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Smart city in pratica: tutto va nel migliore dei modi, a quanto pare, sul versante tecnologico, ma gli aspetti urbanistici ed ergonomici paiono ancora trascurati: la connessione è qualità urbana, perché non integrarla ad altre qualità? La Repubblica Milano, 29 novembre 2015, postilla (f.b.)

Meglio delle previsioni. Il wi-fi libero del Comune arriva al Parco Lambro e in cinque mercati rionali, superando così quota 500 access point, ovvero quello che era l’obbiettivo di mandato della giunta Pisapia. Boom di registrazioni durante i sei mesi di Expo, quando le iscrizioni sono state il 30 per cento del totale. Alto soprattutto il numero di accessi da parte dei turisti stranieri che sono stati oltre la metà dei nuovi utenti durante l’esposizione universale.

Per una volta, la realtà supera (in positivo) le previsioni della politica. Perché se il progetto iniziale “Open wi-fi” doveva raggiungere quota 500 punti di copertura, il settore innovazione di Palazzo Marino ha fatto di più: attualmente siamo a 514 e a marzo arriveranno a quota 535, di cui 445 outdoor e 90 indoor. Gli ultimi arrivati — dopo gli spazi della Darsena rinnovata — sono i 18 access point posizionati in cinque mercati comunali: quattro in via Benedetto Marcello, tre in viale Papiniano, tre fra le strade del mercato dell’Isola, cinque in via Osoppo e tre al mercato di via Fauché. Ma la novità principale — e non prevista inizialmente nei piani dell’assessorato — riguarda la futura installazione di altri 21 punti di copertura all’interno del parco Lambro, la cui installazione è stata commissionata all’A2a. L’occasione si è venuta a creare con la decisione di installare 21 colonnine per sos nel parco: sopra, verranno posizionate anche le antenne per il wi-fi, «permettendo di realizzare notevoli sinergie che si tradurranno in un’importante riduzione dei costi dell’infrastruttura», spiegano dall’assessorato.

Il servizio di wi-fi gratuito comunale — un’ora di navigazione veloce senza costi che richiede solo l’inserimento di un numero telefonico — è molto apprezzato dagli utenti, almeno a giudicare dai numeri. La rete di connessione senza fili messa in piedi da Palazzo Marino continua infatti a macinare risultati: ad oggi il totale degli iscritti è di 621.836, mentre il numero degli accessi complessivi dall’inizio del servizio è arrivato a quota 6 milioni e 800mila. C’è chi si connette per lavoro, ma non manca anche chi lo usa per motivi personali, in particolare i turisti. I dati sono infatti cresciuti a dismisura nel periodo di Expo, quando i nuovi utenti sono stati 189.480, pari al 30 per cento del totale.

Da sottolineare in particolare il dato degli stranieri: sono 110.444 le iscrizioni avvenute con schede sim straniere, pari al 58 per cento del totale. Il record assoluto di registrazioni si è verificato sabato 24 ottobre, quando in un giorno si sono iscritte 2073 persone.

«Lo sviluppo di “Open wi-fi” si collega al progetto smart city — ha commentato l’assessore al Lavoro e allo sviluppo economico Cristina Tajani — è una struttura che consideriamo abilitante, ovvero che serve a rendere più fruibili e fruite alcune zone della città. È da sottolineare poi come siamo riusciti a superare le nostre stesse previsioni di inizio mandato grazie a una collaborazione proficua tra diversi soggetti dell’amministrazione ».

postilla

Come si è già osservato anche con l'aiuto di sopralluoghi diretti nei luoghi serviti, la vera questione aperta del collegamento alla rete senza fili è la sua natura o meno di componente della smart city: qui pare ci sia ancora molto «smart» tecnologico e organizzativo, ma pochissima «city» spaziale e di uso. Certo, è vero, non si può pretendere che approcci così innovativi alla riqualificazione urbana come quello legato all'accesso wireless realizzino fulmineamente tutte le loro potenzialità, ma vedere del tutto e pervicacemente ignorati i luoghi serviti dalla connessione, assistere a scenette tragicomiche, in cui per collegarsi le persone sono costrette ad abbandonare luoghi già attrezzati di arredi urbani, e spostarsi là dove non ce ne sono affatto salvo il «virtuale», dà l'idea di una lacuna tutta politica, di mancato coordinamento fra settori e responsabilità, che si vorrebbe rapidamente superato, per vedere una
smart city del tutto a portata di mano, fatta meno di auspici e più di vita quotidiana (f.b.)

Un servizio di Ernesto Ferrara e un commento di Tomaso Montanari sull'incredibile gaffe di Nardella, Anche Firenze ha il suo Brugnaro. La Repubblica, 25 novembre 2015

L’assalto del turismo ai monumenti. I tunnel della Tav e della nuova tramvia che passerebbero non lontani da capolavori come il Duomo, Santa Croce e la Fortezza da Basso. E poi lo shopping immobiliare, decine di grandi palazzi che passano in mani private per diventare alberghi o residenze di lusso, e in certi casi si tratta di opere storiche come la Rotonda del Brunelleschi, gioiello quattrocentesco che l’associazione invalidi di guerra sta valutando di vendere. L’Unesco lancia l’allarme su Firenze. Tramite l’Icomos, il consiglio internazionale per la tutela dei siti che è il principale consigliere del World Heritage Council, trasmette già nel maggio scorso un avvertimento con richiesta di spiegazioni al Comune.

Per 5 mesi la missiva resta top secret finché non è proprio l’erede di Matteo Renzi a Palazzo Vecchio, il sindaco Dario Nardella, a rivelarne in parte i contenuti lo scorso 16 ottobre: «Ci è arrivata una comunicazione formale dall’Unesco in base alla quale Firenze è sotto osservazione. Questo perché non abbiamo ancora applicato il piano di gestione della tutela in maniera completa», confessa Nardella presentando un pacchetto di misure contro degrado e minimarket che, dice, va proprio nella direzione chiesta dall’Unesco. Ma il “warning” dell’ente internazionale in realtà pone pure altri problemi. Che emergono dal testo integrale della missiva, trasmesso dal Comune ai consiglieri di opposizione che ne avevano fatto richiesta e oggi diffuso dalla rete dei comitati cittadini e da alcuni firmatari di un esposto proprio all’Unesco: impatto delle grandi opere, palazzi in vendita, gestione dei flussi turistici. «L’Icomos ritiene che l’Italia potrebbe accogliere nel centro storico di Firenze una missione di consulenza», si legge addirittura nella lettera che il 27 maggio l’ex direttore del centro mondiale Unesco Kishore Rao trasmette all’ambasciatrice permanente Vincenza Lomonaco e poi a Palazzo Vecchio. E ora in città scoppia la polemica: «Altro che degrado, c’è ben altro».

Non che Firenze sia la prima città italiana a finire sotto la lente dell’Unesco. Venezia per le grandi navi, Pompei per i crolli, Tivoli con la sua Villa Adriana sono solo i casi più recenti. Se Pompei ha seriamente rischiato di finire nella “black list”, Firenze è ben lontana da questo punto. Ma un segnale è arrivato. Da una parte l’invito a varare un piano di gestione che affronti il tema dell’arrembaggio del turismo con strategie migliori. Dall’altra, l’allarme sulle opere e sul rischio di snaturare con cessioni e piani urbanistici un centro storico ritenuto dall’Unesco «unica realizzazione artistica». Nardella minimizza: «Quello dell’Unesco non è un allarme e non è un richiamo. È una richiesta di spiegazioni cui stiamo rispondendo. Sul turismo abbiamo un piano contro il “mordi e fuggi”, sulla tramvia interrata ancora non c’è nemmeno lo studio di fattibilità ». Anche il presidente della commissione italiana Unesco, Francesco Puglisi, frena: «È una lettera di routine». Ma la polemica infuria.

Idea di Renzi sindaco, il progetto di un “mini metrò” sotto il centro con fermate sotto piazza Repubblica e Santa Croce è ancora una teoria. Eppure Icomos già nota «che il centro storico è a rischio inondazione e la situazione idrogeologica di vaste parti della città è a classificata a rischio molto alto», e chiede chiarimenti sull’ipotesi. «Il progetto non c’è ancora, appena avremo più informazioni le daremo all’Unesco in uno spirito di piena collaborazione », garantisce Nardella. E c’è anche il tunnel Tav ad allarmare: 7 chilometri con tracciato sotto la medicea Fortezza da Basso. «Icomos nota che l’arresto imposto dalle inchieste giudiziarie e dai problemi tecnici potrebbe essere un’opportunità per un’analisi più approfondita sull’impatto prima che ricomincino i lavori». E poi i palazzi del centro storico in vendita con possibili cambi di destinazione d’uso, 13 grandi edifici storici sul mercato e trasformazioni in vista su 200mila metri quadrati. Icomos, in particolare, chiede chiarimenti sulla Rotonda del Brunelleschi che l’Associazione nazionale mutilati di guerra, proprietaria, valuta se vendere. I comitati temono ci possa nascere un albergo. «Noi stiamo dando slancio ai nuovi investimenti con attenzione alla residenza, il nostro problema sono gli edifici dismessi», obietta Nardella.

La lettera datata maggio ma resa nota dai comitati cittadini in questi giorni Il sindaco: risponderemo A destare timori anche l’assalto dei turisti e il progetto del mini-metrò non lontano dal Duomo


SALVIAMO LA CITTÀ DALLA SINDROME DI VENEZIA
di Tomaso Montanari
Che la lettera dell’Unesco al governo italiano sullo stato di Firenze abbia una vera rilevanza politica lo prova il fatto che il sindaco Dario Nardella l’abbia chiusa per sei mesi in un cassetto: se oggi tutti possiamo leggerla è grazie alla Rete dei comitati per la difesa del territorio.

L’Unesco entra a piè pari nella politica della città, rilevando l’«insufficient management of tourism», anzi l’«absence of tourist strategy». L’assenza di un qualunque governo del turismo è uno dei problemi principali del Paese: sia da un punto di vista dello sviluppo economico (fino a quando l’Enit sarà bloccato da una paralisi che Dario Franceschini non riesce a sanare?), sia da quello della sostenibilità ambientale e sociale. Firenze va verso Venezia, dice l’Unesco: cioè verso una progressiva espulsione dei residenti, una irreversibile trasformazione in lussuoso parco a tema del passato. Il rimedio non è certo fermare il turismo, ma governarlo: indirizzandolo verso l’enorme parte del Paese che è tagliata fuori, decongestionando i feticci ormai al collasso.
Colpisce poi la critica radicale alla privatizzazione dello spazio pubblico italiano. La lettera nomina esplicitamente il luogo simbolo di piazza Brunelleschi, nel cuore di Firenze. Qua si sta per scavare l’ennesimo, inutile parcheggio: pericoloso per i monumenti (siamo a pochi passi dalla Cupola del Duomo), lesivo della piazza (che sarà ridotta a tetto di un grande silos interrato), dannoso per i residenti. Contestualmente la Rotonda di Brunelleschi, opera importantissima del padre del Rinascimento, rischia di essere venduta, magari trasformata in albergo di lusso: sarebbe l’ennesimo caso. Anche questa è una tendenza nazionale: pericolosissima dopo che lo Sblocca Italia ha estromesso il ministero per i Beni culturali dalla scelta degli immobili da alienare. Il fatto che l’Unesco si preoccupi non solo della conservazione materiale dei monumenti, ma anche della loro funzione sociale e civile dovrebbe aprire gli occhi ai molti che — in Italia — sostengono che valorizzazione significhi mercificazione: dobbiamo invertire la rotta, se non vogliamo ridurci a guardiani di un luna park altrui.
Infine, l’impatto delle Grandi Opere sul tessuto del paesaggio e delle città: l’Unesco guarda con preoccupazione al sottoattraversamento Tav e al folle sventramento del centro storico previsto per la tranvia (cui ora si aggiunge il pessimo progetto del nuovo aeroporto fiorentino). Su questi temi l’Unesco loda l’azione dei comitati (i “comitatini” sbeffeggiati da Matteo Renzi) e critica la mancanza di collaborazione del governo italiano. Se quei cittadini fossero stati ascoltati (ovunque: pensiamo alla Val di Susa, dove il Tribunale Permanente dei Popoli ha appena condannato «l’intero sistema delle grandi opere inutili e imposte»), oggi l’Unesco non dovrebbe denunciare il tramonto di Firenze. La morale è che «è sempre necessario acquisire consenso tra i vari attori sociali, che possono apportare diverse prospettive, soluzioni e alternative. Nel dibattito devono avere un posto privilegiato gli abitanti del luogo, i quali si interrogano su ciò che vogliono per sé e per i propri figli, e possono tenere in considerazione le finalità che trascendono l’interesse economico immediato». E questo non è l’Unesco, né i comitati: è l’enciclica di papa Francesco.

Riferimenti
Qui potete leggere la denuncia della Rete dei comitati e il link al documento dell'Unesco e l'ampia relazione critica dell'Icomos. che abbiamo inserito ieri su eddyburg

Il Comunicato stampa di perUnaltracittà-laboratorio politico (23 novembre 2015) che denuncia il tentativo del sindaco di Firenze di nascondere l'autorevole parere dell'Unesco sul massacro in atto del centro storco della città che il pupillo di Renzi avrebbe la responsabilità di tutelare. In calce il testo originale del documento

Inqualificabile il comportamento del sindaco Nardella di fronte alla lettera dell’Unesco al Comune di Firenze che segnalava i rischi della realizzazione delle grandi opere in città.

Malgrado le ripetute richieste dei consiglieri, la lettera è stata tenuta nascosta in Palazzo Vecchio. Non solo. I contenuti della missiva sono stati artatamente mascherati. Rendendo dichiarazioni su​ una presunta dichiarazione Unesco su​l “degrado” della città storica, determinato secondo il sindaco dalla vendita di alcolici e dai minimarket, Nardella travisava il messaggio arrivato da Parigi.

L’analisi tecnica allegata alla lettera Unesco segnala ​invece ​problematicità di ben altro calibro, legate ad interventi pesanti e invasivi, quali: il tunnel TAV; la vendita dei complessi monumentali pubblici o «semi-pubblici» – tra cui la Rotonda del Brunelleschi – a investitori privati, e il loro cambiamento di destinazione d’uso (peraltro monetizzato dall’art. 25 delle N​ote ​T​ecniche del R​egolamento ​Urbanistico​); la costruzione di parcheggi interrati nel centro storico; il progetto di metró sotterraneo sotto il quadrilatero romano; la realizzazione delle linee del tram passanti nell’area protetta dall’Unesco; e infine l’eccessiva pressione turistica.

Sebbene la lettera ometta di inserire nell’elenco i sorvoli aerei sull’area Unesco che deriveranno dalla costruzione del nuovo aeroporto, essa ripete quanto stiamo dicendo da anni. ​​Un centro storico non pianificato, troppo indulgente alle lusinghe del turismo internazionale, avviato verso la trasformazione in una luxury-city (o wedding-city) che espelle i residenti e cancella le funzioni ​civiche ​e gli spazi pubblici vitali per la convivenza civile.

L’Unesco richiede pertanto «ulteriori dettagliate informazioni sui suddetti progetti, inclusa adeguata documentazione tecnica e VIA, così come le misure di mitigazione per i progetti sotterranei, con particolare riguardo ai problemi di vibrazioni e allagamento». Su questo è chiamato a rispondere Nardella​, ​che abbandoni il ruolo di promotore immobiliare e assuma, se ci riesce, quello che dovrebbe essere il compito di ogni sindaco, cioè di garante del buon andamento della cosa pubblica.

Riferimenti
Qui potete aprire e leggere il documento dell'Icomos (International Council On Monuments and Sites) l'organismo tecnico di cui si avvale l'Unesco, inviato dall'agenzia dell'Onu al sindaco di Firenze, che quest'ultimo ha tentato invano di nascondere.

Se i processi di trasformazione e riuso dello spazio urbano non seguono i medesimi ritmi dell'evoluzione sociale e delle aspettative della città, qualcosa si dovrà pur fare, a titolo provvisorio, ma forse non solo. La Repubblica Milano, 19 novembre 2015, postilla (f.b.)

Sarebbe dovuto durare soltanto per i sei mesi di Expo. Poi, è arrivata una proroga che comprendesse le feste natalizie e arrivasse al 31 gennaio. Adesso, il modello del Mercato metropolitano è destinato a un terzo tempo più stabile. Perché l’obiettivo è quello: continuare a far vivere almeno sino alla fine del 2017 parte degli scali ferroviari di Porta Genova, ma anche di Porta Romana e Farini. E, in attesa dei cantieri che trasformeranno i fasci di binari dismessi o in via di abbandono in nuovi quartieri, continuare a tenerli aperti alla città con street food, attività culturali e di intrattenimento per tutti.

C’è il disegno complessivo e l’accordo di programma urbanistico siglato ieri da Comune, Regione e Ferrovie dello Stato per riqualificare sette scali e una superficie complessiva di un milione e 250mila metri quadrati. Ma adesso c’è anche un protocollo d’intesa e una cabina di regia creata da Palazzo Marino e Fs per definire i particolari “dell’operazione ponte” sui tre indirizzi più centrali e strategici, così come le iniziative che saranno organizzate e i tempi dell’utilizzo temporaneo. Si parte dalle esperienze iniziate durante Expo e giudicate positive. Perché adesso che le porte di quelle aree si sono aperte e che i milanesi — e non solo — hanno iniziato a frequentare quei pezzi di città prima inaccessibili, è stato deciso di non tornare indietro. Un’opportunità e un presidio in più.

«In questo modo le aree degli scali resteranno vive e fruibili in attesa delle destinazioni definitive — dicono l’assessore all’Urbanistica Alessandro Balducci e quello al Commercio Franco D’Alfonso — Si tratta di importanti porzioni di città a ridosso del centro storico che non torneranno a essere intercluse e insicure, ma continueranno a offrire nuove opportunità per il tempo libero e la cultura». Nel caso di Porta Genova, poi, dove la linea sarà dismessa dal 2019, Ferrovie si occuperà anche di migliorare l’accessibilità e il collegamento con via Tortona.

Porta Genova, Porta Romana e soprattutto Farini — da solo con oltre 500mila metri quadrati vale quasi la metà di tutti e sette gli scali — sono anche i gioielli più preziosi del patrimonio di Fs che cambierà volto. Dopo la firma a tre dell’accordo, il documento sbarcherà entro 30 giorni in Consiglio comunale per la ratifica finale. Poi, dopo i tempi e le procedure di legge, all’inizio del 2016 l’operazione urbanistica potrà davvero partire. «Ora ci aspetta la fase di ricerca di operatori che potranno tradurre le pianificazioni previste in progetti, opere e servizi a livello di città top in Europa come Milano è considerata», spiega l’ad di Fs Sistemi urbani, Carlo De Vito. La società, infatti, potrà fare bandi per vendere direttamente le aree o, come nel caso di Farini, si potrà pensare a strumenti più complessi come un fondo. In altri casi si tratterà di perfezionare un accordo con Cassa depositi e prestiti per le zone di housing sociale.

postilla
A costo di attirarsi qualche piccolo sarcasmo da parte di chi considera queste azioni (e i relativi commenti) del tutto marginali rispetto alle decisioni «vere» sulle destinazioni finali delle superfici dismesse, forse è il caso di soffermarsi un istante su quella che appare molto più di una moda o ideologia, ovvero quello del «pop-up-shop». Vuoi con le dimensioni contenute della vera e propria bottega, magari al pianterreno di un edificio ad altra destinazione, in un quartiere residenziale, vuoi con quelle dilatate di aree o contenitori industriali dismessi, l'uso commerciale provvisorio e le relative politiche urbane collaterali si stanno diffondendo in tutto il mondo, e accumulano un vero e proprio know-how operativo e finanche strategico. Che forse potrebbe addirittura finire, in tanti casi, per influenzare quelle scelte finali senza ritorno, escludendo dall'equazione il tradizionale fattore di urgenza, o di sicurezza, o di allargamento del degrado e crollo di valori immobiliari, che di solito fa accogliere qualsivoglia proposta di riuso per pura disperazione. Anche se certo una spianata di bancarelle o di giostre per la festa patronale non è il massimo a cui possa aspirare una città: forse, nel merito e nel metodo, si può pensare di meglio (f.b.)

Mibact, una riforma chiamata caos

Premessa

Con le “riforme” Franceschini-Madia doveva entrare nella vasta materia dei Beni culturali e paesaggistici il Nuovo. Purtroppo a tutt’oggi è entrato il Caos. Dopo la netta separazione fra Musei “da valorizzare” e Soprintendenze addetta ad una sempre più problematica tutela territoriale, non si capisce più quale sia la linea di comando del settore. Il governo non ha avuto il coraggio (o forse non l’ha nemmeno pensato) di tornare ad una sorta di neo-centralismo ragionevole e competente, ma ha puntato tutto sui beni “suscettibili di produrre reddito” o di costituire un “brand” turistico commerciale. Premessa
Le Regioni che anni fa rivendicavano con forza la tutela, hanno capito che era una “rogna” e se ne sono disinteressate (come si disinteressano dei Piani paesaggistici). Quando lo Stato ha scippato loro la competenza sui beni librari, non hanno nemmeno aperto bocca. Del resto soltanto l’Emilia-Romagna si era attrezzata anche per gli archivi digitali tant’è che lo Stato, non attrezzato, travasa i propri dati nella struttura digitale emiliano-romagnola.

Renzi detesta e insolentisce pubblicamente i Soprintendenti fin da quando era sindaco di Firenze giudicandoli una burocrazia tanto potente quanto inutile. Difatti col decreto Sblocca Italia ha cominciato a togliere loro competenze sui grandi lavori. Con disegno di legge Madia è andato ancor più avanti imponendo una sorta di silenzio/assenso generalizzato col chiedere agli sparuti drappelli di architetti delle Soprintendenze oberati di lavoro (4-5 pratiche al giorno a testa, se va bene) risposte in pochi giorni. Altrimenti si va avanti, si approva o addirittura si sana anche l’insanabile. Cosa sono queste lungaggini perditempo in un Paese dove il consumo di suolo è pari soltanto a 8 mq al secondo e risulta triplo rispetto alle medie europee, 6,8 % l’anno contro 2,4 ? Dove tutto è integro, ben tenuto, verdeggiante, senza abusi né illegalità?

Per questo possono pensarci i Prefetti ai quali la stessa illuminata “riforma” Madia sottomette le Soprintendenze come altre strutture dello Stato erogatrici di servizi (così anche per gli scioperi ci tanno tutti più attenti). Anzi, a riforma approvata, le chiameranno Sottoprefetture alla maniera sabauda compiendo un salto politico-culturale all’indietro di un secolo e mezzo. Tutte cose che sembrano paradossali, surreali, lunari e che invece si stanno realizzando, in pieno caos.

E i nostri giornali? Zitti. E i telegiornali? Non parliamone. O magari se la prendono con le solite lungaggini burocratiche, oppure suonano le trombe o i tromboni appena il ministro Franceschini promette per il 2016 la cifra di 150 milioni in più (vedremo alla fine dell’iter della legge di stabilità). Che non ci schiodano certo dal vergognoso 22° posto europeo nella spesa per la cultura in rapporto al Pil e al bilancio davanti alle sole Grecia e Romania e dietro a Bulgaria, Cipro, Malta e tutti gli altri.
Il testo integrale dell'ampia relazione di Vittorio Emilani è raggiungibile qui
Alla relazione introduttiva hanno fatto seguito gli interventi di Maria Vittoria Marini Clarelli Le soprintendenze e i musei, Claudio Leombroni, Le biblioteche, Mariella Guercio, Gli archivi, Francesca Gallo La formazione universitaria

Il Fatto Quotidiano", 14 novembre 2015

Chiama e rispondi. Matteo Renzi rilancia l’idea del ponte sullo Stretto. Poche ore dopo visita a Riyad, un cantiere di Salini-Impregilo, azienda in causa con lo Stato per il ponte. Infine Pietro Salini (nella foto), rincuorato dai colloqui arabici con il premier, dice al Corriere della Sera che muore dalla voglia di fare il ponte.

Niente paura. Il grande sperpero di denaro pubblico non ci sarà. Ci sarà quello piccolo (si fa per dire). La grancassa della propaganda suona per quel miliardo di penali che da dieci anni è l’unico vero obiettivo del maggior gruppo italiano delle costruzioni. Salini, che ha scalato l’Impregilo tre anni fa, si è appropriato di un armamentario propagandistico vecchio di trent’anni. Ha detto per esempio che stanno aumentando i traffici marittimi davanti alla Sicilia, “ma le merci via mare devono arrivare fino a Rotterdam per tornare poi magari in Sicilia, mentre potremmo farle partire da Palermo e distribuirle da lì in Europa”.

Il curriculum di Salini dimostra che stupido non è, quindi ci fa. Dovremmo spendere una decina di miliardi per collegare con l’Europa un futuribile porto di Palermo. E come mai allora le navi oggi vanno a Rotterdam anziché scaricare a Gioia Tauro? Gli fa schifo la Calabria?

Non è possibile che Salini creda a ciò che dice: «Il Ponte si può fare tutto finanziato dai privati», come se non sapesse che Impregilo nel 2005 ha vinto una banale gara per un appalto pagato dallo Stato fino all’ultimo euro. Dice di disporre di una “stima interna” (?) secondo cui lo Stato, costruendo il Ponte, non solo non spenderà nulla ma incasserà 10 miliardi tra “maggiori tasse, imposte dirette, mancati contributi alla disoccupazione”.

Lasciamo perdere le amenità e veniamo alla sostanza. Da quando il consorzio Eurolink (di cui Salini-Impregilo ha il 45 per cento) ha vinto nel 2005 la gara per il Ponte con un ribasso stratosferico, un’opaca successione di contratti scritti e riscritti ha creato le condizioni perché Eurolink potesse pretendere le penali per la mancata costruzione, anche in mancanza di un progetto definitivo approvato. Per ragioni oscure tutti i governi succedutisi da allora, nessuno escluso, hanno fatto il gioco di Impregilo. Così è nata la causa civile che oggi consente a Salini di prevedere la vincita di 1 miliardo secco senza muovere un mattone e senza che il progetto abbia superato la Valutazione di impatto ambientale Via e sia stato approvato dal Cipe.

Gli avvocati di Eurolink hanno bisogno che Salini ripeta ossessivamente di essere non solo pronto, ma desideroso di costruire il Ponte. E Renzi, dicendo che il Ponte farebbe il bene del Paese, fa - di sicuro inconsapevolmente - un regalo prezioso agli avvocati dell’amico Salini. Tutto il resto, come dire che le ragioni di chi è contro il Ponte sarebbero del tipo che “la sua ombra farebbe venire il mal di testa ai pesci pelagici”, sono chiacchiere. Triviali e interessate. Ma chiacchiere.

«Expo Spa ha uno sbilancio di gestione da oltre 400 milioni, Arexpo terreni che non è riuscita a vendere: Renzi vuole metterle insieme e coprire tutto coi soldi di Cdp». Il Fatto Quotidiano, 12 novembre 2015 (m.p.r.)
Il piano per il dopo-Expo col genoma, i Big Data, i ricercatori? Al momento, sembra più che altro il piano per occultare i buchi di bilancio dell’evento: i conti, per ora, sono ancora segreti, ma secondo fonti contattate dal Fatto Quotidiano, si parla di uno sbilancio di gestione che oscilla tra i 400 e i 500 milioni di euro, al netto del costo dei terreni e di ulteriori extracosti. Su questo, però, non è possibile avere un confronto pubblico: l’Esposizione milanese deve essere un successo, Giuseppe Sala - o, come dicevan tutti, “Beppe”- il salvatore della patria, Matteo Renzi il conquistatore di Milano.

Per ottenere questo risultato il governo sta predisponendo il decreto per il dopo-Expo (andrà in Consiglio dei ministri domani), utile soprattutto a buttare un po’ di polvere sotto il tappeto: oggi i vertici di Expo Spa (che ha gestito l’evento) e di Arexpo Spa saranno a Roma per discutere con l’esecutivo come tirarsi fuori dai casini.

Arriva Cdp, le promesse a Regione e Comune
Il primo problema sono i terreni. Arexpo li ha comprati (a debito) dai privati a dieci volte il prezzo di mercato (Fondazione Fiera di Milano è il maggior venditore e pure socio di Arexpo). A bilancio valgono 300 milioni, ma quando ha provato a venderli a 315 l’asta è andata deserta. I soci – Regione, Comune e Fiera – cominciavano a preoccuparsi: gli era stato detto che i privati avrebbero fatto a gara per comprarseli e invece niente. Roberto Maroni e Giuliano Pisapia non hanno i soldi per creare da soli il futuro Polo tecnologico, né per valorizzare l’area e poi venderla. Quasi tutte le infrastrutture del sito hanno collaudi scaduti al 31 ottobre: bisognerà rifare quasi tutto da capo, nonostante lo Stato abbia già speso 1,3 miliardi a fondo perduto per le opere.
Regione e Comune, però, sono state rassicurate da Palazzo Chigi. I soldi li metterà Cassa depositi e prestiti, probabilmente rilevando le quote di Fondazione Fiera. Il veicolo per fare tutto questo non è ancora chiaro e anche di questo si discuterà oggi: la soluzione più razionale (e veloce) sarebbe trasformare Arexpo - che doveva essere smantellata dopo l’Esposizione - in soggetto attuatore del piano per il “dopo” con relativa annessione di Expo Spa. La tentazione del governo, però, è la creazione di una società ex novo in cui far confluire tanto Expo Spa che Arexpo.
Il vantaggio? Occultare il buco dell’Esposizione, cioè il conto che si scaricherà sui cittadini. Soprattutto quello di Expo Spa, la società (di Tesoro, Regione e Comune) che ha gestito l’evento sotto l’illuminata guida di Giuseppe Sala: dei suoi conti ad oggi non si sa nulla, ma secondo fonti qualificate il bilancio di gestione fa segnare un rosso da mezzo miliardo.
Bonifiche, visitatori, bilanci e altri misteri
Per spiegarsi servono un po’ di numeri: la gestione dell’evento costa 840 milioni secondo Expo Spa, ma il conto sale a 960 milioni se, come segnala la Corte dei Conti, vengono correttamente riclassificate alcune poste di bilancio. Nel business plan iniziale i ricavi da biglietti valevano 530 milioni (24 milioni di ticket a un prezzo medio di 22 euro). Sala, dopo i primi mesi un po’ negativi, ci ha ripensato: 380 milioni (19 euro medi per 20 milioni di biglietti). Ora ci dicono che gli “ingressi” a Expo sono stati 21,5 milioni circa, cifra a cui si arriva contando pure i 14mila addetti al sito che entravano ogni giorno: i visitatori veri sono stati circa 19 milioni. E l’incasso dai biglietti? Secondo le fonti del Fatto si aggira sui 200 milioni con un prezzo medio attorno ai 10 euro: succede quando si fanno sconti enormi a scolaresche, dipendenti degli sponsor, parrocchie, coop, ordini professionali e associazioni varie; quando si vendono i biglietti a 5 euro dopo le 18, si regalano gli ingressi a pensionati, titolari di bassi redditi e a chi parcheggia di sera nelle aree di sosta del sito.
Ammettendo che gli altri ricavi siano davvero 300 milioni circa, come da previsioni, il conto è questo: mezzo miliardo di ricavi, almeno 960 milioni di costi. Ora Sala, forse candidato sindaco di Milano, sta tentando di spremere soldi ovunque: Expo Spa ha “addebitato ” ad Arexpo (che non vuole pagare) 70 milioni per le bonifiche, mentre il contratto tra le due le cifrava a 6 milioni. Ora, per di più, il governo le vuole fondere: a godere, in questi spericolati incroci societari, rischia di essere solo la Fondazione Fiera, che dopo aver dato il pacco dei terreni (inquinati) a Expo, ne uscirà pure con un po’ di soldi.

«Ricerca&sviluppo. Dietro il plauso alla “boutade” di Renzi sul futuro dell’area, l’eterno gioco della speculazione fondiaria». Il manifesto, 12 novembre 2015

A parte gli estensori del discorso di Matteo Renzi, tutti sanno che il nome Silicon Valley arrivò dopo decenni dall’inizio di produzioni industriali innovative che hanno segnato la storia tecnologica mondiale. Hewlett & Packard, ad esempio, inaugurò in quell’area il primo stabilimento nella metà degli anni Trenta del secolo scorso.

Milano, una città importante nella storia produttiva italiana ha dismesso negli ultimi trenta anni tutti gli stabilimenti industriali più importanti: la follia dell’urbanistica contrattata milanese ha permesso di realizzare anonimi quartieri al posto delle produzioni. La rendita fondiaria ha guadagnato somme imponenti rinunciando al difficile percorso dell’innovazione produttiva e della creazione di tecnologie avanzate.

La Silicon valley alla milanese non potrà nascere soltanto creando nuove strutture di ricerca ma solo se ci sarà un progetto industriale per l’intero paese in grado di orientare, incentivare, di favorire le sperimentazioni specialmente delle imprese innovative e soltanto se ci saranno investimenti adeguati per l’istruzione universitaria.

Del resto, è noto che la ricerca nelle nostre università è stata pressochè azzerata dai tagli di bilancio e le università languono. La somma di 150 milioni all’anno per l’ipotetico polo milanese è una piccola goccia per il paese che finanzia l’istruzione superiore e la ricerca con le risorse più modeste d’Europa.

Ciononostante, a parte qualche marginale critica, la boutade di Renzi è stata accolta con molto favore dal grande circo mediatico. Sono tre i motivi profondi di questo consenso.

Il primo è l’eterno gioco della speculazione fondiaria.

Sulle aree Expo arriverà un fiume di cemento: con l’urbanistica a la carte in voga a Milano, infatti, si è consolidata la prassi di attribuire ad ogni metro quadrato di proprietà fondiaria una edificazione di 0,2 metri quadrati. L’area Expo misura 105 ettari e si potranno realizzare almeno 210 mila metri quadrati di edifici. Il progetto renziano riguarda 70 mila metri quadrati. Restano dunque 140 mila metri cubi su cui costruire abitazioni o ipermercati, l’unica attività in cui eccelle la struttura d’impresa milanese.

Il Corriere della Sera ha proposto la realizzazione di case dello studente. La recente esperienza di Tor Vergata a Roma non fa dormire sonni tranquilli: nel grande campus universitario sono stati di recente inaugurati alloggi per studenti ma non con i soldi pubblici, bensì finanziati attraverso un apposito fondo immobiliare. Quegli alloggi ospitano chiunque, non solo studenti. E’ questo il modello anche per Milano: altre case in una città soffocata?

Il secondo motivo è l’ulteriore colpo alle autonomie comunali.

E’ stato il primo ministro ad annunciare in conferenza stampa un progetto non discusso con i sindaci di Milano e dei comuni limitrofi: Giuliano Pisapia ascoltava come tutti gli altri le esternazioni del presidente del consiglio, Questa prassi comincia a preoccupare perché fa il paio con lo scioglimento coatto di Roma.

Le due più grandi città d’Italia, insomma, non possono godere del normale corso amministrativo: grandi progetti come il futuro delle aree expo o grandi eventi come il Giubileo sono terreno esclusivo di caccia del primo ministro o di un prefetto. I comuni italiani sono stati portati sull’orlo della bancarotta per i tagli di bilancio e il governo dimostra che non ha alcun interesse a risolvere il problema. Anzi, rincara la dose comprimendo la democrazia.

Il terzo motivo riguarda l’affidamento del futuro delle città a manager spesso inesistenti.

L’esperienza Expo depurata dalla retorica imperante è stata infatti un disastro senza precedenti. Dal 2007 all’aprile 2015 non si è stati in grado di realizzare nella sua interezza il progetto, eppure sono stati spesi 14 miliardi di euro. Gli scandali e le malversazioni hanno riempito le cronache giudiziarie e le galere.

Eppure il commissario Sala viene dipinto come l’unico in grado di guidare Milano. E qui il risvolto più amaro riguarda l’inerzia dimostrata dal comune di Milano nel progettare il futuro: è in questo vuoto di prospettiva che hanno avuto buon gioco le improvvisazioni di Renzi e l’eterna tentazione della ricerca del manager demiurgo.

«La retorica sui successi di Expo impedisce di mettere a fuoco i problemi: oltre all’inquinamento dei terreni, la difficile accessibilità e mobilità, come ottenere una appropriata composizione sociale e come perseguire la qualità urbana perché non si realizzi un altro pezzo di periferia, isolata dal resto del territorio». Il Fatto Quotidiano, 11 novembre 2015 (m.p.r.)

Il sindaco di Milano Giuliano Pisapia ha affermato che l’area di Expo «ha caratteristiche uniche sia dal punto di vista logistico che tecnologico» e che quel «milione di metri quadrati … sono raggiungibili facilmente con ogni mezzo… e dotati di infrastrutture tecnologiche». Se fosse vero, per quale motivo ci sarebbe la necessità di fare intervenire il governo nel suo recupero dopo la manifestazione? E come mai per eseguire una normale, per quanto importante, operazione di natura urbanistica da coordinare tra i comuni di Milano e Rho servirebbe, anche a detta del ministro Maurizio Martina, «un interlocutore forte» un «dominus», come lo definisce Pisapia, «che unisca alcuni poteri speciali a un ruolo diretto e strategico all’interno di Arexpo» ossia nella società che possiede le aree?

Considerato che le aree di Expo si estendono sia nel territorio di Milano che in quello di Rho, a che cosa servono allora i due assessori all’urbanistica, Alessandro Balducci e Pietro Romano, sindaco di Rho con delega all’urbanistica? Altri giornali hanno riferito che il principale problema sarebbe Arexpo, soggetto troppo debole per gestire il post evento. Ma Arexpo, formata da Regione, Città metropolitana, Comuni di Milano e di Rho e da Fondazione Fiera comprende le tre più importanti amministrazioni locali che rinunciano inspiegabilmente alle loro prerogative sul governo del territorio. E il ministro Martina ha affermato: «il fatto che lo Stato (o il governo?, ndr) non sia nella società Arexpo è un elemento che ha creato una disomogeneità… Ci troviamo in una situazione non allineata tra gestione e proprietà. Stiamo lavorando per allineare bene le cose e poter essere utili».
Ma perché mai il governo dovrebbe allinearsi? Invocare l’intervento del governo può avere la motivazione di disporre di altri finanziamenti pubblici, oltre a quanto già speso per Expo. La retorica sui successi di Expo e sulla qualità delle aree impedisce di mettere a fuoco i problemi: oltre all’inquinamento dei terreni, dell’aria e acustico, la difficile accessibilità e mobilità, la vischiosità delle procedure, a meno che si ricorra a poteri del “dominus” che con procedure d’urgenza ridurrà garanzie e tutele, la difficile sostenibilità economica che comporterà altri oneri a carico dei cittadini, come ottenere una appropriata composizione sociale per evitare il degrado e realizzare invece una vitale componente della Città metropolitana, e come perseguire la qualità urbana e architettonica perché non si realizzi un altro pezzo di periferia, isolata dal resto del territorio.
Sono certo di interpretare i sentimenti di molti progettisti e dell’Ordine degli Architetti - fin dal 2008 impegnato a documentare il dopo Expo nei casi emblematici di Hannover, Siviglia e Saragozza - affermando che non rinunceremo a prendere posizione sui problemi che si stanno manifestando, mettendo a disposizione le nostre conoscenze per favorire un pubblico dibattito nel quale inviteremo a confrontarsi i responsabili delle istituzioni.
Emilio Battisti, architetto, già ordinario di Composizione Architettonica Politecnico di Milano

appeal per le speculazioni edilizie, ma si certificò, comunicandolo alla Ue, che “l’intera provincia di Lecce è da ritenersi infetta”». Il manifesto, 11 novembre 2015 (m.p.r.)

Brindisi. Non ci stanno cittadini e agricoltori del brindisino a vedersi privare in un sol colpo dell’identità, dell’unica fonte di guadagno familiare, l’unico polmone d’ossigeno e l’intero paesaggio che si scorga a perdita d’occhio da tutte le finestre di ogni paese.
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Così in un solo giorno, hanno occupato i binari della stazione di San Pietro Vernotico; bloccato le strade di Torchiarolo con trattori, famiglie, mamme, papà, bambine e bambini delle elementari; impedito alle guardie della Forestale di fare i campionamenti sugli ulivi, perché le guardie erano sprovviste del necessario documento di accompagnamento autorizzativo dei prelievi.

Sale la tensione nella provincia di Brindisi e aumenta anche l’organizzazione dei cittadini nelle azioni di sabotaggio del piano del commissario straordinario per l’emergenza xylella. Il piano, denominato “Silletti bis”, dal nome del commissario Giuseppe Silletti, prevede che nella provincia di Brindisi si sradichino e si distruggano gli ulivi, anche plurisecolari, risultati positivi alla presenza del batterio xylella fastidiosa, un batterio incluso dalla Ue nella lista “Eppo”, cioè la lista degli organismi da quarantena, la cui sola presenza sul territorio nazionale fa scattare le misure di contrasto previste dalla direttiva europea 29 del 2000, che non prevede né impone lo sradicamento di alberi, tantomeno se secolari, in campo aperto.

Come si sia potuti arrivare a tale livello di tensione sociale e di furia distruttrice è una storia lunga, raccontata nel libro-inchiesta “Xylella report” e risponde ad una precisa scelta politica compiuta all’epoca della giunta di Nichi Vendola, nell’ottobre 2013, quando si decise, a priori e senza alcuna evidenza scientifica che ancora oggi manca (all’epoca il batterio non era stato neanche isolato in laboratorio), di sradicare l’intera foresta di ulivi della provincia di Lecce, cioè 11 milioni di ulivi, per la maggior parte secolari.

La xylella era stata trovata su alcuni alberi vicino Gallipoli, zona di forte richiamo turistico e di grande appeal per le speculazioni edilizie, ma si certificò, comunicandolo alla Ue, che “l’intera provincia di Lecce è da ritenersi infetta”, facendo subito domanda per ottenere i finanziamenti (rimborsi a consuntivo) per le operazioni di sradicamento.

Ora l’Unione europea, rispondendo alle indicazioni della regione Puglia, ha imposto di sradicare e distruggere gli ulivi positivi a xylella e tutti gli alberi e le piante anche sane nel raggio di 100 metri attorno all’albero risultato positivo. S’impone cioè di desertificare a macchia di leopardo potenzialmente tutta la Puglia: attorno ad ogni albero positivo a xylella si desertifica un territorio vasto tre ettari e mezzo.

Un esempio: nel brindisino sono stati trovati solo 8 alberi positivi a xylella e per quegli otto alberi se ne sono già sradicati oltre 1000.

Intanto, mentre Michele Emiliano, presidente della Regione, convoca per il 16 novembre prossimo una quarantina di esperti riuniti in una “task force” con l’obiettivo di dimostrare che sradicare non serva, un gruppo di ricercatori e giuristi dell’Università del Salento presenteranno giovedì prossimo a Torchiarolo un documento dal titolo ““Emergenza Xilella Fastidiosa: perché l’obbligo di estirpazione di tutti gli ulivi non infetti (privi di sintomi indicativi di possibile infezione e non sospetti di essere infetti) nel raggio di 100 metri da quelli infetti è una misura contestabile sul piano giuridico e scientifico” che sintetizza, in versione semplificata per la diffusione al pubblico, i risultati di uno studio interdisciplinare coordinato dai professori Massimo Monteduro (associato di Diritto Amministrativo) e Luigi De Bellis (ordinario di Fisiologia Vegetale) e curato da un gruppo di professori, ricercatori e giovani studiosi dell’Università del Salento denominato L.A.I.R. (“Law and Agroecology Ius et Rus”), che si occupa dei rapporti tra diritto e agro/ecologia.

L’obiettivo è fornire ai Comuni e a tutti i cittadini basi scientifiche solide su cui appoggiare i ricorsi al Tar, non appena ricevute le ordinanze di abbattimento degli alberi.

Una ricerca “open source”, gratuita e subito a disposizione di tutti, nata dall’idea di un artista, musicoterapeuta, musicista degli Officina Zoè, con una laurea in chimica e tecnologie farmaceutiche nel cassetto: Giorgio Doveri, che ha proposto ai ricercatori di mettersi insieme, parlarsi, collaborare per il bene comune.

Serviva l’arte per far vedere la realtà con occhi puliti.

Huffington post, 6 novembre 2014
Sulle prime, commentando il cambio di rotta del premier Renzi sul Ponte sullo Stretto, il professore Marco Ponti, docente al Politecnico e uno dei massimi esperti in Italia di economia dei trasporti, la butta sul ridere: “Sarà un colpo di sole”. Poi però, quando la discussione torna seria, Ponti mette in fila tutte le sue perplessità, non nascondendo una certa sorpresa, visto che il docente è, tra le altre cose, anche autore delle proposte in materia di trasporti nel libro di Yoram Gutgeld, fedele consigliere del presidente del Consiglio e oggi Commissario per la spending review. “Era una dura analisi contro le grandi opere berlusconiane”. Qualcosa non torna: ”Mi sembra che questa uscita manifesti invece il sorgere di un’ideologia molto berlusconica”.

Chiariamolo subito: realizzare il Ponte sullo stretto è una scelta giusta o sbagliata?
"Tutto si può fare, ma visto che i soldi pubblici sono pochi bisogna vedere se è un investimento sensato o no. Per decidere, innanzitutto occorre assolutamente fare analisi economiche e finanziarie "terze", cioè 'non chiedere all'oste se il vino è buono', comparative - in cui si confrontano diverse infrastrutture tra loro, e diverse soluzioni tecniche -, e trasparenti. Poi non è che devono decidere gli economisti, tocca sempre ai politici, ma occorre un dibattito democratico sulle priorità che sia basato su analisi solide, come si usa nei paesi sviluppati. Soprattutto se i soldi pubblici sono pochi, e i bisogni sociali molti e urgenti. In questo caso, dal punto di vista dell’utilità ci sono serissimi dubbi. Per dirla in parole povere: un ponte serve se ci passa tanta roba".

Non sarebbe così per il ponte sullo Stretto?
"Direi di no. Sia dal punto dei vista dei passeggeri sia da quello delle merci".

Non ci sarebbero abbastanza passeggeri?
"Bisogna considerare quelli di lunga distanza e quelli di breve. Per i primi l’aereo low cost è vincente come alternativa tanto in termini di tempi quanto in termini di costi, rispetto a auto o treni. Per i secondi dobbiamo considerare che il ponte collegherebbe due grossi conglomerati – Messina e Catania con Reggio Calabria - ,ma Il Ponte sarebbe scomodissimo, troppo a nord, il baricentro è lontano. Si sale molto in alto, si percorre il tragitto e poi bisogna scendere di nuovo. Bisogna ricordare che parliamo di un’infrastruttura altissima".

Le merci?
"Per la lunga distanza restano più convenienti le navi come alternativa. Per i traffici di breve distanza, tra Sicilia e Calabria, è difficile che ci siano scambi importanti".

Quindi è un’opera inutile?
"Ogni infrastruttura serve. Ma serve in relazione ai soldi che costa. Questa non mi sembra un’opera urgente. Dal punto di vista macroeconomico poi, molti studi dimostrano che ogni euro pubblico speso rende di più se speso in tante piccole opere, piuttosto che in poche grandi infrastrutture. Le prime sì che occupano un sacco di gente. C’è un problema però".

Quale?
"Che quelle non creano consenso. Posso dire in campagna elettorale: ho migliorato la rete stradale, ma in termini di ritorno di voti non mi porta nulla. Non è visibile come una grande infrastruttura come il ponte".

L’opera è imponente, quali sono le principali difficoltà nel realizzarla?
"Sarebbe il ponte sospeso più lungo del mondo, bisogna immaginare che i pilastri saranno alti 300 metri, come la Tour Eiffel. Le fondazioni di questi pilastri hanno delle dimensioni enormi, mai sperimentati, con effetti endotermici che non si possono prevedere".

Si è parlato recentemente anche della possibilità di realizzare l’opera solo per la ferrovia
"Sarebbe una follia. Se è per questo allora converrebbe solo stradale per il tipo di struttura. La domanda ferroviaria è piccolissima rispetto a quella stradale. Mi viene in mente che l’ex governatore Cuffaro prima di avere altri problemi aveva proposto la costruzione di un tunnel sotterraneo tra Sicilia e Tunisia. Quando si parla di sprecare soldi pubblici non c’è mai limite alla fantasia".

Riferimenti

A proposito del Ponte sullo Stretto potete trovare in eddyburg molti articoli nella cartella SOS Il ponte sullo Stretto, dedicata a quella demenziale proposta nel vecchio archivio (fino al 2013). Ma la presenza di una lobby ancora attiva era stata segnalata di recente da un articolo del Fatto quotidiano.

Prospettive pesanti per l’area compromessa dall'evento Expo, se non si uscirà dal collage di interessi immobiliari piccoli e grandi e non si affronterà il tema della città e del territorio nella sua complessità

Conclusosi l'evento EXPO, non si è però ancora smaltita la solenne sbornia di compiaciuta autocelebrazione per l'inatteso successo di pubblico, che in alcuni ha portato a deliri assai sconvenienti (Milano capitale morale e modello per Roma, Giubileo e future EXPO, Sala commissario-consigliere Cassa Depositi e Prestiti-candidato a Sindaco e già che ci siamo “santo subito”, e via sorvolando sui mille lati oscuri delle inchieste e procedimenti giudiziari in corso e sul costo di costruzione di alcuni padiglioni (da 9.000 a 20.000 €/mq) che danno conto dell'orgia di vanagloria che nel suo piccolo (i problemi dell'alimentazione mondiale sono molto più grandi, seri e di lunga lena se si vuole davvero affrontarli) ha saputo essere l'evento semestrale EXPO e il suo successo di pubblico.

Rimangono invece aperti e irrisolti i dubbi sull'utilizzo futuro dell'area, oggi trasformata da area agricola (come ripetutamente previsto nei PRG succedutisi nel tempo: destinazione in sé discutibile, ma che ancor oggi è l'unica atta a garantire all'Ente pubblico l'inedificabilità permanente a causa del carattere intercluso tra autostrade e ferrovie, che ne sconsigliava l'uso edificatorio, soprattutto se residenziale) in area altamente infrastrutturata dall'accessibilità a medio-lungo raggio, ma ancora difficilmente connessa ai tessuti urbani circostanti.

L'ipotesi di realizzarvi un nuovo campus universitario delle Facoltà scientifiche avanzata dal Rettore della Statale deve accompagnarsi ad un progetto sensato di riutilizzo delle aree dismesse a Città Studi da cui (se non si vuole stravolgere la vivibilità dell'ex Città Studi, come già avvenuto a Citylife e Porta Nuova, nonostante l'incensamento che ora ne fa persino l'amministrazione Pisapia e le forze politiche che la sostengono), non si possono ricavare più di 200 Milioni di € a fronte dei 400-500 Milioni di € stimati necessari per il nuovo campus, e bisognerà, quindi, capire come reperire le risorse mancanti.

Purtroppo i costi dell'errata localizzazione dell'evento EXPO, al netto del suo sbandierato successo di pubblico, non saranno così facilmente cancellabili dalla “città normale, con case e negozi” auspicata con tanta insistenza da Gregotti in svariati interventi sui principali quotidiani, che è invece quasi impossibile da realizzarsi in quel contesto localizzativo, se non a scapito della qualità della vita dei suoi abitanti: meglio, o molto meno peggio, pensare di mantenervi funzioni strategiche di livello metropolitano-regionale. A qualcuno potrà non piacere, ma è il costo ineliminabile dell'eredità del dopo Expo e dell'inconsulta trasformazione d'uso di quell'area interclusa.

Come uscirne?: non subendo il ricatto di chi dice ormai la frittata è fatta e qualcuno la deve mangiare! Se qualcuno deve risponderne è Fondazione Fiera che è ente di nomina pubblica, anche se di diritto privato (un po' come le Fondazioni bancarie altro ben noto bubbone corruttivo), e che deve essere richiamata alla propria responsabilità verso la città rinunciando all'enorme aspettativa immobiliaristica che pensava di aver incamerato col riuso del “dopo Expo”, avendone comprato le aree a prezzo agricolo dai proprietari originari con lo straordinario surplus di rendita ottenuto dalla vendita della vecchia sede a Citylife. Riportando quota edificatoria virtualmente sostenibile a non oltre 0,20 mq/mq e "perequandola" sul vasto plateau di aree pubbliche dismesse a dimensione metropolitana (a partire dagli ex scali Fs e dalle ex caserme in dismissione a Milano, ma anche su quelle industriali dismesse sulla direttrice da Rho a Sesto S.G.), sull'area del “dopo EXPO” potrebbero così permanentemente rimanere le funzioni di indirizzo pubblico delle politiche agroalimentari ed altre attività di interesse pubblico, un nuovo polo delle facoltà scientifiche dell'Università Statale, altre attività di innovazione e ricerca, facendone il nuovo Centro Direzionale metropolitano, e non funzioni residenziali, qui particolarmente inadatte.

Comune e grandi proprietà fondiarie (oggi non più agrarie, ma per lo più aree industriali, infrastrutturali e a pubblici servizi – vedi ex caserme e/o ospedali, ecc. - dismesse o dismettibili) si trovano, invece comunemente interessati a massimizzarne di volta in volta lo sfruttamento della rendita fondiaria derivante dal riuso delle aree centrali dismesse (come appunto aveva già fatto Fondazione Fiera all'epoca dei Sindaci Albertini e Moratti e degli assessori all'urbanistica ciellini Lupi e Masseroli) per finanziare gli investimenti nei propri obiettivi societari o istituzionali, il cui esito urbanistico-insediativo viene ritenuto secondario, residuale e spesso del tutto incontrollato.
Negli Accordi di Programma attualmente in corso di definizione con FS e Ministero della Difesa sul riuso di ex scali ed ex caserme, bisognerebbe, invece, far collocare i parchi territoriali e gli spazi per grandi funzioni urbane su aree di altre proprietà che si ritenga utile di non far edificare a case o negozi (come, ad esempio, oggi più d'uno propone sulle aree del dopo Expo pur di uscire in fretta dai guai di indebitamento), le quali in contraccambio acquisirebbero di una quota virtuale dell'indice edificatorio delle aree di FS e Ministero Difesa.

Invece, in questa urbanistica à la carte che è la sommatoria di PII e Accordi di Programma praticata dal machiavellismo perverso della dirigenza dell'urbanistica milanese passata indenne sotto Amministrazioni comunali di centro-destra prima e di centro-sinistra poi, non si allarga l'orizzonte al quadro complessivo della città (che è quello che dovrebbe “governare” il Piano di Governo del Territorio-PGT) e si continua, invece, senza alcune visione generale di quali altre aree potrebbero essere coinvolte in una logica di perequazione soprattutto nella localizzazione dei parchi urbani e grandi servizi territoriali (tanto sbandierata da urbanisti e amministratori di tendenza, ma quasi mai realmente praticata).

Senza di ciò, il prossimo PGT si troverebbe costretto in una visione monca e prefigurata dalla conclusione di accordi raggiunti su interessi parziali sia di FS sia dell'Amministrazione Comunale (e non della Città, in quanto tale). A meno che, come spesso è capitato, il nuovo PGT sia la riapertura a tutto campo di uno spazio per gli interessi particolaristici diffusi che non hanno avuto dimensione e forza per accreditarsi prima nei PII e Accordi di Programma o quelli ereditati dall'indebitamento delle acquisizioni fondiarie e e dell'esito gestionale del dopo EXPO. Temo sia la prospettiva più realistica e attendibile che ci attende una volta diradatisi i fumi autocelebrativi della sbornia da dopo Expo.

La Repubblica online, 4 novembre 2015 La procura di Vicenza ha sequestrato il cantiere di Borgo Berga, nella parte ancora in costruzione del gigantesco complesso edilizio sorto a pochi passi dalla Rotonda, la villa disegnata da Andrea Palladio. Giunge a uno sbocco l'inchiesta aperta dalla magistratura sulla base di numerosi esposti presentati da comitati di cittadini e dal Movimento 5 Stelle, che hanno denunciato non solo lo sfregio a una pregiata area paesaggistica, anche la violazione delle norme sulla sicurezza idrogeologica (il complesso è insediato alla confluenza dei fiumi Retrone e Bacchiglione, che in passato sono esondati).

I sigilli sono stati posti all'area in cui la società Cotorossi avrebbe dovuto costruire undici edifici. Il resto del complesso è già realizzato e comprende, per paradosso, lo stesso Tribunale dal quale sono partiti i provvedimenti richiesti dal procuratore capo Antonino Cappelleri e autorizzati dal Gip. Il sequestro segue di qualche mese un'altra iniziativa della Procura: l'iscrizione nel registro degli indagati di Antonio Bortoli, al tempo dirigente dell'urbanistica e poi direttore generale del Comune di Vicenza. L'accusa è abuso d'ufficio.
L'inchiesta dunque coinvolge anche l'amministrazione comunale che ha autorizzato l'intervento nonostante arrecasse, questa l'accusa, un danno economico al Comune avvantaggiando i privati e senza considerare il possibile rischio idrogeologico. "Ne discende un vizio che rende illegittimo il piano", scrivono i magistrati, "e giustifica la decisione di impedire che nuove costruzioni vengano realizzate in quella zona". Gli esposti riguardavano l'intera area, anche quella dove già svettano edifici altissimi e un centro commerciale. Ma l'intervento della procura interessa solo la zona in costruzione. Quanto già realizzato, sostengono gli inquirenti, coincide con il perimetro dello stabilimento Cotorossi, lo storico cotonificio demolito il quale è stata avviata l'operazione immobiliare.
La vicenda di Borgo Berga si trascina da anni. L'impatto delle costruzioni è imponente in una zona delicatissima. L'intervento fu deciso dall'amministrazione di centrodestra nei primi anni Duemila, ma fu proseguito con il centrosinistra di Achille Variati, attualmente sindaco di Vicenza. I comitati cittadini riuniti sotto la sigla di Out (Osservatorio urbano territoriale), le associazioni ambientaliste e il Movimento 5 Stelle si sono rivolti alla magistratura, alla Corte dei Conti (che ha messo in mora l'intero consiglio comunale che nel 2009 votò per Borgo Berga) e all'Autoritàanticorruzione di Raffaele Cantone. La Procura ha aperto il procedimento alcuni giorni dopo l'uscita di un'inchiesta su Repubblica.it.

Segnalazioni:
Si veda su eddyburg di Francesca Leder Borgo Berga a Vicenza: il grande inganno della riqualificazione urbana e Veneto 2014: il sacco del territorio e il silenzio della cultura; di Francesco Erbani Basta costruire gli architetti ora rigenerano e “Un tunnel sotto le ville del Palladio” Rivolta a Vicenza

Il Mulino, 3 novembre 2015

«Ansa - Roma, 28 ottobre: “Venti grandi imprese italiane adottino ognuna uno dei venti musei che abbiamo reso autonomi”. È l’appello del ministro di Beni culturali e Turismo, Dario Franceschini, che spiega: “Vorrei che venti grandi imprese italiane scegliessero uno dei venti musei autonomi, da aiutare e su cui lavorare, diventandone main partner. Siamo pronti anche a coinvolgerli nella governance del museo”».
Con questo appello all’impresa privata, il registro retorico del ministro per i Beni culturali del Governo Renzi conosce una brusca virata autunnale. Cadono le ormai ingiallite foglie delle corone trionfali esibite nel cuore dell’estate, quando Franceschini presentò i venti superdirettori dei venti supermusei nazionali annunciando all’Italia e al mondo «un passo storico per l’Italia e i suoi musei che colma anni di ritardi, che completa il percorso di riforma del ministero e che pone le basi per una modernizzazione del nostro sistema museale», assicurando e promettendo nientemeno che «l’Italia volta pagina. Grazie a questo significativo cambiamento dell’organizzazione del sistema museale e al forte investimento sulla valorizzazione che ne consegue, il patrimonio culturale torna ad essere al centro delle scelte di governo».

Ai primi freddi, invece, Franceschini dismette le vesti trionfali, reindossa il sacco del supplice (d’ordinanza per qualunque titolare dei Beni culturali), e si prostra: non ai piedi del suo presidente del Consiglio dei ministri, per chiedergli magari di riallineare la spesa pubblica per la cultura (e segnatamente per i musei) almeno alla media europea (siamo sotto la sua metà), ma invece ai piedi dell’impresa privata, implorandola di «adottare» i nostri più importanti musei, dagli Uffizi a Brera, dall’Accademia di Venezia a Capodimonte.

È utile riflettere sulla scelta delle parole. Franceschini parla di «adozione»: egli, cioè, invita le imprese – il mercato – a «riconoscere come proprio il figlio d’altri, mediante un atto giuridico» col quale «si creano rapporti di famiglia» fra cose «che non sono legate da un corrispondente vincolo naturale». È, questa, la piana definizione del Grande Dizionario della Lingua Italiana di Salvatore Battaglia. Ed è perfettamente, direi capillarmente, adeguata anche a dar conto dell’uso metaforico che di “adottare” e di “adozione” ha fatto Dario Franceschini. Il ministro prende formalmente atto del fatto che lo Stato – per mano del suo governo – ha definitivamente collocato sulla ruota degli esposti, o degli innocenti, i massimi musei italiani. Si potrebbe qui sottilizzare, discutere: forse non è un’adozione per abbandono, ma per morte dei genitori, giacché lo Stato nell’epoca della modernizzazione à la Blair (o, per dirla altrimenti, à la Reagan) – come ha scritto Luciano Gallino – «provvede da sé a eliminare il proprio intervento o quantomeno a ridurlo al minimo, in ogni settore della società: finanza, economia, previdenza sociale, scuola, istruzione superiore, uso del territorio». La fattispecie è dunque quella di un genitore che si suicida: segue, inevitabile, l’adozione.

Ma, come in un racconto dickensiano (ed è proprio a quella giungla sociale della Londra ottocentesca, che velocemente stiamo tornando), l’orfano non trova una famiglia amorosa e disinteressata. No, finisce tra le mani avide di chi vuol farlo lavorare: e sia pure a vendere fiammiferi per la strada. Lo sa bene il responsabile pro tempore dell’orfanotrofio del patrimonio culturale italiano, che si affretta a far balenare la prospettiva di un guadagno: i nuovi, orgogliosi genitori avranno l’esclusiva (si potrà diventare main partner degli Uffizi), e soprattutto una sedia nei consigli d’amministrazione – secondo l’aurea regola del «pago-comando». E dunque il messaggio renzian-dickensiano suona così: adottate i poveri musei italiani, sono pieni di braccia per il vostro brand. La Venere di Botticelli laverà i pavimenti, la Tempesta di Giorgione ospiterà picnic, la Dafne di Bernini diventerà più disponibile.

Tecnicamente, si tratta di un altro decisivo passo verso la trasformazione dei musei nazionali in fondazioni di partecipazione, sul modello – a torto celebratissimo, come ho provato a spiegare nel mio ultimo libro – del Museo Egizio di Torino. Dando a Comuni e Regioni la possibilità di nominare una parte del consiglio scientifico dei musei, si è avviato una sorta di federalismo demaniale del patrimonio: una devoluzione dal sapore leghista, palesemente incostituzionale (il patrimonio è «della nazione», art. 9 Cost.) e gravida di conseguenze nefaste. Ora segue a ruota la promessa di mettere le grandi imprese nella governance, cioè nei consigli di amministrazione.

Qualche giorno fa il notista politico più lucido e progressista del Paese – Maurizio Crozza – ha constatato, partendo da un articolo di chi scrive dedicato al noleggio del patrimonio pubblico, che «la cultura è diventata una mignotta che si offre a tutti, basta pagare».

Ma no, caro Crozza, ha capito male: adozione, non prostituzione. Andiamo avanti tranquillamente.

[I temi di questo intervento sono ripresi e ampliati nell’articolo di Tomaso Montanari in uscita sul numero 6/2016 della rivista: La notte dei musei e l’eclissi dell’articolo 9, pp. 1084-1092]

«Questione romana. Defenestrazione dall’alto di un sindaco inviso al potere. Marino, ostacolo democraticamente rappresentativo, viene sostituito con la figura del commissario. E il Vaticano scarica sulla città la sua forza. Senza misericordia». Il manifesto, 3 novembre 2015

Adesso basta. Roma ha più del dop­pio degli abi­tanti di Milano (2.869.169 con­tro 1.342.385). Quanto ad esten­sione, il con­fronto non è nean­che pen­sa­bile (1.287,36 kmq con­tro 181,67; se si parla delle due città metro­po­li­tane, il diva­rio si allarga a dismi­sura: 5.363,28 kmq, con­tro 1.575). Se caliamo la mappa di Milano su quella di Roma, Milano parte dal Quar­tic­ciolo e arriva a Porta San Gio­vanni: non entra nean­che nella por­zione sto­rica e monu­men­tale della Capi­tale. Non si capi­sce quale senso abbia la vana chiac­chiera di tra­sfe­rire il modello dell’una (se c’è) sull’altra.

Natu­ral­mente, si può gover­nare bene una città di medie dimen­sioni (come Milano) e male una metro­poli (come Roma), come anche vice­versa. Le dimen­sioni e i rap­porti, però, sono incom­men­su­ra­bili. Roma è al quarto posto fra le grandi città euro­pee, dopo Lon­dra, Ber­lino e Madrid, non a caso tutte capi­tali dei rispet­tivi Stati. Milano si col­loca nel campo delle città di medie dimen­sioni (al tre­di­ce­simo posto al livello euro­peo, credo). Se si deve ipo­tiz­zare un rap­porto a livello mon­diale, l’unica città ita­liana degna d’esser presa in con­si­de­ra­zione è Roma (per que­sti, e soprat­tutto per altri motivi, sui quali tor­nerò più avanti).

Milano “capi­tale morale”? Qual­che anno fa apparve un bel libro, Il mito della capi­tale morale, forse recen­te­mente ristam­pato, di Gio­vanna Rosa (non ci sono paren­tele, nean­che a metà, fra me e l’autrice): libro che nes­suno cita, e nes­suno mostra di aver letto. Il “mito”, appunto: non “la capi­tale morale”. Un lungo per­corso dal Risor­gi­mento a oggi, fatto di fatti, illu­sioni e disil­lu­sioni, cadute e riprese, riprese e cadute.

Del resto, se pren­des­simo alla let­tera per Milano la defi­ni­zione di “capi­tale morale”, dovremmo chie­derci sul piano sto­rico come sia stato pos­si­bile che da sif­fatta realtà politico-urbanistico-civile siano pre­ci­pi­tate sull’Italia le due scia­gure politico-istituzionali ed etico-politiche più ter­ri­fi­canti dell’ultimo secolo e mezzo, Benito Mus­so­lini e Sil­vio Ber­lu­sconi. Che Torino, culla della nostra unità nazio­nale, per que­sto e per altri motivi, sia più degna di tale definizione?

Su Roma, la Capi­tale, l’unica città ita­liana in grado di entrare in una com­pe­ti­zione e clas­si­fi­ca­zione inter­na­zio­nale, sono pre­ci­pi­tate nel tempo tutte le con­trad­di­zioni e tutto il degrado di cui è stato capace (o inca­pace) que­sto disgra­ziato paese, — l’Italia.

Roma è, ahimè, il luogo del potere e dei Palazzi: la Pre­si­denza della Repub­blica, la Pre­si­denza del Con­si­glio e il Governo, il Senato, la Camera dei Depu­tati, i Mini­steri, gli orga­ni­smi diri­genti della Magi­stra­tura, della scuola, dell’Università, dei corpi sepa­rati dello Stato, ecc. ecc. Tutti, ovvia­mente, gestiti al novanta per cento da non romani: tutti orien­tati a difen­dere inte­ressi che con Roma non ave­vano niente a che fare.

Roma, per quanto mi con­cerne, è se mai vit­tima, non carnefice.

Quando ha preso demo­cra­ti­ca­mente la parola, lo ha fatto poco e male. Con Ale­manno ha dato il peg­gio di sé, sul piano etico, civile e ammi­ni­stra­tivo. Anche que­sto oggi è ampia­mente e visto­sa­mente dimen­ti­cato e accan­to­nato, per non inter­fe­rire nean­che men­tal­mente con le pro­ce­dure di ese­cu­zione som­ma­ria dell’ultimo Sindaco.

A Roma, poi (anche que­sto avete dimen­ti­cato?), c’è il Vati­cano. Il Vati­cano è al tempo stesso una grande potenza reli­giosa e una grande potenza tem­po­rale, ter­rena. E, — lo dico con asso­luta per­sua­sione, — non può essere che così. Non può essere che così, nes­suno, né dal basso né dall’alto, potrebbe impe­dirlo (Gesù, unico, per volerlo fare, è finito nell’orto di Getse­mani e poi sulla croce).

La pro­cla­ma­zione del pre­sente Giu­bi­leo ne è la più vicina e lam­pante testimonianza.

Esprimo il mio stu­pore: non c’è com­men­ta­tore di qual­che por­tata che si sia sof­fer­mato come meri­tava su que­sto pas­sag­gio. Un bel giorno Papa Fran­ce­sco pro­clama un Giu­bi­leo straor­di­na­rio della Mise­ri­cor­dia. E’ l’ultima maz­zata: trenta milioni di pel­le­grini e migliaia di ceri­mo­nie nella Capi­tale, molto immo­rale forse, ma di certo molto, molto stra­paz­zata. Sic­come è impro­ba­bile che il Giu­bi­leo si svolga den­tro le mura dello Stato Vati­cano, che del resto non acco­glie quasi nulla di quanto lo riguarda, la città intiera ne sarà travolta.

Ci sono state con­sul­ta­zioni pre­ven­tive in pro­po­sito? Qual­cuno, al di qua del Tevere, ha rispo­sto che andava tutto bene? Impro­ba­bile. Dun­que, il Vati­cano dispone di Roma come fosse cosa sua (è già acca­duto altre volte nella sto­ria, anche dopo il 1870). I poteri democratico-rappresentativi a quel punto sono spinti ine­vi­ta­bil­mente in un angolo. Cosa potrebbe dire o fare di fronte a un mes­sag­gio universalistico-religioso di tale por­tata? Ma il mes­sag­gio universalistico-religioso si tra­sforma rapi­da­mente in una serie di Ukase politico-temporali sem­pre più assil­lanti e per­sino da un certo momento in poi anche vio­lenti: avete chiuso le buche? Avete rat­top­pato le metro­po­li­tane? A che punto siete con l’accoglienza? Siete in grado di garan­tire il ristoro? E la sicu­rezza, la sicu­rezza, come va?

Il grande evento di Mise­ri­cor­dia vale dun­que per tutto il mondo (così almeno si dice): ma non vale per Roma, né per i suoi cit­ta­dini, né per i suoi ammi­ni­stra­tori, che infatti, in tutte le occa­sioni pos­si­bili, sono trat­tati a pesci in fac­cia, coo­pe­rando ine­vi­ta­bil­mente (e diciamo con­sa­pe­vol­mente) alla distru­zione della loro cre­di­bi­lità e del loro prestigio.

A Roma non ci sono gli “anti­corpi”? Sì, que­sto è un po’ vero. Infatti, a Roma, nelle scorse set­ti­mane, e con acce­le­ra­zione cre­scente negli ultimi giorni, si è con­su­mata la più impo­nente e capil­lare distru­zione di anti­corpi che si sia mai vista in Ita­lia dalla Libe­ra­zione a oggi.

Anche qui esprimo il mio stu­pore: osser­va­tori, avete colto dav­vero quel che è acca­duto a Roma nelle scorse set­ti­mane e con acce­le­ra­zione cre­scente negli ultimi giorni? Il giu­di­zio sul com­por­ta­mento e le atti­tu­dini diri­gen­ziali del sin­daco Marino, — un “mar­ziano”, un inetto, un inca­pace, un sup­po­nente, da un certo momento in poi anche uno poco cor­retto, — non ha niente a che fare con lo svol­gi­mento e la con­clu­sione della faccenda.

Se si doves­sero rimuo­vere dai loro inca­ri­chi Sin­daci, Pre­si­denti delle Regioni, Mini­stri, Diret­tori Gene­rali, Ret­tori, ecc. ecc., — per­ché “mar­ziani”, inetti, inca­paci, sup­po­nenti, poco cor­retti, ecc. ecc, — assi­ste­remmo in poco tempo al crollo ver­ti­cale dell’intera mac­china politico-istituzionale ita­liana (sarebbe comun­que affare della magi­stra­tura, come tal­volta già accade, non dei politici).

Quel che invece è acca­duto a Roma è la defe­ne­stra­zione dall’alto, — per vie poli­ti­che, non legali, intendo, — di un uomo poli­tico che non era in grado (e pro­ba­bil­mente non voleva) garan­tire le attese dei prin­ci­pali poteri inte­res­sati alla vicenda: la nuova forma della poli­tica oggi domi­nante in Ita­lia, il Vati­cano, i poteri eco­no­mici all’arrembaggio della nuova torta.

Il risul­tato di tutta la vicenda è che esi­ste oggi in Ita­lia un Potere Supremo il quale è in grado di sba­raz­zarsi di qual­siasi osta­colo demo­cra­ti­ca­mente rap­pre­sen­ta­tivo, sosti­tuen­dolo con la figura fin qui ano­mala ed ecce­zio­nale del Com­mis­sa­rio, il quale ovvia­mente è, e non potrebbe non essere, un dele­gato al ser­vi­zio di quel mede­simo Potere Supe­riore. Il quale, essendo anch’esso non deter­mi­nato dal voto popo­lare ma, diciamo, da una sorta di auto­com­mis­sa­ria­mento del mede­simo (com’è noto, il nostro Pre­si­dente del Con­si­glio non ha goduto di tale inve­sti­tura), tende a ripro­dursi per gemi­na­zione secondo le mede­sime modalità.

Roma, se è e resta la Capi­tale d’Italia, la quarta città euro­pea, una delle più impor­tanti del mondo, dal punto di vista del patri­mo­nio arti­stico e cul­tu­rale è senza ombra di dub­bio la prima.

Que­sto suscita da un bel po’ di tempo una cor­rente d’invidia e di gelo­sia, nazio­nale e inter­na­zio­nale, da far spa­vento. Essa si col­lega, e stret­ta­mente si con­giunge, al pro­getto dell’attuale potere poli­tico ita­liano di farne da tutti i punti di sta una cosa propria.

A Roma, più che in qual­siasi altra città ita­liana, abbiamo a che fare con una massa di potere inim­ma­gi­na­bile altrove: Vati­cano, poteri eco­no­mici forti, potere poli­tico di tipo nuovo, incline al com­mis­sa­ria­mento della Nazione ovun­que sia pos­si­bile e a suo avviso neces­sa­rio, pro­ce­dono affian­cati, e nella mede­sima dire­zione (non c’è biso­gno di pen­sare a incon­tri segreti a Via dei Peni­ten­zieri o a Largo Chigi o magari a Palazzo Vec­chio a Firenze: basta pen­sarla nello stesso modo).

Ce la faranno Roma, e i romani, a rove­sciare que­sta mostruosa ten­denza? I romani, senza i quali anche il mito di Roma rischia di diven­tare un’astrazione, sono delusi, con­fusi, smar­riti. Come volete che siano? Ave­vano votato trion­fal­mente per Marino esat­ta­mente per dare una svol­tata alla sto­ria. Ora forze potenti della poli­tica e dell’informazione si affan­nano quo­ti­dia­na­mente a spie­gar loro che Marino era sem­pli­ce­mente un “mar­ziano”, un inetto, un inca­pace, un sup­po­nente, uno poco cor­retto, ecc. ecc., e a spie­gar­glielo sono esat­ta­mente innan­zi­tutto quelli del suo pro­prio par­tito, quelli che ave­vano chie­sto loro di votarlo (nean­che uno dei con­si­glieri comu­nali “dem” che abbia resi­stito alla sferza del capo, che vergogna!).

Però, al tempo stesso, monta l’indignazione, anzi, una rab­bia cupa e vio­lenta, con­tro tutti quelli che hanno real­mente com­bi­nato tutto que­sto, il Potere Supe­riore e i suoi mol­te­plici alleati.

La Capi­tale immo­rale giace così sotto il peso degli errori com­messi, quelli suoi, certo, ma soprat­tutto, soprat­tutto quelli degli altri.

Come ultimo schiaffo viene inviato a gover­narla un Pre­fetto dal nome beneau­gu­rante di Tronca. All’Expo, — per sue dichia­ra­zioni, — si è occu­pato dell’ordine pub­blico; in pre­ce­denza, dei Vigili del fuoco. Com­pe­tenze, que­ste, indu­bi­ta­bil­mente ade­guate a gover­nare la metro­poli Roma, le sue con­trad­di­zioni e lace­ra­zioni, e a susci­tare in lei i nuovi anti­corpi. Nel frat­tempo il Potere Supe­riore garan­ti­sce che il Giu­bi­leo sarà un suc­cesso come l’Expo.

Tutto è money, d’accordo, ma forse qui siamo andati un po’ troppo oltre. Il Vati­cano sod­di­sfatto annuisce.

Per sot­trarsi a que­sta nefa­sta spi­rale, ed evi­tare altre can­to­nate, ci vorrà un lavoro lungo e in pro­fon­dità, razio­nale, sì, ma anche rab­bioso. Il tempo delle media­zioni è finito, ne comin­cia un altro, meno dispo­ni­bile alle prese in giro. Se ci sono voci dispo­ste a par­lare in que­sto senso, si fac­ciano sen­tire presto.

Le amare riflessioni personali del portavoce di una singolare struttura di collaborazione tra le reti e i gruppi impegnati nella difesa del territorio romano (cartinregola). Il racconto appassionato di un'esperienza di governo terminata troppo presto, e di qualche retroscena interessante.

Come portavoce di Carteinregola – ma quello che sto scrivendo è a titolo personale - ho passato gli ultimi quattro mesi della consiliatura Alemanno in Campidoglio, a fare un presidio contro delibere urbanistiche che, come ho dolorosamente constatato insieme ai miei compagni di avventura, godevano dell’appoggio anche della stragrande maggioranza dell’opposizione del Partito Democratico. Siamo riusciti a fermare tanti progetti – anche una delibera poi finita sotto la lente della magistratura - praticamente da soli. E Giovanni Caudo è stato uno dei pochi che spesso mi ha aiutato a capire quali conseguenze quelle delibere potevano avere sulla città.

Per questo, quando è stato nominato assessore alla Trasformazione Urbana, ho pensato che fosse la volta buona per “cambiare davvero”. Uno slogan da campagna elettorale, che, con la sua nomina, per me diventava una prospettiva concreta per la vita e il futuro dei cittadini di Roma.

Infatti il primo segnale che ha lanciato è stato il coronamento di una delle nostre più grandi battaglie: la cancellazione della cosiddetta “delibera degli ambiti di riserva”, che avrebbe riversato nell’Agro romano una volumetria complessiva di 20 milioni di metri cubi di case, dove sarebbero andati a vivere altri disperati delle “tre ore di vita al giorno per andare e tornare dal posto di lavoro”. Una delibera dell’amministrazione Alemanno che però si inseriva nella pratica delle “eruzioni cementizie lontano da tutto, con enormi costi per il Comune, ampiamente incentivata anche dalle amministrazioni Rutelli e Veltroni.

E nella frequente continuità tra la politica urbanistica del centrosinistra del “Modello Roma” e del centrodestra di Alemanno, si possono trovare forse le ragioni di un consociativismo che abbiamo percepito chiaramente durante il nostro presidio, e anche di una frequente ostilità tra pezzi del Partito Democratico capitolino e l’Assessore Giovanni Caudo. A rileggere oggi i giornali, fin dai primi mesi dopo il suo insediamento – sto preparando una cronologia ragionata dell’”era Marino” – ritroviamo varie dichiarazioni di esponenti PD che attaccano l’assessore, accusandolo di inerzia per le - a loro dire - poche delibere portate in Aula e insinuando maliziosamente che il suo mestiere di “professore” lo renda poco adatto ad affrontare le necessità pratiche della città. E più volte è stata data per imminente la sua sostituzione.

In realtà il grande difetto del “professore” è stato l’aver preso di petto da subito la situazione, passando al setaccio gli atti ereditati, fermando tanti progetti di dubbio interesse pubblico – come il progetto Water Front di Ostia e pacchi di delibere urbanistiche dell’ex Sindaco Alemanno - e soprattutto avviando – per primo e in beata solitudine – molti provvedimenti che diventeranno d’attualità dopo lo scoppio di Mafia Capitale, a partire dalla riorganizzazione degli uffici e dalla rotazione dei dirigenti, che gli procura una notevole serie di nemici, nell’amministrazione e soprattutto nei partiti.

E l’aria nuova all’urbanistica scatena anche reazioni negative da parte del mondo dell’edilizia, il “motore economico della Capitale”, che lo accusa di dare il colpo di grazia a un settore già falcidiato dalla crisi per i rallentamenti dovuti alla riorganizzazione della macchina amministrativa. Si agita la minaccia ricorrente di una manifestazione contro l’assessore, con tanto di betoniere sotto le sue finestre, che alla fine non si farà mai. E i nuovi schemi di convenzione, quelli a cui il suo staff lavora per mesi, per porre fine a tanti disastri sparpagliati nella città - interi quartieri fatti e finiti senza strade, servizi, persino fognature - dovranno superare una lunga corsa a ostacoli, soprattutto da “fuoco amico”, prima di arrivare all’approvazione.

Ma anche con i comitati cittadini spesso si creano conflitti. Ho seguito molti incontri e assemblee che Caudo ha tenuto nei territori, in parte per conservare il più possibile le tracce del suo lavoro (che ho sempre pensato che potesse essere interrotto da un momento all’altro) ma soprattutto per capire come si poteva favorire il dialogo tra delle istituzioni che cercavano di risolvere i problemi e una cittadinanza diffidente, segnata da anni di promesse non mantenute. E se è possibile che l’assessore non abbia sempre risposto adeguatamente a delle giuste vertenze, o che ci siano stati errori e inefficienze, molto spesso ho avuto l’impressione che la distanza tra un’amministrazione alle prese con una complessità creata da situazioni stratificate da anni, e le enormi aspettative dei cittadini, fosse comunque incolmabile.

Molti comitati speravano che Caudo potesse finalmente “rimettere a posto” tanti torti e deviazioni del passato, compresi quelli che avevano ormai superato il “punto di non ritorno”, e sono rimasti delusi. Altri hanno visto con sospetto qualunque operazione che cercasse di coniugare – sia purevirtuosamente - vantaggi pubblici con finanziamenti privati, auspicando, forse giustamente, che il Comune offrisse ai cittadini spazi e servizi attingendo solo a risorse pubbliche. Altri ancora hanno giudicato il lavoro dell’assessore dall’angusto punto di vista delle loro richieste specifiche. Ma ci sono stati anche molti comitati di quartiere che hanno impostato un dialogo costruttivo che ha dato frutti.

Quello che sicuramente è mancato, da parte della città, è una percezione generale di quanto si stava facendo, e delle centinaia di criticità - in certi casi vere emergenze - che si stavano affrontando. E questo anche per la scarsa informazione dei media, che hanno sempre dedicato pagine e pagine alle buche stradali e al gossip politico e ben poche ai problemi reali dei territori.

Ci sono state anche operazioni che io stessa ho trovato discutibili, come l’aver concesso il “pubblico interesse” al progetto dello Stadio della Roma, avallando la costruzione di tre torri per compensare i costi delle opere pubbliche necessarie. Utilizzando, così, a mio avviso, la stessa pratica della “moneta urbanistica” che proprio Caudo aveva rimproverato a chi l’aveva preceduto, che in questo caso secondo lui è giustificata dalla necessità di cogliere le opportunità offerte ai privati dalla legge nazionale per portare a casa un risultato utile a tutta la città. Il limite di questo ragionamento – che ahimè è stato ancora una volta riesumato per la candidatura di Roma alle Olimpiadi 2024 – potremmo vederlo tra qualche mese, quando nella stanza dei bottoni arriveranno i nuovi responsabili designati dalla prossima maggioranza, che non è detto che interpretino il pubblico interesse e la regia pubblica nello stesso modo dell’assessore Caudo.

E dispiace che l’“operazione Stadio della Roma”, anche per l’incombere simbolico di quelle torri, abbia fatto passare in secondo piano i molti risultati raggiunti, i progetti dannosi cancellati, o quelli nuovi messi in cantiere. Come il progetto, abortito per mancanza di tempo e di fondi – grazie ai ritardi del Governo - del “Giubileo di strada e di piazza” che aveva previsto piazzali, parchi e spazi pubblici, come “lascito duraturo” dell’evento religioso straordinario nelle periferie.

Ma non sono stati raccontati alla città neppure i percorsi tracciati per avviare una riflessione collettiva sul futuro di Roma e dei suoi abitanti. Uno di questi - le conferenze urbanistiche – si è concretizzato in 75 incontri presso i Municipi, a cui hanno partecipato più di 2000 persone, che hanno predisposto 15 carte dei valori municipali. Un tentativo di sollevare lo sguardo oltre i problemi contingenti dei territori e disegnare insieme scenari futuri, che avrebbe dovuto poi sfociare in una conferenza urbanistica della città.

Non so quante delle voci critiche, vedendo come è andata a finire, oggi abbiano qualche ripensamento.

Ma, a giudicare dalla folla che è venuta a salutare Caudo giovedì scorso, partecipando a un’iniziativa un po’ improvvisata negli ex stabilimenti militari del Flaminio, mi sembra che l’assessore, un bel pezzo di città, alla fine l’abbia conquistato. In sala c’erano tanti comitati che venivano da molti quartieri anche lontani, associazioni, i suoi collaboratori insieme a funzionari e dipendenti del dipartimento, rappresentanti dell’Acer (sì, i costruttori, quelli medi e piccoli, che gli volevano portare le betoniere sotto l’assessorato), alcuni assessori con cui ha condiviso fino all’ultimo l’impegno per la città – Estella Marino e Francesca Danese – molti presidenti, assessori e consiglieri dei Municipi, e tantissimi cittadini, architetti, urbanisti, studenti. E il clima era autenticamente commosso, perché chi era lì, lo era solo per testimoniare la sua solidarietà e la sua stima a un uomo che di lì a poco non sarebbe più stato assessore. Un riconoscimento che io penso si meriti fino in fondo.

E al Sindaco Marino, vittima delle trame di tanti potentissimi nemici - senz’altro molti nemici anche di Caudo - ma anche di se stesso, non perdono di non aver abbracciato fino in fondo, e fin dall’inizio, il coraggio del suo assessore.

A tutti gli altri non perdono di aver permesso che la città perdesse Giovanni Caudo. E il pensiero che non sia più nel suo ufficio, a lavorare con il suo staff per cercare con fatica, pazienza e caparbietà, di risolvere qualche insolubile problema, mi fa salire un magone insopportabile.

Anna Maria Bianchi Missaglia è la portavoce del Laboratorio Carteinregola, ma queste riflessioni sono scritte a titolo personale

«Mostro Marino. Dopo Prodi e Letta, il premier miete un'altra vittima senza apparire. Per «il nuovo Pd» rovesciare governi fuori dalle aule e senza dibattito pubblico è ormai una prassi. Un partito post-democratico, e anzi, tout court, antidemocratico». Il manifesto, 1° novembre 2015, con postilla

Venerdì, a Roma, il pro­getto ren­ziano di mano­mis­sione della nostra demo­cra­zia ha com­piuto un nuovo salto di qua­lità. O, forse meglio, ha rive­lato – nell’ordalia rap­pre­sen­tata sul grande pal­co­sce­nico di Roma capi­tale – la pro­pria natura com­piu­ta­mente post-democratica e anzi tout court anti-democratica.

Di Igna­zio Marino sin­daco si può pen­sare tutto il male pos­si­bile: molte sue poli­ti­che sono state discu­ti­bili e anti-sociali (in pri­mis la que­stione della casa), alcuni suoi com­por­ta­menti incom­pren­si­bili, la sua inge­nuità (o super­fi­cia­lità) imper­do­na­bile, la sua ina­de­gua­tezza evi­dente. E l’accettazione nella sua squa­dra di uno come Ste­fano Espo­sito insopportabile.

Ma la fero­cia con cui il Pd, su man­dato del suo Capo, ha posto fine alla legi­sla­tura in Cam­pi­do­glio supera e offu­sca tutti gli altri aspetti. Sosti­tuendo all’Aula il Notaio. Al dibat­tito pub­blico la mano­vra di cor­ri­doio e il reclu­ta­mento sub­dolo dei sicari (arte in cui Mat­teo Renzi eccelle, aven­dola già spe­ri­men­tata prima con Romano Prodi e poi con Enrico Letta).

E col­pendo così non tanto, e comun­que non solo, «quel» Sin­daco (che pure a molti voleri del Pd era stato fin troppo fedele), ma il prin­ci­pio car­dine della Demo­cra­zia in quanto tale. O di quel poco che ne resta, e che richie­de­rebbe comun­que che la nascita e la caduta degli ese­cu­tivi – nazio­nali e locali – avve­nisse nell’ambito degli isti­tuti rap­pre­sen­ta­tivi costi­tu­zio­nal­mente sta­bi­liti in cui si eser­cita la sovra­nità popo­lare. Con un voto palese, di cui ognuno si assume in modo tra­spa­rente e moti­vato, la responsabilità.

Così non è stato.

In siste­ma­tica e osten­tata con­ti­nuità con la pra­tica seguita dal governo Renzi in que­sti mesi di legi­sla­zione coatta (a colpi di fidu­cia e di mani­po­la­zione delle Com­mis­sioni) e con la sua riforma costi­tu­zio­nale di stampo burocratico-populistico, la sede della Rap­pre­sen­tanza è stata mar­gi­na­liz­zata e umi­liata. Svuo­tata di ruolo e poteri. Sosti­tuita dalla retta che dal ver­tice dell’Esecutivo — fatto coin­ci­dere con la lea­der­ship del par­tito a voca­zione tota­liz­zante e a con­si­stenza dis­sol­vente – pre­ci­pita, senza intoppi, fino ai piani bassi della cucina quo­ti­diana, dele­gata alle buro­cra­zie guar­diane, reclu­tate al di fuori di ogni vali­da­zione elet­to­rale, in base a cri­teri di fedeltà (o, forse meglio, di asservimento).

Nella sta­gione impe­gna­tiva — per com­piti da svol­gere e affari da sfrut­tare – del Giu­bi­leo la Capi­tale sarà ammi­ni­strata e «gover­nata» da un dream team (o night­mare team?) non di rap­pre­sen­tanti del popolo ma di fidu­ciari del Capo, chia­mati con logica emer­gen­ziale a «gestire l’impresa» in nome non tanto del bene pub­blico ma dell’efficienza.

Della com­po­si­zione del team già se ne parla: oltre all’inossidabile Sabella, il pre­fetto ren­ziano Fran­ce­sco Paolo Tronca, fre­sco della Milano di Expo e Marco Ret­ti­ghieri, ex super­ma­na­ger di Ital­ferr, uomo Tav, quello che ha sosti­tuito come diret­tore gene­rale costru­zioni dell’Expo Angelo Paris dopo il suo arre­sto per cor­ru­zione e tur­ba­tiva d’asta…

Un bel pezzo della «Milano da man­giare» – del «para­digma Expo» – tra­pian­tata a Roma, a far da matrice del nuovo corso della Capi­tale, ma anche — s’intende – del Paese.

Ed è que­sto il secondo anello della cer­chia­tura della botte ren­ziana. O, se si pre­fe­ri­sce, il pas­sag­gio con cui si chiude il cer­chio del muta­mento di para­digma della poli­tica ita­liana: que­sto uti­lizzo del «modello Expo», costruito come esem­pio «di suc­cesso», gene­rato e poi cer­ti­fi­cato dal mer­cato, e (per que­sto) proposto/imposto come forma vin­cente di gover­nance da imi­tare e generalizzare.

L’operazione era stata favo­rita, non so quanto con­sa­pe­vol­mente, dall’infelice ester­na­zione di Raf­faele Can­tone, in cui si con­trap­po­neva Milano come «capi­tale morale» a una Roma «senza anti­corpi»: infe­lice per­ché sem­bra for­te­mente «irri­tuale», per usare un eufe­mi­smo, e comun­que molto inop­por­tuno, che colui che dovrebbe sor­ve­gliare e garan­tire il rispetto della lega­lità prima, durante e dopo un’opera ad alto rischio come l’Expo, bea­ti­fi­chi la città che l’ha orga­niz­zato e ospi­tato e, reci­pro­ca­mente, che ne venga bea­ti­fi­cato, pro­prio alla vigi­lia di un periodo in cui la magi­stra­tura dovrebbe essere lasciata asso­lu­ta­mente libera di pro­ce­dere a tutte le pro­prie veri­fi­che e in cui l’Agenzia che egli dirige dovrebbe ope­rare come mai da ter­tium super par­tes (che suc­ce­derà, per esem­pio, se le inchie­ste in corso su cor­ru­zione, pecu­lato, truffa, ecc. doves­sero con­clu­dersi con ver­detti di col­pe­vo­lezza: la dovremmo chia­mare «Mafia Capi­tale Morale»?).

Ma tant’è: il cli­ché coniato da Can­tone è entrato alla velo­cità della luce a far parte del dispo­si­tivo nar­ra­tivo ren­ziano sulle mera­vi­glie del rina­sci­mento ita­liano. E su come que­sto possa tanto più age­vol­mente e soprat­tutto velo­ce­mente dispie­garsi quanto più si eli­mi­nano gli osta­coli della vec­chia, acci­diosa e fasti­diosa demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva (quella, appunto, che pro­duce i Marino), e si adot­tano, in alter­na­tiva, le linee degli exe­cu­tive di turno, magari arruo­lando in squa­dra le stesse «auto­rità indi­pen­denti» che dovreb­bero eser­ci­tare i controlli.

Per­so­nal­mente mi ha tur­bato la quasi con­tem­po­ra­nea dichia­ra­zione di Can­tone sulla pro­pria inten­zione di abban­do­nare l’Associazione nazio­nale magi­strati, rea di aver mosso (caute) cri­ti­che al governo… E anche que­sto è uno scatto – se volete pic­colo, ma inquie­tante – nella chiu­sura della gab­bia che ci sta stringendo.

postilla

Revelli dice, giustamente, che «la Capi­tale sarà ammi­ni­strata e "gover­nata" non dai rap­pre­sen­tanti del popolo ma da fidu­ciari del Capo». Non è una logica nuova né per il Capo, né per la storia. Il Capo pratica questa logica in tutti i suoi atti che riguardano l'ordinamento dello Stato: dalla scuola agli ospedali, dai ministeri alle istituzioni una volta elettive. Sta realizzando una struttura piramidale, in cui gli occupanti dei posti di comando (dal capo ai capetti ai capettini ai sottocapettini) siano collegati tra loro dall'investitura (dall'alto verso il basso) e dalla fedeltà (dal basso verso l'alto). Si chiama, nei libri di storia, "regime feudale". Questo modello di regime non è di per sé molto solido. Spesso è stato consolidato da un elemento soprannaturale, oggi da due elementi: il ricatto (almeno in Italia) e l'Unione europea, a sua volta sottordinata ai Mercati. Ma l'elemento che garantisce di più la solidità dell'edificio è l'ideologia. Quella dominante ha annullato tutte le atre, e una ideologia differente, ampiamente condivisa, fatica molto a formarsi.

Il Fatto quotidiano, 29 ottobre 2015

Il capogruppo di Sinistra ecologia e libertà (Sel) a Montecitorio,Arturo Scotto, non ha dubbi: “C’è un cavallo di Troia nascosto nella Legge di stabilità”. Che nel marasma di articoli, commi e rinvii a leggi e regolamenti contenuti nelle prime bozze del provvedimento, sarebbe passato pure inosservato. Se i deputati di Sel non se ne fossero accorti, denunciandone la presenza e, soprattutto, l’obiettivo: accelerare nella costruzione del Ponte sullo Stretto attraverso il coinvolgimento diretto di Cassa depositi e prestiti (Cdp), società controllata dal ministero dell’Economia e partecipata al 18,4% dalle fondazioni bancarie, nella realizzazione dell’opera.

PONTE IN CASSA – La norma ‘incriminata’, secondo i vendoliani, si anniderebbe nel quinto comma dell’articolo 41(Investimenti europei e Istituto nazionale di promozione) della Legge di Stabilità. Che attribuisce alla Cdp la qualifica di “istituto nazionale di promozione” in attuazione del recente regolamento comunitario relativo al Fondo europeo per gli investimenti strategici (Feis). Equiparandola a quelle “entità giuridiche che espletano attività finanziarie su base professionale, cui è stato conferito un mandato da uno Stato membro o da un’entità di uno Stato membro, a livello centrale, regionale o locale, per svolgere attività di sviluppo o di promozione”.

In sostanza – è questa l’obiezione di Sel – la mission della Cassa depositi e prestiti verrebbe ampliata, attribuendole anche la funzione di “svolgere attività di sviluppo o di promozione in relazione al Feis”. Un fondo finalizzato a sostenere, tra l’altro, “progetti per lo sviluppo delle infrastrutture di trasporto” attraverso “la creazione o la dotazione di nuove infrastrutture o di infrastrutture mancanti”. Anche “aggiuntive” rispetto a quelle previste dalla Rete di trasporto trans-europea, dalle quali “il ponte sullo Stretto appare attualmente escluso”. Un’obiezione che i deputati di Sel sollevano in un’interrogazione parlamentare (primo firmatario Scotto) al presidente del Consiglio, Matteo Renzi, e ai ministri dell’Economia e delle Infrastrutture, Piercarlo Padoan e Graziano Delrio. Proprio per chiedere conto, innanzitutto, “dell’inserimento nell’ambito del disegno di legge di stabilità 2016” delle “proposte relative alla richiesta di accelerazione sul progetto del Ponte sullo Stretto”.

PENALI DELLA DISCORDIA – Ma leperplessità di Sel riguardano anche un altro aspetto. Quello delleeventuali penali che lo Stato dovrebbe pagare nel caso di abbandono del progetto. “Uno dei principali motivi addotti dal ministro dell’Interno (Angelino Alfano) per sostenere la realizzazione dell’opera– si legge nell’interrogazione – è che, piuttosto che pagare delle penali, sarebbe preferibile costruire il ponte”. Eppure, le principali associazioni che da sempre vigilano sulla discussa infrastruttura (Fai-Fondo ambientale italiano, Italia Nostra, Legambiente, Man-Associazione ambientale per la natura eWwf), sottolineano i deputati di Sel, ritengono “che non debba essere pagata nessuna penale”. E già un anno fa avevano inviato una lettera al premier Renzi e all’allora ministro delle Infrastrutture, Maurizio Lupi, per chiedere un incontro proprio per affrontare la questione. Una lettera con la quale informavano il governo che, dagli incontri avuti con il commissario liquidatore della società Stretto di Messina, Vincenzo Fortunato, con il capo di gabinetto del ministro delle Infrastrutture, Giacomo Aiello, e con l’allora responsabile della Struttura di missione del dicastero di Porta Pia, Ercole Incalza, era emersa “la comune convinzione” che l’abbandono del progetto non avrebbe comportato alcuna penale a carico dello Stato.

PROGETTO INCOMPLETO – Non solo. Dal momento della consegna da parte del general contractor (Eurolink, l’Associazione temporanea di imprese capeggiata da Impregilo che nel 2005 vinse l’appalto per la costruzione del ponte) a Stretto di Messina spa del “progetto definitivo completo di tutti i documenti e delle integrazioni eventualmente richieste”, il contratto stipulato nel 2006 stabilisce, in caso di inadempienza, l’obbligo di versare ad Eurolink “solamente le prestazioni correttamente eseguite al momento del recesso, nonché un aggravio del 10% rispetto alla somma totale delle prestazioni”.

Secondo i deputati di Sel “il progetto definitivo non può essere considerato ‘completo’ se mancano le integrazioni” relative all’ulteriore fase della procedura di Via (Valutazione di impatto ambientale). Una situazione che non cambia neppure per effetto dell’atto integrativo del 2009 al contratto del 2006, che introduce la nuova fattispecie di “progetto definitivo dell’opera intera”, riducendo, in caso di recesso, dal 10 al 5% l’indennizzo per le spese sostenute, in aggiunta al pagamento delle prestazioni già eseguite, in favore di Eurolink. Ma, progetto “completo” o progetto “intero” che sia, la sostanza resta la stessa: mancando sia l’uno che l’altro, si sostiene nell’interrogazione, a carico dello Stato “non c’è alcuna penale da pagare”. Altro aspetto imoprtante della vicenda è che, alla richiesta di un incontro avanzata dalle associazioni ambientaliste il governo non ha mai dato risposta.

STRANA COPPIA – A sorprendere i deputati di Sel è stata, però, anche un’altra circostanza. Sottolineata con un ulteriore quesito al governo: come è stato possibile passare tanto rapidamente dalle posizioni espresse dal ministro delle Infrastrutture, Graziano Delrio, disponibile a rivalutare l’opportunità del progetto del Ponte sullo Stretto, “al celere affidamento del compito di valutare il progetto alla Cassa depositi e prestiti”? E il sospetto di Scotto è quasi una certezza: “Il Nuovo centrodestra di Angelino Alfano ha ottenuto il via libera ad una mozione votata in Parlamento che impegna il governo a prendere in considerazione la realizzazione dell’opera, sebbene per via ferroviaria – spiega a ilfattoquotidiano.it –.

E, allo stesso tempo, tra i pizzini inviati da Denis Verdini al premier Matteo Renzi sulla Legge di Stabilità, è spuntata in cima alla lista larichiesta di rispolverare il Ponte sullo Stretto”. Insomma, una convergenza di centro-destra, quella tra Ncd e Ala, all’interno di una maggioranza teoricamente di centrosinistra, a tirare i fili della discussa infrastruttura.“Il tutto, mentre con una norma sulla Cassa depositi e prestiti, che ne cambia la mission riducendo l’autonomia di decisione del ministero delle Infrastrutture – conclude il capogruppo alla Camera di Sel – si infila nella Legge di Stabilità un cavallo di Troia che potrebbe aprire la strada ai desiderata della strana coppia Alfano-Verdini”.

Dal punto di vista del progetto di architettura con premesse urbanistiche, si ripete il dilemma iniziale: un modello suburbano monouso, o la complessità plurifunzionale metropolitana post-industriale? Intervista di Andrea Montanari, la Repubblica 30 ottobre 2015, con postilla (f.b.)

«PER vivere, l’area deve diventare un pezzo di città. Milano sfrutti la grande sfida della Città metropolitana». L’archistar Vittorio Gregotti, autore, tra l’altro, del progetto Bicocca che ridisegnò nel 2000 il quartiere dell’ex stabilimento della Pirelli nella periferie Nord Ovest di Milano, con la costruzione del teatro degli Arcimboldi che ospitò la Scala durante il rifacimento del palcoscenico, suggerisce un’idea per il dopo Expo. «L’Expo è stato un successo, ma per il dopo non basta il campus universitario, serve un progetto di vent’anni».

C’è il rischio che l’area diventi una cattedrale nel deserto?
«Milano ha di fronte una grande sfida. Quella di essere diventata ufficialmente una città metropolitana. Con una scala dimensionale e di abitanti molto più ampia. Credo che per il dopo Expo la soluzione giusta sia quella di sfruttare questa prospettiva e pensare di trasformare quel pezzo della città».

Una città satellite?
«No, ma in quell’area non c’è solo il comune di Rho, ci sono alcuni villaggi anche abbastanza importanti che nella prospettiva della città metropolitana potrebbero diventare dei centri secondari di Milano».

Come?
«Per fare questo bisogna evitare che quell’area si trasformi in una periferia abbandonata e non farsi illusioni che questo avvenga in sei mesi. Inoltre non bisogna commettere l’errore di pensare che basti fare di quell’area un campus universitario o un centro di ricerca».

Perché?
«Il progetto della Bicocca è la dimostrazione di come un quartiere di periferia può tornare a vivere. Un campus universitario e un centro di ricerca vanno benissimo, ma coprirebbero solo una piccola parte dell’area. Con il rischio che dalle sette di sera tutto si trasformi in un deserto. Alla Bicocca abbiamo costruito un teatro che funziona ancora adesso. Il quartiere vive oltre all’università. L’unica soluzione perché il dopo Expo resti vivo è farlo diventare un pezzo di città».

In che senso?
«L’università può essere un elemento strettamente collegato, ma non può essere l’unico. Il quartiere Bicocca vive ora perché ci abitano diecimila persone e c’è una grande banca».

Alcuni padiglioni resteranno come Palazzo Italia, secondo lei, che cosa si dovrebbe costruire?
“E pensare che era uno dei peggiori… Certo potranno semplificarlo. Per il resto non resterà più quasi nulla. Ecco perché dico che il dopo Expo deve essere l’occasione per costruire nuove case. Negozi, uffici. Bisogna pensarlo come un progetto metropolitano e polifunzionale e lavorarci. Ma per fare queste cose occorrono vent’anni».

Tutti, però, sostengono che non bisogna perdere tempo.
«Serve un progetto di lungo termine. Mi auguro che la società proprietaria dell’area sia in grado di portare avanti un progetto progressivo. Se hanno un problema di fondi facciano una nuova società e facciano entrare come soci le banche creditrici. Quell’area va messa sul mercato. E il progetto del governo mi sembra ridicolo. Con la densità dei centri urbani vicini e della periferia di Milano non si può pretendere di iniziare con il dire che il verde deve essere la parte prevalente ».

Lei era scettico all’inizio, invece, Expo Milano 2015 è stata un successo.
«Per certi versi lo sono ancora. Per me dal 1958 dopo quello di Bruxelles tutte le Expo sono state un fallimento. Devo riconoscere che qui Giuseppe Sala ha portato il pubblico. La gente è andata lì in massa per visitare padiglioni e mangiare in modo bizzarro. Non mi pare che ci sia stata una spinta politica nella direzione del tema per cui l’Expo 2015 era stato vinto da Milano».

postilla

Al netto di tutto ciò che si può dire dei risultati tangibili (non solo attuali) del citato progetto Bicocca, c'è da sottolineare come Vittorio Gregotti colga, la questione di fondo che ha sempre accompagnato Expo 2015, la coerenza col tema ufficiale, il suo rapporto col territorio locale: aderire al modello ultra-tradizionale del baraccone fieristico industriale specializzato, con pochi soggetti, spazi a organizzazione introversa, e relativa precarietà e bassa resilienza, oppure cercare integrazione – non solo spaziale ovviamente - con l'area metropolitana e la regione urbana, magari recuperando anche quel filo diretto con l'eccellenza delle produzioni agricole locali che l'evento ha declinato quasi solo sul versante mediatico? In altre parole, il riuso del sito verrà gestito in una logica da gigantesco «office park», così come l'Esposizione ha scelto ahimè un impianto propriamente da parco tematico suburbano, oppure si sapranno cogliere seriamente tutti gli elementi innovativi nel lavoro, nell'ambiente, nella residenza e servizi, offerti dalle tecnologie e dalle pratiche sociali di fatto già affermate? Questo, significa (o può significare) realizzare l'auspicato mixed-use nel Post-Expo (f.b.)


Il Fatto Quotidiano, 25 ottobre 2015 (m.p.r.)

Dovrebbero essere tutelati senza se e senza ma e soprattutto ringraziati i funzionari della Sovrintendenza di Siracusa per avere protetto dall’assalto del cemento l’intera area ricadente all’interno delle Mura Dionigiane, patrimonio archeologico della Magna Grecia riconosciuto dall’Unesco, e invece rischiano di essere condannati, assieme alla Regione siciliana, a pagare un risarcimento record di 240 milioni di euro se il Consiglio di Giustizia Amministrativa, nell’udienza fissata per il prossimo 16 dicembre, ribalterà la sentenza del Tribunale amministrativo regionale di Catania, dando così il via libera alla realizzazione di 71 villette a schiera in un’area, il pianoro dell'Epipoli, protetta (perché di inestimabile valore storico archeologico) da un vincolo assoluto di inedificabilità posto con un decreto ministeriale che risale addirittura al 1959: il Castello Eurialo, che domina l’intera area archeologica, è l’unica fortezza greca di quel periodo esistente al mondo.

Duecentoquaranta milioni di euro è la cifra del risarcimento fissata da una consulenza affidata non a un urbanista ma a un luminare dell’ingegneria aerospaziale, docente all’Università La Sapienza di Roma, depositata l’altro ieri nel procedimento avviato dall’impresa Am Group della famiglia Frontino, che ha chiesto i danni dopo il divieto opposto dalla Sovrintendenza in forza di quel vincolo sostenendo di avere pronti i compratori delle villette nel sultanato dell’Oman. E dopo avere avuto torto in primo grado, il paradosso è che a decidere in appello saranno anche due membri del Consiglio di giustizia amministrativa che il Tar, la cui sentenza dovranno esaminare, ha ritenuto illegittimamente nominati: sono Titti Bufardeci, deputato regionale indagato dalla procura per le spese pazze dei gruppi parlamentari, ed Elisa Nuara (entrambi rimessi in sella proprio dal Consiglio di Stato), fedelissima, come il figlio Gian Carlo Maria Costa, del presidente della Regione Sicilia Rosario Crocetta, del quale è stata anche vice sindaco di Gela. Si, perché in Sicilia, a differenza che nelle altre regioni, il Cga oltre che di togati, è composto anche da membri laici nominati dall’amministrazione regionale e dunque dalla politica.

È insomma un pasticcio in salsa tutta siciliana con molte ombre nei passaggi burocratici quello che si sta per concludere a Siracusa, dove una pattuglia di avvocati vicini all’associazione ambientalista Legambiente difende con i denti la forza di quel vincolo, ritenuto superiore al parere positivo, offerto incautamente dalla Sovrintendenza, al piano regolatore del 2007 che prevedeva in quell'area l’arrivo del cemento.

Ad avallare quel piano con la propria firma, che per il consulente aerospaziale oggi giustifica il risarcimento, fu la funzionaria regionale Mariella Muti, pensionata baby a 55 anni con la legge 104 per curare la madre; qualche mese dopo trovò però il tempo per fare addirittura l’assessore nella giunta di centrodestra nella città aretusea: «Fare l’assessore - dichiarò in un’intervista al settimanale Panorama - non è poi così impegnativo». Un avallo che ignorava le parole del sovrintendente Bernabò Brea, che nel ‘47 si era battuto per apporre a quell’area il vincolo di inedificabilità assoluta sostenendo che «la cura della propria bellezza, il rispetto e la valorizzazione dei propri monumenti non sono per Siracusa solo un lusso o l’adempimento di un dovere verso la cultura, ma un’intima ragione di vita e di benessere, anche dal punto di vista economico». Seguirono le convenzioni con la Am Group firmate dal capo dell’ufficio tecnico del comune, l’ingegner Mauro Calafiore, cui la vicenda non portò fortuna.

Nel luglio scorso la procura guidata da Paolo Giordano gli ha notificato l’avviso di conclusione delle indagini per corruzione e sfruttamento della prostituzione: avrebbe consentito la stipula di un’altra convenzione urbanistica in cambio di prestazioni sessuali di prostitute romene. L’ultima parola tocca adesso ai giudici del Consiglio di giustizia amministrativa riuniti il 16 dicembre, anche se il pool di avvocati di Legambiente sta programmando l’ultima contromossa: «Chiederemo la sostituzione del consulente - osserva l’avvocato Corrado Giuliano - nella perizia vi sono diversi svarioni di diritto, disattenzioni nell’esame dei documenti di Legambiente e si salta totalmente la provenienza dei documenti provenienti asseritamente dall’Oman». Il legale prosegue e aggiunge: «Si tratta di errori che non sorprendono alla luce delle competenze aerospaziali del perito».

Riferimenti

Si veda su eddyburg «la ricostruzione analitica dei vincoli e dei vari passaggi urbanistici della vicenda - la nullità radicale, piuttosto che la possibile risoluzione, delle convenzioni urbanistiche da cui i privati derivano oggi le loro pretese» di Salvo Salerno Dello straordinario caso dell’interversione risarcitoria di un vincolo paesaggistico non indennizzabile.
Sul Piano di Siracusa, si veda di Vincenzo Cabianca Documenti su vent'anni di utopia urbanistica a Siracusa.
Sulle “pressioni” subite dai sovraintendenti si veda di Gian Antonio Stella Via da Siracusa i sovrintendenti che non volevano il mega porto, Quel «no» alla speculazione che costa 200 milioni

L’articolo di Franca Levorotti sulla salvaguardia delle Apuane richiede da parte mia alcune precisazioni.

Oltre a essere chiamata direttamente in causa dal testo, credo infatti di avere qualcosa da dire in merito ai contenuti del Piano paesaggistico della Toscana, approvato nella scorsa primavera dopo una concitata fase di emendamenti e controemendamenti, e oggetto di numerosi e opposti ricorsi con riferimento alla disciplina delle attività di escavazione nelle Apuane. Diverse imprese concessionarie di attività di cava hanno infatti presentato ricorsi al TAR contro i dispositivi previsti dal Piano per garantire la tutela paesaggistica delle aree interessate da attività estrattiva, mentre alcune associazioni ambientaliste prevalentemente locali hanno presentato un ricorso al Presidente della Repubblica per la supposta mancata tutela.

Nessun piano è perfetto, come noto, anche perché le garanzie previste a tutela dei diversi interessi nelle procedure di approvazione danno modo di apportare successive modifiche rispetto alle ipotesi iniziali, in questo caso le proposte approvate dalla giunta regionale. E io stessa, con grave scandalo dei più, non mi sono tirata indietro nell’esprimere le mie valutazioni in merito alle vicende che hanno interessato il Piano, intervenendo in Consiglio Regionale in sede di approvazione dello stesso (cfr., oltre a eddyburg che ringrazio per avere a suo tempo prontamente pubblicato il mio intervento, Anche A.Marson, "Il percorso di approvazione del Piano paesaggistico della Regione Toscana", Il Ponte, LXXI n.7, luglio 2015, pp.63-73). Nello specifico, con riferimento alle Apuane, sarei stata felice se si fosse riusciti a far approvare norme di maggior tutela, ma ritengo che il Piano approvato segni comunque un avanzamento rispetto alla precedente indeterminatezza.

Anche gli scempi paesaggistici richiamati, ad esempio quello già avvenuto al picco di Falcovaia, hanno infatti avuto luogo non soltanto a tutele di legge già vigenti, ma anche a Parco regionale delle Apuane già istituito (allora come ora privo di un piano del parco, e il cui Presidente, di cui Legambiente aveva chiesto pubblicamente le dimissioni, non ha esitato ad attaccarmi pubblicamente perché intendevo tutelare le Apuane).

E’ questa la ragione per cui, quando a suo tempo Franca Leverotti mi annunciò l’intenzione di promuovere un ricorso contro il Piano, le scrissi che non condividevo, poiché rischiava di passare il messaggio politico che è meglio non provare nemmeno a “sporcarsi le mani” per regolare interessi contrapposti con un piano. Meglio accontentarsi di: un Parco (cui spetta esercitare le tutele ambientali) che non pianifica; funzionari delle Soprintendenze che non sono in grado di conoscere approfonditamente, tanto meno di fare sopralluoghi alle cave oggetto di autorizzazione paesaggistica; autorizzazioni all’escavazione concesse da singoli dirigenti comunali.

Il Piano paesaggistico, in uno spirito riformista (giacché le rivoluzioni non si fanno con i piani, meno che meno con quelli approvati dalle assemblee elette con i metodi della democrazia rappresentativa) finalizzato a conciliare tutela del paesaggio e dei lavoratori, ha introdotto a questo riguardo un combinato disposto di requisiti più avanzati: l’obbligo di approvare in Consiglio comunale appositi piani attuativi di bacino per le attività di escavazione (ammettendo soltanto, in assenza di questi, limitate possibilità di ampliamento all’interno dei perimetri già autorizzati); un quadro conoscitivo di riferimento comune a tutti gli enti che intervengono nel procedimento; l’obbligo di valutazione paesaggistica per tutte le nuove attività; la chiusura di alcune cave e il divieto di aprirne di nuove sopra ai 1200 metri, per non citare che alcuni dei dispositivi introdotti ex novo.

Gran parte degli emendamenti passati in commissione, tendenti a scardinare le regole di tutela introdotte dal Piano a questo riguardo, sono stati oggetto di una revisione condivisa fra Regione e Ministero dei beni culturali poco prima del voto finale, per mantenerne la valenza originaria.

Si poteva fare di più? Nel momento dato, con le forze presenti in campo nei diversi schieramenti politici e istituzionali, dubito assai, dal momento che l’obiettivo politico dei numerosi oppositori era quello di far saltare non solo le norme per le Apuane, ma l’intero piano. I numerosi ricorsi presentati dalle imprese di cava dimostrano come il Piano contenga comunque, nel suo insieme, norme finalizzate a garantire anche per le Apuane una maggior tutela di quella finora garantita in assenza del Piano stesso.

Quanto alla presunta “latitanza” delle associazioni ambientaliste più importanti (Italia Nostra, Legambiente, WWF e Fai), pur non potendo rispondere in vece loro mi limito a ricordare che non di latitanza si tratta, ma della mancata condivisione dell’azione di ricorso contro il Piano. Mi risulta per di più che queste stesse associazioni abbiano di recente costituito un “Coordinamento apuano”, con l’obiettivo di seguire attentamente tutte le procedure di autorizzazione in corso, anche al fine di verificare se e come le nuove norme introdotte dal Piano vengano applicate da chi di dovere. Personalmente non posso che ringraziare il coordinamento delle associazioni per questo impegno quotidiano, assai più faticoso di un ricorso al Presidente della Repubblica, che mi dà il senso di non aver lavorato e sofferto invano.

E’ notizia delle scorse settimane che il PIT toscano, già oggetto di ricorsi al TAR da parte di alcuni concessionari di cave, è stato impugnato con ricorso straordinario al Presidente della Repubblica da alcune associazioni ambientaliste: Mountain Wilderness, Amici della Terra, SIGEA, VAS, LIPU, CAI regionale, Centro Cervati e La Pietra Vivente.

Stupisce innanzitutto che le associazioni “storiche” (Italia Nostra, Legambiente, WWF e anche il più giovane FAI) non abbiamo aderito: una latitanza che contraddice vistosamente lo Statuto fondativo di alcune e soprattutto non è in linea con l’intensa attività mediatica a supporto di Anna Marson intrapresa da alcune di loro nei mesi precedenti. Stupisce anche il silenzio stampa di alcune penne di punta del giornalismo italiano contattate personalmente: una libertà “limitata” di scrittura che vediamo come un segnale assai preoccupante.

L’impugnazione di questo piano trova le sue radici nel fatto che relativamente all’area del Parco le norme del PIT violano l’articolo 142 del Codice in tutti i suoi commi, le leggi di tutela dei Siti Rete Natura 2000, le leggi di tutela delle acque superficiali e sotterranee ed il principio di precauzione. Le deroghe infatti stabiliscono che si può continuare l’attività estrattiva e ampliare i bacini estrattivi; si possono riaprire le cave chiuse, senza limiti di tempo, ovvero anche quelle rinaturalizzate e abbandonate per la cattiva qualità del tempo, oggi superabile con la produzione del carbonato di calcio.

Ebbene NON era questo l’intento del PIT, basta leggere l’audizione di Anna Marson al Consiglio Superiore del Beni Culturali, il solo testo relativo all’accordo con il MIBACT rimasto disponibile in rete (dato anche questo assai preoccupante) laddove dichiarava che la Giunta Regionale aveva stabilito che le cave nel Parco, esaurita l’autorizzazione in corso, andassero riqualificate e poi definitivamente chiuse, mentre le cave fuori dal Parco non potessero andare sulle vette e sui crinali, auspicando in merito una presa di posizione solidale del Mibact.

Chi ha manomesso il PIT? La risposta ancora una volta è nella dichiarazione di Anna Marson a PIT approvato e presente nel sito di Eddyburg, laddove richiama dapprima il conflitto «tra interessi collettivi e interessi privati, poi la presenza di emendamenti non coerenti con i contenuti propri di un piano paesaggistico», denunciando anche la «partecipazione di consulenti delle imprese del marmo alla scrittura degli emendamenti nelle stanze del consiglio regionale ed esplicitando tra i motivi di depotenziamento del piano che «nelle Apuane (sono state) cancellate tutte le criticità relative a specifiche aree interessate dalle escavazioni».

Nessuno ha smentito l’Assessore; anzi le sue accuse hanno trovato conferma nella dichiarazione dei concessionari riportata nel giornale “Versilia produce” di aprile 2015, laddove specificano che hanno ottenuto “soltanto”:
a) l’eliminazione della carta delle vette e dei crinali (che trova appunto la sua ragion d’essere nell’audizione al Consiglio Superiore del MIBACT);
b) lo stralcio della limitazione temporale per la riattivazione delle cave chiuse in area Parco e sopra i 1.200 (aree protette dal Codice!);
c) la semplificazione delle linee guida per la valutazione della compatibilità paesaggistica;
d) il coordinamento tra autorizzazione paesaggistica e valutazione di compatibilità paesaggistica.

Quale seria valutazione paesaggistica ci possiamo aspettare, dopo le manomissioni dei tecnici dei concessionari di cava ai punti c) e d) ? Non illudiamoci che le “nuove linee” fermeranno il disastro; sono note le autorizzazioni rilasciate dal Parco in conferenza dei servizi: i dinieghi diventano prescrizioni e gli abusi vengono differenziati in abusi permissibili o non permissibili.

Questi sono i fatti ricostruiti su base documentaria, ma un professionista competente, ignaro degli eventi, non può non rimanere sconcertato dalla lettura dei contenuti del PIT non solo e non tanto per il sistema delle deroghe che inficiano tutte le tutele che coprirebbero le Apuane, ma a partire dal fatto che questo PIT non è stato sottoposto a Valutazione di Impatto Ambientale, valutazione inderogabile per un Parco, ricoperto da una ZPS cui si sovrappongono 10 SIC , e dove si prevede l’ incremento esponenziale delle attività estrattive.

Sorprende anche che nel testo del PIT si precisi genericamente che le Apuane «sono interessate da numerosi geositi, quando i geositi sono almeno 253 puntuali e lineari (9 campi carreggiati, 5 campi di doline; 14 cordoni morenici; 37 cavità carsiche; 24 doline; 3 marmitte; 17 circhi glaciali; 25 picchi; 20 creste ecc.). Altrettanto anomalo è trovare scritto in un piano che dovrebbe garantire la tutela del paesaggio che sino all’approvazione dei piani di bacino ed entro tre anni sono consentiti, previa valutazione paesaggistica regionale, ampliamenti delle aree estrattive all’interno del perimetro autorizzato non superiori al 30% del volume consentito dall’autorizzazione vigente, se l’autorizzazione è in scadenza e se è stato esaurito il quantitativo concesso. E’ consentita altresì la riattivazione di cave e rinnovi per volumi non superiori al 30% di quanto consentito nell’ultima autorizzazione. Questo sarà concesso una sola volta». Siamo in un contesto di Piano paesaggistico o di Piano estrattivo?

Nel caso del comune di Minucciano «in considerazione del valore economico e sociale che le attività estrattive anche sopra i 1.200 m rivestono per Minucciano si consente di proseguire lo scavo anche sopra i 1.200 metri, garantendo il minor impatto paesaggistico, a TUTTE le cave del Comune comprese nei Bacini 2, 3, 5. Le cave attive del Comune di Minucciano sono 19 (10 di queste sono sopra i 1.200 m), quelle inattive (che al momento non hanno trovato acquirenti) sono 7; non conosciamo il numero delle cave inattive censite nel piano regolatore del Comune. Da un’intervista al Sindaco Poli, dopo la sua elezione, si ricava che nelle 10 cave dei bacini di Orto di Donna e Acquabianca sono OCCUPATI 20 operai. Deroghe sono concesse anche all’Henraux per il bacino dell’Altissimo quando sono in corso processi con la locale ASBUC che contesta alla ditta la proprietà di ben 378 ettari rispetto ai 540 rivendicata dalla società . Continuerà così l’attività estrattiva che ha ridotto ad un mozzicone il picco di Falcovaia alla cava delle Cervaiole, il cui ravaneto ha sepolto una sorgente e imbianca periodicamente il canale del Giardino (non compreso stranamente nell’area Parco, ma interno al SIC 18), dove vive una specie protetta: la Bombina pachypus ( valutata In Pericolo (EN) nella recente Lista Rossa redatta dal Comitato Italiano IUCN). Infatti il recupero dell’estesa discarica di cava e del reticolo idrico sottostante si intendono raggiunti con l’utilizzo di tecniche meno impattanti (forse lo scavo in galleria?) e con <<interventi di risistemazione ambientale e paesaggistica durante e al termine della coltivazione». Sarebbero i primi interventi di risistemazione attuati dal 1997, anno di creazione del Parco, ma risulta difficile pensare ad una loro realizzazione contemporanea all’escavazione.

Sempre nell’Altissimo, sono state riaperte a partire dal 2010, in area Parco, ben 3 cave: il ravaneto della cava Macchietta (cava in galleria a m. 1081 ) sta compromettendo la sorgente della Polla; la cava Mossa è stata ri-aperta nel 2013 nonostante il parere negativo della Provincia di Lucca; la cava Buca è stata ri-aperta nel 2013 nonostante la presenza, accertata tramite georadar, di numerose fratture. Ma già la strada che conduce alla cava Cervaiole era stata realizzata senza l’autorizzazione del Parco: pochi esempi per mostrare il comportamento anomalo del Parco.

Alla Cooperativa dei beni comuni di Levigliani che coltiva le cave nella logica della valorizzazione e del mantenimento delle risorse per le future generazioni, il PIT dei concessionari consente «L’ampliamento delle attività estrattive esistenti, anche al di fuori del perimetro autorizzato, in deroga all’art. 10 della Disciplina dei beni paesaggistici, subordinato all’individuazione di specifiche modalità di coltivazione che riduca al minimo gli impatti sugli elementi della morfologia glaciale»: siamo al di sopra dell’Antro del Corchia. Si tratta del complesso carsico più lungo d’Italia (oltre 60 km esplorati ad oggi) e uno dei più importanti d’Europa: uno dei caposaldi del Geoparco (geosito n. 194) e al quale l’ISPRA ha dedicato il volume The Corchia cave (Alpi Apuane). Il Pit della Marson descrive questa stessa area caratterizzata dalla presenza di rilevanti valori naturalistici (elevata concentrazione di habitat e specie di interesse comunitario e/o regionale, presenza di Siti Natura 2000), geomorfologici (circhi glaciali e vasti complessi carsici ipogei ) e paesaggistici.

Non sono ammesse autorizzazioni all’escavazione nel Retrocorchia» recita il PIT, ma qui si scaverà ancora perché si prevede “la riqualificazione paesaggistica della cava e della discarica del Retrocorchia”, nonostante un progetto di ricerca sulla valorizzazione delle biocenosi esistenti, finanziata dall’ente Parco con Delibera Dirigenziale 50/2007 e 32/2009.

Questi pochi esempi rendono comprensibile – spero- il ricorso delle associazioni ambientaliste di nicchia contro il PIT, limitatamente all’area del Parco, e spiegano anche l’appello che le stesse hanno rivolto tramite il Gruppo di Intervento Giuridico onlus, al Presidente della Repubblica affinchè il PIT manipolato venga azzerato ed il Parco delle Alpi Apuane possa godere di un PIT conforme alle leggi dello Stato.L'autrice è stata Consigliere nazionale di Italia Nostra ed è referente del presidio Apuane del Gruppo di Intervento Giuridico onlus

La mobilitazione, ininterrotta da oltre un anno, in difesa di un patrimonio di grande valore storico, monumentale ed urbano come quello della “Cavallerizza” -facente parte della Reale Zona di Comando in pieno centro storico a Torino- sta ad indicare, credo, che alla (s)vendita dei propri beni da parte dell’ente pubblico va posto un limite. Qui non si tratta dell’alienazione di uffici postali in disuso, di torri dell’acquedotto o di una caserma vuota, ma di un complesso testimone della grandezza di un regno e della cultura della nostra arte, del genio visionario, insopprimibile, di architetti settecenteschi. Sono state fatte assemblee, riunioni, incontri con ‘la politica’, appelli, come l’ultimo firmato da S. Settis, T. Montanari, G. Zagrebelsky. Forse è il momento della sintesi.

La proprietà privata deve arrestarsi alla soglia dei beni pubblici che per la Storia, l’Arte e la Cultura hanno un valore non commerciabile. E’ dimostrato che abbattere il debito pubblico –nazionale e locale- con le privatizzazioni è illusorio, irrimediabilmente inutile.

Pertanto, va abbandonata tutta la filiera della cosiddetta ‘cartolarizzazione’ (già repellente nel nome) per i suddetti beni. I quali, essendo di tutti, perché pubblici, non possono essere alienati senza il diretto consenso dei legittimi proprietari che andrebbero perlomeno interpellati tramite referendum nazionali/locali. La vicenda della “Cavallerizza” dimostra proprio questo: la cittadinanza non intende delegare al Sindaco e alla sua Giunta la vendita di beni riconosciuti di alto pregio (la “Cavallerizza” è bene dell’umanità, secondo l’Unesco) se non per volontà del popolo (Paolo Maddalena). Il mandato agli amministratori tramite il voto, riguarda la gestione dei beni comuni nell’interesse dei cittadini, non la loro alienazione/svendita. Se i cittadini intendessero iquidare il proprio patrimonio, cercherebbero figure più professionali e specializzate in ambito immobiliare/commerciale, non certo politici.

La destinazione d’uso di un bene -che resta pubblico- può certamente comprendere, al suo interno, attività private, sponsorizzazioni private, concessioni a privati sulle quali, però, decide autonomamente il pubblico, mai estromesso dalla sua proprietà, mai condizionato né succube della speculazione da capitale privato.

Nel caso specifico, mi pare non eludibile la destinazione di generale struttura culturale e artistica (produzione, formazione, ricerca e manifestazione) e sede di ‘borgo’ universitario e degli artisti con le sue residenze studentesche, le comuni zone-studio, i laboratori e gli studi professionali, i magazzini per artisti, artigiani e ospiti esperti; le botteghe e i ristori per la vita (e la vivacità) della collettività resa omogenea dall’impegno per il sapere e il saper creare.

Sono certo che Sindaco e Giunta, se non fossero ossessionati e ricattati dal buco di bilancio, sarebbero d’accordo. Ma, intanto, dovrebbero convincersi che con la “Cavallerizza” quel buco non lo tapperanno mai e che non si usano i capolavori di un’intera civiltà per sanare i debiti. La risposta la conosciamo: “Chi paga?”. Intanto gli sponsor. Esempi sono il Colosseo e la scalinata di Trinità dei Monti che non sono diventati di proprietà di Della Valle e di Bulgari. Inoltre, occorrerebbe impegnarsi in una campagna locale per l’”Art Bonus” Sono anche convinto che se si lanciasse una tassa di scopo per la tutela e la rivitalizzazione della Cavallerizza (come per gli altri ‘gioielli’ della città), avrebbe successo così come la destinazione del ‘5 per mille’ espressamente finalizzata ad essi.

Tutto questo è possibile ma c’è un dovere per una nazione come l’Italia ed è quello del censimento e classificazione per la riqualificazione e rifunzionalizzazione dell’eccellenza del patrimonio storico architettonico che va inesorabilmente in rovina. Per rispondere a tale dovere va organizzato un apposito ministero non mescolabile con turismo, eventi, fiere, musei, ecc. ma specifico e concentrato su un solo obiettivo.

L’Italia, dal punto di vista della conservazione di tale patrimonio è in una situazione analoga a quella post-bellica che aveva quale priorità quella della ricostruzione. La “Cavallerizza” non è bombardata (è come se lo fosse) ma ha bisogno di tornare allo splendore del suo progetto originario negli esterni e di essere ristrutturata negli interni per essere abitata in nuove funzioni, in sicurezza, con nuovi requisiti, impianti, servizi logistici, ecc. Sono interventi di un livello tale che hanno bisogno di un apposito Ministro e Ministero con portafoglio, di un apposito capitolo costantemente previsto e finanziato tutti gli anni nella legge di stabilità. La mappa degli interventi del ‘livello Cavallerizza’ avrebbe dovuto essere redatta dagli anni ’50. L’incuria ha accumulato un danno enorme. A tanta inadempienza non si risponde svendendo la propria inestimabile ricchezza all’asta. Si accantonano, anno dopo anno, le somme necessarie a portare a termine un programma (ventennale?) di riacquisizione dell’integrità di quel tesoro i cui frutti ripagheranno- anche economicamente- ampiamente della spesa e per sempre.

Intanto, con la “Cavallerizza” che si fa?
1) Il Comune delibera la sospensione, per un anno, di ogni trattativa commerciale relativa agli immobili e
2)la recessione dalla loro cartolarizzazione;
3) il sindaco di Torino, in qualità di presidente dei comuni italiani (ANCI) si fa promotore presso il governo per l’istituzione del nuovo ministero e
4) presso il ministro Padoan per l’inserimento nella legge di stabilità 2016-17 del programma pluriennale di finanziamento del suddetto ministero;
5) sempre Fassino, si attiva presso le istituzioni deputate all’ottenimento dei finanziamenti europei su programmi relativi alla tutela e riuso di opere di alto valore storico/culturale/urbano e
6) si impegna, in qualità di membro del consiglio di amministrazione della Cassa Depositi e Prestiti, affinchè siano ridefinite la sua natura e le sue finalità, queste ultime a vantaggio dell’uso del risparmio collettivo per finalità socio culturali e territoriali come quella del recupero di cui sopra. Infine, si utilizza l’anno di sospensione per il compimento di tutte le fasi necessarie al compimento di tutte le fasi di progettazione dell’ utilizzo di tutto il complesso perché dal 2017 sia possibile dare inizio ai lavori per il suo tanto atteso recupero.

Alcuni bilanci economici parziali sugli effetti dell'evento Expo, letti da una certa prospettiva confermano un positivo orientamento dei visitatori, e un errore di impostazione, a dir poco molto conservatrice. La Repubblica Milano, 23 ottobre 2015, postilla (f.b.)

Nove Expo-turisti su dieci promuovono Milano. Lo dice un’indagine della Camera di commercio e del Comune su un campione di mille visitatori, che hanno ammesso di essere venuti in città proprio per l’Esposizione universale. Ma se il turista appare soddisfatto, lo sono meno i commercianti e i ristoratori che a poco più di una settimana dalla chiusura dei padiglioni lamentano l’assenza di un impatto da grande evento sui loro incassi.

I turisti dell’Expo venuti a settembre apprezzano non solo il Duomo, Brera e i Navigli, ma anche l’aperitivo, i servizi della città e in qualche modo lo stile di Milano. Il 55 per cento è italiano, gli altri vengono da Europa, Cina, Giappone e America.

Ma i ristoratori tutti questi turisti sostengono di non averli “sentiti”. Già durante l’estate locali e ristoranti avevano denunciato che la movida dell’Expo, con il biglietto d’ingresso a 5 euro alla sera, “rubava” clienti alla città. Oggi, a Esposizione quasi conclusa, confermano. «Ormai è finita e accenderemo un cero — si spinge addirittura a dire Giuseppe Gissi, vicepresidente vicario di Epam, l’associazione che raccoglie i pubblici esercizi — . Se togliamo piazza Duomo e la Galleria, le altre zone non hanno risentito di alcun beneficio, anzi sono andate giù. Non ce l’abbiamo con l’Expo, chiariamolo, ma con la movida serale che ci ha uccisi».

Anche i negozianti non fanno i salti di gioia: «I dati delle transazioni delle carte di credito dimostrano che tra luglio e agosto c’è stato un più 30 per cento riferito solo agli stranieri e nelle zone del Quadrilatero — dice Renato Borghi, presidente di Federmoda — mentre nessun aumento da parte degli italiani. Quindi l’effetto Expo c’è stato solo in pieno centro, mentre il commerciante medio come in corso Vercelli non ha avuto benefici. Ma sono convinto comunque — dice Borghi — che sia cresciuta la reputazione di Milano: gli effetti si raccoglieranno più avanti». In corso Buenos Aires è Gabriele Meghnagi di Ascobaires a dire che «gli incassi sono meno delle aspettative ma comunque viva Expo, è un investimento per il futuro».

L’assessore al Commercio e turismo, Franco d’Alfonso, soddisfatto invece dei riscontri sulla città, insiste che per non disperdere il patrimonio conquistato si lavora con gli operatori su pacchetti weekend per i turisti. E assicura: «Basta guardarsi in giro e l’effetto si vede, gli alberghi sono pieni. Le periferie magari non hanno avuto benefici, ma non sono mai il primo posto dove si va quando si visita un luogo nuovo. In città girano 350mila persone in più al giorno di media: Milano ha svoltato, è una città ormai stabilmente entrata tra le prime dieci mete turistiche d’Europa ».

postilla
In realtà, leggendo queste (prevedibili, scontate) lamentele dei bottegai del centro e meno del centro sul mancato «indotto Expo», non possono non tornare in mente le arroganti battute dei conservatori culturalmente destrorsi a suo tempo, ben riassunte da quella definitiva del rappresentante BIE: «un orto di melanzane non interessa a nessuno». Battuta che, anche al netto dei toni, liquidando l'autentico progetto originario coerente col tema Nutrire il Pianeta, prefigurava una serie di tradizionalissime scelte, espositive e organizzative: il baraccone del sito sul modello parco tematico suburbano, aspirapolvere di folle e interessi, e più in generale l'impostazione antiquata, assai diversa dal genere di pubblico che un tema come quello alimentare ed ecologico avrebbe potuto attirare. Ecco, questa quasi finale «delusione degli operatori» per il mancato innesco di certe vetuste economie turistiche pare indirettamente bocciare proprio quel taglio da Expo ottocentesca, e da turismo consumistico acchiappatutto un po' da boom economico. Potrebbe, anche questo aspetto, diventare oggetto di riflessione non contingente, sia sul futuro funzionale e strategico delle aree, sia su quello più generale del turismo urbano negli anni a venire (f.b.)

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