Componente essenziale di una buona politica del territorio è chiudere la stagione dell'abusivismo. Il Sindaco di Roma e il suo assessore hanno assunto come obiettivo «chiudere la la stagione del condono e dell’abusivismo edilizio». La Repubblica, edizione Roma, 30 gennaio 2015
L'ufficio condono ha negato la concessione della sanatoria a 7626 casi di abusivismo. Solo dal 2011 al 2014 i “no” sono stati 5941, più di tre volte quanto era stato fatto prima. L’assessore all’Urbanistica Caudo sta lavorando per sveltire lo smaltimento delle 209 mila pratiche ancora da definire dei tre condoni del 1985, 1994 e 2003. «Useremo sempre di più internet» afferma «e aumenteremo il personale». E intanto la giunta Marino varerà oggi un nuovo piano triennale anti-corruzione che prevede le denunce dei colleghi e il principio della rotazione degli incarichi.
I numeri, prima di tutto i numeri. Che sono al cardiopalma.
All’Ufficio Condono, dal 2011 gestito da Risorse per Roma dopo il lungo impero della società Gemma Spa, sono ancora da lavorare, al 19 gennaio 2015, 209.246 richieste di sanatoria di abusi edilizi, che riguardano le tre leggi di condono del 1985, 1994 e 2003. Un numero talmente grande che, se si proseguisse al ritmo sostenuto di circa 11 mila pratiche definite nel 2014, si finirebbe solo nel 2036.
Ma a far capire l’accelerata che si è fatta, basta dire che dal 1996 al 2009 le domande respinte sono state 1658. Mentre dal 2011 al 2014 le costruzioni dichiarate fuorilegge sono state 5941. Tutte, dopo l’istruttoria, potrebbero essere demolite o acquisite al patrimonio pubblico.
La trafila è lunga. Dopo il sollecito la pratica può dover essere sottoposta alla prova della scheda urbanistica, per verificare se in quel luogo sono stati posti dei vincoli. Oppure alle soprintendenze, che hanno 60 giorni di tempo per rispondere o far scattare il silenzio-assenso. Ma ci può essere la necessità di chiedere un’integrazione dei documenti. «Si spendevano 140 mila euro all’anno di raccomandate » spiega l’assessore «adesso invece facciamo le richieste attraverso la Pec».
Ma il tentativo di digitalizzazione non si ferma qui. «Abbiamo un sistema online» aggiunge Caudo, che si chiama Sicer, raggiungibile con un codice di accesso, dove si può capire il livello di lavorazione. E c’è già programmata una “cornice” che potrà contenere via via i documenti digitalizzati. Perché oggi purtroppo quasi tutta la documentazione è cartacea».
«Già adesso» afferma Apostolo «dal momento del sollecito alla concessione, se non ci sono ostacoli passano solo pochi mesi ». «E abbiamo intenzione» afferma Caudo «di aggiungere ai 45 istruttori al lavoro altri 80».
Nel 2014 il Comune ha incassato dai condoni quasi 19 milioni di euro, ma delle circa 11 mila pratiche lavorate, 2354 non sono state ritirate, con le 1105 non ritirate nel 2013 si arriva a circa 23 milioni. Dal 2007 al 2012 se ne contano altre 5730 per un valore di 7 milioni. In tutto 30milioni di euro.
«Manderemo una lettera» conclude il responsabile dell’Urbanistica «in cui li avvisiamo che potranno rateizzare fino a 4 anni. Se continuano a non ritirarla spiegheremo a quali conseguenze si espongono, di certo c'è, come ha chiesto il sindaco, che noi vogliamo dichiarare chiusa la stagione del condono e dell’abusivismo edilizio».
In un caso abbastanza raro di giornalismo professionale e informativo per il cittadino, i tristi retroscena dell'uso privato di risorse pubbliche nel racconto in presa diretta di un protagonista di primo piano. Corriere della Sera Milano, 30 gennaio 2015
Sul dopo Expo interviene Marco Cabassi, 54 anni, ex proprietario dei terreni acquistati da Arexpo per i padiglioni del semestre internazionale. «Il prezzo attuale è irragionevole dice: chiedono 340 milioni quando la cifra d’acquisto è stata di 120 milioni, di cui 40 pagati a noi al costo di esproprio. Neanche il peggior privato azzarderebbe tanto». L’imprenditore ricostruisce la vicenda dei terreni e le vicissitudini con la Regione: «Abbiamo discusso per mesi, prima sono venuti a chiederci il terreno in comodato d’uso perché lo Stato non voleva spendere. Poi è cambiato tutto. Ci hanno voluto fuori dai piedi. Con le inchieste della Procura abbiamo capito perché: vedi Infrastrutture Lombarde, gli appalti, i margini di ricavo».
«Pronto? Sono Marco Cabassi…».
Il costruttore?
«Sviluppatore ed ex proprietario dell’area Expo, quella che secondo lei sarebbe stata venduta a peso d’oro».
Beh, non è stata regalata.
«Abbiamo venduto i terreni a prezzo d’esproprio. E oggi Arexpo chiede tre volte tanto. Neanche il privato più scaltro riuscirebbe a farlo…».
Vuol dire che per voi non è stato un affare?
«Noi siamo stati espulsi da quell’area. Non avevamo scelta. Ci hanno detto: o la vendete al prezzo d’esproprio delle aree standard o vi espropriamo comunque, col rischio di incassare fra qualche anno. Avevamo già subito 8 espropri sulla stessa area, per quasi 700.000 metri quadrati. L’ultimo per costruire il carcere di Bollate: dopo 18 anni aspettiamo ancora il dovuto. Alla fine il prezzo per oltre 250.000 metri quadri dell’area Expo è stato di circa 42 milioni, in buona parte tornati allo Stato sotto forma di imposte. Ma la verità è un’altra...».
La sua verità...
«I fatti. Nel 2006 ci hanno chiamati con una proposta: visto che lo Stato vuole fare l’Expo, ma non vuole spendere e non vuole rischiare, dateci i terreni in comodato d’uso gratuito per 9 anni. A Expo finito i terreni tornano a voi e potrete svilupparli. Che poi è l’attività che portavamo avanti da anni, avendo presentato un progetto insieme a Fondazione Fiera».
Avreste avuto la possibilità di costruire su un’area valorizzata a spese dello Stato…
.«No, perché l’accordo prevedeva che tutte le opere che sarebbero state realizzate sul terreno, sarebbero comunque rimaste di proprietà pubblica. Così lo Stato non spendeva e non rischiava nulla. Ci hanno cercato loro, l’accordo iniziale era questo. Noi ci siamo limitati ad ascoltare. Abbiamo detto subito che ci voleva una strategia per il dopo, che ogni Expo è legato alla funzione che si vuole dare al post evento. E abbiamo fatto alcune ipotesi».
Ipotesi immobiliari, immagino.
«Ci siamo chiesti che cosa poteva servire a Milano. Una cittadella della giustizia? Un nuovo Ortomercato? Un centro di ricerca agroalimentare? La sede della Rai? Il progetto pubblico–privato sviluppato da Fondazione Fiera e da noi avrebbe dovuto partire da una futura esigenza pubblica della città. Fra l’altro, il Comune di Milano, che deteneva circa il 10% delle aree, si era riservato una quota del 6% dell’ intero sviluppo».
Risposte dalla Regione?
«Zero. È troppo presto per pensarci, ci hanno detto, adesso ci sono altre priorità. Siamo stati quasi derisi».
Nel progetto per l’Expo si parlava dei terreni?
«Certo. Nel dossier di Parigi si diceva che l’area era messa a disposizione dai proprietari che poi dovevano svilupparla. La disponibilità immediata delle aree era stata un elemento qualificante della vittoria contro Smirne, che invece aveva un’area frammentata fra molti proprietari».
Poi il comodato d’uso è saltato e l’area è stata comprata dalla Regione.
«Sa cosa dicevano in Regione quando hanno preso i terreni? Finalmente ce li siamo tolti dai piedi… Alludevano a noi. Avevano piani che si sono capiti con le inchieste della Procura. Vedi Infrastrutture Lombarde, gli appalti, i margini di ricavo. Quei 340 milioni che oggi Arexpo chiede per l’area sono una cifra fuori da una logica imprenditoriale normale».
Quanto è costata l’intera area Expo?
«Poco più di centoventi milioni. Due terzi pagati alla Fondazione Fiera, che è un ente d’ interesse pubblico. Circa un terzo a noi».
Perché Arexpo, che è una società pubblica, dovrebbe guadagnarci?
«Non lo chieda a me. So solo che quel prezzo di vendita dei terreni insieme alla crisi del mercato e alla mancanza di programmazione, scoraggiano ogni investimento».
Intravede come aveva detto Gae Aulenti le rovine di Beirut?
«Voglio bene a Milano e auguro tutto il bene possibile alla mia città. Ma non mi va di passare per uno che ha speculato sulle aree. Le responsabilità di questo stallo sul dopo Expo sono chiare».
Come erano i vostri rapporti con l’allora presidente della Regione Formigoni?
«Gelidi»
E con il sindaco dell’Expo, Letizia Moratti
?«Istituzionali ma cordiali. Lei i patti iniziali voleva rispettarli».
Avete un dialogo con chi governa oggi Milano?
«Dialoghiamo volentieri con chi ha a cuore le sorti della città».
Dottor Cabassi, il suo nome è legato anche al caso Leoncavallo: siete proprietari dell’immobile simbolo di un’occupazione abusiva...
«Sono ancora dentro gli occupanti, dopo oltre 20 anni, tre sentenze esecutive favorevoli a noi e 58 accessi dell’ufficiale giudiziario. Ma speriamo ancora in una soluzione sensata e condivisa».
La Repubblica, 29 gennaio 2015 (m.p.g.)
Oggi parte a Firenze la prima operazione di crowdfunding di massa per il patrimonio culturale mai tentata in Italia. Come sempre succede per le cose migliori di questo Paese, la svolta nasce da un apparente vicolo cieco. L'Opera del Duomo stava cercando un classico sponsor che finanziasse il restauro del Battistero: ma quando il sindaco Dario Nardella ha (finalmente) proibito di coprire il monumento con grandi cartelloni pubblicitari, i potenziali investitori sono scomparsi come nebbia al sole. A questo punto si è fatta avanti Unicoop Firenze, proponendo di organizzare una raccolta di fondi nei suoi popolarissimi supermercati e punti vendita. E l'Opera ha detto sì.
Saranno accettate donazioni dai cinque euro in su, e chi ne darà più di dieci vedrà il proprio nome iscritto nei registri ufficiali dei benefattori dell'Opera. Con altri dieci euro si potrà partecipare a una visita guidata del Battistero: che solitamente ne costa (scandalosamente) trenta.La campagna 'Abbraccia il Battistero' è innovativa e importante in sé. E non tanto perché le coop 'rosse' vanno in soccorso di un ente di fatto legatissimo alla Curia: quanto perché essa riannoda i fili tra i non-luoghi dei centri commerciali e la città storica, e cerca di riportare i cittadini fiorentini (e soprattutto quelli delle periferie) nel monumento per eccellenza civico (e non solo religioso) della città. Unicoop si è impegnata a integrare i fondi che saranno raccolti: ma il punto non è solo il restauro materiale, quanto invece il restauro dei nessi morali, sociali, costituzionali che legano il popolo alle pietre di Firenze.
E questa esperienza può diventare un modello nazionale: perché indica una concretissima alternativa alle sponsorizzazioni (come quella di Della Valle al Colosseo). Queste ultime sono operazioni di marketing attraverso le quali un imprenditore punta a guadagnare molto più di quanto ha investito, sfruttando l'associazione tra il proprio marchio e il monumento. Un meccanismo che inevitabilmente contribuisce alla mercificazione di quel patrimonio culturale a cui la Costituzione affida invece il compito di contribuire alla costruzione dell'eguaglianza, e al pieno sviluppo della persona umana. Mentre il nostro Codice dei Beni Culturali dedica un articolo alle sponsorizzazioni e nessuno al mecenatismo, in Francia cinque successive leggi approvate tra il 2003 e il 2009, hanno regolato e incoraggiato la pratica del (vero) mecenatismo, che grazie alla defiscalizzazione e ad una sensibilizzazione di massa, oggi riesce a incanalare verso la cultura un miliardo di euro all'anno, cifra che eguaglia l'intero bilancio annuale del nostro Mibact. Le campagne del Louvre (l'ultima ha finanziato il restauro della Nike di Samotracia con un milione di euro raccolto in 6700 donazioni) si chiamano Tous mécènes!, tutti mecenati: esattamente lo stesso spirito della campagna fiorentina.
Daniela Mori e Claudio Vanni, di Unicoop Firenze, hanno detto esplicitamente che l'operazione «non vuole in alcun modo sostituire lo Stato, che deve invece ricominciare a fare la sua parte nel finaziamento del patrimonio culturale, ma affiancarlo». Questo spirito, e il fatto che Unicoop non abbia voluto mettere il proprio marchio sui cartelloni che annunciano l'iniziativa, sono del tutto inediti in Italia. Se le sponsorizzazioni sono operazioni commerciali e il mecenatismo dei paperoni ha un inevitabile sapore paternalistico ed esclusivo, il crowdfunding è invece inclusivo, essenzialmente democratico e profondamente in sintonia con lo spirito della nostra Costituzione: un mecenatismo popolare che punta a restaurare i monumenti creando conoscenza. Una specie di rivoluzione.
Non si tratta di gentarella, si tratta Silvano Vernizzi, commissario straordinario di tutte le grandi opere viarie della Regione Veneto, e altri cinque dirigenti e di altri cinque funzionari regionali. La Nuova Venezia, 28 gennaio 2015
Dalle costole dell'indagine sul Mose, il pubblico ministero della Procura di Venezia Stefano Ancilotto ha sfilato una nuova inchiesta, puntando l'obiettivo sull'assegnazione dei lavori per il project financing "Via del mare: collegamento A4, Jesolo e Litorali": un progetto da 250 milioni di euro, per il quale la commissione tecnica regionale ha dichiarato vincitore l'Ati capeggiata da Adria Infrastrutture. Non proprio un'azienda qualunque, essendo la società che era amministrata da Claudia Minutillo - già segretaria-braccio destro di Giancarlo Galan quand'era governatore e che guidava a bacchetta l'ex assessore ai Lavori pubblici Renato Chisso - uno degli indagati-cardine dell'inchiesta Tangenti Mose, sul giro di false fatturazioni che ha costituito i fondi neri di Mantovani e Consorzio Venezia Nuova.
Nella nuova indagine non si parla di tangenti, ma di turbativa d'asta. Il pubblico ministero Ancilotto ha iscritto al registro degli indagati la commissione tecnica che ha assegnato ad Adria (proponente del project financing) la realizzazione del primo stralcio della Via del Mare, ora cantierabile e per la quale in questi mesi si sta discutendo in Regione l'iter del secondo stralcio. Sei gli indagati: il commissario straordinario di tutte le grandi opere viarie della Regione Veneto, e Stefano Angelini (residente a Preganziol), Paola Noemi Furlanis (residente a Portogruaro), Antonio Strusi (residente a San Donà di Piave), Adriano Rasi Caldogno (Mestre, attuale direttore generale dell'Asl di Feltre), Mauro Trapani (Vicenza). Ieri sono partiti gli avvisi a comparire, per un interrogatorio - alla presenza dei loro avvocati Marco Vassallo e Paolo Rizzo - in calendario per il 29 gennaio.
Per il pm la commissione non avrebbe preventivamente individuato il criterio matematico per valutare le offerte dei partecipanti, né calcolato il costo degli espropi, ammettendo Adria Infrastrutture nonostante la sua proposta contemplasse un contributo pubblico superiore all'importo massimo previsto dalla legge, permettendole anche di modificare in corso di gara in maniera sostanziale la proposta iniziale. Una serie di favori, dunque, anche se nell'ipotesi di reato non vengono contestate né tangenti, né pressioni da parte di politici come Galan e Chisso (ai quali invece nell'inchiesta tangenti vengono proprio contestati anche interessi privati in project financing autorizzati dalla Regione). «La Procura contesta irregolarità di natura prettamente amministrativa sulle quali il Tar Veneto si è già espresso, dichiarando la totale legittimità di quelle procedure», commenta l'avvocato Marco Vassallo, facendo riferimento al ricorso di Net Engineering, «si tratta di accuse che contraddicono le stesse dichiarazioni di Piergiorgio Baita e Claudia Minutillo, caposaldi dell'accusa, che hanno messo a verbale che il loro nemico in Regione era proprio Vernizzi, che gli aveva messo i bastoni tra le ruote».
Una strada è un pezzo di mondo: asfalto o sampietrini, vetrine, tavoli e sedie che premono, gente che ci vive, auto che cercano spazio, lavori in corso, sviluppo, degrado e imprevisti. O forse, in realtà, è tutto prevedibile perché è già successo altrove, un po’ ovunque: un destino globale, anzi glocale. L’unicità è un’illusione, cambia soltanto la lingua che la esprime, il risultato è uno stereotipo universale. Prendi allora una strada nel cuore di una capitale, prendi via Urbana, rione Monti, Roma, scopri la carta degli imprevisti e registra divisioni ideologiche, astuzie, minacce, una specie di scontro di civiltà improbabile come quello per l’ascensore in piazza Vittorio (da qui, dodici minuti a piedi) descritto in un romanzo di Lakhous Amara.
Siamo nel quartiere dove è tornato Giorgio Napolitano e dove hanno vissuto e sono diversamente rimpianti il regista Mario Monicelli e un leggendario senzatetto di nome Angelo. Una ex provincia di fantasiosi pizzaioli, falegnami e rigattieri. Poi la scena è cambiata: al posto delle botteghe sono spuntati negozi d’abiti e bar clonati, mentre gli inquilini degli appartamenti sono saliti di grado e d’affitto. Qualcuno, il giornalista del Foglio Michele Masneri, ha provato a trarne materia per un romanzo, “Addio Monti”. Ma non era finita. Non ancora. Succede questo. L’Italgas inizia lavori che richiedono il blocco della strada, via Urbana appunto.
Dovrebbero concludersi con l’estate, ma è Roma: passa l’autunno, inizia l’inverno e s’affaccia l’eterno. A qualcuno il blocco piace, o fa comodo. Una taverna conquista metri quadrati, un’altra la imita, nessuno interviene. Su una pagina Facebook compare un apprezzamento per il nuovo assetto, nato per caso, ma perché non protratto per scelta? Il post riceve mille like. In questi tempi pretestuosi: i “like” diventano una “petizione”. La profezia si autoavvera. Flash mob per la pedonalizzazione, domeniche di struscio, operai che rallentano la posa dei sampietrini (quindi si fermano) spiegando: «Tanto diventa pedonale». La petizione prende forma e firme: una, cento, mille. Nomi illustri: il premio oscar Paolo Sorentino, l’olimpionica Novella Calligaris. Uno vive all’Esquilino, l’altra a Prati. Firmano mentre fanno acquisti, ricambiando sconti o complimenti. Nasce un comitato di opposizione, che cerca sostegno con metodi analoghi. Qualcuno si esprime civilmente. Un antiquario scrive all’assessore: “C’è chi sostiene che il commercio nelle strade pedonali vada meglio io non ne sono affatto certo e comunque nel dubbio preferisco guadagnare di meno e stare in una strada normale, seppur tenuta meglio”. Qualcun altro scade e imbratta l’insegna di un “nemico”, in quella che diventa una “battaglia”.
In realtà i destini di una strada sono spesso segnati e non li cambiano né l’autodeterminazione dei residenti, né lo svagato progetto delle amministrazioni pubbliche. Prendi Ludlow street, nel Lower East Side di Manhattan, rue de Sèvignè nel Marais, a Parigi, o Odenberger Strasse a Prenzlauer Berg, Berlino. Indirizzi storici, popolari, a tratti e in parte addirittura malfamati. Trascorrono decenni tra luci e ombre, canoni fissi e gente che s’inventa la vita. Poi qualche commerciante di livello superiore apre un negozio raffinato, qualche artista si trasferisce lì, arrivano i primi ristoranti di buon livello e, sopra, prende casa una coppia di giornalisti. Il neologismo dall’inglese è una delle parole più brutte del dizionario: gentrificazione. Un progressivo imborghesimento, simile a quello che negli individui è determinato dall’età. Come tutti rimpiangono la gioventù, così gli abitanti della prima ora hanno nostalgia del passato, quando al posto del condominio di lusso c’era un cinema, della vineria una farmacia. Non hanno avuto in dotazione il telecomando per premere il fermo immagine. Stessa sorte è però toccata ai loro successori, portatori del cambiamento.
A ognuno piace il mondo come l’ha determinato. È convinto che sia un microcosmo ideale, figlio di un’idea originale. In realtà le stesse dinamiche stanno accadendo altrove e in modo ugualmente inesorabile: le insegne variano, ma si assomigliano sempre più. Se le grandi arterie sono conquistate dalla “global street”, quella di Zaraland o dei negozi del lusso, uguale a Chicago come a Hong Kong, queste vene diventano “glocal street”. Propongono nomi adeguati (romaneschi e latini, nel caso di via Urbana). Attirano quella che viene universalmente chiamata movida. C’è chi si adegua e sente anzi il piacevole soffio dell’internazionalità. Altri preferiscono traslocare in direzione di presunte oasi destinate a durare il tempo che separa un’era dal successivo strato di gentrificazione: dieci anni, se va bene. Il tempo di imborghesirsi, veder sorgere locali tutti uguali e aspettare invano che una pubblica amministrazione intervenga.
postilla
Ognuno è libero di scrivere quel che gli pare, ci mancherebbe altro. Però così come è avvenuto e avviene con l'ormai famigerato rammendo delle periferie, anche nelle trasformazioni a senso unico dei quartieri più centrali pare il caso di tentare un minimo di chiarezza in più. Perché tanto per iniziare qui si mescolano in un minestrone appetitoso ma indigeribile due cose diversissime, come la città clone e la sostituzione sociale detta gentrification, oltretutto già da sola oggi usata in mille sfumature diverse nel mondo. La città clone è quella colonizzata da un genere standard di esercizi commerciali, che rende identici posti a mille chilometri di distanza che sarebbero di per sé diversissimi. A volte un processo così si accompagna anche alla gentrification vera e propria, che non è affatto un “neologismo” ma una cosa esistente da sempre nelle città, e che la sociologia urbana ha battezzato così mezzo secolo fa. Oggi certa cultura immobiliarista, e una stampa che ci è o ci fa, provano a ribaltare il tavolo rivendendo a tante amministrazioni locali l'idea secondo cui gentrification corrisponde a riqualificazione, rivitalizzazione, semplicemente perché aumenta le quotazioni immobiliari, unico criterio qualitativo per la città, secondo loro. Mentre invece, come noto, la fisiologica trasformazione dei quartieri (che non va ostacolata, ma quantomeno seguita e studiata) dovrebbe far sì che in centro come in periferia si mirasse teoricamente a costruire cittadinanza, sicurezza, identità. Invece di ostentare certo cinismo superficiale di maniera con toni “global” (f.b.)
La Repubblica, 26 gennaio 2015
Già, perché è il titolo (da film di Natale, da pizzeria a domicilio di Melbourne o da serial americano sulla mafia) ad aver colpito l’immaginario collettivo. Nessuno parla dei contenuti del sito, mentre da due giorni dilaga sulla rete una colossale ondata di prese in giro, domande retoriche, reazioni indignate su quell’imbarazzante verybello.
Certo, se l’Expo deve presentare l’Italia al mondo, questa sfiducia nella lingua nazionale appare un pessimo inizio: si fa davvero fatica ad immaginare la Francia alle prese con un verybeau. I più depressi sono apparsi gli insegnanti: che cercano di liberare i loro giovani allievi dai tic indotti dagli sms, dalle chat e dal diluvio di jobsact e simili, e che ora si sentono sparare alla schiena anche da un ministero “della Cultura” tanto arreso e sbracato. Questa botta di provincialissima esterofilia è, poi, apparsa ancora più ridicola perché nel sito manca proprio la versione inglese, annunciata come coming soon: il 7 febbraio, pare. E sarà moltobeautiful, c’è da giurarlo.
Quanto al sito stesso, Riccardo Luna ha scritto che «ha una quantità imbarazzante di errori di progettazione». Ma sono i contenuti a lasciare allibiti: nessuno ha notato che l’Italia del bello viene presentata solo attraverso i mille eventi che cadono nell’arco temporale di Expo. Un grande luna park a pagamento, insomma: e forse era destino, perché in fondo anche luna park è un’espressione italo-inglese. Un baraccone (per dirla con la Crusca) che mette in ombra e nasconde tutto il patrimonio diffuso gratuito e permanente, sul quale non si spende una parola. Insomma, la più commerciale e diseducativa delle scelte.
Si è notato che il titolo del sito riprende (plagia? cita?) quello di una linea di cosmetici per bambine, e del suo sito: verybella.it. E quando un governo mette il patrimonio storico e artistico della nazione sullo stesso piano degli educativissimi trucchi per bambine: beh, allora gli anglismi e gli ammiccamenti pseudogiovanilistici sono il minore dei nostri problemi.
Il presidente della Toscana, Enrico Rossi, ne fa un'altra giusta: interviene per evitare uno dei numerosissimi danni ai beni comuni provocati dalla nefasta legge Delrio e dalla conseguente frettolosa liquidazione delle province. La Repubblica, 25 gennaio 2015
«Domani porteremo in giunta una manifestazione di interesse e poi sottoscriveremo un protocollo con la provincia di Livorno per l’acquisto. Ci vorrà un po’ di tempo ma la compreremo noi». Il Parco Minerario dell’Isola d’Elba è salvo.
Tenerla in piedi costa circa 250 mila euro fra personale e altre spese. Il grosso di quella somma, circa 150 mila euro, viene girato dal Demanio al Comune di Rio Marina ogni anno attraverso il Parco dell’Arcipelago, sotto cui ricade l’area mineraria, e dal Comune alla società. Circa 80 mila euro arrivano dai biglietti. L’ultimo bilancio si è chiuso in avanzo di poche migliaia euro, ma solo perché la Regione ha concesso l’estrazione controllata di minerale che la società rivendeva ai collezionisti con un ricavo di altri 20 o 30 mila euro, altrimenti era sempre in perdita di 10-15 mila euro. Ecco, credo che il ragioniere capo della Provincia che ha bandito l’asta abbia trovato difficoltà ad intravedere in tutto questo un asset strategico. Poi, ritengo anch’io potessero esserci soluzioni diverse, ma chi compra non si ritroverà in mano, credo, la grande occasione per farci i soldi: è tutto vincolato».
La Repubblica online, blog "Articolo 9"
Si chiama verybello.it l'ultima, campale, disfatta culturale del Ministero per i Beni culturali.
Se anche fosse stata un''idea' originale, usare un titolo da film di Natale per battezzare il portale della cultura italiana durante Expo sarebbe stata una scelta inutilmente degradante. Un angloitalico grottesco per un sito che non ha nemmeno la versione inglese. Ma la cosa incredibile è che non è un'idea originale, ma un imbarazzante plagio dal sito di verybella.it, che è la «prima linea di make-up e style per bambine». E davvero si vorrebbe sapere quanto si è fatto pagare, per questo plagio, l'anonimo creativo. Chissà se sarà la Corte dei Conti a cercare una risposta. Resta l'imbarazzo cocente: per un Paese che comunica il proprio patrimonio culturale con le stesse strategie e le stesse parole con le quali si vendono i cosmetici per bambine. E, più o meno, con lo stesso progetto educativo.
Di fronte all'ondata di disappunto, il ministro per i Beni culturali Dario Franceschini avrebbe potuto scusarsi. E magari licenziare il creativo-plagiaro. Invece il ministro ha twittato: «In 6 ore 500.000 accessi a verybello.it! Come speravamo grande pubblicità da ironie, critiche e cattiverie sul web... Verygrazie!». Non volevo crederci. Me l'ha girato un'amica, aggiungendo: «a questo punto, visto il successo, il governo registrerà anche i siti culturali "spaghettiandmeatballs", "mammamia" e "mafiaboys". Anche per questo tipo di motivi, noi ci siamo trasferiti a Zurigo».
E se invece di andarcene noi, ci decidessimo finalmente a trasferire altrove questa classe 'dirigente'. S'intende, con un caloroso veryprego!
La Repubblica, 24 gennaio 2015
Non è la prima volta che si prova a privatizzare il più illustre parco minerario italiano: nel 2004 Giulio Tremonti tentò di conferirlo nientemeno che alla Coni Servizi spa, che a sua volta avrebbe dovuto venderlo per finanziare il debito del Coni (allora ammontava a 380 milioni di euro). Era l’epoca della Patrimonio dello Stato spa, la società per azioni che, almeno teoricamente, avrebbe potuto gestire e alienare qualunque bene della proprietà pubblica. Un’idea, questa, che ciclicamente risorge: solo poche settimane fa è stato Marco Carrai, intimo del presidente del Consiglio Matteo Renzi, ad auspicare la creazione del «Fondo Patrimonio Italia, dove conferire gli asset morti dello Stato per estrarne valore».
Ma a minacciare il futuro del Parco dell’Elba è oggi qualcosa di molto più banale: la sciatteria con la quale stiamo affrontando la soppressione delle province. Tra i mille nodi insoluti che riguardano i dipendenti e le competenze, un enorme punto interrogativo copre il futuro del patrimonio culturale provinciale: musei, biblioteche, archivi, istituti. Dall’inizio di quest’anno la loro gestione è passata a Regioni e Comuni, ma — denunciano le associazioni che raccolgono i professionisti di archivi, biblioteche e musei — «il rischio è che per molti beni culturali la riforma si traduca in un fallimento, e che centinaia di musei, biblioteche, reti e sistemi territoriali vadano incontro a una drammatica chiusura o a un drastico ridimensionamento di attività e servizi».
Ecco, la messa all’asta del parco dell’Elba è il primo, vero disastro determinato da questa situazione di nongoverno: e c’è da giurare che non sarà l’ultimo. Liquidando la sua quota nel Parco Minerario, la Provincia di Livorno si comporta come un inquilino che, dovendo subire uno sfratto, si disfi del mobilio, affibbiandolo al primo che passa. Ed è proprio così che la vede Nicola Casagli, ordinario di Geologia applicata all’Università di Firenze: «È un’idea astrusa di stampo burocratico che espone il Parco a ogni genere di speculazioni. Di fatto si tratta il Parco come se fosse una dismissione di attrezzature non più utilizzate. Per la verità l’anno scorso la Provincia di Livorno si era posta il problema e aveva promosso un accordo fra Provincia, Parco e Università di Firenze. Inspiegabilmente, l’accordo è stato fatto saltare dal presidente del Parco senza motivazione ». Beppe Tanelli, il primo presidente del Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano (nel cui territorio ricade in gran parte il Parco Minerario), rincara la dose, dichiarando che «è auspicabile che la disinvolta e ridicola messa in vendita sia un’altra bufala». Il sindaco del Comune di Rio nell’Elba (che possiede l’altro 30 per cento di azioni della srl che controlla il Parco) è stato colto in contropiede, e ha reagito denunciando la natura «predatoria» dell’operazione. Già, perché il rischio è che il Parco se lo compri una società (magari straniera) interessata a commercializzare su larga scala i minerali pregiati da collezione, abbandonando ogni nesso con il territorio e ogni progetto di conoscenza, ricerca, divulgazione. Ci sono pochi giorni per fermare l’asta, e il professor Casagli annuncia che «l’Università di Firenze conferma il proprio interesse nel Parco minerario ed è disponibile a fornire ai Comuni interessati tutto il supporto necessario per salvare un bene così importante per tutti i cittadini». C’è da sperare che qualcuno lo ascolti, e che questa storia gloriosa non si esaurisca in un’asta caricaturale. Virgilio, nel X dell’ Eneide, canta le «inesauribili miniere» dell’Elba: ma la catastrofe delle province italiane nemmeno un poeta-mago poteva prevederla.
amara sorpresa: il lavoro è disomogeneo e peggiora l’aspetto del monumento: la pulitura, troppo approfondita, scopre strati profondi della pietra, mentre in altri sono ancora presenti le croste nere. Vacilla dunque la tutela del monumento». Il manifesto, 20 gennaio 2015 (m.p.r.)
È questo il j’accuse lanciato da sessanta restauratori. Si sono riuniti e hanno firmato un documento che invita al dibattito pubblico, rivolgendo un appello al ministro Franceschini e al presidente del Consiglio di stato, sostanzialmente a chi firmò la sentenza che legittimò la scelta di consegnare l’appalto a ditte edili (Gherardi / Aspera). Il loro consiglio è: meglio riconsiderare quella decisione, prima che sia troppo tardi. È lesiva per una categoria professionale apprezzata in tutto il mondo e pericolosa anche per il patrimonio stesso.
Quando tre anni fa, il Segretario generale del Mibact, architetto Cecchi, la direttrice regionale del Lazio Federica Galloni e l’archeologa responsabile dell’Anfiteatro Flavio Rossella Rea decisero di affidare quel lavoro a un’impresa generale di edilizia, i restauratori dettero battaglia, ma il Tar respinse il ricorso.
Eppure prima dell’«estromissione», una ditta specialistica di restauro aveva approntato un cantiere pilota, mettendo a punto le metodologie giuste di intervento per quella delicata pulitura.
status di supporto inerte e diventa bene comune. Tecnicamente, la legge introduce un’invalicabile “linea rossa” tra città e campagna: nessun nuovo edificio su terreni fertili. L’impugnativa governativa afferma che proprio questa norma contravviene al principio costituzionale di libera concorrenza». Perunaltracitta.org, 3 gennaio 2015
Secondo alcuni giornali sarebbe stata proprio l’ex vigilessa fiorentina in capo, in capo ora al Dipartimento legislativo alle dirette dipendenze dell’ex sindaco di Firenze, a dare l’alt alla nuova legge urbanistica toscana in un’Italia distratta ormai dai preparativi natalizi (nella stessa vigilia di Natale avrebbe anche regalato a Berlusconi il comma salva evasori). L’impugnativa alla LRT 65/2014 (Norme per il governo del territorio), che ritarderà l’entrata in vigore della legge, si colloca nel segno della fiducia sconfinata nell’autoregolazione del mercato edilizio che ormai sta segnando il passo (e di questo sì, abbiamo le prove).
Della buona legge abbiamo già scritto, ma merita qui ricordarne almeno due aspetti virtuosi. Concettualmente, la legge supera il meccanicismo della LRT 1/2005 e introduce uno strumento di matrice ecologista: con il concetto di «patrimonio territoriale» infatti, quale risultato della coevoluzione di abitanti e ambiente naturale, da «promuovere e garantire» per le generazioni future, il territorio abbandona lo status di supporto inerte e diventa bene comune. Tecnicamente, la legge introduce un’invalicabile “linea rossa” tra città e campagna: nessun nuovo edificio residenziale su terreni fertili; né centri commerciali o capannoni che vìolino i princìpi del grande piano regionale (PIT): violazione o compatibilità saranno certificate da una «conferenza di copianificazione» in cui il parere sfavorevole della Regione è vincolante.
L’impugnativa governativa afferma che proprio quest’ultima norma contravviene al principio costituzionale di libera concorrenza tutelato dalla ripartizione delle competenze prevista dall’art. 117 Cost. Tuttavia, il Consiglio di Stato con la sentenza 2060/2012 stabilisce che «le prescrizioni contenute nei piani urbanistici, rispondendo all’esigenza di assicurare un ordinato assetto del territorio, possono porre limiti agli insediamenti commerciali, dunque alla libertà di iniziativa economica». Bene ricordarlo. Del resto, privata di potestà regolativa, che urbanistica sarebbe?
una gestione dei Beni Culturali autonoma, vigente dal 1977, e che differenzia la Sicilia anche dalle altre regioni a statuto speciale? Repubblica.it Palermo, 14 gennaio 2015 (m.p.r.)
La Basile era stata allontanata dall'incarico a inizio settembre: era accusata in particolare di avere autorizzato la realizzazione di una piscina prefabbricata fuori terra nella villa dell'ex assessore al Territorio Mariarita Sgarlata, che in seguito al clamore per la vicenda - e a una denuncia in procura presentata dal governatore Crocetta - si era poi dimessa dall'incarico. Dopo la sopensione della Basile, altri tre dirigenti della Sovrintendenza di Siracusa erano stati assegnati ad altro incarico. La Basile ha sempre contestato il provvedimento di sospensione, asserendo di non avere violato alcuna regola nè avere violato l'ordine di protocollo delle pratiche, e attorno alla sovrintendente si era formato un vasto fronte di politici e ambientalisti che avevano segnalato il rischio che, con il suo allontanamento, potessero avere spazio le speculazioni edilizie in diverse zone di elevato valore culturale, all'interno di un sito tutelato dall'Unesco.
Soddisfatta l'ex assessore Sgarlata, che torna a parlare dopo tre mesi dalle sue dimissioni: «Sono felice del ritorno di Beatrice Basile alla guida della Soprintendenza di Siracusa - queste le sue parole - che da novembre del 2013, dalla sua nomina sotto il mio mandato di assessore regionale ai beni culturali, aveva segnato una tregua, un fermo biologico all'inarrestabile consumo del suolo che ha profondamente segnato il nostro territorio negli ultimi decenni. Credo che in molti in questi mesi l'abbiano rimpianta, anche chi magari aveva gioito per l' assurda "rotazione", perchè quello che serve a Siracusa è riqualificare l'esistente, rivitalizzare i quartieri della città e bloccare l'aggressione al suo paesaggio».
«Con il reintegro a Soprintendente di Siracusa di Beatrice Basile - dice Giuseppe Patti, coordinatore dei Verdi di Siracusa - si chiude una pagina tristissima della bassa politica siciliana che va in scena nei palazzi palermitani del potere, segna l’incapacità amministrativa di un Governo vittima di quel potere alto burocratico che altro non fa che paralizzare tutto il sistema, alta burocrazia spesso delegittimata dai doppi incarichi e dalle prebende di altra natura».
Anche l'attuale assessore ai Beni culturali, Antonio Purpura, dal primo momento dopo l'insediamento (a novembre) si era detto favorevole al ritorno della Basile: «E' un provvedimento che ho trovato sul mio tavolo appena insediatomi ed evidentemente le valutazioni giuridiche concordate con il mio ufficio di gabinetto, che ci avevano portato alla decisione di non sottoporre la proposta di revoca in giunta, erano fondate visto che sono state confermate dall'ordinanza del Tribunale», dice Purpura. «L'auspicio è che il provvedimento serva a ripristinare un clima di efficace operatività in una delle sovrintendenze più importanti della Sicilia», conclude.
Un articolo molto critico su un'iniziativa molto, e giustamente, discussa, con una replica di Carteinregola, del tutto giustificata. Il Fatto quotidiano.it, blog
La vicenda della costruzione dello stadio della Roma calcio ha concluso il suo primo tempo, per restare nell’ambito calcistico, con la decisione presa dal Consiglio comunale di Roma di attribuire al progetto che prevede la realizzazione 1 milione e duecentomila metri cubi di cemento (Antonio Cederna avrebbe detto ’12 hotel Hilton di Monte Mario’) il “riconoscimento dell’interesse pubblico”. E’ stata una scelta adottata a maggioranza contro la efficace opposizione dei consiglieri del Movimento 5Stelle: una scelta democratica, dunque. Converrà attrezzarsi per il secondo tempo della partita in cui, finita l’ubriacatura ideologica della “grande opera”, si dovrà tornare con i piedi per terra e ragionare sul complessivo assetto della città e sulle caratteristiche del progetto.
Dal punto di vista del generale assetto della città, occorre ribadire che la scelta del sito di Tor di Valle è frutto esclusivo e ostinato del promotore: la società calcio Roma. La legge sugli stadi approvata dal Parlamento consente di costruire i propri stadi e come tale deve essere rispettata. Ma non obbliga le amministrazioni pubbliche ad essere supine rispetto ai voleri della proprietà fondiaria. Nessuna legge vietava che il sindaco Marino imponesse di costruire lo stadio in un altro quadrante della città, dove gli oneri di urbanizzazione dovuti per legge e i maggiori oneri dovuti alla contrattazione urbanistica, avrebbero prodotto un beneficio più ampio per l’intera popolazione romana. Né vale a titolo giustificativo la motivazione che non è previsto che sia il Comune a scegliere il luogo ma può solo esprimersi sul pubblico interesse della proposta del privato. In questo modo si spiana la strada alla disegno di legge del ministroMaurizio Lupi che si basa proprio sulla subordinazione delle amministrazioni pubbliche rispetto alla proprietà fondiaria. E non è certo questo il mandato ricevuto da Marino dai suoi elettori.
Ma pur di giustificare l’interesse pubblico dell’operazione, il sindaco Marino ha elencato i benefici che verranno alla città: il prolungamento fino all’area dello Stadio di una linea metropolitana; la costruzione di un nuovo ponte sul Tevere e la creazione di un parco di 34 ettari. E’ evidente che identiche opere avrebbero potuto portare un grande beneficio per qualsiasi altro quadrante delle città dove vivono centinaia di migliaia di romani e dove non esistono metropolitane e parchi. Perché, dunque, non si è scelto un altro quadrante? La risposta è che è stata accettata senza fiatare l’indicazione di Cushman e Wakefield, società immobiliare di caratura internazionale, che fu incaricata dalla Roma di trovare l’area per il nuovo stadio, come aveva denunciato il 20 aprile 2012Gianni Dragoni sulle pagine del Sole 24 Ore. Insomma, il futuro della capitale d’Italia sta nelle mani di una grande società immobiliare controllata dalla finanziaria Exor (famiglia Agnelli) e di un esponente della finanza internazionale come James Pallotta.
Il sindaco Marino si vanta di essere è il più strenuo avversario dei poteri forti, ma purtroppo per lui e per la città, si è messo in ginocchio – indimenticabile a riguardo il suo viaggio presso gli uffici di Pallotta a New York nell’agosto 2014 – di fronte alle lobby. Non è una novità. Marino ha già delegato alla Cassa depositi e prestiti, come noto “potere debolissimo”, la trasformazione della preziosa area del Flaminio (ne parleremo nel prossimo post) e ha brindato insieme a Malagò, altro eterno volto dei poteri forti, per la candidatura di Roma alle Olimpiadi del 2024. Con buona pace del sindaco, la sua amministrazione è il paradiso dei poteri forti.
Del resto, pur di mettere in ombra questo vulnus imperdonabile, si continua a sostenere “che l’amministrazione comunale non farà alcun investimento economico”. Credono ancora di prendere in giro i romani: le opere giudicate di interesse pubblico saranno realizzate attraverso l’esborso di denaro pubblico noto (gli oneri di urbanizzazione previsti dalla legge) e da altro denaro di proprietà pubblica derivante dai maggiori introiti dovuti agli aumenti di volumetria concessi. Si spenderanno dunque per opere utili solo e soltanto alla Roma calcio preziosi soldi pubblici.
E veniamo al merito del progetto per cercare di smontare il cumulo di bugie che sono state maldestramente costruite a difesa dello scempio. Ciò che dispiace dal punto di vista generale è che alla difesa della mura del Campidoglio siano stati arruolati anche associazioni che dicono di battersi per gli interessi della città, come ad esempio Carteinregola, ma ognuno sceglie la sua strada. Si afferma che non è vero che l’area sia in un deserto urbano ma “sta a ridosso del popoloso quartiere Eur-Torrino”. Questo quartiere si trova in realtà a cento metri di dislivello dall’area ed è da essa diviso da una invalicabile barriera morfologica costituita da una ferrovia e da due strade carrabili ad alta percorrenza. L’area scelta è un deserto urbano, punto e basta.
Si afferma poi che non è vero che vengano regalati 350 mila metri quadrati di cemento perché nell’area esistono altre volumetrie e il piano vigente prevede di realizzare 112 mila metri quadrati. Addirittura si afferma che “se si avvalesse del ‘Piano Casa’ potrebbe ulteriormente aumentarle e trasformare l’Ippodromo in appartamenti”. Ma quando mai! L’area è destinata a verde e attrezzature sportive: quelle volumetrie potevano essere realizzate per attività sportive, non per le più lucrose attività commerciali o per uffici. Riguardo al Piano casa è appena il caso di ribadire che non è applicabile alle zone di verde e attrezzature sportive. Pallotta riceve un gran regalo economico.
Terzo argomento, il più grave sotto il profilo della legalità, riguarda la questione sollevata da molti articoli di stampa che la società proponente non fosse titolare delle aree su cui si dovrà realizzare il progetto. Su questo punto Carteinregola afferma addirittura che “E’ un problema del privato, non del Comune. Se il privato non potrà più mantenere la proposta avanzata, automaticamente decadrà”. Decine di anni di rapporti tra pubblico e privato sepolti con disinvoltura: è noto infatti che amministrazioni pubbliche devono obbligatoriamente verificare la titolarietà della proprietà immobiliare del proponente. Altrimenti sarebbe il far west.
Occorre dunque iniziare a pensare collettivamente con la partecipazione delle associazioni che hanno a cuore il destino di Roma ad una differente localizzazione in modo da ottenere che gli interessi riconosciuti dalla legge alla società Roma calcio si sommino a quelli di centinaia di migliaia di romani che sono ancora privi di moderne linee di trasporto pubblico: con le centinaia di milioni sperperati per la felicità di Pallotta si possono costruire almeno due linee tramviarie che –oltre allo stadio- potrebbero portare sollievo ad una città in gravi difficoltà. E’ un’occasione irripetibile e la città sommersa dal fango della corruzione svelata dall’inchiesta Mafia Capitale, non può permettersi di delegare il suo futuro agli eterni poteri forti che l’hanno portata al fallimento che tocchiamo tutti i giorni con mano in termini di degrado e del quotidiano aumento delle tariffe e della cancellazione del welfare urbano ad iniziare dal trasporto pubblico.
La replica di Carteinregola
Il neo direttore generale dei Beni culturali, intervistato da Sara Grattoggi, risponde a Volpe: «Come risultato finale mi pare ovvio che le cinque grandi piazze di Roma antica vadano riproposte nella loro interezza, eliminando via dei Fori, e che il loro interesse pubblico d’insieme sia nettamente superiore a quello delle sistemazioni successive». La Repubblica, ed. Roma , 7 gennaio 2015
Professor Francesco Scoppola, come valuta le proposte della commissione stato-comune sull’area archeologica centrale?
«Ogni commissione - risponde il direttore generale del Mibact - lavora per riunire una pluralità di vedute e anche in questo caso mi pare che il confronto sia stato fruttuoso. Ma non sono certo io a dover valutare il risultato, visto che da poche settimane la mia competenza nel ministero è quella delle belle arti e del paesaggio, mentre per l’archeologia è stato riconfermato Gino Famiglietti».
Lei prese parte al progetto del 1985-1988 che prevedeva lo smantellamento di Via dei Fori Imperiali. Un punto che la commissione, però, non intende attuare, almeno in una prima fase.
«Anche in quel progetto lo scavo archeologico stratigrafico dell’area oggi occupata da via dei Fori Imperiali non rappresentava la prima fase da attuare, ma una delle ultime. Come risultato finale mi pare ovvio che le cinque grandi piazze di Roma antica vadano riproposte nella loro interezza, eliminando via dei Fori, e che il loro interesse pubblico d’insieme sia nettamente superiore a quello delle sistemazioni successive. Se ci fossero dubbi in proposito dovrebbe bastare a superarli lo straordinario afflusso di pubblico ottenuto da Piero Angela per il bimillenario della morte di Augusto. Per la prima volta le impalcature con le gradonate non guardavano le sfilate sul nastro d’asfalto ma lo scenario attorno a quella strada».
L’unico modo per superare il problema tecnico dei diversi livelli degli scavi e dell’attuale piano stradale sarebbe, secondo la commissione, una soluzione simile a quella proposta dal professor Panella, che prevedeva una leggera passerella in acciaio tra piazza Venezia e largo Corrado Ricci, poggiato sui livelli antichi, ma in linea con il percorso attuale. Scoppola, la vede come una soluzione praticabile?
«Il problema dei livelli diversi esiste e fu segnalato già da Leonardo Benevolo. Ma non si tratta certo di problemi insolubili e non è detto che si debba fare ricorso a qualcosa da aggiungere in via permanente».
La commissione intanto ha proposto una revisione del vincolo su via dei Fori. Cosa ne pensa?
«Nessun vincolo di nessun tipo ha mai proibito le indagini, le ricerche, le prospezioni, gli scavi stratigrafici».
Se per il momento non si smantellerà via dei Fori, si ipotizza invece la rimozione di via Alessandrina.
«Iil valore storico di via Alessandrina è indubbiamente maggiore di quello di via dei Fori e tuttavia è anch’esso secondario rispetto a quello degli spazi antichi».
La commissione giudica “assolutamente strategica” la prosecuzione della metro C non solo fino a piazza Venezia, ma anche oltre, secondo il progetto originario. Concorda?
«Quello della mobilità pubblica è certamente uno dei principali nodi da sciogliere prima di poter dare piena attuazione alla pedonalizzazione della zona archeologica centrale. Se i tempi e i costi della metropolitana romana si avvicinassero alle medie europee, scavando finalmente e sempre a “cielo chiuso” al di sotto della quota archeologica e scegliendo opportunamente il posizionamento delle stazioni e delle risalite in superficie in corrispondenza degli strati geologici privi di contenuto archeologico, la questione non si porrebbe neppure perché tutto sarebbe subito e contemporaneamente realizzabile».
IL SALVAGENTE DEI GIUDICI
PER I GUASTI DELLA POLITICA
di Tomaso Montanari
E alla fine, come sempre, tocca alla magistratura rimediare ai danni di una politica corrotta o suicida. E davvero si preferirebbe raccontare un’altra storia: ma quella storia non c’è. È ora un tribunale, un tribunale del lavoro, a dire che Beatrice Basile deve essere reintegrata nel ruolo di soprintendente di Siracusa. Dal quel ruolo la Basile era stata allontanata il 3 settembre scorso, per volontà della Giunta Crocetta. Formalmente perché avrebbe acconsentito alla realizzazione di una piscina fuori-terra (una grande vasca da bagno rimuovibile) nella villa dell’assessore regionale Mariarita Sgarlata, contestualmente costretta a dimettersi. In realtà perché sia la Basile che la Sgarlata rappresentavano un ostacolo per la mafia del cemento: quella che non si accontenta di controllare il territorio della Sicilia, ma preferisce tombarlo per sempre.
LA SOPRINTENDENTE SOSPESA E REINTEGRATA
"LA MIA RIVINCITA SULLE LOBBY DEL CEMENTO"
di Antonio Fraschilla
Palermo. «Felice per il provvedimento del giudice ma preoccupata per i tempi del reintegro: d’altronde lo stesso dirigente generale che mi ha allontanata dovrebbe adesso reintegrarmi ». La fu ex soprintendente di Siracusa, Beatrice Basile, ha in mano la sentenza del giudice del lavoro che la insedia nuovamente alla guida della tutela dei beni culturali aretusei, dopo essere stata sospesa dall’incarico per una velenosa vicenda di piscine autorizzate all’ex assessore Mariarita Sgarlata.
La Basile con la Sgarlata ha condotto diverse battaglie contro la cementificazione di Siracusa e dopo le polemiche sollevate dal suo improvviso allontanamento, lei nota in città per le azioni a difesa del patrimonio culturale, la Regione per tutta risposta ha avviato il trasferimento di altri due dirigenti che lavoravano a stretto contatto proprio con la soprintendente. Ma la Basile non si è data per vinta e ha fatto ricorso al giudice del lavoro.
Quindi adesso è nuovamente soprintendente?
«No, perché il dirigente generale che mi ha allontanata dal servizio mi dovrebbe reintegrare. E temo che si perderà altro tempo e che passeranno molti mesi prima che possa tornare al mio posto. Ormai mi aspetto di tutto da questa Regione».
Lei è stata “cacciata” per aver autorizzato una piscina prefabbricata all’ex assessore Mariarita Sgarlata, dimessasi dopo le polemiche. Rifarebbe quel provvedimento?
«Certo che lo rifarei, in quel terreno non esisteva alcun vincolo e si trattava di una piscinetta prefabbricata. Ma nel decreto che mi sollevava dall’incarico non si faceva alcun riferimento alla piscina, bensì a non meglio precisate relazioni su ispezioni avvenute lo scorso agosto. Io mi ero insediata nel novembre 2013, pochi mesi prima, quindi cosa avrei potuto fare in poche settimane tanto da essere sollevata dall’incarico? La storia della piscina è successiva di venti giorni rispetto alla mia sospensione. La verità è che sono stata allontanata per le mie battaglie a difesa del territorio di Siracusa. Ci sono grandi interessi d’imprenditori che erano pronti a cementificare la città».
Può fare qualche esempio?
«Come primo atto dal mio insediamento a soprintendente ho approvato il perimetro del parco archeologico, includendovi anche aree sulle quali erano stati presentati piani di lottizzazione per case e alberghi a ridosso di zone d’inestimabile valore culturale. Poi mi sono sempre spesa contro un’altra lottizzazione, quella della Pillirina: un’area sulla quale volevano costruire decine di villette».
Anche sul porto storico insistono vari progetti.
«Certo, e grazie al nostro lavoro in soprintendenza erava- mo riusciti a far modificare un progetto che prevedeva la realizzazione di una piattaforma galleggiante grande quanto un campo da calcio a ridosso di Ortigia. Insomma, in città molti speculatori sapevano che avrebbero avuto un osso duro alla guida della soprintendenza».
Il governatore Crocetta della lotta alla mafia e alla corruzione ha fatto una bandiera. Lo ha mai sentito su questa vicenda?
«Sì, mi ha anche chiamata per farmi le congratulazioni dopo la sentenza di reintegro del giudice. Ma concretamente non ha mosso un dito per evitare quanto accaduto. Forse il suo obiettivo era solo far dimettere la Sgarlata. In ogni caso sapeva bene chi erano gli sponsor politici di questa operazione ed erano, anzi sono ancora, tutti nella sua maggioranza».
Cominciano le tattiche dilatorie sul Progetto Fori? Una disamina puntuale delle molte e vistose contraddizioni e ambiguità in campo. Carteinregola, 6 gennaio 2015 (m.p.g.)
Sul quotidiano La Repubblica di oggi, il Presidente della “Commissione Paritetica per l’elaborazione di uno studio per un Piano strategico per la sistemazione e lo sviluppo dell’Area Archeologica Centrale di Roma” Giuliano Volpe, risponde all’intervista rilasciata dall’assessore Caudo sempre a Repubblica il 3 gennaio sulla volontà dell’amministrazione Marino di portare avanti il Progetto Fori con il ripristino della continuità dei Fori smantellando la strada costruita all’inizio degli anni ’30 da Mussolini. In realtà, nonostante l’annuncio, il titolo e il sommario dell’articolo anticipino che “il Mibact “boccia” Caudo: impossibile smantellare via dei Fori Imperiali“, le dichiarazioni di Volpe sono in realtà un capolavoro di “svicolamento” davanti alle domande, inutilmente incalzanti, del giornalista Boccacci.
Eccole:
1) “Qual è il giudizio sul progetto [del Campidoglio, confermato da Caudo nell’intervista a Repubblica]?"
2) “Il Campidoglio è favorevole allo smantellamento…e voi”?
3/4) “Che proponete?… Che cosa bisognerebbe aspettare?”
5) “…Che manca per realizzare un sogno coltivato ormai da tre decenni?”
6) "…La commissione è divisa…Adriano La Regina è favorevole allo smantellamento, con una posizione opposta a quella degli altri componenti…”
Ed ecco le risposte, rispetto allo smantellamento di Via dei Fori Imperiali, che non arrivano a nessuna conclusione chiara (tantomeno a un “no” deciso):
1) L’assessore Caudo [che nell’intervista ha definito “contraddittoria” la posizione della Commissione sulla rimozione della strada aggiungendo che restituisce posizioni diverse NDR] “su questo punto ha frainteso i contenuti della relazione”
2) La commissione ha sottolineato che “Via dei Fori Imperiali …è ormai parte integrante del paesaggio urbano… svolge una funzione di collegamento essenziale nella città"
3/4) “Abbiamo proposto una soluzione progressiva…un sostanziale miglioramento della situazione dell’attuale strada”… “E soprattutto un progetto organico…”
5) “C’è un problema tecnico che riguarda i livelli degli scavi, molto inferiori a quello della strada [sic!]” “la commissione ha proposto di proseguire sulla via dello studio e della progettazione di soluzioni innovative…“
6) “La Regina ha condiviso l’intera impostazione… solo sul punto della conservazione del tracciato strada c’è stata una posizione differente…”[il punto centrale del Progetto Fori NDR] e “più sui tempi che sugli obiettivi da raggiungere”…
L’unica cosa che ci sembra chiara, in realtà, è che nessuno ha il coraggio di realizzare davvero il progetto di Cederna, Argan e Petroselli, ma neanche di dire che il progetto di Cederna, Argan e Petroselli non “s’ha da fare”. Quindi si fa un po’ di teatro, si adducono i “tanti problemi tecnici“, dal dislivello in su – cioè si scopre l’acqua calda alla faccia di tutti quelli che da decenni hanno lavorato a un progetto che non è più da pensare, solo da realizzare – e si chiede altro tempo per approfondire ancora. Naturalmente per passare da uno “studio” a “un progetto strategico condiviso“… senza “preconcetti“, evitando le “polemiche“, e superando “le posizioni ideologiche contrapposte“. Amen.
A questo punto la palla passa a Ignazio Marino, che deve scegliere tra la silenziosa eutanasia del progetto prospettata dalla Commissione Paritetica (e dal ministro Franceschini?) e la realizzazione del Progetto Fori che ha promesso ai suoi elettori, portato avanti dal suo assessore, ma che in realtà non è né di Marino, né di Caudo, ma di Argan, Cederna, Petroselli (Benevolo, Insolera, Calzolari, Nicolini…).
In questi tempi bui, noi cittadini guardiamo al Sindaco Marino con fiducia e timore, perché sappiamo che si trova ad un bivio. Da una parte può approfittare delle eccezionali circostanze negative per tirare fuori un coraggio eccezionale e passare alla storia (non solo con il Progetto Fori). Dall’altra può scivolare più o meno consapevolmente nel solito opportunismo all’italiana, che prevede virtuose dichiarazioni d’intenti, che non passano mai ai fatti, mentre tutto continua come prima.
Ma in questo caso, il destino della Capitale sarebbe segnato: una lenta agonia, che forse è cominciata proprio quando si è persa la capacità di credere a progetti che pensavano in grande. In grande per l’ambizione del cambiamento e per il coinvolgimento di tutti e di tutta la città.
Riferimenti
Abbiamo pubblicato recentemente su eddyburg l'intervista all'assessore Giovanni Caudo, e un ampio servizio di Annamaria Bianchi. Altro materiale lo trovate nelle cartelle dedicate a Roma nel vecchio e nel nuovo archivio di eddyburg-
Il “Progetto Fori”, che prevede la realizzazione del più grande parco archeologico del mondo, che da Piazza Venezia si estenderebbe fino ai Castelli, è uno dei punti più importanti del programma elettorale di Ignazio Marino (1). Quest’estate il Sindaco e il Ministro Franceschini hanno nominato una Commissione Paritetica per “l’elaborazione di uno studio per un Piano strategico per la sistemazione e lo sviluppo dell’Area Archeologica Centrale di Roma”, che in questi giorni ha consegnato una relazione in cui lascia nell’ambiguità il previsto smantellamento della Via dei Fori Imperiali. Ma in un’intervista a Repubblica del 3 gennaio, l’Assessore alla Rigenerazione Urbana Giovanni Caudo assicura che il Comune andrà avanti con il Progetto, come promesso dal Sindaco Marino: «Bisogna rimuovere via dei Fori imperiali fino a largo Corrado Ricci» per «ricostituire l’integrità degli spazi dei Fori, assicurando la continuità fra Mercati Traianei, Foro di Traiano, Foro di Augusto, Foro di Nerva, fino al Foro della Pace voluto da Vespasiano». «Un progetto che accetta la sfida dell’innovazione e della sperimentazione per disegnare i percorsi, anche a quote archeologiche, tra piazza Venezia e largo Corrado Ricci» e che si allunga da via dei Cerchi fino al Giardino degli Aranci e oltre: «Una passeggiata unica al mondo, una esperienza urbana senza pari che restituirebbe un senso di cittadinanza a chiunque l’attraversi»(2).
Per la Roma di oggi e di domani, la fruizione collettiva dei beni culturali e ambientali può essere ritenuta un elemento peculiare della dimensione pubblica, attraverso la quale rafforzare l’idea stessa di cittadinanza: i beni culturali e ambientali devono essere “vissuti” non devono essere percepiti come “estranei” e non devono essere recintati. Per questo, ci impegniamo a fare di questo luogo magnifico e unico un luogo vissuto da tutti, il cuore del futuro della città.
(da “Roma è vita” programma di Ignazio Marino Sindaco) (1)
In questi tempi bui, in una Capitale che si è scoperta sprofondata nella mafia e nella corruzione, dove la gente deve fare i conti ogni giorno con una crisi economica di cui non si vede l’uscita e con l’inadeguatezza dei servizi necessari a una vita decente (trasporti efficienti, strade sicure, spazi pubblici decorosi, servizi sociali garantiti), parlare del Progetto Fori può sembrare un lusso. Anzi peggio: un esercizio di stile per intellettuali che continuano a ignorare il malessere generalizzato che ha già cominciato a tracimare. Ma invece proprio il Progetto Fori può diventare il simbolo della determinazione della città a uscire dal pantano, a non dare per scontato un destino segnato da menefreghismo-speculazione-malaffare e a ritrovare la rotta verso la propria identità più autentica.
Un’identità con radici che affondano dall’antichità fino alla storia recente, quando un vasto fronte di entusiasti illuminati (3) capisce che una scelta come quella di restituire i Fori alla loro interezza e alla città può diventare l’inizio di un nuovo mondo. Una scelta forte, intensa, ma anche difficile, che può essere strumentalizzata e resa impopolare. E che forse per questo ha rallentato il coraggio di chi aveva promesso in campagna elettorale di “cambiare tutto”. Infatti quest’estate la valutazione dell’intero progetto, già in fase di elaborazione e presentato nel corso di un convegno nel marzo del 2014 (4), viene affidata a una Commissione di “esperti”. Che si riuniscono, “audiscono”, relazionano: il documento consegnato nei giorni scorsi (5) è un’accurata disamina che più che uno strumento per andare avanti sembra l’ennesima pietra tombale cartacea su un progetto che aspetta di essere realizzato da decenni.
Nella relazione (6) la Commissione Paritetica lamenta il «ridotto tempo a disposizione (meno di quattro mesi) per affrontare un tema di enorme complessità, con il quale si sono confrontate varie Commissioni, progettisti, studiosi, associazioni, da oltre un trentennio». Appunto, diremmo noi. Invece i membri chiedono un altro mandato, in cui sia reso “permanente” l'”organismo paritetico” e gli sia affidato un lavoro ancora più importante: non solo l'”approfondimento dei vari temi affrontati” e la “verifica della fattibilità (in termini di tempi, costi, procedure, etc.) di una serie di progetti proposti” , ma anche “un’opportuna azione di monitoraggio” e il “coordinamento dei vari soggetti (istituzionali e non, pubblici e/o privati) che a diverso titolo saranno impegnati a svolgere le attività…“. In proposito ci chiediamo perchè debba essere tale Commissione nominata da Sindaco e Ministro a occuparsi di un progetto che sarebbe del tutto naturale fosse gestito dai vari soggetti istituzionali preposti. E anche in quale veste tale Commissione dovrebbe svolgere un’azione di “coordinamento”, anche “tra soggetti pubblici e privati”.
E soprattutto non possiamo non rilevare che mentre si invocano maggiori approfondimenti e l’inevitabile allungamento dei tempi per il Progetto Fori, l’idea avanzata poche settimane fa - con un tweet - di coprire l’arena del Colosseo sta facendo passi da gigante, inducendoci a pensare che anche per i beni culturali si riservi la corsia preferenziale a quelle iniziative che possono garantire “ritorni economici”. Infatti in questo caso la Commissione Paritetica si esprime subito favorevolmente, anche per la possibilità di ospitare “iniziative culturali compatibili con la corretta conservazione del monumento“(7). Cioè utilizzare il nuovo spazio ricavato nella suggestiva cornice dell’Anfiteatro Flavio per spettacoli ed eventi, comprese le kermesse commerciali per lanciare ogni sorta di prodotto (come è già accaduto per il Ponte Vecchio a Firenze usato come passerella dalla Ferrari (8). Ed è di questi giorni la notizia – di scala diversa ma emblematica della visione sempre più mercificata di ogni frammento urbano – dell’intenzione del neo assessore ai Lavori Pubblici Maurizio Pucci di utilizzare i sampietrini eliminati dal rifacimento di alcune strade per “fare cassa” (9)
Se non riusciremo a capire che su questioni come queste si sta giocando una partita importante per tutti, non solo per gli accademici e per gli appassionati di archeologia, abbandoneremo la città alla sua lenta agonia. Perchè su queste scelte si fronteggiano due mondi: il mondo di chi pensa che la nostra storia e la nostra città facciano parte di noi e che debbano essere trattate con rispetto e dignità, e il mondo di chi le considera merci, riducendole a mera risorsa economica da sfruttare.
Ricostruire la grande area archeologica dai Fori all’Appia Antica, dove la gente possa andare per restare, per camminare, per scoprire, dove il tempo possa rallentare e si possa respirare la bellezza della città vuol dire ritrovare un modo diverso di vivere. Riportare alla luce nel centro della città il suo cuore antico e aprirgli un varco che segue la sua storia, restituire uno spazio che non esiste e che non ha uguali nel mondo, vuol dire ridare ai cittadini romani una città nuova. Riportare le persone a vivere il centro e rimettere le persone al centro della città.
Osservatorio Urbano Territoriale - Vicenza, 3 gennaio 2014 (m.p.r.)
giusto vent’anni fa, nel 1994, l’UNESCO iscriveva la città di Vicenza, luogo nel quale si conservano le opere più note del Palladio, nella Lista del Patrimonio Mondiale (Vicenza City of Palladio 712 C “i” e “ii”). Com’è noto, nel 1996, il riconoscimento è stato esteso a tutto il complesso delle ville progettate da Palladio e disseminate nel territorio del Veneto (sono venticinque), dando particolare rilievo a quelle ubicate nella provincia di Vicenza (sedici).
Molti cittadini, direttamente impegnati e non in associazioni per la tutela del paesaggio culturale, del patrimonio naturale e ambientale, ritengono che il grande valore di questo patrimonio culturale non sia stato adeguatamente promosso se non in quanto fruttuoso catalizzatore turistico imperniato sulla capacità attrattiva delle singole opere palladiane (la Basilica, Palazzo Chiericati, Palazzo Barbaran da Porto, il Teatro Olimpico, la Villa La Rotonda, tra le tante) quasi sempre isolate (estraniate) dal loro contesto.
In particolare nulla di specifico è stato messo in campo al fine di conservare il paesaggio e l’ambiente a ridosso del centro storico di Vicenza, intimamente legati alla genesi e alla ragion d’essere di questi straordinari monumenti. Un paesaggio culturale che, citando gli stessi scritti di Palladio, ha rappresentato la fonte privilegiata della sua straordinaria ispirazione e che, malgrado i pesanti cambiamenti imposti dallo sviluppo economico ed edilizio più recente, è riuscito ad arrivare a noi ancora ricco di evocativa bellezza.
Lo scorso mese di agosto (12/08) ho fatto pervenire alla vostra attenzione una lettera nella quale esprimevo tutta la preoccupazione, mia e di molti concittadini, per gli effetti devastanti provocati al paesaggio palladiano dal completamento di un imponente quartiere multifunzionale, costruito su una piccola e fragilissima lingua di terra circondata dai due fiumi che attraversano la città, il Bacchiglione e il Retrone, e posta all’imbocco del centro storico. L’insediamento edilizio sorto per ospitare funzioni direzionali, commerciali e residenziali si trova a poche centinaia di metri dalla Villa La Rotonda, opera simbolo della produzione architettonica palladiana, a ridosso della Villa Valmarana ai Nani, meravigliosamente affrescata dal Tiepolo, e ancora, a un passo dalle rinomate Scalette di Monte Berico che rappresentano lo scenografico accesso da sud alla dolce collina che domina la città.
A distanza di pochi giorni (21/08) ho ricevuto una cortese e rassicurante risposta da parte della dott.ssa Totcharova, ma da allora non ho avuto più alcuna notizia. Per quanto mi è dato sapere, nessun atto è stato compiuto per sanzionare l’immenso danno, quasi certamente irrimediabile, arrecato al patrimonio culturale mondiale, esito di due atti amministrativi (varianti agli strumenti urbanistici) approvati dall’Amministrazione comunale nel 2004 e nel 2009. Conseguenza di queste scellerate decisioni, è stata la cancellazione dell’originaria bellezza di questo pezzo di paesaggio, la distruzione di un patrimonio culturale che, secondo i dettami della convenzione internazionale sottoscritta dall’Amministrazione comunale di Vicenza all’epoca del riconoscimento e continuamente rinnovata, non solo avrebbe dovuto essere tutelato, ma anzi potenziato. Un gesto irresponsabile e arrogante che ha cancellato in modo definitivo la vista alla collina da sud, alterando, contestualmente, quella verso il centro storico.
Ora, come se ciò non bastasse, un’altra follia sta per segnare in modo indelebile il destino del patrimonio culturale mondiale legato all’opera palladiana. Ciò che appare ancora più grave è che alcune scelte urbanistiche devastanti per il nostro territorio stanno per essere assunte senza che i cittadini possano in alcun modo discutere e ragionare pubblicamente ed esprimersi su quanto si va proponendo, avendo elementi certi per poter capire se tutto ciò è necessario e utile alla comunità locale.
Nei prossimi giorni (08/01) l’Amministrazione comunale si appresta ad approvare lo studio di fattibilità relativo al potenziamento della linea ferroviaria AV/AC che collega Verona a Venezia (si veda http://www.comune.vicenza.it/uffici/dipterr/mobilita/tav/). Il progetto, presentato con un pesante corredo infrastrutturale richiesto espressamente dall’Amministrazione comunale, stravolgerà il sistema urbanistico della città intaccando tanto il centro storico quanto le aree immediatamente attigue (le importanti aree tampone) grazie alla realizzazione di un gran numero di opere complementari.
L’opera che preoccupa tutti maggiormente è un lungo tunnel (14 metri di ampiezza, 17 di altezza e 1.150 di lunghezza) che attraverserà la collina di Monte Berico da ovest a est. In particolare, lo sbocco a est del tunnel è stato collocato proprio sotto la Villa Valmarana ai Nani (quindi a poche centinaia di metri dalla Villa La Rotonda) per farlo poi proseguire oltre il fiume Bacchiglione grazie ad un nuovo ponte di servizio a cui ne sarà affiancato un secondo, con la funzione di convogliare il traffico proveniente da sud. E’ evidente che il tunnel, oltre ad arrecare i danni ai capolavori d’arte e d’architettura appena citati, comprometterà per sempre la bellezza del paesaggio rurale di frangia che circonda la città creando, allo stesso tempo, fortissimi disagi ai quartieri residenziali posti a sud.
Per tutte queste ragioni, sono a chiedervi un deciso intervento di approfondimento che possa costituire un segnale di speranza per i cittadini di Vicenza i quali, per le ragioni sopra addotte, vivono un forte senso di frustrazione e di impotenza essendo sempre più convinti che la gran parte delle istituzioni internazionali sono realtà astratte, incapaci di sostenere le comunità nel loro impegno per la tutela del patrimonio culturale e per la qualità paesaggistica e ambientale delle realtà locali.
Vi sarò molto grata per l’attenzione che porrete a questa mia segnalazione. Conto di avere notizie al più presto.
Con sincera cordialità,
Francesca Leder
University of Ferrara
Committee Member of OUT Osservatorio urbano territoriale - Vicenza
Dopo il parere del tavolo degli esperti l'assessore Caudo (intervistato da Paolo Boccacci) pronto a abbattere la strada del Ventennio. Finalmente parole chiare e la promessa di riprendere il progetto Fori, realizzando la visione di Antonio Cederna e proseguendo il lavoro di Luigi Petroselli. La Repubblica online, 3 gennaio 2015
La Repubblica, 2 gennaio 2015 (m.p.r.)
C’era una volta il paesaggio palladiano. Ora, appena fuori dal centro storico di Vicenza, sotto Monte Berico, che di quel paesaggio è un emblema, dovrebbe essere aperto un tunnel. Ha forma ovoidale, è lungo poco meno di un chilometro e mezzo, alto sedici metri, largo quattordici. È diviso in due sezioni, quella superiore servirà per le auto, quella inferiore ospiterà un canale scolmatore che, in caso di piena, agevolerà il deflusso delle acque dal fiume Retrone. Tutt’intorno le strade verranno ridisegnate e sarà costruito un ponte. A questo frastuono di opere pubbliche dovranno adattarsi la Rotonda e la Villa Valmarana “Ai nani”. La Rotonda è il capolavoro di Andrea Palladio (1566), modello di architetture fino a tutto l’Ottocento, ed è a qualche centinaio di metri dall’imboccatura del tunnel. La Villa “Ai Nani”, completata nei primi decenni del Settecento, affrescata dai due Tiepolo, Giambattista e Giandomenico, è proprio sopra l’uscita del tunnel.
La Repubblica online, blog "Articolo 9", 30 dicembre 2014
L'assessore alla cultura del Comune di Roma ha scritto al ministro responsabile del patrimonio culturale che se l'idea di usare il Colosseo come location per spettacoli fosse confermata, «non esiterebbe a valersi dei regolamenti e delle leggi per deprecare un tanto danno e un tanto pericolo». Ma il ministro, prendendo la parola in Senato, ha assicurato che «comunque, in un modo o in un altro, sarà provveduto affinchè, in omaggio al pubblico sentimento, non abbiano luogo nell'anfiteatro Flavio rappresentazioni musicali e drammatiche». Ottimo finale: perché in effetti il Colosseo è un monumento in sé, non ha bisogno di essere usato come contenitore di qualcosa per acquistare ai nostri occhi il diritto di continuare ad esistere.
Ottimo, se non fosse che questo lieto finale è andato in scena non ieri, ma l'anno in cui nasceva mia nonna Maria: il 1921.
Ieri, invece, un'inclita commissione nominata dall'attuale ministro preposto a ciò che rimane dello stesso patrimonio culturale, ha deciso che «quanto alla recente proposta di ricostruzione dell’arena del Colosseo, la Commissione esprime parere favorevole, nella convinzione che essa possa offrire un’ulteriore opportunità di comprensione e fruizione del monumenti, rendendo visitabili anche gli ambienti sotterranei ed ospitando iniziative culturali compatibili con la corretta conservazione del monumento». L'imbarazzante messaggio veicolato da questo stile curiale è che gli 'esperti' danno disco verde alla mercificazione della location Colosseo. A buon rendere.
E questo è il meno. L'eccelsa commissione nasceva nientemeno che per redigere «uno studio per un Piano strategico per la sistemazione e lo sviluppo dell’Area Archeologica Centrale di Roma». Ma lo studio che è saltato fuori sembra invece uno scialbo compitino: più simile a un sunto di wikipedia che a una qualunque cosa che si possa definire strategica. E il 'coraggio' che c'è voluto ad avallare la buffonata dell'arena del Colosseo è evidentemente scomparso come nebbia al sole quando la reverenda commissione si è trovata a prendere l'unica decisione importante che c'era da prendere: quella della rimozione della fascistissima, autostradale Via dei Fori Imperiali. Pazienza che questo fosse l'obiettivo di sindaci di Roma come Argan e Petroselli, e il sogno di intellettuali e urbanisti come Antonio Cederna, Italo Insolera o Vezio De Lucia: l'aulica commissione decide altrimenti (sebbene a maggioranza), preferendo rifarsi a Massimiliano Fuksas. E scusate se è poco.
E poi la chicca: se Via dei Fori Imperiali non si tocca, la Commissione vorrebbe invece demolire un pezzo di una strada rinascimentale, la Via Alessandrina. Quel che rimane si potrebbe sempre ribattezzare Via del Revisionismo.
Infine, la sullodata commissione – che candidamente si autocandida a diventare permanente: come tutte le strutture provvisorie che sorgono, più o meno abusivamente, in Italia – dispensa buoni consigli, «sentendosi come Gesù nel Tempio»: «Evitare gli opposti estremismi della contrapposizione tra tutela e valorizzazione, superando sia la finta modernizzazione che in nome di uno sviluppo senza qualità, mercifica la storia semplicemente perché non la conosce, sia certe posizioni sostanzialmente conservatrici rispetto ad ogni pur blanda proposta di innovazione». Ah, signora mia, non ci sono più le mezze stagioni: e nemmeno gli opposti estremismi di una volta.
La verità che «il principale problema per lo svolgimento dei lavori della Commissione è stato rappresentato dal ridotto tempo a disposizione (meno di quattro mesi) per affrontare un tema di enorme complessità, con il quale si sono confrontate varie Commissioni, progettisti, studiosi, associazioni, da oltre un trentennio. Lo scarso tempo a disposizione ha impedito l’approfondimento adeguato in particolare di alcuni nodi problematici di enorme complessità a partire dal tema centrale rappresentato dal destino di Via dei Fori Imperiali». Lo scrive la commissione stessa, in un accesso di lucidità: ma poi procede come se nulla fosse.
Perché non siamo mica nel 1921: quando l'assessore alla cultura del Comune di Roma si chiamava Corrado Ricci. E il ministro, Benedetto Croce.
La sacrosanta protesta del Comitato per la bellezza, lanciato da Vittorio Emiliani, Desideria Pasolini dall’Onda, Vezio De Lucia, Paolo Berdini, Gaia Pallottino. Si spera che altre seguiranno. 31 dicembre 2014, con postilla
Il governo Renzi ha impugnato nella seduta del 24 dicembre scorso la legge urbanistica regionale toscana approvata nel novembre scorso togliendo un appoggio sostanziale allo stesso piano regionale concordato col Ministero per i Beni culturali. L’impugnativa non è causata da un eccesso di permissività come è accaduto in passato (e come la cementificazione del Paese dimostra ovunque), ma, al contrario, perché alcune norme della legge urbanistica promossa dal presidente toscano Enrico Rossi e firmata dall’assessore all’Urbanistica Anna Marson “riguardanti l’approvazione delle previsioni urbanistiche per le medie e grandi strutture di vendita, costituiscono ostacolo alla libera concorrenza”. Inoltre le stesse violano la “competenza esclusivamente statale in materia di concorrenza di cui all’articolo 117 della Costituzione”. Analogamente succede per altre norme edilizie contenute nella legge toscana.
Insomma, se una Regione (l’unica al momento, le altre risultano più o meno latitanti) applica il Codice per il Paesaggio co-pianificando i propri assetti col Ministero per i Beni culturali, viene prontamente “punita” perché viola il sacro principio della “libera concorrenza”. In realtà la legge toscana prevede che i progetti per nuovi centri commerciali passino al vaglio di una conferenza dei servizi (Comuni, Città Metropolitana, ecc.) incaricata di valutarne l’impatto sul paesaggio e anche sull’economia della zona. Il modello “americano” (negli Usa già considerato obsoleto) dei mega-centri commerciali ha già provocato, infatti, seri danni, in più parti d’Italia cementificando paesaggi intatti, intensificando una circolazione automobilistica già pesante, svuotando di piccoli negozi borghi storici spesso abitati da persone anziane, così private di servizi alla porta di casa.
La Regione Toscana si è così resa “colpevole” di non aver rispettato le misure liberalizzatrici del governo Monti e, ancor più, quelle del decreto Sblocca Italia del governo Renzi che riducono o cancellano controlli e tutele territoriali e paesaggistiche al fine di incentivare al massimo una ripresa edilizia che i più considerano illusoria e comunque pericolosamente speculativa. Si tratta infatti di misure che cozzano in maniera frontale con la conclamata necessità di non continuare a consumare suoli liberi, agricoli o boschivi, di non procedere oltre in una impermeabilizzazione (cemento+asfalto) dei terreni che è fra le cause di fondo delle frequenti alluvioni nelle città.
La “libera concorrenza” in materia territoriale e ambientale - quella consentita dalle leggi e quella di cui l’abusivismo più sfrenato si è appropriato a danno della collettività - ha provocato disastri, ha prodotto milioni di metri quadrati di alloggi, di uffici, di capannoni vuoti, invenduti, inutilizzati. Chi si dispone a sottoporla a controlli in nome dell’interesse generale dovrebbe essere premiato, additato ad esempio. Invece succede il contrario. C’è pure un risvolto politico nella questione toscana: il governatore uscente Enrico Rossi non appartiene strettamente all’area renziana; egli, ricandidatosi alla presidenza, avrebbe portato legge urbanistica e piano paesaggistico fra le operazioni-simbolo del proprio mandato, avendo contrastato l’opposizione dei cavatori delle Apuane, dei lottizzatori della costa e non solo, degli immobiliaristi, degli speculatori sui terreni agricoli, delle imprese che vogliono forzare la coltura viticola ben al di là delle zone “vocate”, ecc. Una strategia che cozza contro quella del governo Renzi centrata al contrario sulla “liberalizzazione” e sul favore generale nei confronti dell’imprenditoria. Eppure il governo vorrebbe incrementare il turismo. Come? Imbruttendo definitivamente paesaggi straordinari che sono la prima attrattiva turistica italiana? Non si sa se il ministro competente Franceschini abbia opposto riserve ad una impugnativa oggettivamente grave, di fatto senza precedenti. Sulla quale si dovrà pronunciare nei prossimi mesi la Corte costituzionale.
Per il Comitato per la Bellezza: Vittorio Emiliani, Desideria Pasolini dall’Onda, Vezio De Lucia, Paolo Berdini, Gaia Pallottino.
Il pretesto della concorrenza è utile ai saccheggiatori del Belpaese per continuare a praticare la peggiore devastazione del territorio che l'Italia abbia mai visto. Si tratta di una concorrenza ben diversa da quella che ci hanno insegnato Adamo Smith e Luigi Einaudi: è la concorrenza spietata del grosso che mangia il piccolo, del ricco che sgranocchia il povero, del potente che rottama (o asfalta) il debole. E' la concorrenza come la vedono gli arroganti e i mascalzoni nell'Italia, e nel Primo mondo, di oggi.
Nel merito, non preoccupa troppo il vulnus alla legge urbanistica della Toscana (ne sono minacciati solo pochi articoli marginali). Preoccupano invece la sordità di persone un po' meno rozze dell'attuale Comandante che lo fiancheggiano nonché, e soprattutto, la scarsa capacità d'indignazione dei nostri compatrioti. Che aspettiamo a scendere in piazza?
Lacivettapress.it, 30 e 31Dicembre 2014 (m.p.r.)
CIRCOLARE CHOC DEL DIRIGENTE BB.CC.
GLI ATTI IN USCITA SPETTANO AL SOPRINTENDENTE
Il Dirigente Generale dei Beni Culturali, Rino Giglione, è uomo d’azione; e neppure il gravoso compito di dover assolvere a due incarichi - seppure, a quanto pare, in barba alla legge Severino - gli impedisce di mettere in atto una sua vera e propria rivoluzione nel sistema regionale dei Beni Culturali. Mentre da un lato “normalizza” la Soprintendenza di Siracusa, prima con la rimozione del Soprintendente e poi con la “rotazione” dei dirigenti… sospetti (sono difesi nientemeno che dagli ambientalisti!), dall’altro infligge un duro colpo alla già residuale autonomia tecnica delle Soprintendenze dell’isola.
Nella circolare 21, il Dirigente Generale declina la propria personale interpretazione della legge 10 del 2000 (sulla dirigenza) e della Legge Severino (di cui, si direbbe con qualche dimenticanza, è convinto assertore). Dalle pieghe di un involuto ragionamento reso nel più faticoso burocratese, una disposizione emerge chiara: l’obbligo per i Soprintendenti, da ora in avanti, e in contrasto con quanto sostenuto da tutti i suoi predecessori, di firmare gli atti in uscita non per “visto” ma per piena ed esclusiva assunzione di responsabilità, anche nel merito del contenuto tecnico dei provvedimenti.
Questione di lana caprina, si dirà; non era così anche prima? Non era indispensabile la firma del Soprintendente perché un atto in uscita assumesse rilevanza esterna? Non proprio: e la differenza non è di poco conto. Fino ad oggi, e con tanto di autorevoli circolari sull’argomento, la responsabilità del contenuto tecnico del provvedimento, e di conseguenza la firma, si attestava al dirigente dell’unità operativa competente, nella qualità di responsabile del procedimento; il “visto” del Soprintendente attestava l’attività di controllo e di coordinamento dell’ufficio, e conferiva efficacia esterna all’atto.
Quindi il Soprintendente non aveva alcuna voce in capitolo sul contenuto tecnico (per intenderci, e a titolo di esempio: il rilascio di un’autorizzazione oppure no, e le motivazioni relative)? Non del tutto. Veniva riconosciuta al Soprintendente la facoltà di sostituirsi al dirigente nella produzione del contenuto tecnico dei provvedimenti, ma solo in via eccezionale e in due casi ben definiti: inerzia o motivato dissenso. Vale a dire, qualora il dirigente non adempisse all’obbligo di emanazione di un atto di propria competenza, oppure il contenuto dell’atto non fosse condiviso dal Soprintendente nel merito tecnico. In tal caso però, si imponeva una procedura formale: un provvedimento di avocazione dell’atto, contenente le motivazioni della mancata condivisione, inviato anche al Dirigente Generale, che ne controllava la correttezza.
Quindi, ogni provvedimento era in realtà il frutto di una responsabilità condivisa e di un indispensabile confronto nel merito; e, in ogni caso, la limitazione del potere di avocazione da parte del Soprintendente costituiva una forma di garanzia dell’autonomia tecnica del dirigente, assicurando nel contempo al Soprintendente la possibilità di correzione di eventuali anomalie di funzionamento dell’ufficio.
Oggi, la situazione è diversa. L’aver accentrato nel Soprintendente tutta la responsabilità, sia tecnica che amministrativa, dell’atto decisorio gli conferisce una straordinaria autonomia rispetto al dirigente, dalle cui decisioni può discostarsi senza più la necessità di procedere ad un formale atto di avocazione. Non è, come si potrebbe pensare, una questione di tecnicismo burocratico né semplicemente una diminuzione del ruolo del dirigente di unità operativa. Di fatto, la Soprintendenza non viene più intesa come un organismo complesso, che assomma diverse specificità tecniche, e in cui la responsabilità tecnico-scientifica degli atti non può che ricadere in capo alle diverse strutture competenti per materia; di fatto, essa si trasforma in un ufficio monolitico, con un unico vertice decisorio.
Tutto, in ultima analisi, ricade e si attesta al Soprintendente. Come ai vecchi tempi, si dirà; ma allora le Soprintendenze erano tematiche (e quindi non c’era pericolo che un soprintendente architetto dovesse occuparsi di scavi archeologici o un bibliografo di restauro architettonico) e quando, soprattutto, i Soprintendenti divenivano tali per concorso; con tanto di titoli, punteggi prestabiliti e regole certe.
Oggi, il sistema di reclutamento dei vertici delle Soprintendenze, grazie alle innovazioni della legge 10 del 2000, è sotto gli occhi di tutti. Titoli e curriculum non sono più che parole vuote, e la discrezionalità che la sciagurata legge consente ha trasformato ogni giro di nomine in un’arena in cui si azzuffano politici di ogni risma, per piazzare i propri candidati. E adesso, il gioco è fatto: chi riuscirà a far insediare al vertice di una Soprintendenza il proprio uomo avrà in mano un’intera provincia. E lo stesso Soprintendente che volesse conservare una sua autonomia tecnica nei confronti della politica, dovrà affrontare in toto e da solo le conseguenze di eventuali decisioni scomode alla politica, senza potersi far forte della condivisione delle scelte con i dirigenti del suo ufficio; e sarà quindi più debole e ricattabile.
Con la mano libera sulle nomine di sole dieci persone, la politica si impadronirà definitivamente dell’intera Regione; mare compreso (e così la finiamo anche con questi medievali no alle trivellazioni nel Canale di Sicilia!)
L’avv. Salvo Salerno: “Sono tutti intercambiabili, nessuno necessario, l'unico requisito lo dà il politico. Vengono nominati senza i requisiti in dispregio di parte della legge 1. E’ un sistema drogato, vera causa dell’inefficienza amministrativa dilagante”
L'avvocato Salvo Salerno è rappresentante sindacale per la Funzione Pubblica - Area della Dirigenza della Cgil e dirigente regionale, consigliere dell'Ufficio Legislativo e Legale della Regione, fino a poche settimane fa responsabile dell'Ufficio legale dell'Azienda Foreste Demaniali.
Da tempo rappresenta una voce critica, per lo più erroneamente inascoltata, sulle problematiche di una dirigenza regionale 'infeudata' come lui la definisce, caratterizzata da una mobilità e premialità frutto del mero 'padrinaggio' politico. Risale a due anni fa un suo articolato intervento sul tema della 'delegittimazione' dei dirigenti nell'era Crocetta che si può supporre essere stato tra le cause, insieme al suo parere negativo sulla riforma Caltabellotta della forestale, per le quali ha successivamente perso l'incarico di responsabile dell'ufficio legale.
Avvocato, ci fa comprendere cosa accade alla Regione Sicilia?
La Legge 15 maggio 2000 n. 10, pur non sempre a torto indicata come la causa principale del collasso della dirigenza regionale, è stata disattesa dalla classe politica anche nelle sue previsioni più positive e strategiche. Pensiamo al Ruolo Unico (art. 6) che, in sostituzione delle vecchie tabelle professionali, ora racchiude tutti i dirigenti. In tale bacino l'Amministrazione avrebbe dovuto pescare i dirigenti da incaricare, e con cui stipulare i relativi contratti di incarico (art. 9), in una logica aperta di incontro della domanda e offerta delle prestazioni dirigenziali.
Dove si è voluto creare il black out da parte dei governi Cuffaro, Lombardo e Crocetta? Semplice! In un espediente solo apparentemente secondario e cioè nella mancata attuazione della seconda parte dell'articolo 6 che espressamente prevede che il Ruolo Unico sia "articolato in modo da garantire la necessaria specificità tecnica e/o professionale anche ai fini dell'attribuzione degli incarichi in relazione alle peculiarità delle strutture… e per promuovere la mobilità e l'interscambio professionale degli stessi [dirigenti]… tra amministrazioni…”. Niente suddivisione del Ruolo Unico in sezioni tecniche e professionali quindi, e i profitti malsani sono arrivati puntuali e copiosi per la politica.
Vuole chiarire?
Senza distinzione dei dirigenti secondo le qualità tecniche e professionali ai fini dell'attribuzione dell'incarico, succede che tutti insieme i dirigenti vadano bene per qualsiasi incarico. Salta il meccanismo selettivo dell'articolo 9 che subordina l'incarico al possesso anche del requisito professionale e nessun confronto di titoli e meriti è così più necessario per il conferimento dell'incarico. Decide solo il politico, cioè il Presidente e l'Assessore, attraverso il loro strumento diretto che è il Dirigente Generale. Capita così di vedere un geologo alla guida di un Ufficio del Contenzioso, un filosofo di quello ambientale, un legale dell'agricolo e così via. Tutti intercambiabili, nessuno necessario, l'unico requisito lo dà il politico.
Ma Crocetta in un'intervista del 6 settembre a La Repubblica si è lamentato di non poterli mandare via e di non potersi avvalere di un numero ancor maggiore di esterni!
Crocetta dimentica di dire di aver contribuito, con i suoi predecessori, a drogare il sistema. Una volta incaricato e insediato, quel dirigente acquisirebbe "sul campo" (parole dello stesso governatore) i requisiti non posseduti e pertanto, da quel momento, diventa idoneo all’incarico stesso. Così una pedagogista, neppure dipendente regionale, diventa Segretario generale della Regione, o un geometra, senza essere dirigente, diventa capo di uno dei più grossi enti regionali, e ancora un ingegnere si permette di far scrivere a un agronomo le direttive sul contenzioso, sebbene disponga di un legale, e potrei continuare. Ecco la vera causa dell’inefficienza amministrativa dilagante.
La Corte Costituzionale, con sentenza del 5 febbraio 2010 (la n° 34), ha dichiarato l'illegittimità dello spoil system dei dirigenti intermedi. Se ne tiene conto alla Regione?
No. Il particolare legame tra l'assessore, e naturalmente il gruppo politico che su di lui ha investito, e il dirigente "liberamente" nominato può far sì che quest'ultimo orienti la propria azione non più all’applicazione oggettiva della legge, secondo il principio dell'imparzialità e del servizio alla Nazione (artt. 97 e 98 della Costituzione), ma secondo altri criteri, facilmente deducibili. Anche per questo è possibile che un dirigente generale - non importa se bravo o meno -, disinteressandosi delle norme sul procedimento amministrativo o sulle procedure contrattuali, possa rimuovere come birilli i dirigenti sottordinati non funzionali all'obiettivo politico. O che a un archeologo prestigioso possa essere preferito un architetto, nella guida della Soprintendenza archeologica più importante. Naturalmente una gran mole di titoli professionali "spazzatura" è l'ulteriore conseguenza di un tale sistema drogato che così si alimenta di continuo. Perché è ovvio che il dirigente "fidato" accumula incarichi che poi spenderà nel suo curriculum per conseguire sempre nuovi incarichi. Persino l'avvio, oggi, di una procedura formalmente rigorosa e trasparente di selezione dei nuovi incarichi in base ai titoli finirebbe così per premiare proprio i dirigenti più infedeli alla Costituzione e più fedeli ai potenti di turno.
E cosa ne è stato dei dirigenti regionali "originali" entrati per concorso pubblico per esami?
Per lo più penalizzati. Oggi, per colpa della politica, il numero dei dirigenti regionali, tra puri e "spuri", è balzato al numero di quasi 1800 unità, il 95 % dei quali è parcheggiato in "terza fascia", mentre la prima fascia - quella che dovrebbe esprimere i dirigenti generali - contempla solo due unità e la seconda - che dovrebbe fare da base per la prima - ne contempla solo 42, tra cui però soggetti che non hanno mai sostenuto un concorso, che sono entrati silenziosamente provenendo da altri e diversi enti o da “particolari” enti. Risultato: tutti in terza fascia, compresi gli attuali dirigenti generali, che una sentenza recente del TAR Palermo (15/05/2014 N. 01244) ha praticamente dichiarato abusivi, proprio perché in terza fascia!
Una panoramica devastante: è possibile uscirne, trovare una scappatoia?
Intanto fare ordine partendo dalla sterilizzazione dei titoli dirigenziali formatisi grazie agli incarichi politici (incarichi commissariali, nei Gabinetti, nelle Partecipate etc.), dall'azzeramento degli attuali dirigenti generali e dalla verifica di tutte le posizioni dirigenziali di seconda e terza fascia con espulsione dalla seconda fascia dei dirigenti non entrati nella Regione grazie a un concorso pubblico per esami. In seconda fascia andrebbero quindi inseriti solo i dirigenti regionali che possano dimostrare il superamento di un concorso pubblico per esami ai ruoli di dirigente e non di funzionario. I dirigenti "scartati" potrebbero essere mantenuti in terza fascia ad esaurimento. Per loro solo la partecipazione ad un apposito concorso per esami, e non per soli titoli, dovrebbe eventualmente aprire le porte della seconda fascia.
Alla luce di questa nuova configurazione, dovrebbero poter accedere alla prima fascia solo i dirigenti di seconda fascia che possano documentare competenze, titoli e preparazione per gli incarichi apicali. Solo da qui gli incarichi di dirigente generale. Sarebbe necessaria anche la riduzione drastica dei dirigenti generali "esterni" ai soli casi di documentata indisponibilità di professionalità interne. I dirigenti generali esterni possono avere una certa utilità nel management delle società partecipate, ma se impiegati nell'amministrazione pubblica diretta, risultano spesso deleteri perché non dotati del senso della terzietà e, come tutti gli operatori privati, la loro azione risponde non alla Nazione ma all’interesse di parte, quando non anche personale.
Ovviamente a monte di questo "utopistico" sistema perfetto, sarebbe indispensabile l'istituzione di organismi veramente indipendenti di valutazione dei dirigenti e la rifondazione della ricerca e formazione di eccellenza in ambito pubblico, sostenendo enti e organi regionali che svolgono tali funzioni, quali ad esempio il CERISDI e l'OPCO, presso i quali distaccare i dirigenti regionali per sessioni seminariali e/o periodi formativi, nonché la celebrazione di nuovi concorsi pubblici per esami, una volta attuati i punti precedenti.
Ma il cosa fare è un preciso obbligo morale per una politica che voglia dirsi e ritenersi effettivamente diversa. Lei crede davvero che oggi sia possibile un cambiamento?
Si veda su eddyburg di Giuseppe Palermo Soprintendenze e tentativi di epurazione: prove generali in Sicilia?