se per il Camus de Il Vento a Dje­mila (1939) il mondo fini­sce sem­pre per vin­cere sulla Sto­ria, di «que­sto grande grido di pie­tra che Dje­mila getta tra le mon­ta­gne, il cielo e il silen­zio» sen­tiamo anche noi la dispe­ra­zione e la malin­co­nica poesia. Nono­stante le appas­sio­nate bat­ta­glie che l’archeologa Nacéra Ben­sed­dik porta avanti da decenni, un destino di cemento si è abbat­tuto sul sito di Tha­mu­gadi, che dal lon­tano 1967 acco­glie il Festi­val di Tim­gad. Col pre­te­sto della sicu­rezza (un rap­porto dell’Unesco datato al 2009 sot­to­li­neava già i rischi di un afflusso mas­sic­cio di visi­ta­tori in occa­sione della ras­se­gna) una copia della scena del tea­tro romano è stata innal­zata su un’area non sca­vata, pre­giu­di­cando future ricerche.
Labili tracce.
Non meno gra­ve­mente, l’abuso edi­li­zio ha sfi­gu­rato il pae­sag­gio pre­de­ser­tico dei monti Aurès che incor­ni­ciano la colo­nia di Tra­iano, una fra le più mae­stose e sedu­centi Roma d’Africa. Nes­suna indul­genza nean­che per Ippona – cele­brata col nome di Hippo Regius, la Reale – dove s’incamminarono gli ultimi passi del vescovo Ago­stino, dot­tore e padre della Chiesa. Pro­prio qui, nel 1996, fu tra­fu­gata la maschera in marmo bianco di una Gor­gone di tre­cen­to­venti chi­lo­grammi di peso. Ritro­vata nel 2011 in Tuni­sia nell’abitazione di Sakhr el Materi, genero del depo­sto dit­ta­tore Zine El-Abidine Ben Alì, la scul­tura non ha ancora fatto ritorno nel luogo di origine.
Fin dal 1972, l’Algeria ha rati­fi­cato la Con­ven­zione sulla pro­te­zione del patri­mo­nio mon­diale adot­tata dall’Unesco ma l’incoerenza nell’applicazione del codice non si mani­fe­sta sol­tanto a svan­tag­gio delle città romane. Nel Sahara occi­den­tale, le pit­ture e inci­sioni rupe­stri del Tas­sili n’Ajjer risa­lenti al neo­li­tico stanno scom­pa­rendo per la man­canza di pro­te­zione dagli agenti atmo­sfe­rici e dai cri­mini di deva­sta­zione volon­ta­ria, men­tre a Nord i carat­te­ri­stici mau­so­lei numidi di Imed­ghas­sen, La Chre­tienne e Siga subi­scono l’onta dell’abbandono.
Se in que­sti ultimi casi è evi­dente il disprezzo dello stato alge­rino per le cul­ture tua­reg e ber­bera con­si­de­rate estra­nee alla «purezza» araba, nella Casbah di Algeri – luogo sim­bolo della bat­ta­glia per l’indipendenza – ben cin­que­cen­to­cin­quan­ta­quat­tro edi­fici ver­sano in stato di degrado avan­zato e centottant’otto sono in con­di­zioni di estrema pre­ca­rietà. Sem­pre nella capi­tale, la costru­zione di una fer­mata della metro­po­li­tana nella Place des Mar­ty­res ha com­pro­messo lo stu­dio e la con­ser­va­zione delle già labili tracce dell’antica Ico­sium, abbat­tuta dai con­qui­sta­tori otto­mani e poi fran­cesi. Esclusa dalle recenti rivo­lu­zioni arabe, l’Algeria ha man­cato la sua pri­ma­vera. I risul­tati delle pre­si­den­ziali del 17 aprile, con la rielezione-farsa di Abde­la­ziz Bou­te­flika – al potere dal 1999 e assente dalla scena pub­blica dal 2012 a causa di una malat­tia – hanno inferto l’ennesimo colpo alla spe­ranza di una svolta democratica.
Il forte asten­sio­ni­smo e le vio­lente con­te­sta­zioni scop­piate in occa­sione del voto nella regione della Kaby­lia get­tano nuove ombre sull’avvenire. Anche per que­sto la tutela del patri­mo­nio dovrebbe essere affi­data, ancor prima che a leggi effi­caci, a un revi­sio­ni­smo delle radici. Una libe­ra­zione com­piuta, che renda gli alge­rini depo­si­tari coscienti e respon­sa­bili del pro­prio passato.

L'intuizione che sta dietro al nuovo modello di mobilità integrata forse rischia di diluirsi in un eccesso di tradizionalismo, se non ci si adatta davvero al tipo di domanda espressa dalla città. La Repubblica Milano, 30 aprile 2014, postilla (f.b.)

La missione più ardua sarà mettere mano a Piazzale Maciachini: “Un vecchio chiosco, due mignotte e sei tombini”, secondo l’efficace sintesi dello chansonnier Folco Orselli. Ma il programma prevede anche il rifacimento di piazzale Loreto, mentre sono in corso i lavori per piazza XXIV Maggio e per la pedonalizzazione “light” di piazza Castello. Vecchie piazze che rinascono e nuove che si affermano, come piazza Gae Aulenti, divenuta nel giro di due anni la “terrazza” chic nel cuore del nuovo skyline urbano. Insomma, un po’ a sorpresa si scopre che il “segno” più forte che l’amministrazione Pisapia sta lasciando è la riscoperta di Milano come una città di piazze, con il conseguente ridimensionamento della città degli incroci, dominatrice dell’orizzonte urbano dal dopoguerra.

È una piccola, ma significativa, rivoluzione figlia di un cambio di paradigma iniziato con l’introduzione di Area C. Se si può mettere mano a luoghi disumanizzati ed emblematici della dittatura del traffico come Loreto e Maciachini, lo si deve al fatto che fra i milanesi si è fatta largo l’idea che il futuro della città si gioca sulla diminuzione del traffico privato. E che la rottura della dipendenza dall’auto come mezzo di trasporto urbano è la premessa indispensabile per una nuova, e riscoperta, vivibilità. Sarebbe bello che la riscossa delle piazze avvenisse con il massimo coinvolgimento dei cittadini e, cassa permettendo, evitando soluzioni provvisorie o posticce.

Su Maciachini e Loreto, per esempio, forse varrebbe la pena indire un concorso di idee a tambur battente. È evidente, infatti, che in questi due casi non ci si può limitare a una semplice riorganizzazione viabilistica o di qualche aiuola. Serve, invece, una rilettura dello spazio che riesca a tenere insieme vivibilità, nuovi servizi e funzionalità (compresa quella di scorrimento del traffico). Farsi prendere dalla fretta — magari imbastendo lavori da chiudere in tempo per l’Expo — può comportare errori, complicazioni nella gestione del cambiamento e conflitti con i residenti. Su Loreto, ad esempio, è stato sperimentato negli scorsi anni un modello alternativo di rotatoria. Può rappresentare la base del nuovo assetto della piazza, ma a condizione di calibrare bene la dimensione di carreggiate e intersezioni semaforiche, per non generare ingorghi. Per lo stesso motivo sarebbe utile poter seguire, passo passo, lo studio del nuovo piazzale Maciachini, inevitabile ed enorme snodo della circolazione nel quadrante Nord, strappando spazi alle auto ma senza immaginare un’impossibile pedonalizzazione globale.

La riconquista delle piazze come luoghi dell’incrocio e dello scambio fra le persone può essere una straordinaria leva della partecipazione civica offerta dalla giunta Pisapia, che su questo punto ha suscitato più di una critica. A patto, però, che si agisca con una regolazione fine. Che non si sottovalutino obiezioni e, anche, contestazioni, come purtroppo sembra stia avvenendo per la pedonalizzazione di piazza Castello. Che, per quel che si è capito, rimarrà uno stradone di dimensioni autostradali, con qualche chiringuito e alcune sdraio.

postilla

Ha perfettamente ragione l'opinionista, a chiedere che l'idea della nuova rete di piazze non venga rovesciata in testa ai cittadini dal chiuso di strutture tecniche e decisioni calate dall'alto, ma dal tono delle discussioni pare emergere anche un altro rischio, ora solo vagamente accennato: un inutile e anacronistico passo indietro, invece di quello avanti che sarebbe necessario, anzi indispensabile per la città in movimento. Naturalmente si capirà meglio poi dai progetti spaziali di riordino, di queste piazze, e dal loro costituire una rete oppure no, ma la domanda di luoghi sostanzialmente assimilabili alla classica piazza italiana pare davvero priva di senso, in una città che in epoca moderna non ne ha mai avute, e non ne avverte alcun bisogno: ambienti per la sosta, il movimento, la pausa; nodi di socialità e relazione, oltre che di flusso e scambio, ma nulla a che vedere col genere di salotti urbani che forse qualcuno sogna. Spazi chiusi e identitari di cui Milano non saprebbe che fare. Qualche osservazione in più su Millennio Urbano (f.b.)

Pare incredibile: fra un anno esatto inizia l'evento Expo, e naturalmente anche il dopo-Expo, ma per quei milioni di “strategici” metri quadrati del sito non si è ancora deciso (pubblicamente) nulla. Corriere della Sera Milano, 29 aprile 2014 con postilla.

Un anno all’Expo significa che tra un anno e un giorno comincerà il dopo Expo. Il milione di metri quadri, dove il primo maggio del prossimo anno aprirà i battenti l’esposizione dedicata al tema «Nutrire il Pianeta Energia per la Vita», potrebbero diventare o un luogo di sviluppo dell’area metropolitana o una landa desolata. A oggi però la sola certezza che si ha sul futuro di quei terreni su cui sono stati investiti molti quattrini pubblici per ripulire, bonificare e infrastrutturare, è che per metà saranno vincolati a verde. E il resto? La società Arexpo, nata appositamente tra Regione, Comune e Fondazione Fiera dopo un travagliato iter per la cessione delle aree (già di proprietà in parte di Fiera in parte della famiglia Cabassi) aveva lanciato un concorso di idee: diversi soggetti avevano partecipato, le proposte migliori erano state selezionate e presentate al pubblico.

Ma stiamo parlando di filosofia. Nessun business plan , nessun investitore interessato formalmente, nessun progetto vidimato dagli uffici dell’urbanistica comunale. Ad avere un po’ più di consistenza pare soltanto l’ipotesi di uno stadio, che il Milan vorrebbe costruire sull’area: ipotesi per altro che piace molto al Governatore Roberto Maroni e su cui invece frena la giunta Pisapia. Lo stadio potrebbe essere una parte di pezzo di un progetto più complessivo: magari all’interno di una Cittadella dello sport che a Milano ancora manca. Certo, il tema dell’alimentazione qui non c’entra nulla. E viene da chiedersi quale sarà dunque l’eredità culturale di un’Expo che ha l’ambizione di presentarsi per quello che non sarà: «Non una Fiera». Se l’idea è davvero di arrivare a definire un protocollo alimentare, sul modello di quello firmato a Kyoto sui temi ambientali, impegnando tutti gli Stati a darsi delle regole in materia di lotta allo spreco, di sostegno alle popolazioni denutrite e di promozione di stili di vita sani, forse almeno un segno tangibile di questo lavoro dovrebbe restare anche dove saranno smontati i padiglioni.

Mentre l’idea dell’orto botanico è del tutto tramontata, o forse non è mai esistita davvero, mentre Bologna sta invece già lavorando al progetto, avveniristico e unico nel suo genere, di un parco agroalimentare che valorizzi le eccellenze del territorio, Milano brancola nel buio. Conosciamo bene i tempi necessari per concedere licenze, superare gli iter burocratici e della politica, avviare un’operazione così articolata: per questo viene da pensare che siamo già in ritardo. A quelli che insistono sul fatto che «intanto cominciamo a fare bene l’esposizione» bisogna rispondere ricordando che il successo di un sistema Paese, quello che questo evento mette alla prova, si misurerà (anche) dal dopo Expo. Serve un’idea illuminata e moderna e serve in fretta. Per questo le istituzioni devono muoversi. Perché manca solo un anno, al dopo Expo.

Postilla

Non esiste, è vero, una decisione nè una strategia "pubblica" per le aree dell'Expo. Ma è facile comprendere le strategie e intravedere i piani dei decisori effettivi - se si conosce il percorso che è intercorso tra la trasformazione dell'area dell'ex Fiera e il progetto dell'attuale Expo, e se soprattutto si conosce il gioco degli interessi che da sempre si muovono dietro le "valorizzazioni" delle aree milanesi. Sui vantaggi e svantaggi - economici, sociali, urbanistici - dell'Expo e sui modi di realizzarla la discussione non ha più molto senso: i giochi sono già fatti e l'amministrazione anche se volesse fare un passo indietro, sarebbe troppo debole per cimentarsi in quest'impresa. Se ne può trarre qualche insegnamento, e proveremo a farlo. Ma la battaglia per il futuro dell'area è ancora aperta. Servirà per contribuire a costruire una "città dei cittadini" o a rendere più vasta, solida e ricca (per i ricchi) la "città della rendita"? Dipenderà in primo luogo dai milanesi. (e.s.)

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