Pare chiudersi con un bilancio piuttosto positivo la vicenda iniziata tempo fa con la spettacolare occupazione del grattacielo lasciato in rovina da Ligresti. La Repubblica Milano, 30 aprile 2015, postilla
TREDICI piani di hotel e altri diciotto di appartamenti. Dopo sedici anni di abbandono la torre Galfa torna a vivere. Il gruppo Unipol Sai, insieme al Comune di Milano, ha presentato ieri il progetto di riqualificazione per il “grattacielo fantasma” alto 103 metri, nell’area fra il Pirellone e Palazzo Lombardia, disegnato nel 1956 dall’architetto Melchiorre Bega. Un investimento da 100 milioni di euro per recuperare i 31 piani lasciati al degrado degli inizi del Duemila e farli tornare a essere uno degli edifici simbolo dello skyline della città.
«L’incuria e l’abbandono ne avevano deturpato l’immagine, snaturandone il suo alto valore architettonico – ha detto Gian Luca Santi, direttore generale Immobiliare di Unipol Sai, proprietaria dell’immobile – . Il nostro obiettivo era riqualificarlo senza alterare la sua identità. Pensiamo di essere arrivati a una proposta valida, con un intervento di qualità con le tecnologie più avanzate anche dal punto di vista energetico». I lavori dovrebbero partire all’inizio del 2016 e la consegna è prevista entro la fine del 2017. Il nuovo progetto è curato dall’architetto Patrice Kanahm: dal piano meno uno fino al dodicesimo gli spazi saranno occupati da un nuovo albergo del gruppo Melià.
Quelli più alti avranno invece una destinazione residenziale con servizi dedicati ai futuri inquilini. E quindi aree fitness, un ristorante e box per le auto. Il tutto verrà realizzato conservando l’immagine della torre così come era stata disegnata da Bega, assicurano. «Ma con un nuovo involucro ad alta efficienza energetica – spiega Kanah - . È il primo restauro di un edificio contemporaneo, una grande sfida tecnica per restituirlo alla memoria della città, valorizzando le peculiarità originarie come la facciata a vetrata continua ». Sul retro che dà su via Campanini nascerà una nuova struttura in cristallo, una sorta di spina dorsale dove verranno posizionati tutti gli impianti, le scale di sicurezza e gli ascensori ultra veloci.
La torre si trova fra via Galvani e via Fara (il nome Galfa deriva dalle loro iniziali) e ha una superficie di circa 27mila metri quadrati. Era il 1956 quando l’imprenditore Attilio Monti chiese a Bega di progettare un grattacielo da trasformare nella sede degli uffici della sua società petrolifera Sarom. Un edificio che diventa realtà a un passo dall’area dove Gio Ponti, negli stessi anni, tirava su i 127 metri del Pirellone. Innovativo per l’epoca, con la sua struttura in cemento armato senza pilastri e ricoperto da vetri. Nel 1980 viene acquistato Banca popolare di Milano, che lo lascia definitivamente abbandona nel 2001 e lo cede nel 2006 al gruppo Fonsai, allora di proprietà della famiglia Ligresti, acquistato da Unipol nel 2012.
Uno scheletro vuoto per anni, che sempre nel 2012 viene occupato per dieci giorni dal gruppo di artisti del collettivo Macao per mettere al centro la questione degli spazi abbandonati di Milano. «La torre Galfa era diventato uno dei simboli dell’abbandono – ha detto il vicesindaco e assessore all’Urbanistica, Ada Lucia De Cesaris – .Questo progetto si inserisce nel lavoro dell’amministrazione per la rigenerazione e la riqualificazione del patrimonio esistente. È un progetto di grande delicatezza, di restauro e di continuità con tutta l’area, compatibile con il parere della zona. Penso che tutti saranno contenti».
postilla
Può piacere o no la destinazione d’uso di quei volumi, può piacere o no –esteticamente, intendo - il tipo di architettura da centri direzionali di metà ‘900, ma la vera assurdità da cui era nata la spettacolare occupazione del gruppo Macao qualche anno fa pare davvero superata, e con tutti i limiti del caso in modo positivo. C’è un edificio alto, in una zona dove tutti gli edifici sono alti (stiamo accanto al Pirellone, al nuovo Formigone, nonché al quartiere Porta Nuova, distanze di qualche decina, centinaio di metri al massimo), dove si incrociano linee multiple di trasporto collettivo, e non c’è neppure realizzazione di nuovi volumi, solo recupero di quelli esistenti. Certo, starà poi ad altre decisioni, prime fra tutte quelle sui trasporti e la gestione del traffico, a far sì che questo episodio edilizio si trasformi anche in qualità urbana, ma un piccolo passo avanti è innegabile. E certamente nel caso specifico, con una localizzazione del genere, le classiche battute che vedono sempre e comunque il male assoluto nel metro cubo (come chi parlava di “consumo di suolo” per il quartiere adiacente) paiono fuori luogo. Ma il pur benintenzionato benaltrismo avrà certamente da dire anche a questo proposito (f.b.)
Corriere della Sera Milano, 26 aprile 2015
MILANO - Il Parco nazionale dello Stelvio ha compiuto 80 anni, ma il suo futuro è rebus. Dopo lo «spezzatino», con la divisione in 3 parti (Lombardia e province autonome di Trento e Bolzano), gli ambientalisti accusano la Regione di immobilismo, perché il Pirellone non ha ancora stabilito, con una legge ad hoc, chi e come gestirà la porzione di oasi protetta che rientra nei confini lombardi.
Con lo smembramento, il 47% della superficie del Parco (61.444 ettari) è ricaduta nel territorio della nostra regione, ma Damiano Di Simine, presidente di Legambiente Lombardia, non nasconde che «ci si aspettava un atteggiamento meno notarile e contabile della Regione nelle trattative con le Province autonome», così come chiede «all’assessore regionale all’Ambiente se esista una strategia sulla protezione della natura».
Il Parco nacque il 24 aprile 1935, ma 80 anni dopo c’è stata la rivoluzione. Sulla spinta degli autonomisti altoatesini, il governo ha capovolto la sua gestione: non più unitaria ma a favore degli enti locali. Di fatto si è sancita la soppressione del Consorzio del Parco nazionale dello Stelvio, sorto nel 1993, e la nascita di un Comitato di coordinamento ed indirizzo che dovrà garantire solo la linea politica. In sostanza, la futura governance del Parco sarà in mano a Regione Lombardia e Province di Trento e Bolzano, ciascuno per la sua parte di territorio.
Adesso però rimane l’incognita lombarda: c’è un vuoto legislativo da colmare con urgenza. Anche perché finora né l’assessore regionale all’Ambiente, Claudia Maria Terzi, né il sottosegretario alla Macroregionale alpina, Ugo Parolo, hanno fatto passi concreti. «Lo smembramento del Parco dello Stelvio è da scongiurare — spiega ancora Di Simine — perché si rischia di disperdere un patrimonio di ricerche e conoscenze scientifiche sviluppati nell’arco di 80 anni, per far nascere uno “spezzatino” di aree gestite secondo criteri e norme differenti nei tre versanti, in cui l’unica cosa che appare certa è l’attenuazione delle tutele ambientali». Legambiente preme per una marcia indietro di Governo e Regione Lombardia. Intanto, le firme raccolte con la petizione online per salvare il «polmone» del Nord dallo spezzatino sono salite ieri a 51.774. Buon anniversario, dunque: ottant’anni di vita, ma i prossimi saranno decisivi per il suo futuro.
«Un impegno mantenuto e una scelta di civiltà: il ritorno della storia dell’arte e della musica nelle scuole», ha annunciato il ministro per i Beni culturali Dario Franceschini. Ma in questi giorni un vasto movimento di insegnanti di storia dell'arte si chiede se le cose stiano davvero così: e a leggere il disegno di legge sulla cosiddetta Buona Scuola lo scetticisimo appare del tutto fondato.
L’Associazione dei direttori dei musei americani ha stilato una policy che fissa alcuni paletti: il più importante dei quali è che il denaro ricavato dalla vendita può essere usato solo per acquistare altre opere. E quando un museo non lo rispetta, scattano sanzioni non simboliche. Nel 2014 l’Art Museum of Delaware ha venduto un bel quadro preraffaellita per ripianare parte di un debito contratto per un’espansione edilizia: l’Associazione ha disposto una sorta di embargo in forza del quale i suoi 242 musei non hanno più alcun rapporto (di ricerca o di prestiti) col museo “colpevole”. Misure forti, ma certo non capaci di fronteggiare situazioni di emergenza: come il fallimento della città di Detroit, che ha quasi provocato lo smembramento e l’intera vendita delle importanti collezioni del municipale Detroit Institute of Arts (con opere di Rembrandt o Beato Angelico). Un’apocalisse evitata a stento, grazie alla raccolta di 816 milioni di dollari (offerti da fondazioni, privati e dallo Stato del Michigan) e alla conseguente, dolorosissima, privatizzazione del museo, passato dalla proprietà della città a quella di un charitable trust. È di fronte a episodi come questi che Lee Rosenbaum (una delle più seguite opinioniste americane in materia d’arte) ha proposto, sul Wall Street Journal, di adottare una legislazione simile a quella europea: per «evitare che le collezioni vengano monetizzate per coprire i costi di esercizio o pagare i debiti».
Ma nello stesso momento alcuni musei europei abbracciano il modello di cui gli americani stessi iniziano a dubitare. Il governo inglese ha cessato di erogare fondi pubblici al Northampton Museum, reo di aver venduto una statua egiziana (per 38 milioni di euro) allo scopo di finanziare un riallestimento. Mentre in Germania è il museo pubblico di Münster a rischiare di esser privato di 400 opere (dalle pitture del senese quattrocentesco Giovanni di Paolo alle sculture di Henry Moore), a causa del fallimento di un banca appartenente al Land della Renania-Westfalia. E in Portogallo infuria da mesi una battaglia di opinione circa la possibilità che il governo metta all’asta 85 opere di Joan Miró (alcune assai importanti), anch’esse appartenenti ad una banca pubblica fallita: ed è di questi giorni la notizia che ci sarà un ennesimo pronunciamento giudiziario.
Insomma, il tema è così caldo che un artista e avvocato newyorchese, Sergio Muñoz Sarmiento, ha aperto un informatissimo e assai vigile Deaccessioning blog dove è possibile farsi un’idea delle dimensioni globali della questione. E da noi? In Italia le collezioni pubbliche sono inalienabili, ma negli ultimi anni una serie di disegni di legge ha proposto di “valorizzare” i depositi dei musei noleggiandone le opere a pagamento, e a lungo termine, a musei stranieri o a privati. E considerando che la “valorizzazione” degli immobili pubblici praticata dall’Agenzia del Demanio contempla l’alienazione come possibilità culminante (e oggi praticatissima: anche per quelli storici e di gran pregio), la prospettiva non sarebbe rassicurante.
Negli scorsi giorni si è tenuto a Milano un convegno (promosso dalla Rics, società britannica di consulenza finanziaria e immobiliare) dal titolo esplicito: Patrimonio culturale: quanto vale? . L’ultima risposta disponibile (della Ragioneria dello Stato, 2012) indicava la cifra di 179 miliardi di euro, mentre nel 2014 la Corte dei Conti ha contestato alle agenzie internazionali di rating il non aver conteggiato, in 234 miliardi, proprio quel presunto capitale pubblico italiano.
Ma oltre al fatto che non è per nulla chiaro come si arrivi a queste cifre, è evidente che si carica una pistola solo se si inizia a pensare di poterla usare. Quando, nel 1965, Carlo Ludovico Ragghianti lanciò una iniziativa simile (gli Uffizi furono stimati 400 miliardi di lire), Roberto Longhi rispose che si stava allestendo «un volgare listino»: a ragione, visto che Ragghianti stesso era favorevole alla possibilità di vendere le opere dei musei.
Ma una simile scelta sarebbe un grave errore: in primo luogo per ragioni pratiche. Poche settimane fa un antiquario italiano ha potuto comprare ad un’asta l’unico modello noto per la Fontana di Trevi: una terracotta venduta dall’Art Museum di Seattle, che non sapeva cosa stava vendendo. Non si tratta di negligenza: la storia dell’arte è una disciplina relativamente giovane, e sono più le cose che ignoriamo di quelle che sappiamo. E conoscenza e gusto oscillano insieme: se intorno al 1880 i musei italiani si fossero disfatti delle opere “secondarie” e allora non esposte, probabilmente oggi non possederebbero un solo Caravaggio. Senza contare il tasso di corruzione italiano: facile immaginare che i soliti noti farebbero incetta di capolavori pubblici a prezzi di saldo.
Ma ci sono ragioni più profonde per avere seri dubbi circa l’orizzonte del deaccessioning. In Italia i musei non si sono formati sulle raccolte di capricciosi collezionisti, nelle quali un Monet vale (forse) un altro: essi sono invece lo specchio e il deposito estremo dell’arte e della storia di un territorio, e una rete fittissima di nessi stringe anche la più umile tela al massimo capolavoro. Ogni vendita determinerebbe dunque un vuoto, letteralmente incolmabile.
E poi l’idea che – in un mondo sempre più diseguale – i super ricchi possano gettare anche sulle pareti di un museo lo sguardo cupido che si riserva ad un supermercato di articoli di lusso, mina l’idea stessa del museo come (ultimo?) luogo libero dalla dittatura del mercato. Perché «i musei rappresentano ancora quel genere di spazio pubblico dove è bandito il consumismo sfacciato»: lo ha detto lo scrittore Jonathan Franzen. Un americano.
Appare evidente che certe trasformazioni funzionali urbane, per quanto apparentemente immateriali e temporanee, finiscano per distorcere la qualità dell’abitare, e meritino una riflessione innovativa. La Repubblica Milano, 19 aprile 2015, postilla (f.b.)
Una fiumana di gente in via Tortona è il Quarto Stato di Pellizza Da Volpedo ma un secolo dopo. Ha fame e divora panini e pavé infilandosi in ogni passaggio aperto dal design tra le vetrine e i cortili. Qui dove del resto è stato inaugurato contaminando gli altri quartieri, il Fuorisalone è entrato ormai ovunque impossessandosi dell’anima di ogni spazio disponibile. Prima il Superstudio e poi, come un virus, alimentari, parrucchieri, bar. C’è un piccolo drone bianco a due ruote che sfida i piedi dei passanti saltando, roteando, cercando attenzione. Qualcuno inevitabilmente lo pesta ma il ragazzo in maglietta nera che lo manovra in disparte da un tablet non si agita. Il robottino è indistruttibile e ha il talento del voyeur. Trasmette sullo schermo del pilota, il 28enne Andrea Cancellieri, le immagini in alta definizione della folla che lo sovrasta. «Non è un gioco, collaboro per il secondo anno con un’agenzia di eventi e quest’anno lavoriamo per un produttore americano di droni che ha affittato lo spazio qui di fronte».
Anche un passatempo può essere una professione nell’indotto di una settimana che in tutto il mondo è ormai considerata il vero Carnevale ambrosiano. Una festa prima ancora che una fiera. Gi Zu Kim, 21enne cinese da un anno a Milano, studentessa della Naba con monolocale sui Navigli, è appoggiata a un muro in zona Brera, distratta dallo schermo del cellulare mentre cerca di capire cosa andare a vedere dopo. «Non avevo compreso la città fino a quando l’anno scorso non è iniziata la Design Week, pensavo fosse un luogo perfetto per studiarci e pessimo per viverci, voglio dire, non è Barcellona. Poi mi sono fatta trascinare nelle zone dai compagni di corso milanesi, qui in Brera, oppure a Lambrate, e ne ho scoperto la bellezza fuori dagli schemi, brutale».
Proprio Lambrate, la vecchia periferia operaia, continua ad essere il distretto dove i colori di questi giorni risaltano di più, come il vestito verde e i capelli rossi della 24enne artista Marlies Van Putten, olandese. «Mai stata a Milano, fantastica la reazione della gente. Proponiamo un lavoro di scultura che invita all’interazione, temevamo fosse difficile, faticoso e invece tutti vogliono mettersi alla prova. Non mi era mai capitato». Poco lontano, sempre in via Ventura, Anselm Dahl, architetto danese con raffinato look finto amish, è in pausa panino. «È il terzo anno per me ma temo qualcosa sia cambiato. Ho sempre affittato casa qui vicino a cifre ragionevoli, quest’anno invece rischiavo di non trovare posto e sto spendendo tantissimo per una stanza che non definirei esosa». Tra Salone e Expo, gli ultimi dati dicono che l’offerta di affitti brevi sia salita del 70%, mentre la domanda del 25%, con prezzi di 160 euro al giorno per le case vicine ai quartieri del Fuorisalone, oltre i 350 euro per gli appartamenti di lusso in centro. Non è un caso che Airbnb sia stato, a Palazzo Crespi, il generoso sponsor di una delle migliori installazioni.
Durante il Fuorisalone Milano si candida forse a diventare una specie di Venezia, una città piena di turisti ma deserta di milanesi. Rimane però straordinaria la capacità del design di ridare vita a luoghi morti o dimenticati durante il resto dell’anno. Il miglior esempio sono i bagni Cobianchi di Galleria Vittorio Emanuele. Elita, che li gestirà anche durante Expo, li ha resuscitati, infilando all’ombra del Duomo uno spazio off. Mercatino, bar, concerti, after party. Lorenzo Covello, 27enne milanese uscito dal Politecnico, modifica qui sotto felpe e tshirt con una vecchia macchina per cucire. Tutti si aspettano dai giovani meraviglie con le stampanti 3D e invece in giro si sono viste molte tecnologie obsolete, persino dei telai. «Non è che abbia girato molto quest’anno e non so se sia una moda. Credo in generale che ogni novità, come le stampanti 3D, generi una reazione contraria. Non è solo una questione di nostalgia, è più un voltarsi alla ricerca delle proprie radici, comunque la ricerca di un appiglio familiare, rassicurante, più vicino alla realtà di un file digitale».
postilla
Spero di usare con sufficiente auto-ironia il temine di pop-up gentrification per definire questo modo di trasformare anche radicalmente gli spazi urbani senza apparentemente cambiare nulla. Perché invece si inducono cambiamenti striscianti, e forse saperlo e rifletterci aiuta, ad esempio usandola, questa pop-up gentrification, e non facendosi usare. Del resto si tratta (la parola chiave Venezia usata nell’articolo dovrebbe far suonare un campanello) di fenomeni del tutto analoghi a quelli dei turismo tradizionale, o se vogliamo della movida, che però nascono da una specifica iniziativa anche pubblica, e dunque con potenzialità inedite.
Schematicamente, ci sono almeno due modi per leggere questo processo di sostituzione sociale temporanea: uno ottimista e uno sospettoso. Quello ottimista vede che non ci sono né grandi concentrazioni finanziarie e di operatori al lavoro, né quella forte compressione costante nel tempo che rendono il processo traumatico. Il quartiere si trasforma perché si stanno evolvendo il territorio, la società, l’economia, e tutto avviene attraverso piccoli gesti, stimolati dal periodico spuntare della punta dell’iceberg costituita dal “mercatino annuale del design internazionale”. L’approccio un po’ più guardingo però, osservando con un briciolo di prospettiva storica in più la cosa, nota che di sicuro sarebbe assai meglio evitare la formazione di “rendite di posizione” che forse avvantaggiano qualcuno, ma non certo la collettività, o la città più in generale. Ovvero, se è possibile organizzativamente trasformare per una settimana un quartiere misto in un distretto “pop-up”, così come si fa con certi esercizi commerciali, forse sarebbe meglio pensare a una rotazione, così da infondere nuova vita là dove essa è necessaria, magari per due o tre stagioni di seguito, e poi passare altrove. Ricordiamoci sempre che la rendita, in tutte le sue forme inclusa quella dell’immagine, ha sempre ostacolato la creatività. Per le attività creative, dovrebbe essere un problema serio (f.b.)
«È la prima volta che vengo a Pompei», dice senza reticenze Matteo Renzi. Era stato Berlusconi ad affrancare gli italiani dalla vergogna dell'ignoranza: e i due sono profondamente uniti dall'ostentato disprezzo per la conoscenza.Ma fa un certo effetto sentire una simile confessione da chi ha dedicato un'enorme parte del proprio discorso pubblico al patrimonio culturale, anzi alla cultura. Parlare di cultura porta consenso: praticare la cultura porta via tempo. E pazienza se si ammanniscono ricette per governare qualcosa di cui si ignora tutto: sarà il governo presieduto da uno che non era mai stato a Pompei a rifare l'arena del Colosseo, per adibirlo a luogo di spettacoli televisivi. C'è del metodo in questa follia.E l'aspetto peggiore della questione è che per Renzi – come per la massima parte della classe dirigente nata e cresciuta a nord di Roma – tutto il Mezzogiorno d'Italia è una terra incognita. E qui capisci che non manca solo un progetto (che non sia quello del potere personale): manca la seppur minima conoscenza del Paese che si vorrebbe governare.
La città invisibile, 15 aprile 2015
A dispetto di quanto affermano gli scomposti attacchi del partito unico delle cave e del cemento, che aggrega Forza Italia al PD, siamo dell’opinione che l’assessorato di Anna Marson lascerà di sé, in Toscana, perlomeno un “buon ricordo”: in effetti, per l’intero quinquennio 2010-2015, l’operato dell’assessore regionale all’urbanistica ha fattivamente opposto resistenza al disfacimento che da anni caratterizzava il governo del territorio toscano. Ma quale ne sarà il destino?
Ricordiamo in breve com’è andata. Una corposa percentuale di voti “di protesta” in favore di un partito (ormai defunto) radicalmente diverso dal PD ma ad esso coalizzato, impone a Rossi un personaggio “di rottura” in giunta: Anna Marson, prof di urbanistica allo IUAV, si trova così a prendere – con soddisfazione dei comitati – il posto che fu del piddìno Riccardo Conti (assessore decennale di cui sì, è serbata pessima memoria, basti rammentare l’inqualificabile campagna divulgativa dell’autostrada tirrenica). È un cambio epocale, ma su di esso grava dal primo istante l’ombra lugubre della scissione dell’assessorato contiano: le infrastrutture e i trasporti vanno a Ceccobao (sindaco di Chiusi, comune del senese distintosi allora per non aver redatto il proprio piano strutturale) che, in seguito alle indagini sul Monte dei Paschi, sarà sostituito dall’aretino Ceccarelli; alla prof restano le competenze dell’urbanistica, della pianificazione del territorio e del paesaggio.
Temi – territorio e paesaggio – al centro degli strumenti normativi che la Marson lascia in eredità alla regione: la legge regionale di governo del territorio e il piano paesaggistico.
La Legge regionale 65/2014, Norme per il governo del territorio, assumendo come non più ecologicamente e socialmente sostenibile la crescita dell’urbano, e prendendo atto della disfatta dei sindaci plenipotenziari di fronte alla bolla edilizia, blocca l’espansione urbana e concentra l’attenzione sulla cura della città e del territorio, sull’incremento delle pratiche partecipative alla definizione delle scelte di governo territoriale, sull’interdipendenza delle comunità locali nel quadro della pianificazione sovracomunale. Il contenimento del consumo delle terre fertili è garantito dall’innovativa perimetrazione delle aree urbanizzate che definisce con perentorietà città e campagna: ogni nuova edificazione residenziale al di là della “linea rossa” sarà interdetta, e ulteriori progetti per insediamenti produttivi e per grandi strutture di vendita costituiranno oggetto di verifica di conformità alle previsioni del Piano di Indirizzo Territoriale (art. 25). Attualmente, nell’anno internazionale del suolo, la legge è ferma, impugnata (proprio sull’appena citato articolo che impedirebbe la libera concorrenza commerciale) dalla direzione legislativa della presidenza del consiglio. Ne abbiamo già scritto, ma dovremo tornarci in conclusione.
Il Piano Paesaggistico nasce dalla revisione del precedente piano (firmato Conti) la cui evidente inefficacia fu stigmatizzata dal ministero dei beni culturali che, nel settore paesaggio, copianifica con la Regione: a fine 2010 se ne rende necessaria la riscrittura. Il piano del paesaggio, come prevede il Codice dei Beni Culturali, è sovraordinato alla pianificazione generale: ciò lo rende uno strumento tanto importante quanto temibile. Redatto dalle università toscane con il coordinamento scientifico di Paolo Baldeschi, il nuovo piano avrebbe potuto essere un dispositivo normativo all’avanguardia se la squadra PD-FI non ne avesse stemperato la cogenza a colpi di emendamenti e «imboscate», anche personalmente dirette all’assessore Marson, che rendevano possibile la riapertura delle cave in aree protette sopra i 1200 m, la costruzione edilizia non temporanea sugli arenili, e che rendevano opzionale la prescrittività delle “criticità” (ossia: se il PP segnala come criticità l’edificazione in aree a rischio idraulico, il comune può decidere, oppure no, di seguire la prescrizione regionale a non edificarvi). Il cosiddetto “maxiemendamento” – stilato di gran fretta, a Roma, da Rossi e dal ministro Franceschini – ha riportato il piano, approvato in maniera rocambolesca e all’ultimo tuffo, a un livello di civile qualità pianificatoria seppur abbia perso di incisività ad esempio riguardo all’escavazione industriale del marmo apuano.
Al di là degli indeboliti disposti normativi, si tratta di un atto di pianificazione che, finalmente, non contrappone ambiente a lavoro, ma interessi collettivi a interessi privati «finalizzati al profitto mascherato da occupazione e sviluppo», come afferma l’assessore. Il piano paesaggistico, costituito anche da un apparato conoscitivo ricco e articolato che potrà riversarsi nei piani strutturali, assicura perciò, in futuro, un diffuso incremento qualitativo nella pianificazione comunale. Il documento dà adito inoltre a una progettualità che crediamo sia necessario mettere a frutto localmente (e dal basso, magari) nei prossimi anni.
In entrambi gli atti – la legge e il piano – il superamento dell’idea meccanicista del territorio come supporto inerte risulta compiuto: il paradigma adottato dai due strumenti è di chiara matrice ecologista. L’attribuzione, “territorialista”, di valore culturale all’ambiente rurale è assicurata dalla definizione di «patrimonio territoriale» quale «insieme delle strutture di lunga durata prodotte dalla coevoluzione fra ambiente naturale e insediamenti umani, di cui è riconosciuto il valore per le generazioni presenti e future» (LRT 64/15, art. 3). Il richiamo alla «promozione» e alla «garanzia di riproduzione del patrimonio» e dei paesaggi regionali, quale bene comune territoriale, conferisce un’accezione genetico-evolutiva ai futuri atti di pianificazione.
All’orizzonte, tuttavia, molti sono gli ostacoli. Da una parte, un panorama legislativo nazionale avverso, che mira all’erosione degli spazi democratici nel governo del territorio: basti citare lo “Sblocca Italia” i cui contenuti deformano irrimediabilmente la materia urbanistica che peraltro la riscrittura dell’art. 117 della Costituzione trasferirà in potestà esclusiva allo Stato. Dall’altra, entra invece in gioco l’«asse Firenze-Roma» (l’ombrosa citazione è tratta dal programma elettorale di Nardella). A Roma, Renzi impedisce l’avvio della legge toscana, la prima in Italia contro il consumo di suolo, riconfermando la scelta miope di un’economia nazionale fondata sul mattone e sulla speculazione finanziaria nell’edilizia. Localmente, il partito unico del cemento mira alla privatizzazione dei beni territoriali più rari, Rossi essendo sempre meno autonomo rispetto alla Firenze-Roma e sempre più debole nelle gestione dei suoi (come è stato evidente nella questione paesaggio). E poi: il sottoattraversamento TAV di Firenze, la questione portuale e aeroportuale (l’aeroporto che scardina il progettato Parco della Piana Firenze-Prato), gli inceneritori, la geotermia, i rigassificatori, i quattro ospedali in project financing etc.
Insomma, in mezzo a questa «furia iconoclasta», cui gli assessorati della giunta Rossi (certamente quello all’ambiente) hanno dato il loro valido contributo, i prodotti del quinquennio Marson rappresentano un’importante costruzione civile e disciplinare dal carattere di eccezione; in merito alla loro applicazione o, addirittura, alla loro futura conservazione, tocca tuttavia affidarsi alla buona sorte. O perseverare nel far collettivamente pressione affinché essi restino, appunto, più di un “buon ricordo”.
Lo sguardo dell’architetto progettista sui nuovi quartieri faticosamente usciti dall’urbanistica del centrodestra ne coglie alcuni aspetti indubitabilmente riusciti, accantonandone però altri, che forse è meglio riprendere. Corriere della Sera Milano, 15 aprile 2015, postilla (f.b.)
Forse ci siamo. Dopo il completamento e l’inaugurazione primaverile (e dunque di buon auspicio) del parco opera d’arte nel vasto recinto del quartiere Isola, forse abbiamo trovato un’idea alternativa, contemporanea, alla città moderna del boom e post-boom. Wheatfield, il campo di grano di 50 mila metri quadrati tra i grattacieli di Porta Nuova, un’opera d’arte ambientale dell’americana Agnes Denes, praticabile all’interno lungo un sentiero sterrato in attesa della mietitura, prevista per metà di luglio, è l’ultimo tassello di un percorso intrapreso da tempo, che oggi ci appare in tutta la sua veemenza estetica. Ci siamo perché la complessità dell’impianto urbano e la ricchezza del paesaggio architettonico fanno da contraltare a un grande spazio naturale che unisce gli episodi fisici di questa imponente realizzazione immobiliare.
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| Il campo di grano piantato a Porta Nuova per Expo (foto F. Bottini) |
Il vecchio quartiere Garibaldi-Isola, un tempo rifugio della mala romantica, si è trasformato, finalmente, ha chiuso i conti con gli infiniti rinvii, con le proposte velleitarie inutilmente avanzate in oltre mezzo secolo: ora è realtà viva, pulsante, aggregante. Via per sempre il ricordo di luna-park arrugginiti e Circhi Americani e largo a grattacieli ambientali, skyline newyorkesi che fanno da corona a memorie della socialità riformista milanese, con tanto di operazione nostalgia, con tanto di mercatini, abilità artigianali e centro socio-culturale.
Ma la sorpresa è che le differenze reggono bene, dialogano, si compenetrano. Berlino, Amsterdam o Marsiglia, ma anche tanta creatività tutta italiana. Sarà la nascita di un «luogo» nuovo? Questo lo sapremo più avanti ma è probabile che tra molte socialità dialettiche, senza pregiudizi (movide notturne, locali alla moda e campi da coltivare a grano), la città finalmente cominci a manifestarsi come fenomeno contemporaneo alla ricerca di una nuova identità originale. Ora non serve cercare paternità multiple, il risultato è molto più importante della somma delle parti. Una specie di percezione sociale condivisa.
Più che un modello apparentemente confuso, può essere definito contraddittorio nel significato più ampio e ricco che possiamo dare al termine. Alla fine un’idea di città la stiamo costruendo e uso volutamente il «noi» perché la città è fatta anche dal godimento della bellezza che può regalare ai suoi consapevoli abitatori, e ogni individuo può partecipare alla crescita e alla salvaguardia di un modello evoluto di comunità.
postilla
Leggendo delle varie reazioni di critici ed ex critici ai risultati “a regime” del primo dei grandi quartieri prodotti dall’urbanistica joint-venture inaugurata da Maurizio Lupi, anche grazie ad alcuni sviluppi (e a Expo) contingenti entrato molto in fretta a far parte dell’immaginario metropolitano, bisogna quantomeno ammettere una cosa: molti dei timori e dei sospetti che circondavano il progetto e i cantieri, paiono evaporati come neve al sole, di fronte alla vera e propria invasione di cittadini nei nuovi spazi, che si sono imposti sia come meta, sia nell’immaginario collettivo, metropolitano e non. Detto questo, ovvero riconosciuto che l’aria della città rende un po’ più liberi anche coloro che liberi non sono proprio, tocca ricordare che quel titolo scelto dall’Autore dell’articolo, “Città Condivisa”, pare proprio fuori luogo per uno spazio urbanisticamente e funzionalmente vetusto, la cui unitarietà è del tutto delegata proprio a questi ottimisti flussi di popolazione, e la cui vitalità interna tuttora inesistente, con gli edifici sconsolatamente vuoti. E non aiutano a ben vedere, né l’impianto automobilistico anni ’60 in epoche di trionfo della mobilità dolce, né quella concentrazione terziaria fantozziana, proprio mentre le nuove forme di telelavoro e indifferenza localizzativa dovrebbero iniziare ad uscire dalle sale dei convegni. Insomma, se la città è dei cittadini, magari non bisognerebbe costringerli ogni volta a riconquistarsela assaltandola coi forconi, magari virtuali, come di fatto succede ancora oggi sotto le curtain wall e cascate di verde griffate di Porta Nuova (f.b.)
Il manifesto, 15 aprile 2015
L’Italia è un paese dove non si smette mai di stupirsi. In bene, in male. Oppure, più semplicemente, per la sorpresa di accorgerci all’improvviso di quanto fino a quel momento non avevamo neanche sospettato. Faccio due esempi concreti, che riguardano da vicino il mondo dell’ambiente e del territorio, di cui da qualche anno ci occupiamo.
Si tratta di Enrico Rossi, presidente della regione Toscana; e di Graziano Delrio, sottosegretario alla presidenza del consiglio, e ora, da pochi giorni, ministro delle Infrastrutture, al posto di quel Lupi, defenestrato da una (tutto sommato) modesta intercettazione.
L’uno, si dice, esponente della vecchia guardia postcomunista; l’altro, si dice, esponente dell’ala del Pd più vicina a Renzi. Ma queste differenze, ora, ai fini del nostro discorso, contano poco (mi pare).
Poco tempo fa, il manifesto ha pubblicato (il 2 aprile) un articolo, “I nazareni della Toscana”, in cui riassumevo le vicende relative all’approvazione in quella regione di un fondamentale Piano paesaggistico, considerandola (ad onta di qualche attenuazione in corso d’opera) «una grande vittoria». Appena qualche giorno dopo (5 aprile), interviene sul manifesto Enrico Rossi, appositamente (si direbbe) per condividere questo punto decisivo: «Anch’io sono d’accordo che la sua adozione sia stata una grande vittoria…».
Rossi sorvola (non a caso, purtroppo) sul fatto che quell’adozione sia il frutto del lavoro lungimirante e prezioso della sua assessora all’Urbanistica, Anna Marson, e che in seno al Consiglio le opposizioni più feroci a quell’approvazione siano venute da esponenti del suo partito, il Pd, spesso coalizzati con le forze di opposizione al suo governo regionale. Ma riconosce che una parte non irrilevante del merito sia di quelle forze ambientaliste, che hanno posto «al centro del dibattito e della ‘questione democratica’ i temi della partecipazione, della rappresentanza e [addirittura] dei beni comuni».
Veniamo al secondo caso.
Graziano Delrio è ministro delle Infrastrutture da un paio di giorni. Acquisto in edicola la Repubblica. In prima pagina uno strillo di notevoli dimensioni: «Delrio: basta Grandi opere. Solo lavori utili». Sospetto che si tratti di una di quelle amplificazioni giornalistiche, che servono solo a lanciare improvvidamente un caso. No: nell’intervista il concetto è ripetuto più volte, quasi a volerlo sottolineare, e in maniera inequivoca. Per fare un solo esempio: «…la nostra strada [rispetto al passato] è un’altra, con noi finisce l’era delle grandi opere e si torna a una concezione moderna. Dove le opere [non necessariamente grandi, come si vede] sono anche la lotta al dissesto idrogeologico, la mobilità urbana, le scuole».
Ohibò, che il ministro Delrio si sia iscritto nottetempo alla Rete dei comitati per la difesa del territorio, e io non ne abbia saputo nulla?
Il discorso sarebbe lungo, — mi piacerebbe, ad esempio, sapere quale senso attribuire alla definizione di «concezione moderna», cui Delrio si richiama, — ma io mi propongo qui di tracciarne solo alcuni lineamenti fondamentali.
La mia prima reazione, sulla base di una lunga esperienza, sarebbe: chiacchiere. Tanto più che in Toscana pendono sulla testa degli attori politici le imminenti elezioni regionali (31 maggio), e si sa che per qualche voto in più si è disposti a fare le affermazioni più sfrenate. Propongo per questa volta di seguire la strada opposta.
Pesano sul destino della Toscana (mi limito a questo ambito, che conosco meglio, ma non sarebbe difficile allargare la rassegna a una dimensione nazionale) almeno due “grandi opere”, da intendersi nel senso più classico ed esecrando del termine, esattamente quello che il ministro Delrio sembrerebbe aver esorcizzato in due parole nel corso della sua intervista: e cioè il Sottoattraversamento ferroviario di Firenze e la seconda pista dell’aereoporto fiorentino di Peretola.
Ambedue distruttive, inutili, dispendiose, fonte (come già si è dimostrato, e meglio si potrebbe dimostrare) di corruzione e persino di pesanti affarismi politici. La Rete dei comitati per la difesa del territorio possiede le competenze per dimostrare inequivocabilmente tutto questo, e persino per indicare, — e in molti casi ci sono, — soluzioni alternative. E non ho alcun dubbio che le altre Associazioni ambientaliste, a fianco delle quali è stata condotta la battaglia a sostegno del Piano paesaggistico, sarebbero ben liete di apportare il loro contributo a un’ipotesi del genere.
Invito il ministro Delrio, il presidente Rossi e, of course, il ministro Franceschini e il sottosegretario ai Beni Culturali Borletti Buitoni, ad un confronto faccia a faccia su queste tematiche e, più in generale, su questo indirizzo di governo: naturalmente pre-elettorale, perché questo gli conferisce un’importanza e un’autorevolezza, che in caso contrario si perderebbero.
In Toscana (come ovunque, del resto) le tematiche alternative sono altrettanto rilevanti di quelle due oppositive, su cui in precedenza mi sono soffermato: per esempio, il dissesto idrogeologico (appunto); una diversa impostazione della questione geotermica; le condizioni del trasporto ferroviario locale, che sono penose, e che il Sottoattraversamento di Firenze peggiorerebbe ancora.
C’è materia non solo per evitare errori clamorosi, anzi catastrofici. Ma anche per ridisegnare le caratteristiche di un diverso sviluppo regionale con “opere” (non necessariamente “grandi”) avvedute, sensate e lungimiranti.
Se è vero, come scrive Rossi, che «al centro della questione democratica ci sono i temi della partecipazione e dei beni comuni», è qui ed ora che lo si prova
Il Sole 24 Ore, supplemento culturale, 12 aprile 2014
Benedetto Croce chiamava i loro paesaggi “il volto amato della Patria”, ma a noi che in Abruzzo andavamo a sostenere, in pochi, i soliti pochi (Antonio Cederna, Mario Fazio, Salvatore Rea, chi scrive e qualche altro) le battaglie di Michele Cifarelli presidente del Parco Nazionale e di Franco Tassi sagace direttore, rinfacciavano di essere “amici del lupo e dell’orso, non dell’uomo”. Eppure quel Parco e l’altro del Gran Paradiso esistevano dal 1922 e li avevano voluti Croce quale ministro della Pubblica Istruzione e il sottosegretario Giovanni Rosadi. Unitamente alla legge, pure del 1922, sulle “bellezze naturali”. Il fascismo ne aveva aggiunti due: Circeo, dalla storia travagliata, e Stelvio. Poi più nulla per settant’ anni. E anche quel poco che c’era sovente a rischio. A Pescasseroli patria di don Benedetto alcuni avvocati dello Stato avevano per primi costruito residences abusivi. Il senatore Mario Spallone, aveva proposto una sorta di autostrada urbana nel Parco da intitolare all’amico Palmiro Togliatti. Di parchi regionali neppure si parlava anche se Italia Nostra presieduta dallo scrittore Giorgio Bassani e il Wwf fondato da Fulco Pratesi stavano rilanciando alla grande le aree protette.
Nell’estate del 1972 ci trovammo, sempre con Bassani, Cederna, Bernardo Rossi Doria, Paolo Ravenna alla splendida Abbazia di Pomposa per un convegno sul Parco del Delta ancora sulla carta. Lì ci fu annunciata una marcia, non proprio pacifica, degli aspiranti lottizzatori di Goro, i quali reclamavano una strada litoranea che consentisse di far proseguire i Lidi ferraresi a nord tranciando il Boscone estense della Mesola. Dovette mettersi in mezzo il presidente della Regione Guido Fanti per fermare fisicamente e politicamente il corteo. Purtroppo si riuscirono a realizzare, anni dopo, dal Polesine al Ravennate, soltanto due Parchi regionali dalla vita piuttosto mediocre. Eppure allora la spinta politica c’era se un modesto quanto appassionato artigiano, l’assessore Germano Todoli, chiuse alla caccia la storica Pineta comunale di Cervia, provocando un terremoto. “E’ tornata a cantare l’upupa”, mi annunciò un giorno emozionato. Tornata anche ad essere - come canta Eugenio Montale - ilare “nunzio di primavera”. Poi la grande crescita, negli anni ’80 e ’90, a partire dall’Aspromonte, di sempre nuovi Parchi Nazionali e regionali, i primi in specie coi ministri Ruffolo, Spini e Baratta. Fino a raggiungere quota 23, più il Parco del Gennargentu per il quale purtroppo non si è mossa foglia. Siamo così passati dalla miseria di un 3 % di territorio protetto dai Parchi Nazionali al 10,5. Circa 1 milione e mezzo di ettari. Oltre 3 milioni se sommati a parchi regionali, oasi, riserve naturali. Una quota inimmaginabile anni fa e che ha certo concorso, con questi poderosi “polmoni” di verde, a migliorare la qualità della natura e quindi della vita di tutti. Purtroppo i fondi destinati ai Parchi nazionali si sono fatti sempre più avari. Nel 2012 appena 63 milioni di euro, 42 per ettaro, 20 % in meno della media europea. Mentre soltanto di tasse lo Stato ne ricava 300 milioni, e i visitatori assommano a 34 milioni, con un giro d’affari della “economia dei parchi”, sostenibile, biologica, superiore al miliardo.
Inoltre i criteri di nomina dei responsabili degli Enti sono sempre meno tecnico-scientifici e sempre più circoscritti: ex sindaci (magari, come per le Foreste Casentinesi, mirabile parco storico-naturalistico, ex presidenti dei cacciatori), ex assessori, sostenitori di ski-lift e sciovie a tutto spiano, rappresentanti di interessi corporativi e/o localistici. Con la tendenza ad “aprire” gli stessi consigli ai rappresentanti di attività incompatibili. Si pensi alle accese polemiche dei cavatori industriali dei marmi delle Apuane contro il Piano paesaggistico appena approvato dalla Regione Toscana. Addirittura si tende a smembrare i grandi Parchi Nazionali. Ne è minacciato da anni il più antico, il Gran Paradiso, ma ancor più il Parco dello Stelvio a ottant’anni dalla sua istituzione: pochi giorni fa la Commissione dei Dodici ha deciso il trasferimento delle competenze dallo Stato alle due Province Autonome di Trento e Bolzano e alla Regione Lombardia. Tocca al governo perfezionare ora con decreto quello che la fondatrice del FAI, Giulia Maria Mozzoni Crespi, definisce “un gigantesco passo indietro, una scelta senza precedenti in Europa”. Uno “spezzatino” che già nel marzo 2011 il presidente Napolitano, va ricordato, si rifiutò di firmare.
iC’era una volta un economista molto attento ai temi ambientali. E c’erano anche - queste per la verità ci sono ancora - persone molto distratte. Per l’esperto, dunque, non era facile far comprendere - neppure ai propri studenti - l’importanza, soprattutto economica, dell’uso conservativo delle risorse naturali. Il professore, però, non si arrendeva e continuava a ripetere che “i grandi investimenti immobiliari lungo numerosi tratti delle coste sarde sono interventi irreversibili e consumano in modo definitivo e particolarmente alto la natura nella quale si situano”. Per il bene comune era troppo importante che tutti capissero come “ogni investimento effettuato per aumentare il grado di sfruttamento turistico della risorsa (strutture ricettive, per esempio) ne determini un “consumo” irreversibile, e di conseguenza la qualità ambientale, l’attrattività del suo scenario naturale diminuisca”.
In principio l’economista provò con la metafora del pastore: un esempio utile per tutta la popolazione visto che le pecore in Sardegna sono di casa da molto più tempo dei turisti. Richiamando la nota analisi di Hardin, identificò la proprietà comune di una risorsa naturale con un pascolo a disposizione delle greggi di tutti i pastori, ognuno con gli stessi diritti. E’ ovvio, ha spiegato l’economista, che tale situazione risulta sostenibile solo se le pecore consumano una quantità di erba pari al suo livello di crescita: in questo modo, non si impoverisce il pascolo e non si intacca il foraggio per il futuro. Se le greggi consumassero una misura superiore di erba, viceversa, la disponibilità diminuirebbe con un grave e irreversibile impoverimento del pascolo.
Ma perché questo dovrebbe accadere? Non dovrebbe essere nell’interesse di tutti comportarsi in modo da evitarlo? Nella risposta a questa domanda - avverte il professore - c’è l’essenza di quella che viene chiamata la “tragedia dei beni comuni”. Guardiamo la situazione con gli occhi di un singolo pastore, ha poi spiegato. Per lui portare qualche pecora in più al pascolo significa guadagnare di più, perché poche pecore trovano maggiori quantità di erba. Anche nel caso in cui il nostro pastore fosse meno egoista - ha osservato lo studioso - potrebbe comunque, convincersi che qualche altro lo sarà e quindi, tanto vale comportarsi nello stesso modo. Il pastore, dunque, aumenterà i propri benefici, creando un effetto negativo per gli altri pastori. Tale effetto negativo si chiama esternalità - ci insegna l’economista - perché i costi così provocati ricadono sugli altri e non sono pagati da chi li causa. Portando al pascolo più pecore per guadagnare di più il singolo pastore crea una situazione che da sostenibile diventa insostenibile, ma in assenza di un’autorità regolamentatrice nessuno può imputare al responsabile il costo causato da questa azione. Così ognuno verrà condotto ad agire in modo egoista, portando alla rovina collettiva: tutti aumenteranno lo sfruttamento e il pascolo sarà consumato completamente. Questo esempio, conclude l’esperto, “ha diverse applicazioni in molti campi dell’economia ambientale, compreso quello dello sviluppo turistico di una località dotata di particolari bellezze naturali e consente di individuare i meccanismi politico affaristici che spesso, in Sardegna, hanno permesso la realizzazione di interventi simili all’eccessivo sfruttamento del pascolo, in nome di una loro ipotetica (e quasi sempre del tutto ingiustificata) capacità di contribuire a risolvere il problema della disoccupazione”.
Il discorso è logico, la metafora chiarissima, eppure niente da fare, nessuno comprende, le vie Gluck si moltiplicano e tutti continuano a costruire case su case. E non lasciano l’erba. Peggio molto peggio delle pecore del pastore egoista.
Ma il professore, tenace, non si arrende e confidando in un risveglio degli intellettuali ricorda “un risultato classico dell’economia dell’ambiente [Krutilla e Fisher (1975)], non sempre” -sottolinea - “tenuto nella dovuta attenzione dalle autorità competenti in materia di sviluppo turistico”. Da tale studio emerge che “quanto più si hanno motivi per ritenere che le preferenze dei consumatori premieranno in futuro l’alta qualità ambientale del prodotto turistico, tanto più diventa necessario essere estremamente prudenti in materia di sviluppi turistici ad alto consumo irreversibile della risorsa ambientale”. Il turismo sardo degli ultimi decenni, viceversa, “basato in gran parte sulla costruzione di seconde case spesso con alto impatto paesaggistico negativo, ha ignorato troppe volte ogni ragionevole criterio basato su qualche definizione chiara e riconoscibile di sostenibilità economica. E ci sono casi in cui la miopia o un alto tasso di sconto di rendimenti futuri possono indurre allo sfruttamento eccessivo della risorsa anche imprenditori seriamente intenzionati ad associare i propri destini economici con quelli della località turistica in cui decidono di investire”.
Questa è l’ultima spiaggia, ha decretato, infine, in un saggio di successo l’economista e “l’unica soluzione è che esista una autorità riconosciuta, che sia capace di coordinare le azioni degli individui, offrendo incentivi e impartendo sanzioni per coordinare il comportamento di ognuno in modo da ottenere l’uso ottimale aggregato della risorsa”.
Questa volta il professore, seppure dopo molti anni e a prezzo di diversi piani casa, non è rimasto inascoltato. Alcuni cittadini, che nel frattempo avevano imparato la lezione, hanno avuto un sussulto e l’hanno eletto presidente della regione, riconoscendo proprio in lui l’autorità che deve garantire “l’uso ottimale aggregato della risorsa”, l’unica che possediamo. Con la nascita del politico, però, l’economista è rimasto vittima di uno strano sortilegio e ha perso completamente la memoria. Non solo. E’ stato invaso da una vera e propria smania di consumo. E ha deciso che subito, immediatamente, qui e ora, si deve consumare tutta, ma proprio tutta, quella risorsa ambientale che per anni aveva difeso in modo strenuo e disperato. Inutilmente abbiamo cercato di fargli comprendere, usando le sue stesse parole, che “il risultato delle analisi di Krutilla e Fisher è fondamentale, perché conferma che - nell’alternativa tra conservare una risorsa naturale con valore ambientale in sé o invece usarla come input di un processo produttivo che la consuma - l’incertezza sulle preferenze delle generazioni future, aumenta la possibilità che la scelta economica ottimale per l’intera società sia quella a favore della conservazione della risorsa naturale”.
E che proprio questo “è il motivo per cui imprenditori anche molto “avidi”, anche molto poco sensibili alle bellezze naturali, possono scoprire la convenienza economica di preservare la qualità della risorsa che attrae i turisti e che non è rinnovabile”.
Ancora increduli gli abbiamo ricordato di quando sosteneva che “le analisi di tipo “costi-benefici” utilizzate in Sardegna per decidere il rendimento di un investimento di sviluppo turistico hanno ignorato questo fondamentale risultato, con la conseguenza che è stata spesso data via libera a progetti che si sono dimostrati economicamente insostenibili”. Non c’è stato verso. Questi progetti “economicamente insostenibili” devono crescere fino al 25 per cento. Un quarto del volume esistente. Non solo alberghi, resort, prime, seconde e terze case, ma anche capannoni industriali e in misura minore, centri commerciali. Centinaia e centinaia di milioni di metri cubi. E poco importa se si trovano in centro storico, in area vincolata o all’interno dei 300 metri dal mare o dagli stagni. E se sono incostituzionali e contrari all’ottimo Piano Paesaggistico. Così sarà. Lo stabilisce un disegno di legge su un nuovo Piano casa che avrà durata illimitata, ed è in corso di approvazione nel Consiglio regionale.
Abbiamo cercato di fermare questa folle frenesia, ricordando la presenza di leggi europee e nazionali che impediscono la realizzazione di un numero imprecisato di interventi senza calcolare gli effetti che questi produrranno sull’ambiente. Esiste una procedura obbligatoria - valutazione ambientale strategica (VAS) - abbiamo scritto, che impone di determinare in anticipo l’impatto delle nuove opere sul territorio. Nessuno ha risposto.
E la settimana prossima milioni di metri cubi di cemento sommergeranno per sempre la nostra ultima spiaggia.
La Nuova Sardegna, 10 aprile 2015
Il piano paesaggistico della Toscana è stato approvato. Dopo uno scontro che rispecchia lecontrastanti opinioni nel PD su questi temi. In una temperie sfavorevole alla custodia di valori screditati dalla crisi, e da provvedimenti come “SbloccaItalia”. Anna Marson è l'assessore all'urbanistica che si messa in mezzo, per impedire il tiro a segno di emendamenti allo strumento frutto di un lavoro accurato. Con l'obiettivo di non disperdere la ricchezza di una regione speciale, azionista essenziale dell'iconografia italiana celebrata nel Mondo. Il paesaggio conta. E a proposito di ricchezza è normale chiedersi se senza l'armonia che distingue le campagne tra Firenze e Siena ci sarebbero ad esempio quei vini preziosi.
Ci sono analogie con la Sardegna. Anche contro il piano paesaggistico voluto dal governo Soru ci sono state e ci sono ostilità. In fondo pesa il disorientamento nel dibattito a sinistra.
In effetti, in entrambi i casi si è configurato contro il piano un blocco bipartisan. In Sardegna ciò ha provocato addirittura la caduta di Soru. In Toscana sia l'ampia mobilitazione a livello sociale e culturale che l'intervento del Mibact, hanno consentito un recupero in extremis. L'argomento pretestuosamente usato in entrambi i casi è stato quello della contrapposizione tra tutela e sviluppo, mentre anche il caso sardo - raccontato di recente nel bel libro a cura di Edoardo Salzano, «Lezioni di piano» - evidenzia con chiarezza come ciò che si intendeva perseguire bloccando l'ulteriore edificazione della costa fosse un diverso modello di sviluppo, capace di mettere in valore lo straordinario patrimonio insediativo esistente nelle aree interne.
È possibile spiegare in sintesi perché il piano della Toscana può servire a consolidare la ricchezza di una regione già molto fortunata?
Anche la Toscana condivide la situazione di crisi in cui si trova oggi l'Italia, ed è oggetto di diverse acquisizioni da parte di gruppi finanziari globali. Decidere come comunità regionale ciò che si può fare perché qualifica il paesaggio e valorizza il territorio con ricadute positive, è in questo momento fondamentale. E va fatto con le regole e con l'esempio.
Le richieste di accomodamenti sono sembrate lontane dalla saggezza antica che ha originato il paesaggio toscano - il Buon governo negli affreschi di Ambrogio Lorenzetti - e pure dal rigore della scuola urbanistica fiorentina.
L'affresco che illustra gli effetti del Buon governo rappresenta in realtà un progetto (a fronte di pratiche che anche allora non sempre erano virtuose), una sorta di "norma figurata", diremmo noi oggi, un progetto retto dai princìpi rappresentati nell'Allegoria: Giustizia, Sapienza, Concordia, Saggezza, Magnanimità ...e così via. Il Comune di Siena è rappresentato come il Bene Comune, dunque l'essenza dell'interesse collettivo. Interrogarsi su ciò dovrebbe essere sforzo costante delle istituzioni pubbliche.
C'è chi ha pensato di influenzare il dibattito per perpetuare privilegi nello sfruttamento di risorse che dovrebbero stare fuori dal mercato. C'è il tema delle cave ma non solo.
Certo, e questo atteggiamento è stato rafforzato dalla prossimità con le elezioni. Però la CGIL si è schierata dalla parte del piano. La CGIL sulle cave si è schierata con il piano condividendo il tentativo di garantire quanto più possibile la lavorazione in loco del materiale estratto, a fronte dell'esportazione di gran parte dei blocchi grezzi. Negli ultimi decenni i rapporti tra quantità estratte e posti di lavoro sono andati divaricandosi. Il tentativo con il piano del paesaggio è stato quello di socializzare almeno parte dei guadagni, riducendo i costi ambientali e paesaggistici. La Fillea ha condiviso l'ipotesi di evitare il consumo di suolo per promuovere la riqualificazione delle aree urbanizzate con interventi capaci di coniugare una maggior qualità dell'abitare con la qualità del lavoro impiegato per realizzare le opere.
Nel PD affiorano posizioni distanti dalla cultura ambientalista. Non è una novità che nella Toscana rossa si manifestino propensioni a ridurre le tutele del territorio, penso alla speculazione Fiat-Fondiaria a Firenze impedita da Occhetto nel 1989. Ecco l'utilità di sguardi vicini e lontani che si intrecciano. In questo caso l'intervento dello Stato attraverso il Mibact è servito a contenere lo stravolgimento del piano.
L'intervento del ministro, e della sottosegretario Borletti Buitoni, è stato decisivo. Nella mia esperienza il fatto che i livelli di decisione siano diversi è fondamentale per dare corpo ai principi di adeguatezza, interesse collettivo e sussidiarietà.
Come intuiscono alcuni urbanisti, la cosiddetta crisi delle periferie deriva da distorsioni novecentesche, come quella di avere privilegiato aspetti fisici su alcuni obiettivi sociali che ne avrebbero modificato gli equilibri. La Repubblica Milano, 9 aprile 2015, postilla (f.b.)
Il modello milanese di “scuola aperta” da esportare negli istituti di tutta Italia. Con le aule dove di mattina studiano i bambini messe a disposizione la sera per incontri culturali e cineforum, le palestre che accolgono lezioni di danza e yoga, e le biblioteche che diventano un luogo di studio anche per i più grandi. Sarà ascoltato oggi alla Camera, in commissione Istruzione, Giovanni del Bene, l’ex preside del comprensivo Cadorna ora a capo dell’ufficio “Scuole aperte”, il quartier generale nato l’anno scorso a Palazzo Marino in collaborazione con l’Ufficio scolastico regionale con l’obiettivo di aiutare asili, elementari e medie a organizzarsi per trasformare i propri spazi in luoghi di incontro per la città quando gli alunni non sono in classe.
Un progetto nato nel 2012 che ora potrebbe diventare un esempio da estendere a livello nazionale. A oggi, a Milano, sono una trentina gli istituti coinvolti: oltre alla Cadorna — che ha fatto da apripista per tutti con le sue aule aperte da anni fino a tardi, anche durante le vacanze di Natale, per attività di ogni tipo — ci sono per esempio la Rinnovata Pizzigoni e la Calasanzio, la Casa del Sole e il comprensivo Mameli. «Non esiste un modello unico in questo momento — spiega Del Bene — ma l’obiettivo per tutti è diventare un punto di riferimento per la vita del quartiere». Dietro al progetto, l’assessorato al Benessere e al Tempo libero di Chiara Bisconti in collaborazione con quello all’Istruzione di Francesco Cappelli. «Abbiamo deciso di partire dal basso, andando a studiare quelle scuole che già in città sono sinonimo di apertura quasi permanente, per poi introdurre un cambiamento culturale che renda loro repli- modelli culturali in altri plessi scolastici », spiega la Bisconti in un documento che verrà letto oggi alla Camera. Fra i Comuni che hanno già manifestato interesse per seguire le orme di Milano, quello di Roma.
Per le scuole milanesi, il passo successivo è un “patto territoriale” che coinvolga i presidi delle scuole, i consigli d’istituto, le associazioni del terzo settore, e i Consigli di Zona per stabilire insieme i bisogni del singoli quartieri. «Un attore fondamentale, poi, sono i genitori — precisa Del Bene — che possono costituire associazioni legalmente riconosciute e diventare un partner privilegiato per la promozione di queste attività: in questo modo l’utenza può affiancare la scuola e creare un valore aggiunto, sia come risorsa di carattere materiale, sia come ampliamento dell’offerta formativa». Per coinvolgere gli istituti che ancora non si sono mossi, poi, il Comune pubblicherà a breve un bando che utilizza parte dei fondi ministeriali della legge 285 per la promozione dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, per aiutare le scuole elementari e medie ad aprirsi al territorio.
postilla
Come forse qualcuno si ricorderà, le scuole aperte sono una delle idee di punta del programma presentato alle primarie da sindaco di Stefano Boeri, nella cui biografia oltre ai noti progetti da archistar ci sono anche anni da redattore di “Urbanistica”, e certamente un’ottima cultura internazionale sul tema del quartiere. Cultura che in un modo o nell’altro ricorda quanto il concetto di Unità di Vicinato, alla base della conformazione fisica di gran parte delle periferie contemporanee, vede al centro (fisico, funzionale, identitario) proprio la Scuola, intesa non solo come fabbrica part time di istruzione dell’obbligo, ma vero e proprio nodo sociale, attorno al quale ruotano spazi e tempi della città. Era l’idea fondatrice delle teorie di Clarence Perry, e speriamo che possa resuscitare, dopo tanti decenni di abbandono o quasi (f.b.)
Il manifesto, 5 aprile 2015, con postilla
Ho letto con interesse il recente articolo di Asor Rosa (I nazareni della Toscana), che ricostruisce le ultime fasi d’approvazione del nostro piano del paesaggio. Anch’io sono certo che la sua adozione sia stata una grande vittoria; una scelta lungimirante, che ha messo al sicuro la Toscana e che rappresenta un passo avanti esemplare nella tutela dei beni culturali e paesaggistici, in grado di segnare la rotta per il resto del paese.
Asor Rosa intesta — con buoni argomenti — una parte del successo alla pressione mediatica e sociale. Petizioni, appelli di autorevoli intellettuali, interventi sulla grande stampa di associazioni come Italia Nostra, Fai, Legambiente e altri. Tutto vero e utile. Io stesso ho risposta a oltre 5mila lettere di cittadini preoccupati, che chiedevano garanzie e rassicurazioni. Tutto questo ha prodotto un concorso di idee e passione civile che ancora una volta pone al centro del dibattito e della «questione democratica» i temi della partecipazione, della rappresentanza e dei beni comuni.
Tuttavia un fatto resta indiscutibile: siamo l’unica Regione ad aver approvato il piano del paesaggio, in un dibattito a tratti aspro, ma con uno sforzo collettivo capace di andare fino in fondo.
E questo dopo un lavoro lungo quattro anni, che ha visto integrarsi università, uffici regionali, politica e rete dei comitati, in un inedito sforzo di ricomposizione tra quelli che Gramsci chiamava «intellettuali» e «popolo».
Avevamo anche il dovere di copianificare tutto con il Ministero e non ci siamo sottratti. Per me è stato un onore scrivere un emendamento che è stato condiviso dal Ministero e votato dal Consiglio regionale. Quello che sembrava un cortocircuito tra federalismo e centralismo si è rivelato un successo istituzionale, rispetto al quale i retroscena sui ’nazareni’ e le ’larghe intese’ appaiono davvero irrilevanti.
Il nostro piano rappresenta la conclusione di un percorso di leggi e interventi di governo del territorio, che hanno reso la Toscana una delle regioni più protette d’Europa. Leggi discusse e approvate nello stesso Consiglio ingiustamente messo in ombra dalle cronache. Mi riferisco allo stop all’edificazione in tutte le aree a rischio idraulico, al consumo zero di suolo, alla ripubblicizzazione delle cave Apuane, alla messa in sicurezza del sistema idrogeologico. Piuttosto che «relazioni pericolose» tra maggioranza e opposizione, nel corso dei mesi ho assistito a opposti estremismi: quello di chi voleva continuare ad avere le mani libere e di chi invece quello di chi voleva frenare ogni sviluppo.
Un paesaggio che è nato da secolare armonia tra lavoro e elementi naturali, vive e si rigenera solo nella salvaguardia di questa relazione, non nella sua scissione e separazione. D’altro canto la dialettica e la sintesi restano a mio giudizio la principale risorsa della politica. Una Toscana imbalsamata finirebbe per perdere la capacità di emancipazione e avanzamento sociale, che viene dai distretti produttivi, dalle reti infrastrutturali e dalla valorizzazione del capitale umano.
Nella nostra regione ci sono circa 200 mila disoccupati e ogni anno 6.500 ragazzi abbandonano gli studi. Dobbiamo costruire le condizioni per incentivare opportunità di lavoro e investimento produttivo. Non si può chiedere tutto alla rendita immobiliare o al turismo: sarebbe insostenibile anche sul piano ambientale. Occorrono lavoro, formazione, ricerca e produzioni di qualità. Come stiamo cercando di fare con infrastrutture e bonifiche sulla costa, da Piombino a Livorno fino a Massa.
Seguo e osservo con grande interesse quello che accade nella sinistra italiana e sono certo che la crisi dei corpi intermedi e dei partiti impone il dovere di allargare lo spettro della rappresentanza, della discussione e della decisione politica. Sono grato ai comitati di cittadini impegnati da anni nelle battaglie ambientali e civili.
Asor Rosa ha scritto che il voto è uno strumento di influenza democratica e dovrà essere usato con intelligenza, indirizzandolo verso i problemi e le soluzioni concrete. Credo che con il Piano del Paesaggio anche in Toscana possiamo contribuire alla ricomposizione delle forze progressiste e delle culture della sinistra. Ci sono tutte le premesse. Tra le molte possibilità anche il voto disgiunto, consentito dalle regole e dall’offerta politica. Esso rappresenta un’opportunità per tutti coloro che sono disposti a superare gli steccati davanti alla concretezza delle sfide.
postilla
Il presidente della Toscana ha indubbiamente svolto un ruolo di eccezionale rilievo nel «percorso di leggi e interventi di governo del territorio, che hanno reso la Toscana una delle regioni più protette d’Europa», e - secondo le cronache - è stato decisivo nel condurre il piano paesaggistico fuori dalle secche in cui i rappresentanti del "partito unico del cemento" lo avevano condotto. Benché zoppicante e reso più fragile il piano é stato approvato con la sua paziente mediazione. Ha ragione di essere soddisfatto del suo lavoro. Tuttavia il suo intervento contiene una inesattezza e una forzatura. Come "persona informata dei fatti" devo fare due osservazioni. Non è esatto affermare che quello della Toscana è il primo piano paesaggistico approvato. Nel 2006 è entrato in vigore (e lo è tuttora) il piano paesaggistica della Regione Sardegna, grazie all'iniziativa e alla costante azione del suo presidente Renato Soru. Ed è secondo me una forzatura affermare che nella vicenda del piano toscano si siano manifestati due «opposti estremismi», uno dei quali sarebbe «quello di chi voleva frenare ogni sviluppo». Eddyburg ha seguito con molta attenzione la vicenda, ma posizioni che volessero frenare "ogni sviluppo" non le abbiamo trovate. (e.s.)
Il manifesto, 15 marzo 2015
Le vicende che hanno portato in Toscana all’approvazione, quanto mai difficile e tormentata (nel penultimo giorno utile della legislatura!) del cosiddetto Piano paesaggistico regionale, meritano una riflessione che travalica i confini del caso specifico e s’allarga inequivocabilmente a una dimensione nazionale.
In estrema sintesi (quindi, anche con qualche inevitabile imprecisione). Il Piano paesaggistico è lo strumento che disciplina il governo del territorio: proteggendo più o meno caratteri e morfologia del paesaggio e dell’ambiente; disciplinando in forme più o meno chiare e definite il consumo del suolo, problema divenuto in questi anni in Italia drammatico, anzi, ormai sull’orlo della catastrofe.
Nel governo regionale toscano, a maggioranza Pd, e sotto la presidenza di Enrico Rossi, l’assessorato all’urbanistica, ricoperto da Anna Marson, tecnico di valore, docente nella facoltà di architettura di Venezia, ha iniziato da subito un minuzioso lavoro di studio e di definizione (con l’ausilio anche delle competenze espresse dalle principali università toscane), il quale ha portato più o meno nell’estate scorsa ad un testo giudicato unanimemente di grande valore ed efficacia. La supremazia decisionale della Regione sulle singole rappresentanze locali e un sistema di regole chiare e ineludibili ne costituivano il tessuto culturale e politico.
In questa lunga fase i rapporti fra la presidenza Rossi e le istanze ambientaliste sono state generalmente (anche se non uniformemente) buoni. La Rete dei comitati per la difesa del territorio, che allora presiedevo, ha avuto numerosi incontri con Rossi e la sua Giunta, credo con reciproco vantaggio. Tutto ciò si è allentato, fino a scomparire del tutto, dal momento in cui Rossi si è ricandidato alla presidenza della Regione con l’esplicito avallo di Matteo Renzi (ma non intendo stabilire rapporti troppo stretti da causa ed effetto tra le varie vicende narrate, le quali invece, come vedremo, si prestano a molteplici e contraddittorie interpretazioni).
Vengo rapidamente al dunque. Il Piano, dopo aver ricevuto numerosi riconoscimenti e approvazioni da parte delle forze che compongono l’attuale maggioranza, entra nella fase di discussione consiliare e del voto.
Emergono a questo punto le resistenze più acri e selvagge. A parte l’ostilità delle opposizioni in Consiglio, Fi e altri, in qualche modo scontate, gli interventi più distruttivi in materia di disciplina ambientale e regole e tutela del paesaggio, si manifestano tra le file del Pd. In numerose occasioni Pd e Fi ragionano e votano in maniera sorprendentemente identica.
Due concezioni dell’ambiente e del territorio, ma ancor più, due modi d’intendere la politica e la società (come ebbe a dire più tardi l’assessore Marson) si fronteggiano con dura chiarezza: non , come pretenderebbero gli avversari del Piano, fra una “idea di sviluppo” e “una che rifiuta lo sviluppo”, facendosi carico di un improbabile ritorno all’indietro; ma fra una politica sfacciatamente ancorata agli interessi privati e una che assume come proprio punto di riferimento gli interessi collettivi e i bisogni della cittadinanza; e dunque, a ben vedere, tra un modello di sviluppo ormai sterile e autodistruttivo e un diverso e innovativo modello di sviluppo (che è poi ovunque, e sempre di più, la vera posta in gioco dello scontro).
La battaglia è durissima, e a un certo punto sembra perduta. Rossi, inaspettatamente, la porta a Roma, dove trova un sostegno nel Mibact, e più precisamente nelle persone del ministro Franceschini e, in modo particolare, del sottosegretario Borletti Buitoni. Ma il Mibact non fa parte del governo di Matteo Renzi, i cui pasdaran nel consiglio regionale toscano hanno azzannato il Piano come lupi affamati? Mah… sì. Evidentemente non tutto corrisponde ancora a una logica rigidamente formale (questa considerazione determinerà una parte delle conclusioni).
Il Piano, ferito in più punti ma non svuotato, viene riportato in Consiglio regionale e approvato. Io la considero una grande vittoria, e vorrei che questo, nonostante tutto, sia posto alla base del ragionamento futuro.
Le considerazioni che vorrei fare sull’accaduto sono le seguenti.
La mobilitazione a difesa del Piano è stata imponente. Quando tutte le associazioni ambientaliste, talvolta divise da quisquilie o da ragioni di bandiera, si coalizzano, com’è accaduto prontamente questa volta, è difficile per chiunque far finta di niente. Questa unanimità di propositi ha trascinato con sé anche la grande stampa nazionale, oltre che i giornali amici per definizione come il manifesto. Questo spirito di coalizione (per restare nel vocabolario di questi giorni) andrebbe secondo me coltivato sempre di più.
Se si mette in campo un fronte come questo, nessuna battaglia ambientalista può esser considerata perduta in partenza. Vale per il presente, ma anche per il futuro. Lo dico per i molti compagni buoni combattenti ma troppo scettici.
L’amara lezione della serrata discussione sul Piano è che il Pd toscano sembra perduto a qualsiasi possibile motivazione di etica ambientalista e territoriale. Non solo, infatti, singoli consiglieri regionali iscritti a quel partito si dedicavano alle furibonde scorrerie di cui abbiamo detto. Ma nessuno degli organismi istituzionali di tale partito è mai intervenuto, come avrebbe facilmente potuto, per impedirle o almeno sedarle. Questo, di conseguenza, rappresenta il principale problema politico oggi in Toscana.
Prima, durante e dopo la fase di discussione delirante, di cui abbiamo parlato, il ruolo dell’assessore Marson è apparso decisivo. Nell’intervento pronunciato dopo il voto di approvazione, Anna Marson ha dimostrato di essere in grado di trasferire la propria sapienza tecnica e disciplinare in quel che lei stessa ha giustamente chiamato un atteggiamento «diversamente politico». Bisogna dire fin d’ora, con chiarezza e onestà intellettuali e politiche, che, se l’approvazione del Piano paesaggistico ora non è una burla, il ruolo dell’assessore all’urbanistica nella giunta regionale di domani, quale che essa sia, non può esser messo in discussione.
Infine. In Toscana si vota per le elezioni regionali a maggio. Dunque, esiste un corto circuito ravvicinatissimo fra gli avvenimenti che hanno riguardato l’approvazione del Piano in consiglio regionale e il voto del prossimo maggio. La Rete dei comitati non ha mai preso posizione a favore di questa o quella formazione politica in sede di voto, e penso che debba continuare a farlo (o non farlo, a seconda dei casi). Ma non riterrei disdicevole oggi che essa esprima una preferenza di massima a favore di tutte quelle formazioni che oggi si dichiarino per i valori del territorio e della salvaguardia e dello sviluppo dei beni ambientali. Constato che c’è in giro, in Toscana, sia a livello regionale sia a livello locale, una buona aria di lotta e di riscatto, che va aiutata e confortata.
Le questioni ancora pendenti sono del resto numerose e talvolta sull’orlo della catastrofe. Si pensi, per fare un esempio eclatante, alla sciagurata intrapresa, per dimensioni ed esiti, del sottoattraversamento ferroviario di Firenze, risolvibile in tutt’altro modo, come ormai tutti sanno, con spesa infinitamente minore e senza l’inevitabile debito contratto con la corruzione. Si voti per chi è contrario al sottoattraversamento. O contro la seconda pista all’aereoporto di Firenze. O è per la ragionevole soluzione dei problemi geotermici regionali, ecc. ecc. ecc.
Invece di chiacchiere, impegni concreti e facilmente individuabili e definibili. Se così accadesse, invece di una campagna elettorale a senso unico, — come sempre, dall’alto verso il basso, — ce ne sarebbe una bifronte. Si voti per chi s’impegna a fare le cose che noi chiediamo. Nessun impegno, niente voto. Così un eventuale Piano paesaggistico, o quant’altro di simile, correrà la prossima volta all’approvazione trionfalmente, senza gli ostacoli che ora abbiamo conosciuto, e come avrebbe meritato che anche questa volta accadesse.
Sul punto Pellegrinotti aveva pure presentato un’interrogazione a cui Marson ora risponde pubblicamente: «La Regione », dice, «non è mai ricorsa a consulenze esterne per il Pit. Il rapporto di collaborazione è stato instaurato con il Centro Interuniversitario di Scienze del Territorio, che grazie a un accordo tra gli atenei toscani coordinato da Firenze ha attivato 25 assegni di ricerca, quattordici borse di studio e dieci incarichi messi a concorso con bandi pubblici e quattro borse del fondo “GiovaniSì”. I docenti non hanno avuto un soldo. Del milione e 124.400 euro di costi del Piano, oltre 1 milione è andato ai ricercatori».
Oltre che per la faccenda dei soldi Marson ammette di essere «molto amareggiata e affaticata» per la reazione suscitata nel Pd dal suo ultimo intervento in consiglio regionale. «Ho detto e ripeto che mentre noi e i tanti che hanno sostenuto il Piano eravamo impegnati per il bene collettivo chi ha osteggiato il nostro lavoro era mosso da interessi privati. Non è facile approvare un piano alla vigilia di una campagna elettorale, ci sono consensi da raccogliere nei territori e io questo lo capisco».
Lei, al contrario, non vede per se stessa un orizzonte politico. «Per ora nessuno mi ha chiesto niente», confessa. «Ho il mio lavoro di insegnante a cui tornare per fortuna, un lavoro che mi piace». Con Rossi giura che il rapporto si sia chiuso bene. «Si è impegnato molto e mi ha difesa, anche se è stata dura. Io però non credo di avere nulla da rimproverarmi, al di là dei miei difetti ce l’ho messa tutta».
Intervistata da Raffaele Palumbo a Controradio ieri Marson fa un bilancio del Piano “riveduto e corretto”:« Newsweek ha scritto che rispetto alla versione originale le regole sono state “watered”, un po’ annacquate e forse è vero. Ma restano comunque regole e tra pochi giorni arriverà la validazione del ministero dei Beni culturali. E avere regole certe fa comodo a tutti, ai cittadini e agli operatori delle imprese. A questo punto dobbiamo solo monitorare come il Piano sarà applicato. Intanto ringrazio chi lo ha votato anche senza far parte della maggioranza».
A illustrazione dell'articolo di Paolo Baldeschi inseriamo la commovente lamentazione di un autorevole rappresentante del PD toscano. Questa critica da destra dell'operato di Marson ci sembra interessante perché esprime bene l'ideologia (post-berlusconiana, si potrebbe dire) di quella parte politica. Il Tirreno, 31 marzo 2015
La Marson non è stata un buon Assessore. E’ stata artefice in 5 anni di due atti importanti come la modifica della Legge 1/2005 sull’urbanistica, (ora Legge 65 del 2014) e del Piano Paesaggistico. La prima è stata in gran parte modificata e il secondo è proprio lei a riconoscerlo parzialmente. La proposta di legge sull’urbanistica, ex 1/2005 era infarcita di principi ideologici e di complicazioni tali da far impazzire tecnici comunali, professionisti e tutta la gente normale, rendendo quasi impossibili le programmazioni urbanistiche locali e la realizzazione delle cose più semplici. Solo grazie agli emendamenti presentati dal Pd e dalle minoranze in commissione, è stato possibile approvare quel testo, rendendo gestibile nella pratica quella legge, che continua ad avere difetti proprio per l’impostazione con cui era partita. Sulle attività temporanee siamo dovuti ri-intervenire con una proposta di legge di cui io sono stato il primo firmatario, per raddoppiare i tempi delle concessioni e consentire di ampliare le stagione turistica per i balneari, e per le attività turistiche in genere.
Ardelio Pellegrinotti è segretario della 6ª Commissione Ambiente Regione Toscana
L'approvazione del Piano paesaggistico della Toscana è stata subita dal Pd, stretto tra l'intervento del Ministro Franceschini e dal Mibact e l'impossibilità di sfiduciare Rossi senza bruciarne la candidatura alle prossime elezioni regionali. Che sia stata subita 'obtorto collo', lo dimostra la valanga di recriminazioni, quando non di veri e propri insulti, che hanno seguito la dichiarazione in aula di Anna Marson, (pubblicata da eddyburg). Frasi come «lei sarà solo un brutto ricordo» , o «lei vincerebbe il nobel della stupidità politica» di tal Gianluca Parrini (da non confondersi con l'omonimo Dario) la dicono lunga sull'insofferenza e il rancore che covano nelle file della maggioranza. Sulla stessa linea (anche se con meno volgarità) Dario Parrini, segretario regionale del Pd, che ha imputato all'assessore Marson «accuse infondate e scomposte». In realtà l'intervento finale dell'assessore all'Urbanistica era stato intelligente, preciso e circostanziato quando aveva accusato una parte del Pd di avere continuamente tramato tranelli e imboscate e di avere più spesso tutelato gli interessi privati (aggiungo: i più retrivi) a scapito di quelli collettivi.
Ciò che colpisce nelle - queste sì scomposte - reazioni degli esponenti Pd è il fatto che invece di opporre a quelli dell'assessore argomenti nel merito, si sia scelta la strada delle urla e delle offese. Ma vi è una ragione in tutto ciò. Il Pd, nella sesta commissione regionale aveva sistematicamente, pervicacemente e in perfetto accordo con Forza Italia, demolito il Piano. Basta ricordare solo una delle tante modifiche proposte dalla commissione: «le criticità segnalate nel Piano sono valutazioni scientifiche di cui i Comuni possono non tenere conto». Vale a dire che se il Piano segnalava un'area come esondabile e con alto rischio per gli abitanti, di tale criticità i Comuni potevano infischiarsene, si intende per continuare a urbanizzare e piangere i morti. In effetti è difficile ribattere nel merito e difendere simili enormità, molto più facile la strada delle polemiche e delle invettive, tra cui spicca per originalità l'accusa rivolta agli intellettuali di tutta Italia intervenuti a favore di Marson di essere "ambientalisti in cachemire" e "a difesa del paesaggio cartolina".
Vi è tuttavia un disegno evidente nelle infondate reazioni dei maggiorenti o delle pedine dell'ex partito dei lavoratori, ex almeno in questo caso, come dimostra la 'battaglia' delle Apuane, dove la Cgil si dichiarava a favore del Piano e Ardelio Pellegrinotti (consigliere del Pd) si schierava, senza se e senza ma, con le ditte di escavazione - non un cenno critico sul clima di illegalità in cui queste hanno continuamente operato.
Le intenzioni per il futuro sono, come si evince dalle interviste rilasciate dal segretario Parrini, di nominare una giunta 'renziana', perché «il Pd non è quello di 5 anni fa». Rimane l'incognita di cosa significhi una giunta e un governo 'renziano', al di là della propensione irresistibile degli aspiranti consiglieri di saltare, salvo qualche lodevole eccezione, sul carro del vincitore. L'impressione è che Renzi stia trasformando il Pd in un "catch all party" (come era la vecchia DC), dove le realtà regionali agiranno e si comporteranno non in base a valori , bensì secondo le convenienze e le opportunità del momento e del luogo. Ma, comunque, attente a favorire uno 'sviluppo arretrato', fatto di grandi opere (non importa se inutili o dannose) e di sfruttamento delle 'risorse' qualunque esse siano o siano ritenute tali, dovunque esse siano - anche nei parchi e nelle riserve naturali, vedi appunto le Apuane.
Succubi di una politica europea e nazionale volta sistematicamente ad arricchire i già ricchi impoverendo gli altri (e i posteri), insistono nel tentativo di far cassa liquidando il prezioso patrimonio collettivo e abbandonando al degrado della privatizzazione un bene culturale prezioso. Il manifesto, 31 marzo 2015
Un Hotel de charme? Una esclusiva scuola di danza classica? Un circolo ippico che riporti il fasto sabaudo della Cavalleria Savoia o appartamenti di lusso? Quale sarà il futuro della Cavallerizza Reale di Torino, splendido complesso barocco nel cuore della città, oggetto di incuria e abbandono per molti anni ma in procinto di nuova «valorizzazione» da parte dei privati? Dell’ostello per i giovani traccia non v’è più, se non in qualche sparuta dichiarazione stampa per rasserenare gli animi dei circa diecimila torinesi che, firmando un appello solo pochi mesi fa, hanno chiesto agli attuali amministratori comunali di non vendere surrettiziamente la Cavallerizza, patrimonio della città e quindi di tutti.
Ma le linee guida dell’operazione, condotta senza soste dall’assessore al Bilancio Gianguido Passoni e da tutta la giunta di centrosinistra torinese, pare che preveda come architrave fondante l’investimento di sostanziosi capitali privati, indispensabili per dar fiato alle boccheggianti casse comunali, ancora in difficoltà nonostante le massicce vendite di immobili e partecipate.
C’è chi dice che potrebbe essere della partita addirittura un emiro del Qatar. L’allegro debito contratto nell’era Chiamparino è appena sceso sotto quella che viene definita dallo stesso Passoni «la soglia psicologica» di tre miliardi di euro ma, nonostante questo risultato, l’immensa volumetria della Cavallerizza rimane strumento d’eccezione per raggranellare utili fondi.
Pare che i tempi siano molto stretti: ieri mattina si sono riunite le commissioni congiunte di Comune e Regione a porte chiuse, senza ammettere pubblico, in cui è stato presentato un misterioso «Protocollo di Intesa» che coinvolge anche i privati.
Il protocollo prevederebbe una sostanziale libertà di azione per gli investitori. Del famoso processo partecipato che doveva coinvolgere anche soggetti culturali istituzionali e cittadini, che da circa un anno stanno portando avanti un lavoro di riqualificazione sociale del complesso dopo l’abbandono, rimangono solo vaghi ricordi.
È il processo partecipato modello Val Susa: si partecipa solo quando c’è da dire «sì», commentano alcuni membri dell’Assemblea Cavallerizza 14.15. «In sostanza nessuna delle richieste sino a ora avanzate dalla cittadinanza (no alla vendita, destinazione e fruizione pubblica, unitarietà dell’insieme e progettualità partecipata, ndr), con il supporto di oltre 10 mila firme della popolazione torinese, viene accolta dalle istituzioni, neanche negli intenti. La progettazione — aggiungono gli attivisti — non coinvolgerà direttamente i cittadini né, aspetto inquietante, passerà neanche attraverso il Consiglio comunale, palesando come le decisioni rispetto a una questione così delicata e strategica vengano a formarsi fuori dai luoghi che dovrebbero garantire la democrazia.»
Oggi, dalle ore dodici, in concomitanza con l’approvazione in Giunta Comunale del «Protocollo di Intesa» vi sarà un presidio in piazza Palazzo di Città indetto dai protagonisti dell’Assemblea Cavallerizza.
«Il Consiglio regionale approva dopo una seduta rovente il provvedimento che regola spiagge, vigneti e territorio. L’accordo raggiunto grazie al ministero dei Beni culturali». La Repubblica, 28 marzo 2015
Quello delle cave era il punto esemplare della controversia. Da una parte chi difendeva il paesaggio delle Apuane. Dall’altra chi tutelava gli interessi di imprese e lavoratori che estraggono il marmo (ma la Cgil si è schierata per il piano). Nelle ultime settimane, sostenuti dal Pd e in particolare dall’ala renziana, sono stati approvati emendamenti favorevoli ai cavatori. Il presidente Enrico Rossi ha cercato di mediare, poi la trattativa si è spostata al ministero per i Beni culturali che deve ratificare il piano. Più volte la sottosegretaria Ilaria Borletti, che ha la delega sul paesaggio, ha avvertito i consiglieri toscani: se il piano non è conforme al Codice dei beni culturali, non l’approviamo.
Tre giorni e tre notti di discussione al ministero fra l’assessore, i tecnici regionali e i dirigenti del ministero (il direttore generale Francesco Scoppola, il capo dell’ufficio legislativo Paolo Carpentieri e Ilaria Borletti): ne è sortito un maxi emendamento che ripristinava — in parte — la versione originaria del piano. Oltre le cave un’altra questione controversa: gli interventi sulle coste e sulle spiagge. Alla fine si è stabilito che entro i 300 metri dalla battigia saranno ammissibili solo strutture mobili. Niente piscine («lasciatele alla Riviera romagnola», ha detto Rossi). Nella zona retrostante si potranno ampliare gli edifici esistenti del 10 per cento, solo per servizi alberghieri e turistici.
«Sul piano non c’è stato conflitto fra sviluppo e ambiente», ha detto Marson dopo il voto, suscitando l’ira di molti del Pd, «ma tra interessi collettivi e interessi privati». Marson, che ha denunciato “imboscate” durante il percorso del piano, ha ricordato di essere stata accusata di voler espiantare i vigneti (il piano cerca di limitare le grandi estensioni e tutelare le piccole) e di aver dato una consulenza al marito (Alberto Magnaghi, urbanista di fama, ha collaborato al piano gratuitamente come altri professori di tutte le università toscane). Ma il punto, ha insistito, è che il piano incarna un diverso modo di intendere lo sviluppo, al centro del quale c’è «la valorizzazione del patrimonio territoriale e paesaggistico nella costruzione di ricchezza durevole per la comunità». Ora il testo torna al ministero per il parere definitivo.
Il manifesto, 28 marzo 2015
Il via libera è arrivato all’ora di cena. Insieme alla certezza che il Piano del paesaggio della Toscana è tornato sui binari originari. Con un impianto all’avanguardia e di esempio per l’intero paese, studiato con certosina pazienza in quattro lunghi anni di lavoro dall’assessora Anna Marson, nella consapevolezza di dover comunque governare i fisiologici cambiamenti operati sul territorio dalla mano dell’uomo. “Il Piano – ha certificato Enrico Rossi — intende offrire una cornice di regole certe, finalizzate a mantenere il valore del paesaggio anche nelle trasformazioni di cui è continuamente oggetto”. Il consiglio regionale lo ha approvato con il sì dei 32 consiglieri di centro e di sinistra, e il no dei 15 di centrodestra.
Quanta fatica però. Anche se il ricandidato presidente regionale del Pd ne ha rivendicato la paternità (“è il mio piano, non quello del governo”), è fuor di dubbio che un intervento decisivo per sbloccare una situazione diventata kafkiana sia arrivato dal ministero dei beni culturali. La cui firma sul provvedimento è obbligatoria – già una volta il piano era stato rinviato al mittente – e che ha svolto, insieme a Rossi e alla stessa Marson, una vera e propria riscrittura del Piano. Mossa obbligata, dopo lo stravolgimento operato in commissione da parte di un ampio pezzo di Pd che non si rassegnava allo stop di consumo del suolo. Uno stop che peraltro era stato già deciso nel Piano di indirizzo territoriale, di cui il Piano paesaggistico è una integrazione.
Emendamento su emendamento, le originarie norme di salvaguardia elaborate da Anna Marson, docente di tecnica e pianificazione urbanistica all’ateneo veneziano, erano state progressivamente stravolte. Su tutti, avevano fatto inorridire gli emendamenti che facevano ripartire le escavazioni del marmo sulle Apuane in maniera pesantissima (via libera alla riapertura di cave dismesse, cave secolari, anche cave su vette e crinali ancora integri), e quelli che nei fatti riaprivano all’edificazione costiera anche sul lungomare, e perfino sugli arenili.
Le polemiche che ne sono seguite, e che hanno portato il ministro Franceschini a prendere pubblicamente le difese dell’assessora Marson (“lei è stata capace di mettere d’accordo Asor Rosa e Settis, Repubblica e Corriere della Sera…”), hanno riportato il Piano toscano del paesaggio alle sue coordinate originarie, grazie a un super-emendamento coordinato in sede ministeriale. “Il testo che emerge dopo la presentazione del maxi emendamento è un buon risultato – certifica Monica Sgherri di Rifondazione — perché riporta il piano sostanzialmente a quanto adottato nel luglio scorso. Quindi cancellando quello stravolgimento, soprattutto in tema di escavazione sulle Apuane e di salvaguardia delle coste, perpetrato in commissione”.
Il risultato è stato l’ok al Piano anche di Sel, Prc e Pcdi, che pure corrono alle elezioni regionali in alternativa al Pd e a Enrico Rossi, sostenendo l’ottima candidatura di Tommaso Fattori. Sul fronte opposto, il ritardo nel via libera è stato provocato dall’ostruzionismo di Forza Italia e Fdi, che hanno deposto le armi solo dopo aver ottenuto di veder monitorati gli effetti del Piano sulle attività estrattive. A cose fatte, Enrico Rossi ha ricordato: “Non è vero che discutere col ministero è stato umiliante, il paesaggio è un bene tutelato dall’articolo 9 della Costituzione, che rende necessaria la copianificazione. E’ la nostra identità, il nostro marchio nel mondo, bellezza che si è prodotta anche attraverso il lavoro. E con il piano siamo riusciti a ricostruire l’equilibrio necessario”
Tra i grattacieli fortemente voluti da Maurizio Lupi, venduti alla famiglia reale del Qatar, un progetto di landscape per Expo calato dall'iper-uranio della globalizzazione, e del tutto surreale in una città a cui si vorrebbe far perdere la memoria. Corriere della Sera Milano, 28 marzo 2015, postilla (f.b.)
Spunta a Milano un progetto di «arte ambientale» promossa dall’artista americana Agnes Denes. Titolo: Un campo di grano tra i grattacieli di Porta Nuova. Saranno utilizzati quasi 15.000 metri cubi di terra, 1.250 chili di sementi e circa 5 mila chili di concime (ovviamente chimico e inodore) poiché quello naturale sarebbe disdegnoso per l’inevitabile olezzo. E così, nel giubilo per la novità dell’arte ambientale si trascurano memorie di esperienze fallimentari già compiute.
Estate 1941. L’Italia è in guerra. La propaganda del regime fascista ogni giorno preannunciava imminenti clamorose vittorie e poi, puntualmente, venivano rinviate a un futuro incerto fino a lasciarle dissolversi nel silenzio della dimenticanza. E allora bisognava creare distrazioni per fare da compensazione. Tra le varie trovate una di queste fu il grano fascista. A Milano, prossimi all’autunno, gli operai del Comune cominciarono ad arare tutti gli spazi destinati a giardini e aiuole. Il fronte della guerra era ancora lontano e alla fine di giugno del 1942, puntualmente, anche il grano seminato in città venne a maturazione. Ma, ahimè, al momento del raccolto venne alla luce quel che fino ad allora era rimasto nascosto nel folto delle spighe, che man mano crescevano ne impedivano la vista. Poi con il campo rasato dalla mietitura era comparsa, come scaturita da sottoterra, una inspiegabile presenza di sassi bianchi, opachi come lo sono le cose morte che sfacciatamente si sovrapponevano al brume del terreno.
Certo: i pareri erano diversi. Ognuno diceva la sua. Infine venne la sentenza condivisa da tutti. Quei «sassi» non erano altro che cacche di cane rinsecchite e cementificate dalla lunga stagionatura. Io ne sono stato testimone, avevo dieci anni e ricordo tutto con la lucidità della memoria infantile che a quell’età rimane viva per sempre. E per noi ragazzi quelli furono momenti davvero eccitanti, perché non era più un gioco ma una guerra vera, quella che fanno i grandi e si muore davvero. Quando si gonfia la forma perché la sostanza è debole, si è dalla parte sbagliata. Ho saputo della adesione a Expo da parte di Coca Cola e Mc Donald. Alla faccia della genuinità e sacralità del cibo…
postilla
Fra i tanti, e probabilmente davvero troppi, sintomi di una Expo nata e cresciuta nel segno fortemente ideologizzato di una agricoltura e idea di territorio sostanzialmente inaccettabile e dominata dalla lobby agro-industriale, spicca anche questo assurdo decorativo stupido campo di grano scaraventato sulla città. Olmi con la sua sarcastica citazione di Mogol-Battisti ne rileva uno degli elementi di maggior stridore: Milano è stato uno dei luoghi simbolo della Battaglia del Grano del fascismo, circolano ancora sul social network le vecchie foto delle spighe in Piazza del Duomo: perché non evitare di richiamare così goffamente quelle immagini? Macché: la memoria è nulla, di fronte a decisioni meccaniche per cui si importa a scatola chiusa un progettino, esattamente col medesimo criterio con cui gli edifici che stanno lì attorno vengono da lontanissimi e alieni tavoli di progettazione. Che ci sarebbe voluto, per importare il “format” ma adattarlo al contesto, storico geografico e colturale (una risaia? un orto? Qualcos'altro?). Se questi sono i personaggi che vorrebbero nutrire il pianeta, forse è davvero meglio iniziare a pensare, molto seriamente, a organizzarsi da soli un percorso alternativo, perché quando all'arroganza si unisce in modo tanto spudorato un'allegra imbecillità, non c'è davvero scampo (f.b.)
1. Il voto di approvazione di un piano paesaggistico ancora definibile tale, intervenuto oggi nel penultimo giorno utile della legislatura dopo un lunghissimo dibattito dentro e fuori le sedi istituzionali, è l’esito di un assai ampio coinvolgimento pubblico nel merito delle scelte che la Regione Toscana si apprestava a compiere, e di una straordinaria mobilitazione culturale e sociale in difesa del Piano paesaggistico.
Le prove che questo piano ha dovuto affrontare, nella sua natura di strumento portatore di innovazione culturale e normativa, non sono state facili.
Anche se la portata storica dell’evento è chiaramente incommensurabile, mi permetto di richiamare le parole di Calamandrei sull’esito della scelta repubblicana dell’Italia (Il Ponte, luglio-agosto 1946), sul cui cammino «non sono mancati i diversivi che miravano a mandare in lungo la partita, i tranelli preordinati a far perdere la serenità al giocatore meno esperto, e qualche svista pericolosa e, purtroppo, qualche tentativo di barare…Proprio di queste vicende bisogna tener conto per comprendere quanta fermezza e quanta resistenza morale sono state necessarie …per conseguire questa vittoria e per apprezzarne il valore... [in questo caso si è] dovuto superare imboscate e tradimenti che l’osservatore superficiale nemmeno sospetta».
Nel caso del piano paesaggistico le “imboscate” non sono derivate da un conflitto fra ambiente e sviluppo, come molti hanno sostenuto, ma tra interessi collettivi e interessi privati.
Ciò è testimoniato dal fatto che chi si è mosso a difesa del piano, come le associazioni ambientali e culturali, e molti autorevoli studiosi, non rappresenta in questa vicenda interessi particolari o privati. Mentre tutti coloro che a vario titolo hanno sollevato richieste di modifiche del piano l’hanno fatto mossi da interessi privati finalizzati al profitto, mascherato da occupazione e sviluppo.
Ritengo quindi utile ripercorrere, sia pur in grande sintesi, alcuni dei passaggi salienti del percorso di piano che portano ulteriori evidenze a questo riguardo.
2. La procedura del piano e le imboscate subite
Il presidente della Commissione consiliare nel citare gli emendamenti apportati in commissione ha più volte parlato di «grande lavoro rispetto cui non si può tornare indietro».
Che dovremmo allora dire relativamente al lavoro di costruzione del piano, alla lunga e continua contrattazione istituzionale e sociale - anche in un clima di linciaggio personale di cui sono stata ripetutamente oggetto (1) - al lavoro di controdeduzione alle osservazioni presentate per arrivare a un testo equilibrato nel tenere in conto i diversi interessi legittimi?
La formazione del piano e' stato un atto quanto mai collettivo. Il piano cosiddetto “Marson” è infatti frutto:
a) di un atto di indirizzo approvato dal consiglio regionale nel 2011;
b) di una approfondita fase di elaborazione scientifica affidata al Centro Interuniversitario di Scienze del Territorio delle 5 principali università toscane anziché a una ditta privata o a una elaborazione interna dei soli uffici (che non avevano le forze per condurre un compito di questa portata, anche in seguito alla soppressione del settore paesaggio all’inizio della legislatura e alla sua lenta e faticosa ricostituzione nel corso dei successivi tre anni);
c) di uno straordinario impegno dei funzionari del settore paesaggio, anche con molte ore di lavoro non retribuite, nel costruire la proposta di piano;
d)di numerose assemblee pubbliche di approfondimento e discussione che hanno accompagnato le fasi di formazione del piano nei diversi ambiti del territorio toscano;
e) di una lunga e ripetuta concertazione con attori pubblici (ANCI, Consiglio autonomie, comuni, sovrintendenze, Ministero) e del confronto con attori privati (ordini professionali, associazioni sindacali e imprenditoriali, ecc) ;
f) di una validazione tecnica preliminare da parte del Mibact sul lavoro complessivo (dicembre 2013);
g) di due successive proposte di piano approvate dalla giunta (gennaio e maggio 2014);
h) di un esame in sede di più commissioni consiliari (ne ricordo almeno cinque) che ha portato all’adozione, con emendamenti, il 2 luglio 2014;
i) del lavoro di controdeduzioni che ha portato al voto unanime della Giunta il 4 dicembre 2014.
Sfido tutti coloro che hanno dichiarato in aula, rivolti alla giunta, che «s’è perso tempo», a trovare un esempio di piano paesaggistico regionale copianificato con il Mibact che abbia concluso questo percorso in un tempo più rapido.
E ciò nonostante – per non citare che i due esempi più significativi - una ricerca di regole condivise con i sindaci delle Apuane interessati dalle attività di escavazione durata più mesi, e un tavolo con i rappresentanti di categoria delle associazioni agricole protrattosi con incontri quasi quotidiani per settimane.
Se nel caso delle associazioni agricole ciò a portato, pur con perdite significative dei contenuti del piano (quali la sparizione di gran parte dei riferimenti alla “maglia agraria”, di ogni citazione della parola “vigneti”, e di tutti i riferimenti al “mantenimento delle attività agrosilvopastorali montane per arginare i processi di abbandono”), a una sostanziale condivisione del testo, nel caso delle Apuane sia la modifica della prima proposta di giunta che gli emendamenti introdotti dal consiglio in fase di adozione non hanno sancito la fine delle ostilità né delle interferenze anche pesanti rispetto ai contenuti del piano e alla procedura istituzionalmente definita per la sua approvazione.
Abbiamo così assistito, in commissione consiliare, al voto di emendamenti non coerenti con i contenuti propri di un piano paesaggistico, a diverse e articolate trattative politiche non con le rappresentanze istituzionali delle imprese ma con alcune imprese, alla partecipazione di consulenti delle imprese del marmo alla scrittura degli emendamenti nelle stanze del Consiglio regionale, alla sparizione dal Piano di tutti i riferimenti alle criticità di luoghi specifici che disturbavano qualcuno che aveva modo di far sentire la propria voce, e così via. Tutte le tipologie degli emendamenti proposti in commissione sono state ispirate a un unico principio: depotenziare l’efficacia del piano.
- nelle Apuane sono state cancellate tutte le criticità relative a specifiche aree interessate dalle escavazioni;
- molte criticità paesaggistiche evidenti sono state trasformate in forma dubitativa;
- un emendamento si proponeva addirittura di specificare che le criticità costituivano valutazioni scientifiche delle quali i piani urbanistici “non dovevano tenere conto”;
- nelle spiagge si intendevano ammettere adeguamenti, ampliamenti, addizioni e cambi di destinazione d’uso;
- la dispersione insediativa, anziché da evitare, era al massimo da limitare o armonizzare;
- la salvaguardia dei varchi inedificati nelle conurbazioni andava cancellata, o anch’essa “armonizzata”;
- le relazioni degli insediamenti con i loro intorni agricoli sono state soppresse;
- l’alpinismo in Garfagnana andava soppresso;
- gli ulteriori processi di urbanizzazione diffusa lungo i crinali non erano da evitare bensì da armonizzare;
e così via.
Soltanto la verifica in extremis con il Mibact, con il quale il piano va necessariamente copianificato anche per dare attuazione alle semplificazioni che da esso discendono, dovuta anche alla luce del verdetto ricevuto a suo tempo sull’integrazione paesaggistica del PIT adottata dalla Regione Toscana nel 2009, ha portato con un grande sforzo da parte di tutti i soggetti coinvolti, e del Presidente Rossi in prima persona, a recuperare almeno in parte alcuni dei contenuti essenziali che permettono di qualificare questo piano come “piano paesaggistico”.
Non posso che concordare con chi ha definito questa retromarcia imbarazzante. Lo è senza dubbio per l’immagine arretrata, riflessa da alcuni rappresentanti eletti, della società toscana (smentita invece dalla moltitudine di cittadine e cittadini che si sono espressi in difesa del piano). Lo è per chi, come me, ha creduto nel federalismo, non quello della riforma del Titolo V della Costituzione operata all’inizio del nuovo millennio oggi peraltro ripudiata dagli stessi autori, ma quello auspicato da Carlo Cattaneo e da Silvio Trentin.
In questo caso devo tuttavia riconoscere che l’intervento del Ministero ha contribuito a salvare parti significative del piano.grazie in particolare all’impegno della sottosegretario Borletti Buitoni, oltre a quello del ministro Franceschini intervenuto anch’esso in prima persona.
3. Due concezioni dello sviluppo contrapposte. Chi è passatista?
I soggetti presi a riferimento non sono certo i viticoltori artigiani di qualità, piuttosto che le botteghe di trasformazione artistica del marmo, per non citare che due esempi fra i molti possibili, in una “compressione della rappresentanza” rispetto alla complessità crescente del mondo produttivo. La rappresentanza dei grandi interessi finanziari, travestiti da interessi per lo sviluppo, è l’unica ad essere di fatto garantita.
Ma questo modello di sviluppo non è forse alla base della crisi economica che stiamo vivendo?
Il tentativo di affossamento del valore normativo del Piano paesaggistico è peraltro coerente con l’ideologia che esalta i processi di privatizzazione e centralizzazione dei processi economici e politici, in molti casi peraltro sostenuti da finanziamenti pubblici, come unica via d’uscita dalla crisi.
In questa monodirezionalità degli emendamenti votati in commissione è stato peraltro negato lo spirito stesso del Codice.
Laddove il Codice richiede che il Piano si interessi di tutto il territorio regionale, si chiede infatti, di conseguenza, un cambio dalla centralità dai vincoli (prescrizioni che riguardano i soli beni paesaggistici formalmente riconosciuti) alle regole di buon governo per tutto il territorio, compresi quindi i paesaggi degradati, le periferie, le infrastrutture, le aree industriali, gli interventi idrogeologici, gli impianti agroindustriali, ecc); dunque regole per indirizzare verso esiti di maggiore qualità le trasformazioni quotidiane del territorio, e non solo preservare i suoi nodi di eccellenza.
La stessa cura a migliorare la qualità paesaggistica di tutto il territorio regionale è richiesta come noto dalla Convenzione europea del paesaggio, che parla di «attenzione ai modi di vita delle popolazioni».
I piani paesaggistici di nuova generazione fanno dunque riferimento a un diverso e innovativo modello di sviluppo che vede la centralità della valorizzazione del patrimonio territoriale e paesaggistico nella costruzione di ricchezza durevole per le comunità. Non certo per rinunciare al manifatturiero, e nemmeno all’escavazione del marmo, ma per far convivere queste attività con altre possibilità imprenditoriali, a partire da un patrimonio territoriale che ne renda possibile e realisticamente fattibile lo sviluppo.
Come ha scritto recentemente un ex sindaco, Rossano Pazzagli, a proposito delle prospettive dell’attività turistica, «fare turismo…è perseguire un turismo non massificato, di tipo esperienziale…Chi vuole riaprire le coste alla cementificazione…finirà per danneggiare lo stesso turismo balneare, che va in cerca di paesaggio, di spiagge, di pinete e di sole, non di qualche pezzo di periferia urbana in riva al mare».
Non solo le Apuane, uniche al mondo, ma lo stesso marmo apuano, meriterebbe di essere a tutti gli effetti considerato come una risorsa preziosa, e valorizzato di conseguenza restituendo alle comunità locali gran parte del valore aggiunto che va invece ad arricchire singoli individui, distruggendo per sempre le montagne.
Sono soltanto alcuni esempi, che tuttavia testimoniano come il piano ponga le basi per rendere possibile un diverso sviluppo, basato non sulla distruzione del patrimonio regionale ma sulla sua messa in valore sostenibile per la collettività e il suo futuro. Il Presidente Rossi ha dichiarato che sarei “un grande tecnico… che quando esprime giudizi politici compie scivoloni pericolosi”.
Da questo punto di vista io rivendico invece il mio agire “diversamente politico”, in quanto non guidato dal desiderio di mantenere un incarico di assessore, né dall’obbligo di restituire favori e accontentare interessi specifici. In questi anni ho cercato di garantire nel modo più degno possibile, nel ruolo che ho avuto l’onore e l’onere di ricoprire, la straordinaria civiltà tuttora profondamente impressa nel paesaggio toscano, pur nella complessità delle sfide sociali, economiche e politiche che hanno interessato nel passato e interessano ancor più oggi questa regione.
4. Un sentimento contraddittorio
In conclusione è con un sentimento contraddittorio che accolgo questo voto del Consiglio:
-da una parte la soddisfazione per il fatto che il proposito di rendere inefficace un progetto assai avanzatoper la a Toscana futura abbia dovuto in parte rientrare grazie alla forte mobilitazione culturale e sociale in difesa del piano, e per il ravvedimento finale del principale partito di maggioranza;
-dall’altra il rammarico per il fatto che il percorso di questo piano sia stato costellato da cedimenti, contraddizioni, indebolimenti che hanno ovviamente lasciato il segno nel corpo del piano stesso.
Non mi sento pertanto di fare alcuna celebrazione clamorosa, né retorica, di questo esito. Raggiungere questo risultato è stato difficile e aspro, né sono state risolte tutte le contraddizioni.
Spero tuttavia che l’alto livello di mobilitazione attivatosi a livello regionale e nazionale intorno a questo piano e all’allarme sul rischio del suo annullamento, serva a mantenere alta l’attenzione intorno all’interpretazione che quotidianamente, nei giorni e negli anni a venire, sarà data del piano stesso e dei suoi contenuti.
E a favorire la realizzazione di un Osservatorio regionale del paesaggio, già previsto dalla LR65/2014 e da attivare nei prossimi mesi, che sappia garantire una forte partecipazione sociale, facendo entrare il paesaggio a pieno titolo fra gli obiettivi dello sviluppo regionale volti ad aumentare il benessere delle popolazioni presenti sul territorio.
Repubblica.it, 27 marzo 2015
Fra i più esaltati sacerdoti del culto del Privato va annoverata la presidente di Confcultura, Patrizia Asproni, per la quale il modello ideale sarebbe quello in cui «il privato presenta un progetto per cui si assume l'onere del finanziamento a fronte di una gestione complessiva di un bene culturale. Il project financing prevede un promotore il cui progetto viene messo a gara, in una procedura concorrenziale e trasparente. Il privato avrebbe quindi il compito della gestione, mentre resterebbe in capo allo Stato sia la proprietà che la tutela». Di fatto si tratterebbe di una superconcessione pluridecennale chiavi in mano in cambio di un finanziamento: una società per azioni paga la conclusione dei lavori degli Uffizi, e se li prende per vent'anni.
Che ci sarebbe di male? – dirà qualcuno. Per capire cosa può voler dire, in concreto, si può prendere l'esempio della Fondazione Torino Musei (che è l'ente di diritto privato cui il Comune di Torino ha conferito i musei civici, istradandoli verso future, più sostanziali, privatizzazioni): anche perché a guidarla è proprio Patrizia Asproni.
Ebbene, la Fondazione ha appena deciso che la principale biblioteca d'arte di Torino (quella della Galleria d'Arte Moderna) – cito un bellissimo post di Gabriele Ferraris – «d'ora in poi sarà aperta soltanto il venerdì dalle 10 alle 17 e il sabato dalle 10 alle 14. Avete letto bene: si passa da 5 giorni (ovvero 35 ore) di apertura settimanale a due giorni (per un totale di 11 ore)». Perché? Per «ottimizzare le risorse», ha risposto Asproni a Ferraris. Che, tradotto, vuol dire: per spendere quei soldi in mostre ed eventi. A chi interessa più nulla delle biblioteche, infatti?
Oggi «i docenti di storia dell’arte dei dipartimenti di studi storici e umanistici dell’Università di Torino, i funzionari storici dell’arte delle Soprintendenze piemontesi, gli studiosi di storia dell’arte, le associazioni culturali e le istituzionali museali presenti sul territorio piemontese, in risposta alla grave contrazione dell’orario di apertura della Biblioteca di storia dell’arte della Gam di Torino» hanno rivolto «alla Fondazione Torino Musei un addolorato e appassionato appello perché non svigorisca una delle più importanti strutture di studio e di ricerca di storia dell’arte cittadine, costruita e a lungo diretta con sapienza e attenzione, vero patrimonio culturale della città».
Ma il punto è proprio questo: quel patrimonio non è ormai più «della città», ma della «Fondazione Torino Musei». Che non è una fragile utopia, ma una solida realtà.