Una scelta politica e sociale dell'amministrazione di Milano, molto in linea con tante altre strategie, territoriali e ambientali, compreso il contenimento del consumo di suolo. Corriere della Sera, 20 ottobre 2014, postilla (f.b.)
MILANO - Se ne parlava già ai tempi di Carlo Tognoli, sindaco di Milano alla fine degli Anni 70. È diventato un tormentone sotto il regno di Gabriele Albertini, fine Anni 90. Ci ha riprovato il ministro Roberto Castelli nel 2005. È tornato alla ribalta con il ministro della Giustizia Andrea Orlando che ieri dalle pagine del Corriere ha rilanciato il leitmotiv: il carcere di San Vittore va chiuso e sostituito con uno più piccolo fuori Milano.
Orlando però ha fatto i conti senza Giuliano Pisapia, sindaco di Milano. A differenza dei predecessori, l’avvocato penalista, esperto di problemi carcerari, boccia la proposta: «Ritengo che non si debba chiudere San Vittore ma proseguire, e accelerare, l’opera di ristrutturazione e modernizzazione già iniziata». Che non siano solo parole lo dimostra il fatto che nel Piano del governo del territorio, lo strumento urbanistico per eccellenza voluto dal sindaco e dal suo braccio destro Ada Lucia De Cesaris, San Vittore, sebbene statale, sia destinato a «servizio».
Troppi giudizi affrettati secondo Pisapia. «Da anni si discute dell’opportunità o meno di chiudere il carcere milanese, a volte senza conoscere la realtà di San Vittore e senza proporre alternative realistiche». Il sindaco riconosce che San Vittore è vecchio ma ricorda al ministro che è partita la ristrutturazione di due raggi: «Per i lavori già fatti, per la professionalità di direttori e polizia penitenziaria, per le esperienze di socialità di cui questo carcere è stato spesso all’avanguardia, ritengo che non si debba chiuderlo». Anche sul problema del sovraffollamento Pisapia dice la sua. Oggi a San Vittore sono ospitate 1.015 persone, 945 uomini e 70 donne, quasi tutti in attesa di giudizio, contro una capienza certificata di 702. Numeri in diminuzione rispetto all’anno scorso, quando i detenuti erano 1.351, ma pur sempre una situazione di enorme disagio. Non è con la chiusura del carcere di piazza Filangieri che si risolve il problema: «Bisogna intervenire, e qui parla più l’avvocato che il sindaco, con una riforma del codice penale in modo da prevedere, per i reati di non grave allarme sociale, pene diverse e più efficaci della detenzione, spesso scuola di criminalità».
Ma c’è un altro motivo per cui Pisapia dice no alla chiusura. Anzi due. Il primo lo definisce «culturale». «Abbiamo la tentazione di nascondere i problemi della società, rimuoverli. Un carcere in centro a Milano ricorda a tutti che viviamo in un mondo complesso, in cui esistono violenza, emarginazione e povertà e che i problemi vanno affrontati e non rimossi». Il secondo: «Temo che i detenuti lontano dalla città perdano contatto con il mondo esterno, famiglie, avvocati, assistenti sociali e volontari che avrebbero più difficoltà a raggiungere il carcere». Nel 2001, da capogruppo di Rifondazione in commissione Giustizia alla Camera, usò una parola più forte: «ghettizzazione». La sostanza non cambia.
postilla
Significativo: ci vuole uno che per propria ammissione non ne capisce, e non ne vuole capire, nulla di urbanistica, per far sì che le scelte urbanistiche pur importanti non galleggino nel vuoto della tecnocrazia. Quale migliore strategia per un rilancio complessivo delle potenzialità urbane, contro lo spreco di risorse ambientali e sociali della dispersione cara agli sviluppisti del territorio, che una pratica seria e non di facciata della vera composizione funzionale? Città vuol dire densità, ma anche complessità, e allontanare verso un vago misterioso limbo extra moenia tutto ciò che non si vuole risolvere, dall'industria al carcere alle abitazioni economiche alle attività sensibili (che siano inceneritori o sale lapdance), è solo negare sé stessi. Forse spiacerà a chi sperava in qualche riuso o recupero del sistema panottico cellulare in senso espositivo congressuale, del genere che piace a tanta cultura dei progettisti, ma è molto meglio così: scopare i problemi sotto il tappeto della greenbelt li sposta solo nel tempo peggiorandoli, come ben sappiamo (f.b.)
Qualche riflessione in più su La Città Conquistatrice: Galeotto fu il Mixed-use!
La Nuova Sardegna, 12 ottobre 2014, con postilla
Gruppo di intervento giuridico, Stefano Deliperi:
«Sono allibita»: Maria Paola Morittu di Italia Nostra usa una sintesi chiara per definire il proprio giudizio sulla legge per l’edilizia, un Piano casa di centrosinistra che per le associazioni annuncia un nuovo assalto alle coste e ai centri storici: «Non capisco come da una parte si rilanci il Ppr di Soru e dall’altra si voglia far passare questa leggina, che è in deroga totale al piano». L’analisi di Morittu è spietata: «La Regione, assessore Cristiano Erriu in testa, ci aveva assicurato che il famigerato articolo 13 del Piano casa di Cappellacci, quello che contiene le deroghe e apre la strada ai costruttori, sarebbe stato abrogato. Invece ce lo ritroviamo qui, nel nuovo disegno di legge, in versione persino peggiore. Quelle che erano deroghe contenute in un provvedimento straordinario, dunque provvisorie, l’amministrazione Pigliaru vuole farle diventare legge e quindi definitive». Secondo Morittu l’illegittimità dell’articolo 13 è stata già ampiamente confermata dal giudice amministrativo: «Ci sono due decisioni del Tar e una del Consiglio di Stato, non riesco a capire come abbia fatto la Regione a non tenerne conto. Qui si torna indietro, superando Cappellacci nella corsa incontro ai costruttori». Secondo Morittu chi ha già beneficiato delle nuove volumetrie del vecchio Piano casa potrà presentarsi ancora all’incasso: «Solo nel caso in cui risultino cubature residue, un’esplicita ammissione del fatto che la nuova legge sarà più permissiva della vecchia». La dirigente di Italia Nostra insiste: «Con questo Ddl si va contro persino ai regolamenti comunali, è una cosa inaccettabile». Nessuno sconto alla Regione, la battaglia è annunciata: «Ci muoveremo in ogni sede - conferma Maria Paola Morittu - per fermare questa legge ispirata da consulenti vicini ai costruttori. È assurdo parlare di Ppr e di tutele, quando poi l’orientamento è di rianimare le betoniere. Davvero non pensavo che si potesse fare peggio del governo Cappellacci, invece ci sono riusciti».
postilla
A pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca, diceva Giulio Andreotti.Ovviamente, se i fatti testimoniano che ci si azzecca il peccato non c'è. Noi forse facciamo peccato, perché pensiamo, con Deliperi e Morittu, che l'annullamento (tardivo, e a questo punto inutile) è stato la copertura per far passare l'incredibile riproposizione, addirittura peggiorata, del famigerato "piano casa" di Cappellacci Se abbiamo peccato o no lo diranno i fatti: se la Giunta Pigliaru ritirerà il suo provvedimento saremo contenti di aver peccato.
La Repubblica, ed. Firenze, 12 ottobre 2014«IO ritengo di essere l'uomo del dialogo: ascolteremo le opinioni di tutti. Ma sia chiaro che se non si approva il Piano del paesaggio, il centrosinistra dovrà trovarsi un altro candidato alla presidenza della Regione». Meglio dirlo prima. Sul Piano paesaggistico tanto contestato dagli agricoltori e dai produttori di vino, il governatore Enrico Rossi ci mette tutto il carico. Conferma di essere pronto a rivedere e ridiscutere alcuni passaggi. Ma sul risultato niente scherzi, notifica dall'Internet Festival di Pisa, durante l'intervista di Lucia Annunziata. Il Piano è parte fondante della Toscana del futuro. Almeno la Toscana che ha in testa lui: «Il nostro obiettivo è garantire lo sviluppo all'agricoltura mantenendo la specificità del paesaggio », dice Rossi. Avvertendo fin d'ora quei consiglieri che dovessero accarezzare l'idea di mettersi di traverso.
Un avviso ai naviganti e una prova di forza, da parte del presidente che ha il ‘bis' in tasca, direttamente consegnatogli dal premier Matteo Renzi. Ma dal palco pisano, Rossi gli inoltra un suggerimento e una richiesta: «Se nella legge di stabilità Renzi inserirà benefici solo per Firenze mi arrabbierò ». Il premier non si dimentichi del resto della Toscana: «Non ho elementi per esprimere giudizi definitivi, ma mi aspetto che nella finanziaria il premier riservi altrettanta attenzione a rilevanti questioni infrastrutturali per la costa». Quali? Due su tutti: «L'autostrada tirrenica e l'adeguamento del porto di Livorno con i dragaggi sul canale Scolmatore». E se i pisani non dovessero sentirsi sufficientemente rassicurati,
Rossi mette sul piatto anche gli scali aeroportuali. Dice «di sentirsi la coscienza a posto e di avere compiuto una scelta che fa soprattutto il bene di Pisa ». Perché «se la città preferisce restare nel suo piccolo, sappia che corre il rischio di restare marginalizzata: l'individuazione di Corporacion America e della proprietà unica dei due scali consente di fronteggiare al meglio la concorrenza di Bologna, e di assicurare lo sviluppo di Pisa fino a 7 milioni annui di passeggeri».
Se poi ci sarà bisogno di «chiedere al governo attenzione per la cittadella aeroportuale pisana, lo faremo», giura Rossi. Tra le richieste al premier c'è però anche il capoluogo: «A Renzi chiedo 40 milioni per terminare i lavori alla diga di Levane e per completare le casse di espansione sull'Arno, così da mettere Firenze in sicurezza ». Rossi conferma la disponibilità «ad aggiungere altri 40 milioni per l'Arno». Ma ricorda subito dopo a Renzi che «servono interventi sul porto di Livorno, mentre a Pisa servono cittadella aeroportuale, centro congressi e un più rapido collegamento ferroviario con Firenze».
Sul piano politico Rossi conferma di non voler fare guerre al renzismo: «Ritengo che cercare ora rivincite contro Renzi sia sbagliato, è stato uno straordinario acceleratore della crisi della politica che la sinistra ha compreso tardi. Semmai il rammarico è che da sinistra non sia avvenuto altrettanto ». Cercare ora rivincite vorrebbe dire piuttosto «farsi asfaltare», dice Rossi. Aggiungendo: «Io scommetto sugli under 30, sui giovani che incontro e che non sono né renziani né antirenziani ma semplicemente di sinistra. E molti di coloro che oggi fanno battaglie a difesa dell'articolo 18 si sono dimenticati per anni dei Cococo e Cocopro, anche se il Jobs Act non credo risolverà tutti i problemi».
Il sindaco di Firenze a fine mese sarà in Cina, poi a Cannes. "Possiamo mettere in moto 1,5 miliardi di investimenti". Saranno consentiti fino al 20% di ampliamenti delle superfici degli immobili trasferiti. La Repubblica - Firenze, 9 settembre 2014.
Fai investimenti immobiliari a Firenze? Palazzo Vecchio ti agevola sulle tasse locali: sconti o addirittura esenzioni sulla Tasi e l'Imu. E se la montagna non va a Maometto, ci penserà Maometto ad andare alla montagna, giura il sindaco Dario Nardella reduce da un giorno a Monaco di Baviera all'Expo Real, la più grande fiera internazionale del Reale estate, dove si è presentato insieme al super manager Giacomo Parenti con un pacchetto di 60 tra immobili e aree su cui investire a Firenze: "Io d'ora in poi andrò ovunque a promuovere la città: a fine mese sarò in Cina, poi a Cannes. Abbiamo l'opportunità di mettere in moto la più grande operazione immobiliare degli ultimi 150 anni: un miliardo e mezzo di investimenti possibili, 60 milioni di euro di oneri d'urbanizzazione per il Comune, 10 mila posti di lavoro. Un'occasione da non perdere", sogna ad occhi aperti Nardella.
E' di fatto l'inizio di una nuova stagione per Palazzo Vecchio. Anche negli anni della grandeur renziana solo una vendita è andata a segno, quella del teatro comunale di Corso Italia, comprato dalla Cassa depositi e Prestiti ma tuttora in cerca di un futuro, visto che un progetto (e un investitore) ancora non c'è. Per il resto, aste deserte su immobili pubblici (palazzo Vivarelli Colonna) e operazioni immobiliari private o miste al palo in molte zone della città: da viale Belfiore alla Manifattura Tabacchi. E così ora via alla caccia spietata all'investitore. Prima con le armi della seduzione: «Nel prossimo bilancio sgravi fiscali per attrarre investimenti», annuncia Nardella. Se non basta l'idea del sindaco è quella di andare lì dove gli affari si muovono: "Nardella Real Estate", già lo prendono in giro i suoi.
Va proprio in questa direzione il corposo dossier di opportunità di investimento che il sindaco ha illustrato martedì a Monaco a imprenditori, fondi d'investimento, consoli e uomini di Stato: dall'exManifattura Tabacchi all'area delle ex Officine grandi riparazioni fino al complesso Lavagnini e alla Querce, che potrebbe trasformarsi in un albergo di lusso. E poi ancora la Cassa di risparmio di via Bufalini, palazzi in via di Quarto a Careggi, il convento cappuccino di via dei Massoni, Poggiosecco. Nardella ha proposto di tutto, palazzi enormi, vecchi depositi del tram, ville, l'ex tribunale di San Firenze, persino l'immobile con l'arco di piazza Repubblica.
Anche beni privati con iter urbanistici avanzati: "Ci siamo fatti dare una liberatoria", spiega il sindaco. "Molti interessamenti da parte di gruppi alberghieri", si lascia solo sfuggire Parenti. Per il resto trattative top secret. «Tutti sono beni su cui c'è certezza dell'investimento, consentiamo di ampliare fino al 20% la superficie della trasformazione per gli immobili trasferiti”, rivendica l'assessora all'urbanistica Elisabetta Meucci. Nella top 5 dei beni più gettonati: l'ex Telecom di via Masaccio, il teatro Comunale, la Manifattura Tabacchi, le ex officine Grandi riparazioni dietro la Leopolda, il palazzo Vivarelli Colonna, il "palazzo del sonno" delle Ferrovie in viale Lavagnini. Una volta a Monaco Nardella non si è fatto sfuggire l'occasione di una visita all'Allianz Arena, lo stadio del Bayern: "E' pensato per le famiglie: mi piacerebbe averne uno così a Firenze".
Il manifesto, 11 ottobre 2014
Nella riunione di ieri mattina, la giunta ha deciso, su proposta dell’assessore all’urbanistica, Cristiano Erriu, di revocare la delibera di adozione con la quale, nell’ottobre del 2013, la coalizione di centrodestra aveva, di fatto, abrogato il piano di tutela del paesaggio approvato nel 2006 dalla giunta di Renato Soru.
La delibera a suo tempo approvata dall’esecutivo Cappellacci cambiava tutto rispetto alla legge Soru. Le coste della Sardegna, che quella legge tutelava come un bene paesaggistico inalienabile, diventavano, soltanto, un «sistema ambientale ad alta intensità di tutela». Che cosa esattamente significasse questa formula, lo chiariva un passaggio della bozza preparatoria, ora abrogata, della legge poi approvata dalla giunta Cappellaci: «È necessario mediare tra la tutela delle risorse primarie del territorio e dell’ambiente e le esigenze socio-economiche della comunità, all’interno delle strategie di sviluppo territoriale e di sostenibilità ambientale». Tutela sì, quindi, ma se questa blocca le «strategie di sviluppo territoriale» va eliminata o drasticamente ridotta. E siccome non è mai stato un mistero per nessuno che per la stragrande maggioranza dei comuni costieri le «strategie di sviluppo» coincidono con la lottizzazione del territorio per costruire alberghi e villaggi turistici, era chiaro dove andasse a parare il contro piano di Cappellacci. Tanto più che le norme volute dal centrodestra recepivano al loro interno sia il Piano casa approvato dall’ultimo dei governi Berlusconi e per ben tre volte prorogato nell’isola da Cappellacci, sia una legge regionale che dava il via libera alla costruzione di venti campi da golf.
Non è quindi un caso che ieri la giunta Pigliaru abbia proposto anche nuove norme urbanistiche destinate a intervenire sugli effetti perversi dell’ultimo Piano casa di Cappellacci, in scadenza a fine novembre. Una serie di misure — ha chiarito ieri in conferenza stampa Erriu — che dentro il quadro di tutela disegnato da Soru, che ora torna in vigore nella sua interezza, regoleranno l’attività edilizia attraverso incentivi al recupero del patrimonio esistente e alla realizzazione di progetti compatibili con la tutela del paesaggio e con la salvaguardia delle coste
In una intervista a Maurizio Giannattasio, la vicesindaco con delega all'urbanistica delinea l'inizio di un processo di revisione dell'idea di città, da luogo delle trasformazioni edilizie a spazio sostenibilmente abitabile nella prospettiva dell'area metropolitana. Ottime intenzioni. Corriere della Sera Milano, 11 ottobre 2014 (f.b.)
Un documento. Da discutere con la maggioranza e poi con le forze politiche, i consiglieri comunali i comuni della città metropolitana, gli operatori di settore, le associazioni. Per dettare gli indirizzi della futura pianificazione del territorio. Basato su quattro cardini: la riduzione del consumo di suolo, la rigenerazione urbana, il riassetto ambientale e idrogeologico e una risposta efficace alla domanda di casa. Così sembrano titoli generici. In realtà significa cambiare alcuni obiettivi fondamentali: si deve puntare sul patrimonio immobiliare esistente, sia inutilizzato, sia degradato, sia utilizzato evitando di consumare nuovo suolo. «Il criterio è semplice — spiega il vicesindaco Ada Lucia De Cesaris —: rigenero e riqualifico il patrimonio esistente, recupero le aree dismesse e degradate»
Vicesindaco De Cesaris ha appena chiuso il nuovo regolamento edilizio e già vuole riaprire il Pgt? «Credo sia tempo di cominciare una riflessione a tutto campo per capire in che modo rinnovare l’urbanistica nell’ottica dell’area metropolitana e come rilanciarla per farla uscire da un periodo di crisi. Dobbiamo pensare a piani intercomunali in grado di creare continuità tra territori, servizi e infrastrutture. La giunta preparerà un documento che verrà discusso con la maggioranza e poi presentato al consiglio comunale, le forze politiche, operatori, professionisti, associazioni».
Rimetterete mano al Pgt? «Dobbiamo fare i conti con un Pgt che nasce da una mediazione e che a mio parere ha dei limiti e delle rigidità che vanno superate»
Quali? «Dobbiamo pensare ad una densificazione selettiva: realizzo solo dove è già stato consumato il suolo, rigenerando e riqualificando, recuperando aree dismesse. In questi casi si può pensare anche a indici superiori a quello attuale».
Tanti grattacieli? «Se di qualità qualcuno perché no, ma in cambio della tutela di altre aree della città , dei quartieri, del territorio verde e agricolo».
Quali strumenti del Pgt modificherete? «Non mi preoccuperei ora di cosa modificare. Mi piacerebbe aprire un dibattito sui temi cardine. Se l’obbiettivo è la riduzione del consumo di suolo, bisogna pensare a una serie di regole, semplificate e innovative, che aiutino e incentivino la rigenerazione urbana, sistemi che consentano anche il riuso temporaneo».
Ossia? «Vuol dire permettere anche degli usi non definitivi che impediscano il degrado e l’abbandono del patrimonio esistente e che rispondano a esigenze reali per periodi limitati».
Interventi sull’esistente. E come si difende il «non esistente»? «Bisogna salvaguardare quella parte di territorio non edificato e soprattutto il territorio agricolo. Questa parte di territorio non solo va salvaguardata, ma va anche sostenuta e incrementata. Va definita la rete che unisca i grandi parchi urbani, il Parco sud, il verde e le aree agricole, anche alcune di quelle ancora non tutelate: in un disegno unitario».
C’è fame di case a prezzi abbordabili. Che farete? «Bisogna ripensare l’housing sociale, includendo le nuove forme di abitare come le coabitazioni associative, quelle di carattere assistenziale, quelle temporanee. Ma non basta: dobbiamo realizzare più abitazioni in edilizia convenzionata, affitto moderato e anche di aumentare la disponibilità del patrimonio sociale trovando le leve economiche in un momento di crisi».
«L’organo costituente dovrà comunque volare alto: assicurare un quadro equilibrato di garanzie democratiche e, insieme, consentire un effettivo governo metropolitano. Nell’approntare lo statuto, il Consiglio metropolitano non potrà chiamarsi fuori da un confronto sulle strategie». La Repubblica. ed Milano, 8 ottobre 2014
Arriva in grave ritardo e con una legge istitutiva che fa acqua da tutte le parti, ma non si può sbagliare. O decolla o il fallimento della città metropolitana lascerà un paesaggio di rovine. La prima verifica ha tempi brevi: la messa a punto, entro la fine dell’anno, dello statuto da parte del Consiglio metropolitano (24 eletti di secondo grado, i cittadini tenuti all’oscuro e la politica che pensa per loro): un passaggio delicato quanto decisivo. Da qui dipende, fra l’altro, il conseguimento di un obiettivo su cui tutte le forze politiche si dichiarano d’accordo: rendere possibile l’elezione diretta degli organi di governo nel 2016.
Ma non può bastare. Se si vuole una democrazia sostanziale, lo Statuto non può ridursi a una sistemazione burocratica a valle della sparizione della Provincia. Tantomeno può dar vita a un assetto gestionale in cui le questioni in gioco vengano riportate entro gli schemi del laissez-faire a cui da tempo ci ha abituati anche il mondo degli enti locali.
Intendiamoci: la coperta è corta. L’intera Lombardia andrebbe interpretata per quella che è: un sistema di aree metropolitane che dal basso danno vita a un coordinamento regionale. Solo così avremmo un riassetto organico, in una vera ottica federalista, con un riequilibrio dei poteri tra i diversi livelli della Pubblica amministrazione. Ma nel quadro politico attuale – si obbietterà – una simile prospettiva è mera utopia. Lo so: quanto di più lontano dal separatismo antifederalista della Lega Nord come dal neo-centralismo renziano. Non a caso la fase costituente della città metropolitana non prevede il coinvolgimento dei livelli superiori (Regione e Stato) se non come controllori. Così, per ora, la partita si giocherà solo ai livelli inferiori: comuni, zone omogenee (tutte da istituire), governo metropolitano.
I limiti e le storture della legge 56/2014 non possono però costituire un alibi. L’organo costituente dovrà comunque volare alto: assicurare un quadro equilibrato di garanzie democratiche e, insieme, consentire un effettivo governo metropolitano. In altri termini, nell’approntare lo statuto, il Consiglio metropolitano non potrà chiamarsi fuori da un confronto sulle strategie. Andranno messe sul tavolo le questioni e gli obiettivi di fondo. Quali? In estrema sintesi, si potrebbero ricondurre a quattro punti:
1. il sostegno agli elementi motori dell’economia che consentano alla città metropolitana milanese di non soccombere nella competizione fra metropoli (con tutto ciò che consegue in termini di domanda di lavoro e di risorse per il vivere);
2. il perseguimento della qualità della vita e della coesione sociale, attraverso la lotta agli squilibri tra centro e periferia (urbana e metropolitana) anche con la messa in atto di un vero policentrismo, fino a una capillare riqualificazione dei luoghi dell’abitare;
3. la riduzione dell’entropia metropolitana, ovvero della dissipazione irrazionale delle energie che servono al funzionamento della metropoli, a cominciare dal potenziamento del trasporto pubblico e da un governo correlato della tendenza insediativa;
4. il potenziamento del verde quale elemento strutturale del quadro insediativo. Non basta il ferreo, sacrosanto, contenimento del consumo di suolo: occorre una politica attiva che, in una rinnovata alleanza tra agri-coltura e urbis-coltura, faccia dello straordinario sistema dei grandi e dei piccoli parchi – tutti da consolidare ed estendere – una risorsa fondamentale per la qualità dell’abitare metropolitano.
Un avviso ai naviganti. Non ci si trinceri dietro la mancanza di risorse economiche. Si badi piuttosto a non accrescere il costo complessivo di funzionamento dell’amministrazione pubblica locale e si mobilitino l’intelligenza e le energie sociali.
Corriere della Sera Lombardia, 2 ottobre 2014, postilla (f.b.)
Il gruppo Bennet getta la spugna e si prepara a chiudere l’ipermercato di Cortenuova. Una mossa a lungo temuta che comporterà a cascata la chiusura di tutto il centro commerciale «Le Acciaierie», da anni in crisi. La volontà di abbassare le serrande in «tempi rapidissimi» è stata comunicata ieri pomeriggio ai sindacati. E a giorni dovrebbe essere aperta la procedura di mobilità per i 78 dipendenti diretti dell’ipermercato. Inaugurato nel 2005 il centro «Le Acciaierie» con i suoi 175 negozi su due piani per 44mila metri quadrati e la cupola in legno lamellare a caratterizzarne il profilo, la più grande in una struttura commerciale in Europa, doveva essere il tempio dello shopping nella Bassa. Un mega polo d’attrazione che contava sull’arrivo veloce della Brebemi per alimentarsi. Quasi dieci anni dopo, quando finalmente l’autostrada è stata inaugurata, il suo destino pare segnato a quello di cattedrale nel deserto.
Schiacciato dalla concorrenza il centro è andato piano piano perdendo negozi e marchi commerciali. A tenerlo in vita il fatto che il gruppo Bennet aveva anche acquistato i muri dell’ipermercato. La società della grande distribuzione pesa per il 30% nel consorzio degli operatori del centro commerciale. Quest’ultimo, aumentando le chiusure è andato sempre più in cattive acque, e la Pedroni immobili, detentrice dei locali ha visto aumentare sempre più il peso delle spese comuni diventando il soggetto più esposto. A giugno quando ormai le attività attive erano ridotte a una quarantina e il primo piano chiuso, il consorzio ha chiesto il concordato liquidatorio. Per garantire la continuità la Bennet si è accollata per mesi il costo delle utenze. Una situazione che ora non sembra più sostenibile.
A rendere precaria la situazione anche il problema delle manutenzioni che andrebbero eseguite. «La società ci ha spiegato che in una situazione da cui in un momento all’altro potrebbero venir meno le forniture di energia, gas e acqua e non ci sono più le condizioni per lavorare in sicurezza, non si può continuare l’attività - spiega Alberto Citerio della Fisascat Cisl - . Al momento però non sono state aperte procedure di mobilità. Siamo in un momento di incertezza e l’incontro con la Bennet è stato in qualche modo preventivo per cercare di trovare una soluzione per i dipendenti di Cortenuova. C’è però la volontà di chiudere in tempi brevissimi». «Già nelle scorse settimane la superficie di vendita dell’ipermercato è stata ridotta - aggiunge Maurizio Regazzoni della Uiltucs -.È evidente che senza la Bennet il destino è segnato anche per le quindicina di attività rimaste aperte nel centro commerciale. L’ipermercato paga le scelte operative sbagliate nella gestione del centro negli anni passati. Sono stati fatti scappare grandi marchi. Gli errori nella gestione insieme alla concorrenza del centro di Antegnate che è più piccolo ed è riuscito ad affrontare meglio la crisi, hanno fatto il resto. Anche la famosa Brebemi che doveva essere la soluzione a tutti i problemi in realtà non ha portato beneficio».
Venerdì i sindacati incontreranno i dipendenti e il 10 di nuovo la Bennet. «A Cortenuova lavorano in 78 - precisa Aronne Mangili della Filcams Cisl -, ci sono 65 commessi, 8 apprendisti e 5 addetti alle pulizie. La prima strada che si tenterà è il riassorbimento di parte dell’occupazione a Romano e Albano Sant’Alessandro dove la società gestisce altri due punti vendita, ma gli spazi di manovra non sono molti».
postilla
Fra le cose più brutte che possono capitare, c'è quella di ribadire sconsolatamente “ma noi l'avevamo detto”. E davanti a un segnale chiaro come una enorme scatola vuota, anzi un enorme territorio pieno di scatole potenzialmente vuote, ma abbondantemente quanto inutilmente infrastrutturato e urbanizzato come le ex campagne dell'Albero degli Zoccoli, cascano davvero le braccia. Vanno a finire così, di solito abbastanza presto, tutte le chiacchiere a vanvera sullo sviluppo locale, i posti di lavoro in cambio di trasformazioni edilizie strampalate, la squilibrata contrattazione fra operatori senza scrupoli e amministratori senza cervello, nonché senza alcuna propensione ad ascoltare chi prova ad avvertirli. Se lo ricordino, quelli che ancora adesso ridacchiano perché la Bre.Be.Mi. è vuota, o quelli che piagnucolano aspettando che altri cantieri portino il sempre spergiurato sviluppo: è tutto una enorme fregatura, e ci lascia naufraghi in un deserto. Per i dettagli basta leggere qualche campione scelto di quanto si pubblicava più o meno una decina di anni fa a proposito: Uovo di Serpente, oppure Hic Sunt Peones Ma che infinita tristezza! (f.b.)
Qualche considerazione sull'oggi dal quotidiano online Today
Left Avvenimenti, 4 ottobre 2014
Una delle “grandi opere” del Giubileo 2000 doveva essere il sottopasso di Castel Sant’Angelo, un tunnel che sarebbe partito da lontano e, che passando sotto le fondamenta della Mole Adriana, avrebbe fatto rispuntare il traffico dopo il Santo Spirito. Scendemmo nelle viscere dell’imponente castello poggiato dai Romani su uno zatterone di marmo. I tecnici ci indicavano le grandi fenditure nei muri: la Mole stava “aprendosi” verso il fiume. Il soprintendente ai Beni architettonici, Francesco Zurli, taceva. Parlò quello ai Beni archeologici, Adriano La Regina e pose il proprio veto decisivo. Lo chiamavano già il “signor NO” e da allora lo fu anche di più. Pochi però ricordano il restauro dei Fori curato da lui coi fondi (ben 120 miliardi in più annualità, anche quelli dimenticati) di una legge speciale voluta dal ministro Oddo Biasini. Pochi rammentano che il vero restauro strutturale del Colosseo lo curò sempre il “signor NO” coi 40 miliardi dati, quasi in silenzio, dalla Banca di Roma nei primi anni ‘90.
Il 47 % del Belpaese è protetto da vincoli paesaggistici posti dalle leggi Bottai (1939) e Galasso (1985). Ma gli architetti dello Stato vigilanti su di essi sono appena 487. In calo. Devono ovviamente occuparsi anche di 20mila centri storici (almeno mille mirabili), di migliaia di palazzi antichi, di 95mila fra chiese e cappelle, insieme agli storici dell’arte anche meno numerosi di loro (453). Molti sono anziani: da anni non si fanno concorsi.
Le “belle arti” - così le chiama la gente - hanno fama di bloccare questo e quello in un Paese peraltro insofferente di regole e vincoli. Tanto da essere devastato per oltre metà dagli abusi. Non sono quindi per niente popolari queste “sentinelle della tutela” destinate ad attuare, come possono, con fondi minimi, stipendi all’osso (i funzionari guadagnano 1700-1800 euro), rimborsi risibili per le missioni, l’art. 9 della Costituzione.
Non erano però mai state, neppure sotto Berlusconi, il bersaglio fisso di sindaci e assessori, anche del Pd, e dello stesso premier, Matteo Renzi, già da sindaco di Firenze. Ma sono così tanti i “no” delle Soprintendenze ai 100mila ricorsi edilizi e urbanistici annuali? Macché: appena il 2-3%. Tardano? Per forza, i tecnici che li esaminano sono appena 230 in tutta Italia. Esercitano “un potere monocratico”? Finora sì, come una équipe di scienziati, o di chirurghi. Mica chiedono un parere ai politici. Ma è proprio questo che risulta indigeribile. Difatti Decreto Franceschini e Sblocca Italia pongono ai pochi funzionari, stracarichi di pratiche complesse, termini perentori per rispondere. Addio controlli. E la Costituzione?.
«La differenza tra idea e azione», cantava Fabrizio De André. Che è proprio la differenza che separa il titolo della Conferenza Internazionale sul «Patrimonio culturale come bene comune» (organizzata nel quadro del semestre di presidenza italiana dell’Unione europea) dallo svolgimento di quella stessa conferenza. Per cominciare, si è sbagliata la «location» (per usare la sconcertante definizione usata dal ministro Dario Franceschini): l’unico posto in Italia dove si sarebbe potuta organizzare una simile conferenza era il Teatro Valle Bene Comune, a Roma. Ma, accidenti, giusto un mese fa Franceschini e Ignazio Marino hanno ‘sgomberato’ il Valle dalla pericolosa filosofia dei Beni comuni.
E allora si è scelta Torino: ma, anche qua, sbagliando luogo. Perché quello giusto sarebbe stata la Cavallerizza Reale: un grande complesso, costruito tra Seicento e Ottocento come sede dell’Accademia militare, e protetto da un vincolo. Ceduta dal Demanio al Comune di Torino, la Cavallerizza è divenuta parte del Teatro Stabile, e nel 2001 si è aperta alla città come luogo di spettacolo, ottenendo un grande successo. Ma in seguito ai tagli selvaggi ai bilanci degli enti locali, l’amministrazione comunale ha rinunciato a raccogliere i frutti (sociali, ma anche economici) del suo investimento, e ha deciso di mettere in vendita il complesso: nel 2009 è stato affidato alla Cartolarizzazione Città di Torino srl, e nel 2013 sono state interrotte le rappresentazioni e sono iniziate le visite degli speculatori privati che vorrebbero acquistare il monumento (a prezzo di saldo: 12 milioni di euro). È per opporsi a tutto questo che la Cavallerizza è oggi occupata: e proprio da chi davvero crede al «Patrimonio culturale come bene comune».
Ma naturalmente la Conferenza non è stata fatta là, bensì nella Reggia di Venaria: «Tutti i ministri – ha dichiarato Franceschini – hanno apprezzato la straordinaria location». Nel 1998 Venaria fu strappata (per merito di Veltroni) ad un intollerabile degrado, venendo riaperta al pubblico nel 2007. La reggia e i suoi giardini furono conferiti ad un consorzio composto dal Ministero, dalla Regione Piemonte, dalla città di Venaria, dalla Compagnia di San Paolo e dalla Fondazione 1563. Ma a causa del dimezzamento del bilancio dei Beni culturali imposto da Tremonti nel 2008, Venaria iniziò a trovarsi in difficoltà. E così il presidente del Consorzio ipotizzò una soluzione a dir poco allucinante: «Se dallo Stato ci dessero temporaneamente opere significative, come i Bronzi di Riace o dipinti di grandi artisti, da Raffaello a Paolo Veronese, si potrebbe sopperire alla mancanza di fondi, creando forti attrattive per il pubblico».
La Venaria come un Luna Park dell’arte, insomma: e, d’altra parte, il presidente in questione è Fabrizio Del Noce, diventato direttore di Rai Uno dopo essere stato deputato di Forza Italia. Un curriculum che spiega molto, forse tutto. E, infatti, anche a questo giro Del Noce ha riproposto a Franceschini il baratto caldeggiato da Vittorio Sgarbi nello scorso agosto: gli Uffizi dovrebbero prestare per tre mesi la Venere di Botticelli a Venaria, in cambio di due milioni cash. Una transazione tipicamente da beni comuni, come ognun vede.
Dal canto suo, il direttore del Consorzio, Alberto Vanelli, ha proposto a Franceschini di realizzare a Venaria un Museo del Barocco «che occupi in maniera stabile alcune sale dell’immenso complesso»: «Una sorta di viaggio rappresentativo dello stile Barocco in Italia, alimentato da opere e contributi che potrebbero arrivare da tutto il Paese». Un’idea aberrante, che nasce per riempire un vuoto, e che vorrebbe trasformare in ‘museo’ permanente le antologiche di cassetta che tengono in piedi Venaria: un’idea che contraddice intimamente sia la natura storica e locale dei musei, sia l’essenza del nostro patrimonio, diffuso, radicato sul territorio e non antologizzabile. Il Barocco non è un’idea da illustrare attraverso un campione. Lo scrivo da studioso del Barocco: di tutto abbiamo bisogno tranne che dell’outlet nazionale del Barocco!
Un quotidiano torinese ha scritto che «vista la presenza dei 28 ministri, il centro e la zona della Reggia di Venaria, scelta da Franceschini come sede dell’incontro per la bellezza e per il modello di gestione, saranno blindati». Una blindatura forse capace di tener lontani i cittadini dalla riflessione sul bene comune: certo insufficiente a tener fuori l’ignoranza, l’improvvisazione, e la mercificazione. Gli unici ‘beni comuni’ su cui la politica culturale italiana non taglia mai.
Left, 27 settembre 2014
“Il provvedimento ministeriale Franceschini, pallidamente pubblicato soltanto ieri, 19 settembre, dopo un mese di latitanza inutile ed anticostituzionale, è indecente. Il testo demolisce, per esempio, l’Emilia, la Romagna e le Marche uccidendo le tradizioni storiche e artistiche di due regioni. Che spero protesteranno, se hanno dignità”. Questi giudizi pesanti come pietre sono stati calati nel dibattito promosso a Bologna per Artefiera del libro. E sono soltanto gli ultimi macigni di una fitta serie dedicati alle misure previste nel decreto del Presidente del Consiglio firmato da Dario Franceschini titolare del Collegio Romano. Parzialmente difeso da qualche docente universitario sentitosi gratificato dal fatto che il provvedimento governativo selezioni diciotto musei fra gli oltre 400 ed escluda (così il ministro in varie interviste) che tali “punti di eccellenza” possano essere diretti da storici dell’arte in carriera nelle Soprintendenze. Il provvedimento garantisce che saranno affidati /da chi?) a “persone che vengono da esperienze di gestione di altri musei all’estero o con una professionalità specifica”.
Si pensava che il governo Renzi aprisse decisamente ai privati nella gestione dei musei. Invece all’art. 35 essi rimangono “senza scopi di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo”. Ma senza “lucro”, addio privati che non siano mecenati puri. Di più: in una intervista a Francesco Erbani di “Repubblica” Franceschini ha escluso che i privati entrino nei grandi musei, semmai in quelli piccoli. Il livello della confusione sale.
La cosa più certa, in tanta nebbia istituzionale, è la netta scissione operata, sin dal vertice ministeriale, fra Belle Arti, centri storici, paesaggio, territorio da una parte e Musei dall’altra. Una scissione antistorica, disastrosa a partire dai Musei archeologici nati o cresciuti quali musei di scavo o comunque espressione di un’area storica, culturale prevalente. Che fine farà la Soprintendenza speciale per l’archeologia Roma e Ostia? Con o senza Colosseo-Palatino? Prevarrà la logica turistica? Rimarrà la gran pacchia delle società di servizi museali aggiuntivi? Questo macigno che da un quinquennio pesa sui maggiori musei non viene spostato di un millimetro.
Si doveva ridurre il testone centrale del MiBACT e restituire forza e autonomia alle sue indebolite articolazioni territoriali. Il testone centrale sostanzialmente rimane con 12 direzioni generali più la segreteria centrale e le segreterie regionali. Che prendono il posto delle direzioni generali regionali cambiando di nome e però mantenendo molte delle pesanti e criticate competenze sopra la testa (o le spalle) delle Soprintendenze. Queste ultime vengono accorpate: quelle ai Beni storici e artistici (fra le più “antiche”), di nuovo chiamate “Belle Arti”, ai Beni architettonici e paesaggistici, creando infiniti problemi per archivi, uffici, gabinetti fotografici e altro ancora. Modello che contraddice in modo frontale quello saggiamente adottato da personaggi che si chiamavano, agli inizi del ‘900, Corrado Ricci e Adolfo Venturi (giganti rispetto ai troppi nani in circolazione) i quali avevano definito per aree storiche i confini delle varie Soprintendenze.
Non basta. Nascono infatti i Poli Museali Regionali “articolazioni periferiche della Direzione Generale Musei”. Quindi nelle regioni si avranno due linee di comando riferite a due distinte direzioni generali: una per i beni storici e artistici che non stanno nei Musei statali, ma nei musei locali, laici ed ecclesiastici, in chiese, conventi, palazzi nobiliari e vescovili e un’altra per i beni facenti parte del circuito museale statale. Alla faccia della semplificazione. Ma poi chi coordina segretari regionali e direttori dei Poli Museali essi pure regionali? E pensare che i Poli Museali esistenti in talune città erano stati criticati a fondo perché, a Roma per esempio, erano serviti soprattutto a sottrarre fondi ai singoli grandi musei, per organizzare mostre su mostre (spesso di livello mediocre).
E’ il “nuovismo” renziano che passa in un provinciale trionfo e che in realtà tende - oggi con lo Sblocca Italia e col DPCM Franceschini, domani con la legge urbanistica Lupi - a ridurre i poteri e quindi i controlli, la tutela prevista dall’articolo 9 della Costituzione e realizzati sin qui dal Ministero per i Beni e le Attività culturali attraverso le Soprintendenze territoriali. Le quali hanno due torti fondamentali: a) essere state istituite “nell’Ottocento” (errore storico marchiano, furono create nel 1907, in pieno riformismo giolittiano) ed è noto che per Renzi ogni cosa del passato è vecchiume da rottamare, la storia in primo luogo; b) rappresentare organismi tecnico-scientifici “monocratici”, i quali decidono cioè in base a metodi non politici e pertanto risultano politicamente incontrollabili. Il che andava male per Berlusconi, ma ancora peggio - sono parole sue (presto ne pubblicheremo un’antologia) va per Matteo Renzi.
La Nuova Sardegna, 24 settembre 2014
Basi militari in Sardegna. Gli incidenti sono almeno serviti a risvegliare e coalizzare le antipatie verso questa anormale occupazione di terre, oltre 200 kmq, il 60% del totale nel Paese. Buona occasione per fare finalmente caso all' accumulo di controsensi nell'uso del territorio sardo, non solo a Capo Frasca, Quirra, Teulada.
Capisco la ritrosia a guardarla tutta insieme la Sardegna, credo per l' imbarazzante fardello di domande connesse: rivolte a chi ha avuto il torto di decidere tante invasioni/trasformazioni insensate, e ai delusi che hanno sempre applaudito. Dai signorsì, in tanti anni di Autonomia, è venuto uno sviluppo improbabile, e a seguire la disperazione che vediamo. È questa accondiscendenza che ha reso l'isola brutta e insicura, compromessa in più parti: disgraziatamente per sempre, perché dalle bonifiche non c'è da aspettarsi la palingenesi.
Cliccando sulle mappe online è facile farsene un'idea. Nella realtà è diverso, la bassa densità di popolazione allontana dalla vista i guasti, con i quali ci siamo abituati a convivere. Con poca voglia di impedire il “logorio profondo e irrimediabile” – di cui ha scritto Salvatore Mannuzzu in un saggio del 1998, pensando ai luoghi e alle comunità della Sardegna.
Impressiona il prolungato s'afferra-afferra. Senza intralci, perché chi ha preso dall'isola – senza restituire nulla – ha sempre contato su complicità locali; e chi si è opposto, tra i politici, non ha avuto vita facile.
Un'aggressione cominciata nell'Ottocento, quando tre quarti del patrimonio boschivo sono diventati carburante per produrre energia in Continente. E proseguita nell'ultimo mezzo secolo: con le regalie di vaste aree a imprenditori inaffidabili, sovvenzionati con libertà d'inquinarle – nel Sulcis e nel golfo dell'Asinara i casi più eclatanti della disfatta industriale – e oggi 450mila ettari di territorio sono avvelenati. E con il ciclo edilizio, specialmente in danno di litorali sfigurati e sottratti all'uso pubblico (la Sardegna “innocente” è ai primi posti nelle graduatoria dell'abusivismo, dopo Campania e Sicilia che però hanno il quadruplo degli abitanti).
Negli ultimi anni vanno e vengono le minacce da progetti di energia “verde”, e a volte si realizzano in assenza di valutazioni sul fabbisogno locale. Nello sfondo il deserto: travolgente se gli incendi continueranno a farci compagnia ogni estate e lo spopolamento cancellerà indispensabili presidi per gli usi agropastorali.
Ha stravinto il “partito del sì a tutto” – per accelerare il metabolismo dell'isola, ci ripetono da decenni. Tornaconti veri pochissimi. Neppure quelli più plausibili – penso alla disfatta del sistema trasporti che ci assicuravano prestante, bastava accondiscendere, approvare tutto senza condizioni.
Ripensare il modello di sviluppo, si dice. Dopo la manifestazione “no basi”, gli organi di informazione che stanno sostenendo la vertenza potrebbero intanto aiutare l'opinione pubblica a considerare tutte le forme di occupazione di terre inutilmente devastate. La vocazione agricola/turistica, continuamente evocata, non ammette remissività ai business di usi aberranti, allo strapotere di speculatori dell'energia o dell'edilizia scambiati per benefattori.
Per questo occorrono la visione lungimirante, di cui ha parlato il presidente Pigliaru, e adeguati atti di governo per tutelare il territorio senza distrazioni. Un esempio. Se le trivelle non strazieranno le campagne di Arborea è grazie alle manifestazioni di dissenso. Ma non sappiamo come sarebbe andata la valutazione d'impatto (SAVI) senza la lungimiranza del Piano paesaggistico. È infatti il contrasto con il Ppr – tempestivamente rilevato dal Servizio regionale per la tutela paesaggistica di Oristano – che sottrae quelle terre ai disegni della Saras. Ma attenzione al decreto “Sblocca-Italia”, approvato dal governo Renzi: incombe per racimolare briciole di Pil. La ragion di Stato che potrebbe esigere altri umilianti signorsì dalla Regione Autonoma, contrastando gravemente con le attese locali.
arrivi in un porto industriale, ma in un paradiso naturale: San Foca, provincia di Lecce. “Impensabile”, dichiara l’ex ministro Massimo Bray, appoggiando l’idea di farlo arrivare nell’inutilizzato Petrolchimico di Brindisi». Il Fatto Quotidiano, 23 settembre 2014
Tra gli infiniti lutti che lo Sblocca Italia sta per addurre al già martoriato territorio italiano ce n’è uno che viene da lontano. Il Tap: il Trans Adriatic Pipeline, cioè il gasdotto trans-adriatico che deve portare in Italia il gas dell’Azerbaigian. Nel quadro dell’attuale (criticabile) politica energetica, l’Italia e soprattutto l’Unione europea hanno bisogno di quel gas. E Matteo Renzi ci tiene particolarmente, perché il superlobbista del consorzio industriale che realizza il Tap è quel Tony Blair che il nostro presidente del Consiglio ha eletto a icona personale.
Nei prossimi giorni vedremo se Renzi proverà a governare il problema, o se invece prevarrà la logica dello Sblocca Italia: che è quella di tradurre in legge i progetti industriali presentati dai privati. E la domanda è: cosa vuol dire governare? Vuol dire imporre il “fare”, comunque e a ogni costo, o capire invece come fare? Vuol dire assumere per buone le ragioni del consorzio industriale, e poi semmai gettare la palla nel campo dei sindaci che protestano? O non deve invece voler dire farsi carico di tutti gli interessi in gioco, e trovare una soluzione che vada incontro al bene comune? Sulla spiaggia di San Foca ci giochiamo molto più della spiaggia di San Foca.
Costiera Amalfitana. Circa trent’anni fa un’accesa polemica divampò a proposito di un progetto da realizzare nello splendido scenario della Costiera Amalfitana. Per iniziativa del sindaco del comune di Furore, Raffaele Ferraioli, si voleva costruire due ascensori nel Fiordo di Furore. Il WWf. e gli ambientalisti si opposero e l’opera fu poi bocciata dalla Soprintendenza, dal Tar e dal Consiglio di Stato, perché l’iniziativa era in contrasto con le prescrizioni della pianificazione regionale, che sottoponeva l’intero Fiordo a tutela integrale e vietava in esso ogni intervento pubblico o privato, al fine di mantenere intatte le singolari caratteristiche ambientali e paesaggistiche. Il Fiordo di Furore è da sempre una meraviglia della Costa d’Amalfi ; dal 1997 è stato dichiarato patrimonio mondiale dell’Umanità, e perciò protetto dall’Unesco Tra le scalinate del borgo , nell’antico villaggio dei pescatori incastonato sul fianco della montagna, nel 1948 Roberto Rossellini girò il vero omaggio all’arte della bravissima Anna Magnani: l’episodio centrale del film “Amore”,
E proprio qui Anna Magnani e Roberto Rossellini, vissero la loro tormentata e intensa storia d’amore: si innamorarono del Fiordo tanto da comprare due “monazzeni”, case dei pescatori proprio sulla spiaggia, ironicamente ribattezzate con i loro soprannomi: “ la villa del Dottore” e “la villa della storta”. Finito l’idillio abbandonarono il loro nido d’amore. Anna Magnani non tornò mai più nel fiordo di Furore, regalò la sua casa al vecchio custode che ancora oggi la affitta a coloro che vogliono respirare questa strana atmosfera a metà tra mito e realtà. Lungo la statale tra Praiano e Conca dei Marini al km 23, c’è il ponte che scavalca il fiordo; da qui partono le scale, ripide, che scendono nella ria. Un’insenatura naturale strettissima con una spiaggetta deliziosa. Boccone da far gola a chiunque , particolarmente a chi è amante del bello e si diletta a poetare.
Tant’è vero che qualcuno il suo amore per il bello l’ha in passato espresso sbancando e distruggendo la parte esterna del fiordo ,edificando proprio in cima a esso una casa a forma di botte. Ora il Consiglio comunale di Furore capeggiato allora come oggi dal sindaco Raffaele Ferraioli ha programmato e fatto approvare la costruzione di un ascensore da infilare nel Fiordo. Nelle intenzioni dell’amministrazione comunale l’ascensore installato nella roccia dovrebbe servire a collegare il centro abitato sovrastante con la spiaggia del Fiordo , permettendo così anche il recupero dell’arenile. L’idea di realizzare un ascensore tra le rocce del Fiordo è quella – secondo quanto dichiarato dal sindaco Ferraioli, “ di ripristinare quell’equilibrio rotto dall’apertura dell’ottocentesca rotabile Positano-Vietri, che nel connettere alcune aree ne ha fatalmente emarginate delle altre” . Il progetto elaborato dal Comune prevede, oltre alla realizzazione di un ascensore che si svilupperà su un unico tracciato lungo trecento metri, di cui sessanta allo scoperto e duecentoquaranta in galleria, anche un parcheggio d’interscambio di oltre duecento posti macchina. Il costo preventivato dell’opera sembra che si aggiri tra i tre e sette milioni. Un progetto sicuramente ambizioso ma dai risvolti paesaggistici drammatici, per la creazione delle varie strutture previste per la realizzazione dei parcheggi, l'accoglienza dei cittadini e dei turisti : sarà come sbancare una montagna. Non si comprende perciò come l’amministrazione comunale, rappresentata allora come oggi dal sindaco Raffaele Ferraioli, possa non solo sostenere che l’attuale progetto sottoposto e approvato dal consiglio comunale abbia tutte le carte in regola per essere realizzato, ma ritenere anche che lo stesso possa essere un volano per lo sviluppo turistico di Furore
L’impiego di un ascensore per raggiungere il fiordo è invece esattamente il contrario di quanto richiederebbe una moderna concezione dell’attività turistica, che si qualifica culturalmente solo quando rispetta l’identità storica di un luogo e non quando lo appiattisce in un’ottica di frettoloso e banale consumo. Tra l’altro , l’ambiente eccezionale del Fiordo di Furore è da sempre raggiungibile, oltre che dal mare,anche attraverso una caratteristica scalinata, certo non vertiginosa poiché il centro abitato è appena a 300 metri sul livello del mare. Ormai lo sanno tutti : lo sviluppo non sta nel costruire su ogni angolo di costa rimasto intatto, ma al contrario nel preservare la bellezza , l’integrità dell’ambiente che oltre a proteggere il territorio da allagamenti, frane, da’ vita al turismo e quindi porta guadagni .I turisti cercano l’ombra degli alberi, la pace di una spiaggia pulita, un mare non inquinato e un territorio non manomesso. E la gente della Costa D’Amalfi lo sa, visto le tante scandalose manomissioni già compiute sul territorio che da Vietri sul Mare porta a Positano. Sono i “ saraceni “ del partito del cemento che fingono di non sapere. E gli amministratori pubblici che usano in modo distorto la parola “ sviluppo “.
Gli spazi verdi urbani non sono più da pensare solo come tratti aperti a interrompere la città densa, ma come sistema integrato. Va bene, ma forse c'è qualcosa in più da dire. La Repubblica Milano, 21 settembre 2014, postilla (f.b.)
Il comune guarda alla nascita della città metropolitana per disegnare la strategia futura del verde. È così che Palazzo Marino punterà sul “parco metropolitano”, un anello di vegetazione che circonda Milano e che dovrà “cucire” insieme i vari parchi che già esistono. Ogni area, però, dovrà anche mantenere la propria vocazione: dal Trenno pensato come parco dello sport al Forlanini da congiungere all’Idroscalo e trasformare in un parco urbano agricolo fino alle Cave, dove nascerà un’oasi naturalistica spontanea.
È un futuro che c’è già, quello del verde di Milano. Anzi, della “Grande Milano”. Perché è questa la strategia di Palazzo Marino. Che, guardando anche alla rivoluzione amministrativa che partirà dal 1 gennaio del 2015 con la nascita della Città metropolitana, adesso vuole puntare su quello che, ormai, chiamano il “parco metropolitano”: una sorta di unico anello di alberi, prati, vegetazione e aree agricole che, d’ora in poi, andranno collegati tra di loro sempre di più. Quattro grandi aree da gestire in una visione allargata: il Parco Nord e le sue estensioni a Bresso, Sesto San Giovanni e Cinisello; il fiume Lambro con la sua natura da ricucire in modo che da Monza si possa raggiungere Milano e oltre a piedi o in bicicletta; il Parco sud con le sue teste di ponte cittadine; il sistema di parchi dell’ovest. Anche se, in questo quadro generale, ogni grande distesa di verde avrà una sua vocazione. È così, ad esempio, che Trenno sarà il parco dello sport, che il Comune lavorerà sul Forlanini per trasformarlo in un parco urbano agricolo, che Bosco in città sarà pensato per le famiglie e che l’anima un po’ selvaggia del parco delle Cave sarà valorizzata con una speciale oasi naturalistica che rinascerà dalle ceneri di un incendio.
È un puzzle che, ricomposto, si estende per oltre 17 milioni di metri quadrati il verde di Milano. Una mappa che il Comune ha suddiviso a seconda delle dimensioni: replicando le taglie delle magliette, si va dall’extra large del Parco Nord all’extra small delle aiuole sotto casa che i cittadini possono adottare. In mezzo i parchi storici in versione large come il Sempione e i giardini Montanelli, quelli di quartiere come il parco Solari o i giardini di Pagano. Un patrimonio che Palazzo Marino vuole valorizzare guardando anche oltre i propri confini, in chiave metropolitana, appunto. Per i grandi parchi di cintura, infatti, in futuro verrà fatto soprattutto un lavoro di connessione. È la nuova filosofia che può essere raccontata attraverso un progetto: «L’area a ovest è già abbastanza collegata. Adesso vogliamo lavorare sulla parte est: è per questo che abbiamo firmato con altri Comuni una convenzione per il piano che riguarda la media valle del Lambro», spiega l’assessore al Verde, Chiara Bisconti. Che cosa è? L’obiettivo è quello di cucire insieme i parchi e anche, riqualificandole, le piccole aree verdi che corrono lungo il fiume per farne un percorso unico da Monza a Milano e ancora oltre verso altri Comuni. E uno speciale filo è anche quello che l’amministrazione vuole utilizzare per trasformare il Forlanini: «È il parco che in questo momento ancora manca di un’anima forte», dice ancora l’assessore. In questo caso, il piano punta a collegare lo spazio all’Idroscalo, costruendo un ponte sul fiume Lambro, migliorando la porta su viale Argonne, riportando alla luce sentieri interni, realizzando percorsi pedonali e ciclabili. E rilanciando l’agricoltura per fare in modo che quest’area possa diventare una sorta di parco agricolo urbano.
Dal generale al particolare: eccola un’altra linea di azione di Palazzo Marino. Perché ogni grande parco, nella strategia del Comune, dovrà anche mantenere caratteristiche differenti attorno a cui programmare gli interventi. Un esempio è il parco di Trenno, immaginato come una palestra a cielo aperto tra campi da calcio pubblici, beach volley, pallavolo, rugby, bocce, percorsi per i runner. Per il parco delle Cave, invece, il futuro è un ritorno ancora più forte alle origini. Nei prossimi mesi i tecnici dell’amministrazione concluderanno i lavori per riportare alla vita un’area bruciata in un incendio e la recinteranno: lì la natura potrà dominare in modo (quasi) indisturbato. «Vogliamo creare un’oasi naturalistica spontanea, lasciando che questa zona si “inselvatichisca”. Ci sarà un numero chiuso e si entrerà per partecipare a visite guidate», dice Bisconti.
I visitatori di Expo e i milanesi presto potranno entrare anche in un “museo botanico” che il Comune sta realizzando sui vivai che l’amministrazione ha già fatto sorgere tra via Zubiani e via Margaria: un percorso didattico che punterà a far conoscere la vegetazione locale. Questo è uno dei progetti per il verde e l’agricoltura che saranno sviluppati per lotti successivi. Con questa logica, ad esempio, si sta disegnando il parco agricolo del Ticinello, un sogno da 90 ettari atteso da decenni. La prima parte c’è già: sei ettari di verde e un bosco didattico con 10mila piante inaugurati lo scorso maggio, una pista ciclabile in costruzione. Si andrà avanti, anche dopo che la vicesindaco Ada Lucia De Cesaris ha festeggiato il passaggio al Comune della Cascina Campazzo, congelata finora da un contenzioso storico con il gruppo Ligresti. Ancora a sud della città c’è un altro pezzo del mosaico da inserire nel parco metropolitano: è il parco del Sieroterapico, da attrezzare e riqualificare per fasi successive. Anche se il prossimo anno, è la promessa, sarà in gran parte accessibile a tutti.
postilla
Complice forse il genere di comunicazione parziale che esce da settori e assessorati (e non dovrebbe, proprio nella prospettiva della città metropolitana) pare che si sovrappongano un po' alla rinfusa le informazioni su una strategia di spazi aperti che non appare consapevolmente tale. Giustissimo lavorare già oggi in prospettiva metropolitana, e pensando alle specificità del nucleo centrale necessariamente tematizzate e con un indirizzo diciamo così da laboratorio di metodo. Ma quando si parla, abbastanza esplicitamente, di quelle che ormai tutta la pubblicistica internazionale chiama infrastrutture verdi, restare all'interno del solito linguaggio un po' da animazione per bambini lascia lievemente perplessi. Siamo di fronte a un'opinione pubblica che deve essere formata e informata, resa consapevole delle sfide, e con una cultura urbana da terzo millennio ancora tutta da costruire, che oscilla fra gli stili di vita della città tradizionale e la nuova sensibilità per modelli alternativi di consumo, mobilità, separazione fra tempo di lavoro e tempo libero. La rete delle infrastrutture verdi è in buona sostanza la base su cui progettare la metropoli post moderna, così come quella delle infrastrutture grigie lo è stata per la città industriale del '900, traffico automobilistico in testa, ma non solo (pensiamo alla gestione naturale del ciclo delle acque piovane). Perché non esplicitare queste strategie? Impossibile pensare che, magari sparse fra i settori dell'amministrazione, non rappresentino una parte importante degli orientamenti. E allora se ne parli, magari iniziando a parlarsi fra assessorati, consulenti, cittadini (f.b.)
«Se per caso il Rottamatore, si facesse portare un po’ di documenti sul ponte sullo Stretto, magari scoprirebbe qualcosa. Se invece confermerà il suo mood attuale (le imprese, e i costruttori in particolare, non sbagliano mai), pagheremo caro, pagheremo tutto». Il Fatto Quotidiano, 21 settembre2014
Quella delle penali a carico dello Stato per la mancata costruzione del ponte sullo Stretto di Messina è una fiamma perenne che da quasi dieci anni apposite vestali tengono in vita. Fu accesa nell’autunno del 2005, quando la concessionaria pubblica Stretto di Messina spa mise in gara l’appalto, e il consorzio Eurolink, guidato dalla Impregilo, se l’aggiudicò con un ribasso del 17 per cento sulla base d'asta, del tutto anomalo per un prototipo senza precedenti.
Da subito sorse il sospetto che la vera posta in gioco fossero le penali che lo Stato si impegnava a pagare nell’eventualità che l’opera – di dubbia finanziabilità – restasse confinata al libro dei sogni del berlusconismo. E da allora un infinito gioco delle tre carte vede impegnati Impregilo, Stretto di Messina (con l'Anas che la controlla) e governi pro tempore. L’ultima mossa è del numero uno di Impregilo, Pietro Salini, che è andato a spiegare a Matteo Renzi che allo Stato conviene riaprire il dossier della costruzione del ponte, sia pur costosetta, piuttosto che pagare un miliardo circa di penali. “Si tratta di almeno 40 mila posti di lavoro in un’area a forte disoccupazione e di un’opera a basso contributo pubblico rispetto a quello privato: piuttosto che affrontare importanti spese per le penali, perché non fare il ponte?”, ha detto Salini nel suo spot di apparente saggezza.
Nessun governo, tra i quattro che si sono succeduti in questi nove anni ha mai affrontato davvero il problema. Ciò consente all’Impregilo di fare la sua audace avance con l’unico obiettivo di smuovere le acque e battere cassa. Si tratta infatti di una società quotata in Borsa che deve rendere conto ai mercati di 300 milioni messi in bilancio come entrata quasi certa. Mentre lo Stato dovrebbe fronteggiare una spesa tra i 700 e i 900 milioni, ma forse molti di più.
Renzi eredita una bomba innescata, nella sua ultima versione, dal governo Monti, e in particolare dall’allora ministro delle Infrastrutture Corrado Passera. Bisogna ricordare l’origine della storia. Nel contratto originario, che derivava dal disciplinare di gara, le penali sarebbero scattate, se la costruzione del ponte non fosse partita, solo dopo l’approvazione del progetto definitivo da parte del Cipe, organismo governativo. Ma nel 2009, mentre il governo Berlusconi cavalcava il ponte come occasione di propaganda, e il ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli divideva equamente le sue energie tra il Mose (per il quale è oggi indagato) e l'imprescindibile completamento del corridoio europeo Helsinki-La Valletta (proprio così, non è uno scherzo), i costruttori di Eurolink ottennero un regalo favoloso.
L’allora presidente di Stretto di Messina, Giuseppe Zamberletti, con l'assenso di Ciucci, firmò un nuovo contratto che, al contrario di quello originario, stabiliva che le penali scattassero non dopo l'approvazione del Cipe, ma proprio se il Cipe non approvava il progetto.
Quel contratto, che oggi Impregilo impugna per imporre ai contribuenti l'esborso di circa un miliardo di euro, è secretato da cinque anni. Però Passera, che era l’unico membro del governo a conoscerlo, anziché indagare sulla sua misteriosa origine (dopo il caso Mose un po' di prudenza non guasterebbe), ha emesso un decreto per la messa in liquidazione della Stretto di Messina spa che di fatto determina la cancellazione di tutti gli impegni contrattuali. Una mossa apparentemente drastica che ha aperto un’autostrada per le azioni legali di Salini. Il quale adesso è andato a presentare il conto a Renzi.
Se per caso il Rottamatore, che pare ami fare tardi a palazzo Chigi chino sui dossier, si facesse portare un po’ di documenti sul ponte sullo Stretto, magari scoprirebbe qualcosa. Se invece il premier confermerà il suo mood attuale (le imprese, e i costruttori in particolare, non sbagliano mai), pagheremo caro, pagheremo tutto.
Il Fatto Quotidiano, 21 settembre 2014
La direzione generale Ambiente della Commissione europea ha chiesto formalmente all'Italia chiarimenti sull’inquinamento delle acque della diga del Pertusillo (Potenza) e sul rischio sismico dell’attività estrattiva. Dopo la denuncia, fatta nel 2013 dal comitato ambientalista Mediterraneo No Triv, l’Europa chiede risposte. E lo fa a pochi giorni dall’annuncio del premier Matteo Renzi: “Se c’è il petrolio in Basilicata sarebbe assurdo, in questo momento, rinunciarvi”.
Il decreto sblocca Italia, che vorrebbe raddoppiare le estrazioni di greggio in territorio lucano, preoccupa le associazioni ambientaliste e i cittadini, i pochi rimasti. Dal dossier presentato alla Commissione, realizzato da Albina Colella, docente di Geologia all'università della Basilicata, si scopre che nelle acque della diga, che disseta Puglia e Basilicata, sono state rinvenute abbondanti quantità di fosforo, azoto e zolfo. Ma soprattutto una forte presenza di idrocarburi e metalli pesanti. “Le concentrazioni di idrocarburi superano sempre i limiti di riferimento – si legge nella relazione – in quantità fino a 646 volte superiori al limite di microgrammi per litro fissato dall’Istituto Superiore di Sanità per le acque potabili. È stato rinvenuto, ad esempio, il bario (un metallo pesante usato nei pozzi di petrolio per appesantire i fluidi di trivellazione, ndr) con una concentrazione fino a 3000 microgrammi per litro, cioè in quantità fino a tre volte superiore al limite consentito per l'acqua potabile”.
Lo studio fotografa un rischio per la salute e la sicurezza delle persone elevato: “Ci sono idrocarburi anche nel miele della Val d'Agri – si legge testimoniare che l'inquinamento è ormai entrato nella catena alimentare”. E non è tutto. Come spiega l’avvocato Giovanna Bellizzi, presidente del comitato Mediterraneo No Triv, “anche la situazione geologica della Val d’Agri risulta incompatibile con l’attività di ricerca e di estrazione del petrolio”. Secondo il dossier, infatti, la zona in cui si vorrebbero raddoppiare le estrazioni è a forte rischio sismico. “È un territorio caratterizzato da faglie attive e da terremoti di forte intensità. Molto fragile e vulnerabile rispetto alle attività petrolifere”, scrive la professoressa Colella.
Oggi in Val d’Agri ci sono 25 pozzi petroliferi attivi, l’oleodotto più grande d'Europa e un pozzo di reiniezione (che raccoglie i gas di scarto). L’attività petrolifera, secondo l'Agenzia per l’Ambiente degli Stati Uniti (EPA), vale un rischio inquinamento da 7 a 8 su una scala il cui massimo grado è 9. Ma Renzi ha idee diverse: «È impossibile andare a parlare di energia e ambiente in Europa se nel frattempo non sfrutti quello che hai in Sicilia e in Basilicata. Io mi vergogno di andare a parlare delle interconnessioni tra Francia e Spagna, dell’accordo Gazprom o di South Stream, quando potrei raddoppiare la percentuale del petrolio e del gas in Italia e dare lavoro a 40 mila persone e non lo si fa per paura delle reazioni di tre, quattro comitatini».
Ma per Stefano Prezioso della Svimez, il mito dell’occupazione portata dal petrolio è falso: “La Basilicata è una delle regioni con il più alto flusso migratorio d'Italia. E la causa principale per cui in tanti se ne vanno è la disoccupazione. L’industria estrattiva non può risolvere il problema: impiega poche persone, in gran parte inviato sul posto da [....]
In Toscana si è aperta sui media regionali la cosiddetta “guerra del vino”, che vede diverse associazioni di categoria del settore vitivinicolo unite in un attacco frontale contro il Piano Paesaggistico proposto dall’assessore all’Urbanistica Anna Marson. Quali sono le accuse mosse al Piano? Dirigismo, astrattezza, vincolismo, intenti punitivi nei confronti di una categoria agricola che ha bisogno invece di mani libere per procedere a innovazioni del settore che presupporrebbero elevata meccanizzazione, accorpamento dei fondi, semplificazione del paesaggio. Addirittura ci si spinge a dichiarare l’esistenza di una minaccia per l’intero settore vitivinicolo, con paventate ricadute socio economiche negative, se tale piano non verrà rivisto nella sua impostazione generale. A noi pare che la polemica scatenata da alcuni settori di vertice dell’imprenditoria agricola sia tesa a delegittimare un piano per molti versi avanzato, che farebbe onore alla Toscana intera e alla sua dimensione rurale costruita nel tempo dal lavoro sapiente degli agricoltori.
Non è a oggi chiaro in quale direzione si muoveranno le osservazioni agli elaborati di piano che le associazioni stanno elaborando, però sappiamo già che sul carro della lotta contro il Piano è salito pure una parte del partito di maggioranza in Regione oltre ad una parte del potere locale.
Alcuni interventi nel dibattito, pur provenendo dal mondo agricolo o comunque vitivinicolo, hanno con buon senso riportato al centro della discussione lo stato reale del settore, come nel caso di Alessandro Regoli, direttore di Wine News, che ha scritto in una sua lettera aperta ai media regionali: “ La Toscana è famosa nel mondo per l’armonia del paesaggio, che quindi va conservato, nell’interesse supremo di tutti. Questo non vuol dire non fare nulla: la programmazione territoriale non si crea mettendo regole, ma cercando di rimodellare bene, in maniera sostenibile, tenendo conto degli effetti idrogeologici e paesaggistici, ma anche senza speculazioni. Il Piano penso che avesse la finalità di “accompagnare” le trasformazioni e non bloccare gli investimenti nel settore agricolo in Toscana”. O come nel caso di Luca Brunelli, presidente Cia Toscana,che presentando un dossier sul Piano paesaggistico elaborato dalla sua associazione, sia pur criticabile e che riteniamo di non condividere (basato sulla antinomia tra l’ “agricoltura tradizionale” secondo loro privilegiata dal Piano e quella “innovativa e competitiva”) dichiara: “è un documento complesso e giustamente ambizioso, che condividiamo negli obiettivi fondamentali, perché mira al contrasto del consumo di suolo; riconosce l’agricoltura quale presidio paesaggistico essenziale; punta al recupero produttivo agricolo di superfici abbandonate. Emerge tuttavia la tendenza ad una visione statica dell’agricoltura […] che individua fra le minacce al paesaggio l’abbandono dell’agricoltura da una parte e i processi di intensificazione e specializzazione dall’altra [...].Per quanto riguarda, per esempio, i vigneti occorre evitare generici giudizi di “criticità” e conseguenti direttive di generalizzato contrasto allo sviluppo del settore. Suggeriamo di applicare l’art. 149 del codice con il metodo seguito in altre circostanze (es. fotovoltaico o biomasse): definendo in quali condizioni, e a partire da quali estensioni, si debba evitare la realizzazione di nuovi impianti o adottare norme tecniche di prevenzione del rischio idrogeologico”. Sono richieste di modifica del testo che, trasformando le raccomandazioni in regole agronomiche chiare e definite, possono dare anche maggior cogenza a quegli indirizzi, e quindi possono definire un terreno di mediazione possibile.
Ma il complesso degli interventi ha avuto un altro taglio, e può aver ingenerato in molti l’impressione che la normativa proposta sia un insieme di vincoli che un potere politico (e accademico) vuole imporre al dinamico e libero mondo di imprenditori agricoli, o per dirla con le parole di Giovanni Busi presidente del Consorzio Chianti «Non può essere un atto politico a dire dove io devo piantare viti o dove non posso farlo, deve essere il viticoltore a scegliere, perché conosce il vino e come lo si fa».Ma per non perdersi in un polverone di dichiarazioni che spesso sembrano estremizzare ed ideologizzare astrattamente, riteniamo utile sottolineare alcuni semplici dati di fatto:
La posta in gioco nella discussione sul Piano Paesaggistico è a nostro avviso molto alta, si tratta di decidere qual è il modello di agricoltura che vogliamo per il nostro futuro e perciò auspichiamo che questa discussione non resti solo appannaggio di chi difende interessi particolari o peggio speculativi. Il territorio rurale toscano, e il paesaggio agrario che ne è la dimensione visibile, sono beni preziosi e comuni, di tutti. E le sue trasformazioni devono essere governate, non subite. L’interesse per il piano paesaggistico, dunque, non può rimanere limitato a pochi addetti ai lavori, ma deve coinvolgere tutti quei soggetti attivi in un possibile cambiamento di scenario, dai GAS alle associazioni di tutela dell’ambiente e del territorio, dalle associazioni di categoria più lungimiranti ai cittadini sui territori come in parte è già avvenuto con i momenti di partecipazione seguiti dalla Regione nella costruzione del piano.
Questa “guerra del vino” ci pare una polemica scatenata ad arte per impedire – dilazionandola nel tempo – l’approvazione del piano, con il coinvolgimento anche di una parte del potere politicoregionale e locale (come sta avvenendo purtroppo per la nuova legge urbanistica), magari per aspettare la fine della legislatura regionale e poi avere le mani libere con un altro assessore all’urbanistica. Agricoltori e studiosi, Università e mondo rurale hanno l’interesse comune a ribadire il valore del piano e a denunciare il tentativo di poche lobby di ostacolare un equilibrato governo delle trasformazioni del paesaggio e quindi del mondo rurale. Quando qualcuno dice che non può essere la politica a decidere gli indirizzi delle trasformazioni, significa che secondo lui devono essere il mercato e gli affari a dettare le scelte. Stupisce che autorevoli associazioni di categoria si prestino a questo gioco e che in Regione molti invece di difendere il proprio piano cerchino di ritardarlo nella speranza di affossarlo. È solo il disperato tentativo di rilanciare un modello che ha prodotto guai, cioè un paesaggio più semplificato e banale, un suolo più fragile e un sistema economico che adesso è strutturalmente in crisi. Alla crisi si risponde mettendo il territorio e l’agricoltura, la buona agricoltura, al centro dell’attenzione culturale e politica, non riproponendo gli stessi paradigmi che l’hanno generata.
Corriere della Sera Lombardia, 17 settembre 2014, postilla (f.b.)
MILANO — Una nuova superstrada di circa 30 chilometri nei territori del Parco Agricolo Sud Milano e del Parco del Ticino. Dopo l’apertura a luglio della BreBeMi, la nuova autostrada che collega Brescia con Milano, ma che per ora è snobbata dagli automobilisti, in Lombardia si torna a parlare di una nuova bretella. È la Malpensa-Milano-Vigevano, prosecuzione della Malpensa-Boffalora, superstrada inaugurata nel 2008 e che collega l’aeroporto con il casello dell’A4. La nuova Malpensa- Vigevano completerebbe il collegamento fra la Lomellina, l’aeroporto e Milano.
Dopo dodici anni di progetti, polemiche e dietrofront, anche per questa strada si avvicina una fase decisiva. Stando a quanto annunciato dalla Regione ai sindaci dei Comuni coinvolti, nelle prossime settimane Sea presenterà il nuovo progetto: un tracciato non molto dissimile dal primo, ipotizzato da Anas e Pirellone nel 2001.
Partendo da Magenta, la strada scenderebbe in direzione di Albairate, liberando dal traffico la Statale 526 «dell’Est Ticino». All’altezza di Abbiategrasso sarebbe costruita una circonvallazione, che sposterebbe, invece, il traffico dalla statale Vigevanese fuori dal centro abitato. Il progetto del 2001 ipotizzava anche un raddoppio della provinciale Milano-Baggio fra Albairate e la Tangenziale Ovest, per collegare la nuova superstrada a Milano, ma quest’ultima bretella potrebbe saltare per mancanza di fondi.
I finanziamenti già stanziati ammontano a circa 212 milioni di euro, ma sono troppo pochi per un’opera del genere. Perciò il progetto viene rivisto. Della superstrada se ne riparlerà venerdì, allo Spazio Fiera di via Ticino ad Abbiategrasso, in un incontro pubblico organizzato dal settimanale cittadino Ordine e Libertà. Saranno presenti, tra gli altri, i sindaci Andrea Sala di Vigevano e Pierluigi Arrara di Abbiategrasso, l’assessore regionale all’Economia Massimo Garavaglia, i rappresentanti del comitato «No tangenziale» e del «Comitato Sì alla strada», presieduto da Fabrizio Castoldi, patron della Bcs di Abbiategrasso che spiega. «Ogni giorno i pendolari da Vigevano a Milano impiegano circa 3 ore in più rispetto al tempo che impiegherebbero su una nuova superstrada posta lontano dai centri abitati. Tre ore della propria vita buttate via ogni giorno respirando gas di scarico».
Di tutt’altro avviso i comitati «No Tangenziale», le organizzazioni ambientaliste e gli agricoltori, che negli anni hanno raccolto 13 mila firme contro il progetto. E anche alcune amministrazioni comunali (Cassinetta di Lugagnano, Cisliano, Albairate e Cusago) si battono da tempo contro la superstrada e hanno presentato una candidatura all’Unesco per far diventare il Parco Sud una riserva della biosfera. Un modo per metterlo al riparo dalle autostrade. Il sindaco di Abbiategrasso Pierluigi Arrara è scettico: «Siamo favorevoli alla costruzione del tratto da Vigevano alla nostra città, ma non a un progetto faraonico come quello originale».
postillaCome ci aveva sinistramente avvisato pochi giorni fa il lobbista oggi in carica governatoriale della road gang padana, quando vediamo un'autostrada desolatamente vuota dobbiamo aspettare, con fede, che si compia il grande disegno di cui quell'opera è solo un segmento. Ed ecco qui un altro segmento del medesimo disegno, al solito presentato, discusso, sostenuto e osteggiato come opera in sé, guardando al dito (pestato, ma sempre del dito si tratta) anziché alla luna. Le due cittadine sulle opposte sponde del fiume azzurro, e dentro l'omonimo parco regionale che il mondo ci invidia, sono solo pedine in un gioco assai più grande di loro, che forse la stampa progressista farebbe bene a raccontare come tale: il Grande Raccordo Anulare lombardo, presupposto all'urbanizzazione dispersa della regione milanese. Tutto portato avanti, nei decenni, senza dichiararlo, con ricatti miserabili come quelli dei due comuni citati qui, dotati di decentissima comunicazione stradale reciproca, nonché di ottime circonvallazioni, se solo quelle strade faticosamente realizzate, non fossero poi state, quasi subito, liberamente ed entusiasticamente sfruttate per il vero scopo, che naturalmente anche qui non ha nulla a che vedere col traffico e le comunicazioni: costruirci su un lato e sull'altro, costruendo in contemporanea la prossima emergenza strozzature, la necessità di una nuova opera, e via di questo passo. Certo non si può chiedere a comitati e forze locali di farsi carico di formulare alternative, o quantomeno opposizioni di ampio respiro, ma forse ai partiti progressisti si. C'è qualche speranza? Per adesso pare di no (f.b.)
Vedi anche F. Bottini, I capannoni della Zia T.O.M. (Mall 2008)
Corriere della Sera Lombardia, 11 settembre 2014, postilla (f.b.)
La mancanza di collegamenti. A sud, verso l’Autosole. E a nord, verso l’A4 Milano-Venezia. Il peccato originale di Brebemi, con i suoi sessanta chilometri di asfalto pochissimo percorso che corrono fra la bassa bresciana e la periferia orientale di Milano, sembra stare tutto lì. Nel fatto che è un asset viario che collega il nulla col nulla . Almeno per ora. Ed è per questo che ieri il governatore della Lombardia, Roberto Maroni, ha invitato tutti a portare un po’ di pazienza. «Prima di dare una valutazione — ha detto — aspetterei fino a che la Teem (la tangenziale esterna di Milano, ndr ) sia completata e la Brebemi sia così collegata con le altre due autostrade».
Questione più volte sollevata anche dallo stesso Francesco Bettoni, presidente di Unioncamere Lombardia e vero grande ispiratore dell’infrastruttura: secondo le proiezioni del suo staff, infatti, la bretella di connessione fra A35 e Autosole dovrebbe portare a un incremento del 15% di traffico sul tracciato inaugurato alla presenza del premier Matteo Renzi lo scorso 23 luglio. Fatti due calcoli, 3.500 automobili in più rispetto alle 22 mila giornaliere dichiarate dalla società controllata dal gruppo Gavio e da Intesa Sanpaolo. Che non sono spiccioli per un’operazione infrastrutturale — prima del genere in Italia — a totale trazione privata costata qualcosa come 2,4 miliardi di euro. La Teem, che metterà in comunicazione diretta Agrate a Melegnano con un doppio raccordo con l’A4 e l’A1 per un totale di 32 chilometri, è stata ideata per alleggerire il carico di traffico che grava sulla vecchia Tangenziale Est, ma sono in molti a sostenere possa dirottare verso Brebemi parte dei flussi pesanti diretti da e verso i centri logistici dell’hinterland meridionale oggi di stanza sulla Milano-Venezia.
Ne sembra convinto anche il ministro delle Infrastrutture, Maurizio Lupi, che martedì sera a Brescia, in occasione dell’inaugurazione della Fiera dell’aeronautica, ha sostanzialmente anticipato il pensiero di Maroni: «Il problema del poco traffico sulla Brebemi — ha detto — sta a valle. La realizzazione della Teem completerà l’opera e integrerà il sistema infrastrutturale lombardo creando un’alternativa all’A4». Questione di tempo, dunque. Forse solo di mesi. A oggi di Teem è stato inaugurato solamente un tratto di sette chilometri fra Pozzuolo Martesana e Liscate, ma Maroni giura che l’opera «sarà completata prima di Expo».
Il governatùr, in effetti, sta facendo del capitolo strade un elemento fondamentale nella sua strategia di sviluppo regionale. «Ribadisco il fatto — ha proseguito — che, per garantire la sufficiente mobilità alle imprese e ai cittadini lombardi, servono almeno altri 200 chilometri di strade veloci e di autostrade. Per questo il nostro obiettivo è quello di completare la Pedemontana, mentre ieri (martedì, ndr ) in Consiglio abbiamo assunto l’impegno di sospendere il pagamento del pedaggio per tutto il 2015 sulle tangenziali di Como e di Varese». Ricordava ieri un attento lettore che, nel 1976, quando venne aperto il primo tratto del corridoio M25 che circonda Londra, il Times bollò l’opera come «inutile» perché «troppo periferica». Oggi è uno dei raccordi anulari più trafficati del mondo. Che sia davvero questione di tempo?
postilla
Casca proprio a fagiolo l'osservazione del lettore sulla London Orbital, e per un motivo che a quanto pare continua a sfuggire ai nostri commentatori (favorevoli o contrari all'opera pare conti poco): ci vuole tempo, come ci dice Maroni, per completare i Grandi Disegni. Se nel caso di Londra si trattava però dell'anello autostradale schematizzato nel piano metropolitano di Patrick Abercrombie del 1944, a segnare in qualche modo il confine della greenbelt agricola, le grandi infrastrutture stradali milanesi e lombarde da mezzo secolo a questa parte seguono quel non-piano che si chiamava un tempo Sviluppo Lineare, al solo scopo di sabotare l'unica idea territoriale forte e intelligente prodotta nel '900 alla scala adeguata, ovvero la cosiddetta Turbina del Piano Intercomunale Milanese. Che fissando alcune invarianti nelle forme dell'urbanizzazione e delle aree aperte mirava – esattamente – a evitare il famoso “sviluppo del territorio” o sprawl o città infinita che dir si voglia, promosso invece sciaguratamente prima dalla Democrazia Cristiana e poi dagli altri interessi conservatori che ne hanno ereditata la cultura, in testa Cielle e Lega, per quel che conta. Ecco, è questo che ci dice Maroni: aspettate che si finisca il lavoro, ovvero di seppellire e ritagliare tutto il territorio in una immensa lottizzazione (come si può ancora leggere nelle immagini pubblicate su Urbanistica n. 50-51) con qualche grosso giardinetto per i bambini e i perdigiorno. La cosa triste è che nessuno, Pd in testa, pare avere idee alternative. Si spera ovviamente di sbagliarsi (f.b.)
Su Eddyburg Archivio abbondanza di materiali di riferimento per il Piano Intercomunale Milanese; su Millennio Urbano qualche considerazione in più sull'assenza di un Grande Disegno Alternativo
Altreconomia.it, 10 settembre 2014 (m.p.r.)
Forse -come suggerisce al lettore una foto pubblicata dal Corriere della Sera del 10 settembre- il “deserto d'asfalto” che unisce Brescia a Melzo è colpa dell'erba alta davanti ai cartelli, che non permette agli automobilisti di raggiungere la BREBEMI, la nuova autostrada A35 inaugurata a fine luglio alla presenza del presidente del Consiglio, Matteo Renzi.
O, con maggiore cognizione di causa, l'assenza di automobilisti lungo l'infrastruttura può essere imputata alla “concorrenza” della vicina autostrada A4, che unisce il Veneto (e da Bergamo ha addirittura con 4 corsie) fino ad incontrare la Tangenziale Est, mentre la BREBEMI finisce nei campi.
A differenza di chi, oggi, dedica reportage “all'autostrada che nessuno percorre”, noi ciò che accade oggi l'avevamo detto, e scritto, nel corso degli anni. Quando ancora non erano stati spesi circa 2,4 miliardi di euro (al netto degli oneri finanziari); quando ancora il “deserto d'asfalto” non c'era; quando ancora le inchieste di un grande quotidiano avrebbero potuto smuovere l'opinione pubblica, portando magari il governo a frenare il progetto, prima di essere costretto a metter mano al portafogli, come farà a breve -vaticiniamo- il CIPE, per rispondere alle richieste di “sgravi fiscali” avanzate a più riprese dal presidente della società di gestione, Francesco Bettoni, e dal presidente di Regione Lombardia, Roberto Maroni. Lo Stato -qualora il governo accogliesse la richiesta- dovrebbe rinunciare ad incassare circa mezzo miliardo di euro nei prossimi anni, scrivono alcuni grandi quotidiani, senza “contestualizzare” il perché né il come.
Crediamo sia necessario, pertanto, riassumere per punti tutto ciò che è necessario sapere sulla BREBEMI, per comprendere oggi un fallimento costruito nel corso degli anni, e di cui pagheremo i costi per molti anni a venire:
1 la defiscalizzazione, per legge, è un provvedimento che può essere richiesto per rendere sostenibile il piano economico e finanziario di interventi realizzati in project financing che si trovino in condizione di “squilibrio”, rappresentando -né più né meno- un clamoroso “fallimento del mercato”. Vale la pena sottolineare che la defiscalizazzione è stata introdotta nell'ordinamento italiano durante il governo Monti, quando ministro e viceministro delle Infrastrutture erano Corrado Passera e Mario Ciaccia, entrambi ex dirigenti del gruppo bancario Intesa Sanpaolo, che è azionista della società che ha costruito e gestirà BREBEMI;
2 la insostenibilità del project financing era già “provata”, se possibile, dal mancato interesse dei grandi gruppi bancari privati a partecipare al reperimento dei fondi necessari a realizzare l'intervento: a fronte di una vulgata (che continua a ripetersi sui media mainstream, come se fosse una verità che si auto-avvera) che vorrebbe la BREBEMI come “la prima autostrada realizzata senza finanziamenti pubblici”, i soci -da Intesa Sanpaolo a Gavio, da Unieco a Pizzarotti fino ai piccoli Comuni della bassa bresciana bergamasca attraversati dal tracciato- sanno di aver contato sui finanziamenti della banca pubblica dell'Unione europea, Banca europea degli investimenti, e della “cassaforte degli italiani”, quella Cassa depositi e prestiti controllata dal ministero del Tesoro;
3 i dati di traffico relativi all'autostrada BREBEMI, che secondo quanto comunicato dalla società stanno intorno ai 20mila passaggi al mese, ben al di sotto del preventivato, evidenziano la “risposta del mercato” a un intervento pesante per tutto l'est milanese: senza il completamento della Tangenziale Est esterna di Milano -che la collegherebbe alla viabilità ordinaria, veicolando il traffico verso Milano- la BREBEMI non “esiste”. Questo esemplifica come "asfalto" chiami "asfalto", in un circolo vizioso dannoso per il Paese.
Spiace, oggi, verificare che l'opposizione in Regione Lombardia invece di criticare il “modello autostradale made in Formigoni”, mutuato nel “modello Maroni”, rivendichi l'esigenza di garantire al “progetto BREBEMI” maggiori risorse pubbliche onde evitare che alcuni Comuni dell'hinterland di Milano siano strozzati dal traffico;
4 se le mettiamo insieme, però, queste due infrastrutture hanno occupato o andranno ad occupare, nel caso di un completamento di TEEM, oltre 500 ettari di terreni agricoli, che saranno persi per sempre, comportando -come abbiamo spiegato su Ae 150, ad aprile 2014- un costo di gestione dei servizi ambientali per i territori coinvolti di 6.500 euro per ettaro all'anno.
Ecco ciò che sappiamo di BREBEMI. E lo sapevamo -e scrivevamo- mesi fa. Non c'era bisogno di attraversare l'autostrada semi vuota per descriverla. Era già scritto nelle parole di un dirigente di una grande banca milanese, che nel corso di un convegno di Assolombarda dedicato alle autostrade, un paio d'anni fa, aveva spiegato il motivo per cui alcuni interventi non erano considerati “bancabili”: «Come posso credere che sull'autostrada x passino 80mila veicoli al giorno, e che gli stessi veicoli passino anche su un'arteria che dovrebbe correre parallela, a pochi chilometri dall'altra?».
Riferimenti.
Numerosi articoli e documenti sulla follia della BREBEMI son su eddyburg Basta inserire le lettere nel lo spazio a sinistra della piccola lente in cima a qualsiasi pagina.
«Un giro sterminato di tangenti, con donazioni milionarie a funzionari che governano autorizzazioni paesaggistiche e concessioni edilizie nelle aree di maggior pregio». La Nuova Sardegna, 10 settembre 2014
Perquisizioni. Per adesso gli indagati sono tre: il potentissimo ingegnere cagliaritano Tonino Fadda, ex componente della commissione Urbanistica del Comune di Cagliari e poi collaboratore dell’urbanistica regionale, il fratello geometra Raimondo Fadda e l’ex responsabile dell’ufficio tecnico di Arzachena Antonello Matiz, per anni plenipotenziario e crocevia burocratico di ogni iniziativa che riguardasse il cemento d’alto bordo nella Gallura degli appetiti immobiliari. L’accusa contestata fino a questo momento dal procuratore capo di Tempio Domenico Fiordalisi è per tutti e tre di concorso in corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio, ma il materiale acquisito ieri mattina dai carabinieri di Sassari nell’abitazione di Fadda in vico Merello 7 e negli studi professionali di Cagliari e di Roma lascia prevedere per le prossime settimane un’ondata di avvisi di garanzia, mentre si parla di perquisizioni già programmate per questa mattina in diverse località della Gallura.
Iniziative immobiliari. L’inchiesta è in pieno svolgimento, Fiordalisi si è mosso in periodo feriale per tagliare corto e bloccare sul nascere qualsiasi tentativo di inquinamento delle prove: il decreto di perquisizione è stato controfirmato dal gip Marco Contu, che ha valutato in queste ore il materiale probatorio raccolto dai militari dell’Arma nel corso dell’estate. Al centro dell’indagine sono gli atti di concessione, i permessi di costruire, le autorizzazioni paesaggistiche che hanno reso possibili negli ultimi anni alcune iniziative immobiliari di grande impatto, le nuove suite degli hotel smeraldini ma anche le megaville di La Conia, la località di Arzachena in cui hanno realizzato i loro ritiri estivi numerosi dirigenti generali dello Stato e alti funzionari della tutela paesaggio.
Operazioni dubbie. È qui, tra Serra di Entu fino a La Conia passando per la proprietà Pasella che gli uomini di Fiordalisi hanno scoperto operazioni edilizie di dubbia legalità, sulle quali stanno indagando. Per scoprire le origini di quello che appare una sorta di sacco paesaggistico a base di tangenti il magistrato ha puntato decisamente su Tonino Fadda, per anni progettista di riferimento di Colony Capital e ancora sotto contratto fino a dicembre con la nuova proprietà che fa capo al Qatar, uomo vicinissimo al potente dirigente dell’urbanistica regionale Gabriele Asunis, indagato per corruzione e poi prosciolto nel procedimento romano per la P3 in cui è imputato Ugo Cappellacci.
Modifiche arbitrarie. Dalle carte dell’indagine sembra emergere un’asse solidissimo tra Fadda e Matiz, il primo come uomo delle proposte immobiliari a cinque stelle e il secondo nelle vesti di referente tecnico. In mezzo, fra progetti che sembrano aver passato agevolmente le verifiche urbanistiche e paesaggistiche, compaiono misteriose donazioni di cui i carabinieri hanno trovato traccia nei documenti sequestrati negli studi di Fadda: un appartamento al centro di Londra, acquistato e poi ceduto a un personaggio piuttosto conosciuto negli ambienti politici, passaggi di denaro molto consistenti, nell’ordine dei milioni di euro, che riporterebbero sempre a nomi noti. Filtrano indiscrezioni sulle perquisizioni compiute ieri, in presenza dell’avvocato Rita Dedola che difende i fratelli Fadda: Fiordalisi ha chiesto ai militari di cercare documenti riferiti al piano regolatore di Arzachena, che per ragioni da verificare sarebbero usciti dagli uffici del municipio gallurese per finire nello studio dell’ingegnere cagliaritano. Si parla di modifiche arbitrarie che lo strumento di pianificazione avrebbe subito nel tempo per garantire i permessi di costruire in aree coperte da vincoli, soprattutto quelle di La Conia. Ma sembra emergere un fitto reticolo di interessi legati a proprietà immobiliari private, con intermediari immancabilmente vicinissimi a personaggi della politica protagonisti nella legislatura Cappellacci.
Contratto principesco. Fadda, che dell’assessorato all’urbanistica era una sorta di fiduciario, avrebbe svolto il ruolo di tramite fra la Regione e gli interessi immobiliari che gravitano attorno alla Gallura rivierasca. Assunto con un contratto principesco dall’imprenditore statunitense Tom Barrack, l’ingegnere cagliaritano ha lavorato alla progettazione delle suite negli hotel smeraldini – la sola concessione rilasciata riguarda però il Romazzino – e in contemporanea avrebbe dato supporto tecnico a una serie di personaggi legati alla politica nazionale e sarda interessati a costruire in Gallura. Chiunque desiderasse un buen retiro dalle parti di Porto Cervo e dintorni si rivolgeva a lui, che secondo indiscrezioni avrebbe maturato parcelle per una cifra vicina ai 40 milioni di euro, guadagnati nella piena legittimità.
Carte e computer. I militari hanno bussato di buon mattino prima all’abitazione dell’ingegnere, che secondo l’avvocato Dedola ha fornito piena collaborazione e disponibilità. Sempre in un clima sereno gli investigatori inviati da Fiordalisi si sono trasferiti allo studio professionale di Fadda, dove hanno fotocopiato documenti e esaminato il contenuto dei computer. Nelle stesse ore i commilitoni di Roma perquisivano lo studio che Fadda ha aperto nella capitale. Ora il materiale raccolto sarà esaminato e trasmesso all’ufficio di Fiordalisi per una prima valutazione.
Altri nomi. Stando sempre a indiscrezioni da confermare, i documenti acquisiti dovrebbero consentire alla Procura di Tempio nuovi passi d’indagine. Il numero degli indagati – nel decreto di perquisizione sono tre – sarebbe molto più elevato e altri nomi saranno aggiunti di qui a breve in un’inchiesta dagli sviluppi imprevedibili.
Il Fatto Quotidiano. 9 settembre 2014
MA E' ROMA O E'DISNEYLAND?
di Carlo Antonio Biscotto,
Dal Colosseo alla Fontana di Trevi: grandi firme dell’alta moda sponsor dei restauri. è vero mecenatismo?
Non contenti di aver vestito e reso più affascinanti buona parte dei Paperoni, dei vip e delle star di Hollywood, gli stilisti italiani hanno deciso di fare più o meno la stessa operazione con i monumenti che rappresentano il marchio di fabbrica dell’Italia, ma che purtroppo sono spesso in condizioni deplorevoli per mancanza di manutenzione, di cure, di interventi di restauro, di risorse.
Lo Stato italiano ha deciso di rivolgersi a finanziatori privati per ristrutturare e restaurare i suoi più importanti tesori d’arte. Nulla di male, in teoria, ma si sono levate subito vivaci critiche da parte di chi teme che l’arte e la storia possano diventare prodotti commerciali e come tali essere pubblicizzati e venduti all’industria del turismo. Che ve ne pare di slogan del tipo “il Colosseo calza Tod’s” o “Oggi Anita Ekberg farebbe il bagno nella Fontana di Trevi con una borsa Fendi a tracolla”?
Che fosse necessario intervenire è una realtà che nessuno contesta. Molti monumenti italiani cadono letteralmente a pezzi e hanno da tempo perso il colore originale. Il Colosseo – un tempo avorio pallido – è diventato quasi nero anche perché al posto delle bighe oggi ci sono le automobili. Certo pensare a interventi di risanamento con denaro pubblico in tempi di crisi economica appare fuori del mondo così come è inutile sperare in donazioni di privati. E qui – come il 7° Cavalleggeri – sono arrivati al galoppo i guru della moda italiana. Le loro però non sono donazioni a fondo perduto. Di Bill Gates – come osserva in un suo pezzo il Washington Post – ne circolano pochini e non solo in Italia. Ai mecenati dell’alta moda andrebbero in cambio una serie di diritti sul cui contenuto e sul cui utilizzo regna un certo riserbo.
A farla breve, c’è – non solamente in Italia – chi teme una disneificazione del patrimonio artistico e culturale del Belpaese con conseguenze di lungo periodo che potrebbero far deperire il valore dell’asset più importante di cui l’Italia dispone.
Moltissimi italiani sono preoccupati e pensano che in tal modo si rischi di vendere l’anima per un pugno di dollari (o di euro) o, peggio ancora, per il classico piatto di lenticchie. Inoltre a restauro finito turisti e residenti sarebbero costretti a leggere cartelli di questo tenore: ”La Fontana di Trevi di Fendi”, “Il Colosseo di Tod’s” o “La scalinata di piazza di Spagna di Bulgari”.
Un tempo il patrimonio artistico era considerato una priorità dallo Stato italiano, ma con la crisi economica, le risorse a disposizione del ministero dei Beni culturali, dei musei, dei soprintendenti alle Belle arti e dei direttori dei principali siti archeologici italiani si sono andati paurosamente assottigliando. Sono ancora sotto gli occhi di tutti le immagini del muro del Tempio di Venere di Pompei crollato nel marzo scorso dopo alcuni giorni di abbondanti precipitazioni.
Dopo lo scandalo di Pompei, molti sindaci italiani hanno deciso di darsi da fare. Uno dei più attivi è stato finora il sindaco di Roma, il medico Ignazio Marino che, dopo aver concluso un accordo preliminare con l’Arabia Saudita per il finanziamento del restauro del Mausoleo di Augusto, si appresta a volare in California, per la precisione a Silicon Valley, in cerca di donazioni. Nel luogo più rappresentativo della rivoluzione tecnologica e nel santuario della scienza informatica, Marino sosterrà la tesi secondo cui l’Italia ha il dovere di fare del suo meglio, ma trattandosi di un patrimonio importante per l’intera umanità, tutti debbono contribuire alla conservazione di luoghi come il Colosseo, Pompei o Venezia nei quali è custodita la memoria storica della nostra civiltà. Farà breccia nei cuori e nei portafogli dei miliardari del dot.com ?
Frattanto il governo non sta con le mani in mano e sta valutando una svolta che sarebbe storica: la possibilità di dare in appalto ai privati la gestione di piccoli musei e siti archeologici e di aprire al loro interno, negozi di libri e souvenir, ristoranti, bar. Sponsor di questa iniziativa il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini: “Abbiamo un patrimonio enorme, non vedo dove può essere lo scandalo se ne affidiamo una minuscola percentuale alla gestione dei privati”.
Il fatto è che i cittadini non hanno scordato i cartelloni della Coca Cola e di Bulgari intorno ai cantieri per il restauro del Ponte dei Sospiri e del Palazzo Ducale di Venezia. Oggi sembra che i mecenati siano diventati più discreti. In cambio dei quasi 3 milioni spesi da Fendi per il restauro della Fontana di Trevi, la griffe si accontenterà di una placca di metallo grande quanto una scatola di scarpe. Ma l’accordo più discusso e più osteggiato dalla cittadinanza è quello concluso con Diego Della Valle per il restauro del Colosseo. Il noto stilista della calzatura spenderà circa 38 milioni di euro, ma per anni i biglietti di ingresso al sito recheranno bene in vista la pubblicità delle Tod’s. Un ottimo affare per il miliardario toscano, dicono i romani.
Ammettiamo che sia possibile mantenere tutto il patrimonio culturale pubblico con le sponsorizzazioni: dovremmo farlo? Quando avessimo coperto tutti i nostri monumenti in restauro con pubblicità commerciali, e quando avessimo associato tutti i siti monumentali bisognosi di fondi a marchi, imprese e prodotti, quale risultato avremmo ottenuto? La commercializzazione totale, la letterale mercificazione del patrimonio culturale inciderebbe, o no, sul messaggio di quei monumenti? Ne modificherebbe o no la funzione civile?