L'innovazione spaziale, come quella tecnologica, non funziona senza adeguato supporto organizzativo: forse stiamo cominciando a capirlo per un aspetto essenziale della struttura dei quartieri. La Repubblica Milano, 10 giugno 2014, postilla (f.b.)
Le scuole comunali apriranno le porte ai cittadini, ospitando corsi, attività sportive e altre attività alla fine dell’orario di lezione. Palazzo Marino ha varato l’ufficio “Scuole aperte” che coordinerà e aiuterà le scuole a organizzarsi. L’esempio è il comprensivo Cadorna, che già accoglie corsi sportivi e culturali, e persino un mercato della Coldiretti con prodotti a chilometro zero. L’idea dell’amministrazione è di replicare l’esperimento in più istituti possibile.
Le scuole che spalancano le porte e fanno rete per diventare un patrimonio a disposizione dei quartieri e della città. Con le palestre dove organizzare attività sportive per grandi e piccoli. Aule e biblioteche che accolgono incontri culturali e cineforum. Cortili che ospitano mercati di frutta e verdura a chilometro zero. A Palazzo Marino apre l’ufficio “Scuole aperte”, un quartier generale che coordinerà asili, elementari e medie per trasformarli in luoghi d’incontro aperti a tutti quando i bambini non sono a lezione. Il primo passo era stato fatto un anno e mezzo fa, con una bozza di modifica del regolamento degli edifici scolastici comunali per concedere spazi alle associazioni, uniformando tariffe e norme.
Un documento però accantonato: «Ci siamo resi conto che non era lo strumento giusto — spiega Chiara Bisconti, assessore al Benessere e al Tempo libero — c’erano scuole troppo all’avanguardia che ne avrebbero risentito negativamente, e altre così arretrate e chiuse che l’avrebbero vissuta come un’imposizione. Una soluzione univoca non andava bene ma abbiamo continuato a lavorarci: c’è dietro una ricchezza sociale enorme per la città». Da qui, una nuova strada: la creazione di una cabina di regia che aiuterà le scuole a organizzarsi, partendo da modelli di riferimento che già funzionano. A capo dell’ufficio “Scuole aperte”, in sinergia con l’Ufficio scolastico regionale, c’è il preside del comprensivo Cadorna, Giovanni Del Bene, che del concetto di scuola come patrimonio comune ha fatto un cavallo di battaglia. Il suo istituto è aperto fino a tarda sera per corsi di danza e di nuoto, dibattiti, corsi di italiano per stranieri, proiezioni di film e mercati della Coldiretti in cortile.
Durante la settimana come nel weekend, nelle vacanze di Natale come nei mesi estivi. «Cercheremo di diffondere la nostra esperienza a tutta la città — spiega Del Bene — ci metteremo a disposizione dei presidi, valuteremo le proposte delle associazioni e le ricadute che possono avere sul territorio». L’idea è replicare in più istituti possibile quelle pratiche che hanno permesso a Milano di diventare capofila del progetto del Ministero dell’Istruzione che punta a estendere questo modello in tutte le regioni d’Italia. Il 16 giugno all’istituto Cardano ci sarà il sottosegretario all’Istruzione, Roberto Reggi, al convegno organizzato proprio su questo. Verrà lanciato il primo forum nazionale delle scuole aperte che si terrà in autunno a Firenze. «Sono tantissime le scuole che lo fanno già, con un fortissimo ruolo sociale sul territorio — spiega l’assessore alla Scuola, Francesco Cappelli — la nuova sfida è creare una rete che le metta in comunicazione e permetta un’ulteriore crescita».
postilla
Forse non è un caso che questa idea delle scuole al centro dei quartieri fosse emersa durante la campagna per le primarie, sostenuta dall'urbanista Stefano Boeri: la cosiddetta neighborhood unit è cosa che (purtroppo non sempre, diciamo a volte) si studia nelle facoltà di Architettura, e sta al centro del dibattito novecentesco sulla dimensione ottimale della parte di città legata alle funzioni quotidiane e relativi servizi. Almeno dagli anni '30 in poi in tutto il mondo, dal paradigmatico progetto di Radburn in New Jersey, attraverso le New Town britanniche fino ai nostri quartieri INA-Casa e altro, l'unità di vicinato si struttura fisicamente come raggio di percorrenza pedonale proprio a partire dal complesso delle scuole. Con una fondamentale lacuna: a differenza di altre attrezzature come il verde e lo spazio pubblico, la scuola funziona solo per la didattica, ha i suoi tempi morti molto estesi, e si apre esclusivamente per eventi eccezionali, come le elezioni. Mentre nell'idea originaria del sociologo Clarence Perry, derivante da studi del 1913 a Chicago, perfezionati dieci ani più tardi nel piano regionali di New York, le funzioni dell'edificio scolastico sono multiple e articolate sulle esigenze dei cittadini di tutte le età. Una iniziativa da seguire quindi, quella del comune di Milano, che non a caso già si propone oltre i confini. Qualche particolare in più e alcuni link ai documenti originali tradotti, in un articolo su Millennio Urbano (f.b.)
sprawl esprime patologie notoriamente collegate al medesimo stile di vita. Ma non si può dire, per non contraddire i mandanti ciellini pro-sprawl. Corriere della Sera, 8 giugno 2014, postilla (f.b.)
MONZA —Il dato più preoccupante riguarda i più piccoli: il 30% dei bambini brianzoli tra i 6 e gli 11 anni supera i limiti di peso per l’età, il 20% è in netto sovrappeso (19% maschi e 21% femmine), il 6% francamente obeso. Sono i dati raccolti da uno studio condotto a Vimercate, Agrate, Ornago, Mezzago, Bellusco e in metà delle scuole elementari di Monza dall’Università di Milano Bicocca e dalla Federazione Italiana Medici Pediatri della Lombardia.
«L’obesità infantile è in aumento — spiega Alfredo Vanotti, professore in Dietetica e Nutrizione all’università di Milano Bicocca e direttore del nuovo servizio Nutrizione ed Educazione Alimentare alla Clinica Zucchi di Monza e Carate — è colpa dell’eccessiva sedentarietà, troppa televisione e troppo poco sport, più computer che giochi in cortile». Per dichiarare lo stato di obesità si deve fare riferimento all’indice di massa corporea (Bmi), che si calcola dividendo il peso per l’altezza al quadrato: si è obesi se il risultato va dai 30 in su, ovviamente con differenti gradi di «gravità».
L’allarme-obesità scende (anche se di poco) nei comuni dove la Asl di Monza e Brianza ha effettuato progetti di promozione alla salute. Tra i 2007 e il 2010 i bambini sovrappeso tra i 6 e i 10 anni a Carate, Cavenago e Verano sono scesi dal 29% al 21%, gli obesi dal 9 al 7%.
Tra gli adulti le rilevazioni più recenti dicono che in Brianza i sovrappeso sono il 36% della popolazione (+1.1% rispetto alla media italiana), gli obesi il 12,7% (+2,8% rispetto all’Italia). L’obesità poi aumenta con l’età e colpisce più gli uomini delle donne. Tra i 18 e i 75 anni il 42% degli uomini è in sovrappeso e il 14% è obeso, mentre tra le donne il 21% è sovrappeso e il 9% è obeso. Le donne rischiano il sovrappeso con la menopausa (una su due è in sovrappeso dopo i 60 anni), mentre gli uomini perdono il pesoforma già dopo i 35 anni (1 su 2 è sovrappeso o obeso già a 35 anni).
L’altro dato curioso che riguarda gli uomini è l’aumento ponderale dopo il matrimonio: «Abbiamo studiato un gruppo di uomini prima del matrimonio e abbiamo registrato il 29% in sovrappeso e il 6% di obesi — conclude Vanotti — dopo qualche anno di matrimonio la percentuale dei sovrappeso è cresciuta al 48%, gli obesi al 13%». «Sono percentuali che fotografano la società dell’opulenza — è il commento di Vittorio Sironi, professore di Storia della Medicina e della Sanità all’Università Bicocca —: nell’Ottocento nei nostri comuni il problema era semmai la carenza alimentare. In Brianza si soffriva di pellagra, rachitismo, disturbi tiroidei. Oggi siamo una società ricca e l’obesità è una delle patologie più diffuse che colpisce l’8% della popolazione e cresce con l’aumentare dell’età».
Il consiglio? «Bisognerebbe tornare all’alimentazione dei nostri nonni — conclude Sironi — ai primi anni del Novecento quando si consumavano grandi quantità di frutta e verdura e il piatto della “cuccagna” era un’eccezione solo per alcune occasioni». Un gesto concreto contro l’obesità l’ha fatto il Comune di Seregno: con la palestra «Officine del benessere» ha partecipato a Let’s move, la sfida mondiale (176 i centri fitness in gara in rappresentanza di 10 Paesi) promossa dal colosso del wellness Technogym ed ha vinto. In un mese 950 persone si sono alternate sugli attrezzi e hanno accumulato 5,8 milioni di «move», che equivalgono a circa 12 milioni di calorie consumate. In palio attrezzi per 40 mila euro, che sono stati donati alla scuola media Don Milani. La Asl di Monza ha invece in programma per quest’anno alcuni progetti di educazione alla salute rivolti alle donne in gravidanza, agli educatori degli asili nido e alle scuole di ogni ordine e grado. Lo scorso anno ha invece fatto installare distributori di «snacks salutari» in otto scuole secondarie della provincia.
postillaPare quasi ovvio, che in una regione dove ormai da lustri il personale sanitario viene selezionato sulla base dell'appartenenza alle cordate cielline, nessuno si sogni neppure lontanamente di citare (nemmeno in sede di teoria, almeno da quanto si capisce dall'articolo) la montagna di ricerche americane e non, che legano direttamente l'organizzazione del territorio e l'indice di massa corporea. Ovvero che stabiliscono un legame quasi diretto fra gli stili di vita caratteristici dello sprawl suburbano, modello notoriamente ultra-dominante in Brianza, e la ciccia cronica di grandi e piccini. Ma non si può dire, perché si contraddirebbero così i ciellini profeti delle ubique autostrade, delle sedicenti comunità locali fatte di schiere di villette “immerse nel verde”, dove i ragazzini non escono se non accompagnati dalla mamma o dal nonno in Suv, e passano il resto del tempo quasi naturalmente rimpinzandosi di merendine davanti alla Tv. Probabilmente alche al sovrappeso ci dovrà pensare il “privato”, ricetta magica pervicacemente riproposta ad ogni piè sospinto dai nostri eroi. L'America va bene per i viaggi studio pagati dal contribuente, ma leggere le ricerche che non fanno comodo ai propri sponsor quello mai. Ad esempio gli studi seminali tradotti qui su Eddyburg tanti tanti anni fa, che magari i non medici devoti vorranno riguardare con occhi diversi oggi. Qualche considerazione in più su Millennio Urbano (f.b.)
L'ennesimo articolo che fa promozione immobiliare – presumibilmente indebita - all'ormai noto progetto di Porta Nuova a Milano, ma forse per via dell'ansia scivola nel ridicolo. Corriere della Sera, 7 giugno 2014, postilla (f.b.)
A Milano c’è un cantiere (il più grande d’Europa) che si avvia alle battute finali: è quello di Porta Nuova. Un complesso di uffici, abitazioni, servizi e collegamenti nati in un’area che era una «terra di nessuno» nel mezzo della città. Oggi, che i lavori sono in buona parte completati, il bilancio può essere considerato positivo. Merito, forse, anche della gestione del piano urbanistico e dei progettisti chiamati a lavorarci: architetti e studi di livello internazionale, che grazie alle loro esperienze in ogni angolo del pianeta, hanno introdotto una varietà di stili ma anche un’innovazione tipologica e tecnologica che hanno contribuito al successo. I milanesi che passeggiano con grande curiosità tra questi edifici (e si cimentano nel fotografare nuove suggestive prospettive urbane) hanno la sensazione è di trovarsi di fronte a una sfilata di forme, una grande fiera campionaria dell’architettura.
Da un po’ di anni in caso di interventi di questo tipo è diventata prassi abituale chiamare diversi progettisti, assegnando a ciascuno uno specifico intervento all’interno del piano generale. Una scelta che non porta a riprodurre in maniera pedissequa le megalopoli orientali o le metropoli Usa ma reinterpreta edifici e grattacieli adattandoli a una scala urbana più modesta e a uno stile di vita europeo. Un po’ come fece lo studio Bbpr con la Torre Velasca, sempre a Milano, più di 50 anni fa.
Uno degli esempi più noti, di questo «modus operandi» è quello di Renzo Piano per la riqualificazione di Potsdamer Platz a Berlino nel 1992: l’architetto genovese definì il programma di intervento, dando indicazioni su volumi edificabili e materiali utilizzabili, riservandosi la realizzazione di otto edifici e chiamando altri progettisti per le restanti costruzioni. Da Hans Koolhoff, che ha disegnato la torre affacciata sulla piazza, a Helmut Jahn, che ha ideato la sede Sony, il risultato è una zona frequentatissima da turisti e berlinesi, che la animano a tutte le ore del giorno e della notte. Questa usanza, di interventi a scala urbana a più mani, ha un precedente storico e famoso: Ludwig Mies van der Rohe, nel 1926, in qualità di vicepresidente del Werkbund che organizzava la II esposizione a Stoccarda, riuscì a farsi assegnare un’altura alla periferia della città per dare vita a un quartiere modello, il Weissenhof, in cui chiamò a cimentarsi le «archistar» dell’epoca: da Le Corbusier a Gropius, da Behrens a Scharoun. Furono 16 gli architetti invitati a dare il meglio di sé: non c’è stata una progettazione d’insieme e i vari edifici sono stati semplicemente accostati. Anche se va precisato che lo scopo del Weissenhof, non era tanto di creare un «bel» quartiere, quanto di definire nuove tipologie e schemi abitativi per l’edilizia popolare. Il tema della varietà però, fu perfettamente centrato, perché, al di là di alcune caratteristiche (edifici bianchi, non allineati al filo stradale e separazione tra traffico pedonale e veicolare), il rione manteneva tratti unitari riconoscibili senza che per questo si venisse a creare monotonia o addirittura l’effetto straniante del «superblocco» (edilizio) di stampo sovietico.
Un’immagine alienante che peraltro è molto presente anche sull’altra sponda dell’oceano, in America: fin dal dopoguerra gli interventi di lottizzazione periferica statunitensi, hanno portato alla realizzazione di interi quartieri impiegando una semplice tipologia di villetta monofamiliare (o bifamiliare) con il suo bravo giardinetto, il vialetto, l’alberello e l’immancabile berlinona nel box, ripetuta praticamente all’infinito. Il risultato è uno degli aspetti più inquietanti dell’«American way of life». Un’abitudine peraltro niente affatto tramontata, se si pensa ad esempio a uno dei nuovi quartieri di West Palm Beach, in Florida. Evidentemente, alla «middle class» a stelle e strisce piace così.
La tendenza attuale è quella di chiamare un certo numero di progettisti per introdurre quella molteplicità che, altrimenti, produrrebbe l’effetto di «quartiere-ghetto» se affidata ad un’unica matita. In Italia, nel dopoguerra, ci sono state fasi altalenanti, ad esempio in occasione della ricostruzione postbellica: in alcuni casi sono stati raggiunti risultati eccellenti (come il quartiere Ina-Casa Tiburtino, di Ridolfi, Quaroni, Fiorentino e altri 9 architetti) in altri, invece, decisamente scarsi tanto da coniare le definizioni di «case-alveare» o, appunto, «quartiere-ghetto». Ma allora, la bontà del risultato finale è merito della bravura degli architetti, della loro sensibilità progettuale e dell’apporto multiprofessionale? Sicuramente è così. Resta il fatto che, sia negli interventi di edilizia intensiva (grattacieli) o estensiva (quartieri di villette), quando i progettisti lavorano con coscienza e abilità, lontano da preconcetti ideologici, politici e alla larga da teorie ed esperimenti di edilizia sociale (vedi Corviale, Scampia e Zen) il risultato è (quasi sempre) di buon livello.
postillaOrmai il quartiere del “grattacielo più alto d'Italia” del Bosco Verticale eccetera, dove come ci spiega puntiglioso l'Autore i progettisti lavorano “lontano da preconcetti ideologici e politici” conta innumerevoli tentativi di promozione immobiliare travestiti da articoli. Il developer ovviamente ringrazia, ma in questo caso dovrebbe ringraziare molto meno il lettore, trascinato per i capelli dentro il temerario accostamento fra questo privatissimo progetto a suon di architar e dintorni, e il catalogo di architettura modernista rappresentato dal Weissenhof di Stoccarda negli anni '20, quando (spiegateglielo, all'Autore) ideologia e politica erano pane quotidiano per gli architetti e la società riformista della Repubblica di Weimar, con rispetto parlando. Ma la vera madornale sciocchezza di questo spot pubblicitario sta nel non scritto, probabilmente nel rimosso: giusto a Milano, più o meno a mezza strada nel tempo tra Weissenhof e Porta Nuova, c'è un equivalente catalogo di architetture moderne, opera collettiva dichiaratamente ispirata all'originale tedesco, e che ben più del privatistico catalogo di appetiti immobiliari attuale ne ripercorre lo spirito. Si chiama QT8, e anche se non si conosce la storia della Ottava Triennale che gli dà il nome, basta guardare le fermate della Metropolitana per scoprirne l'esistenza, e magari farci un giro. Ma il ritmo frenetico della vita moderna all'inseguimento dei traballanti valori immobiliari probabilmente non concede questo lusso, oppure la sola idea di citare quell'opera “comunista” ripugna al rampollo del conformismo rampante? (f.b.)
Territorialmente, 29 maggio 2014
La villa di Cafaggiòlo, da poco iscritta nel patrimonio Unesco, e l’intera fattoria medicea, sono al centro di una storia annosa che riparte nel 2011, quando Regione Toscana, Provincia di Firenze, comuni di Barberino di Mugello e San Piero a Sieve, Autorità di Bacino dell’Arno, MIBAC-Direzione generale per i beni culturali e paesaggistici della Toscana, siglano un protocollo d’intesa con la proprietaria Società Cafaggiolo srl rappresentata dall’argentino Alfredo Lowenstein. Un «modello di collaborazione istituzionale» che nei giorni a ridosso delle elezioni ha raggiunto un’ulteriore tappa: il protocollo è approvato, con un atto di indirizzo, da entrambi i comuni mugellani, di cui uno – San Piero – in mano al commissario prefettizio. Il protocollo, «ispirato a principi di tutela, sviluppo e valorizzazione della villa e della tenuta», sostiene un progetto della Cafaggiolo srl medesima, che interessa circa 370 ettari ripartiti tra i comuni di Barberino e San Piero, inclusi nella zona di rispetto Unesco (buffer zone).
Come per l'isola di Poveglia nella Laguna di Venezia, anche a Torino i cittadini si associano per impedire che un bene comune (e pubblico) venga privatizzato e trattato come una merce, Corriere della sera, 31 maggio 2014 (m.p.r.)
Il caso di Torino è emblematico. La Cavallerizza Reale è un grande complesso costruito tra Seicento e Ottocento come sede dell’Accademia militare: un complesso che è protetto da un vincolo, e che fa parte del sistema delle residenze reali sabaude dichiarato patrimonio dell’umanità dall’Unesco. Ceduta dal Demanio al Comune di Torino, la Cavallerizza è divenuta parte del Teatro Stabile, e nel 2001 si è aperta alla città come luogo di spettacolo, ottenendo un grande successo. Ma in seguito ai tagli selvaggi ai bilanci degli enti locali, l’amministrazione comunale ha rinunciato a raccogliere i frutti (sociali, ma anche economici) del suo investimento, e ha deciso di mettere in vendita il complesso: nel 2009 è stato affidato alla Cartolarizzazione Città di Torino srl, e nel 2013 sono state interrotte le rappresentazioni e sono iniziate le visite degli speculatori privati che vorrebbero acquistare il monumento (a prezzo di saldo: 12 milioni di euro).
Ma non tutti, in città, sono disposti ad accettare una simile sconfitta collettiva. Da sei mesi alcuni cittadini si riuniscono in un percorso partecipativo autoconvocato per decidere il futuro di quel grande spazio storico, e venerdì scorso hanno annunciato tre giorni di occupazione: «Come Assemblea Cavallerizza 14e45 [l'ora a cui è fermo l'orologio del teatro] una risposta la abbiamo, ovvero noi, gli abitanti di questa città. Con questi tre giorni vogliamo cominciare a immaginare un futuro diverso dall’abbandono o dalla svendita. Non possiamo accettare che ancora una volta sotto i nostri occhi avvenga lo spreco del nostro patrimonio senza interpellare nessuno. Vorremmo che la cavallerizza fosse un laboratorio dell’abitare, ovvero uno spazio a partire da cui ripensare I modi in cui viviamo questa città, per riprenderci possibilità di decidere della vita dei nostri territori. La parabola della Cavallerizza è la stessa di tanti siti di valore storico e artistico che vengono lasciati all’incuria più totale finché non subiscono danni strutturali, a quel punto o vengono completamente abbandonati o venduti. Noi soldi per comprare la Cavallerizza non ne abbiamo, ma non ci sembra un motivo valido perché la nostra voce di cittadini resti inascoltata. Sappiamo con certezza che non vogliamo un albergo, un bel ristorante, ma neanche un bel museo in cui costerà caro entrare, sappiamo che vogliamo un luogo che risponda alle esigenze di chi vive la città, non di chi ci specula».
L’occupazione della Cavallerizza ha finalmente aperto una discussione pubblica, ed ha guadagnato solidarietà importanti. Italia Nostra ha detto di condividere gli obiettivi degli occupanti, e ha chiesto al Comune «che vengano tassativamente esclusi usi impropri di carattere speculativo». Mario Martone, direttore del Teatro Stabile, ha dichiarato che «se è un’occupazione fatta con rispetto delle norme di sicurezza, è giusto dialogare con questi ragazzi, è la prima regola della democrazia. Come Stabile, ci è dispiaciuto abbandonare questo luogo». Naturalmente non mancano le preoccupazioni e gli equivoci. In un suo comunicato di sabato scorso, l’Ansa ha scritto che la Cavallerizza è stata occupata da un «collettivo anarchico». In realtà, quei cittadini torinesi non predicano l’anarchia, ma anzi chiedono l’applicazione della Costituzione. E non sono soli. In un suo libro recente (Il territorio bene comune degli italiani, Donzelli) l’ex vicepresidente della Corte Costituzionale Paolo Maddalena ha spiegato perché le alienazioni di beni demaniali siano «provvedimenti legislativi di eccezionale gravità, che vanno contro la lettera e lo spirito della Costituzione»: si tratta – continua il giudice – «di svendite da considerare assolutamente nulle, poiché contrastano con i prevalenti interessi pubblici del popolo italiano».
È allora vitale che i cittadini facciano sentire direttamente la loro voce: la storia italiana dimostra che non è affatto inutile. Se il 18 maggio 1980 – per esempio – duemila siciliani non avessero occupato il cantiere della litoranea che doveva congiungere San Vito lo Capo e Scopello, non sarebbe mai nata la Riserva dello Zingaro, che oggi protegge e fa vivere un luogo meraviglioso e sostiene un’economia diversa da quella fondata sulla speculazione. Uno degli slogan degli occupanti torinesi è «La Cavallerizza è reale». Ebbene, queste parole non dicono solo che quel monumento è tornato nella realtà della vita sociale torinese, ma possono anche significare che ciò che apparteneva ai Savoia – re di Sardegna e poi re d’Italia – ora appartiene al nuovo sovrano: il popolo italiano. È per questo che il vento che soffia da Torino riguarda tutta l’Italia, e apre una battaglia civile, giuridica e culturale che riguarda le implicazioni della sovranità popolare sul governo del territorio, e cioè l’essenza stessa della democrazia. Che, come la Cavallerizza, o è reale o non è.
La costruzione dell'Arzanà dei vinissiani" iniziò mille anni fa. Dante ne scrisse 7 secoli fa nella Commedia. Oggi sembra che abbia inizio la distruzione di un complesso il cui valore culturale non è inferiore a quello del Colosseo romano o dell'Acropoli ateniese, ma forse ancora più importante di quei monumenti per la storia della città e del territorio di cui è parte. La Nuova Venezia, 29 maggio 2014
Mentre sta dando gli ultimi ritocchi al suo piano per le destinazioni d'uso delle varie aree comprese nel complesso dell'Arsenale, il Comune ha convocato per il 30 maggio un "workshop" o seminario di lavoro il cui titolo è "Scenari per il rinnovato uso e la gestione dell'Arsenale di Venezia" (traduco dall'annuncio originale, che è naturalmente in inglese). Al seminario sono invitate una dozzina di organizzazioni internazionali, che dovranno presentare idee e proposte. Ai partecipanti il Comune indica gli scopi ai quali intende mirare e che gli esperti dovranno tenere in mente: i "goals" del seminario.
La cruda eloquenza dei numeri ci dice che l'Italia, che fino al 2009 spendeva in cultura lo 0,9% del Pil, è calata allo 0,6% nel 2011, finendo così all'ultimo posto fra i 27 Paesi dell'Unione. Il 2012 conferma questo dato terrificante. Lieve incremento nelle regioni del Nord, quelle del Centro stabili sugli stessi valori, ma al Sud un ulteriore, drammatico calo In Europa l'Italia evidenzia il più alto disinvestimento nel decennio (meno 33,3%), più del doppio rispetto alla Grecia (meno 14,3%).
Intanto altri Paesi, dall'Olanda all'Ungheria, dalla Danimarca alla Slovenia, investono nel settore oltre 1'1,5% del Pil, e quasi tutti gli altri Paesi europei oscillano tra l'1 e l'1,5%.Tutt'altro che consolante la spesa in consumi culturali delle famiglie italiane, uno striminzito 7,2%, nettamente inferiore alla media europea (8,9%).Secondo dati del 2013, l'Italia è in fondo alla classifica per livello di partecipazione dei cittadini ad attività culturali 8%, un dato davvero imbarazzante a petto del 43% della Svezia, 36% in Danimarca, 34% in Olanda, e così via.La contrazione della spesa in questo settore è stata più pesante che in qualsiasi altro (siamo passati da 51,62 euro pro capite nel 2000 a 30,52 nel 2011 ), ma si è distribuita nelle diverse aree del Paese in modo non uniforme. Val d'Aosta, Friuli, Lazio e Sardegna fanno eccezione, ma tutte le altre regioni sono penalizzate da un disinvestimento rilevante, che colpisce specialmente le regioni del Sud, accentuando il divario storico dal centronord.
Le risorse aggiuntive (fondi strutturali e fondi comunitari), che privilegiano il Sud, sono tuttavia lontanissime dal colmare l'enorme gap che lo separa dal Nord, senza contare che in alcune regioni ( come Puglia e Sicilia) si è registrato dopo il 2009 un forte crollo della spesa aggiuntiva.«Un ulteriore fattore di differenziazione territoriale - scrive il Rapporto - è il ruolo assunto dalle Imprese Pubbliche Territoriali», a cominciare dalle Fondazioni il loro peso «è fortemente cresciuto nel decennio, nell'ambito del calo della spesa pubblica e di una maggiore articolazione della governance», ma con scarsissimo beneficio per l'intero Mezzogiorno (con la parziale eccezione della Campania ), e una forte concentrazione nel Centro-Nord.Nel 2011, il contributo delle Imprese Pubbliche Territoriali alla spesa totale nel settore cultura è pari al 22% nel Nord, al 18% al Centro, all'8% al Sud percentuale bassissima su una spesa complessiva gia assai ridotta, con effetti devastanti sul gia endemico squilibrio Nord-Sud.
«La cultura è tradizionalmente un asse strategico nelle dichiarazioni degli amministratori e dei politici - conclude il Rapporto - ma è al tempo stesso il primo oggetto di taglio di risorse in tutte le fasi di restrizione della finanza pubblica».L'analisi delle dinamiche di investimento e di spesa evidenzia che «lo sviluppo del settore necessita un'offerta pubblica in grado di stimolare la domanda, e ciò soprattutto nei territori caratterizzati da un grado inferiore di sviluppo sociale ed economico». E invece prevale «una visione del settore culturale come lusso per tempi felici, effimero rispetto ad altre esigenze».
Il Rapporto raccomanda «un solido miglioramento del contesto intersettoriale, dai trasporti alla sicurezza, dalla comunicazione alla semplificazione amministrativa»; «una chiara e lungimirante politica nazionale nell'ambito di una governance unitaria»; l'accorta gestione delle politiche di coesione «non solo per le risorse aggiuntive che garantiscono, ma per la capacità progettuale che richiedono»; infine, l'integrazione di risorse pubbliche e private, anche con strumenti di agevolazione fiscale. A quest'ultimo obiettivo risponde, nel decreto Franceschini recentemente varato, la nuova normativa sul mecenatismo, un passo avanti che però resterà lettera morta se non accompagnato da una forte e consapevole politica di nuovi investimenti che capovolga la perversa tendenza alla carestia perpetua, evidenziata dai dati ora emersi.
È vano fare la ruota elogiando qualità e quantità del nostro patrimonio culturale, sbandierando stolte vanterie (come la pseudostatistica, stancamente ripetuta da finti esperti d'ogni colore, secondo cui l'Italia avrebbe il 50, 60, 70% dei beni culturali del mondo ), se poi continuiamo a disinvestire e chiudiamo gli occhi per non accorgercene.
È vano sognare miracolosi interventi di privati, se non facciamo nulla per rilanciare le strutture pubbliche della tutela: che non sono, come talora si blatera, passive strutture di mera conservazione, ma enti di ricerca e conoscenza territoriale, fase ne cessaria per qualsivoglia "valorizzazione" che non sia vuota retorica e flatus vocis. Il Ministero dei Beni Culturali ha bisogno di riavere con estrema urgenza le risorse di cui è stato borseggiato dalla banda del buco Tremonti-Bondi nel 2008; ha bisogno di massicce nuove assunzioni di giovani preparati, in deroga a qualsiasi retorica del blocco della spesa pubblica; ha bisogno di nuove idee, e prima di tutto della coscienza condivisa che l'investimento nel settore, conforme alla Costituzione, non è un optional ma ingranaggio essenziale dell'orizzonte dei diritti, della costruzione dell'eguaglianza e della dignità della persona.
Il ministro Franceschini ha saggiamente ripudiato la volgare metafora del patrimonio culturale come "petrolio" d'Italia, e giustamente insiste sulle sue potenzialità. Ma per dispiegarle non occorrono né commissari né manager, genericissima qualifica che fino ad ora nulla ha prodotto nel settore se non sprechi e rovine, e che invece il decreto addita come soluzione salvifica, senza il minimo sforzo di spiegare perché. A fronte di risorse in calo, nessun manager di qualità sarà mai interessato a lavorare nel settore; e se uno ve ne fosse, non potrà che fallire.
Quando, invece che stracciarsi le vesti sulla cronica mancanze di risorse e inventare palliativi, il governo getterà sul tappeto il tema, perpetuamente rimosso, della gigantesca evasione fiscale che affligge il Paese, terzo al mondo per evasione dopo Messico e Turchia? Basterebbe recuperare un decimo dei 154 miliardi di euro l'anno di tasse non pagate, e come per incanto la scuola, i beni culturali, i servizi sociali potrebbero rifiorire.
proprietarie delle più belle dimore storiche tra i vigneti dell'Amarone». L'Espresso, 23 maggio 2014
Anche le le ville venete insorgono contro il cemento. Succede in Valpolicella, tra Verona e il Lago di Garda, in una zona doc che è famosa nel mondo per la qualità dei suoi vini, come l'Amarone e il Recioto. E per la bellezza del paesaggio, con distese di vigneti e ciliegi contornate da antichi muri in pietra, chiese romaniche, paesini storici e splendide ville nobiliari.
A partire dagli anni Sessanta, purtroppo, anche questa provincia veneta, come troppe parti d'Italia, è stata stravolta da un'ondata di nuove costruzioni speculative, con schiere di lottizzazioni-conigliere, orridi capannoni e mostruosi ipermercati, che hanno arricchito pochi affaristi danneggiando un territorio che è la vera ricchezza di tutti. Uno dei maggiori comuni della Valpolicella, Negrar, è diventato addirittura un luogo-simbolo di questi decenni di cementificazione insensata. Eppure proprio qui una giunta di centrodestra, ora in scadenza, ha varato un nuovo “piano di assetto del territorio” che minaccia di consegnare agli speculatori anche le ultime aree verdi, perfino nella frazione-gioiello di Arbizzano, tanto che le opposizioni lo hanno ribattezzato “piano d'assalto del territorio”.
Per cercare di salvare ciò che resta dell'ambiente e del paesaggio, da mesi si stanno mobilitando dozzine di associazioni civiche e comitati locali. Tra i cittadini più informati e sensibili c'è un ricercatore, Gabriele Fedrigo, autore di un libro-inchiesta che documenta decenni di orrori urbanistici, con un titolo eloquente: «Negrarizzazione: speculazione edilizia, agonia delle colline e fuga dalla bellezza». Nell'agosto scorso, di fronte ai nuovi progetti speculativi della giunta di destra, aggravati dalla scoperta di gravi casi di inquinamento industriale delle falde, Fedrigo ha affisso alle finestre della propria abitazione, a Negrar, due striscioni con queste scritte di protesta: «Basta cemento» e «Acqua e aria sane».
A fine aprile, l'amministrazione comunale ha reagito: il ricercatore si è visto notificare un avviso di apertura di un procedimento sanzionatorio, che gli contesta una pretesa violazione del regolamento comunale sul «decoro urbano delle aree scoperte». Come se a rovinare il paesaggio di Negrar fossero gli striscioni di protesta, anziché le colate di cemento o gli avvelenatori delle acque. Il singolare provvedimento, emesso a ridosso delle elezioni comunali del 25 maggio, si chiude con una diffida a rimuovere le scritte di protesta, sotto minaccia di multe salate. Alla rituale richiesta di presentare una difesa scritta, Fedrigo ha risposto comunicando che «la mia memoria difensiva è la Costituzione italiana, che tutela il paesaggio e la libertà di pensiero»: «Gli striscioni sono stati esposti come forma di manifestazione del mio pensiero, per esprimere la mia protesta e indignazione contro una politica di gestione del territorio palazzinara e devastante».
Il tentativo politico di zittire il ricercatore scomodo, proprio in coincidenza con la fase finale di una campagna elettorale che è diventata una specie di referendum pro o contro il cemento, ha scandalizzato molti cittadini. E tra i tanti indignati sono comparse, a sorpresa, alcune delle più nobili famiglie veronesi, proprietarie delle più famose ville storiche della Valpolicella. In breve, sulle splendide facciate di queste dimore secolari, sono comparse le stesse scritte di protesta, in aperta solidarietà con Fedrigo: «Basta cemento». Ora il tam-tam dell'iniziativa sta facendo il giro di Internet, dove cittadini e associazioni si scambiano una cartolina con la casa di Fedrigo contornata dagli striscioni di protesta comparsi sulle prime otto ville (come gli otto comuni della Valpolicella) che hanno raccolto la sfida contro la definitiva cementificazione del territorio.
Il Fatto quotidiano, 22 maggio 2014, con postilla
Difficile dimenticare un’alba tra le torri di San Gimignano, a buon diritto definita dall’Unesco (che nel 1990 ne ha incluso il centro storico nel patrimonio dell’umanità) un “capolavoro del genio creativo umano”. Ma se uno fa l’errore di rimanerci fino alle 11 di mattina, sarà indimenticabile anche l’invasione turistica che fa della cittadina medioevale della Val d’Elsa una piccola Venezia. Nei giorni di punta anche ventimila consumisti della vista marciano a passo di corsa lungo le due strade e nelle due piazze in cui consiste la meravigliosa ruota da criceti in cui si autoconfina questo rito di conformismo di massa. Quasi ventimila pullman e due milioni di auto fanno sbarcare – spesso dopo chilometri di coda – tre milioni di persone all’anno (anzi in otto mesi: perché dai Morti a Pasqua non c'è quasi nessuno) in un centro che conta poco più di mille residenti.
Qualche anno fa il costante aumento di queste cifre da capogiro aveva indotto l’Unesco a chiedere (inutilmente) un numero chiuso, per difendere i monumenti dall’usura: ma il vero problema non riguarda le pietre, riguarda la qualità della vita dei cittadini. Il sito web del Comune è una gigantesca excusatio non petita: “Se un viaggiatore, entrando in San Gimignano, avesse l’impressione che la dimensione prevalente è quella a misura di turista farebbe bene a ricredersi alla svelta”, perché “San Gimignano non è solo le sue splendide torri, né solo il tessuto urbano, o l’ingente patrimonio artistico che chiese, palazzi e musei conservano, ma è anche un corpo vivo e attivo”. Quel corpo è ancora vivo, sì: ma non lo sarà ancora per molto. Negli ultimi trent’anni, il centro storico ha perso due terzi dei suoi residenti: man mano che il turismo è diventato la monocultura economica e l’unica dimensione esistenziale, San Gimignano ha progressivamente perso i connotati della città per assomigliare sempre più a una quinta cinematografica, a una Disneyland del Medioevo, con tanto di ben tre ‘musei’ della tortura.
I paurosi prezzi delle case, la riduzione e l’omologazione delle professioni possibili, il bassissimo livello di un turismo da mezza giornata (quando va bene) mettono in fuga i giovani.
Tutto è per i turisti, e prima e dopo il loro grottesco turno (11-18) la città non c’è più: e fa davvero impressione sentirsi dire che la sera d'inverno, dopo le nove, l’unico posto pubblico in cui ci si può trovare per fare quattro chiacchiere è la lavanderia a gettone.
Di fronte a questa situazione, l’unica strada sarebbe coltivare un turismo di qualità, diversificare l’economia, e soprattutto ridare un senso civico e comunitario al patrimonio artistico. E invece che fa la giunta guidata dal Pd Giacomo Bassi? Affida per cinque anni tutti i musei comunali (seconda voce delle entrate del Comune, dopo i parcheggi) a Opera Laboratori Fiorentini, del gruppo Civita (presidente Gianni Letta): il più grande oligopolista del patrimonio italiano, che gestisce già – tra il molto altro – gli Uffizi e i musei di Siena. E questo vuol dire uscire dal circuito della ricerca ed entrare definitivamente in quello dell’intrattenimento di cassetta: vuol dire che vedremo a San Gimignano mostre trash profumate di Van Gogh e Caravaggio, come in qualunque altro non-luogo sfigurato dalla triste omologazione commerciale che opprime le nostre città d’arte. E così i ragazzi di San Gimignano avranno un motivo in più per andarsene. Chi ha capito benissimo la situazione sono i cinesi. La multinazionale ForGood ha deciso di costruire un’altra San Gimignano nei sobborghi di Chongqing, uno degli agglomerati urbani maggiori del mondo (circa 33 milioni di abitanti).
Avete capito bene: 253 ettari saranno impiegati per ‘ricreare’ un angolo di paesaggio toscano – con tanto di colline e di piante tipiche, viti incluse – che ospiterà una San Gimignano 2: non una copia esatta, ma una sorta di generica cittadina toscana “medioevale” con torri. L’allucinante iniziativa è stata presentata ai cittadini di San Gimignano dagli architetti dello studio pisano che sta seguendo il progetto, i quali l’hanno descritto come “un nuovo incredibile centro turistico, con la nostra atmosfera artistico culturale: un'esperienza commerciale unica”. Già, perché i cinesi hanno intuito che copiare San Gimignano non vuol dire copiare una città, ma un centro commerciale medioevale, un outlet della storia, un mall della “cultura” senza veri abitanti, ma solo con clienti. La domanda è: hanno preso un abbaglio o hanno, tragicamente, capito quello che sta succedendo?
Domenica si vota anche nella cittadina toscana: una buona occasione per invertire la rotta. Forse l’ultima: prima che San Gimignano diventi la copia della sua copia cinese.
«Ogni opinione, naturalmente, è lecita; però dire che Expò sarà una colata di cemento, mentre l’eredità di Expo sarà un parco di quasi 50 ettari, uno dei più grandi d’Europa, non ha niente a che vedere con il legittimo dissenso». Il manifesto, 22 maggio 2014 (m.p.r.)
Ho letto l’articolo di Guido Viale su Expo e siccome il suo giudizio è costruito anche su informazioni inesatte, credo sia mio dovere correggerle e spiegare le scelte della mia amministrazione. Ogni opinione, naturalmente, è lecita; però dire che Expo sarà una colata di cemento, mentre l’eredità di Expo sarà un parco di quasi 50 ettari, uno dei più grandi d’Europa, non ha niente a che vedere con il legittimo dissenso. Parto anch’io dalla campagna elettorale per ricordare che nel programma della coalizione, voluto da tutti i partiti che mi sostenevano — da Prc a Sel al Pd — non c’era scritto da nessuna parte che Milano avrebbe abbandonato l’Expo.
Anzi, c’era scritto che si trattava di un appuntamento irrinunciabile. Certo, tutti, a cominciare da me, promettevano un Expo ben diversa da quella descritta nell’articolo di Guido Viale e questa promessa è stata mantenuta.
Expo non sarà semplicemente un’esposizione universale; sarà una vetrina di contenuti. Come a Kyoto si sono gettate le basi per combattere i cambiamenti climatici, a Milano in occasione di Expo, quando avremo qui 140 Paesi, getteremo le basi di una nuova e più sana politica alimentare che lotti contro la fame nel mondo, gli sprechi alimentari, l’accaparramento dei terreni agricoli dei paesi poveri, che sia per l’acqua bene comune, per la sostenibilità della catena alimentare.
Leggo equivoci anche sul dopo Expo. Su quelle aree – che non abbiamo scelto noi — non ci sarà nessuna speculazione edilizia o finanziaria. Il 54 per cento del sito sarà destinato a verde e la restante parte ad un grande progetto, scelto attraverso un bando trasparente e aperto a tutti, che abbia anche una utilità pubblica. Lascito di Expo sarà anche una storica e bellissima cascina milanese, la Cascina Triulza, ristrutturata dopo anni proprio per questa occasione. Sarà la sede del volontariato, della cooperazione internazionale, delle Ong, dell’associazionismo sociale. Un sede permanente, definitiva, che rimarrà anche dopo il 2015. E la Darsena, il vecchio porto di Milano, sarà riaperto dopo decenni di abbandono.
In momenti difficili come questi, confesso che non trovo per niente da snobbare nemmeno la possibilità di avere oltre 200 mila posti di lavoro. O gli effetti positivi sul Pil e sull’occupazione che continueranno fino al 2020, generati da un indotto che sarà di dieci miliardi di euro.
Comunque, anche per me, sono i contenuti l’aspetto più importante. E in questo abbiamo avuto fortuna: l’Expo, per una questione di reputazione internazionale, avremmo dovuto farla comunque, a meno di non fare davanti al mondo la figura di una repubblica delle banane, però farla sul tema della nutrizione ci consente di avere un peso su un tema fondamentale. E su questo, forse a Viale è sfuggito, stiamo lavorando con le migliori intelligenze, a partire proprio da Carlin Petrini che con Slow Food avrà un ruolo decisivo sui temi cardine dell’Esposizione.
Credo che Viale giudichi la città in base a degli stereotipi: vero che il Salone del Mobile è un momento magnifico. Ma, caro Guido, c’è anche altro: Book City riempie la città di eventi legati alla lettura e avresti dovuto essere con noi la settimana scorsa, quando il progetto Piano City ha acceso la città di oltre trecento concerti in ogni angolo di Milano. Tutte iniziative legate ad ‘Expo in città’. Avresti visto – e non è un’esagerazione – persone felici, come saranno felici le persone che lunedì saranno in Piazza Duomo per ascoltare gratuitamente la Filarmonica della Scala.
Diciamo che il modello–salone, nell’accezione di coinvolgere il maggior numero di persone possibili, di toccare con iniziative ogni zona della città, di fare cultura diffusa, è il nostro modello. E così sarà, naturalmente, per Expo, quando Milano sarà una città ancora più accogliente, allegra, aperta. Pronta a ricevere tante persone che arrivano da tutto il mondo, non certo per scambiare affari, ma per scambiare conoscenza e immaginare un futuro migliore per tutti.
Capisco che nessuno sia profeta in patria, però per uscire da un certo pessimismo cosmico, suggerisco di dare una scorsa ai giornali stranieri: ieri eravamo su Le Monde, apprezzati per avere vinto un premio importante dell’Ocse, primi tra tutte le città europee. Una sorta di ‘Oscar’ per quanto abbiamo fatto e stiamo facendo per la mobilità sostenibile. Siamo stati chiamati a far parte dei C-40, le città leader nelle politiche ambientali. Ci chiedono il know how per la raccolta differenziata visto che siamo insieme a Vienna al livello più alto tra le grandi città d’Europa. Insomma, non mi sembra affatto che abbiamo perso un’occasione. Piuttosto, l’occasione, abbiamo saputo coglierla, ora dobbiamo coltivarla insieme a tutte le forze sane del Paese. Altro che cemento…
«Expo e corruzione. Sfilarsi dal progetto, scegliere il modello "fuori salone", decidere di seguire l’idea di Petrini sulla trasformazione del parco agricolo di Milano. Invece ha vinto la colata di cemento.Il manifesto, 20 maggio 2014
Come per De Magistris, Zedda e Doria anche il sindaco Pisapia era stato eletto sull’onda di una mobilitazione straordinaria per partecipazione, entusiasmo, creatività. Pisapia doveva porre fine alle malefatte di Letizia Moratti. E tra quelle tante malefatte la peggiore è senz’altro l’Expò: un “Grade evento” fatto di “Grandi Opere” che non hanno alcuna giustificazione se non distribuire commesse, incassare tangenti e tenere in piedi un comitato di affari impregnato di corruzione e di mafia che aveva già devastato la città per anni. Si badi bene: le tangenti sono una conseguenza e non la causa.
Avendo ereditato l’Expò dalla Moratti, Pisapia si era impegnato a renderla comunque meno pesante possibile. Ma ha tradito quel mandato. Non è in discussione la sua onestà, né la sua buona fede; lo sono le sue scelte. Appena insediato è stato trascinato a Parigi da Formigoni per sottoscrivere gli impegni con l’Ufficio Internazionale dell’Expò. Da allora l’Expò ha preso il posto dei progetti presentati in campagna elettorale, alcuni dei quali sanciti dalla vittoria di sei referendum cittadini (senza seguito). E con l’Expò ha cominciato a dissolversi quell’ondata di entusiasmo e di speranze che aveva portato Pisapia in Comune.
Oggi in città la partecipazione, che era stata la grande promessa di quella campagna elettorale, è a zero. E le forze che si erano impegnate per sostenerlo – e soprattutto i giovani, e tra i giovani i centri sociali — sembrano ormai orientate a non votare nemmeno più: per nessuno. E’ questo l’effetto peggiore di quel tradimento.Poteva andare diversamente? Certamente sì. Ma solo con un taglio netto nei confronti della cultura dominante: il pensiero unico; il refrain del “non c’è alternativa”.
«Sarà un rilancio per l’economia per tutto il paese», ci hanno detto uno dopo l’altro Prodi, Berlusconi, Monti, Letta e Renzi. Ma c’è qualcuno che veramente ci crede? Gli ultimi Expò, con l’eccezione di Siviglia, sono stati un bagno di sangue per le città e i paesi che li hanno ospitati. «Sarà il rilancio dell’immagine dell’Italia nel mondo» ripetono. Sì, ma dell’Italia come il paese più corrotto dell’Ocse, e forse del mondo.
Eppure Pisapia le alternative le aveva: quando si è insediato, bastavano 20 milioni di euro di penale (una “bazzecola” rispetto a quelli che ci costerà l’Expò) per sfilarsi dal progetto. Le ragioni per farlo non mancavano: nell’epoca di internet una esposizione universale è un’idea stupida; e da tempo le Expò sono bagni di sangue: si aspettano milioni di turisti straricchi dall’estero e poi bisogna fare appello alle visite scontate dei connazionali per risollevare un po’ i bilanci; d’altronde, “nutrire il pianeta” con una colata di cemento non è un’idea geniale o innovativa.
La seconda opzione era l’Expò diffuso (sul modello del “fuori salone” abbinato da anni alla fiera del mobile, che ha sempre molto successo). A Pisapia quel progetto glielo aveva messo in mano un gruppo di architetti, designer e urbanisti che ci lavorava da tempo (c’è anche una pubblicazione in proposito); sarebbe costato molto meno, non avrebbe comportato penali, e i soldi spesi sarebbero serviti per rendere più bella la città; ma più difficili e meno remunerative speculazione e corruzione.
La terza opzione era seguire i suggerimenti di Petrini: nutrire Milano per insegnare a nutrire il pianeta. Cioè promuovere la trasformazione del parco agricolo Sud Milano, il più grande d’Europa, in un giardino coltivato a frutta e ortaggi, per alimentare le mense gestite dal Comune (80.000 pasti al giorno); per promuovere una rete di Gas (gruppi di acquisto solidale, trasferendo a costo zero il know-how di chi un Gas lo sa fare, perché lo ha già fatto, a chi vorrebbe farlo e non sa da dove cominciare; magari con un pizzico di promozione); per insegnare a tutti a magiare meglio e a chi lavora la terra a trasformarla in vera ricchezza; e poi, portare i visitatori a vedere quel miracolo.
Dulcis in fundo, il progetto iniziale prevedeva un canale navigabile per farvi arrivare in barca i visitatori - le “vie d’acqua” - parallelo a un naviglio leonardesco, come segno di sfida tra “moderni” e “antichi”. Nel corso del tempo quel progetto si è trasformato in una fogna in cemento di due metri di larghezza, per far defluire le acque della fontana che ornerà la “piastra”. Poi si è deciso di interrarne una buona parte per far fronte alle proteste degli abitanti di alcuni quartieri. Ma il costo è rimasto immutato (80 milioni) e l’appaltatore pure (Maltauro, quello delle mazzette); anche se il progetto non sarà comunque pronto per l’Expo.
Il problema vero che tutti i cittadini di Milano e d’Italia si pongono è invece questo: quante altre cose meravigliose si sarebbero potute fare con i miliardi dell’Expò? Ma è una domanda che a Pisapia non ha fatto nessuno.
Il Fatto Quotidiano, 20 maggio 2014
La riforma della P.A. annunciata dal premier Matteo Renzi e dalla ministra Marianna Madia prevede di superare i “blocchi” dei pareri paesistici e delle Soprintendenze (“dobbiamo ridurre i casi in cui il parere serve”, ha detto Renzi). La filosofia sottostante è quella espressa da Giovanni Valentini su Repubblica: le soprintendenze “troppo spesso” sarebbero “di freno e ostacolo allo sviluppo”. Galoppando su questa linea, che si potrebbe chiamare delle mani (libere) sul territorio, alcuni senatori del Partito Democratico hanno usato la legge di conversione del cosiddetto Decreto Casa (sarà approvata definitivamente oggi, dopo che ieri la Camera ha detto sì alla questione di fiducia del governo) per imbucare un articolo che allarga la possibilità - già concessa dal lettiano decreto del Fare - di installare ovunque “case mobili” senza chiedere alcun permesso di costruire.
Così le piazzole per tende dei campeggi di tutta Italia potrebbero trasformarsi per incanto in altrettante schiere di casette e bungalow: e, chissà, un domani potrebbero mettere radici e trasformarsi in vere case di vero cemento. Molte recenti sentenze dei Tar, del Consiglio di Stato e della Cassazione hanno invece ribadito che se questi insediamenti sono permanenti (per esempio attraverso l’allaccio alle reti idriche, energetiche e fognarie ), essi incidono sul territorio e dunque devono passare attraverso tutti i vagli di legge. Al contrario, l’emendamento del Pd permette di fare esattamente quel che sognano Renzi e Madia, e cioè aggirare piani regolatori, piani paesaggistici e vincoli e costruire ovunque: perfino nei parchi nazionali o in aree archeologiche. Un parere dell’Ufficio legislativo del Mibac ha cercato di circoscrivere le nefaste conseguenze di questo punto del decreto del Fare, chiarendo che le autorizzazioni paesaggistiche non possono essere omesse: ma si tratta pur sempre solo di un parere, e questa nuova riscrittura della legge rischia di aprire un grosso varco. Un varco alla costruzione di strutture ufficialmente mobili, è vero: ma la storia italiana insegna che non c’è niente di più stabile dell’effimero. E le nostre pinete e le nostre coste non hanno certo bisogno di un’ondata di urbanizzazione selvaggia.
Il simpatico grimaldello distruggi-paesaggio, introdotto in Senato, da oggi sarà legge grazie alla scelta del governo di includerlo nel pacchetto sottoposto a duplice voto di fiducia, che rende nere tutte le vacche nella notte della democrazia. I promotori sono stati quattro senatori pd: Stefano Collina, primo firmatario, eletto in Emilia Romagna, Mario Morgoni, eletto nelle Marche, Andrea Marcucci e Manuela Granaiola, entrambi eletti in Toscana ed entrambi firmatari nel novembre scorso di un emendamento che aveva l’obiettivo di vendere ai proprietari degli stabilimenti balneari le spiagge demaniali che hanno in concessione per “contribuire al risanamento dei conti pubblici”. Un provvedimento che hanno poi dovuto ritirare, sommersi dall’onda di sdegno suscitata da un’idea di svendita dei beni comuni tanto intimamente berlusconiana.
È da notare che Marcucci (già Pli, già Lista Dini, già Margherita, ora renziano di ferro) è stato sottosegretario ai Beni culturali (e dunque anche al paesaggio) ed è ora nientemeno che presidente della commissione Cultura del Senato. Difficile liquidare questa uscita come l’iniziativa estemporanea del primo che passa: è invece un segno del fatto che la “Svolta buona” di Renzi rischia di avere un inconfondibile color cemento. E c’è da chiedersi se non sia proprio a causa di questo orientamento “maniliberista” del senatore Marcucci se la commissione del ministero per i Beni culturali (presieduta da Salvatore Settis, che certo ha un altro orientamento) che dovrebbe revisionare il Codice dei Beni culturali e del paesaggio non sia ancora riuscita, dopo nove mesi dalla nomina, ad avere la delega dal Parlamento.
Il caso è stato sollevato pubblicamente dal consigliere nazionale di Italia Nostra Emanuele Montini, e inutilmente nelle ultime ore il blog Carteinregola (che riunisce centotrenta associazioni e comitati romani) ha scritto ad ogni deputato “sperando che qualche politico di buon senso, come è già successo per la privatizzazione delle spiagge,faccia sentire la voce dei cittadini più forte di quella delle lobbies”.
Antonio Cederna non si stancava di ripetere che bisogna stare attenti “perché sennò ci strappano il territorio da sotto i piedi, perché l’Italia è il Paese più provvisorio che ci sia”. È ancora così. Il Paese è terribilmente provvisorio, ma le case provvisorie di cui Marcucci & c. vorrebbero coprirlo rischiano, invece, di essere eterne.
Riferimenti
Sull'argomento vedi su eddyburg gli articoli di Annamaria Bianchi e, dal manifesto, di Paolo Berdini.
Stasera la banca d’affari newyorchese Morgan Stanley accoglierà i suoi danarosissimi ospiti per una cena ultraesclusiva (organizzata dall’albergo di lusso Four Seasons) nel Cappellone degli Spagnoli, che è la sala capitolare trecentesca di Santa Maria Novella a Firenze. Si chiama così perché, a metà del Cinquecento, divenne la cappella dove si riunivano gli spagnoli del seguito di Eleonora di Toledo, moglie del granduca Cosimo I. È, insomma, una chiesa – con tanto di grande crocifisso marmoreo sull’altare – completamente coperta di affreschi che raccontano la spiritualità e le opere dell’ordine mendicante fondato da San Domenico.
La brillante idea di usarla come location al servizio della grande finanza responsabile della crisi è del vicesindaco e candidato a sindaco Dario Nardella: la cappella è, infatti, compresa nel circuito museale comunale. Rispettando più il desiderio di discrezione del gruppetto di super-ricchi che non il diritto dei cittadini a essere informati dell’uso del loro patrimonio monumentale, il Comune ha tenuto finora segreto l’evento. Ma si apprende che il beneficio economico sarà minimo: meno di 20 mila euro, che dovrebbero essere destinati al restauro di un’opera d’arte. La precipitosa e silenziosa organizzazione della serata – gestita direttamente da Lucia De Siervo, responsabile della Direzione cultura di Palazzo Vecchio e membro del cerchio magico renziano – potrebbe comportare la temporanea chiusura della chiesa di Santa Maria Novella (eventualità che ha fatto infuriare il Fondo Edifici di Culto del ministero dell’Interno, proprietario del tempio), e obbligherà a collocare le cucine in un chiostro del convento ancora di proprietà dei frati, all’oscuro di tutto.
Nardella, evidentemente, non cambia verso rispetto a Renzi: l’unico uso del patrimonio pubblico è ancora quello commerciale. Ma vista la grottesca esiguità del canone, è evidente che il vero movente è piuttosto quello di disporre di queste location per costruire e consolidare la rete dei rapporti politici ed economici del gruppo dirigente renziano, assai proclive a frequentare la più spregiudicata finanza internazionale. Colpisce che il connubio chiesa-lusso-affari non turbi i sonni di politici che non perdono occasione per esibire il proprio cattolicesimo. Negli affreschi del Cappellone i milionari vedranno San Domenico, ardente di amore per la povertà, che converte e confessa coloro che vivono nel lusso: ci si riconosceranno? Poco più in là vedranno rappresentato il trionfo di San Tommaso d’Aquino, il grande filosofo medioevale che scrisse che “il lucro non può essere un fine, ma solo una ricompensa proporzionata alla fatica”, e che “nessuno deve ritenere i beni della terra come propri, ma come comuni, e dunque deve impiegarli per sovvenire alle necessità degli altri”. Chissà cosa avrebbe pensato se avesse saputo che la sua immagine dipinta avrebbe un giorno decorato la location di un banchetto per i super squali che hanno costruito la più grande disuguaglianza della storia umana.
Il prossimo passo quale sarà? Far sfilare modelle in biancheria intima su un altare? Ma si è già fatto, e proprio a Firenze: in Santo Stefano al Ponte, con la benedizione della Curia. Si arriverà a prestare pezzi di chiese gotiche a centri commerciali? Già fatto anche questo: Oscar Farinetti ha appena annunziato che porterà un pezzo del Duomo di Milano nel suo supermercato sulla Fifth Avenue, a New York, per la precisione “due guglie”. E sì, la Veneranda Fabbrica del Duomo (quella che voleva mettere un ascensore per fare una terrazza da aperitivi sul tetto della Cattedrale) gli presta due guglie da tempo musealizzate, con relative statue di santi. Non per un progetto scientifico, ma come attrazione: insieme a quattro di quelle che Farinetti ha chiamato “grondaie” (le gronde gotiche), e a quella che ha definito “una statua di Santa Lucia incinta”. Ora, Santa Lucia era vergine e finì martire: ma incinta non risulta, e probabilmente l’esuberante Farinetti ha frainteso la veste goticamente cinta sotto il seno della bellissima Santa Lucia del Maestro del San Paolo Eremita, che verrebbe strappata al circuito del Museo del Duomo. Ma il punto non è la gravidanza della statua, né la cultura del patron di Eataly: il punto è chiedersi se abbia senso portare pezzi di una grande chiesa medioevale in un supermercato di cibo a New York, o far banchettare i banchieri in una chiesa del Trecento.
Il Vangelo dice che non si può servire a due padroni, e che si deve scegliere tra Dio e il denaro: bisogna riconoscere che sia la Veneranda Fabbrica sia Nardella hanno scelto. Ma anche chi non ha scrupoli religiosi dovrebbe preoccuparsi per la distruzione della funzione civile del patrimonio culturale. Chi crede nel marketing dovrebbe interrogarsi sulla ridicola entità degli utili, e chi immagina che questa privatizzazione sia la via del futuro dovrebbe farsi qualche domanda sulla mancanza di trasparenza. Gli unici che in nessun caso avranno dubbi sono i pochissimi che ci guadagnano: questo è certo.
Tutti piangono la città, la società e l'ambiente feriti a morte, insieme a lavoro e operai. Quarant'anni fa si prevedevano le conseguenze, nessuno ascoltava, Cederna considerato una Cassandra: ma le visioni della sacerdotessa di Apollo erano sempre giuste. Il manifesto, 15 maggio 2014
«Soffocata a occidente dall’enorme zona industriale (centro siderurgico Italsider) e a oriente da una sgangherata espansione edilizia, Taranto offre oggi al visitatore uno spettacolo raccapricciante, esempio da manuale di che cosa può produrre il sonno della ragione, cioè il sistematico disprezzo per le norme elementari del vivere associato nel nostro tempo». Non è un’inchiesta dei giorni nostri, è un articolo profetico di Antonio Cederna sul Corriere della Sera del 18 aprile del 1972, quarantadue anni fa. In un pezzo di qualche giorno prima aveva scritto: «Era logico pensare che un’impresa così gigantesca che coinvolge tutto il territorio dovesse essere inquadrata in un provvedimento urbanistico ed economico strettamente coordinato e integrato con ogni altra attività (agricoltura, media e piccola industria, difesa delle risorse ambientali, edilizia economica e popolare, eccetera) provvedendo nello stesso tempo ad affrontare i problemi creati dal proprio peso schiacciante (dalla progressiva analisi del traffico all’inquinamento dell’aria e dell’acqua).
Poi, a mano a mano, è cambiato tutto e il recupero è finito su un binario morto. Nel 1993 fu eletto sindaco Giancarlo Cito, una specie di Berlusconi in formato ridotto. Anche lui, all’inizio degli anni Novanta, usando spregiudicatamente una sua televisione locale, raccolse crescenti consensi e nel 1993 fu eletto sindaco con un suo partito, AT6 — Lega d’Azione Meridionale. Assunse iniziative spettacolari, ma durò poco. Nel 1995 fu rinviato a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa. Deputato nel 1996, è stato poi definitivamente condannato e incarcerato. Da ricordare anche Rossana Di Bello, la prima donna sindaco di Taranto dal 2000 a 2006, esponente di Forza Italia, che provocò un pauroso dissesto nelle finanze comunali.
Intanto Taranto diventa sempre più «la piccola appendice di un gigantesco monnezzaio» (Adriano Sofri). Accanto al più grande centro siderurgico d’Europa convivono un porto industriale, una raffineria, un cementificio, due termovalorizzatori, centinaia di altre attività cresciute vertiginosamente: un immane complesso industriale è scagliato addosso a una città dalle strutture fragilissime. Dall’inizio dell’industrializzazione, la superficie urbanizzata si è almeno decuplicata, da circa 500 a oltre 5.000 ettari, più della metà per attività produttive.
Una città e un paesaggio fino a cinquant’anni fa di emozionante bellezza, sono oggi irriconoscibili. L’isola versa in condizioni orribili, è in rovina, in gran parte disabitata e murata per impedire l’accesso nelle aree a rischio di crolli. I muri esposti ai venti che vengono dalla fabbrica sono marcati dai segni rossastri delle polveri dei parchi minerari criminosamente collocati a ridosso del cimitero, del centro storico e del quartiere Tamburi. Ai bambini del quartiere è proibito giocare negli spazi verdi (si fa per dire) contaminati da berillio, antimonio, piombo, zinco, cobalto nichel e altri veleni. La rovina colpisce anche la campagna in gran parte trasformata in una sconfinata e desolata distesa di sterpaglie bruciate dal sole e dagli incendi. Viene proibito l’allevamento del bestiame e sono soppressi gli animali contaminati. Sono state smaltite in discarica montagne di cozze coltivate nel Mar Piccolo.
Ma la politica locale e nazionale e i sindacati stanno dalla parte dell’industria, in difesa purchessia del lavoro, poco attenti alle conseguenze micidiali di una dissennata industrializzazione. I primi controlli ambientali a norma di legge cominciano nel 2006 con la presidenza di Nichi Vendola alla Regione Puglia. All’assenza di politiche pubbliche la città risponde con la ricerca privata di migliori condizioni ambientali. I tarantini voltano le spalle alla fabbrica e fuggono verso est, da capo San Vito a Marina di Pulsano e oltre, in quella «sgangherata periferia» che dalla denuncia di Cederna del 1972 ha continuato a essere comandata dal cemento e dall’asfalto. In trent’anni, i residenti in città sono diminuiti di circa 30 mila, una specie di si salvi chi può.
La scena cambia repentinamente nel luglio del 2012, quando la giudice per le indagini preliminari Patrizia Todisco impone all’Ilva della famiglia Riva di sospendere la produzione fino a quando non fossero eliminate le emissioni nocive. L’Italia del Palazzo rimane spiazzata e cerca impossibili compromessi. Il ministro dell’Ambiente Corrado Clini arriva a negare la storia sostenendo che è stata la città a circondare la fabbrica. Il contrasto fra la magistratura da una parte e il governo e l’Ilva dall’altra diventa imbarazzante e settori sempre più vasti dell’opinione pubblica si schierano a sostegno della magistratura.
Si susseguono le inchieste, i servizi giornalistici, le interviste, i sondaggi, che affrontano soprattutto il rapporto fabbrica-salute dando conto dei gravissimi danni inflitti ai lavoratori e a tutti i tarantini dall’apocalittico inquinamento. Ma non mancano le disperate dichiarazioni di chi preferisce la morte alla disoccupazione.
La vasta discussione sull’inquinamento trascura però quasi del tutto le vistose responsabilità del Comune e degli altri pubblici poteri in materia di politiche territoriali. Mentre avanza il degrado, le scelte più importanti fra Comune e Regione hanno riguardato il discutibile impianto — in località Cimino, in prossimità del centro commerciale Auchan e della lottizzazione Sircom, sempre nella sgangherata periferia orientale — del nuovo polo ospedaliero S. Cataldo, che sostituisce l’antico ospedale della SS. Annunziata e quello più recente di Statte.
Invece, a Taranto, proprio per compensare la prepotenza di una spietata industrializzazione sarebbe stato importante — è importante — un impegno eccezionale di Comune e Regione per non arrendersi alla spirale perversa della degradazione e dell’abbandono. Ma forse non tutto è perduto se in un recente documento di Anna Migliaccio destinato alla Regione si legge quanto segue. «Per riconciliare ambiente e società bisogna approntare la cura per i danni accertati e, contemporaneamente, costruire una nuova via allo sviluppo locale, ripartendo dai valori patrimoniali resistenti. Taranto è una città ancora ricca di risorse e, malgrado le offese, capace ancora di convincente bellezza. (…). Dallo splendore resistente di questa antichissima città del Mediterraneo si può e si deve ripartire per ritrovare il bandolo del futuro»
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| Verso il Castello. Foto F.B. |
Botta e risposta sul monumento “effimero” (non si sa quanto) che dovrebbe accogliere il visitatore nel suo percorso dalla città storica verso il sito espositivo e i suoi contenuti culturali. Fulvio Irace e Giancarlo Consonni si schierano rispettivamente pro e contro le scelte progettuali. La Repubblica, 8 e 10 maggio 2014, postilla (f.b.)
di Fulvio Irace
Sabato 10 maggio sarà il giorno della riconciliazione tra Milano e il cantiere dell’Expo: alle 17.30 una parata musicale da piazza San Babila raggiungerà via Beltrami, nella zona di Piazza Castello, dove sarà consegnato alla città Expo Gate, il complesso dei due padiglioni gemelli che funzioneranno da infopoint della manifestazione e, si spera, da centro di rianimazione di un’operazione che sino a questo momento è apparsa a molti tanto problematica quanto nebulosa. Nonostante la sua trasparenza, il Gate di vetro e metallo non sarà tuttavia il Cristal Palace di Milano: progettato dall’architetto Alessandro Scandurra, può essere infatti considerato come un sincero contributo alla storia di Milano capitale del Moderno: laboratorio di un progetto che ancora non è si arreso agli stereotipi del pensiero unico e anzi sfrutta i pochi spazi ancora a disposizione per rivitalizzare una tradizione che la nuova Milano di porta Garibaldi e dell’ex Fiera ha cercato di sterilizzare e rendere del tutto obsoleta.
Per quanto marginali e temporanei, i due padiglioni di Scandurra ci danno una misura di come sarebbe potuta essere Milano se la sua pianificazione fosse stata più meditata e meno succube alle esigenze del Real Estate e dei capitali globali. Cos’ha di particolare l’Expo Gate che i milanesi dovrebbero imparare ad apprezzare, se non amare? Innanzitutto la devozione di un pensiero progettuale che non parte da una forma stravagante da vendere come scatola delle meraviglie per indigeni ingenui. Il progetto è semplice e al tempo stesso sottile e complesso. Parte dal luogo e cerca di dare una risposta alle esigenze di rivitalizzazione di un’area che funzionava più o meno da parcheggio o da crocevia caotico di traffico. La pedonalizzazione dell’area del Castello ha trovato così una giustificazione e una gratificazione per i cittadini che rinunciando all’auto troveranno il piacere di una piazza che mette in evidenza la visuale del rettilineo di via Dante con i suoi corollari monumentali. Un commentario, insomma, sulla città ottocentesca del Beruto, ma anche alla visionarietà del grande piano del Foro Bonaparte dell’Antolini, che rende omaggio a uno dei punti più consolidati dell’urbanistica milanese. I due padiglioni gemelli sono infatti inclinati in modo da lasciare sempre aperta questa visuale e anzi rafforzare l’asse tra la Torre del Filarete, la fontana e la statua di Garibaldi. Questo gesto suggerisce un metodo di intervento basato sulla suggestione del famoso libro dedicato a Milano da Alberto Savinio: “ascolto il tuo cuore città”.
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| Folla il giorno di inaugurazione. Foto F.B. |
Fa parte di quest’ascolto anche la forma dei padiglioni: due triangoli di sottili aste metalliche che fanno pensare a prima vista a un castello di carte o al gioco di bastoncini shangai. Subito dopo affiorano alla mente, però, i disegni del Cesariano che nel 1521 mostrava le geometrie triangolari del Duomo di Milano come un miracolo di equilibrio tra verticalismo gotico e armonie rinascimentali. Ma si pensa anche agli allestimenti razionalisti della vicina Triennale dove Albini e Persico negli anni Trenta sfidavano le leggi della gravità disegnando impalcature di tubi sottili per sostenere immagini ed oggetti. Di questo va reso grazie a Scandurra: di aver tenuto alta la posta e restituito un’immagine di Milano né conservatrice né pacchiana. Sembra poco? Basta spostarsi in piazza San Babila con il suo funesto baldacchino per la vendita di maglie e gadget per decidere la risposta.
di Giancarlo Consonni
Verrebbe da scegliere il silenzio. Perché, dopo questo mio intervento, chi ha responsabilità di governo della città potrà ribadire la formula auto-assolutoria: «È un progetto di rottura, e come tutti i progetti di questo tipo possono piacere e non piacere». Solo che scempio e rottura non sono sinonimi. Dopo le rotture — gli accanimenti littori e la spregiudicatezza postbellica a celebrazione del mito della capitale economica — questa nostra Milano, un tempo cultrice di una bellezza riservata (Alberto Savinio), ha visto moltiplicarsi gli scempi, piccoli e grandi, in misura esponenziale.
La bruttezza dilagante sta diventando il marchio di una fase storica iniziata con la dismissione industriale (e la Milano da bere), di cui non si intravede la fine. Eppure Fulvio Irace (nel suo intervento pubblicato su Repubblica Milano di giovedì 8 maggio) dice che i due organismi gemelli dell’Expo gate firmati da Alessandro Scandurra sono il segno di una svolta. Parto da Carlo Emilio Gadda che, con Savinio, è l’altro grande interprete novecentesco dell’anima di Milano. Si legge nell’Adalgisa: «Valerio ed Elsa, nella luce di un pomeriggio bramantesco, poterono involarsi alla folla, e alla guardatura della sfavillante lanterna filaretiana, che li aveva seguitati fin là, cioè fino allo sbocco di via degli Orefici nella piazza del re a cavallo, e del duomo».
Qui Gadda rende omaggio a Luca Beltrami: a quel falso storico che è il Castello Sforzesco, il capolavoro architettonico- urbanistico che ha consentito a Milano di trovare una degna conclusione all’asse di via Dante e di muoversi in direzione di un rinnovato policentrismo. Una linea su cui il Novecento non ha saputo/voluto proseguire (con conseguente indebolimento dell’armatura urbana). Bene: fin da via Orefici, man mano che si procede verso il fulcro della torre “del Filarete”, i “caselli” di Scandurra manifestano il loro carattere di corpi estranei: sono due ospiti invadenti e ottusi, sbagliati sul piano urbanistico come su quello architettonico.
Piazza Castello necessitava di essere sottratta alla funzione di parcheggio che l’aveva degradata? Certamente; ma l’operazione avrebbe dovuto limitarsi a un’adeguata sistemazione della pavimentazione e delle sedute che ne esaltasse il doppio carattere di interno urbano e di soglia. Per il resto l’architettura di questo spazio era già ottimamente definita sui quattro lati.
Viene rispettata la simmetria rispetto all’asse via Dante-Castello? Questo non garantisce alcunché dal momento che i due bianchi gemelli di ferro e vetro si oppongono al luogo. Lo occupano spaccandolo: forzano la prospettiva in senso assiale, quando qui l’interazione di quanto c’è già è ben più ricca e complessa. Per questo il vuoto non andava riempito: occorreva solo favorire l’interazione dialogica e sinfonica delle presenze che lo strutturano come un palcoscenico: i fulcri del Castello e del monumento equestre a Garibaldi e le testate dei due grandi circus del Foro Bonaparte (architettura raffinata nell’impaginato quanto negli accostamenti materico-cromatici, perfettamente integrata dai possenti bagolari). I due intrusi sono sbagliati anche sul piano architettonico. Velleitaria combinazione di ludico e gotico, non riescono a mascherare la loro natura di parvenu. Quanto è lontana la leggerezza armoniosa dell’architettura di ferro e vetro con cui l’Ottocento ha costruito esposizioni, biblioteche e giardini d’inverno.
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| Expo Gate verso via Dante. Foto F.B. |
Senza nulla aggiungere o togliere alle considerazioni sulla forma urbana dei due illustri studiosi, va sottolineato quanto non solo il loro approccio sia deliberatamente teorico-critico, ma anche che essi sviluppano i propri ragionamenti a partire dai rapporti fra progetto, contesto, storia. In pratica, anche indipendentemente dalle specifiche scelte degli Autori, le cose di cui parlano non possono basarsi anche, eventualmente, sul modus operandi “a regime” dell'Expo Gate, inaugurato insieme all'operativa pedonalizzazione di Piazza Castello dalla giornata di sabato 10 maggio. Ebbene, quello che accade operativamente, in questa giornata in cui la solita folla di milanesi e city users si sposta sull'asse Duomo-Sempione, è che quel portale rappresenta un vero e proprio tappo, visivo come sottolinea Consonni, ma anche e soprattutto rispetto ai flussi. Il sistema della pedonalizzazione sull'ultimo tratto di via Dante, di fatto si interrompe in una serie di strettoie, per iniziare di nuovo a respirare, visivamente e letteralmente, nella nuova piazza ancora in attesa di sistemazione e arredi. Se questa scelta è deliberata, si tratta di una patente sciocchezza. Se, come si spera vivamente, dopo l'evento quella discutibile ingombrante architettura verrà smontata, e la torre del Filarete restituita a chi si avvicina dalla direzione del Duomo, magari si potrà discutere quale soluzione di continuità pensare, per uno spazio in effetti forse un po' troppo vasto per la sola libera circolazione dei pedoni. Qualcuno dal Comune aveva insinuato tempo fa “stiamo lavorando per rendere definitivo l'Expo Gate”, beh: si riposi un po', ha già lavorato a sufficienza, e fatto abbastanza danni così (f.b.)
p.s. vista l'esplosione dello scandalo tangenti più o meno in contemporanea all'inaugurazione della struttura, la scelta del nome "ExpoGate" si rivela nefasta
La nuova urbanistica (che ha un cuore antico): «Ciò che conta non sono più i contenuti delle scelte insediative e pianificatorie, ma la loro funzionalità a muovere il business immobiliare da spartirsi». Inviato a eddyburg il 10 maggio 2014
“Per piacere: evitateci lo stupore scandalizzato, «chi se lo immaginava?», «non l’avrei mai detto…». Tutto sono, gli arresti di ieri per l’Expo 2015, tranne che una clamorosa sorpresa. Perché, ferma restando l’innocenza di tutti fino alle sentenze, le cose stavano procedendo esattamente come era andata troppe altre volte. Il solito copione. Recitato per i Mondiali di nuoto, le Universiadi, la World Cup di calcio, l’Anno Santo... Anni perduti nei preliminari, discussioni infinite sui progetti, liti e ripicche sulla gestione e poi, di colpo, l’allarme: oddio, non ce la faremo mai! Ed ecco l’affannosa accelerazione, le deroghe, il commissariamento, le scorciatoie per aggirare lacci e lacciuoli, le commesse strapagate, i costosissimi cantieri notturni non stop.”
Gli arresti per tangenti Expo illuminano di luce sinistra anche il grande progetto “itinerante” per anni nell'area metropolitana. Corriere della Sera Milano, 9 maggio 2014, postilla (f.b.)
Di nuovo sanità e affari sporchi. Stavolta il tentativo è stato quello di spartirsi illecitamente appalti per quasi 350 milioni di euro. Sono quelli del più importante progetto di edilizia sanitaria d’Italia, la Città della Salute, da ieri al centro dell’ennesima bufera giudiziaria. Con un’infilata di sette arresti, per un totale di 19 indagati. È una nuova Tangentopoli all’ombra di Expo? Di sicuro, per quanto riguarda la sanità, adesso più che mai viene messo a nudo il sistema di assegnazione degli appalti in Lombardia. Un sistema dove gli interessi bipartisan si saldano per dividersi le torte milionarie dell’edilizia sanitaria e della fornitura dei servizi ospedalieri no core (appalti per le pulizie, la ristorazione, la lavanderia).
Emblematica a tal proposito è l’iscrizione, ieri, nel registro degli indagati del super manager delle cooperative Claudio Levorato, 54 anni, alla testa di Manutencoop, colosso del facility management. Proprio Manutencoop, insieme con l’impresa di costruzione Maltauro, avrebbe dovuto vedersi assicurata la vittoria dell’appalto per la progettazione definitiva ed esecutiva della Città della Salute, con la relativa gestione dei servizi ospedalieri non sanitari. È a questo che dovevano portare gli accordi sottobanco tra l’ex politico dc Gianstefano Frigerio & C. e Antonio Rognoni, alla guida di Infrastrutture lombarde (la holding che gestisce gli appalti pubblici per conto del Pirellone), già arrestato a marzo in un altro filone d’indagine. Negli atti della Procura, ora, viene fatto chiaramente riferimento alla ripartizione politica che sta dietro la costituzione della cordata (ati) creata per partecipare alla gara d’appalto.
In questo caso ci sono aspetti penali: ma il meccanismo di accordi bipartisan per l’aggiudicazione degli appalti sanitari svelato dall’indagine giudiziaria in corso, in Lombardia è una costante, anche se non ci sono prove di illeciti. Due gli esempi su tutti. Già nel 2009 il ministero dell’Economia aveva messo sotto accusa gli affari che ruotavano intorno al Niguarda, un’operazione da oltre un miliardo di euro che ha visto per protagoniste la Nec Spa (vicino a Cl) e la Progeni Spa (legata alle cooperative rosse). E, in una ricostruzione realizzata dal Corriere nell’estate 2012 sulla lobby degli appalti in sanità, veniva documentato come le società degli uomini vicini all’allora governatore Roberto Formigoni (Mario Saporiti e Fabrizio Rota) saldassero i loro interessi con quelli delle coop.
Con l’arresto di Antonio Rognoni lo scorso marzo anche la gara per la Città della Salute si è bloccata. E adesso la nuova indagine allunga pesanti ombre sull’intero progetto, che prevede il trasloco nell’ex area Falck di Sesto dell’Istituto dei tumori e del neurologico Besta. Si andrà avanti lo stesso, anche a costo di rifare da zero la gara d’appalto? Il progetto già da tempo è al centro di un altro interrogativo: l’opera edilizia è necessaria a migliorare le cure dei malati o l’unione dei due ospedali è un business immobiliare? Gli interessi in gioco sono notevoli: la Città della Salute è prevista su un’area di 210 mila metri quadrati all’interno de gli 1,5 milioni di metri quadrati delle acciaierie ex Falck, acquistate dalla SestoImmobiliare dell’imprenditore Davide Bizzi. La presenza dell’Istituto dei tumori e del Besta servono come volano per lo sviluppo dell’intera area. Nel frattempo l’altro affare, quello delle bonifiche (vale 50 milioni), è in mano all’azienda Ambienthesis riconducibile alla famiglia Grossi. Lui, il patron Giuseppe Grossi, scomparso nel 2011, era finito in carcere per le bonifiche di Santa Giulia.
postilla
In questo sito, molto probabilmente, basta scrivere la parola “salute” nella finestrella del motore di ricerca interno, per ripercorrere alla luce degli ultimi eventi almeno parecchi indizi di una vicenda che non aveva, non poteva avere, sviluppi lineari davvero comprensibili, se non appunto nella logica distorta che pare emergere dalle indagini. Ogni occhiello, ogni postilla, e tanti, troppi contraddittori passaggi di quegli articoli, raccontano criteri surreali, di pura facciata, a volte oltre la spudoratezza, per le scelte localizzative di questa fantomatica Città della Salute, quando non addirittura per la logica della sua esistenza. Milioni di metri cubi che schizzavano inopinatamente qui e là per l'area metropolitana, su e giù per le Tangenziali, ma oggi si scopre che seguivano forse invece i percorsi delle Tangenti. Un progetto di riorganizzazione sanitaria e della ricerca che, secondo il parere anche di molti operatori di prestigio, non avrebbe neppure avuto necessità di interventi edilizi e urbanistici, almeno su quella scala e rilevanza, ma che al contrario vedeva in primissimo piano, quasi esclusivo, proprio le trasformazioni urbane e la loro localizzazione. Una storia decisamente surreale, dove la Salute svolgeva un ruolo di puro paravento, per interessi e appetiti di ben altra natura. Non a caso più o meno identica a quella parallela di Expo, dove al posto della Salute c'è l'Alimentazione, ma oggetto del contendere sono metri quadri, appalti, tracciati … Già (f.b.)
p.s. Rinnovando l'invito a scrivere "Città della Salute" nel motore interno di ricerca Eddyburg, propongo ad esempio questo articolo dedicato agli interessi sottesi, ripreso dal Fatto Quotidiano di un anno e mezzo fa circa
«Il nocciolo strategico della politica comunale appare centrato sulla modernizzazione dell’immagine cittadina come confezione accattivante dello sfruttamento intensivo delle rendite di posizione. Tutto ruota intorno a vicende asfitticamente edilizie che delineano una prospettiva decisamente implosiva per la città. Due casi su tutti: il Crescent e la variante 2012 al Puc». Il manifesto, 8 maggio 2014
Salerno ha un territorio di quasi 59 kmq, per la maggior parte collinare, a tratti anche impervio; la zona pianeggiante costiera non ne copre più di un terzo. La popolazione residente, pari a circa 91mila abitanti nel 1951, salì a oltre 157mila nel 1981 riducendosi poi progressivamente fino a quasi 133mila nel 2011. La città crebbe fisicamente soprattutto negli anni del boom (circa 11mila abitazioni e oltre 42mila stanze in più soltanto negli otto anni fra 1961 e 1968) sfruttando fino all’ultimo metro quadrato le zone edificabili del piano regolatore generale (Prg) redatto da Plinio Marconi (1958). Quel Prg non fu mai adeguato alla normativa sugli standard (1968) e, giocando sull’equivoco, molte lottizzazioni successive realizzarono ingenti volumetrie private senza trasferire al comune le prescritte urbanizzazioni primarie e le aree per le urbanizzazioni secondarie. Le periferie recenti salernitane sono fra quelle più carenti in Italia di spazi e attrezzature collettive e il traffico automobilistico a Salerno è da allora un problema sempre più grave.
In quegli anni le ambizioni della borghesia imprenditoriale e mercantile, con interessi fortemente intrecciati ai meccanismi della rendita urbana, si concentrarono — grazie anche alle relazioni privilegiate con il governo e la Cassa per il Mezzogiorno — sulla costruzione del nuovo porto, da un lato, e sull’infrastrutturazione dell’area industriale, dall’altro, ubicati agli estremi opposti della città: il porto a ridosso della costa alta del primo tratto della Costiera d’Amalfi, l’area industriale all’imbocco della piana del Sele. Due operazioni che conferivano un supporto non solo simbolico al ruolo polarizzante di Salerno nella regione, documentato dalla immigrazione dall’hinterland, ruolo che la dirigenza salernitana ha tentato a più riprese di valorizzare secondo l’aspirazione, invero un po’ velleitaria, a un qualche «sorpasso» sulla Napoli ex capitale in declino.
La gestione territoriale della città negli anni ’80 dimostrò la gravità delle contraddizioni antiche e recenti. Si tentarono varie soluzioni spesso confuse e contorte (negli anni di «tangentopoli» ci fu anche chi propose di attribuire nuova edificabilità alle aree per standard rimaste illegalmente in proprietà ai privati), finché si decise di dare alla città un nuovo strumento urbanistico generale (1989) con la consulenza di grido del catalano Oriol Bohigas.
Nel regno di De Luca
Negli anni seguenti l’Amministrazione comunale guidata da Vincenzo De Luca, divenuto sindaco nel 1993, forte della gestione efficace della città consolidata che vi ha conseguito condizioni di vivibilità e decoro inconsuete nel panorama meridionale, ha parallelamente sviluppato, attraverso meccanismi negoziali su progetti specifici, una strategia urbana orientata alla realizzazione di nuove sedi dei servizi di rango non locale, affidata a famosi architetti stranieri, e, insieme, di ingenti densificazioni edilizie.
Il Prg ha avuto una tormentata elaborazione all’insegna della prevalenza, sulle regole dell’urbanistica, dell’immagine architettonica collegata con le grandi edificazioni. Nel 2003 viene resa nota la versione finale del Prg che tuttavia non viene ancora adottato: nel dicembre 2004 l’approvazione della nuova legge urbanistica regionale giustifica una ulteriore rielaborazione che trasforma il Prg in Puc: «piano urbanistico comunale», secondo la modifica tutt’altro che nominalistica della legge regionale 16/2004, la quale articola il piano in disposizioni strutturali valide a tempo indeterminato e disposizioni operative da rielaborare con frequenza. In realtà il Puc conserva l’impianto e la fisonomia tecnico-normativa tradizionali del Prg, ma contiene nuove scelte ulteriormente favorevoli alla cementificazione. «Il confronto tra il piano del 2003 e quello del 2005 mette in evidenza una serie di variazioni, tutte peggiorative, che la dicono lunga sui veri motivi della mancata adozione nel 2003: pur lasciando inalterato il dimensionamento del piano, cresce l’edificabilità totale di mezzo milione di metri cubi; aumentano gli indici di conversione degli immobili industriali; l’edilizia residenziale pubblica, che Bohigas avrebbe voluto diffusa in tutta la città, viene concentrata in enormi e periferici quartieri-ghetto, capaci di ospitare fino a 5000 abitanti» (Fausto Martino). Grazie a una valutazione «politica», l’Amministrazione provinciale approva tuttavia il Puc senza troppi approfondimenti.
Il nocciolo strategico della politica comunale appare centrato sulla modernizzazione dell’immagine cittadina come confezione accattivante dello sfruttamento intensivo delle rendite di posizione. La visione del rapporto con il contesto territoriale delle giunte De Luca è priva di ogni connotato «metropolitano» dimostrandosi centralistica e autoreferenziale: tutta l’edificazione possibile nel territorio comunale, le cose di pregio nel quadrante urbano occidentale, le cose ingombranti nel quadrante sud-orientale (dall’ospedale allo stadio, dagli impianti per il tempo libero all’industria residua), la cosa occasionalmente suscettibile di grandi opportunità finanziarie — cioè l’inceneritore — in quell’estremo lembo orientale del comune che è incuneato nel territorio di comuni confinanti (saranno così questi a subirne la maggior quota dell’impatto).
Il miraggio del porto
Una vicenda di segno diverso è sembrata temporaneamente profilarsi nei primi anni 2000 in relazione al porto. L’impianto, gestito in modo accorto ed efficiente, ha visto crescere il suo movimento fino a esaurire ogni possibilità espansiva e, in presenza di prospettive internazionali confortanti, ha ritenuto di poter puntare a un salto di scala che obbliga però a una radicale delocalizzazione con la costruzione di un «porto-isola» davanti alla parte nord della piana del Sele. È sembrato così possibile immaginare un grande nodo infrastrutturale e logistico che metta a sistema il proposto porto-isola, l’aeroporto di Pontecagnano, la futura stazione Av di Battipaglia e i servizi che un simile nodo può attirare. È la prima volta che da Salerno si lancia un’idea che coinvolga altri territori in prospettive di sviluppo rilevanti (gran parte dell’Università, nei tardi anni ’80, fu localizzata a Fisciano-Baronissi solo per l’imposizione di De Mita che volle il «campus» come struttura in condominio fra il Salernitano e l’Avellinese). Purtroppo l’aeroporto è gestito invece molto male e stenta a conquistarsi un ruolo. E le politiche restrittive di governo e regione non solo obbligano oggi a rinviare a tempi indefiniti il salto di qualità sia per il porto che per la linea Av, ma impongono anche la cessazione del «metrò» ferroviario che a Salerno ha servito per qualche anno gli insediamenti comunali costieri, con un bacino di utenza evidentemente insufficiente.
Occorre a questo proposito sottolineare ancora la miopia municipalistica che non ne aveva considerato strategico l’inserimento organico e vivificante nella cosiddetta «circumsalernitana». Questa linea ferroviaria collega — con livelli di servizio oggi peraltro poco più che simbolici — la parte nord della piana del Sele con il capoluogo, con Cava de’ Tirreni e il Nocerino e con le valli della Solofrana e dell’Irno: una linea che serve la principale struttura urbana della provincia, con l’Università e servizi connessi e i poli industriali ancora attivi. Ma Salerno l’ha giudicata meno importante del «metrò» comunale, soltanto per il quale ha voluto binari e convogli appositi. Sicché quelle odierne di Salerno sono vicende asfitticamente edilizie che sembrano delineare una prospettiva decisamente implosiva per la città. Due casi su tutti: il Crescent e la variante 2012 al Puc.
Il Crescent
Il cosiddetto Crescent (su progetto di Ricardo Bofill) investe aree in parte demaniali al bordo del porto storico di Salerno e al margine occidentale del centro medievale. Il progetto prevede un edificio privato per residenze e uffici, alto 28 m e lungo quasi 300, ubicato sull’arco aperto verso il mare della circonferenza di una grande piazza circolare; si stima che l’edificio possa ospitare 500 residenti e qualche centinaio di addetti al terziario in un sub comparto del Puc che resta privo di urbanizzazioni secondarie. L’intervento è iniziato (il rustico imponente già incide pesantemente sul paesaggio della prima Costiera), ma non ne è ancora certa la legittimità: si discute della ammissibilità di interventi privati su aree demaniali, si afferma che un vincolo idrogeologico relativo a un piccolo corso d’acqua sia stato ignorato, è in ogni caso necessaria ora una esplicita autorizzazione paesaggistica visto che anni addietro la Soprintendenza fece scadere i termini senza esprimersi. Il cantiere è stato sequestrato dalla magistratura nel novembre scorso e le polemiche infuriano tuttora.
La variante al Puc del 2012
Dopo 5 anni dall’approvazione del piano, invece di rielaborare la sola componente operativa del Puc (interventi prioritari negli ambiti classificati come trasformabili a fini insediativi dalla componente strutturale del Puc), l’amministrazione comunale dichiara delle «criticità» riportabili a una stasi dell’attività edilizia con il conseguente mancato introito degli oneri concessori che penalizza il bilancio comunale. Essa adotta perciò una variante al Puc che incide sulla trasformabilità delle aree ai fini della «valorizzazione del patrimonio immobiliare comunale»: in effetti ciò si traduce nell’attribuzione di rilevanti diritti edificatori a aree libere, di proprietà pubblica, collocate in zone centralissime della città e, peraltro, già classificate come standard. Il cerchio si chiude: quello che non era riuscito ai tempi di «tangentopoli» potrebbe realizzarsi oggi, impoverendo radicalmente la città delle sue dotazioni di spazi collettivi e incrementando la densificazione edilizia e la congestione dei quartieri centrali ancora a vantaggio soltanto delle rendite parassitarie
Riferimenti
Le precedenti puntate della serie di inchieste sulle città italiane dopo 30 anni di neoliberalismo sono state dedicate a Milano (7 febbraio), Sassari(13 febbraio), Venezia (20 febbraio), Napoli (27 Febbraio), Avellino (6 marzo), Bologna (13 marzo), Parma (20 marzo 2014), Roma (27 marzo), Firenze (3 aprile), Reggio Calabria e Messina (10 aprile), Cagliari (17 aprile 2014).
Vorrei infine ringraziare tutti gli oratori che hanno appena parlato, e voi tutti che oggi siete qua.All'Aquila – l'Aquila, a cui va il nostro saluto e il nostro continuo pensiero – abbiamo riascoltato le parole di Roberto Longhi con le quali proprio ha poco fa concluso il suo intervento Salvatore Settis.
Qua a Mirandola vorrei iniziare con altre parole, scritte più o meno negli stessi anni da un altro protagonista dei nostri studi umanistici.Dopo l'8 settembre del 1943 Augusto Campana non riuscì a rientrare a Roma, dove lavorava come scriptor della Biblioteca Apostolica Vaticana. Così, egli rimase nella sua Romagna fino alla Liberazione. Ma non si chiuse a studiare tra altri libri. Quasi ogni pomeriggio egli percorse in bicicletta i 18 chilometri che separano Sant'Arcangelo da Rimini: per sapere cosa fosse successo alle amatissime pietre di Rimini, minacciate, scomposte, distrutte dalle bombe. Egli tenne un diario, oggi edito appunto con il titolo Pietre di Rimini, che andrebbe fatto leggere ad ogni studente di Lettere del primo anno.Ve ne leggo solo una pagina:
«30 gennaio 1944, domenica. Le voci giunte a Sant'Arcangelo sul Tempio Malatestiano sono catastrofiche. Andiamo a Rimini. Il Tempio è aperto, e gente e operai vanno e vengono. Si tratta, salvo errore, di una sola bomba, caduta fortunatamente sulla parte posteriore della chiesa, che è crollata in gran parte, fino alle arcate gotiche aggiunte: nessun danno sostanziale alla parte originale, ma sbertucciature, anche ai bassorilievi. Lo spostamento d'aria ha scoperchiato totalmente il tetto, di cui rimane la sola travatura, ha distrutto il bussolone di legno alla porta d'ingresso e ha aperto la porta della cella delle reliquie (qui è intatto l'affresco di Piero della Francesca). Danni non gravi alla tomba di Sigismondo, scoperchiata dal contraccolpo il 28 dicembre. Vedo le ossa scoperte, tra calcinacci e frammenti ... Una nuova perdita grave è la casetta del Rinascimento in Via Gambalunga, un vero gioiello e un monumento a me carissimo, al quale penso da tanti anni, e con Gino Ravaioli siamo d'accordo di illustrarlo, se le mie ricerche storiche giungeranno in porto. Colpita in pieno la casetta, più che metà della facciata è crollata. Anche qui il problema è di raccogliere accuratamente i frammenti architettonici; la ricostruzione è indispensabile».
È una pagina dove ritroviamo tutti i fili che oggi ci hanno condotto qua. Campana non era un architetto, un urbanista, uno storico dell'arte. Non era un funzionario di soprintendenza. Era un umanista, un epigrafista, un filologo: ma non si curava solo di incunaboli, lapidi, manoscritti. Si curava del contesto, del palinsesto unico che circonda, accoglie, plasma le nostre vite.Era un cittadino: ed è per questo che aveva a cuore le pietre della sua citta.Ancora. Campana ccorre al Tempio Malatestiano, certo. Ma si china in egual modo sulla casetta di Via Gambalunga. Sa che ciò conta è il tessuto continuo, la relazione tra le cose, il contesto.Raccoglie i frammenti, e li connette ai suoi studi.E, soprattutto, non ha alcun dubbio: «la ricostruzione è indispensabile». In quei mesi terribili, questa è l'unica certezza. L'Italia, Rimini, sarebbero risorte com'erano e dov'erano. Era la certezza da cui scaturì la Costituzione, con il suo articolo 9. La Repubblica tutela: una «rivoluzione promessa», avrebbe detto Piero Calamandrei. Una promessa che sta a noi mantenere.
Oggi siamo qua nello spirito di Augusto Campana. Coscienti che gli storici dell'arte hanno smesso di occuparsi di architettura, felici di baloccarsi con le loro opere mobili. Che gli architetti non sanno e non vogliono saper nulla di urbanistica, presi dai loro disegni irrelati e irresponsabili. Che gli urbanisti rigettano la dimensione politica del loro lavoro. I nostri studi ci hanno costretto in una crescente segregazione. Le nostre soprintendenze hanno diviso le loro competenze in modo tale che ormai tra gli affreschi e i muri che li sostengono passano confini guardati col filo spinato.
Sappiamo che tutto questo è vero: ma sappiamo anche che ciò che è successo all'Aquila, ciò che è successo in Emilia, qua a Mirandola, ci costringe a ricordare che il nostro testo comune è la città. Questo il nostro oggetto di studio, questo il campo della nostra tutela. Se vogliamo riconquistare la capacità di incidere sulla politica, dobbiamo ricominciare ad occuparci della polis. Ed è per questo che oggi siamo qui.Uno degli episodi più luminosi del post-sisma è stata la creazione, all'interno del Palazzo Ducale di Sassuolo, di un Centro di raccolta e cantiere di primo intervento sulle opere mobili danneggiate: un centro organizzato in modo esemplare, coordinato da Stefano Casciu, soprintendente di Modena e diretto da Marco Mozzo, funzionario della stessa soprintendenza: che sono lieto di salutare. Ma se oggi siamo qua è perché la stessa attenzione non è toccata agli edifici che contenevano quelle opere. La grandissima pala d'altare della Chiesa del Gesù di Mirandola è oggi al sicuro a Sassuolo. Ma è la chiesa del Gesù a non essere al sicuro. Dopo due anni è ancora scoperchiata, e ingombra di macerie, arredi, decorazioni. Non è in sicurezza, e dunque è impossibile svuotarla: ma dopo due anni è impossibile accettare che non sia in sicurezza. Mancano soldi? Personale?
Qualunque sia il punto, siamo qua per dire ai nostri amici degli organi di tutela emiliani: ditecelo, ditelo in pubblico, sollevate il problema. Permetteteci di aiutarvi a salvare il nostro patrimonio. Non trasformatevi in una controparte dei cittadini che chiedono di riavere i loro monumenti. Siamo dalla stessa parte.Anzi. Vorremo che questa giornata fosse anche una giornata di solidarietà – vorrei dire di amore – verso le soprintendenze italiane. I 44 punti della cosiddetta rivoluzione della Pubblica Amministrazione appena annunciata dal governo di Matteo Renzi prevede l'«accorpamento delle sovrintendenze e gestione manageriale dei poli museali» e la presenza di «un solo rappresentante dello Stato nelle conferenze di servizi, con tempi certi»: e siamo certi che quel rappresentante non sarà un soprintendente. Perché, cito il presidente del Consiglio, occorre «superare i "blocchi" dei pareri paesistici e delle Soprintendenze: dobbiamo ridurre i casi in cui il parere serve». Ecco che il linciaggio delle soprintendenze iniziato su quello che fu un grande giornale di sinistra acquista ora una chiara chiave di lettura: siamo evidentemente alla resa dei conti con l'unica magistratura che, tra mille difficoltà, cerca di salvare quel che rimane del paesaggio e dell'ambiente italiani.
Siamo molto dispiaciuti che oggi non sia tra noi il ministro per i Beni culturali, Dario Franceschini: che abbiamo ripetutamente invitato.Ci avrebbe fatto piacere chiedergli da che parte sta: con il suo presidente del consiglio, o con le sue soprintendenze? Non so voi, ma io non l'ho ancora capito.In ogni caso noi lo sappiamo, da che parte stiamo. E oggi vogliamo dirlo chiaro e forte: siamo con le donne e con gli uomini che ogni giorno lavorano esemplarmente nelle trincee dei nostri organi di tutela.È per questo che abbiamo voluto invitare il Direttore regionale per i beni culturali dell'Emilia Romagna, Carla Di Francesco. Per ribadire il nostro profondo rispetto per il sistema della tutela. E insieme per chiedere ascolto.Siamo vicini – o almeno lo speriamo – al momento in cui le soprintendenze architettoniche e la direzione regionale dovranno varare i progetti per la ricostruzione del patrimonio monumentale. Ebbene, in questi due anni si sono moltiplicati i segnali che ci hanno allarmato. L'astratta dottrina di alcuni teorici del restauro si è saldata ai concreti interessi di alcuni costruttori: nel cercare di far passare un messaggio che giudichiamo eversivo, quello per cui bisognerebbe, sì ricostruire il patrimonio dov'era, ma non com'era.
Al Salone del Restauro di Ferrara del 2013 lo stand del Ministero per i Beni Culturali si intitolava «Dov'era ma non com'era»: questa era la linea della ricostruzione. Il testo ufficiale, firmato proprio da Carla Di Francesco e stampato su grandi pannelli, si concludeva affermando: «di considerare questo evento drammatico come un'opportunità. L'opportunità di affermare una cultura architettonica della ricostruzione capace di prendere le mosse dalla reale situazione e consentire la coesistenza tra le preesistenze e gli edifici contemporanei, l'attualizzazione del bene culturale laddove era, dando ad esso nuovi significati vitali».Ecco, cara dottoressa Di Francesco, glielo diciamo con estrema, ma garbata, franchezza: vorremmo che nessun responsabile della tutela definisse il terremoto un'opportunità.Gli interventi che mi hanno preceduto hanno dimostrato perché rinunciare al com'era e dov'era sia un errore: un errore tecnico, architettonico, urbanistico, giuridico, storico-artistico.Se nel 1945 si fossero considerate le distruzioni della guerra un'opportunità, oggi vivremmo in città storiche largamente rifatte negli anni cinquanta: e non saremmo più felici. Equesto ci insegna a guardare, oggi, al di là del feticismo dell'edificio 'originale': a guardare invece al contesto, al tessuto, alla funzione civile e sociale dei nostri centri storici.
Ma accanto alle fondamentali ragioni culturali, ce ne sono altre: ancora più profonde. E sono quelle dei cittadini, di coloro che fanno parte della comunità ancorata a quei monumenti e a quel territorio.In un momento in cui l'unico sguardo che sappiamo posare sui nostri monumenti è uno sguardo economico è legittimo credere che i monumenti emiliani non siano stati restituiti a noi perché non sono monumenti di rilevanza turistica. Non sono Venezia, non sono Firenze: e dunque, cosa abbiamo da guadagnare nel restaurarli?Ecco: oggi siamo qua a dire che quei monumenti vanno restaurati e riaperti perché sono la riserva di futuro delle comunità che vivono intorno ad essi. E che quella comunità non è solo quella emiliana, ma è quella italiana: come dicemmo all'Aquila un anno fa, l'Emilia è un grande problema italiano.
Ed è importante aggiungere una cosa. Una parte rilevante, forse preponderante, di questo patrimonio è costituita da chiese: da luoghi di culto della religione cattolica. Noi non crediamo che il restauro di queste chiese sia un problema del clero cattolico. È un problema nostro. Perché non crediamo che quei luoghi siano proprietà solo della comunità cristiana che vi prega.La Repubblica tutela non solo il patrimonio in sé, ma la sua appartenenza alla Nazione: ogni cittadino, membro della nazione e sovrano è così proprietario dell’intero patrimonio nazionale, senza altre limitazioni. È per questo che un cittadino italiano di religione musulmana o semplicemente ateo possiede San Francesco di Mirandola non meno del prete che la officia.La chiesa del Gesù, sempre qua a Mirandola, era tenuta aperta da oltre dieci anni non dal clero, ma dall'associazione Nostra Mirandola. C'è una funzione nuova del patrimonio ecclesiastico: che non nega la sua sacralità, ma la integra con valori laici, costituzionali, repubblicani.
Chi impara a parlare la lingua di queste chiese storiche non abbraccia la storia delle istituzioni occidentali o la religione cattolica, e nemmeno la storia dell’arte italiana, ma i valori inclusivi, tolleranti e aperti della Costituzione. Non si vincola alle «radici» della identità collettiva italiana, ma accetta di fluire nelle acque – felicemente impure, mescolate, contaminate – della tradizione italianaIl patrimonio artistico è dunque divenuto un luogo dei diritti della persona, una leva di costruzione dell’eguaglianza, un mezzo per includere coloro che erano sempre stati sottomessi ed espropriati. È difficile capirlo perché nessuno, nemmeno a sinistra, ha inteso il Ministero per i Beni culturali come un ministero per i diritti. Alla sua nascita lo si è inteso come ministero per il Patrimonio, cioè per le «cose» da difendere; all’epoca di Veltroni lo si è voluto «per le Attività culturali» (cioè per lo svago e per il tempo libero); il governo Letta l’ha reso anche per il Turismo (anzi, del Turismo), e c’è chi lo vorrebbe astrattamente «della Cultura».Ma, almeno nei fatti, il Ministero per i Beni culturali dovrebbe essere, invece, un ministero per i diritti della persona: come quello della Salute, come quello dell’Istruzione. Un ministero che lavori per garantire l’accesso di ogni cittadino al patrimonio: innanzitutto l’accesso materiale, ma soprattutto quello conoscitivo, intellettuale, culturale. Un ministero che sia capace di tutelare l'integrità del patrimonio che appartiene anche a chi non ha nient'altro: e cioè il paesaggio e il patrimonio della nazione.
Cicerone racconta che Verre, corrotto governatore della Sicilia, ingiunse al Senato di Segesta di donargli una grande statua di Diana che era stata razziata dai Cartaginesi, e che Scipione l'Africano aveva riportata in Sicilia e collocata di fronte ad un tempio su un piedistallo che raccontava questa storia eroica. La perdita di quell'insieme di arte, memoria collettiva e storia era era potuta avvenire solo «magno cum luctu et gemitu totius civitatis, multis cum lacrimis et lamentationibus virorum mulierumque omnium».Ecco, questo è il messaggio che oggi parte da Mirandola: è il momento di ricostruire il patrimonio monumentale dell'Emilia dov'era e com'era. Perché lo dice la Costituzione, perché lo dice la legge, perché lo dice la nostra storia, perché lo chiedono i cittadini. Perché la forma dei nostri luoghi possa ancora dare forma alla nostra comunità, aiutarci a ricostruire la nostra democrazia. Perché ogni ferita al patrimonio dobbiamo piangerla «con un gran lutto e con il pianto di tutta la comunità, con molte lacrime di tutti gli uomini e di tutte le donne». Perché non sono degli oggetti ad esser feriti: sono i nostri diritti, la nostra democrazia, il nostro futuro.
Ed è per questo che l'Emilia monumentale distrutta dal terremoto va ricostruita dov'era e com'era.
Ora. Senza se e senza ma.
Una manifestazione e un dossier sulle inarrestabili fortune di un complesso post-industriale nato e cresciuto vigorosamente all'ombra della "Larghe intese" e della greeneconomy. Il manifesto online, 5 maggio 2014
Smeraldo, il teatro chiuso da un parcheggio
Proprio quello inaugurato il 18 marzo scorso, per il momento conosciuto per le polemiche sollevate dalla ristrutturazione. Eataly si è affidata all’impresa “Costruzioni europee” di Perugia che ha subappaltato una parte dei lavori di ristrutturazione dello Smeraldo a una ditta romena, la Cobetra: 25 operai, di cui uno specializzato in restauri e un solo capomastro. Secondo la Filca Cisl, gli operai romeni avrebbero percepii stipendi da fame: 500–800 euro per 40 ore settimanali. Eataly ha sostenuto di essere all’oscuro di questo subappalto. Sul suo Libro Unico del lavoro lo stipendio mensile dei muratori era di 2100 euro mensili, contributi inclusi. L’importazione del personale a basso costo dalla romania sarebbe avvenuto a sua insaputa.
Lo Smeraldo era un teatro che a Milano ha ospitato Cats, il Fantasma dell’opera, Evita, David Bowie, Astor Piazzolla e Springsteen. Oscar Farinetti, proprietario di Eataly lo ha rilevato da Gianmario Longoni che ha cercato di salvare il teatro dal fallimento. Longoni ha ricevuto lo Smeraldo da un lascito di famiglia, una di quelle antiche e nobili della Brianza. L’ex gestore del Ciak di Milano lo rilevò che era un cinema porno, portandolo ad essere un luogo per una programmazione più consona.
Una vicenda tormentata, quella che ha portato il teatro a chiudere, e poi ad essere acquistato da Farinetti. Aperto il 28 luglio del 2006, e terminato nel luglio 2012, il cantiere per i box di piazza XXV Aprile ha dimezzato la clientela e gli spettacoli del teatro. Stefano Boeri lanciò dallo Smeraldo la sua candidatura, Giuliano Pisapia fece il punto sulla sua giunta proprio qui. Longoni ha detto di essere stato lasciato solo dall’amministrazione di centro-sinistra. Ha detto anche di essere stato schiacciato dalla concorrenza sleale degli altri teatri che tra l’altro percepivano aiuti pubblici, mentre lui ha cercato di fare da solo,da imprenditore indipendente.
Una brutta storia, e triste, che parla della commistione tra cultura e spettacolo, unico strumento per far sopravvivere un teatro dove i fondi pubblici sono sempre più esigui e sempre più nelle mani di pochi.
Apologia del tempio del gusto
Da quando la cultura-spettacolo-Tv, quella per intendersi degli spettacoli di Brignano o Panariello a teatro, è stata integrata e ricodificata nel nuovo del made in Italy — Eataly — i teatri sono diventati i possibili contenitori di una forma di marketing aggressivo e vincente. Come lo Smeraldo a Milano oggi, o il Teatro Valle a Roma. Tre anni fa, prima della sua occupazione, voci insistenti parlavano di una sua trasformazione in un “tempio del gusto” Eataly, con direzione artistica a cura di Alessandro Baricco.
Sulle ceneri dello Smeraldo, la cultura della tradizione gastronomica italiana diventa l’alto cibo — hanno spiegato i promotori della protesta milanese — nel centro di uno dei quartieri più gentrificati di Milano si proclama al consumo (di classe!), come se la cultura non avesse spazio nel progetto di una città da Expo. E che consumo: la tradizione della terra diventa prodotto di élite, stando attenti che il fascino del locale, del tradizionale, del prodotto buono, sano e giusto, rimanga intatta.
Decine di persone hanno ululato contro la “grande abbaiata” del consenso verso il “fascino del locale”, una forma pervasiva del consenso politico che lavora sull’immaginario di un paese in crisi, che agogna un posticino nella “competizione” sui mercati globali, ma non sa cosa vendere.
Farinetti, che è un imprenditore politico postfordista, lavora sul branding, e ha avuto un’idea: bisogna vendere l’immagine del paese-che-ama-il-buon-cibo, un paese ottimista perché la fatica, i sacrifici, la crisi non aiutano a vendere. E così ha interpretato il desiderio di riscatto delle classi dominanti (quelle che pensano che “la cultura è il petrolio d’Italia” o che l’Italia è un meraviglioso paese dove tutti devono studiare da cuochi o camerieri e lavorare in un ristorante.
Fenomenologia Eataliana
Acquistando teatri, ex centri della logistica (come il Centro Agro Alimentare Bolognese — CAAB — una sorta di mercati generali nella zona nord di Bologna dove sorgerà “Eataly WORLD”, forse per sottolineare le ambizioni degli investitori ceduto dal comune senza contropartite per costruire il F.I.C.O.), grandi palazzi o ex stazioni abbandonate come a Roma, Farinetti interpreta la propria impresa al centro di un progetto di civilizzazione urbanistica. Riqualifica i vecchi immobili, ne trasforma la storia, la incorpora nella propria impresa politica e intende nobilitare la città dove lui porta lavoro e il suo ipermercato di cose buone e costose.
Un complesso industriale trasversale
Il flash mob #lagrandeabbaiata è stata una nuova azione di protesta contro l’Expo 2015 ad un anno esatto dalla sua inaugurazione. Fa parte di un festival d’arte performativo “Folle agire urbano” organizzato dal primo maggio (giorno della Mayday) al 5 maggio, ricorrenza dell’occupazione della Torre Galfa a Milano nel 2012 (vedi qui e qui).
In un dossier su Slow Food, COOP Italia ed Eataly, Nessuna faccia buona, pulita e giusta a EXPO 2015, i movimenti hanno ricostruito anche la storia di Eataly.
Fondata nel 2004, l’azienda verrà quotata in borsa entro il 2017. Dal 2007 al 2014 le aperture di ipermercati sono arrivate a 25, una metà in Italia, l’altra metà nel mondo. Solo a New York produce un fatturato annuo con entrate per circa 80 milioni di euro. Nei prossimi due anni è prevista un’altra quindicina di nuove aperture.
La famiglia Farinetti possiede l’80% di Eatinvest srl, la finanziaria del gruppo, che a sua volta controlla Eataly srl, che ha un fatturato annuo di 400 milioni di euro. Eataly srl a sua volta questa controlla la società Eataly Distribuzione srl alla quale partecipano COOP, COOP Adriatica, COOP Liguria, NOVA COOP, per un totale del 40%. Tutti gli store della catena Eataly sono formalmente nelle mani di questa terza struttura societaria alla quale COOP dà appoggio sul know-how e sull’area della formazione e del personale. Eataly srl siede negli organigrammi di diverse società produttrici –spesso già presidi Slow Food– la cui merce è venduta nei negozi Eataly come le bibite Lurisia o la pasta Alferta, vini e carni.
Eataly ha riadattato il modello Autogrill alle città e con criteri qualitativi più alti. Autogrill mantiene in un angolo dei suoi store i prodotti tipici. Farinetti ha invece creato spazi enormi fatto di prodotti tipici. Se sulle autostrade il “tipico”, il prodotto Dop, è un’eccezione in una ristorazione fatta di panini e pizze universali, a Eataly l’eccezione è la norma. E anche il panino e la pizza hanno il loro posto d’onore nella triade ideologica che vede nel cibo italiano, e nelle sue molteplici versioni dialettali, le idee platoniche del Buono, del Pulito e del Giusto. Questa è la trinità che sta alla base della democrazia del Gusto pagata a prezzi non certo popolari.
Una trinità che unisce, nell’impresa farinettiana, Coop, Eataly e Slow-food. Nel dicembre 2013, questa entità una e trina ha firmato con l’amministratore unico di Expo 2015 Giuseppe Sala un accordo per rappresentare il tema della manifestazione milanese: “Nutrire il Pianeta. Energia per la Vita”. Un blocco di imprese specializzato in “food-branding”, creazione commercializzazione e distribuzione del cibo.
Un complesso imprenditoriale trasversale e bi-partisan, dalle banche all’edilizia all’editoria e all’università (l’ateneo di scienze della gastronomia di Pollenzo vicino a Bra in Piemonte), e con un’aura di autorevolezza in materia alimentare si candida credibilmente a rappresentare il vero contenuto di un Expo sgangherato e multimiliardario dove, si asfaltano campi di mezza Lombardia per costruire strade che conducano al sito di EXPO o si costruisce la Via d’acqua che stravolge i parchi della cerchia nord-ovest di Milano (Trenno, Baggio, Cave, Bosco in città e aree verdi limitrofe). Senza considerare le prime indagini della procura di Milano che nel marzo 2014 ha arrestato Antonio Giulio Rognoni, direttore generale di “Infrastrutture Lombarde”, già candidato al posto di subcommissario di Expo 2015 per una storia di appalti truccati, insieme ad altre 8 persone. Il giro di appalti a Milano per l’Expo è di 11 miliardi di euro.
Nel marzo 2014 Eatinvest srl ha venduto alla società Tamburi Investment Partners (Tip) il 20% delle quote di Eataly per circa 120 milioni di euro, dove un altro 20% era già posseduto da uno dei soci della di Farinetti, Luca Baffigo Filangeri. Alla Tip partecipano alcune delle più influenti famiglie dell’alimentare italiano: Lavazza, Lunelli del vino Ferrari, Ferrero.
“Sono specializzati nelle operazioni di borsa e ci accompagneranno alla quotazione di Eataly nel 2016–2017 — ha detto Farinetti — E poi perché è una società italiana: abbiamo ricevuto molte proposte da stranieri, che ci offrivano anche di più, ma abbiamo scelto Tip perché Eataly deve restare al 100% italiana. Investiremo nell’Expo 2015 e nel nuovo progetto Fico.
L’evoluzione di Eataly viene spiegata nel dossier nella cornice del capitalismo basato sulle grandi opere e sui grandi eventi. Grandi opere come il TAV, il MOSE, e grandi eventi come Esposizioni, Olimpiadi, Mondiali di sport, Fiere sono il frutto della ricerca di visibilità, consenso, rendita fondiaria e profitto da parte di soggetti politici e di gruppi di potere legati alle costruzioni, alle infrastrutture, alle cooperative, al mondo delle società anche multinazionali– che oggi vivono di bandi, consulenze, appalti e fondi pubblici.
Eataly a Sharm-el-Sheik
The Eatalyan Job
All’inizio di agosto 2013, poco dopo il varo della sede barese di Eataly alla Fiera del Levante, la prima in quel Sud che dovrebbe essere come Sharm-el-Skeikh, Cgil-Csil e Uil avevano denunciato Farinetti per 160 “assunzioni fuorilegge”, arrivate a 180 durante la Fiera a settembre. Troppi interinali e pochi a tempo indeterminato. Era stata violata la legge Biagi che permette di assumere l’8% di interinali con un minimo di 3 e non 160. Poi c’erano 10 contratti a tempo determinato e 3 indeterminati.
La regolarizzazione poi è avvenuta, i sindacati si sono placati, Farinetti ha ottenuto che la sua mostra temporanea diventasse permanente.i, anche perché il can can è stato intenso e tutti hanno fatto capire a Farinetti (“quello del Nord”) che la sua attitudine da colonizzatore-che-porta-il-lavoro-a-Sud doveva confrontarsi con la richiesta di un lavoro regolare. Attenzione alle proporzioni: 63 a tempo indeterminato, 66 apprendisti, 34 a tempo determinato, 1 somministrato): 100 su 163 sono lavoratori a termine. Ma il termine quanto dura?Le assunzioni sono state fatte secondo le regole del decreto “Letta-Giovannini” per gli under 29, a due condizioni: i “giovani” dovevano essere disoccupati o avere una famiglia a carico. Quando entrerà in vigore, il “Decreto Poletti” stabilisce che questi 100 potranno essere rinnovati a termine fino al 2017. Nel mezzo potranno esserci più rinnovi e più proroghe. Poi potrebbero essere assunti.
Sempre che Eataly Bari non chiuda prima. Le proiezioni a 12 mesi parlano di 10 milioni sui 20 programmati. A luglio si faranno i conti. Tra mille distinguo in città si è iniziato a dire che sarà difficile mantenere l’occupazione. Nessuno di questi lavoratori è iscritto ai sindacati confederali, nonostante abbiano vinto una vertenza in due mesi. Non è il primo caso di lavoratori a termine, non sindacalizzati, nelle grandi colonie industriali create nel sud-senza-lavoro. Può darsi che il clima aziendale abbia influito. Farinetti tiene molto a dire che la sua azienda è “una grande famiglia”. E una famiglia si gestisce da sola i conflitti e soprattutto le compatibilità con i suoi “figli”, i lavoratori. Del resto, “i sindacati sono medioevali” ha detto il patron.
Basta con lacci e lacciuoli per chi crea lavoro. Piuttosto creare “zone speciali”, come in Cina, a sud come nelle metropoli del Nord, dove il diritto del lavoro viene ridotto alla misura dei contratti a termine senza causale. L’obiettivo è coltivare un individuo come consumatore, utente, visitatore. O come turista, come suggerito in questi anni dagli stessi vertici di Expo 2015 e dai politici italiani.
«Lo sciacallaggio intensivo del Rinascimento è l’unica economia della città, e guai a chi dice che ormai la vacca non solo stramazza dalle mungiture, ma è anzi prossima alla macellazione o sciacallaggio intensivo del Rinascimento è l’unica economia della città, e guai a chi dice che ormai la vacca non solo stramazza dalle mungiture, ma è anzi prossima alla macellazione». Il Fatto Quotidiano, 3 maggio 2014
«Gli Uffizi sono una macchina da soldi, se li facciamo gestire nel modo giusto», ha dichiarato Matteo Renzi il 29 novembre 2012. A giudicare da quel che si è visto giovedì sera a Servizio Pubblico, almeno quest’unico punto del programma dell’ex sindaco di Firenze si è avverato: nel celebre palazzo vasariano, un invalicabile muro di corpi traspiranti preclude ogni possibilità di vedere le opere d’arte.
Il limite di sicurezza prevede la compresenza di 980 persone al massimo. Nelle scorse settimane, dipendenti e giornalisti ne hanno contate invece almeno fino a punte di 3.500. Meglio non chiedersi cosa sarebbe successo nel caso di un’evacuazione d’emergenza. No, è una novità: negli ultimi anni si sono susseguiti esposti e denunce, soprattutto da parte dei sindacati dei dipendenti, ma senza sortire alcun effetto: lo sciacallaggio intensivo del Rinascimento è l’unica economia della città, e guai a chi dice che ormai la vacca non solo stramazza dalle mungiture, ma è anzi prossima alla macellazione. Ci vogliono un Leonardo distrutto o un turista morto per far capire che gli Uffizi sono sul punto di esplodere?
La faccia della soprintendente Cristina Acidini, di fronte alle telecamere di Santoro, è la risposta: non sento, non vedo, non parlo. D’altra parte, un processo della Corte dei conti chiede 600.000 euro di danno erariale alla signora, che nel 2009 ha fatto comprare allo Stato un crocifisso ligneo attribuito a Michelangelo e prezzato da lei stessa. E se nessuno dei cinque ministri che si sono succeduti da allora ha pensato bene di destinarla ad altro incarico è anche perché la Acidini garantisce il rapporto di ferro che lega il Polo Museale al concessionario, che è Opera Laboratori Fiorentini, di Civita Cultura (presidente Luigi Abete), a sua volta parte di Associazione Civita (presidente Gianni Letta). Tanto che il portavoce del concedente (cioè il Polo Museale) è un ex giornalista del Giornale della Toscana di Denis Verdini, ora dipendente di Opera: un portavoce a cui la Acidini ha addirittura consentito di curare un’incredibile mostra di documenti storici a Palazzo Pitti.
Il legame tra Opera e Polo è ormai cementizio: la concessione risale nientemeno che al 1996, ed è andato avanti di proroga in proroga, alla faccia della libera concorrenza. Ed è Opera a staccare i biglietti per gli Uffizi, e dunque a governarne gli accessi e a decidere la sorte delle opere, la condizioni della visita, lo stato reale della sicurezza. In verità, la legge Ronchey prevede che si possa (ma non che si debba) cedere a un privato for profit come Opera la biglietteria di un museo come gli Uffizi. E le immagini di Servizio Pubblico dimostrano che non è una buona idea dare le chiavi del nostro patrimonio culturale a chi non ha altra bussola che il proprio profitto. Perché il risultato è la socializzazione delle perdite e la privatizzazione degli utili: incassando a percentuale, il concessionario ha interesse a farcire il museo come il tacchino del Ringraziamento, senza curarsi dell'usura delle opere, del drastico abbassamento della qualità della visita, e del rischio sicurezza.
Il manifesto, 3 maggio 2014 (m.p.r.)
L’identità di un popolo si fonda, da una parte, sul vincolo di valori comuni e, dall’altra, sull’ accettazione di un passato condiviso. La memoria culturale fa da ponte con l’oggi, favorendo – secondo la definizione dell’egittologo tedesco Jan Assman – la «struttura connettiva» di una società. La rimozione del ricordo, dunque, ci rende non solo più poveri di sapere ma ci condanna a una pena ben più onerosa: la perdita del senso di appartenenza, l’incapacità di trasformare l’immagine del sé in noi. Tale processo, osservabile anche nell’Italia che boicotta gli studi classici e svilisce il suo patrimonio storico-artistico, è ancor più accentuato in paesi dove una triste sequenza di conflitti e atti terroristici ha lasciato ferite aperte e traumi indelebili, che si vorrebbero cancellare con l’artificio della menzogna.
L'intuizione che sta dietro al nuovo modello di mobilità integrata forse rischia di diluirsi in un eccesso di tradizionalismo, se non ci si adatta davvero al tipo di domanda espressa dalla città. La Repubblica Milano, 30 aprile 2014, postilla (f.b.)
La missione più ardua sarà mettere mano a Piazzale Maciachini: “Un vecchio chiosco, due mignotte e sei tombini”, secondo l’efficace sintesi dello chansonnier Folco Orselli. Ma il programma prevede anche il rifacimento di piazzale Loreto, mentre sono in corso i lavori per piazza XXIV Maggio e per la pedonalizzazione “light” di piazza Castello. Vecchie piazze che rinascono e nuove che si affermano, come piazza Gae Aulenti, divenuta nel giro di due anni la “terrazza” chic nel cuore del nuovo skyline urbano. Insomma, un po’ a sorpresa si scopre che il “segno” più forte che l’amministrazione Pisapia sta lasciando è la riscoperta di Milano come una città di piazze, con il conseguente ridimensionamento della città degli incroci, dominatrice dell’orizzonte urbano dal dopoguerra.
È una piccola, ma significativa, rivoluzione figlia di un cambio di paradigma iniziato con l’introduzione di Area C. Se si può mettere mano a luoghi disumanizzati ed emblematici della dittatura del traffico come Loreto e Maciachini, lo si deve al fatto che fra i milanesi si è fatta largo l’idea che il futuro della città si gioca sulla diminuzione del traffico privato. E che la rottura della dipendenza dall’auto come mezzo di trasporto urbano è la premessa indispensabile per una nuova, e riscoperta, vivibilità. Sarebbe bello che la riscossa delle piazze avvenisse con il massimo coinvolgimento dei cittadini e, cassa permettendo, evitando soluzioni provvisorie o posticce.
Su Maciachini e Loreto, per esempio, forse varrebbe la pena indire un concorso di idee a tambur battente. È evidente, infatti, che in questi due casi non ci si può limitare a una semplice riorganizzazione viabilistica o di qualche aiuola. Serve, invece, una rilettura dello spazio che riesca a tenere insieme vivibilità, nuovi servizi e funzionalità (compresa quella di scorrimento del traffico). Farsi prendere dalla fretta — magari imbastendo lavori da chiudere in tempo per l’Expo — può comportare errori, complicazioni nella gestione del cambiamento e conflitti con i residenti. Su Loreto, ad esempio, è stato sperimentato negli scorsi anni un modello alternativo di rotatoria. Può rappresentare la base del nuovo assetto della piazza, ma a condizione di calibrare bene la dimensione di carreggiate e intersezioni semaforiche, per non generare ingorghi. Per lo stesso motivo sarebbe utile poter seguire, passo passo, lo studio del nuovo piazzale Maciachini, inevitabile ed enorme snodo della circolazione nel quadrante Nord, strappando spazi alle auto ma senza immaginare un’impossibile pedonalizzazione globale.
La riconquista delle piazze come luoghi dell’incrocio e dello scambio fra le persone può essere una straordinaria leva della partecipazione civica offerta dalla giunta Pisapia, che su questo punto ha suscitato più di una critica. A patto, però, che si agisca con una regolazione fine. Che non si sottovalutino obiezioni e, anche, contestazioni, come purtroppo sembra stia avvenendo per la pedonalizzazione di piazza Castello. Che, per quel che si è capito, rimarrà uno stradone di dimensioni autostradali, con qualche chiringuito e alcune sdraio.
postilla
Ha perfettamente ragione l'opinionista, a chiedere che l'idea della nuova rete di piazze non venga rovesciata in testa ai cittadini dal chiuso di strutture tecniche e decisioni calate dall'alto, ma dal tono delle discussioni pare emergere anche un altro rischio, ora solo vagamente accennato: un inutile e anacronistico passo indietro, invece di quello avanti che sarebbe necessario, anzi indispensabile per la città in movimento. Naturalmente si capirà meglio poi dai progetti spaziali di riordino, di queste piazze, e dal loro costituire una rete oppure no, ma la domanda di luoghi sostanzialmente assimilabili alla classica piazza italiana pare davvero priva di senso, in una città che in epoca moderna non ne ha mai avute, e non ne avverte alcun bisogno: ambienti per la sosta, il movimento, la pausa; nodi di socialità e relazione, oltre che di flusso e scambio, ma nulla a che vedere col genere di salotti urbani che forse qualcuno sogna. Spazi chiusi e identitari di cui Milano non saprebbe che fare. Qualche osservazione in più su Millennio Urbano (f.b.)
Pare incredibile: fra un anno esatto inizia l'evento Expo, e naturalmente anche il dopo-Expo, ma per quei milioni di “strategici” metri quadrati del sito non si è ancora deciso (pubblicamente) nulla. Corriere della Sera Milano, 29 aprile 2014 con postilla.
Un anno all’Expo significa che tra un anno e un giorno comincerà il dopo Expo. Il milione di metri quadri, dove il primo maggio del prossimo anno aprirà i battenti l’esposizione dedicata al tema «Nutrire il Pianeta Energia per la Vita», potrebbero diventare o un luogo di sviluppo dell’area metropolitana o una landa desolata. A oggi però la sola certezza che si ha sul futuro di quei terreni su cui sono stati investiti molti quattrini pubblici per ripulire, bonificare e infrastrutturare, è che per metà saranno vincolati a verde. E il resto? La società Arexpo, nata appositamente tra Regione, Comune e Fondazione Fiera dopo un travagliato iter per la cessione delle aree (già di proprietà in parte di Fiera in parte della famiglia Cabassi) aveva lanciato un concorso di idee: diversi soggetti avevano partecipato, le proposte migliori erano state selezionate e presentate al pubblico.
Ma stiamo parlando di filosofia. Nessun business plan , nessun investitore interessato formalmente, nessun progetto vidimato dagli uffici dell’urbanistica comunale. Ad avere un po’ più di consistenza pare soltanto l’ipotesi di uno stadio, che il Milan vorrebbe costruire sull’area: ipotesi per altro che piace molto al Governatore Roberto Maroni e su cui invece frena la giunta Pisapia. Lo stadio potrebbe essere una parte di pezzo di un progetto più complessivo: magari all’interno di una Cittadella dello sport che a Milano ancora manca. Certo, il tema dell’alimentazione qui non c’entra nulla. E viene da chiedersi quale sarà dunque l’eredità culturale di un’Expo che ha l’ambizione di presentarsi per quello che non sarà: «Non una Fiera». Se l’idea è davvero di arrivare a definire un protocollo alimentare, sul modello di quello firmato a Kyoto sui temi ambientali, impegnando tutti gli Stati a darsi delle regole in materia di lotta allo spreco, di sostegno alle popolazioni denutrite e di promozione di stili di vita sani, forse almeno un segno tangibile di questo lavoro dovrebbe restare anche dove saranno smontati i padiglioni.
Mentre l’idea dell’orto botanico è del tutto tramontata, o forse non è mai esistita davvero, mentre Bologna sta invece già lavorando al progetto, avveniristico e unico nel suo genere, di un parco agroalimentare che valorizzi le eccellenze del territorio, Milano brancola nel buio. Conosciamo bene i tempi necessari per concedere licenze, superare gli iter burocratici e della politica, avviare un’operazione così articolata: per questo viene da pensare che siamo già in ritardo. A quelli che insistono sul fatto che «intanto cominciamo a fare bene l’esposizione» bisogna rispondere ricordando che il successo di un sistema Paese, quello che questo evento mette alla prova, si misurerà (anche) dal dopo Expo. Serve un’idea illuminata e moderna e serve in fretta. Per questo le istituzioni devono muoversi. Perché manca solo un anno, al dopo Expo.
Postilla
Non esiste, è vero, una decisione nè una strategia "pubblica" per le aree dell'Expo. Ma è facile comprendere le strategie e intravedere i piani dei decisori effettivi - se si conosce il percorso che è intercorso tra la trasformazione dell'area dell'ex Fiera e il progetto dell'attuale Expo, e se soprattutto si conosce il gioco degli interessi che da sempre si muovono dietro le "valorizzazioni" delle aree milanesi. Sui vantaggi e svantaggi - economici, sociali, urbanistici - dell'Expo e sui modi di realizzarla la discussione non ha più molto senso: i giochi sono già fatti e l'amministrazione anche se volesse fare un passo indietro, sarebbe troppo debole per cimentarsi in quest'impresa. Se ne può trarre qualche insegnamento, e proveremo a farlo. Ma la battaglia per il futuro dell'area è ancora aperta. Servirà per contribuire a costruire una "città dei cittadini" o a rendere più vasta, solida e ricca (per i ricchi) la "città della rendita"? Dipenderà in primo luogo dai milanesi. (e.s.)