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Pare chiudersi con un bilancio piuttosto positivo la vicenda iniziata tempo fa con la spettacolare occupazione del grattacielo lasciato in rovina da Ligresti. La Repubblica Milano, 30 aprile 2015, postilla

TREDICI piani di hotel e altri diciotto di appartamenti. Dopo sedici anni di abbandono la torre Galfa torna a vivere. Il gruppo Unipol Sai, insieme al Comune di Milano, ha presentato ieri il progetto di riqualificazione per il “grattacielo fantasma” alto 103 metri, nell’area fra il Pirellone e Palazzo Lombardia, disegnato nel 1956 dall’architetto Melchiorre Bega. Un investimento da 100 milioni di euro per recuperare i 31 piani lasciati al degrado degli inizi del Duemila e farli tornare a essere uno degli edifici simbolo dello skyline della città.

«L’incuria e l’abbandono ne avevano deturpato l’immagine, snaturandone il suo alto valore architettonico – ha detto Gian Luca Santi, direttore generale Immobiliare di Unipol Sai, proprietaria dell’immobile – . Il nostro obiettivo era riqualificarlo senza alterare la sua identità. Pensiamo di essere arrivati a una proposta valida, con un intervento di qualità con le tecnologie più avanzate anche dal punto di vista energetico». I lavori dovrebbero partire all’inizio del 2016 e la consegna è prevista entro la fine del 2017. Il nuovo progetto è curato dall’architetto Patrice Kanahm: dal piano meno uno fino al dodicesimo gli spazi saranno occupati da un nuovo albergo del gruppo Melià.

Quelli più alti avranno invece una destinazione residenziale con servizi dedicati ai futuri inquilini. E quindi aree fitness, un ristorante e box per le auto. Il tutto verrà realizzato conservando l’immagine della torre così come era stata disegnata da Bega, assicurano. «Ma con un nuovo involucro ad alta efficienza energetica – spiega Kanah - . È il primo restauro di un edificio contemporaneo, una grande sfida tecnica per restituirlo alla memoria della città, valorizzando le peculiarità originarie come la facciata a vetrata continua ». Sul retro che dà su via Campanini nascerà una nuova struttura in cristallo, una sorta di spina dorsale dove verranno posizionati tutti gli impianti, le scale di sicurezza e gli ascensori ultra veloci.

La torre si trova fra via Galvani e via Fara (il nome Galfa deriva dalle loro iniziali) e ha una superficie di circa 27mila metri quadrati. Era il 1956 quando l’imprenditore Attilio Monti chiese a Bega di progettare un grattacielo da trasformare nella sede degli uffici della sua società petrolifera Sarom. Un edificio che diventa realtà a un passo dall’area dove Gio Ponti, negli stessi anni, tirava su i 127 metri del Pirellone. Innovativo per l’epoca, con la sua struttura in cemento armato senza pilastri e ricoperto da vetri. Nel 1980 viene acquistato Banca popolare di Milano, che lo lascia definitivamente abbandona nel 2001 e lo cede nel 2006 al gruppo Fonsai, allora di proprietà della famiglia Ligresti, acquistato da Unipol nel 2012.

Uno scheletro vuoto per anni, che sempre nel 2012 viene occupato per dieci giorni dal gruppo di artisti del collettivo Macao per mettere al centro la questione degli spazi abbandonati di Milano. «La torre Galfa era diventato uno dei simboli dell’abbandono – ha detto il vicesindaco e assessore all’Urbanistica, Ada Lucia De Cesaris – .Questo progetto si inserisce nel lavoro dell’amministrazione per la rigenerazione e la riqualificazione del patrimonio esistente. È un progetto di grande delicatezza, di restauro e di continuità con tutta l’area, compatibile con il parere della zona. Penso che tutti saranno contenti».

postilla
Può piacere o no la destinazione d’uso di quei volumi, può piacere o no –esteticamente, intendo - il tipo di architettura da centri direzionali di metà ‘900, ma la vera assurdità da cui era nata la spettacolare occupazione del gruppo Macao qualche anno fa pare davvero superata, e con tutti i limiti del caso in modo positivo. C’è un edificio alto, in una zona dove tutti gli edifici sono alti (stiamo accanto al Pirellone, al nuovo Formigone, nonché al quartiere Porta Nuova, distanze di qualche decina, centinaio di metri al massimo), dove si incrociano linee multiple di trasporto collettivo, e non c’è neppure realizzazione di nuovi volumi, solo recupero di quelli esistenti. Certo, starà poi ad altre decisioni, prime fra tutte quelle sui trasporti e la gestione del traffico, a far sì che questo episodio edilizio si trasformi anche in qualità urbana, ma un piccolo passo avanti è innegabile. E certamente nel caso specifico, con una localizzazione del genere, le classiche battute che vedono sempre e comunque il male assoluto nel metro cubo (come chi parlava di “consumo di suolo” per il quartiere adiacente) paiono fuori luogo. Ma il pur benintenzionato benaltrismo avrà certamente da dire anche a questo proposito (f.b.)

Corriere della Sera Milano, 26 aprile 2015

MILANO - Il Parco nazionale dello Stelvio ha compiuto 80 anni, ma il suo futuro è rebus. Dopo lo «spezzatino», con la divisione in 3 parti (Lombardia e province autonome di Trento e Bolzano), gli ambientalisti accusano la Regione di immobilismo, perché il Pirellone non ha ancora stabilito, con una legge ad hoc, chi e come gestirà la porzione di oasi protetta che rientra nei confini lombardi.
Con lo smembramento, il 47% della superficie del Parco (61.444 ettari) è ricaduta nel territorio della nostra regione, ma Damiano Di Simine, presidente di Legambiente Lombardia, non nasconde che «ci si aspettava un atteggiamento meno notarile e contabile della Regione nelle trattative con le Province autonome», così come chiede «all’assessore regionale all’Ambiente se esista una strategia sulla protezione della natura».

Il Parco nacque il 24 aprile 1935, ma 80 anni dopo c’è stata la rivoluzione. Sulla spinta degli autonomisti altoatesini, il governo ha capovolto la sua gestione: non più unitaria ma a favore degli enti locali. Di fatto si è sancita la soppressione del Consorzio del Parco nazionale dello Stelvio, sorto nel 1993, e la nascita di un Comitato di coordinamento ed indirizzo che dovrà garantire solo la linea politica. In sostanza, la futura governance del Parco sarà in mano a Regione Lombardia e Province di Trento e Bolzano, ciascuno per la sua parte di territorio.

Adesso però rimane l’incognita lombarda: c’è un vuoto legislativo da colmare con urgenza. Anche perché finora né l’assessore regionale all’Ambiente, Claudia Maria Terzi, né il sottosegretario alla Macroregionale alpina, Ugo Parolo, hanno fatto passi concreti. «Lo smembramento del Parco dello Stelvio è da scongiurare — spiega ancora Di Simine — perché si rischia di disperdere un patrimonio di ricerche e conoscenze scientifiche sviluppati nell’arco di 80 anni, per far nascere uno “spezzatino” di aree gestite secondo criteri e norme differenti nei tre versanti, in cui l’unica cosa che appare certa è l’attenuazione delle tutele ambientali». Legambiente preme per una marcia indietro di Governo e Regione Lombardia. Intanto, le firme raccolte con la petizione online per salvare il «polmone» del Nord dallo spezzatino sono salite ieri a 51.774. Buon anniversario, dunque: ottant’anni di vita, ma i prossimi saranno decisivi per il suo futuro.

La Repubblica, 22 aprile 2015 (m.p.g.)

«Un impegno mantenuto e una scelta di civiltà: il ritorno della storia dell’arte e della musica nelle scuole», ha annunciato il ministro per i Beni culturali Dario Franceschini. Ma in questi giorni un vasto movimento di insegnanti di storia dell'arte si chiede se le cose stiano davvero così: e a leggere il disegno di legge sulla cosiddetta Buona Scuola lo scetticisimo appare del tutto fondato.

Nel testo, infatti, non si parla mai di un insegnamento curricolare di 'storia dell'arte', ma genericamente di «potenziamento delle competenze nella musica e nell'arte» e di «alfabetizzazione all'arte, alle tecniche e ai media di produzione e diffusione delle immagini». Cioè: non si studieranno Giotto e Caravaggio come si studiano Dante e Galileo, ma ci sarà una infarinatura di «immagini», fossero pure quelle dei cartelloni pubblicitari. Insomma, siamo di fronte al rischio concreto dell'ennesima espulsione del metodo critico della storia dalla scuola italiana: nell'età del presentismo non c'è spazio per la «scienza degli uomini nel tempo» (Marc Bloch), nel paese dell'esasperato storytelling politico non c'è spazio per il vitale antidoto della storia.

E c'è ancora di peggio: l'abbandono della 'storia dell'arte' come materia potrebbe essere funzionale ad un collocamento della cosiddetta 'immagine' nelle ore aggiuntive e facoltative, e ad un suo insegnamento indiscriminatamente aperto a docenti di 'materie umanistiche'. Se, alla fine, la Buona Scuola partorisse un simile mostro sarebbe davvero la fine di una qualunque educazione storica al patrimonio culturale.

I dubbi si aggravano quando si legge il documento illustrativo del governo, appropriatamente aperto da una copertina, rosa shocking, impaginata come una confezione di caramelle.
È un testo di una rozzezza culturale imbarazzante, le cui parole chiave – ripetute a mo' di mantra – sono 'creatività' e 'bellezza'. Una usurata retorica da imbonitori che annuncia di voler «formare giovani capaci di ripartire dal Made in Italy», per metterli in grado – non già di conoscere e comprendere, o magari di «amare» (come ha detto il presidente Sergio Mattarella nel suo discorso di insediamento) – ma di «valorizzare le nostre meraviglie artistiche all'interno dell'offerta turistica, anche scegliendo strade imprenditoriali». Dentro questo 'avviamento all'impresa' (anzi, alla triste rendita del petrolio d'Italia) di stampo ultraberlusconiano, c'è evidentemente poco spazio per la 'storia dell'arte'. E infatti l'entusiastico motto è: «riportiamo la creatività in classe».

Come nel caso dello Sblocca Italia, anche nella Buona Scuola non si salta coraggiosamente verso un futuro lontano, ma si riscaldano formule vecchie, logore, fallimentari. Tanto che la miglior diagnosi è quella che Giulio Carlo Argan emise nel 1972: «La storia dell'arte è materia storica e la cosiddetta classe dirigente, che la scuola dovrebbe formare, ha più bisogno di coscienza storica, che di talenti creativi. Che l'attuale ne sia sprovveduta si vede dal modo con cui ha vergognosamente dilapidato il patrimonio artistico di cui ora, affinché seguiti a farne scempi senza scrupoli e rimorsi, si progetta di sopprimere lo studio. La borghesia vuole che i suoi figli seguitino come i padri a inquinare allegramente mari e fiumi, a speculare rapacemente sul suolo delle città e delle campagne, a esportare impunemente capolavori nel baule della fuoriserie. A questo la riduzione della storia dell'arte nella scuola secondaria serve egregiamente».
Siamo sempre fermi lì: da questo punto di vista (ma, temo, non solo da questo) la Buona Scuola, oltre che sbagliata, è vecchia decrepita.

In America è lecito cedere un quadro di una collezione È quello che ha fatto il MoMA mettendo sul mercato un suo Monet In Europa si guarda a questo modello in Italia è vietato, almeno per ora Ma è giusto che un bene pubblico diventi merce di scambio?

«MI scusi, in quale sala posso trovare i Pioppi a Giverny, di Monet?», «Spiacente, signore: il quadro è stato disaccessionato. Sì, insomma: venduto». Dallo scorso gennaio, al MoMA di New York un simile dialogo non è più fantascienza: il capolavoro di Monet è stato messo all’asta dal museo, finendo in mani private per circa 15 milioni di euro. Negli Stati Uniti il deaccessioning ( politically correct per “vendita”) è sempre stato possibile (nel 2005 il Los Angeles County Museum cedette 42 quadri, tra cui un Modigliani), ma ora è praticato con crescente frequenza, e tutto lascia credere che nei prossimi anni le vendite si moltiplicheranno.

L’Associazione dei direttori dei musei americani ha stilato una policy che fissa alcuni paletti: il più importante dei quali è che il denaro ricavato dalla vendita può essere usato solo per acquistare altre opere. E quando un museo non lo rispetta, scattano sanzioni non simboliche. Nel 2014 l’Art Museum of Delaware ha venduto un bel quadro preraffaellita per ripianare parte di un debito contratto per un’espansione edilizia: l’Associazione ha disposto una sorta di embargo in forza del quale i suoi 242 musei non hanno più alcun rapporto (di ricerca o di prestiti) col museo “colpevole”. Misure forti, ma certo non capaci di fronteggiare situazioni di emergenza: come il fallimento della città di Detroit, che ha quasi provocato lo smembramento e l’intera vendita delle importanti collezioni del municipale Detroit Institute of Arts (con opere di Rembrandt o Beato Angelico). Un’apocalisse evitata a stento, grazie alla raccolta di 816 milioni di dollari (offerti da fondazioni, privati e dallo Stato del Michigan) e alla conseguente, dolorosissima, privatizzazione del museo, passato dalla proprietà della città a quella di un charitable trust. È di fronte a episodi come questi che Lee Rosenbaum (una delle più seguite opinioniste americane in materia d’arte) ha proposto, sul Wall Street Journal, di adottare una legislazione simile a quella europea: per «evitare che le collezioni vengano monetizzate per coprire i costi di esercizio o pagare i debiti».

Ma nello stesso momento alcuni musei europei abbracciano il modello di cui gli americani stessi iniziano a dubitare. Il governo inglese ha cessato di erogare fondi pubblici al Northampton Museum, reo di aver venduto una statua egiziana (per 38 milioni di euro) allo scopo di finanziare un riallestimento. Mentre in Germania è il museo pubblico di Münster a rischiare di esser privato di 400 opere (dalle pitture del senese quattrocentesco Giovanni di Paolo alle sculture di Henry Moore), a causa del fallimento di un banca appartenente al Land della Renania-Westfalia. E in Portogallo infuria da mesi una battaglia di opinione circa la possibilità che il governo metta all’asta 85 opere di Joan Miró (alcune assai importanti), anch’esse appartenenti ad una banca pubblica fallita: ed è di questi giorni la notizia che ci sarà un ennesimo pronunciamento giudiziario.

Insomma, il tema è così caldo che un artista e avvocato newyorchese, Sergio Muñoz Sarmiento, ha aperto un informatissimo e assai vigile Deaccessioning blog dove è possibile farsi un’idea delle dimensioni globali della questione. E da noi? In Italia le collezioni pubbliche sono inalienabili, ma negli ultimi anni una serie di disegni di legge ha proposto di “valorizzare” i depositi dei musei noleggiandone le opere a pagamento, e a lungo termine, a musei stranieri o a privati. E considerando che la “valorizzazione” degli immobili pubblici praticata dall’Agenzia del Demanio contempla l’alienazione come possibilità culminante (e oggi praticatissima: anche per quelli storici e di gran pregio), la prospettiva non sarebbe rassicurante.

Negli scorsi giorni si è tenuto a Milano un convegno (promosso dalla Rics, società britannica di consulenza finanziaria e immobiliare) dal titolo esplicito: Patrimonio culturale: quanto vale? . L’ultima risposta disponibile (della Ragioneria dello Stato, 2012) indicava la cifra di 179 miliardi di euro, mentre nel 2014 la Corte dei Conti ha contestato alle agenzie internazionali di rating il non aver conteggiato, in 234 miliardi, proprio quel presunto capitale pubblico italiano.

Ma oltre al fatto che non è per nulla chiaro come si arrivi a queste cifre, è evidente che si carica una pistola solo se si inizia a pensare di poterla usare. Quando, nel 1965, Carlo Ludovico Ragghianti lanciò una iniziativa simile (gli Uffizi furono stimati 400 miliardi di lire), Roberto Longhi rispose che si stava allestendo «un volgare listino»: a ragione, visto che Ragghianti stesso era favorevole alla possibilità di vendere le opere dei musei.

Ma una simile scelta sarebbe un grave errore: in primo luogo per ragioni pratiche. Poche settimane fa un antiquario italiano ha potuto comprare ad un’asta l’unico modello noto per la Fontana di Trevi: una terracotta venduta dall’Art Museum di Seattle, che non sapeva cosa stava vendendo. Non si tratta di negligenza: la storia dell’arte è una disciplina relativamente giovane, e sono più le cose che ignoriamo di quelle che sappiamo. E conoscenza e gusto oscillano insieme: se intorno al 1880 i musei italiani si fossero disfatti delle opere “secondarie” e allora non esposte, probabilmente oggi non possederebbero un solo Caravaggio. Senza contare il tasso di corruzione italiano: facile immaginare che i soliti noti farebbero incetta di capolavori pubblici a prezzi di saldo.

Ma ci sono ragioni più profonde per avere seri dubbi circa l’orizzonte del deaccessioning. In Italia i musei non si sono formati sulle raccolte di capricciosi collezionisti, nelle quali un Monet vale (forse) un altro: essi sono invece lo specchio e il deposito estremo dell’arte e della storia di un territorio, e una rete fittissima di nessi stringe anche la più umile tela al massimo capolavoro. Ogni vendita determinerebbe dunque un vuoto, letteralmente incolmabile.

E poi l’idea che – in un mondo sempre più diseguale – i super ricchi possano gettare anche sulle pareti di un museo lo sguardo cupido che si riserva ad un supermercato di articoli di lusso, mina l’idea stessa del museo come (ultimo?) luogo libero dalla dittatura del mercato. Perché «i musei rappresentano ancora quel genere di spazio pubblico dove è bandito il consumismo sfacciato»: lo ha detto lo scrittore Jonathan Franzen. Un americano.

Appare evidente che certe trasformazioni funzionali urbane, per quanto apparentemente immateriali e temporanee, finiscano per distorcere la qualità dell’abitare, e meritino una riflessione innovativa. La Repubblica Milano, 19 aprile 2015, postilla (f.b.)
Una fiumana di gente in via Tortona è il Quarto Stato di Pellizza Da Volpedo ma un secolo dopo. Ha fame e divora panini e pavé infilandosi in ogni passaggio aperto dal design tra le vetrine e i cortili. Qui dove del resto è stato inaugurato contaminando gli altri quartieri, il Fuorisalone è entrato ormai ovunque impossessandosi dell’anima di ogni spazio disponibile. Prima il Superstudio e poi, come un virus, alimentari, parrucchieri, bar. C’è un piccolo drone bianco a due ruote che sfida i piedi dei passanti saltando, roteando, cercando attenzione. Qualcuno inevitabilmente lo pesta ma il ragazzo in maglietta nera che lo manovra in disparte da un tablet non si agita. Il robottino è indistruttibile e ha il talento del voyeur. Trasmette sullo schermo del pilota, il 28enne Andrea Cancellieri, le immagini in alta definizione della folla che lo sovrasta. «Non è un gioco, collaboro per il secondo anno con un’agenzia di eventi e quest’anno lavoriamo per un produttore americano di droni che ha affittato lo spazio qui di fronte».

Anche un passatempo può essere una professione nell’indotto di una settimana che in tutto il mondo è ormai considerata il vero Carnevale ambrosiano. Una festa prima ancora che una fiera. Gi Zu Kim, 21enne cinese da un anno a Milano, studentessa della Naba con monolocale sui Navigli, è appoggiata a un muro in zona Brera, distratta dallo schermo del cellulare mentre cerca di capire cosa andare a vedere dopo. «Non avevo compreso la città fino a quando l’anno scorso non è iniziata la Design Week, pensavo fosse un luogo perfetto per studiarci e pessimo per viverci, voglio dire, non è Barcellona. Poi mi sono fatta trascinare nelle zone dai compagni di corso milanesi, qui in Brera, oppure a Lambrate, e ne ho scoperto la bellezza fuori dagli schemi, brutale».

Proprio Lambrate, la vecchia periferia operaia, continua ad essere il distretto dove i colori di questi giorni risaltano di più, come il vestito verde e i capelli rossi della 24enne artista Marlies Van Putten, olandese. «Mai stata a Milano, fantastica la reazione della gente. Proponiamo un lavoro di scultura che invita all’interazione, temevamo fosse difficile, faticoso e invece tutti vogliono mettersi alla prova. Non mi era mai capitato». Poco lontano, sempre in via Ventura, Anselm Dahl, architetto danese con raffinato look finto amish, è in pausa panino. «È il terzo anno per me ma temo qualcosa sia cambiato. Ho sempre affittato casa qui vicino a cifre ragionevoli, quest’anno invece rischiavo di non trovare posto e sto spendendo tantissimo per una stanza che non definirei esosa». Tra Salone e Expo, gli ultimi dati dicono che l’offerta di affitti brevi sia salita del 70%, mentre la domanda del 25%, con prezzi di 160 euro al giorno per le case vicine ai quartieri del Fuorisalone, oltre i 350 euro per gli appartamenti di lusso in centro. Non è un caso che Airbnb sia stato, a Palazzo Crespi, il generoso sponsor di una delle migliori installazioni.

Durante il Fuorisalone Milano si candida forse a diventare una specie di Venezia, una città piena di turisti ma deserta di milanesi. Rimane però straordinaria la capacità del design di ridare vita a luoghi morti o dimenticati durante il resto dell’anno. Il miglior esempio sono i bagni Cobianchi di Galleria Vittorio Emanuele. Elita, che li gestirà anche durante Expo, li ha resuscitati, infilando all’ombra del Duomo uno spazio off. Mercatino, bar, concerti, after party. Lorenzo Covello, 27enne milanese uscito dal Politecnico, modifica qui sotto felpe e tshirt con una vecchia macchina per cucire. Tutti si aspettano dai giovani meraviglie con le stampanti 3D e invece in giro si sono viste molte tecnologie obsolete, persino dei telai. «Non è che abbia girato molto quest’anno e non so se sia una moda. Credo in generale che ogni novità, come le stampanti 3D, generi una reazione contraria. Non è solo una questione di nostalgia, è più un voltarsi alla ricerca delle proprie radici, comunque la ricerca di un appiglio familiare, rassicurante, più vicino alla realtà di un file digitale».


postilla
Spero di usare con sufficiente auto-ironia il temine di
pop-up gentrification per definire questo modo di trasformare anche radicalmente gli spazi urbani senza apparentemente cambiare nulla. Perché invece si inducono cambiamenti striscianti, e forse saperlo e rifletterci aiuta, ad esempio usandola, questa pop-up gentrification, e non facendosi usare. Del resto si tratta (la parola chiave Venezia usata nell’articolo dovrebbe far suonare un campanello) di fenomeni del tutto analoghi a quelli dei turismo tradizionale, o se vogliamo della movida, che però nascono da una specifica iniziativa anche pubblica, e dunque con potenzialità inedite.
Schematicamente, ci sono almeno due modi per leggere questo processo di sostituzione sociale temporanea: uno ottimista e uno sospettoso. Quello ottimista vede che non ci sono né grandi concentrazioni finanziarie e di operatori al lavoro, né quella forte compressione costante nel tempo che rendono il processo traumatico. Il quartiere si trasforma perché si stanno evolvendo il territorio, la società, l’economia, e tutto avviene attraverso piccoli gesti, stimolati dal periodico spuntare della punta dell’iceberg costituita dal “mercatino annuale del design internazionale”. L’approccio un po’ più guardingo però, osservando con un briciolo di prospettiva storica in più la cosa, nota che di sicuro sarebbe assai meglio evitare la formazione di “rendite di posizione” che forse avvantaggiano qualcuno, ma non certo la collettività, o la città più in generale. Ovvero, se è possibile organizzativamente trasformare per una settimana un quartiere misto in un distretto “pop-up”, così come si fa con certi esercizi commerciali, forse sarebbe meglio pensare a una rotazione, così da infondere nuova vita là dove essa è necessaria, magari per due o tre stagioni di seguito, e poi passare altrove. Ricordiamoci sempre che la rendita, in tutte le sue forme inclusa quella dell’immagine, ha sempre ostacolato la creatività. Per le attività creative, dovrebbe essere un problema serio (f.b.)

La Repubblica, blog "Articolo 9", 18 aprile 2015 (m.p.g.)

«È la prima volta che vengo a Pompei», dice senza reticenze Matteo Renzi. Era stato Berlusconi ad affrancare gli italiani dalla vergogna dell'ignoranza: e i due sono profondamente uniti dall'ostentato disprezzo per la conoscenza.Ma fa un certo effetto sentire una simile confessione da chi ha dedicato un'enorme parte del proprio discorso pubblico al patrimonio culturale, anzi alla cultura. Parlare di cultura porta consenso: praticare la cultura porta via tempo. E pazienza se si ammanniscono ricette per governare qualcosa di cui si ignora tutto: sarà il governo presieduto da uno che non era mai stato a Pompei a rifare l'arena del Colosseo, per adibirlo a luogo di spettacoli televisivi. C'è del metodo in questa follia.E l'aspetto peggiore della questione è che per Renzi – come per la massima parte della classe dirigente nata e cresciuta a nord di Roma – tutto il Mezzogiorno d'Italia è una terra incognita. E qui capisci che non manca solo un progetto (che non sia quello del potere personale): manca la seppur minima conoscenza del Paese che si vorrebbe governare.

La città invisibile, 15 aprile 2015

A dispetto di quanto affermano gli scomposti attacchi del partito unico delle cave e del cemento, che aggrega Forza Italia al PD, siamo dell’opinione che l’assessorato di Anna Marson lascerà di sé, in Toscana, perlomeno un “buon ricordo”: in effetti, per l’intero quinquennio 2010-2015, l’operato dell’assessore regionale all’urbanistica ha fattivamente opposto resistenza al disfacimento che da anni caratterizzava il governo del territorio toscano. Ma quale ne sarà il destino?

Ricordiamo in breve com’è andata. Una corposa percentuale di voti “di protesta” in favore di un partito (ormai defunto) radicalmente diverso dal PD ma ad esso coalizzato, impone a Rossi un personaggio “di rottura” in giunta: Anna Marson, prof di urbanistica allo IUAV, si trova così a prendere – con soddisfazione dei comitati – il posto che fu del piddìno Riccardo Conti (assessore decennale di cui sì, è serbata pessima memoria, basti rammentare l’inqualificabile campagna divulgativa dell’autostrada tirrenica). È un cambio epocale, ma su di esso grava dal primo istante l’ombra lugubre della scissione dell’assessorato contiano: le infrastrutture e i trasporti vanno a Ceccobao (sindaco di Chiusi, comune del senese distintosi allora per non aver redatto il proprio piano strutturale) che, in seguito alle indagini sul Monte dei Paschi, sarà sostituito dall’aretino Ceccarelli; alla prof restano le competenze dell’urbanistica, della pianificazione del territorio e del paesaggio.

Temi – territorio e paesaggio – al centro degli strumenti normativi che la Marson lascia in eredità alla regione: la legge regionale di governo del territorio e il piano paesaggistico.

La Legge regionale 65/2014, Norme per il governo del territorio, assumendo come non più ecologicamente e socialmente sostenibile la crescita dell’urbano, e prendendo atto della disfatta dei sindaci plenipotenziari di fronte alla bolla edilizia, blocca l’espansione urbana e concentra l’attenzione sulla cura della città e del territorio, sull’incremento delle pratiche partecipative alla definizione delle scelte di governo territoriale, sull’interdipendenza delle comunità locali nel quadro della pianificazione sovracomunale. Il contenimento del consumo delle terre fertili è garantito dall’innovativa perimetrazione delle aree urbanizzate che definisce con perentorietà città e campagna: ogni nuova edificazione residenziale al di là della “linea rossa” sarà interdetta, e ulteriori progetti per insediamenti produttivi e per grandi strutture di vendita costituiranno oggetto di verifica di conformità alle previsioni del Piano di Indirizzo Territoriale (art. 25). Attualmente, nell’anno internazionale del suolo, la legge è ferma, impugnata (proprio sull’appena citato articolo che impedirebbe la libera concorrenza commerciale) dalla direzione legislativa della presidenza del consiglio. Ne abbiamo già scritto, ma dovremo tornarci in conclusione.

Il Piano Paesaggistico nasce dalla revisione del precedente piano (firmato Conti) la cui evidente inefficacia fu stigmatizzata dal ministero dei beni culturali che, nel settore paesaggio, copianifica con la Regione: a fine 2010 se ne rende necessaria la riscrittura. Il piano del paesaggio, come prevede il Codice dei Beni Culturali, è sovraordinato alla pianificazione generale: ciò lo rende uno strumento tanto importante quanto temibile. Redatto dalle università toscane con il coordinamento scientifico di Paolo Baldeschi, il nuovo piano avrebbe potuto essere un dispositivo normativo all’avanguardia se la squadra PD-FI non ne avesse stemperato la cogenza a colpi di emendamenti e «imboscate», anche personalmente dirette all’assessore Marson, che rendevano possibile la riapertura delle cave in aree protette sopra i 1200 m, la costruzione edilizia non temporanea sugli arenili, e che rendevano opzionale la prescrittività delle “criticità” (ossia: se il PP segnala come criticità l’edificazione in aree a rischio idraulico, il comune può decidere, oppure no, di seguire la prescrizione regionale a non edificarvi). Il cosiddetto “maxiemendamento” – stilato di gran fretta, a Roma, da Rossi e dal ministro Franceschini – ha riportato il piano, approvato in maniera rocambolesca e all’ultimo tuffo, a un livello di civile qualità pianificatoria seppur abbia perso di incisività ad esempio riguardo all’escavazione industriale del marmo apuano.

Al di là degli indeboliti disposti normativi, si tratta di un atto di pianificazione che, finalmente, non contrappone ambiente a lavoro, ma interessi collettivi a interessi privati «finalizzati al profitto mascherato da occupazione e sviluppo», come afferma l’assessore. Il piano paesaggistico, costituito anche da un apparato conoscitivo ricco e articolato che potrà riversarsi nei piani strutturali, assicura perciò, in futuro, un diffuso incremento qualitativo nella pianificazione comunale. Il documento dà adito inoltre a una progettualità che crediamo sia necessario mettere a frutto localmente (e dal basso, magari) nei prossimi anni.

In entrambi gli atti – la legge e il piano – il superamento dell’idea meccanicista del territorio come supporto inerte risulta compiuto: il paradigma adottato dai due strumenti è di chiara matrice ecologista. L’attribuzione, “territorialista”, di valore culturale all’ambiente rurale è assicurata dalla definizione di «patrimonio territoriale» quale «insieme delle strutture di lunga durata prodotte dalla coevoluzione fra ambiente naturale e insediamenti umani, di cui è riconosciuto il valore per le generazioni presenti e future» (LRT 64/15, art. 3). Il richiamo alla «promozione» e alla «garanzia di riproduzione del patrimonio» e dei paesaggi regionali, quale bene comune territoriale, conferisce un’accezione genetico-evolutiva ai futuri atti di pianificazione.

All’orizzonte, tuttavia, molti sono gli ostacoli. Da una parte, un panorama legislativo nazionale avverso, che mira all’erosione degli spazi democratici nel governo del territorio: basti citare lo “Sblocca Italia” i cui contenuti deformano irrimediabilmente la materia urbanistica che peraltro la riscrittura dell’art. 117 della Costituzione trasferirà in potestà esclusiva allo Stato. Dall’altra, entra invece in gioco l’«asse Firenze-Roma» (l’ombrosa citazione è tratta dal programma elettorale di Nardella). A Roma, Renzi impedisce l’avvio della legge toscana, la prima in Italia contro il consumo di suolo, riconfermando la scelta miope di un’economia nazionale fondata sul mattone e sulla speculazione finanziaria nell’edilizia. Localmente, il partito unico del cemento mira alla privatizzazione dei beni territoriali più rari, Rossi essendo sempre meno autonomo rispetto alla Firenze-Roma e sempre più debole nelle gestione dei suoi (come è stato evidente nella questione paesaggio). E poi: il sottoattraversamento TAV di Firenze, la questione portuale e aeroportuale (l’aeroporto che scardina il progettato Parco della Piana Firenze-Prato), gli inceneritori, la geotermia, i rigassificatori, i quattro ospedali in project financing etc.

Insomma, in mezzo a questa «furia iconoclasta», cui gli assessorati della giunta Rossi (certamente quello all’ambiente) hanno dato il loro valido contributo, i prodotti del quinquennio Marson rappresentano un’importante costruzione civile e disciplinare dal carattere di eccezione; in merito alla loro applicazione o, addirittura, alla loro futura conservazione, tocca tuttavia affidarsi alla buona sorte. O perseverare nel far collettivamente pressione affinché essi restino, appunto, più di un “buon ricordo”.

Riferimenti
La città invisibile, Voci oltre il pensiero unico, è la rivista di PerUnaltracittà, Laboratorio politico - Firenze, è accessibile qui. nella sua bellissima edizione

Lo sguardo dell’architetto progettista sui nuovi quartieri faticosamente usciti dall’urbanistica del centrodestra ne coglie alcuni aspetti indubitabilmente riusciti, accantonandone però altri, che forse è meglio riprendere. Corriere della Sera Milano, 15 aprile 2015, postilla (f.b.)

Forse ci siamo. Dopo il completamento e l’inaugurazione primaverile (e dunque di buon auspicio) del parco opera d’arte nel vasto recinto del quartiere Isola, forse abbiamo trovato un’idea alternativa, contemporanea, alla città moderna del boom e post-boom. Wheatfield, il campo di grano di 50 mila metri quadrati tra i grattacieli di Porta Nuova, un’opera d’arte ambientale dell’americana Agnes Denes, praticabile all’interno lungo un sentiero sterrato in attesa della mietitura, prevista per metà di luglio, è l’ultimo tassello di un percorso intrapreso da tempo, che oggi ci appare in tutta la sua veemenza estetica. Ci siamo perché la complessità dell’impianto urbano e la ricchezza del paesaggio architettonico fanno da contraltare a un grande spazio naturale che unisce gli episodi fisici di questa imponente realizzazione immobiliare.

Il campo di grano piantato a Porta Nuova per Expo (foto F. Bottini)

Il vecchio quartiere Garibaldi-Isola, un tempo rifugio della mala romantica, si è trasformato, finalmente, ha chiuso i conti con gli infiniti rinvii, con le proposte velleitarie inutilmente avanzate in oltre mezzo secolo: ora è realtà viva, pulsante, aggregante. Via per sempre il ricordo di luna-park arrugginiti e Circhi Americani e largo a grattacieli ambientali, skyline newyorkesi che fanno da corona a memorie della socialità riformista milanese, con tanto di operazione nostalgia, con tanto di mercatini, abilità artigianali e centro socio-culturale.

Ma la sorpresa è che le differenze reggono bene, dialogano, si compenetrano. Berlino, Amsterdam o Marsiglia, ma anche tanta creatività tutta italiana. Sarà la nascita di un «luogo» nuovo? Questo lo sapremo più avanti ma è probabile che tra molte socialità dialettiche, senza pregiudizi (movide notturne, locali alla moda e campi da coltivare a grano), la città finalmente cominci a manifestarsi come fenomeno contemporaneo alla ricerca di una nuova identità originale. Ora non serve cercare paternità multiple, il risultato è molto più importante della somma delle parti. Una specie di percezione sociale condivisa.

Più che un modello apparentemente confuso, può essere definito contraddittorio nel significato più ampio e ricco che possiamo dare al termine. Alla fine un’idea di città la stiamo costruendo e uso volutamente il «noi» perché la città è fatta anche dal godimento della bellezza che può regalare ai suoi consapevoli abitatori, e ogni individuo può partecipare alla crescita e alla salvaguardia di un modello evoluto di comunità.

postilla
Leggendo delle varie reazioni di critici ed ex critici ai risultati “a regime” del primo dei grandi quartieri prodotti dall’urbanistica joint-venture inaugurata da Maurizio Lupi, anche grazie ad alcuni sviluppi (e a Expo) contingenti entrato molto in fretta a far parte dell’immaginario metropolitano, bisogna quantomeno ammettere una cosa: molti dei timori e dei sospetti che circondavano il progetto e i cantieri, paiono evaporati come neve al sole, di fronte alla vera e propria invasione di cittadini nei nuovi spazi, che si sono imposti sia come meta, sia nell’immaginario collettivo, metropolitano e non. Detto questo, ovvero riconosciuto che l’aria della città rende un po’ più liberi anche coloro che liberi non sono proprio, tocca ricordare che quel titolo scelto dall’Autore dell’articolo, “Città Condivisa”, pare proprio fuori luogo per uno spazio urbanisticamente e funzionalmente vetusto, la cui unitarietà è del tutto delegata proprio a questi ottimisti flussi di popolazione, e la cui vitalità interna tuttora inesistente, con gli edifici sconsolatamente vuoti. E non aiutano a ben vedere, né l’impianto automobilistico anni ’60 in epoche di trionfo della mobilità dolce, né quella concentrazione terziaria fantozziana, proprio mentre le nuove forme di telelavoro e indifferenza localizzativa dovrebbero iniziare ad uscire dalle sale dei convegni. Insomma, se la città è dei cittadini, magari non bisognerebbe costringerli ogni volta a riconquistarsela assaltandola coi forconi, magari virtuali, come di fatto succede ancora oggi sotto le curtain wall e cascate di verde griffate di Porta Nuova (f.b.)

Il manifesto, 15 aprile 2015

L’Italia è un paese dove non si smette mai di stu­pirsi. In bene, in male. Oppure, più sem­pli­ce­mente, per la sor­presa di accor­gerci all’improvviso di quanto fino a quel momento non ave­vamo nean­che sospettato. Fac­cio due esempi con­creti, che riguar­dano da vicino il mondo dell’ambiente e del ter­ri­to­rio, di cui da qual­che anno ci occupiamo.

Si tratta di Enrico Rossi, pre­si­dente della regione Toscana; e di Gra­ziano Del­rio, sot­to­se­gre­ta­rio alla pre­si­denza del con­si­glio, e ora, da pochi giorni, mini­stro delle Infra­strut­ture, al posto di quel Lupi, defe­ne­strato da una (tutto som­mato) mode­sta intercettazione.

L’uno, si dice, espo­nente della vec­chia guar­dia post­co­mu­ni­sta; l’altro, si dice, espo­nente dell’ala del Pd più vicina a Renzi. Ma que­ste dif­fe­renze, ora, ai fini del nostro discorso, con­tano poco (mi pare).

Poco tempo fa, il mani­fe­sto ha pub­bli­cato (il 2 aprile) un arti­colo, “I naza­reni della Toscana”, in cui rias­su­mevo le vicende rela­tive all’approvazione in quella regione di un fon­da­men­tale Piano pae­sag­gi­stico, con­si­de­ran­dola (ad onta di qual­che atte­nua­zione in corso d’opera) «una grande vit­to­ria». Appena qual­che giorno dopo (5 aprile), inter­viene sul mani­fe­sto Enrico Rossi, appo­si­ta­mente (si direbbe) per con­di­vi­dere que­sto punto deci­sivo: «Anch’io sono d’accordo che la sua ado­zione sia stata una grande vittoria…».

Rossi sor­vola (non a caso, pur­troppo) sul fatto che quell’adozione sia il frutto del lavoro lun­gi­mi­rante e pre­zioso della sua asses­sora all’Urbanistica, Anna Mar­son, e che in seno al Con­si­glio le oppo­si­zioni più feroci a quell’approvazione siano venute da espo­nenti del suo par­tito, il Pd, spesso coa­liz­zati con le forze di oppo­si­zione al suo governo regio­nale. Ma rico­no­sce che una parte non irri­le­vante del merito sia di quelle forze ambien­ta­li­ste, che hanno posto «al cen­tro del dibat­tito e della ‘que­stione demo­cra­tica’ i temi della par­te­ci­pa­zione, della rap­pre­sen­tanza e [addi­rit­tura] dei beni comuni».

Veniamo al secondo caso.

Gra­ziano Del­rio è mini­stro delle Infra­strut­ture da un paio di giorni. Acqui­sto in edi­cola la Repub­blica. In prima pagina uno strillo di note­voli dimen­sioni: «Del­rio: basta Grandi opere. Solo lavori utili». Sospetto che si tratti di una di quelle ampli­fi­ca­zioni gior­na­li­sti­che, che ser­vono solo a lan­ciare improv­vi­da­mente un caso. No: nell’intervista il con­cetto è ripe­tuto più volte, quasi a volerlo sot­to­li­neare, e in maniera ine­qui­voca. Per fare un solo esem­pio: «…la nostra strada [rispetto al pas­sato] è un’altra, con noi fini­sce l’era delle grandi opere e si torna a una con­ce­zione moderna. Dove le opere [non neces­sa­ria­mente grandi, come si vede] sono anche la lotta al dis­se­sto idro­geo­lo­gico, la mobi­lità urbana, le scuole».

Ohibò, che il mini­stro Del­rio si sia iscritto not­te­tempo alla Rete dei comi­tati per la difesa del ter­ri­to­rio, e io non ne abbia saputo nulla?

Il discorso sarebbe lungo, — mi pia­ce­rebbe, ad esem­pio, sapere quale senso attri­buire alla defi­ni­zione di «con­ce­zione moderna», cui Del­rio si richiama, — ma io mi pro­pongo qui di trac­ciarne solo alcuni linea­menti fondamentali.

La mia prima rea­zione, sulla base di una lunga espe­rienza, sarebbe: chiac­chiere. Tanto più che in Toscana pen­dono sulla testa degli attori poli­tici le immi­nenti ele­zioni regio­nali (31 mag­gio), e si sa che per qual­che voto in più si è dispo­sti a fare le affer­ma­zioni più sfre­nate. Pro­pongo per que­sta volta di seguire la strada opposta.

Pesano sul destino della Toscana (mi limito a que­sto ambito, che cono­sco meglio, ma non sarebbe dif­fi­cile allar­gare la ras­se­gna a una dimen­sione nazio­nale) almeno due “grandi opere”, da inten­dersi nel senso più clas­sico ed ese­crando del ter­mine, esat­ta­mente quello che il mini­stro Del­rio sem­bre­rebbe aver esor­ciz­zato in due parole nel corso della sua inter­vi­sta: e cioè il Sot­toat­tra­ver­sa­mento fer­ro­via­rio di Firenze e la seconda pista dell’aereoporto fio­ren­tino di Peretola.

Ambe­due distrut­tive, inu­tili, dispen­diose, fonte (come già si è dimo­strato, e meglio si potrebbe dimo­strare) di cor­ru­zione e per­sino di pesanti affa­ri­smi poli­tici. La Rete dei comi­tati per la difesa del ter­ri­to­rio pos­siede le com­pe­tenze per dimo­strare ine­qui­vo­ca­bil­mente tutto que­sto, e per­sino per indi­care, — e in molti casi ci sono, — solu­zioni alter­na­tive. E non ho alcun dub­bio che le altre Asso­cia­zioni ambien­ta­li­ste, a fianco delle quali è stata con­dotta la bat­ta­glia a soste­gno del Piano pae­sag­gi­stico, sareb­bero ben liete di appor­tare il loro con­tri­buto a un’ipotesi del genere.

Invito il mini­stro Del­rio, il pre­si­dente Rossi e, of course, il mini­stro Fran­ce­schini e il sot­to­se­gre­ta­rio ai Beni Cul­tu­rali Bor­letti Bui­toni, ad un con­fronto fac­cia a fac­cia su que­ste tema­ti­che e, più in gene­rale, su que­sto indi­rizzo di governo: natu­ral­mente pre-elettorale, per­ché que­sto gli con­fe­ri­sce un’importanza e un’autorevolezza, che in caso con­tra­rio si perderebbero.

In Toscana (come ovun­que, del resto) le tema­ti­che alter­na­tive sono altret­tanto rile­vanti di quelle due oppo­si­tive, su cui in pre­ce­denza mi sono sof­fer­mato: per esem­pio, il dis­se­sto idro­geo­lo­gico (appunto); una diversa impo­sta­zione della que­stione geo­ter­mica; le con­di­zioni del tra­sporto fer­ro­via­rio locale, che sono penose, e che il Sot­toat­tra­ver­sa­mento di Firenze peg­gio­re­rebbe ancora.

C’è mate­ria non solo per evi­tare errori cla­mo­rosi, anzi cata­stro­fici. Ma anche per ridi­se­gnare le carat­te­ri­sti­che di un diverso svi­luppo regio­nale con “opere” (non neces­sa­ria­mente “grandi”) avve­dute, sen­sate e lungimiranti.

Se è vero, come scrive Rossi, che «al cen­tro della que­stione demo­cra­tica ci sono i temi della par­te­ci­pa­zione e dei beni comuni», è qui ed ora che lo si prova

Il Sole 24 Ore, supplemento culturale, 12 aprile 2014

Benedetto Croce chiamava i loro paesaggi “il volto amato della Patria”, ma a noi che in Abruzzo andavamo a sostenere, in pochi, i soliti pochi (Antonio Cederna, Mario Fazio, Salvatore Rea, chi scrive e qualche altro) le battaglie di Michele Cifarelli presidente del Parco Nazionale e di Franco Tassi sagace direttore, rinfacciavano di essere “amici del lupo e dell’orso, non dell’uomo”. Eppure quel Parco e l’altro del Gran Paradiso esistevano dal 1922 e li avevano voluti Croce quale ministro della Pubblica Istruzione e il sottosegretario Giovanni Rosadi. Unitamente alla legge, pure del 1922, sulle “bellezze naturali”. Il fascismo ne aveva aggiunti due: Circeo, dalla storia travagliata, e Stelvio. Poi più nulla per settant’ anni. E anche quel poco che c’era sovente a rischio. A Pescasseroli patria di don Benedetto alcuni avvocati dello Stato avevano per primi costruito residences abusivi. Il senatore Mario Spallone, aveva proposto una sorta di autostrada urbana nel Parco da intitolare all’amico Palmiro Togliatti. Di parchi regionali neppure si parlava anche se Italia Nostra presieduta dallo scrittore Giorgio Bassani e il Wwf fondato da Fulco Pratesi stavano rilanciando alla grande le aree protette.

Nell’estate del 1972 ci trovammo, sempre con Bassani, Cederna, Bernardo Rossi Doria, Paolo Ravenna alla splendida Abbazia di Pomposa per un convegno sul Parco del Delta ancora sulla carta. Lì ci fu annunciata una marcia, non proprio pacifica, degli aspiranti lottizzatori di Goro, i quali reclamavano una strada litoranea che consentisse di far proseguire i Lidi ferraresi a nord tranciando il Boscone estense della Mesola. Dovette mettersi in mezzo il presidente della Regione Guido Fanti per fermare fisicamente e politicamente il corteo. Purtroppo si riuscirono a realizzare, anni dopo, dal Polesine al Ravennate, soltanto due Parchi regionali dalla vita piuttosto mediocre. Eppure allora la spinta politica c’era se un modesto quanto appassionato artigiano, l’assessore Germano Todoli, chiuse alla caccia la storica Pineta comunale di Cervia, provocando un terremoto. “E’ tornata a cantare l’upupa”, mi annunciò un giorno emozionato. Tornata anche ad essere - come canta Eugenio Montale - ilare “nunzio di primavera”. Poi la grande crescita, negli anni ’80 e ’90, a partire dall’Aspromonte, di sempre nuovi Parchi Nazionali e regionali, i primi in specie coi ministri Ruffolo, Spini e Baratta. Fino a raggiungere quota 23, più il Parco del Gennargentu per il quale purtroppo non si è mossa foglia. Siamo così passati dalla miseria di un 3 % di territorio protetto dai Parchi Nazionali al 10,5. Circa 1 milione e mezzo di ettari. Oltre 3 milioni se sommati a parchi regionali, oasi, riserve naturali. Una quota inimmaginabile anni fa e che ha certo concorso, con questi poderosi “polmoni” di verde, a migliorare la qualità della natura e quindi della vita di tutti. Purtroppo i fondi destinati ai Parchi nazionali si sono fatti sempre più avari. Nel 2012 appena 63 milioni di euro, 42 per ettaro, 20 % in meno della media europea. Mentre soltanto di tasse lo Stato ne ricava 300 milioni, e i visitatori assommano a 34 milioni, con un giro d’affari della “economia dei parchi”, sostenibile, biologica, superiore al miliardo.

Inoltre i criteri di nomina dei responsabili degli Enti sono sempre meno tecnico-scientifici e sempre più circoscritti: ex sindaci (magari, come per le Foreste Casentinesi, mirabile parco storico-naturalistico, ex presidenti dei cacciatori), ex assessori, sostenitori di ski-lift e sciovie a tutto spiano, rappresentanti di interessi corporativi e/o localistici. Con la tendenza ad “aprire” gli stessi consigli ai rappresentanti di attività incompatibili. Si pensi alle accese polemiche dei cavatori industriali dei marmi delle Apuane contro il Piano paesaggistico appena approvato dalla Regione Toscana. Addirittura si tende a smembrare i grandi Parchi Nazionali. Ne è minacciato da anni il più antico, il Gran Paradiso, ma ancor più il Parco dello Stelvio a ottant’anni dalla sua istituzione: pochi giorni fa la Commissione dei Dodici ha deciso il trasferimento delle competenze dallo Stato alle due Province Autonome di Trento e Bolzano e alla Regione Lombardia. Tocca al governo perfezionare ora con decreto quello che la fondatrice del FAI, Giulia Maria Mozzoni Crespi, definisce “un gigantesco passo indietro, una scelta senza precedenti in Europa”. Uno “spezzatino” che già nel marzo 2011 il presidente Napolitano, va ricordato, si rifiutò di firmare.

iC’era una volta un economista molto attento ai temi ambientali. E c’erano anche - queste per la verità ci sono ancora - persone molto distratte. Per l’esperto, dunque, non era facile far comprendere - neppure ai propri studenti - l’importanza, soprattutto economica, dell’uso conservativo delle risorse naturali. Il professore, però, non si arrendeva e continuava a ripetere che “i grandi investimenti immobiliari lungo numerosi tratti delle coste sarde sono interventi irreversibili e consumano in modo definitivo e particolarmente alto la natura nella quale si situano”. Per il bene comune era troppo importante che tutti capissero come “ogni investimento effettuato per aumentare il grado di sfruttamento turistico della risorsa (strutture ricettive, per esempio) ne determini un “consumo” irreversibile, e di conseguenza la qualità ambientale, l’attrattività del suo scenario naturale diminuisca”.

In principio l’economista provò con la metafora del pastore: un esempio utile per tutta la popolazione visto che le pecore in Sardegna sono di casa da molto più tempo dei turisti. Richiamando la nota analisi di Hardin, identificò la proprietà comune di una risorsa naturale con un pascolo a disposizione delle greggi di tutti i pastori, ognuno con gli stessi diritti. E’ ovvio, ha spiegato l’economista, che tale situazione risulta sostenibile solo se le pecore consumano una quantità di erba pari al suo livello di crescita: in questo modo, non si impoverisce il pascolo e non si intacca il foraggio per il futuro. Se le greggi consumassero una misura superiore di erba, viceversa, la disponibilità diminuirebbe con un grave e irreversibile impoverimento del pascolo.

Ma perché questo dovrebbe accadere? Non dovrebbe essere nell’interesse di tutti comportarsi in modo da evitarlo? Nella risposta a questa domanda - avverte il professore - c’è l’essenza di quella che viene chiamata la “tragedia dei beni comuni”. Guardiamo la situazione con gli occhi di un singolo pastore, ha poi spiegato. Per lui portare qualche pecora in più al pascolo significa guadagnare di più, perché poche pecore trovano maggiori quantità di erba. Anche nel caso in cui il nostro pastore fosse meno egoista - ha osservato lo studioso - potrebbe comunque, convincersi che qualche altro lo sarà e quindi, tanto vale comportarsi nello stesso modo. Il pastore, dunque, aumenterà i propri benefici, creando un effetto negativo per gli altri pastori. Tale effetto negativo si chiama esternalità - ci insegna l’economista - perché i costi così provocati ricadono sugli altri e non sono pagati da chi li causa. Portando al pascolo più pecore per guadagnare di più il singolo pastore crea una situazione che da sostenibile diventa insostenibile, ma in assenza di un’autorità regolamentatrice nessuno può imputare al responsabile il costo causato da questa azione. Così ognuno verrà condotto ad agire in modo egoista, portando alla rovina collettiva: tutti aumenteranno lo sfruttamento e il pascolo sarà consumato completamente. Questo esempio, conclude l’esperto, “ha diverse applicazioni in molti campi dell’economia ambientale, compreso quello dello sviluppo turistico di una località dotata di particolari bellezze naturali e consente di individuare i meccanismi politico affaristici che spesso, in Sardegna, hanno permesso la realizzazione di interventi simili all’eccessivo sfruttamento del pascolo, in nome di una loro ipotetica (e quasi sempre del tutto ingiustificata) capacità di contribuire a risolvere il problema della disoccupazione”.

Il discorso è logico, la metafora chiarissima, eppure niente da fare, nessuno comprende, le vie Gluck si moltiplicano e tutti continuano a costruire case su case. E non lasciano l’erba. Peggio molto peggio delle pecore del pastore egoista.

Ma il professore, tenace, non si arrende e confidando in un risveglio degli intellettuali ricorda “un risultato classico dell’economia dell’ambiente [Krutilla e Fisher (1975)], non sempre” -sottolinea - “tenuto nella dovuta attenzione dalle autorità competenti in materia di sviluppo turistico”. Da tale studio emerge che “quanto più si hanno motivi per ritenere che le preferenze dei consumatori premieranno in futuro l’alta qualità ambientale del prodotto turistico, tanto più diventa necessario essere estremamente prudenti in materia di sviluppi turistici ad alto consumo irreversibile della risorsa ambientale”. Il turismo sardo degli ultimi decenni, viceversa, “basato in gran parte sulla costruzione di seconde case spesso con alto impatto paesaggistico negativo, ha ignorato troppe volte ogni ragionevole criterio basato su qualche definizione chiara e riconoscibile di sostenibilità economica. E ci sono casi in cui la miopia o un alto tasso di sconto di rendimenti futuri possono indurre allo sfruttamento eccessivo della risorsa anche imprenditori seriamente intenzionati ad associare i propri destini economici con quelli della località turistica in cui decidono di investire”.

Questa è l’ultima spiaggia, ha decretato, infine, in un saggio di successo l’economista e “l’unica soluzione è che esista una autorità riconosciuta, che sia capace di coordinare le azioni degli individui, offrendo incentivi e impartendo sanzioni per coordinare il comportamento di ognuno in modo da ottenere l’uso ottimale aggregato della risorsa”.

Questa volta il professore, seppure dopo molti anni e a prezzo di diversi piani casa, non è rimasto inascoltato. Alcuni cittadini, che nel frattempo avevano imparato la lezione, hanno avuto un sussulto e l’hanno eletto presidente della regione, riconoscendo proprio in lui l’autorità che deve garantire “l’uso ottimale aggregato della risorsa”, l’unica che possediamo. Con la nascita del politico, però, l’economista è rimasto vittima di uno strano sortilegio e ha perso completamente la memoria. Non solo. E’ stato invaso da una vera e propria smania di consumo. E ha deciso che subito, immediatamente, qui e ora, si deve consumare tutta, ma proprio tutta, quella risorsa ambientale che per anni aveva difeso in modo strenuo e disperato. Inutilmente abbiamo cercato di fargli comprendere, usando le sue stesse parole, che “il risultato delle analisi di Krutilla e Fisher è fondamentale, perché conferma che - nell’alternativa tra conservare una risorsa naturale con valore ambientale in sé o invece usarla come input di un processo produttivo che la consuma - l’incertezza sulle preferenze delle generazioni future, aumenta la possibilità che la scelta economica ottimale per l’intera società sia quella a favore della conservazione della risorsa naturale”.

E che proprio questo “è il motivo per cui imprenditori anche molto “avidi”, anche molto poco sensibili alle bellezze naturali, possono scoprire la convenienza economica di preservare la qualità della risorsa che attrae i turisti e che non è rinnovabile”.

Ancora increduli gli abbiamo ricordato di quando sosteneva che “le analisi di tipo “costi-benefici” utilizzate in Sardegna per decidere il rendimento di un investimento di sviluppo turistico hanno ignorato questo fondamentale risultato, con la conseguenza che è stata spesso data via libera a progetti che si sono dimostrati economicamente insostenibili”. Non c’è stato verso. Questi progetti “economicamente insostenibili” devono crescere fino al 25 per cento. Un quarto del volume esistente. Non solo alberghi, resort, prime, seconde e terze case, ma anche capannoni industriali e in misura minore, centri commerciali. Centinaia e centinaia di milioni di metri cubi. E poco importa se si trovano in centro storico, in area vincolata o all’interno dei 300 metri dal mare o dagli stagni. E se sono incostituzionali e contrari all’ottimo Piano Paesaggistico. Così sarà. Lo stabilisce un disegno di legge su un nuovo Piano casa che avrà durata illimitata, ed è in corso di approvazione nel Consiglio regionale.

Abbiamo cercato di fermare questa folle frenesia, ricordando la presenza di leggi europee e nazionali che impediscono la realizzazione di un numero imprecisato di interventi senza calcolare gli effetti che questi produrranno sull’ambiente. Esiste una procedura obbligatoria - valutazione ambientale strategica (VAS) - abbiamo scritto, che impone di determinare in anticipo l’impatto delle nuove opere sul territorio. Nessuno ha risposto.

E la settimana prossima milioni di metri cubi di cemento sommergeranno per sempre la nostra ultima spiaggia.

La Nuova Sardegna, 10 aprile 2015

Il piano paesaggistico della Toscana è stato approvato. Dopo uno scontro che rispecchia lecontrastanti opinioni nel PD su questi temi. In una temperie sfavorevole alla custodia di valori screditati dalla crisi, e da provvedimenti come “SbloccaItalia”. Anna Marson è l'assessore all'urbanistica che si messa in mezzo, per impedire il tiro a segno di emendamenti allo strumento frutto di un lavoro accurato. Con l'obiettivo di non disperdere la ricchezza di una regione speciale, azionista essenziale dell'iconografia italiana celebrata nel Mondo. Il paesaggio conta. E a proposito di ricchezza è normale chiedersi se senza l'armonia che distingue le campagne tra Firenze e Siena ci sarebbero ad esempio quei vini preziosi.

Ci sono analogie con la Sardegna. Anche contro il piano paesaggistico voluto dal governo Soru ci sono state e ci sono ostilità. In fondo pesa il disorientamento nel dibattito a sinistra.
In effetti, in entrambi i casi si è configurato contro il piano un blocco bipartisan. In Sardegna ciò ha provocato addirittura la caduta di Soru. In Toscana sia l'ampia mobilitazione a livello sociale e culturale che l'intervento del Mibact, hanno consentito un recupero in extremis. L'argomento pretestuosamente usato in entrambi i casi è stato quello della contrapposizione tra tutela e sviluppo, mentre anche il caso sardo - raccontato di recente nel bel libro a cura di Edoardo Salzano, «Lezioni di piano» - evidenzia con chiarezza come ciò che si intendeva perseguire bloccando l'ulteriore edificazione della costa fosse un diverso modello di sviluppo, capace di mettere in valore lo straordinario patrimonio insediativo esistente nelle aree interne.

È possibile spiegare in sintesi perché il piano della Toscana può servire a consolidare la ricchezza di una regione già molto fortunata?
Anche la Toscana condivide la situazione di crisi in cui si trova oggi l'Italia, ed è oggetto di diverse acquisizioni da parte di gruppi finanziari globali. Decidere come comunità regionale ciò che si può fare perché qualifica il paesaggio e valorizza il territorio con ricadute positive, è in questo momento fondamentale. E va fatto con le regole e con l'esempio.

Il piano è proporzionato al valore dei luoghi. Eppure nella maggioranza che amministra la Toscana sono emerse ostilità, nello sfondo l'insofferenza di una parte della sinistra ai principi del Codice dei beni culturali.
Sono sempre stata una convinta federalista, ponendo fiducia nei municipi come istituti dell'autogoverno delle comunità. La democrazia rappresentativa in questi anni si è tuttavia fortemente contratta, e in troppi casi le decisioni vengono prese senza interrogarsi pubblicamente su ciò che è utile per la comunità rispetto a ciò che interessa ad alcuni soggetti. In questa situazione l'intervento di chi si appella al principio di tutela è visto con fastidio, sia che esso venga dal basso - le associazioni ambientaliste, i comitati- sia dall'alto -il Ministero dei beni culturali e del paesaggio.

Le richieste di accomodamenti sono sembrate lontane dalla saggezza antica che ha originato il paesaggio toscano - il Buon governo negli affreschi di Ambrogio Lorenzetti - e pure dal rigore della scuola urbanistica fiorentina.
L'affresco che illustra gli effetti del Buon governo rappresenta in realtà un progetto (a fronte di pratiche che anche allora non sempre erano virtuose), una sorta di "norma figurata", diremmo noi oggi, un progetto retto dai princìpi rappresentati nell'Allegoria: Giustizia, Sapienza, Concordia, Saggezza, Magnanimità ...e così via. Il Comune di Siena è rappresentato come il Bene Comune, dunque l'essenza dell'interesse collettivo. Interrogarsi su ciò dovrebbe essere sforzo costante delle istituzioni pubbliche.

C'è chi ha pensato di influenzare il dibattito per perpetuare privilegi nello sfruttamento di risorse che dovrebbero stare fuori dal mercato. C'è il tema delle cave ma non solo.
Certo, e questo atteggiamento è stato rafforzato dalla prossimità con le elezioni. Però la CGIL si è schierata dalla parte del piano. La CGIL sulle cave si è schierata con il piano condividendo il tentativo di garantire quanto più possibile la lavorazione in loco del materiale estratto, a fronte dell'esportazione di gran parte dei blocchi grezzi. Negli ultimi decenni i rapporti tra quantità estratte e posti di lavoro sono andati divaricandosi. Il tentativo con il piano del paesaggio è stato quello di socializzare almeno parte dei guadagni, riducendo i costi ambientali e paesaggistici. La Fillea ha condiviso l'ipotesi di evitare il consumo di suolo per promuovere la riqualificazione delle aree urbanizzate con interventi capaci di coniugare una maggior qualità dell'abitare con la qualità del lavoro impiegato per realizzare le opere.

Nel PD affiorano posizioni distanti dalla cultura ambientalista. Non è una novità che nella Toscana rossa si manifestino propensioni a ridurre le tutele del territorio, penso alla speculazione Fiat-Fondiaria a Firenze impedita da Occhetto nel 1989. Ecco l'utilità di sguardi vicini e lontani che si intrecciano. In questo caso l'intervento dello Stato attraverso il Mibact è servito a contenere lo stravolgimento del piano.
L'intervento del ministro, e della sottosegretario Borletti Buitoni, è stato decisivo. Nella mia esperienza il fatto che i livelli di decisione siano diversi è fondamentale per dare corpo ai principi di adeguatezza, interesse collettivo e sussidiarietà.



Come intuiscono alcuni urbanisti, la cosiddetta crisi delle periferie deriva da distorsioni novecentesche, come quella di avere privilegiato aspetti fisici su alcuni obiettivi sociali che ne avrebbero modificato gli equilibri. La Repubblica Milano, 9 aprile 2015, postilla (f.b.)

Il modello milanese di “scuola aperta” da esportare negli istituti di tutta Italia. Con le aule dove di mattina studiano i bambini messe a disposizione la sera per incontri culturali e cineforum, le palestre che accolgono lezioni di danza e yoga, e le biblioteche che diventano un luogo di studio anche per i più grandi. Sarà ascoltato oggi alla Camera, in commissione Istruzione, Giovanni del Bene, l’ex preside del comprensivo Cadorna ora a capo dell’ufficio “Scuole aperte”, il quartier generale nato l’anno scorso a Palazzo Marino in collaborazione con l’Ufficio scolastico regionale con l’obiettivo di aiutare asili, elementari e medie a organizzarsi per trasformare i propri spazi in luoghi di incontro per la città quando gli alunni non sono in classe.

Un progetto nato nel 2012 che ora potrebbe diventare un esempio da estendere a livello nazionale. A oggi, a Milano, sono una trentina gli istituti coinvolti: oltre alla Cadorna — che ha fatto da apripista per tutti con le sue aule aperte da anni fino a tardi, anche durante le vacanze di Natale, per attività di ogni tipo — ci sono per esempio la Rinnovata Pizzigoni e la Calasanzio, la Casa del Sole e il comprensivo Mameli. «Non esiste un modello unico in questo momento — spiega Del Bene — ma l’obiettivo per tutti è diventare un punto di riferimento per la vita del quartiere». Dietro al progetto, l’assessorato al Benessere e al Tempo libero di Chiara Bisconti in collaborazione con quello all’Istruzione di Francesco Cappelli. «Abbiamo deciso di partire dal basso, andando a studiare quelle scuole che già in città sono sinonimo di apertura quasi permanente, per poi introdurre un cambiamento culturale che renda loro repli- modelli culturali in altri plessi scolastici », spiega la Bisconti in un documento che verrà letto oggi alla Camera. Fra i Comuni che hanno già manifestato interesse per seguire le orme di Milano, quello di Roma.

Per le scuole milanesi, il passo successivo è un “patto territoriale” che coinvolga i presidi delle scuole, i consigli d’istituto, le associazioni del terzo settore, e i Consigli di Zona per stabilire insieme i bisogni del singoli quartieri. «Un attore fondamentale, poi, sono i genitori — precisa Del Bene — che possono costituire associazioni legalmente riconosciute e diventare un partner privilegiato per la promozione di queste attività: in questo modo l’utenza può affiancare la scuola e creare un valore aggiunto, sia come risorsa di carattere materiale, sia come ampliamento dell’offerta formativa». Per coinvolgere gli istituti che ancora non si sono mossi, poi, il Comune pubblicherà a breve un bando che utilizza parte dei fondi ministeriali della legge 285 per la promozione dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, per aiutare le scuole elementari e medie ad aprirsi al territorio.

postilla
Come forse qualcuno si ricorderà, le scuole aperte sono una delle idee di punta del programma presentato alle primarie da sindaco di Stefano Boeri, nella cui biografia oltre ai noti progetti da archistar ci sono anche anni da redattore di “Urbanistica”, e certamente un’ottima cultura internazionale sul tema del quartiere. Cultura che in un modo o nell’altro ricorda quanto il concetto di Unità di Vicinato, alla base della conformazione fisica di gran parte delle periferie contemporanee, vede al centro (fisico, funzionale, identitario) proprio la Scuola, intesa non solo come fabbrica part time di istruzione dell’obbligo, ma vero e proprio nodo sociale, attorno al quale ruotano spazi e tempi della città. Era l’idea fondatrice delle
teorie di Clarence Perry, e speriamo che possa resuscitare, dopo tanti decenni di abbandono o quasi (f.b.)

Il manifesto, 5 aprile 2015, con postilla

Ho letto con inte­resse il recente arti­colo di Asor Rosa (I naza­reni della Toscana), che rico­strui­sce le ultime fasi d’approvazione del nostro piano del pae­sag­gio. Anch’io sono certo che la sua ado­zione sia stata una grande vit­to­ria; una scelta lun­gi­mi­rante, che ha messo al sicuro la Toscana e che rap­pre­senta un passo avanti esem­plare nella tutela dei beni cul­tu­rali e pae­sag­gi­stici, in grado di segnare la rotta per il resto del paese.

Asor Rosa inte­sta — con buoni argo­menti — una parte del suc­cesso alla pres­sione media­tica e sociale. Peti­zioni, appelli di auto­re­voli intel­let­tuali, inter­venti sulla grande stampa di asso­cia­zioni come Ita­lia Nostra, Fai, Legam­biente e altri. Tutto vero e utile. Io stesso ho rispo­sta a oltre 5mila let­tere di cit­ta­dini pre­oc­cu­pati, che chie­de­vano garan­zie e ras­si­cu­ra­zioni. Tutto que­sto ha pro­dotto un con­corso di idee e pas­sione civile che ancora una volta pone al cen­tro del dibat­tito e della «que­stione demo­cra­tica» i temi della par­te­ci­pa­zione, della rap­pre­sen­tanza e dei beni comuni.

Tut­ta­via un fatto resta indi­scu­ti­bile: siamo l’unica Regione ad aver appro­vato il piano del pae­sag­gio, in un dibat­tito a tratti aspro, ma con uno sforzo col­let­tivo capace di andare fino in fondo.
E que­sto dopo un lavoro lungo quat­tro anni, che ha visto inte­grarsi uni­ver­sità, uffici regio­nali, poli­tica e rete dei comi­tati, in un ine­dito sforzo di ricom­po­si­zione tra quelli che Gram­sci chia­mava «intel­let­tuali» e «popolo».

Ave­vamo anche il dovere di copia­ni­fi­care tutto con il Mini­stero e non ci siamo sot­tratti. Per me è stato un onore scri­vere un emen­da­mento che è stato con­di­viso dal Mini­stero e votato dal Con­si­glio regio­nale. Quello che sem­brava un cor­to­cir­cuito tra fede­ra­li­smo e cen­tra­li­smo si è rive­lato un suc­cesso isti­tu­zio­nale, rispetto al quale i retro­scena sui ’naza­reni’ e le ’lar­ghe intese’ appa­iono dav­vero irrilevanti.

Il nostro piano rap­pre­senta la con­clu­sione di un per­corso di leggi e inter­venti di governo del ter­ri­to­rio, che hanno reso la Toscana una delle regioni più pro­tette d’Europa. Leggi discusse e appro­vate nello stesso Con­si­glio ingiu­sta­mente messo in ombra dalle cro­na­che. Mi rife­ri­sco allo stop all’edificazione in tutte le aree a rischio idrau­lico, al con­sumo zero di suolo, alla ripub­bli­ciz­za­zione delle cave Apuane, alla messa in sicu­rezza del sistema idrogeologico. Piut­to­sto che «rela­zioni peri­co­lose» tra mag­gio­ranza e oppo­si­zione, nel corso dei mesi ho assi­stito a oppo­sti estre­mi­smi: quello di chi voleva con­ti­nuare ad avere le mani libere e di chi invece quello di chi voleva fre­nare ogni sviluppo.

Un pae­sag­gio che è nato da seco­lare armo­nia tra lavoro e ele­menti natu­rali, vive e si rige­nera solo nella sal­va­guar­dia di que­sta rela­zione, non nella sua scis­sione e sepa­ra­zione. D’altro canto la dia­let­tica e la sin­tesi restano a mio giu­di­zio la prin­ci­pale risorsa della poli­tica. Una Toscana imbal­sa­mata fini­rebbe per per­dere la capa­cità di eman­ci­pa­zione e avan­za­mento sociale, che viene dai distretti pro­dut­tivi, dalle reti infra­strut­tu­rali e dalla valo­riz­za­zione del capi­tale umano.

Nella nostra regione ci sono circa 200 mila disoc­cu­pati e ogni anno 6.500 ragazzi abban­do­nano gli studi. Dob­biamo costruire le con­di­zioni per incen­ti­vare oppor­tu­nità di lavoro e inve­sti­mento pro­dut­tivo. Non si può chie­dere tutto alla ren­dita immo­bi­liare o al turi­smo: sarebbe inso­ste­ni­bile anche sul piano ambien­tale. Occor­rono lavoro, for­ma­zione, ricerca e pro­du­zioni di qua­lità. Come stiamo cer­cando di fare con infra­strut­ture e boni­fi­che sulla costa, da Piom­bino a Livorno fino a Massa.

Seguo e osservo con grande inte­resse quello che accade nella sini­stra ita­liana e sono certo che la crisi dei corpi inter­medi e dei par­titi impone il dovere di allar­gare lo spet­tro della rap­pre­sen­tanza, della discus­sione e della deci­sione poli­tica. Sono grato ai comi­tati di cit­ta­dini impe­gnati da anni nelle bat­ta­glie ambien­tali e civili.

Asor Rosa ha scritto che il voto è uno stru­mento di influenza demo­cra­tica e dovrà essere usato con intel­li­genza, indi­riz­zan­dolo verso i pro­blemi e le solu­zioni con­crete. Credo che con il Piano del Pae­sag­gio anche in Toscana pos­siamo con­tri­buire alla ricom­po­si­zione delle forze pro­gres­si­ste e delle cul­ture della sini­stra. Ci sono tutte le pre­messe. Tra le molte pos­si­bi­lità anche il voto disgiunto, con­sen­tito dalle regole e dall’offerta poli­tica. Esso rap­pre­senta un’opportunità per tutti coloro che sono dispo­sti a supe­rare gli stec­cati davanti alla con­cre­tezza delle sfide.

postilla

Il presidente della Toscana ha indubbiamente svolto un ruolo di eccezionale rilievo nel «percorso di leggi e interventi di governo del ter­ri­to­rio, che hanno reso la Toscana una delle regioni più protette d’Europa», e - secondo le cronache - è stato decisivo nel condurre il piano paesaggistico fuori dalle secche in cui i rappresentanti del "partito unico del cemento" lo avevano condotto. Benché zoppicante e reso più fragile il piano é stato approvato con la sua paziente mediazione. Ha ragione di essere soddisfatto del suo lavoro. Tuttavia il suo intervento contiene una inesattezza e una forzatura. Come "persona informata dei fatti" devo fare due osservazioni. Non è esatto affermare che quello della Toscana è il primo piano paesaggistico approvato. Nel 2006 è entrato in vigore (e lo è tuttora) il piano paesaggistica della Regione Sardegna, grazie all'iniziativa e alla costante azione del suo presidente Renato Soru. Ed è secondo me una forzatura affermare che nella vicenda del piano toscano si siano manifestati due «opposti estremismi», uno dei quali sarebbe «quello di chi voleva fre­nare ogni sviluppo».
Eddyburg ha seguito con molta attenzione la vicenda, ma posizioni che volessero frenare "ogni sviluppo" non le abbiamo trovate. (e.s.)


Il manifesto, 15 marzo 2015

Le vicende che hanno por­tato in Toscana all’approvazione, quanto mai dif­fi­cile e tor­men­tata (nel penul­timo giorno utile della legi­sla­tura!) del cosid­detto Piano pae­sag­gi­stico regio­nale, meri­tano una rifles­sione che tra­va­lica i con­fini del caso spe­ci­fico e s’allarga ine­qui­vo­ca­bil­mente a una dimen­sione nazionale.

In estrema sin­tesi (quindi, anche con qual­che ine­vi­ta­bile impre­ci­sione). Il Piano pae­sag­gi­stico è lo stru­mento che disci­plina il governo del ter­ri­to­rio: pro­teg­gendo più o meno carat­teri e mor­fo­lo­gia del pae­sag­gio e dell’ambiente; disci­pli­nando in forme più o meno chiare e defi­nite il con­sumo del suolo, pro­blema dive­nuto in que­sti anni in Ita­lia dram­ma­tico, anzi, ormai sull’orlo della catastrofe.

Nel governo regio­nale toscano, a mag­gio­ranza Pd, e sotto la pre­si­denza di Enrico Rossi, l’assessorato all’urbanistica, rico­perto da Anna Mar­son, tec­nico di valore, docente nella facoltà di archi­tet­tura di Vene­zia, ha ini­ziato da subito un minu­zioso lavoro di stu­dio e di defi­ni­zione (con l’ausilio anche delle com­pe­tenze espresse dalle prin­ci­pali uni­ver­sità toscane), il quale ha por­tato più o meno nell’estate scorsa ad un testo giu­di­cato una­ni­me­mente di grande valore ed effi­ca­cia. La supre­ma­zia deci­sio­nale della Regione sulle sin­gole rap­pre­sen­tanze locali e un sistema di regole chiare e ine­lu­di­bili ne costi­tui­vano il tes­suto cul­tu­rale e politico.

In que­sta lunga fase i rap­porti fra la pre­si­denza Rossi e le istanze ambien­ta­li­ste sono state gene­ral­mente (anche se non uni­for­me­mente) buoni. La Rete dei comi­tati per la difesa del ter­ri­to­rio, che allora pre­sie­devo, ha avuto nume­rosi incon­tri con Rossi e la sua Giunta, credo con reci­proco van­tag­gio. Tutto ciò si è allen­tato, fino a scom­pa­rire del tutto, dal momento in cui Rossi si è rican­di­dato alla pre­si­denza della Regione con l’esplicito avallo di Mat­teo Renzi (ma non intendo sta­bi­lire rap­porti troppo stretti da causa ed effetto tra le varie vicende nar­rate, le quali invece, come vedremo, si pre­stano a mol­te­plici e con­trad­dit­to­rie interpretazioni).

Vengo rapi­da­mente al dun­que. Il Piano, dopo aver rice­vuto nume­rosi rico­no­sci­menti e appro­va­zioni da parte delle forze che com­pon­gono l’attuale mag­gio­ranza, entra nella fase di discus­sione con­si­liare e del voto.

Emer­gono a que­sto punto le resi­stenze più acri e sel­vagge. A parte l’ostilità delle oppo­si­zioni in Con­si­glio, Fi e altri, in qual­che modo scon­tate, gli inter­venti più distrut­tivi in mate­ria di disci­plina ambien­tale e regole e tutela del pae­sag­gio, si mani­fe­stano tra le file del Pd. In nume­rose occa­sioni Pd e Fi ragio­nano e votano in maniera sor­pren­den­te­mente identica.

Due con­ce­zioni dell’ambiente e del ter­ri­to­rio, ma ancor più, due modi d’intendere la poli­tica e la società (come ebbe a dire più tardi l’assessore Mar­son) si fron­teg­giano con dura chia­rezza: non , come pre­ten­de­reb­bero gli avver­sari del Piano, fra una “idea di svi­luppo” e “una che rifiuta lo svi­luppo”, facen­dosi carico di un impro­ba­bile ritorno all’indietro; ma fra una poli­tica sfac­cia­ta­mente anco­rata agli inte­ressi pri­vati e una che assume come pro­prio punto di rife­ri­mento gli inte­ressi col­let­tivi e i biso­gni della cit­ta­di­nanza; e dun­que, a ben vedere, tra un modello di svi­luppo ormai ste­rile e auto­di­strut­tivo e un diverso e inno­va­tivo modello di svi­luppo (che è poi ovun­que, e sem­pre di più, la vera posta in gioco dello scontro).

La bat­ta­glia è duris­sima, e a un certo punto sem­bra per­duta. Rossi, ina­spet­ta­ta­mente, la porta a Roma, dove trova un soste­gno nel Mibact, e più pre­ci­sa­mente nelle per­sone del mini­stro Fran­ce­schini e, in modo par­ti­co­lare, del sot­to­se­gre­ta­rio Bor­letti Bui­toni. Ma il Mibact non fa parte del governo di Mat­teo Renzi, i cui pasda­ran nel con­si­glio regio­nale toscano hanno azzan­nato il Piano come lupi affa­mati? Mah… sì. Evi­den­te­mente non tutto cor­ri­sponde ancora a una logica rigi­da­mente for­male (que­sta con­si­de­ra­zione deter­mi­nerà una parte delle conclusioni).

Il Piano, ferito in più punti ma non svuo­tato, viene ripor­tato in Con­si­glio regio­nale e appro­vato. Io la con­si­dero una grande vit­to­ria, e vor­rei che que­sto, nono­stante tutto, sia posto alla base del ragio­na­mento futuro.

Le con­si­de­ra­zioni che vor­rei fare sull’accaduto sono le seguenti.

La mobi­li­ta­zione a difesa del Piano è stata impo­nente. Quando tutte le asso­cia­zioni ambien­ta­li­ste, tal­volta divise da qui­squi­lie o da ragioni di ban­diera, si coa­liz­zano, com’è acca­duto pron­ta­mente que­sta volta, è dif­fi­cile per chiun­que far finta di niente. Que­sta una­ni­mità di pro­po­siti ha tra­sci­nato con sé anche la grande stampa nazio­nale, oltre che i gior­nali amici per defi­ni­zione come il mani­fe­sto. Que­sto spi­rito di coa­li­zione (per restare nel voca­bo­la­rio di que­sti giorni) andrebbe secondo me col­ti­vato sem­pre di più.

Se si mette in campo un fronte come que­sto, nes­suna bat­ta­glia ambien­ta­li­sta può esser con­si­de­rata per­duta in par­tenza. Vale per il pre­sente, ma anche per il futuro. Lo dico per i molti com­pa­gni buoni com­bat­tenti ma troppo scettici.

L’amara lezione della ser­rata discus­sione sul Piano è che il Pd toscano sem­bra per­duto a qual­siasi pos­si­bile moti­va­zione di etica ambien­ta­li­sta e ter­ri­to­riale. Non solo, infatti, sin­goli con­si­glieri regio­nali iscritti a quel par­tito si dedi­ca­vano alle furi­bonde scor­re­rie di cui abbiamo detto. Ma nes­suno degli orga­ni­smi isti­tu­zio­nali di tale par­tito è mai inter­ve­nuto, come avrebbe facil­mente potuto, per impe­dirle o almeno sedarle. Que­sto, di con­se­guenza, rap­pre­senta il prin­ci­pale pro­blema poli­tico oggi in Toscana.

Prima, durante e dopo la fase di discus­sione deli­rante, di cui abbiamo par­lato, il ruolo dell’assessore Mar­son è apparso deci­sivo. Nell’intervento pro­nun­ciato dopo il voto di appro­va­zione, Anna Mar­son ha dimo­strato di essere in grado di tra­sfe­rire la pro­pria sapienza tec­nica e disci­pli­nare in quel che lei stessa ha giu­sta­mente chia­mato un atteg­gia­mento «diver­sa­mente poli­tico». Biso­gna dire fin d’ora, con chia­rezza e one­stà intel­let­tuali e poli­ti­che, che, se l’approvazione del Piano pae­sag­gi­stico ora non è una burla, il ruolo dell’assessore all’urbanistica nella giunta regio­nale di domani, quale che essa sia, non può esser messo in discussione.

Infine. In Toscana si vota per le ele­zioni regio­nali a mag­gio. Dun­que, esi­ste un corto cir­cuito rav­vi­ci­na­tis­simo fra gli avve­ni­menti che hanno riguar­dato l’approvazione del Piano in con­si­glio regio­nale e il voto del pros­simo mag­gio. La Rete dei comi­tati non ha mai preso posi­zione a favore di que­sta o quella for­ma­zione poli­tica in sede di voto, e penso che debba con­ti­nuare a farlo (o non farlo, a seconda dei casi). Ma non riter­rei disdi­ce­vole oggi che essa esprima una pre­fe­renza di mas­sima a favore di tutte quelle for­ma­zioni che oggi si dichia­rino per i valori del ter­ri­to­rio e della sal­va­guar­dia e dello svi­luppo dei beni ambien­tali. Con­stato che c’è in giro, in Toscana, sia a livello regio­nale sia a livello locale, una buona aria di lotta e di riscatto, che va aiu­tata e confortata.

Le que­stioni ancora pen­denti sono del resto nume­rose e tal­volta sull’orlo della cata­strofe. Si pensi, per fare un esem­pio ecla­tante, alla scia­gu­rata intra­presa, per dimen­sioni ed esiti, del sot­toat­tra­ver­sa­mento fer­ro­via­rio di Firenze, risol­vi­bile in tutt’altro modo, come ormai tutti sanno, con spesa infi­ni­ta­mente minore e senza l’inevitabile debito con­tratto con la cor­ru­zione. Si voti per chi è con­tra­rio al sot­toat­tra­ver­sa­mento. O con­tro la seconda pista all’aereoporto di Firenze. O è per la ragio­ne­vole solu­zione dei pro­blemi geo­ter­mici regio­nali, ecc. ecc. ecc.

Invece di chiac­chiere, impe­gni con­creti e facil­mente indi­vi­dua­bili e defi­ni­bili. Se così acca­desse, invece di una cam­pa­gna elet­to­rale a senso unico, — come sem­pre, dall’alto verso il basso, — ce ne sarebbe una bifronte. Si voti per chi s’impegna a fare le cose che noi chie­diamo. Nes­sun impe­gno, niente voto. Così un even­tuale Piano pae­sag­gi­stico, o quant’altro di simile, cor­rerà la pros­sima volta all’approvazione trion­fal­mente, senza gli osta­coli che ora abbiamo cono­sciuto, e come avrebbe meri­tato che anche que­sta volta accadesse.

La Repubblica, Firenze, 1º aprile2015


Anche adesso che è finita, che il Piano del paesaggio è stato approvato, che la polemica si è per forza di cose un po’ attenuata, continua la guerra tra l’assessore all’urbanistica della giunta Rossi e il Pd Toscano. Sul Tirreno il consigliere regionale Ardelio Pellegrinotti accusa Anna Marson di non essere stata un buon amministratore ma soprattutto tira in ballo i costi del Piano: 1 milione e 140 mila euro, di cui 260 mila serviti per pagare «giovani ricercatori universitari ed esperti di livello».

Sul punto Pellegrinotti aveva pure presentato un’interrogazione a cui Marson ora risponde pubblicamente: «La Regione », dice, «non è mai ricorsa a consulenze esterne per il Pit. Il rapporto di collaborazione è stato instaurato con il Centro Interuniversitario di Scienze del Territorio, che grazie a un accordo tra gli atenei toscani coordinato da Firenze ha attivato 25 assegni di ricerca, quattordici borse di studio e dieci incarichi messi a concorso con bandi pubblici e quattro borse del fondo “GiovaniSì”. I docenti non hanno avuto un soldo. Del milione e 124.400 euro di costi del Piano, oltre 1 milione è andato ai ricercatori».

Oltre che per la faccenda dei soldi Marson ammette di essere «molto amareggiata e affaticata» per la reazione suscitata nel Pd dal suo ultimo intervento in consiglio regionale. «Ho detto e ripeto che mentre noi e i tanti che hanno sostenuto il Piano eravamo impegnati per il bene collettivo chi ha osteggiato il nostro lavoro era mosso da interessi privati. Non è facile approvare un piano alla vigilia di una campagna elettorale, ci sono consensi da raccogliere nei territori e io questo lo capisco».

Lei, al contrario, non vede per se stessa un orizzonte politico. «Per ora nessuno mi ha chiesto niente», confessa. «Ho il mio lavoro di insegnante a cui tornare per fortuna, un lavoro che mi piace». Con Rossi giura che il rapporto si sia chiuso bene. «Si è impegnato molto e mi ha difesa, anche se è stata dura. Io però non credo di avere nulla da rimproverarmi, al di là dei miei difetti ce l’ho messa tutta».

Intervistata da Raffaele Palumbo a Controradio ieri Marson fa un bilancio del Piano “riveduto e corretto”:« Newsweek ha scritto che rispetto alla versione originale le regole sono state “watered”, un po’ annacquate e forse è vero. Ma restano comunque regole e tra pochi giorni arriverà la validazione del ministero dei Beni culturali. E avere regole certe fa comodo a tutti, ai cittadini e agli operatori delle imprese. A questo punto dobbiamo solo monitorare come il Piano sarà applicato. Intanto ringrazio chi lo ha votato anche senza far parte della maggioranza».

A illustrazione dell'articolo di Paolo Baldeschi inseriamo la commovente lamentazione di un autorevole rappresentante del PD toscano. Questa critica da destra dell'operato di Marson ci sembra interessante perché esprime bene l'ideologia (post-berlusconiana, si potrebbe dire) di quella parte politica. Il Tirreno, 31 marzo 2015

La Marson non è stata un buon Assessore. E’ stata artefice in 5 anni di due atti importanti come la modifica della Legge 1/2005 sull’urbanistica, (ora Legge 65 del 2014) e del Piano Paesaggistico. La prima è stata in gran parte modificata e il secondo è proprio lei a riconoscerlo parzialmente. La proposta di legge sull’urbanistica, ex 1/2005 era infarcita di principi ideologici e di complicazioni tali da far impazzire tecnici comunali, professionisti e tutta la gente normale, rendendo quasi impossibili le programmazioni urbanistiche locali e la realizzazione delle cose più semplici. Solo grazie agli emendamenti presentati dal Pd e dalle minoranze in commissione, è stato possibile approvare quel testo, rendendo gestibile nella pratica quella legge, che continua ad avere difetti proprio per l’impostazione con cui era partita. Sulle attività temporanee siamo dovuti ri-intervenire con una proposta di legge di cui io sono stato il primo firmatario, per raddoppiare i tempi delle concessioni e consentire di ampliare le stagione turistica per i balneari, e per le attività turistiche in genere.

La Marson parla di imboscate sul Piano. Il sottoscritto, in rappresentanza del gruppo regionale Pd, è sempre stato sempre disponibile a discutere e trovare soluzioni ai problemi. Sono andato a Firenze di sabato e anche di domenica a cercare intese sulle modifiche con lei e il suo staff. Purtroppo però, più volte abbiamo finito le riunioni, con testi o articoli condivisi che la mattina erano stati cambiati. A domanda sul perché venivano cambiate le cose concordate, rispondevano che loro dovevano rispondere all’assessore, come non esistesse un Consiglio Regionale.
Vogliamo entrare nel merito del Piano proposto? Questo piano redatto Centro Interuniversitario di Scienze del Territorio è costato alla Regione € 1.140.000. Ha visto coinvolti giovani ricercatori universitari, ma anche esperti di alto livello che ci sono costati € 260.000. Il territorio toscano è stato suddiviso in 20 ambiti e per ognuno è stata scritta una scheda. Gran parte di queste contenevano errori (e se c’è bisogno posso fare degli esempi) che abbiamo cercato di correggere con i nostri emendamenti nati dalle osservazioni presentate.
Sono emersi divieti e incongruenze, come il divieto di costruire i depuratori negli alvei dei fiumi, l’impossibilità di costruire attività artigianali lungo le autostrade, ostacoli per i viticoltori, i vivaisti o le coltivazioni olivicole, blocco di tutte le attività temporanee dei balneari, blocco degli adeguamenti degli alberghi già esistenti vicino al mare ed infine un percorso di chiusura delle cave sulle alpi Apuane. Il nostro lavoro di Commissione è stato di togliere questi impedimenti, trasformando il Piano in un atto condivisibile, votabile e votato.
Certo, i nostri emendamenti sono andati incontro anche agli interessi di chi investe, si mette in gioco e crea lavoro. Per l’Assessore il profitto è il diavolo, l’economia è uno spiacevole disturbo, la gente che lavora crea danni a prescindere. Per noi, no. Lei vede in tutte le attività degli uomini solo criticità. L’unica attività che si salva è quella agrosilvopastorale nella valli montane, non sapendo, o facendo finta di non sapere, che ci sono leggi europee che rendono impossibile economicamente, in quelle aree, macellare una bestia, fare il formaggio o aprire un laboratorio di trasformazione alimentare. Non è stata capace di dialogare e trovare sintesi con il Consiglio Regionale, che ha cambiato le sue proposte ed ha dimostrato anche disprezzo della democrazia, non avendo avuto il coraggio di esporre il proprio pensiero durante il dibattito consiliare alla pari con gli altri, come educazione e regolamenti comandano, ma solo dopo, a bocce ferme.

Ardelio Pellegrinotti è segretario della 6ª Commissione Ambiente Regione Toscana

L'approvazione del Piano paesaggistico della Toscana è stata subita dal Pd, stretto tra l'intervento del Ministro Franceschini e dal Mibact ...>>>

L'approvazione del Piano paesaggistico della Toscana è stata subita dal Pd, stretto tra l'intervento del Ministro Franceschini e dal Mibact e l'impossibilità di sfiduciare Rossi senza bruciarne la candidatura alle prossime elezioni regionali. Che sia stata subita 'obtorto collo', lo dimostra la valanga di recriminazioni, quando non di veri e propri insulti, che hanno seguito la dichiarazione in aula di Anna Marson, (pubblicata da eddyburg). Frasi come «lei sarà solo un brutto ricordo» , o «lei vincerebbe il nobel della stupidità politica» di tal Gianluca Parrini (da non confondersi con l'omonimo Dario) la dicono lunga sull'insofferenza e il rancore che covano nelle file della maggioranza. Sulla stessa linea (anche se con meno volgarità) Dario Parrini, segretario regionale del Pd, che ha imputato all'assessore Marson «accuse infondate e scomposte». In realtà l'intervento finale dell'assessore all'Urbanistica era stato intelligente, preciso e circostanziato quando aveva accusato una parte del Pd di avere continuamente tramato tranelli e imboscate e di avere più spesso tutelato gli interessi privati (aggiungo: i più retrivi) a scapito di quelli collettivi.

Ciò che colpisce nelle - queste sì scomposte - reazioni degli esponenti Pd è il fatto che invece di opporre a quelli dell'assessore argomenti nel merito, si sia scelta la strada delle urla e delle offese. Ma vi è una ragione in tutto ciò. Il Pd, nella sesta commissione regionale aveva sistematicamente, pervicacemente e in perfetto accordo con Forza Italia, demolito il Piano. Basta ricordare solo una delle tante modifiche proposte dalla commissione: «le criticità segnalate nel Piano sono valutazioni scientifiche di cui i Comuni possono non tenere conto». Vale a dire che se il Piano segnalava un'area come esondabile e con alto rischio per gli abitanti, di tale criticità i Comuni potevano infischiarsene, si intende per continuare a urbanizzare e piangere i morti. In effetti è difficile ribattere nel merito e difendere simili enormità, molto più facile la strada delle polemiche e delle invettive, tra cui spicca per originalità l'accusa rivolta agli intellettuali di tutta Italia intervenuti a favore di Marson di essere "ambientalisti in cachemire" e "a difesa del paesaggio cartolina".

Vi è tuttavia un disegno evidente nelle infondate reazioni dei maggiorenti o delle pedine dell'ex partito dei lavoratori, ex almeno in questo caso, come dimostra la 'battaglia' delle Apuane, dove la Cgil si dichiarava a favore del Piano e Ardelio Pellegrinotti (consigliere del Pd) si schierava, senza se e senza ma, con le ditte di escavazione - non un cenno critico sul clima di illegalità in cui queste hanno continuamente operato.

Le intenzioni per il futuro sono, come si evince dalle interviste rilasciate dal segretario Parrini, di nominare una giunta 'renziana', perché «il Pd non è quello di 5 anni fa». Rimane l'incognita di cosa significhi una giunta e un governo 'renziano', al di là della propensione irresistibile degli aspiranti consiglieri di saltare, salvo qualche lodevole eccezione, sul carro del vincitore. L'impressione è che Renzi stia trasformando il Pd in un "catch all party" (come era la vecchia DC), dove le realtà regionali agiranno e si comporteranno non in base a valori , bensì secondo le convenienze e le opportunità del momento e del luogo. Ma, comunque, attente a favorire uno 'sviluppo arretrato', fatto di grandi opere (non importa se inutili o dannose) e di sfruttamento delle 'risorse' qualunque esse siano o siano ritenute tali, dovunque esse siano - anche nei parchi e nelle riserve naturali, vedi appunto le Apuane.

In Toscana significa, oltre a un Rossi messo sotto tutela, ancora un consumo irreversibile di territorio, ma soprattutto, porti e piattaforma turistiche, Tav e sottoattraversamenti, inceneritori e centrali a biomasse che si approvvigionano chissà dove, tanto per citare solo alcuni capisaldi dello 'sviluppo arretrato' ; mentre l'alternativa è un'economia innovativa, in cui paesaggio, ambiente e territorio siano fattori intrinseci e propulsivi di un'occupazione qualificata: molti più investimenti nella scuola, nell'università e nella ricerca pubblica e privata e meno cemento. Ma tant'è, il Pd va avanti guardando indietro; con una prospettiva, quella annunciata dagli esponenti del Pd nel consiglio regionale e fuori, che pone la parola fine all'esperienza toscana come modello di governo del territorio diverso da quello che ha imperversato e imperversa nel paese. In questo ha perfettamente ragione Dario Parrini «il Pd toscano non è quello di 5 anni fa»: è molto peggiore.

Succubi di una politica europea e nazionale volta sistematicamente ad arricchire i già ricchi impoverendo gli altri (e i posteri), insistono nel tentativo di far cassa liquidando il prezioso patrimonio collettivo e abbandonando al degrado della privatizzazione un bene culturale prezioso. Il manifesto, 31 marzo 2015

Un Hotel de charme? Una esclu­siva scuola di danza clas­sica? Un cir­colo ippico che riporti il fasto sabaudo della Caval­le­ria Savoia o appar­ta­menti di lusso? Quale sarà il futuro della Caval­le­rizza Reale di Torino, splen­dido com­plesso barocco nel cuore della città, oggetto di incu­ria e abban­dono per molti anni ma in pro­cinto di nuova «valo­riz­za­zione» da parte dei pri­vati? Dell’ostello per i gio­vani trac­cia non v’è più, se non in qual­che spa­ruta dichia­ra­zione stampa per ras­se­re­nare gli animi dei circa die­ci­mila tori­nesi che, fir­mando un appello solo pochi mesi fa, hanno chie­sto agli attuali ammi­ni­stra­tori comu­nali di non ven­dere sur­ret­ti­zia­mente la Caval­le­rizza, patri­mo­nio della città e quindi di tutti.

Ma le linee guida dell’operazione, con­dotta senza soste dall’assessore al Bilan­cio Gian­guido Pas­soni e da tutta la giunta di cen­tro­si­ni­stra tori­nese, pare che pre­veda come archi­trave fon­dante l’investimento di sostan­ziosi capi­tali pri­vati, indi­spen­sa­bili per dar fiato alle boc­cheg­gianti casse comu­nali, ancora in dif­fi­coltà nono­stante le mas­sicce ven­dite di immo­bili e par­te­ci­pate.

C’è chi dice che potrebbe essere della par­tita addi­rit­tura un emiro del Qatar. L’allegro debito con­tratto nell’era Chiam­pa­rino è appena sceso sotto quella che viene defi­nita dallo stesso Pas­soni «la soglia psi­co­lo­gica» di tre miliardi di euro ma, nono­stante que­sto risul­tato, l’immensa volu­me­tria della Caval­le­rizza rimane stru­mento d’eccezione per rag­gra­nel­lare utili fondi.

Pare che i tempi siano molto stretti: ieri mat­tina si sono riu­nite le com­mis­sioni con­giunte di Comune e Regione a porte chiuse, senza ammet­tere pub­blico, in cui è stato pre­sen­tato un miste­rioso «Pro­to­collo di Intesa» che coin­volge anche i pri­vati.

Il pro­to­collo pre­ve­de­rebbe una sostan­ziale libertà di azione per gli inve­sti­tori. Del famoso pro­cesso par­te­ci­pato che doveva coin­vol­gere anche sog­getti cul­tu­rali isti­tu­zio­nali e cit­ta­dini, che da circa un anno stanno por­tando avanti un lavoro di riqua­li­fi­ca­zione sociale del com­plesso dopo l’abbandono, riman­gono solo vaghi ricordi.

È il pro­cesso par­te­ci­pato modello Val Susa: si par­te­cipa solo quando c’è da dire «sì», com­men­tano alcuni mem­bri dell’Assemblea Caval­le­rizza 14.15. «In sostanza nes­suna delle richie­ste sino a ora avan­zate dalla cit­ta­di­nanza (no alla ven­dita, desti­na­zione e frui­zione pub­blica, uni­ta­rietà dell’insieme e pro­get­tua­lità par­te­ci­pata, ndr), con il sup­porto di oltre 10 mila firme della popo­la­zione tori­nese, viene accolta dalle isti­tu­zioni, nean­che negli intenti. La pro­get­ta­zione — aggiun­gono gli atti­vi­sti — non coin­vol­gerà diret­ta­mente i cit­ta­dini né, aspetto inquie­tante, pas­serà nean­che attra­verso il Con­si­glio comu­nale, pale­sando come le deci­sioni rispetto a una que­stione così deli­cata e stra­te­gica ven­gano a for­marsi fuori dai luo­ghi che dovreb­bero garan­tire la demo­cra­zia.»

Oggi, dalle ore dodici, in con­co­mi­tanza con l’approvazione in Giunta Comu­nale del «Pro­to­collo di Intesa» vi sarà un pre­si­dio in piazza Palazzo di Città indetto dai pro­ta­go­ni­sti dell’Assemblea Cavallerizza.

«Il Consiglio regionale approva dopo una seduta rovente il provvedimento che regola spiagge, vigneti e territorio. L’accordo raggiunto grazie al ministero dei Beni culturali». La Repubblica, 28 marzo 2015

IL paesaggio toscano ha la sua legge. Il Consiglio regionale ha approvato ieri, in un’aula infuocata, il piano messo a punto dall’assessore Anna Marson, che intervenendo a fine seduta è stata molto dura anche con settori della maggioranza. Non è esattamente il piano che lei voleva, ma il testo finale è più suo di quanto non lo sia di coloro che volevano stravolgerlo. Sulle Alpi Apuane le cave dismesse sopra i 1.200 metri non riapriranno. Niente più cave sui crinali e i circhi glaciali. Una ventina resteranno attive fino alla scadenza della concessione. Altre saranno riaperte per essere riqualificate, ma al massimo per sei anni. Due le eccezioni, una cava a Minucciano e una a Levigliani.

Quello delle cave era il punto esemplare della controversia. Da una parte chi difendeva il paesaggio delle Apuane. Dall’altra chi tutelava gli interessi di imprese e lavoratori che estraggono il marmo (ma la Cgil si è schierata per il piano). Nelle ultime settimane, sostenuti dal Pd e in particolare dall’ala renziana, sono stati approvati emendamenti favorevoli ai cavatori. Il presidente Enrico Rossi ha cercato di mediare, poi la trattativa si è spostata al ministero per i Beni culturali che deve ratificare il piano. Più volte la sottosegretaria Ilaria Borletti, che ha la delega sul paesaggio, ha avvertito i consiglieri toscani: se il piano non è conforme al Codice dei beni culturali, non l’approviamo.

Tre giorni e tre notti di discussione al ministero fra l’assessore, i tecnici regionali e i dirigenti del ministero (il direttore generale Francesco Scoppola, il capo dell’ufficio legislativo Paolo Carpentieri e Ilaria Borletti): ne è sortito un maxi emendamento che ripristinava — in parte — la versione originaria del piano. Oltre le cave un’altra questione controversa: gli interventi sulle coste e sulle spiagge. Alla fine si è stabilito che entro i 300 metri dalla battigia saranno ammissibili solo strutture mobili. Niente piscine («lasciatele alla Riviera romagnola», ha detto Rossi). Nella zona retrostante si potranno ampliare gli edifici esistenti del 10 per cento, solo per servizi alberghieri e turistici.

«Sul piano non c’è stato conflitto fra sviluppo e ambiente», ha detto Marson dopo il voto, suscitando l’ira di molti del Pd, «ma tra interessi collettivi e interessi privati». Marson, che ha denunciato “imboscate” durante il percorso del piano, ha ricordato di essere stata accusata di voler espiantare i vigneti (il piano cerca di limitare le grandi estensioni e tutelare le piccole) e di aver dato una consulenza al marito (Alberto Magnaghi, urbanista di fama, ha collaborato al piano gratuitamente come altri professori di tutte le università toscane). Ma il punto, ha insistito, è che il piano incarna un diverso modo di intendere lo sviluppo, al centro del quale c’è «la valorizzazione del patrimonio territoriale e paesaggistico nella costruzione di ricchezza durevole per la comunità». Ora il testo torna al ministero per il parere definitivo.

Il manifesto, 28 marzo 2015

Il via libera è arri­vato all’ora di cena. Insieme alla cer­tezza che il Piano del pae­sag­gio della Toscana è tor­nato sui binari ori­gi­nari. Con un impianto all’avanguardia e di esem­pio per l’intero paese, stu­diato con cer­to­sina pazienza in quat­tro lun­ghi anni di lavoro dall’assessora Anna Mar­son, nella con­sa­pe­vo­lezza di dover comun­que gover­nare i fisio­lo­gici cam­bia­menti ope­rati sul ter­ri­to­rio dalla mano dell’uomo. “Il Piano – ha cer­ti­fi­cato Enrico Rossi — intende offrire una cor­nice di regole certe, fina­liz­zate a man­te­nere il valore del pae­sag­gio anche nelle tra­sfor­ma­zioni di cui è con­ti­nua­mente oggetto”. Il con­si­glio regio­nale lo ha appro­vato con il sì dei 32 con­si­glieri di cen­tro e di sini­stra, e il no dei 15 di centrodestra.

Quanta fatica però. Anche se il rican­di­dato pre­si­dente regio­nale del Pd ne ha riven­di­cato la pater­nità (“è il mio piano, non quello del governo”), è fuor di dub­bio che un inter­vento deci­sivo per sbloc­care una situa­zione diven­tata kaf­kiana sia arri­vato dal mini­stero dei beni cul­tu­rali. La cui firma sul prov­ve­di­mento è obbli­ga­to­ria – già una volta il piano era stato rin­viato al mit­tente – e che ha svolto, insieme a Rossi e alla stessa Mar­son, una vera e pro­pria riscrit­tura del Piano. Mossa obbli­gata, dopo lo stra­vol­gi­mento ope­rato in com­mis­sione da parte di un ampio pezzo di Pd che non si ras­se­gnava allo stop di con­sumo del suolo. Uno stop che peral­tro era stato già deciso nel Piano di indi­rizzo ter­ri­to­riale, di cui il Piano pae­sag­gi­stico è una integrazione.

Emen­da­mento su emen­da­mento, le ori­gi­na­rie norme di sal­va­guar­dia ela­bo­rate da Anna Mar­son, docente di tec­nica e pia­ni­fi­ca­zione urba­ni­stica all’ateneo vene­ziano, erano state pro­gres­si­va­mente stra­volte. Su tutti, ave­vano fatto inor­ri­dire gli emen­da­menti che face­vano ripar­tire le esca­va­zioni del marmo sulle Apuane in maniera pesan­tis­sima (via libera alla ria­per­tura di cave dismesse, cave seco­lari, anche cave su vette e cri­nali ancora inte­gri), e quelli che nei fatti ria­pri­vano all’edificazione costiera anche sul lun­go­mare, e per­fino sugli arenili.

Le pole­mi­che che ne sono seguite, e che hanno por­tato il mini­stro Fran­ce­schini a pren­dere pub­bli­ca­mente le difese dell’assessora Mar­son (“lei è stata capace di met­tere d’accordo Asor Rosa e Set­tis, Repub­blica e Cor­riere della Sera…”), hanno ripor­tato il Piano toscano del pae­sag­gio alle sue coor­di­nate ori­gi­na­rie, gra­zie a un super-emendamento coor­di­nato in sede mini­ste­riale. “Il testo che emerge dopo la pre­sen­ta­zione del maxi emen­da­mento è un buon risul­tato – cer­ti­fica Monica Sgherri di Rifon­da­zione — per­ché riporta il piano sostan­zial­mente a quanto adot­tato nel luglio scorso. Quindi can­cel­lando quello stra­vol­gi­mento, soprat­tutto in tema di esca­va­zione sulle Apuane e di sal­va­guar­dia delle coste, per­pe­trato in commissione”.

Il risul­tato è stato l’ok al Piano anche di Sel, Prc e Pcdi, che pure cor­rono alle ele­zioni regio­nali in alter­na­tiva al Pd e a Enrico Rossi, soste­nendo l’ottima can­di­da­tura di Tom­maso Fat­tori. Sul fronte oppo­sto, il ritardo nel via libera è stato pro­vo­cato dall’ostruzionismo di Forza Ita­lia e Fdi, che hanno depo­sto le armi solo dopo aver otte­nuto di veder moni­to­rati gli effetti del Piano sulle atti­vità estrat­tive. A cose fatte, Enrico Rossi ha ricor­dato: “Non è vero che discu­tere col mini­stero è stato umi­liante, il pae­sag­gio è un bene tute­lato dall’articolo 9 della Costi­tu­zione, che rende neces­sa­ria la copia­ni­fi­ca­zione. E’ la nostra iden­tità, il nostro mar­chio nel mondo, bel­lezza che si è pro­dotta anche attra­verso il lavoro. E con il piano siamo riu­sciti a rico­struire l’equilibrio necessario”

Tra i grattacieli fortemente voluti da Maurizio Lupi, venduti alla famiglia reale del Qatar, un progetto di landscape per Expo calato dall'iper-uranio della globalizzazione, e del tutto surreale in una città a cui si vorrebbe far perdere la memoria. Corriere della Sera Milano, 28 marzo 2015, postilla (f.b.)

Spunta a Milano un progetto di «arte ambientale» promossa dall’artista americana Agnes Denes. Titolo: Un campo di grano tra i grattacieli di Porta Nuova. Saranno utilizzati quasi 15.000 metri cubi di terra, 1.250 chili di sementi e circa 5 mila chili di concime (ovviamente chimico e inodore) poiché quello naturale sarebbe disdegnoso per l’inevitabile olezzo. E così, nel giubilo per la novità dell’arte ambientale si trascurano memorie di esperienze fallimentari già compiute.

Estate 1941. L’Italia è in guerra. La propaganda del regime fascista ogni giorno preannunciava imminenti clamorose vittorie e poi, puntualmente, venivano rinviate a un futuro incerto fino a lasciarle dissolversi nel silenzio della dimenticanza. E allora bisognava creare distrazioni per fare da compensazione. Tra le varie trovate una di queste fu il grano fascista. A Milano, prossimi all’autunno, gli operai del Comune cominciarono ad arare tutti gli spazi destinati a giardini e aiuole. Il fronte della guerra era ancora lontano e alla fine di giugno del 1942, puntualmente, anche il grano seminato in città venne a maturazione. Ma, ahimè, al momento del raccolto venne alla luce quel che fino ad allora era rimasto nascosto nel folto delle spighe, che man mano crescevano ne impedivano la vista. Poi con il campo rasato dalla mietitura era comparsa, come scaturita da sottoterra, una inspiegabile presenza di sassi bianchi, opachi come lo sono le cose morte che sfacciatamente si sovrapponevano al brume del terreno.

Certo: i pareri erano diversi. Ognuno diceva la sua. Infine venne la sentenza condivisa da tutti. Quei «sassi» non erano altro che cacche di cane rinsecchite e cementificate dalla lunga stagionatura. Io ne sono stato testimone, avevo dieci anni e ricordo tutto con la lucidità della memoria infantile che a quell’età rimane viva per sempre. E per noi ragazzi quelli furono momenti davvero eccitanti, perché non era più un gioco ma una guerra vera, quella che fanno i grandi e si muore davvero. Quando si gonfia la forma perché la sostanza è debole, si è dalla parte sbagliata. Ho saputo della adesione a Expo da parte di Coca Cola e Mc Donald. Alla faccia della genuinità e sacralità del cibo…

postilla
Fra i tanti, e probabilmente davvero troppi, sintomi di una Expo nata e cresciuta nel segno fortemente ideologizzato di una agricoltura e idea di territorio sostanzialmente inaccettabile e dominata dalla lobby agro-industriale, spicca anche questo assurdo decorativo stupido campo di grano scaraventato sulla città. Olmi con la sua sarcastica citazione di Mogol-Battisti ne rileva uno degli elementi di maggior stridore: Milano è stato uno dei luoghi simbolo della Battaglia del Grano del fascismo, circolano ancora sul social network le vecchie foto delle spighe in Piazza del Duomo: perché non evitare di richiamare così goffamente quelle immagini? Macché: la memoria è nulla, di fronte a decisioni meccaniche per cui si importa a scatola chiusa un progettino, esattamente col medesimo criterio con cui gli edifici che stanno lì attorno vengono da lontanissimi e alieni tavoli di progettazione. Che ci sarebbe voluto, per importare il “format” ma adattarlo al contesto, storico geografico e colturale (una risaia? un orto? Qualcos'altro?). Se questi sono i personaggi che vorrebbero nutrire il pianeta, forse è davvero meglio iniziare a pensare, molto seriamente, a organizzarsi da soli un percorso alternativo, perché quando all'arroganza si unisce in modo tanto spudorato un'allegra imbecillità, non c'è davvero scampo (f.b.)

1. Il voto di approvazione di un piano paesaggistico ancora definibile tale, intervenuto oggi nel penultimo giorno utile della legislatura dopo un lunghissimo dibattito dentro e fuori le sedi istituzionali, è l’esito di un assai ampio coinvolgimento pubblico nel merito delle scelte che la Regione Toscana si apprestava a compiere, e di una straordinaria mobilitazione culturale e sociale in difesa del Piano paesaggistico.

Le prove che questo piano ha dovuto affrontare, nella sua natura di strumento portatore di innovazione culturale e normativa, non sono state facili.

Anche se la portata storica dell’evento è chiaramente incommensurabile, mi permetto di richiamare le parole di Calamandrei sull’esito della scelta repubblicana dell’Italia (Il Ponte, luglio-agosto 1946), sul cui cammino «non sono mancati i diversivi che miravano a mandare in lungo la partita, i tranelli preordinati a far perdere la serenità al giocatore meno esperto, e qualche svista pericolosa e, purtroppo, qualche tentativo di barare…Proprio di queste vicende bisogna tener conto per comprendere quanta fermezza e quanta resistenza morale sono state necessarie …per conseguire questa vittoria e per apprezzarne il valore... [in questo caso si è] dovuto superare imboscate e tradimenti che l’osservatore superficiale nemmeno sospetta».

Nel caso del piano paesaggistico le “imboscate” non sono derivate da un conflitto fra ambiente e sviluppo, come molti hanno sostenuto, ma tra interessi collettivi e interessi privati.
Ciò è testimoniato dal fatto che chi si è mosso a difesa del piano, come le associazioni ambientali e culturali, e molti autorevoli studiosi, non rappresenta in questa vicenda interessi particolari o privati. Mentre tutti coloro che a vario titolo hanno sollevato richieste di modifiche del piano l’hanno fatto mossi da interessi privati finalizzati al profitto, mascherato da occupazione e sviluppo.

E devo dare atto alle rappresentanze dei lavoratori – alla CGIL in particolare ma anche da alcuni rappresentanti della CISL- di avere individuato con grande chiarezza come ambiente e paesaggio costituiscano oggi, a fronte dei cambiamenti in corso e di quelli che si annunciano, due poste in gioco rilevanti per l’interesse collettivo, a partire dall’interesse dei lavoratori e di chi è in cerca di occupazione.

Ritengo quindi utile ripercorrere, sia pur in grande sintesi, alcuni dei passaggi salienti del percorso di piano che portano ulteriori evidenze a questo riguardo.

2. La procedura del piano e le imboscate subite

Il presidente della Commissione consiliare nel citare gli emendamenti apportati in commissione ha più volte parlato di «grande lavoro rispetto cui non si può tornare indietro».

Che dovremmo allora dire relativamente al lavoro di costruzione del piano, alla lunga e continua contrattazione istituzionale e sociale - anche in un clima di linciaggio personale di cui sono stata ripetutamente oggetto (1) - al lavoro di controdeduzione alle osservazioni presentate per arrivare a un testo equilibrato nel tenere in conto i diversi interessi legittimi?

La formazione del piano e' stato un atto quanto mai collettivo. Il piano cosiddetto “Marson” è infatti frutto:
a) di un atto di indirizzo approvato dal consiglio regionale nel 2011;
b) di una approfondita fase di elaborazione scientifica affidata al Centro Interuniversitario di Scienze del Territorio delle 5 principali università toscane anziché a una ditta privata o a una elaborazione interna dei soli uffici (che non avevano le forze per condurre un compito di questa portata, anche in seguito alla soppressione del settore paesaggio all’inizio della legislatura e alla sua lenta e faticosa ricostituzione nel corso dei successivi tre anni);
c) di uno straordinario impegno dei funzionari del settore paesaggio, anche con molte ore di lavoro non retribuite, nel costruire la proposta di piano;
d)di numerose assemblee pubbliche di approfondimento e discussione che hanno accompagnato le fasi di formazione del piano nei diversi ambiti del territorio toscano;
e) di una lunga e ripetuta concertazione con attori pubblici (ANCI, Consiglio autonomie, comuni, sovrintendenze, Ministero) e del confronto con attori privati (ordini professionali, associazioni sindacali e imprenditoriali, ecc) ;
f) di una validazione tecnica preliminare da parte del Mibact sul lavoro complessivo (dicembre 2013);
g) di due successive proposte di piano approvate dalla giunta (gennaio e maggio 2014);
h) di un esame in sede di più commissioni consiliari (ne ricordo almeno cinque) che ha portato all’adozione, con emendamenti, il 2 luglio 2014;
i) del lavoro di controdeduzioni che ha portato al voto unanime della Giunta il 4 dicembre 2014.

Sfido tutti coloro che hanno dichiarato in aula, rivolti alla giunta, che «s’è perso tempo», a trovare un esempio di piano paesaggistico regionale copianificato con il Mibact che abbia concluso questo percorso in un tempo più rapido.

E ciò nonostante – per non citare che i due esempi più significativi - una ricerca di regole condivise con i sindaci delle Apuane interessati dalle attività di escavazione durata più mesi, e un tavolo con i rappresentanti di categoria delle associazioni agricole protrattosi con incontri quasi quotidiani per settimane.

Se nel caso delle associazioni agricole ciò a portato, pur con perdite significative dei contenuti del piano (quali la sparizione di gran parte dei riferimenti alla “maglia agraria”, di ogni citazione della parola “vigneti”, e di tutti i riferimenti al “mantenimento delle attività agrosilvopastorali montane per arginare i processi di abbandono”), a una sostanziale condivisione del testo, nel caso delle Apuane sia la modifica della prima proposta di giunta che gli emendamenti introdotti dal consiglio in fase di adozione non hanno sancito la fine delle ostilità né delle interferenze anche pesanti rispetto ai contenuti del piano e alla procedura istituzionalmente definita per la sua approvazione.

Abbiamo così assistito, in commissione consiliare, al voto di emendamenti non coerenti con i contenuti propri di un piano paesaggistico, a diverse e articolate trattative politiche non con le rappresentanze istituzionali delle imprese ma con alcune imprese, alla partecipazione di consulenti delle imprese del marmo alla scrittura degli emendamenti nelle stanze del Consiglio regionale, alla sparizione dal Piano di tutti i riferimenti alle criticità di luoghi specifici che disturbavano qualcuno che aveva modo di far sentire la propria voce, e così via. Tutte le tipologie degli emendamenti proposti in commissione sono state ispirate a un unico principio: depotenziare l’efficacia del piano.

A titolo esemplificativo:

- nelle Apuane sono state cancellate tutte le criticità relative a specifiche aree interessate dalle escavazioni;
- molte criticità paesaggistiche evidenti sono state trasformate in forma dubitativa;
- un emendamento si proponeva addirittura di specificare che le criticità costituivano valutazioni scientifiche delle quali i piani urbanistici “non dovevano tenere conto”;
- nelle spiagge si intendevano ammettere adeguamenti, ampliamenti, addizioni e cambi di destinazione d’uso;
- la dispersione insediativa, anziché da evitare, era al massimo da limitare o armonizzare;
- la salvaguardia dei varchi inedificati nelle conurbazioni andava cancellata, o anch’essa “armonizzata”;
- le relazioni degli insediamenti con i loro intorni agricoli sono state soppresse;
- l’alpinismo in Garfagnana andava soppresso;
- gli ulteriori processi di urbanizzazione diffusa lungo i crinali non erano da evitare bensì da armonizzare;
e così via.

Ciò ha prodotto, come esito del lavoro della commissione consiliare, la riscrittura di molti contenuti sostanziali del piano, rovesciandone in più parti gli obiettivi, depotenziando la valenza anche normativa del piano adottato, e contraddicendo sia il Codice dei beni culturali e del paesaggio che la nuova legge regionale in materia di governo del territorio in vigore dal novembre 2014.

Soltanto la verifica in extremis con il Mibact, con il quale il piano va necessariamente copianificato anche per dare attuazione alle semplificazioni che da esso discendono, dovuta anche alla luce del verdetto ricevuto a suo tempo sull’integrazione paesaggistica del PIT adottata dalla Regione Toscana nel 2009, ha portato con un grande sforzo da parte di tutti i soggetti coinvolti, e del Presidente Rossi in prima persona, a recuperare almeno in parte alcuni dei contenuti essenziali che permettono di qualificare questo piano come “piano paesaggistico”.

Non posso che concordare con chi ha definito questa retromarcia imbarazzante. Lo è senza dubbio per l’immagine arretrata, riflessa da alcuni rappresentanti eletti, della società toscana (smentita invece dalla moltitudine di cittadine e cittadini che si sono espressi in difesa del piano). Lo è per chi, come me, ha creduto nel federalismo, non quello della riforma del Titolo V della Costituzione operata all’inizio del nuovo millennio oggi peraltro ripudiata dagli stessi autori, ma quello auspicato da Carlo Cattaneo e da Silvio Trentin.

In questo caso devo tuttavia riconoscere che l’intervento del Ministero ha contribuito a salvare parti significative del piano.grazie in particolare all’impegno della sottosegretario Borletti Buitoni, oltre a quello del ministro Franceschini intervenuto anch’esso in prima persona.

Al di là di tutto ciò, e alla fine di questo tormentato percorso, credo di dover evidenziare come il conflitto attivatosi intorno al piano - non fra ambiente e sviluppo, ma tra interessi collettivi e interessi privati - sottenda in realtà due diverse accezioni di sviluppo.

3. Due concezioni dello sviluppo contrapposte. Chi è passatista?


Gran parte delle modifiche proposte e in parte apportate al piano attraverso gli emendamenti, sono ispirate da una lettura del Piano inteso come insieme di vincoli /f reno allo sviluppo e alla libertà d’impresa: meno vincoli più sviluppo, più vincoli meno sviluppo.
Lo sviluppo è dunque inteso come tutela delle libertà d’uso e sfruttamento del territorio da parte delle imprese economiche, soprattutto da parte delle grandi imprese (multinazionali del vino e del marmo, del turismo, ecc), oltre alla tutela del continuare a fare ognuno “come ci pare”.

I soggetti presi a riferimento non sono certo i viticoltori artigiani di qualità, piuttosto che le botteghe di trasformazione artistica del marmo, per non citare che due esempi fra i molti possibili, in una “compressione della rappresentanza” rispetto alla complessità crescente del mondo produttivo. La rappresentanza dei grandi interessi finanziari, travestiti da interessi per lo sviluppo, è l’unica ad essere di fatto garantita.

Ma questo modello di sviluppo non è forse alla base della crisi economica che stiamo vivendo?

Il tentativo di affossamento del valore normativo del Piano paesaggistico è peraltro coerente con l’ideologia che esalta i processi di privatizzazione e centralizzazione dei processi economici e politici, in molti casi peraltro sostenuti da finanziamenti pubblici, come unica via d’uscita dalla crisi.

In questa monodirezionalità degli emendamenti votati in commissione è stato peraltro negato lo spirito stesso del Codice.

Laddove il Codice richiede che il Piano si interessi di tutto il territorio regionale, si chiede infatti, di conseguenza, un cambio dalla centralità dai vincoli (prescrizioni che riguardano i soli beni paesaggistici formalmente riconosciuti) alle regole di buon governo per tutto il territorio, compresi quindi i paesaggi degradati, le periferie, le infrastrutture, le aree industriali, gli interventi idrogeologici, gli impianti agroindustriali, ecc); dunque regole per indirizzare verso esiti di maggiore qualità le trasformazioni quotidiane del territorio, e non solo preservare i suoi nodi di eccellenza.

La stessa cura a migliorare la qualità paesaggistica di tutto il territorio regionale è richiesta come noto dalla Convenzione europea del paesaggio, che parla di «attenzione ai modi di vita delle popolazioni».

I piani paesaggistici di nuova generazione fanno dunque riferimento a un diverso e innovativo modello di sviluppo che vede la centralità della valorizzazione del patrimonio territoriale e paesaggistico nella costruzione di ricchezza durevole per le comunità. Non certo per rinunciare al manifatturiero, e nemmeno all’escavazione del marmo, ma per far convivere queste attività con altre possibilità imprenditoriali, a partire da un patrimonio territoriale che ne renda possibile e realisticamente fattibile lo sviluppo.

Come ha scritto recentemente un ex sindaco, Rossano Pazzagli, a proposito delle prospettive dell’attività turistica, «fare turismo…è perseguire un turismo non massificato, di tipo esperienziale…Chi vuole riaprire le coste alla cementificazione…finirà per danneggiare lo stesso turismo balneare, che va in cerca di paesaggio, di spiagge, di pinete e di sole, non di qualche pezzo di periferia urbana in riva al mare».

Non solo le Apuane, uniche al mondo, ma lo stesso marmo apuano, meriterebbe di essere a tutti gli effetti considerato come una risorsa preziosa, e valorizzato di conseguenza restituendo alle comunità locali gran parte del valore aggiunto che va invece ad arricchire singoli individui, distruggendo per sempre le montagne.

Sono soltanto alcuni esempi, che tuttavia testimoniano come il piano ponga le basi per rendere possibile un diverso sviluppo, basato non sulla distruzione del patrimonio regionale ma sulla sua messa in valore sostenibile per la collettività e il suo futuro. Il Presidente Rossi ha dichiarato che sarei “un grande tecnico… che quando esprime giudizi politici compie scivoloni pericolosi”.

Da questo punto di vista io rivendico invece il mio agire “diversamente politico”, in quanto non guidato dal desiderio di mantenere un incarico di assessore, né dall’obbligo di restituire favori e accontentare interessi specifici. In questi anni ho cercato di garantire nel modo più degno possibile, nel ruolo che ho avuto l’onore e l’onere di ricoprire, la straordinaria civiltà tuttora profondamente impressa nel paesaggio toscano, pur nella complessità delle sfide sociali, economiche e politiche che hanno interessato nel passato e interessano ancor più oggi questa regione.

4. Un sentimento contraddittorio

In conclusione è con un sentimento contraddittorio che accolgo questo voto del Consiglio:

-da una parte la soddisfazione per il fatto che il proposito di rendere inefficace un progetto assai avanzatoper la a Toscana futura abbia dovuto in parte rientrare grazie alla forte mobilitazione culturale e sociale in difesa del piano, e per il ravvedimento finale del principale partito di maggioranza;
-dall’altra il rammarico per il fatto che il percorso di questo piano sia stato costellato da cedimenti, contraddizioni, indebolimenti che hanno ovviamente lasciato il segno nel corpo del piano stesso.

Non mi sento pertanto di fare alcuna celebrazione clamorosa, né retorica, di questo esito. Raggiungere questo risultato è stato difficile e aspro, né sono state risolte tutte le contraddizioni.

Spero tuttavia che l’alto livello di mobilitazione attivatosi a livello regionale e nazionale intorno a questo piano e all’allarme sul rischio del suo annullamento, serva a mantenere alta l’attenzione intorno all’interpretazione che quotidianamente, nei giorni e negli anni a venire, sarà data del piano stesso e dei suoi contenuti.

E a favorire la realizzazione di un Osservatorio regionale del paesaggio, già previsto dalla LR65/2014 e da attivare nei prossimi mesi, che sappia garantire una forte partecipazione sociale, facendo entrare il paesaggio a pieno titolo fra gli obiettivi dello sviluppo regionale volti ad aumentare il benessere delle popolazioni presenti sul territorio.


Nota
(1)
Pol Pot in Toscana, l’accusa di voler espiantare i vignetiper rimettere le pecore (messa anche in bocca a sindaci con i quali hocollaborato fattivamente per gran parte della legislatura), i soldi al marito(che ha lavorato gratuitamente con gli altri professori universitari che hannocollaborato al piano), gli insulti per essere straniera in Toscana, essendonata a Treviso, gli ambientalisti in cachemire citati ancora ieri in Consiglioregionale, i professori che vivono nell’agio mentre i consiglieri regionalisoffrono nelle montagne (dimenticando che in Italia i professori universitarisono retribuiti quanto un bidello svizzero ma in questo piano hanno per sceltalavorato gratuitamente, mentre gli assegnisti sono stati retribuiti mille euroal mese) e così via.


Repubblica.it, 27 marzo 2015

Chi, in Italia, si oppone alla selvaggia privatizzazione del patrimonio culturale viene accusato di vivere di «fragili utopie». Naturalmente i pragmatici censori si guardano bene dal sottoporre a critica le «solide realtà»(per usare l'espressione di un nota pubblicità immobiliare) della privatizzazione stessa.

Fra i più esaltati sacerdoti del culto del Privato va annoverata la presidente di Confcultura, Patrizia Asproni, per la quale il modello ideale sarebbe quello in cui «il privato presenta un progetto per cui si assume l'onere del finanziamento a fronte di una gestione complessiva di un bene culturale. Il project financing prevede un promotore il cui progetto viene messo a gara, in una procedura concorrenziale e trasparente. Il privato avrebbe quindi il compito della gestione, mentre resterebbe in capo allo Stato sia la proprietà che la tutela». Di fatto si tratterebbe di una superconcessione pluridecennale chiavi in mano in cambio di un finanziamento: una società per azioni paga la conclusione dei lavori degli Uffizi, e se li prende per vent'anni.

Che ci sarebbe di male? – dirà qualcuno. Per capire cosa può voler dire, in concreto, si può prendere l'esempio della Fondazione Torino Musei (che è l'ente di diritto privato cui il Comune di Torino ha conferito i musei civici, istradandoli verso future, più sostanziali, privatizzazioni): anche perché a guidarla è proprio Patrizia Asproni.

Ebbene, la Fondazione ha appena deciso che la principale biblioteca d'arte di Torino (quella della Galleria d'Arte Moderna) – cito un bellissimo post di Gabriele Ferraris – «d'ora in poi sarà aperta soltanto il venerdì dalle 10 alle 17 e il sabato dalle 10 alle 14. Avete letto bene: si passa da 5 giorni (ovvero 35 ore) di apertura settimanale a due giorni (per un totale di 11 ore)». Perché? Per «ottimizzare le risorse», ha risposto Asproni a Ferraris. Che, tradotto, vuol dire: per spendere quei soldi in mostre ed eventi. A chi interessa più nulla delle biblioteche, infatti?

Oggi «i docenti di storia dell’arte dei dipartimenti di studi storici e umanistici dell’Università di Torino, i funzionari storici dell’arte delle Soprintendenze piemontesi, gli studiosi di storia dell’arte, le associazioni culturali e le istituzionali museali presenti sul territorio piemontese, in risposta alla grave contrazione dell’orario di apertura della Biblioteca di storia dell’arte della Gam di Torino» hanno rivolto «alla Fondazione Torino Musei un addolorato e appassionato appello perché non svigorisca una delle più importanti strutture di studio e di ricerca di storia dell’arte cittadine, costruita e a lungo diretta con sapienza e attenzione, vero patrimonio culturale della città».

Ma il punto è proprio questo: quel patrimonio non è ormai più «della città», ma della «Fondazione Torino Musei». Che non è una fragile utopia, ma una solida realtà.

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