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la Repubblica, 9 settembre 2018. Le ultime vicende dell'Ilva, in continuità con il passato, dove il ricatto tra salute e lavoro non viene risolto e i diritti della popolazione di Taranto sono messi sempre per ultimi (i.b.)

Taranto. Da una parte la paura di ammalarsi, dall’altra quella di perdere migliaia di posti di lavoro. Taranto è città dilaniata in questo scorcio d’estate in cui la sua più grande fabbrica si appresta a passare nelle mani del colosso Arcelor Mittal. Le reazioni dei cittadini alla notizia dell’accordo tra il Ministero dello Sviluppo e Am per l’acquisizione Ilva e l’assunzione di 10.700 persone con circa 3.000 esuberi sono contrastanti: rabbia e soddisfazione, timore e sollievo, voglia di fuggire e difficoltà nel restare. L’amarezza dei delusi, che speravano nella chiusura delle fonti inquinanti sbandierata dai Cinque Stelle in campagna elettorale, è tutta convogliata sul Movimento. La deputata Rosalba De Giorgi è stata contestata in piazza, l’europarlamentare Rosa D’Amato su Facebook, i consiglieri comunali Massimo Battista e Francesco Nevoli sono subissati di telefonate e meditano di lasciare la casa grillina. La confusione è grande e la rassegnazione di più.

Alla protesta organizzata a caldo subito dopo l’accordo del 6 settembre, in piazza Della Vittoria si sono presentate almeno 700 persone, il giorno successivo erano meno di 200. Le mamme dei Tamburi urlavano di voler restituire le schede elettorali ma ai tavolini dei bar e a passeggio nella via dello shopping c’era un’altra Taranto. «La città è stanca – spiega il consigliere comunale di Taranto Respira Vincenzo Fornero – non crede più a queste forme di protesta». «Abbiamo perso la forza di manifestare» conferma Aldo Schiedi, operaio 43enne dell’Ilva, tre anni fa vittima di un incidente sul lavoro che stava per fargli perdere la vista. «Ho inalato soda caustica da un tubo che perdeva – racconta – la fabbrica era già in gestione commissariale. All’inizio cercarono di minimizzare, quando presentai le foto della tubatura rotta non poterono più negare». A seguire altre denunce. Alcune molto gravi, come quelle sull’uso dell’acqua di mare per alimentare gli impianti antincendio di alcuni reparti. Segnalazioni in mano alla Procura di Taranto, dal 2012 impelagata nel processo Ambiente svenduto, di cui i Riva sono i principali imputati mentre Regione Puglia, Provincia e Comune di Taranto vivono il paradosso di essere contemporaneamente imputati e parti civili.

La vicenda della più grande acciaieria d’Europa, del resto, è tutta un paradosso. Come questa città, scelta dai discendenti di Eracle per diventare colonia greca, che nei secoli relegò il suo passato in un angolo e negli anni Sessanta scelse quel destino industriale che oggi la sta consumando. A percorrerla in un giorno di fine estate, la sua bellezza nascosta dietro colate di cemento abbaglia. Ma l’aria che si respira ammorba. L’odore acre dei fumi, non solo dell’Ilva, intossica i polmoni a chilometri dalla zona industriale. Chi vive nel quartiere Tamburi, a ridosso delle fabbriche, è abituato a inalare diossina. E ad ammalarsi.

«Ci sono persone che vanno a fare visite mediche e scoprono di avere due tumori contemporaneamente - dice Alessandro Marescotti di Peacelink - Ogni anno si registrano almeno 1.000 ammalati». L’ultima è una bimba nata con il cancro a entrambi i reni. L’ennesimo nome nel registro dei tumori. Come quello di Cosimo Briganti, 50 anni di cui 26 nel siderurgico, che di quei 100.000 euro lordi offerti da Arcelor per l’esodo volontario non sa che farsene. Fatti quattro conti, 77.000 euro netti equivalgono a tre anni di lavoro e poi disoccupazione certa. «Per chi ha moglie, due figli e un mutuo da pagare, è un lusso da non prendere in considerazione» dice. Eppure di quell’accordo con i nuovi padroni, i sindacati vanno fieri: «Mette in sicurezza tutti i lavoratori e accoglie quanto da noi richiesto in tutti questi mesi».

I particolari saranno illustrati da domani nelle assemblee in fabbrica e, a seguire, si svolgerà un referendum, di fatto inutile. Che vinca il sì o il no, infatti, Arcelor Mittal andrà avanti. Di chiusura dell’impianto ormai non se ne parla. Di chiusura delle fonti inquinanti nemmeno nonostante il governatore pugliese Michele Emiliano si ostini a chiedere la decarbonizzazione. Le sue parole, a Taranto, si perdono nel vento. E un po’ anche quelle del sindaco Rinaldo Melucci, che pure assicura di voler «vigilare» sull’operato dei nuovi proprietari dell’Ilva. Se e quando si presenteranno alla città è un mistero. Certo, fare peggio dei Riva sarà difficile ma un tentativo di dialogo va fatto, tanto che pure Confindustria con il suo presidente Vincenzo Cesareo si augura «che venga inaugurata una stagione di maggiore trasparenza e comunicazione». E che il siderurgico smetta di essere un mondo a parte, nel quale tutto è accaduto in silenzio. Anche nei sei anni di commissariamento. «Quelli in cui sono morti 8 colleghi per incidenti sul lavoro», ricorda Mirko Maiorino, altro operaio che bolla il referendum come «una farsa». Come lui anche gli ambientalisti e i cittadini, che chiedono la chiusura delle fonti inquinanti. Le sigle sono tante, forse troppe, gli attivisti ormai pochi. Le manifestazioni del 2013, quando la marea umana invase le strade, per ora sembrano un ricordo.

1 settembre 2018. Il crollo della chiesa di San Giuseppe dei Falegnami e l'abbandono del patrimonio culturale italiano sono anche l'effetto dell'inefficacia di alcune recenti riforme. Con riferimenti (m.p.r.)

Era il 1957 quando Cesare Brandi, fondatore e per vent’anni direttore dell’Istituto Centrale del Restauro di Roma, denunciava in Parlamento «l’assoluta inadeguatezza, ma nell’ordine di uno ad un milione, dei fondi a disposizione per il patrimonio artistico; l’insufficienza quantitativa del personale; la mancanza di una coscienza politica dell’importanza della preservazione del patrimonio artistico». Sessant’anni dopo, il grido di dolore di Brandi è tanto più attuale: dal 2000 al 2008 gli stanziamenti del ministero per i Beni e le Attività Culturali ammontavano ad una quota pari allo 0,3% circa del bilancio dello Stato, riducendosi negli anni successivi fino allo 0,19% (2014-2015). Soltanto nel biennio 2016-2017 si è registrato un incremento rispettivamente dello 0,26% e dello 0,25% del bilancio dello Stato, nonostante ciò le percentuali rimangono incredibilmente basse sia per la diffusione capillare di opere d’arte ed edifici storici nel territorio nazionale sia rispetto a quanto gli altri paesi europei investono in questo settore.

Richiamare queste cifre a seguito dell’ennesimo disastro potrebbe sembrare la più semplice delle risposte. Eppure quando il Mibact nel 2016, sotto la direzione del ministro Franceschini, ha proceduto all’assunzione di 500 funzionari (architetti, archivisti, archeologi, restauratori, storici dell’arte, promotori ed esperti di comunicazione, bibliotecari, antropologi e demoetnoantropologi) era ben consapevole che il numero di posti vacanti nelle soprintendenze era tre volte superiore. Inoltre, soprattutto nel caso degli storici dell’arte, ai neoassunti è stata data la possibilità di scegliere come destinazione uno dei venti grandi musei autonomi appena creati dalla riforma voluta dallo stesso Franceschini. E se ci si aggira per i corridoi di qualsiasi soprintendenza territoriale si notano uffici vuoti, stanze chiuse e pratiche accumulate sopra le scrivanie.
La scissione tra musei nazionali e patrimonio artistico del territorio e la gerarchizzazione tra musei di serie A (venti grandi istituzioni dagli Uffizi a Capodimonte, da Brera all’Accademia di Venezia) e di serie B (i tanti e preziosi musei nazionali delle città di provincia) è indubbiamente il nodo più delicato della riforma Franceschini e spiega molte delle ragioni dell’estrema difficoltà in cui versano i nostri beni culturali. Tale criticità va di pari passo con la tendenza ormai decennale di privilegiare la valorizzazione a scapito della tutela. Ciò che nel Codice dei beni culturali del 2004 veniva strettamente collegato (conoscenza-tutela-valorizzazione), vede oggi l’assoluto predominio della commercializzazione e del marketing culturale, che genera un’attenzione compulsiva su poche eccellenze lasciando nel buio tutto il resto.
È stato giustamente sottolineato che la chiesa di San Giuseppe dei Falegnami era stata restaurata appena tre anni fa con un finanziamento pubblico (Lr 27/90) e assieme della Conferenza Episcopale Italiana di 747.621,40 euro, ma qualcosa non ha funzionato, anche nei controlli sui lavori eseguiti. Un po’ ovunque avremmo bisogno di restauratori esperti, cantieri seguiti da bravi funzionari di soprintendenza perché tanti sono i crolli o i disastri annunciati.
Non ha suscitato lo stesso clamore del caso romano, ma a Pisa nel 2015 è crollato parzialmente il tetto della duecentesca chiesa di San Francesco, che accoglieva, tra le altre, due tavole di Cimabue e Giotto oggi esposte al Louvre: incredibilmente a tre anni di distanza non sono ancora cominciati i lavori di restauro, la chiesa è puntellata, mentre anche il chiostro minaccia di andare in rovina.
Se oggi è la valorizzazione ad attirare la maggior parte dei finanziamenti, tutela e conservazione sono attività sempre più rare. Tutto il contrario di ciò che stabilisce il Codice dei beni culturali e del paesaggio secondo cui la tutela «è diretta a riconoscere, proteggere e conservare» un bene affinché possa essere offerto alla conoscenza e al godimento collettivi. Per tutelare un bene bisogna prima riconoscerlo come tale, operazione quanto mai difficile in un paese in cui la storia dell’arte, grazie alla riforma Gelmini del 2008 ed alla legge 107 del 2015, è quasi sparita dai programmi delle scuole secondarie. D’altronde, se si conoscono appena una decina di acclamati capolavori, quelli e quelli soltanto si vogliono vedere e dunque tutelare. Il resto può anche crollare.

riferimenti

Su eddyburg un'intera sezione dedicata ai problemi e al degrado dei Beni culturali.
Sulla riforma Franceschini si vedano, tra gli altri, di Maria Pia Guermandi Paesaggio: l'attacco convergente e l'appello lanciato da Emergenza Cultura Rottamiamo Franceschini, che ne illustra sinteticamente i danni provocati.

La Superstrada Pedemontana Veneta (SPV) è un'arteria viaria a pagamento che si snoderà tra Montecchio Arzignano (VI) e Spresiano (TV) toccando 37 comuni. E' lunga circa 95 Km, a cui si aggiungono altri 53 km di viabilità connessa, conta due gallerie naturali e 33 artificiali, 16 caselli e costerà circa 2.258 milioni.
E' una tipica inutile grande opera italiana: in cantiere da moltissimi anni (era il 1990 quando la SPV fu inserita del piano regionale dei trasporti della regione Veneto); scandita da infinite varianti, ricorsi, scandali e migliaia di denunce ed esposti di comuni e comunità contrarie all sua realizzazione in quanto inutile e dannosa; sempre costosissima, con prevalenti costi e rischi a carico degli enti statali; strumentale agli interessi privati a danno dello Stato e della popolazione; caratterizzata da mancato rispetto delle regole italiane ed europee in materia di appalti e finanziamenti sottraendosi all'ordine democratico; inadeguata da un punto vista tecnico con molte incognite riguardanti il futuro funzionamento; devastante da un punto di vista ambientale a partire dall'alto consumo di suolo (la regione Veneto è risultata la regione a più alto incremento di consumo di suolo); basata su con presupposti di utilità falsi e bilancio tra costi e benefici negativo (i.b)

Lettera indirizzata a

Ministero delle infrastrutture e dei trasporti

Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare

SUPERSTRADA PEDEMONTANA VENETA (SPV):
OBIETTIVI PRIORITARI

Chiediamo alle istituzioni, e in particolare ai Ministri dei Trasporti e dell’Ambiente, di intervenire tempestivamente sulle procedure di competenza connesse alla SPV, per ripristinare la correttezza e la legalità, ad avviso di molti cittadini e associazioni ripetutamente violate su aspetti strutturali del progetto SPV, onde evitare complicazioni ancora più gravose e ingovernabili in un prossimo futuro.

Interventi Prioritari

1) Venga resa pubblica al più presto l’ANALISI COSTI BENEFICI (ACB) promessa dal ministro Toninelli, indispensabile per motivare la Pubblica Utilità o meno dell’opera, e permettere rapide decisioni consequenziali.
Seguendo la letteratura scientifica di settore, il saldo non può che risultare fortemente negativo: vengono spesi più di 13 miliardi di soldi pubblici (senza considerare le opere complementari) per un’infrastruttura che, se tutto va bene, farà risparmiare qualche manciata di minuti (unico o principale beneficio), e sarà scarsamente utilizzata (cfr. studio sui flussi di traffico commissionato da BEI e CDP). Includendo anche i notevoli costi ambientali (come obbligatoriamente previsto anche dagli Orientamenti europei in tema di ACB), la voce “costi” viene ulteriormente gravata, con un bilancio complessivo in fortissima perdita.

2) Verificare con urgenza il rispetto delle numerose Prescrizioni previste, conditio sine qua non per il proseguimento dei lavori.
Il progetto preliminare SPV è stato accolto dalla Commissione VIA e approvato dal CIPE nel 2006, a fronte di numerose Prescrizioni inderogabili, a carattere ambientale e non solo.

3) Verificare “le autorizzazioni e gli adempimenti previsti dalla normativa vigente, anche in sede europea” (v. Parere di Compatibilità Ambientale della Commissione VIA, febbraio 2006).

4) Sottoporre a VIA completa (con partecipazione popolare) il progetto definitivo, il quale doveva includere le Prescrizioni di cui al punto 2, così come previsto dalla Delibera del CIPE sul progetto preliminare (marzo 2006).

5) Verificare la corretta realizzazione dell’opera e i previsti monitoraggi ambientali, considerando che la relativa documentazione – incredibilmente - non è stata nemmeno trasmessa al Ministero dell’Ambiente (come denuncia la Corte dei Conti, Delibera di marzo 2018).

6) Ripristinare integralmente i Siti di Rete Natura 2000 devastati dai cantieri, con particolare riferimento al SIC Le Poscole, area di risorgiva in cui le normative comunitarie risultano violate in modo abnorme e plateale.

7) Operare per annullare il terzo Atto Convenzionale, che premia il capitale privato ma danneggia in modo clamoroso l’interesse pubblico (come denunciato anche dalla Corte dei Conti), lasciando profilare un ingente danno erariale.

Altri interventi richiesti

8) Garantire la partecipazione popolare alle procedure, a partire da quelle relative alla VIA e alla VINCA, secondo quanto previsto in generale dalla Convenzione di Aarhus (formalmente accolta dall’Italia, ma di fatto rigettata nel corso dell’iter della SPV).

9) Rivedere le deleghe alla Regione, e quindi all’Autorità Regionale per Rete Natura 2000, in tema di siti protetti dalla normativa comunitaria, considerando gli abusi e le manomissioni cui sono stati sottoposti alcuni di tali siti, nel silenzio delle istituzioni preposte.

10) Annullare la legislazione sui Project Bond, considerando che essa favorisce il capitale privato e gli investitori stranieri, danneggiando l’interesse pubblico.

11) Aprire un’indagine sulle irregolarità commesse e sulle responsabilità dei decisori coinvolti nelle procedure, considerato il configurarsi di ripetute anomalie con dinamiche che richiamano quanto avvenuto a proposito del Mose.

In attesa della obbligatoria messa a norma delle procedure relative alla SPV, indicate nei punti sopra citati (a partire da quelli indicati come prioritari), e considerando lo stato di incertezza e di grave irregolarità in cui versa il progetto SPV, si chiede l’immediata sospensione dei cantieri, onde evitare la prosecuzione dei lavori in un contesto altamente problematico, al fine di salvaguardare l’effettivo interesse pubblico, e di evitare l’irreversibilità di eventuali danni allo stesso.

Veneto, 5 luglio 2018

Riferimenti
Due articoli di storiAmestre che ripercorrono le vicessitudine dell'opera: “Paroni a casa nostra”. Costi e oneri della superstrada pedemontana e Quel pasticciaccio brutto. Una lettera sulla Superstrada Pedemontana Veneta. Sui danni arrecati dal project finanzing si legga: Pedemontana, per lo Stato una bomba da 20 miliardi; sull'introduzione del pedaggio per far fronte ai costi dell'opera: Pedemontana Veneta, una nuova tassa per coprire il fallimento del project financing. A proposito delle previsioni sbagliate sui flussi si legga l'articolo di Carlo Giacomini, dove si possono trovare altri riferimenti. Infine un articolo relativo alle tonnellate di immondizia portati alla luce dalla costruzione della superstrada: Pedemontana Veneta, la superstrada costruita sui rifiuti: “Bloccate i lavori e bonificate”.

Sembrerebbe (il condizionale è necessario) che il governo, con il ministro Toninelli, voglia riconsiderare il progetto del nuovo aeroporto di Firenze che sarà esaminato nella Conferenza di servizi convocata per il 7 settembre cui parteciperanno 32 enti interessati.

Sembrerebbe (il condizionale è necessario) che il governo, con il ministro Toninelli, voglia riconsiderare il progetto del nuovo aeroporto di Firenze che sarà esaminato nella Conferenza di servizi convocata per il 7 settembre cui parteciperanno 32 enti interessati. Atto finale che chiude le procedure e dà il via libera il progetto, secondo i vertici di Toscana Aeroporti, atto dovuto, ma di valore puramente procedurale secondo il Ministro, che invece vuole attendere i risultati di un’analisi costi e benefici, per l’aeroporto come per altri progetti di grandi opere.

Questo atteggiamento che sembra sensato (qui non voglio entrare in merito di altri comportamenti insensati del Ministro e del governo di cui fa parte) ha scatenato la reazione bipartisan del Pd e di FI, uniti come sempre nella lotta, in gara a chi fa da migliore supporto al miope, oltre che colluso, establishment locale. Miope perché non ha una minima idea di cosa significhi lo sviluppo di cui parla in continuazione e senza cognizione, supportato da una stampa locale che cade nel ridicolo quando propone (intelligente provocazione, secondo i sodali) addirittura un referendum sull’opera, dopo che Enac, Toscana Aeroporti e Regione Toscana hanno negato pervicacemente il dibattito pubblico, prescritto per legge. Niente dibattito, nessuna partecipazione, ma un referendum tra cittadini ignari cui sarebbe chiesto se vogliono il nuovo aeroporto che porta sviluppo e occupazione o preferiscono la situazione attuale che significa arrendersi alla nemica Bologna: questo sì che è autentico populismo!

Vediamo di riassumere per gli ignari cittadini, in attesa del referendum, solo alcuni punti cruciali che rendono illegittimo e non vantaggioso (se non per Toscana Aeroporti) il nuovo aeroporto, che non è un modesto ampliamento di quello esistente come continua a ripetere il Presidente Enrico Rossi.

Primo punto: l’iter precedente e seguente la Valutazione di impatto ambientale del progetto è stato illegittimo già a partire dalla variante del Pit di previsione della nuova pista annullata dal Tar della Toscana, per proseguire con la presentazione a Via da parte di Enac e Toscana Aeroporti di un Masterplan e non di un progetto definitivo come prescriveva la legge. Per sanare alcuni dei molti provvedimenti illegali, già segnalati in altri articoli su eddyburg, il governo Gentiloni ha approvato, ad hoc, nel 2017 il Decreto legislativo 104 che ha comportato la decadenza di non poche delle 142 prescrizioni cui era condizionato il parere favorevole alla Via. Ma non basta: come ciliegina finale, la Regione Toscana ha già annunciato per bocca del suo Presidente l’intenzione di utilizzare la Conferenza di servizi per provvedere a una variante automatica del Pit che vanifichi la sentenza del Tar, anche se la legge urbanistica regionale non lo consente, essendo in gioco beni paesaggistici e culturali: non solo erranti, ma anche perseveranti.

Secondo punto: tra le modifiche alle prescrizioni permesse dal DL 104 vi è stata anche la composizione di un osservatorio preposto a controllare la realizzazione dell’aeroporto, dove sono stati eliminati i sindaci dei Comuni coinvolti, a favore di un unico “rappresentante locale”, Dario Nardella, Sindaco della Città metropolitana, strenuo sostenitore del progetto.

Il terzo punto è una balla: sono stati concessi 150 milioni pubblici per la realizzazione dell’aeroporto che andrebbero perduti. In realtà 50 milioni sono stati stanziati (non concessi), gli altri solo promessi. Poiché la normativa dell’Unione Europea non permette aiuti statali, sia per la tipologia dell’aeroporto di Firenze, sia per la sua prossimità a Pisa e Bologna, si è inventato l’escamotage di finanziamenti che andrebbero a opere complementari. Spacciando come complementare o di mitigazione la costruzione del nuovo Fosso Reale e di altre opere che solo la nuova pista rende necessarie, ma che attualmente funzionano egregiamente.

Quarto punto: il nuovo aeroporto migliorerà la situazione ambientale della piana: non si vede come, dal momento che sono previsti il raddoppio dei voli e vettori di maggiore dimensione (è noto che l’aereo è il mezzo di trasporto di gran lunga più inquinante a parità di chilometri percorsi).

Infine c’è la favola che sta alla base delle infinite lamentazioni, polemiche e invettive che da ogni parte vengono rivolte a chi mette in dubbio l’utilità pubblica di un nuovo aeroporto e preferirebbe il potenziamento di Pisa, già aeroporto internazionale, e un rapido collegamento tra questo e Firenze: la favola è “chi è contro il nuovo aeroporto è contro lo sviluppo di Firenze e della Toscana”. Questo mantra viene ripetuto quotidianamente dai politici del Pd e di FI in attività, dal sottobosco politico che ruota attorno ai partiti, dagli amministratori regionali, da Confindustria, dal Presidente di Firenze Fiera (“se non si fa l’aeroporto io non investo”, come se si trattasse di soldi suoi), un ritornello amplificato dalla stampa locale, pronta a raccogliere ogni esternazione in proposito, da personaggi conosciuti e sconosciuti.

Lo sviluppo, che sarebbe il grande beneficio dell’aeroporto di Firenze, è stimato dall’Irpet in 2.500 posti lavoro. Ammesso che questa stima sia credibile, al netto dei progressi tecnologici che intercorreranno nei prossimi anni, si tratterà per lo più di addetti ai bagagli, baristi, commessi, camerieri, taxisti e simili. E’ questo il lavoro qualificato di cui ha bisogno Firenze come l’Italia? E quale sarà l’impatto sull’economia fiorentina di masse di turisti che arriveranno con i voli low cost consentiti dalla nuova pista? Firenze ha realmente bisogno di gonfiare un’economia basata sulla rendita medicea? Di incrementare il turismo mordi e fuggi? Si vuole ulteriormente penalizzare i residenti dal centro storico a favore degli affitti turistici? E’ questo il conclamato sviluppo?

Se i fautori dell’aeroporto si informassero, dovrebbero sapere che in tutti i paesi di capitalismo avanzato (il nostro è tristemente arretrato), il capitale intangibile - fatto di ricerca e sviluppo, di informazione, di conoscenza tacita e formalizzata, di condizioni favorevoli alla creazione cluster tecnologici - ha ormai da più di 25 anni superato nello stock degli investimenti il capitale materiale, fatto di edifici, macchine, infrastrutture; che capitale intangibile e occupazione qualificata sono strettamente legati; che la spesa pubblica italiana per l’istruzione come quella privata per ricerca e sviluppo è la metà di quella europea con una modestissima crescita annuale; che siamo penultimi nell’UE per numero di laureati seguiti solo dalla Romania; che alla base di uno sviluppo che produce lavoro di qualità, vi è l’economia della conoscenza. E se non leggono e non si informano, per lo meno dovrebbero comprendere le ragioni della vitalità dell’economia dei distretti che pure hanno sotto il naso. Non si tratta solo di flessibilità, decentramento, capacità di adattarsi ai cambiamenti della domanda. I distretti, sono stati storicamente e sono tuttora formidabili produttori di ciò che gli economisti definiscono “conoscenza tacita”. Un processo cumulativo, aperto, socialmente, condiviso, che ha portato a risultati di eccellenza. Ma i nostri preferiscono le infrastrutture pesanti e gli sconvolgimenti territoriali e ambientali, perché così vogliono i politici e le banche. Si preoccupano dei migranti in entrata e non dei 50.000 giovani, di cui 10.000 laureati che ogni anno lasciano l’Italia: perché sono choosy, vale a dire che non vorrebbero per tutta la vita trasportare pizze a domicilio e fare i camerieri stagionali. E purtroppo non hanno la fortuna di fare parte dell’establishment e di goderne eredità e rendita politica.

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Dialoghi Mediterranei, luglio 2018. Il ritratto di una città al voto, che vede emergere una nuova classe politica di donne e giovani. E' la sfida dell'anima più genuina e solidale dei quartieri popolari contro sviluppismo e speculazione. (i.b.)
Dai quartieri di periferia arrivava la gente con degli striscioni: sopra c’era scritto il nome del quartiere. (Chiara Sebastiani, Una città una rivoluzione)

Lontano da shâr’a Burghiba …

La Rivoluzione Tunisina del 2011 nasce nelle aree interne ma si realizza nella capitale; il disagio sociale che la sostiene nasce nelle campagne ma si esprime nelle città. I suoi martiri sono caduti nei sollevamenti delle periferie ma i suoi luoghi simbolici sono gli spazi pubblici del centro di Tunisi: shâr’a Burghiba – che viene ancora chiamata l’Avenue come ai tempi del Protettorato francese – la Kasbah, il Bardo. Sette anni dopo, la scommessa delle elezioni municipali è quella di ridare voce ai protagonisti collettivi della rivoluzione: i quartieri.

I quartieri di Tunisi, fuori da quello che gli urbanisti chiamano “l’ipercentro”, si dividono nell’immaginario collettivo in quartieri pregiati e quartieri malfamati. Nei primi rientrano la mitica banlieue nord con i pittoreschi villaggi di Sidi Bou Said e La Marsa e le zone residenziali dei ceti medio-alti di El Menzah, Ennasr, La Soukra; nei secondi i quartieri popolari densamente abitati, spesso originati da insediamenti abusivi, o da progetti di edilizia pubblica, lontano e mal collegati, come i famigerati quartieri di Ettadhamen e Dwar Hicher (Lamloum 2015). Ma spesso gli uni e gli altri sono contigui e quando vi sono scontri nei ghetti popolari l’acre odore dei lacrimogeni invade i palazzi sulle colline circostanti. E soprattutto vi sono ovunque, tra questi due estremi di cui si occupano i media, quartieri invisibili e abitanti senza voce: la città reale, lontano dalla città immaginale. L’area metropolitana di Tunisi – comunemente chiamata “le Grand Tunis” – conta oltre due milioni e mezzo di abitanti e si estende su quattro governatorati: Tunisi, l’Ariana, Ben Arous e La Manouba

Negli ultimi decenni lo sviluppo impetuoso dell’urbanizzazione le ha conferito una fisionomia nella quale competono due modelli diversi: un po’ Parigi – nel restyling della vecchia città coloniale come nello sviluppo di linee metropolitane di superficie – un po’ Los Angeles – nel disordinato proliferare di un periurbano metà speculativo e metà abusivo sorretto dall’uso dell’automobile mentre le pur pregevoli opere di riqualificazione dell’antica medina, storicamente il cuore della città, non la sottraggono al rischio di spopolamento e gentrificazione (Chabbi 2016). In linea di massima, tra Tunisi e L’Ariana si trovano le aree residenziali pregiate e tra Ben Arous e La Manouba i quartieri popolari, in realtà zone molto ricche e molto povere si mescolano non solo all’interno dei governatorati ma negli stessi comuni. Ora le elezioni municipali costringeranno a pensare la metropoli in termini diversi. Perché quei quartieri dalle forti identità da entità puramente sociali sono improvvisamente diventate entità politiche.

Prima della Rivoluzione le municipalità – che non esistevano in tutto il Paese ma solo nelle zone più urbanizzate – avevano scarsa autonomia e scarse risorse essendo sottoposte alle direttive dello Stato centrale e dei suoi organismi periferici (i governatorati) e controllate dal partito unico Rcd del presidente-dittatore Ben Ali. Il voto per le rappresentanze locali, come per quelle nazionali, era una farsa che assegnava maggioranze bulgare allo stesso Rcd estromettendo ogni tentativo di presenze politiche alternative. Come risultato la popolazione locale faceva resistenza non pagando le tasse, praticando l’abusivismo edilizio e non andando a votare (Turki, Loschi 2017).

Dopo la Rivoluzione il decentramento politico è stato iscritto nella Costituzione. Si è proceduto a municipalizzare l’intero territorio creando nuove municipalità e rivedendo i confini amministrativi precedenti, si è adottata una legge elettorale accentuatamente proporzionale (prevede una soglia di sbarramento minimale del 3% e un meccanismo di distribuzione dei resti che favorisce le liste minori) e fortemente innovativa (obbliga le liste a rispettare l’alternanza tra candidati uomini e donne e la parità tra capilista dei due sessi, prevede quote obbligatorie di giovani e incentivi per l’inserimento di candidati portatori di handicap) e si è infine adottato (a campagna elettorale già iniziata) il Codice delle collettività locali che stabilisce concretamente poteri e risorse dei nuovi comuni. Si vota su liste bloccate ed i Consigli municipali contano da 12 a 60 membri a seconda del numero di abitanti del Comune. Il ruolo di sindaco coincide con quello di Presidente del Consiglio municipale: questo viene eletto dal Consiglio tra i capilista delle liste che hanno ottenuto uno o più seggi.

Il 6 maggio nelle 350 municipalità ha votato il 35,6% degli aventi diritto. Il grande vincitore è stato il partito islamico Ennahdha (30%) seguito a buona distanza dal suo partner di governo laico-statalista Nidà Tunès (23%) e, a notevole distanza, da due partiti della sinistra, il vecchio Fronte popolare e il recente Courant démocratique mentre tutti gli altri hanno raccolto briciole. Le cosiddette liste “indipendenti” (che noi chiameremmo liste civiche) hanno raccolto nell’insieme il 33% dei voti. Salutate dai media come il vero “primo partito”, esse sono in realtà un coacervo di emanazioni partitiche e resti del vecchio Rcd, notabili locali e giovani entusiasti, funzionari municipali e mondo associativo, vecchie volpi della politica e giovani e donne reclutati per riempire i rigorosi requisiti delle quote. Ciò non toglie che spesso nei comuni potranno essere l’ago della bilancia.

Questo è il resoconto di un viaggio nei quartieri periferici della capitale prima e dopo le elezioni del 6 maggio: nel tentativo di cogliere voci che raramente arrivano ai media mainstream. Qui, in tre brevi settimane di campagna elettorale, membri di partiti e membri della società civile si sono sforzati di spiegare ai loro concittadini – ai loro vicini di casa e di quartiere – che queste elezioni possono essere utili. Sono riusciti a convincerne solo poco più di un terzo. Ma quel terzo ha permesso di insediare per la prima volta nel Paese le cellule base della democrazia.

Verso sud: tra mare e montagna

Se la banlieue nord è nota per le sue località turistiche, le sue case nascoste da rampicanti di gelsomino e buganvillea, il suo patrimonio architettonico e i suoi alberghi di lusso, la banlieue sud, nel governatorato di Ben Arous, è associata al porto di Radès, a zone industriali, a nuovi insediamenti residenziali dove i prezzi scendono man mano che aumenta la distanza dal centro e dal mare. Ciononostante, non è affatto una regione omogenea. Il nucleo storico ingloba le vecchie residenze coloniali, le graziose villette di Mégrine e le ville pregiate del capoluogo Ben Arous; lungo la zona costiera proseguendo oltre il porto industriale si sgranano gli antichi villaggi di Ezzahra, Hammam Lif, Hammam Chatt; nelle aree interne i nuovi insediamenti abitativi di Mornag e El Mourouj, antiche zone agricole di vigneti, e ancora più all’interno i quartieri popolari di M’hamdiya e Fouchana.

Ben Arous è, in primo luogo, il prodotto del mostruoso sprawl urbano della capitale. Se i centri lungo la costa sono oggi serviti da una modernissima linea metropolitana, alle aree interne si accede solo con un sistema di autobus fatiscente oppure con l’automobile privata, scelta inevitabile per tutto il ceto medio e anche parte delle classi popolari. Lungo la superstrada che corre verso sud si alternano zone industriali, residui di zone agricole dove pascolano le pecore, nuclei abitativi cresciuti disordinatamente, spesso illegalmente, casette basse, negozi di frutta e verdura e – residui anch’essi degli insediamenti coloniali – insegne che recitano “Pharmacie” o “Pâtisserie”, il tutto dominato dalla polvere e da montagne di sacchetti di plastica.

Di prima mattina, lo svincolo per Bou Mhel el-Bassatine è un collo di bottiglia dove si ingolfano, a suon di clacson automobili e camion diretti alla zona industriale; il cantiere di un nuovo ramo di superstrada ha ridotto l’unica carreggiata di accesso al piccolo comune dell’interno. Davanti ad un nucleo commerciale che comprende un centro medico, un negozio di articoli sportivi e un caffè mi accoglie Takwa Trabelsi: ha trent’anni, una laurea in ingegneria informatica e una sfilza di master internazionali in management e conflict resolution. Ha creato e dirige uno studio di consulenza per decision-makers VIP a livello internazionale e fa formazione per leader nella regione MENA. Poi è anche sposata, ha un figlio e un secondo in arrivo. A Bou Mhel el-Bassatine ci è nata ed è stata presentata come capolista dal partito Ennahdha. Ma chi conosce questo piccolo comune che dista appena dieci chilometri dal centro di Tunisi? Ha 46 mila abitanti, zero attrazioni turistiche, zero imprese importanti. La sua popolazione è fatta di “molto ricchi e molto poveri”. I primi abitano nella zona collinare – alzando lo sguardo dalla strada polverosa ci si accorge che poco lontano, bianche villette si annidano nella macchia di vegetazione verde scura. I secondi abitano vaste aree di alloggi abusivi dove mancano i servizi, il verde, perfino l’acqua. Il traffico è uno dei problemi principali di questo pezzo di metropoli – vi contribuiscono la zona industriale, il pendolarismo di studenti e lavoratori – insieme a quello dei rifiuti. Gli spazi pubblici “sono pari a zero”: come in tutti quartieri popolari

Qui ha votato il 34% degli iscritti. Ha vinto Ennahdha che con il 30% si aggiudica 7 seggi, mentre Nidà Tounès con il 21% ne prende 5. Ma 5 seggi spettano anche alla lista indipendente “Al mustaqlat Bou Mhel el-Bassatine” arrivata seconda con il 22% che potrebbe allearsi con Courant démocratique (15% e 4 seggi) e i laico-progressisti dell’Unione civile (10% e 3 seggi). Si formerebbe così uno schema di 12 a 12, riflesso di quello politico nazionale. Il ruolo di sindaco spetterebbe a Takwa, capolista della lista vincente ma dipenderà dal formarsi di alleanze politiche. «Ma noi non vogliamo fare politica – dice Takwa – vogliamo fare».

Fare cosa? Se ci spostiamo sulle zone costiere cambiano il paesaggio, la composizione sociale, gli schieramenti politici, eppure alla fine troviamo le stesse priorità. Il comune di Hammam Chatt, sui 40 mila abitanti anch’esso, è assai più distante di Bou Mhel el- Bassatine dal centro di Tunisi (venticinque chilometri) ma ci si arriva comodamente con un treno metropolitano elettrificato, dotato di moderne carrozze con aria condizionata. Qui lungo la strada principale si allineano ridenti caffè e salons de thé, tutti “misti”, ovvero “per famiglie”, e molto frequentati dai giovani. I marciapiedi, bordati da cespugli e fiori ornamentali, sono un invito a praticare lo spazio pubblico. Il comune è una località balneare, ha una università, un polo tecnologico, un parco naturale in progettazione, una zona industriale, un pezzo di parco nazionale. È una città di classe media – con disparità sociali – e sono aspirazioni di classe media quelle che la popolazione esprime.

Queste aspirazioni hanno trovato la loro rappresentanza in Fethi Zagrouba, capolista della lista indipendente “Medinatna”, ingegnere chimico sulla cinquantina, docente universitario, con specializzazioni scientifiche, pedagogiche e manageriali ottenute in Francia, che di Hammam Chatt è stato consigliere e vice-sindaco tra il 1995 e il 2005, e poi di nuovo nel 2010 – giusto in tempo per «assicurare la continuità della gestione» nel 2011, al momento della Rivoluzione, assumendo il ruolo di sindaco ad interim. Nella sede della sua lista – un locale nuovo e ben attrezzato, con lungo tavolo, bandiere nazionali, pacchi di volantini – ha convocato i principali candidati e i responsabili dei gruppi di lavoro che lo ascoltano attentamente mentre si servono i rinfreschi e in un angolo dolci e bibite sono pronti per la festa di chiusura campagna nel pomeriggio.

«Avevo deciso di costituire una lista indipendente, con degli amici, avendo constatato il degrado continuo della città, dal punto di vista delle infrastrutture, dei programmi culturali, delle opportunità per i giovani, dell’esecuzione dei lavori. Insomma, tutti i sintomi di una cattiva governance. Abbiamo ritenuto che i partiti politici non possiedono le risorse intellettuali, scientifiche, accademiche necessarie. Abbiamo deciso di fare una lista di giovani, quadri, tecnici».

Una lista «basata sulle competenze di architetti, ingegneri, agricoltori, formatori professionali, insegnanti, funzionari del Ministero degli Interni, infermieri, medici, personalità dotate di esperienza», precisa Fairouz Ghariani, ventinovenne dottoranda in Chimica, sposata con due bambini piccoli, attiva in diverse associazioni scientifiche nonché nel consiglio municipale dei giovani (“Jeune Chambre”), candidata e responsabile della commissione femminile che aggiunge: «Noi giovani abbiamo bisogno di essere guidati. Io avevo sentito parlare di Fethi. Il mio amore per la comunità mi ha spinto ad impegnarmi nel suo movimento».

Sul metodo di formazione della lista Fathi spiega: «Abbiamo selezionato gente conosciuta e qualificata. Hanno costituito ciascuno intorno a sé dei nuclei che si sono sviluppati in cellule di quartiere. Il compito di queste è stato di selezionare i profili adatti alle candidature. Non c’è posto per interessi particolaristici». Aggiunge: «Siamo strutturati come un partito politico locale ma in modo informale». Una struttura che ricorda il vecchio Rcd. Sulla matrice politica della lista indipendente peraltro Zagrouba è esplicito «Nidà Tounès era per noi era un faro luminoso ma poi ha formato il governo con Ennahdha …». Il programma della lista è il solito: «Abbiamo ascoltato i cittadini. Vogliono infrastrutture, servizi, pulizia». Fethi vi aggiunge «la buona gestione e l’autofinanziamento tramite partenership pubblico-privato e cooperazione internazionale». Alla vigilia delle elezioni Zagrouba è sicuro: «Quando torna ci troverà al municipio …».

Aveva ragione. A Hammam Chatt il tasso di partecipazione è stato del 36%, e Medinatna, con il 27% dei voti, si è piazzata al primo posto seguita a distanza da Nahdha (22%) e Nidà (21%). Courant démocratique 14%, Fronte popolare 6%. Fairouz, da neo-eletta, spiega:

«Faremo una coalizione con Courant démocratique e Front populaire. Abbiamo 12 seggi. Nadha, Nidha e un’altra lista indipendente (Al-tawasl) ne contano 12 anche loro ma a parità di voti viene eletto il capolista più giovane. Quindi Fethi sarà sindaco certamente. Ci organizzeremo in commissioni. Chiameremo i cittadini a partecipare. Deve essere chiaro però che la responsabilità spetta agli eletti. E ai tecnici. Tra le nostre priorità la pulizia della città. C’è un grande bisogno di razionalizzazione. È stata assunta troppa gente. Saremo un po’ autoritari. Se non c’è rendimento verranno licenziati. Così scenderà l’impatto dei salari sul bilancio comunale».

Mohammed Amine Sdiri, che a Hammam Chatt è stato candidato non eletto nelle liste di Ennahdha, non vede le cose in termini molto diversi. Questo ingegnere dei trasporti, nativo di Hammam Chatt ma espatriato per formarsi in Francia, attualmente consulente per il Ministero dello Sviluppo, rappresenta quella nuova classe politica che ha incominciato a emergere in queste elezioni. Il discorso è sempre quello. «Abbiamo cercato di ascoltare la gente. Vogliono la pulizia. Dei programmi e degli spazi culturali. Dei servizi bene organizzati». Anche Sdiri pensa che il problema principale sia «l’organizzazione del lavoro municipale, molto carente». E che occorra «essere realisti e puntare sulla buona gestione delle risorse municipali». Con questa sostanziale convergenza di vedute è possibile un rigido schema governo/opposizione? Sdiri non lo pensa.:
«la formazione delle coalizioni – i negoziati sono ancora in atto – avrà rilevanza per l’elezione del sindaco. Poi si punterà a lavorare insieme. Sì, è vero, in liste indipendenti come Medinatna c’è di tutto, anche ex quadri Rcd o simpatizzanti senza tessera. Ma per il futuro ciò che conta veramente è che in comuni come il mio ci conosciamo tutti. Ognuno di noi ha amici e parenti sparsi in liste diverse. Io per esempio ho una cugina in una lista, un amico d’infanzia in un’altra …».

Sdiri era ben consapevole di essere candidato in un comune dove Ennahdha è minoritaria. Prima delle elezioni dichiarava: «Sono molto fiero e felice di quanto avviene in Tunisia. Sono sicuro che siamo sulla buona strada. È quello che mi ha convinto ad abbandonare la mia carriera di giovane manager bene avviata all’estero, e a tornare in patria». Dopo le elezioni la sua posizione non cambia: «È importante che queste elezioni abbiano avuto luogo. Le assemblee municipali sono il pilastro della democrazia. Noi di Ennahdha siamo soddisfatti».

Si tratta di una soddisfazione che contrasta con la delusione di altri come quella di Wided Sadfi, 38 anni, docente universitaria in Diritto e Finanza pubblica, candidata nel comune di Hammam Lif , dove ha sempre vissuto, nella lista indipendente “Nabdih Hammam Lif” che significa più o meno: “Il battito del cuore di Hammam Lif”. Il nome della lista e il suo logo (un cuore che racchiude montagna e mare) rivelano insieme l’entusiasmo e l’ingenuità dei suoi fondatori. Il comune, che fino a poco tempo fa inglobava anche Hammam Chatt ha un passato importante di località balneare e termale celebre e di ex residenza beylicale. Cittadina animata con una bella spiaggia, dominata dall’inconfondibile profilo del Boukornine, il monte dalla doppia punta, ha sofferto negli ultimi anni di un forte degrado ambientale.

Il tasso di partecipazione al voto qui è stato superiore alla media nazionale, raggiungendo il 38%. Ma a differenza di Bou Mhel el-Bassatine e di Hammam Chatt in questo comune che conta anch’esso sui 40 mila abitanti ci sono state ben 11 liste a contendersi 24 seggi. Nidà Tunès è arrivata in testa con il 34% dei voti e nove seggi, seguita da Ennahdha con il 28% e sette seggi: di che assicurarsi una comoda maggioranza in consiglio. Per il resto, il voto si è polverizzato in una pletora di listarelle indipendenti, riuscendo a mandarne in consiglio ben sei di cui cinque con un seggio ciascuno. Tra queste la lista di Wided che era la numero 2 – da cui la delusione, simile a quelle di molti esponenti di liste come questa nate “dal basso”. Racconta:

«Abbiamo deciso tra noi di fare una lista indipendente di giovani che si conoscono, vicini di casa, amici. Con poche risorse perché tra noi non ci sono uomini d’affari ma insegnanti, intellettuali, studenti. Ci siamo prefissi il compito di spiegare la governance locale. Ma abbiamo discusso soprattutto i problemi della città».

Ne è risultato un programma «non ideale bensì realista» aggiunge come tutti. Anche le priorità sono sempre quelle: la nettezza urbana e le infrastrutture, cui si aggiunge il patrimonio culturale, il risanamento della spiaggia, e risorse per il tempo libero e lo sport dei giovani. E come tutti Wided riconosce che «il budget municipale è piccolo, occorre lavorare sull’investimento privato e sulle partnership pubblico-privato». E come tante piccole liste, “Nabdih Hammam Lif” alla fine avrà mandato in consiglio solo il capolista il quale – come in molte liste indipendenti – è un uomo e non è giovane.

Le aree interne: tra città e campagna

Quando ci si allontana dalla costa si entra nelle “aree interne”, ovvero «quelle aree significativamente distanti dai centri di servizi essenziali (di istruzione, salute e mobilità), ricche di importanti risorse ambientali e culturali e fortemente diversificate per natura e a seguito di secolari processi di antropizzazione» [1].

M’hamdiya, nel governatorato di Ben Arous, è rappresentativa dell’estensione urbana che divora pezzi di campagna, seguendo l’andamento del mercato fondiario e lasciando larghe macchie di zone rurali – uliveti, pascoli – oltre le quali riemerge la città. In questo quartiere a 16 chilometri dal centro, in direzione sud-ovest, che cela resti importanti di archeologia romana e fasti beylicali totalmente ignoti al turismo, si arriva esclusivamente in macchina, con taxi collettivi o autobus radi e sovraffollati. I suoi mercati sono intensamente frequentati, così come le moschee i cui minareti spuntano ovunque. Come in molti quartieri popolari l’identità islamica – in senso non solo religioso ma politico, sociale e culturale – è forte. Le notti del mese di Ramadan – iniziato subito dopo le elezioni – a M’hamdiya come nel comune adicente di Fouchana le strade sono dense di gente, famiglie, bambini, giovani, dalle moschee si eleva nelle strade il salmodiare delle preghiere notturne di attarawih, mentre nelle distese infinite di caffè siedono gli uomini e di fronte alle innumerevoli bancarelle si assiepano famiglie con bambini.

Con i suoi 64 mila abitanti M’hamdiya ha diritto a 30 seggi. Sabato pomeriggio, la vigilia delle elezioni, il seggio di Nida’ Tunes, che si trova accanto all’ufficio di maître Zouari Abd al Hamid, notaio cinquantenne capolista locale, è effervescente. File di persone in attesa di istruzioni (come votare? con quali documenti?). Briefing dei giovani osservatori elettorali e rappresentanti di lista. Maître Zouari siede ad un scrivania di legno, alle spalle la bandiera della Tunisia e quella del suo partito. Spiega che non ha mai fatto politica prima – non aveva tempo – che si è deciso per rispondere alle pressanti richieste ricevute e perché pensa di poter portare qualche idea nuova al governo della città: cambiare i metodi di implementazione delle politiche, portare risorse aggiuntive con le partnership pubblico-privato. Da notaio che se ne intende aggiunge anche la sburocratizzazione dell’amministrazione. Il suo programma è lunghissimo ma in testa vi sono le stesse priorità che altrove: infrastrutture (strade, giardini pubblici, reti fognarie e acqua potabile) e servizi (sanitari e scolastici).

A M’hamdiya ha votato il 30% degli aventi diritto e non si è presentata una sola lista indipendente. Ennahdha prende il 60% tondo dei voti e porta a casa 18 seggi mentre Nida’ Tunes lo segue a grande distanza (il 15% e 5 seggi). Gli altri sette seggi sono spartiti tra tre partiti minori – come se in questo quartiere non ci fosse spazio per trastullarsi con liste civiche dai nomi più o meno fantasiosi che sorgono invece nei quartieri piccolo borghesi.

El Mnihla, altro quartiere grande e popoloso (oltre 80 mila abitanti e 30 seggi) sorge nella direzione opposta, a nord-ovest, nel governatorato dell’Ariana, dove sono i quartieri eleganti di El Menzah, La Soukra e Ennasr ma dove si trova altresì, a soli sei chilometri dal centro, il famigerato quartiere di Ettahdhamen che deve la sua cattiva reputazione tanto alla presenza di furto e spaccio quanto a quella di gruppi di salafisti radicali i quali a furto e spaccio (e all’alcool) fanno la guerra anche passando a vie di fatto. Di Ettadhamen la nuova municipalità di El Mnihla faceva parte fino a recentemente. Dal centro una linea metropolitana di superficie che risale agli anni ’90, dotata di mezzi moderni, attraversa Ettadhamen e si ferma a Intilaka, importante hub urbano con mercato alimentare e mercato dell’usato, una varietà di negozi e anche giardinetti. Da Intilaka a Joumhouria, frazione di El Mnihla, si può andare a piedi ma occorre circa mezz’ora. L’alternativa sono i taxi collettivi o individuali, poco frequenti ambedue. La passeggiata si snoda in un’area urbanizzata, perlopiù fatta di piccole case o villette che denotano livelli variabili di benessere, talvolta con la ricerca di un tocco gentile nella decorazione delle porte, nelle piante davanti all’uscio o sui muretti di separazione. Ci sono scuole elementari e piccoli chioschi di bibite ma l’unico spazio pubblico sono i soliti caffè per soli uomini che durante il Ramadan si riempiono dopo l’iftar mentre nelle strade giovani donne camminano spedite trascinandosi al seguito come un trolley una bimbetta per andare a sedersi su qualche muretto in compagnia di altre donne.

El Mnihla comprende quartieri lussuosi come i recenti Jardins d’El Menzah e Ennasr, quartieri molto poveri come Achaich, Basatine e Sanhaj, e quartieri intermedi come Joumhouria e Rafeha. I quartieri più ricchi non sfuggono al degrado delle infrastrutture e dell’ambiente mentre quelli più poveri possono essere sprovvisti di acqua potabile, reti fognarie e strade asfaltate e ovunque l’abusivismo accresce i problemi. È di Joumhouria un’altra candidata di lista indipendente, anche lei giovane e entusiasta, anche lei votata alla delusione: Amna Akaichi, 27 anni, studentessa di Giurisprudenza e Scienze politiche. Anche la sua lista nasce dal basso, con un altro nome che riflette entusiasmo ed ingenuità: Nahm, nastatiy’ ovvero Yes we can. È stata creata da giovani che si sono conosciuti all’università.

«Ci siamo detti: incominciamo a fare noi qualcosa poiché nessuno dei partiti esistenti ci soddisfa. Per le risorse abbiamo contattato dei piccoli imprenditori. Abbiamo insistito perché nessun candidato appartenesse ad un partito. Come indipendenti abbiamo incontrato un sacco di problemi. Non solo con gli altri partiti ma anche … sì anche con gli osservatori elettorali».

Hanno fatto come tutti il porta a porta. Poi sono arrivati i risultati. Se M’hamdiya è sotto la media nazionale qui il tasso di partecipazione al 24%. Quasi metà dei voti (48%) vanno a Ennahdha (14 seggi) seguita a distanza da Nidà Tunes (23%, 7 seggi). La delusione di Amna (non eletta) è grande ma conta di continuare ad impegnarsi, anche grazie a quei due candidati della sua lista entrati in consiglio dove potranno fungere da raccordo con i loro elettori e concittadini.

Da Joumhouria vengono anche Rawda e Wided, 24 e 25 anni. Loro come tanti giovani del quartiere a votare non ci sono andate. Lavorano ambedue come assistenti in un centro sociale per malati di Alzheimer che impiegano un’ora a raggiungere. Il loro disinteresse per queste elezioni è totale Esprimono la convinzione che tutti i politici intascano soldi frutto di corruzione. Ma si animano quando parlano del loro quartiere. Rawda mi mostra i luoghi della sua infanzia, la scuola, le strade che percorreva. Wided racconta di bambini che giocavano per strada con giochi improvvisati, rudimentali altalene, aquiloni fatti con buste di plastica, di merende a base di pane olio e zucchero, di frutta raccolta dai muretti, di maschietti che per lei erano come fratelli e di un padre che la lasciava libera perché la voleva forte e indipendente. Lamenta che oggi non è più così, internet e smartphone hanno prodotto isolamento, il consumismo dilaga e le relazioni tra ragazzi e ragazze hanno perso la loro innocenza. Ciononostante le due ragazze il loro quartiere lo amano, caldo luogo di intense amicizie e di forti identità. Non sognano affatto di cambiare quartiere ma, caso mai, paese.

Verso ovest, infine, in direzione della montagna e del confine algerino, i quartieri di edilizia intensiva formale e informale lasciano il posto alla campagna in un paesaggio dove si alternano lunghe distese di zone agricole – in parte intatte – oltre le quali riappare una città fatta di casette basse e piccole botteghe lungo le strade principali dei quartieri, e di villette ora modeste ora più eleganti nelle viuzze secondarie. È questo il tipico paesaggio di Chawatt, frazione di Jdeida, un comune di 45 mila abitanti, a venticinque chilometri dal centro, che ha come simbolo il carciofo, prodotto caratteristico di questa zona ancora parzialmente agricola (un gigantesco carciofo in pietra troneggia in mezzo alla rotatoria di accesso alla città). Il comune comprende tre settori, Jdeida vecchia, Jdeida nuova e Chawatt.

Hassan Korbaj ha 65 anni. Originario del Sahel come Burghiba, di cui è un ammiratore, vive a Chawatt da quasi quarant’anni. Sposato e padre di cinque figli, è pensionato dopo aver fatto il quadro intermedio nei cantieri. Ai tempi di Burghiba era membro della cellula del Neo-destur di Chawatt. Ha abbandonato la politica ai tempi di Ben Ali, vi è tornato dopo la Rivoluzione, iscrivendosi a Nidà Tunes. Deluso dall’accordo tra Nidà e Nahdna decide con alcuni amici di fondare un nuovo partito e di presentarsi alle elezioni municipali con la lista ‘Il Lavoro e la Speranza’.

«Tutti eravamo impegnati in altri partiti – Nahdha, Nidà, Fronte popolare – che non hanno funzionato bene. Il nostro capolista è stato sindaco dal 2011 al 2017 quando è stato sostituito dal Ministro dell’Interno. La nostra lista comprende molti giovani e tutti i candidati sono diplomati: funzionari pubblici, ingegneri, insegnanti, tecnici. Li abbiamo selezionati per conoscenza personale o tramite le nostre reti». Il programma ha una ventina di punti ma come ovunque in testa c’è la pulizia, i servizi a rete (luce e gas, acqua potabile e fognature), le strade. Ma Korbaj sogna di una Casa della Gioventù, una biblioteca, un cinema perché «oggi i ragazzi si ritrovano nei caffè o semplicemente in strada, le ragazze in casa e molti giovani finiscono su una brutta strada». Per Korbaj si tratta di un problema sociale, non securitario: «Qui ci conosciamo tutti, si vive in famiglia, l’unico problema è il rumore dei ragazzi che giocano a calcio in strada di notte».

A Jdeida il tasso di voto si mantiene poco sotto la media nazionale (il 33%) e la lista indipendente “Il lavoro e la speranza” miete un buon successo, piazzandosi al secondo posto con cinque seggi, subito dopo Ennahdha (31%) che ne ottiene sette e prima di Nidà Tunès che con l’11% ne ottiene appena tre. Potrebbe dunque scardinare il duopolio Nidà-Nahdha ma non sarà necessariamente così e Korbaj, dopo le elezioni, è arrabbiato e deluso: «Nella nostra lista c’erano un paio di candidati che provenivano da Ennahdha, partito con il quale giuravano di non volere aver nulla a che fare. Ma adesso si preparano a dare i loro voti per il sindaco al capolista di Ennahdha».

I grandi progetti: tra il porto e il lago

Esiste infine una terza tipologia di quartieri metropolitani, quelli dalle connotazioni postmoderne sviluppatisi intorno ai “grandi progetti”, cioè quei complessi urbani pregiati – fronti d’acqua, malls di ultima generazione, parchi tematici, tecnopoli – realizzati con forti investimenti stranieri, attrattori di pubblici misti e tipici delle città globali (Cattedra 2010).

A breve distanza dal centro, Halk al Oued ovvero La Goulette è un nome che evoca un pezzo della vecchia Tunisi, pittoresco e tradizionalissimo, porto di pescatori, quartiere di operai e pescatori immigrati venuti dall’Italia e dalla Francia, dove musulmani, cristiani ed ebrei per secoli hanno condiviso i pasti conviviali che accompagnano le loro feste religiose, stazione balneare dove le sere estive famiglie di tutti i ceti affollano le trattorie, in cui si serve il pesce fritto e i brik, e i caffè lungo la spiaggia. Ma la municipalità di Halk al Oued è costituita oggi da tre quartieri: La Goulette, El Aouina e Lac 2. Al vecchio quartiere popolare sul quale la speculazione edilizia aveva già messo gli occhi ai tempi di Ben Ali si affianca così quello di Al Aouina, sorto su una zona di frutteti per fornire alloggi di edilizia residenziale abbordabile al ceto impiegatizio di stato, e quello dei nuovi centri residenziali e direzionali delle Berges du Lac, edificati sui terreni creati dalla bonifica della laguna di Tunisi, nati dal grande progetto di risanamento della laguna di Tunisi (Signoles 2006).

È proprio qui, nel complesso denominato Lac 2, che incontro Amine Riahi, candidato indipendente nelle liste di Ennahdha che ha appena 25 anni e si integra perfettamente nel paesaggio urbano post moderno di questo grande progetto fatto di grattacieli tutti vetri e specchi, brand di lusso e caffè di tendenza. Il suo ufficio è in un co-working super attrezzato che ospita business center, uffici di consulenza e startup – «Facciamo parte delle dieci top startup» mi comunica prima ancora di presentare il suo cv. Breve ma intenso: diploma in Economia industriale, specializzazione in risorse umane, master in management, impegno nella società civile a partire dal 2011 quando approfitta della ritrovata libertà di espressione per fondare l’“Associazione Tunisina dei Dibattiti” che promuove la cultura della discussione e dell’argomentazione, passione che si unisce a quella per gli sport elettronici. Ha sviluppato una rete che opera in tutto il Nordafrica e collabora con diverse università nell’ambito di competizioni di dibattito; lui stesso è giudice e rappresentante della Tunisia. Appartiene alla nuova generazione che si lascia il francese alle spalle (anche se Amine lo parla bene) privilegiando l’inglese e l’arabo letterario, competenze che ha esercitato anche nel programma “Young Arab Voices” della Fondazione Anna Lindh, volto a promuovere le capacità oratorie di giovani leader.

Il suo impegno politico è recente poiché pensa che «lo sviluppo di un giovane deve passare attraverso stadi successivi: prima quello personale, poi quello associativo, infine quello politico». Quindi «ho deciso che era tempo che mi occupassi di politica e poiché prevedo che vi saranno grossi cambiamenti a livello locale ho deciso di iniziare la mia carriera politica a quel livello. Ho cercato un partito in cui impegnarmi e la mia scelta è caduta su Ennahdha. È stata una scelta individuale, i miei genitori sono i miei consiglieri ma alla fine decido da solo. Ennahdha è l’unico partito bene organizzato, istituzionale, solido, con una democrazia interna».

A Halk el Oued ha votato circa un terzo degli iscritti e il grande vincitore è Nidà Tounès (35%) che distanzia molto Ennhdha (23%) seguito da vicino da due liste indipendenti con rispettivamente il 21% e il 15% dei voti. Ciò non turba Amine il quale non ha l’ingenuità dei giovani candidati di alcune liste indipendenti e conosceva perfettamente il contesto nel quale il suo partito lo candidava. L’esperienza della campagna elettorale per lui conta in sé stessa.
«Quando sono tornato in Tunisia dall’estero per prendervi parte ero davvero felice: fare il porta a porta, parlare con la gente, ascoltare, capire – il mercato, i prezzi, la luce, la sporcizia – è stato utile a me come a loro. Credo che una campagna elettorale si basi fondamentalmente sulle relazioni faccia a faccia, malgrado l’importanza dei media e dei social network. La gente mi conosce, sa che ho successo. La gente si fida di Ennhdha perché mette nelle sue liste persone che riescono in quello che fanno».

Tirando le fila

Cosa abbiamo appreso da questo giro nei quartieri della metropoli meno esposti ai media? In primo luogo è emersa una straordinaria somiglianza nel linguaggio dei candidati, come se tutti avessero fatto un briefing con le stesse società di formazione politica. Tutti promettono il riordino della macchina amministrativa e il reperimento di risorse aggiuntive tramite partnership pubblico-privato. Quasi tutti dichiarato che occorre «essere realisti» e «non fare troppe promesse». E quasi tutti i cittadini hanno chiesto la pulizia delle strade e lo sviluppo delle infrastrutture.

In secondo luogo è emersa una propensione al voto più alta nei quartieri di ceto medio che nei quartieri popolari della capitale. Nei primi inoltre si sono affermate le liste indipendenti mentre nei secondi tengono i partiti. In terzo luogo tutti concordano sull’importanza delle conoscenze personali. Ai fini dei risultati ciò che conta è quanto i candidati sono conosciuti e ciò che hanno alle spalle: partiti, reti, esperienza. In quarto luogo le elezioni, grazie ai meccanismi fondamentali della parità tra i sessi e delle quote giovani nella formazione delle liste, nonché del proporzionale puro nel sistema elettorale, sono state la palestra di una nuova classe politica in formazione fatta di donne e giovani alla loro prima esperienza. Infine le relazioni faccia a faccia sono state al cuore della campagna elettorale malgrado l’importanza dei media e dei social network.

Oggi che la metropoli tunisina corre il rischio di trasformarsi da città in conurbazione, e di veder scavare ulteriormente le fratture sociali, il compito di “fare città” appare affidato ai quartieri, soprattutto quelli che hanno conservato un’anima popolare o residui di solidarietà sociale. Le elezioni municipali saranno in grado di far rivivere queste due componenti essenziali della civitas, affinché non si riduca a urbs? Se uno cerca su internet notizie dei quartieri si imbatte in annunci di promotori immobiliari. Una narrazione dei quartieri che oggi manca potrebbe sorgere dall’intreccio di microstorie che hanno prodotto i primi comuni democratici nella storia del Paese.

Nota

[1] Cfr. Strategia nazionale per le Aree interne, UVAL, n.31, 2014; www.agenziacoesione.gov.it/opencms/export/sites/dops/it/documentazione/servizi/materiali_Uval/documenti/MUVAL_31_Aree_interne.pdf
Riferimenti bibliografici
Barthel, Pierre-Arnaud (2006), « Les Berges du Lac de Tunis : une nouvelle frontière dans la ville ? », Cahiers de la Méditerranée, http://archive.wikiwix.com/cache/?url=http%3A%2F%2Fcdlm.revues.org%2Fdocument1513.html
Cattedra, Raffaele (2010), « Les grands projets urbains à la conquete des périphéries », Les Cahiers d’EMAM, n. 19: 58-72.
Chabbi, M. (2016), Urbanisation et politiques urbaines dans le Grand Tunis, Tunis, Nirvana.
Lamloum Olfa e Ben Zina, Mohamed (a cura di) (2015), Les jeunes de Douar Hicher et d’Ettadhamen,Tunis, Arabesques
Turki, Yassine e Loschi, Chiara (2017), « Chantiers de reconstruction politique en comparaison: La « décentralisation » en période post-révolutionnaire en Tunisie et en Libye », L’année du Maghreb, n. 16: 71-88.

Tratto dalla pagina qui raggiungibile.





Nel lontano 2004 (solo 14 anni, ma sembra passato un secolo) Renato Soru e il suo movimento “Progetto Sardegna” vinsero le elezioni regionali sulla base di una campagna, svolta coinvolgendo tutta la popolazione dell’Isola, per opporre una politica basata sulla tutela delle qualità del territorio e del paesaggio agli interessi dei cementificatori. Quella campagna fu vittoriosa, e aprì una stagione in cui una pianificazione territoriale all’altezza delle meraviglie del paesaggio sardo si imposero a tutto il mondo come esemplari. Ma la stagione fu breve, e i successori di Renato Soru, su entrambi i versanti degli schieramenti politici, tornarono alle politiche distruttive di un passato devastatore. Fausto Martino, attivo sostenitore della politica di Soru nei suoi ruoli di cittadino consapevole, di studioso competente e di fedele servitore dell’interesse pubblico lancia oggi un grido d’allarme sulle azioni e le proposte degli attuali governanti dell’Isola. Segue il testo integrale dell’articolo, con il titolo enigmatico sotto il quale lo ha parzialmente pubblicato il quotidiano sardo (e.s.)

La Nuova Sardegna, 10 luglio 2018
La legge urbanistica non è un PUC
di Fausto Martino

«E se qualcuno sostiene che la pianificazione non occorre, sono costretto a ricordargli che non occorre alle classi dirigenti, ma alle altre sì». Lo diceva, già nell’’85, Italo Insolera per sottolineare come all’establishment, quello in grado di contrattare direttamente con i cacicchi dei partiti le proprie varianti urbanistiche, fosse addirittura di imbarazzo uno strumento urbanistico.

Deve essersene convinto anche Renato Soru se, nella recente intervista rilasciata a Luca Rojch della Nuova Sardegna, ha sostenuto l’urgenza di disporre di una nuova legge sul governo del territorio, proprio per incentivare la redazione dei piani urbanistici comunali e degli strumenti sottordinati, in coerenza con gli indirizzi e gli obiettivi del Piano Paesaggistico Regionale.

Per Soru, il Ddl va dunque approvato rapidamente, ma non proprio così come è stato licenziato dalla Giunta, tutt’altro. Dovrebbero infatti essere cancellati l’articolo 43 - quello, per intenderci, che consente l’approvazione in deroga al PPR dei progetti “di grande interesse” - e l’allegato A4, che incrementa surrettiziamente il dimensionamento dei piani comunali. Anche il famigerato articolo 31 dovrebbe essere riscritto in modo da limitare gli aumenti di cubatura dispensati a pioggia, magari trasformandolo in un “articolo ad hoc per l’adeguamento delle strutture esistenti”. Ma non basta. E’ l’intero corpus normativo che - parola di Soru - ha bisogno di una radicale cura dimagrante: “113 articoli sono un’esagerazione” – afferma – e il testo deve essere semplificato per renderlo comprensibile a tutti, e non solo ai soliti sacerdoti di regime, gli unici in grado di capirlo e, dunque, di piegarlo ai propri interessi.

Insomma, sembra proprio che, anche per Soru, il Ddl, così come proposto, non sia potabile e che, dunque, debba essere rivisitato integralmente, sia per emendarlo degli “errori” più macroscopici che per mutarne radicalmente struttura, lessico e obiettivi.

Quando poi, però, Rojch gli chiede se - come sostiene qualcuno (più d’uno in verità) - la legge dovrebbe essere “buttata via e riscritta”, Soru ripiega su un “no” secco. Poi cambia discorso e ribadisce con diplomazia che è necessario dare piena attuazione al PPR attraverso “una legge urbanistica compiuta”.

Insomma, una stroncatura in politichese. Diplomatica quanto si vuole, ma radicale e senza appello.

A parte i tatticismi politici e alcuni aspetti di merito (l’improponibile conservazione dell’art. 31), come dargli torto? Per quanto non lo dica chiaramente, Soru dimostra di aver ben colto la differenza che intercorre, o che dovrebbe intercorrere, tra legge urbanistica e piano, tra regole e loro attuazione, tra strumenti normativi e trasformazioni del territorio. Differenza sostanziale, ben nota a chiunque mastichi appena di urbanistica ma che, a partire dal tristemente noto “piano casa” Berlusconi – peraltro più volte ispiratore di opinabili leggi della regione Sardegna – si è attenuata, fino a quasi scomparire del tutto. Si è così aperta la strada a leggi-provvedimento che esorbitano dalle competenze regionali, violano il principio di sussidiarietà ed esautorano i comuni dalle loro funzioni più caratterizzanti, specifiche e delicate, quali quelle che attengono all’assetto e all’utilizzazione del proprio territorio.

Ed è proprio qui uno degli aspetti più critici del Ddl: anziché definire le regole chiare perché il Piano Paesaggistico Regionale - la cassaforte del patrimonio sardo - possa velocemente essere esteso alle aree interne e declinato negli strumenti urbanistici sottordinati, pone sullo sfondo questi irrinunciabili obiettivi strategici e - in assenza di qualsiasi pianificazione - determina direttamente rilevanti modifiche della parti più sensibili del territorio, in barba alla competenza dei comuni.

Si dirà – e lo ha detto più volte il presidente Pigliaru - “ma le strutture ricettive non sono competitive, devono essere adeguate agli standard internazionali”. Bene, forse è un problema reale, o forse no. Ma il rimedio, in quanto suscettibile di produrre danni incalcolabili e irreparabili, non sarà peggiore del male? E davvero temi così complessi possono essere affrontati con la filosofia del “liberi tutti”, “ognuno è padrone a casa sua” e altre menate di matrice berlusconiana che, nei fatti, assecondano e legalizzano il trend naturale dell’abusivismo edilizio? E, allora, perché non affidare alla pianificazione comunale l’individuazione delle possibili soluzioni, coerenti al PPR e, dunque, almeno astrattamente compatibili con la tutela di un bene irriproducibile?

Purtroppo, sembra proprio che l’assessore Erriu ritenga normale, addirittura auspicabile che una legge modifichi il regime dei suoli, distribuisca volumetrie e rendite fondiarie a casaccio o preveda pericolosissimi e discrezionali percorsi di deroga, con il rischio fondato che l’interesse pubblico, rappresentato e garantito dal PPR, venga subordinato a quelli privatissimi di chi è nelle condizioni di negoziare deroghe e varianti ad libitum.

C’è da sperare che il Legislatore regionale non subisca il fascino della soluzione a portata di mano, insomma, che non voglia sostituire al sistema delle regole uno sbrigativo “controsistema” di deroghe, tale da consentire direttamente, senza valutazioni strategiche, senza i lacci e lacciuoli del PPR e senza la redazione di piani ad esso adeguati, di scaricare altro cemento sulle coste dell’Isola.

Se così fosse, non si incentiverebbe certamente la pianificazione comunale. Ma, dopotutto, forse è proprio quello che si vuole. Già nella Napoli di Achille Lauro, quella mirabilmente affrescata da Rosi nel suo film capolavoro, sembra si dicesse “il piano regolatore serve a chi non si sa regolare. A noi, no. Noi ci sappiamo regolare”. Ancora meglio se c’è la copertura di una legge.

Grazie all’autore pubblichiamo il testo integrale dell’articolo inviato al quotidiano “La Nuova Sardegna” e ivi pubblicato in edizione ridotta.

Wu Ming, 2 luglio 2018. Sulla nefasta convergenza tra pubblico e privato nella città per la "creative class" che nel Student Hotel trova una perverso modello di estrattivismo - sottrazione di risorse materiali e sociali per il profitto di pochi - replicabile in ogni città. (i.b.)

«Everybody should like everybody».

La scritta inizia in via Fioravanti, poi gira l’angolo e si conclude in via Tiarini. È una frase tracciata sul muro, a lettere enormi, di fronte al municipio di Bologna, senza pietà alcuna per la graffitofobia degli amministratori.
È dagli anni zero di Cofferati che ogni giunta dichiara l’allarme «tag» e predispone «task force» per mettere a tacere i muri. A breve la squallida crociata verrà condotta sfruttando il lavoro forzato — pardon, il «volontariato» — dei richiedenti asilo.
Ma la scritta che correrà lungo The Student Hotel non turba gli assessori, e non sarà cancellata. Essa è propaganda del capitale, è marketing, e quindi è legale, bella, e non fa «degrado».

E poi, diciamocelo, che male può mai fare un così bel messaggio, un così innocuo appello all’amore (o al piacionismo?) universale? Così universale e seriale da essere lo stesso —identico — che orienta i passanti a Groningen, lampeggiando dall’alto del mastodontico Student Hotel della città neerlandese.

Che cos’è The Student Hotel

È da lì, dai Paesi Bassi, che The Student Hotel (da qui in poi: TSH) inizia nel 2012 la sua espansione, che oggi raggiunge Barcellona, Dresda, Parigi, Firenze e, con apertura programmata nel 2019, Bologna. Il progetto è quello di 10 strutture in Italia entro i prossimi cinque anni: a Roma, Torino, Milano, Venezia, Napoli, poi di nuovo Roma e Firenze; e poi Madrid, Berlino, Porto, Vienna…

«In tutto, TSH, che a oggi conta 4.400 stanze in 11 località, prevede di avere 65 proprietà operative, in costruzione o pianificate nelle città europee nei prossimi cinque anni. “Presto” anche negli Stati Uniti, Canada e Asia.» (Corriere Fiorentino, 7 giugno 2018)

TSH è uno studentato ma è anche un hotel. Questa sua duplice natura, invece di essere giustificata con la semplice necessità di non lasciare mai camere vuote, diventa essa stessa veicolo di propaganda:
«Ai fondatori di The Student Hotel venne in mente che se le esigenze di alloggio degli studenti, giovani professionisti e giovani viaggiatori fossero state unite sotto lo stesso tetto, si sarebbe potuto creare un ambiente vibrante sorprendente che avrebbe ispirato tutti. » (Comunicato stampa TSH)

Al fondo di questa scelta ibrida in realtà ci sono esigenze materiali, e nulla, proprio nulla, di quel «vibe» che pervade tutto il marketing attorno a TSH è casuale. Ma di questo parleremo più avanti: iniziamo, invece, con lo scomporre il generico «everybody» in soggetti reali; e vediamo quindi cosa effettivamente «piace» a TSH, e a chi «piace» questo brand in rapidissima ascesa.

TSH likes «vacant»

Annunciando il proprio arrivo a Bologna, TSH scrive di aver acquisito «vacant» l’edificio di via Fioravanti 27, dove un tempo si trovavano uffici della Telecom. Vero. Talmente vero che quando l’ha comprato (nella prima metà del 2016) la sua vacuità era diligentemente preservata da un presidio 24 ore su 24 di guardie giurate.

Ciò che TSH omette è che l’ex- Telecom era diventata «vacant» a suon di manganellate, pochi mesi prima, quando le trecento persone che l’avevano occupata con Social Log e l’abitavano erano state sbattute in strada dalle forze dell’ordine. Accadeva il 20 ottobre 2015: la «legalità», ovvero la speculazione immobiliare, era ripristinata.

In realtà TSH conosce benissimo la storia dell’ex-Telecom. Charlie MacGregor, fondatore e amministratore delegato, dichiara in conferenza stampa:
«Non solo ne eravamo al corrente, ma diciamo che questo è quasi il motivo principale per il quale abbiamo scelto proprio quella location […] conosciamo la brutta storia [ dell’ex-Telecom ] ma non ci interessa, ci interessano di più le potenzialità per il futuro […] L’edificio di per sé è bellissimo, si vede che è stato occupato e abusato, ma con un buon lavoro di restauro e design certamente diventerà un importante elemento di riqualificazione dell’intero quartiere.» (Radio Città del Capo, 27 giugno 2016)

L’occupazione è una «brutta storia», un «abuso», ma anche, in modo sibillino, «il motivo principale» per la scelta della «location». Di queste ambiguità è piena, come vedremo, tutta la comunicazione di TSH. Cominciamo con la prima.

TSH likes «multicultural»

TSH fa costante professione di multiculturalismo: «la nostra community: multiculturale, cosmopolita»; oppure: «Join our warm, welcoming multicultural community». Sempre nel sito TSH la Bolognina (il quartiere in cui si trova l’ex-Telecom) viene descritta come «multiculturale, cosmopolita, pop, creativa, divertente» e TSH ci si sente «come a casa».

Ebbene: il multiculturalismo che si trovava all’ex-Telecom occupata, quello dei suoi abitanti cinesi, marocchini, italiani, palestinesi e cubani che si riunivano in una meticcia assemblea di autogestione, è stato manganellato e sgomberato. Al posto di quel multiculturalismo dal basso arriva quello dei nuovi padroni della città, che indossano un vestito variopinto ma sono, come scrive Saskia Sassen, portatori di una sostanziale omogeneità :
«piuttosto che […] includere persone dalle molte estrazioni e culture, le nostre città globali espellono persone e diversità. I loro nuovi padroni, spesso abitanti “part-time”, sono molto internazionali – ma questo non significa che rappresentino diverse culture e tradizioni. Ciò che rappresentano è, invece, la nuova cultura globale del successo – e in questo sono straordinariamente omogenei, non importa quanto diversi siano i loro paesi di nascita e le loro lingue. Essi non sono il soggetto urbano che le nostre città – grandi ed eterogenee – hanno storicamente prodotto. Essi sono, più di ogni altra cosa, un soggetto “aziendale” globalizzato.»

Una conferma involontaria, e quasi caricaturale, dell’uniformità culturale dei futuri ospiti dello studentato ci viene dal già citato comunicato stampa di TSH:
«The Student Hotel offre qualcosa di veramente unico: una scena sociale precostituita e un network all’interno della comunità di giovani con le stesse idee.»

TSH likes «all forms of avante-garde artistic rebellion»

Scrive TSH presentando lo studentato bolognese:
«Portiamo il nostro stile fuori dagli schemi nel Quartiere Navile, meglio conosciuto come Bolognina o la piccola Bologna, un quartiere che ben rispecchia la nostra community: multiculturale, cosmopolita, pop, creativa, divertente. Questa è una zona di Bologna che storicamente ospita una scena underground, tutta graffiti, musica punk rock e anticonformismo artistico applicato in ogni forma d’avanguardia. Chissà perché ci sentiamo come a casa…»

Il fatto che in realtà nessuno abbia mai chiamato «piccola Bologna» la Bolognina è indicativo di quanto tra marketing e realtà i nessi siano labili, e di come non si proceda neppure a una reale conoscenza del territorio tanta è la fretta di metterlo a profitto. In ogni caso se la Bolognina è «storicamente» legata all’underground è grazie a realtà autogestite che sono già state spazzate via dalle trasformazioni urbane e – guarda un po’ – proprio dalla messa a profitto del territorio.

L’unica di queste che sopravviva ancora in Bolognina è Xm24, a cui il Comune non rinnova una convenzione firmata nel 2013 (dopo 11 anni di occupazione) senza alcun valido motivo, salvo misteriosi progetti su quell’edificio e la sottostante voglia di liberarsi del centro sociale. Nonostante la gran pletora di spazi sottoutilizzati, le fantasie dell’amministrazione Merola si riversano fatalmente sugli spazi di Xm24: prima quella di farci una caserma, poi una casa della letteratura, poi un progetto segreto scritto forse con l’inchiostro simpatico… Che altro? Quale associazione, realtà o categoria sociale il Comune utilizzerà contro Xm24 promettendole proprio quello stabile – come se non ce ne fossero altri?

Xm24 in quartiere fa iniziativa politica (spesso proprio sui temi della trasformazione urbanistica) e, sul punto della produzione culturale, dà fastidio perché è un impedimento a che «graffiti, punk rock and all forms of avante-garde artistic rebellion» (così la versione inglesedel sito TSH) possano essere integralmente depoliticizzati e diventino così un’innocua «controcultura» depurata da avversario e conflitto. La cancellazione del murale di Blu, che invece andava proprio nel segno della ripoliticizzazione della street art, non è mai stata digerita dai piddini locali, che ancora la rimproverano a Xm24 . Senza capire che il loro rimprovero è la conferma della necessità e politicità di quel gesto.

Proprio come la «controcultura» diventa generica vivacità, allo stesso modo un vago genius loci «anticonformista» rimpiazza la realtà sociale dei luoghi. Sotto questa ambigua luce un luogo cool come il TSH finisce per essere considerato una naturale evoluzione dell’occupazione che è stata sgomberata per fargli posto:
«ci siamo ritrovati a cenare con degli amici nella palazzina occupata dell’ex Telecom, di fronte alla nuova sede del Comune, che ho scoperto da poco sarà recuperata in un modernissimo studentato della catena The Student Hotel. La città è in continuo fermento!» (Eva Laudace, qui)

Comune e TSH like «creative class»

Lo scimmiottamento dell’underground operato da TSH è perfettamente in linea con il substrato ideologico degli interventi urbanistici del Comune. Non a caso è una seriosa pagina della Fondazione per l’Innovazione Urbana del Comune di Bologna a ospitare il già citato comunicato stampa di TSH dai toni forzatamente giocosi, tutto centrato sull' «ambiente vibrante sorprendente che [ispira] tutti» e sull’invito a «lascia[r] vivere per sempre lo studente che è in te!»

Le premesse delle due operazioni convergenti (quella pubblica e quella privata) sono facilmente riconducibili alla pseudo-teoria della «creative class» di Richard Florida, sviluppata negli Stati Uniti nei primi anni di questo millennio. Secondo Florida la chiave per vincere la competizione tra città e attrarre capitali è nell’essere accoglienti per la cosiddetta «classe creativa» composta da scienziati, docenti universitari, designer, architetti, scrittori… e dai professionisti che applicano quanto da loro ideato. Per ingolosire questa «classe» le città dovranno sostenere le «3T» (Tecnologia, Talento e Tolleranza), e offrire servizi «plug and play», proprio come è lo Student Hotel.

Di questa teoria bisogna dire almeno due cose, in premessa:

1. L’idea stessa che le città debbano essere in concorrenza tra loro è aberrante, e ha vistose conseguenze sulla vita reale delle persone che le abitano. Una politica ispirata alla teoria di Florida non metterà infatti quelle persone al centro, ma le proiezioni immaginarie dei «creativi».

2. Quella della «creative class» non è che la declinazione urbana della più generale «trickle-down theory», la teoria reaganiana secondo cui se i ricchi sono sempre più ricchi qualche goccia colerà giù verso i poveri, e dunque non serve nessuna misura di redistribuzione. C’è questa «teoria dello sgocciolamento» al fondo della flat tax e dei tagli al welfare. Nel mondo di lingua inglese, con una certa efficacia, circola il motto: «the rich pissing on the poor, that’s trickle-down theory».

Ciò detto, è necessario aggiungere che quella della «creative class» è una teoria totalmente screditata in accademia, e pure tra quelle basate sulla «creatività» vince certamente la palma della più farlocca. La teoria di Florida prospera ormai solo tra amministratori che vi cercano una pezza d’appoggio per ciò che hanno già deciso di fare, ovvero privatizzare e svendere la città pezzo a pezzo.

In una pagina un po’ istituzionale un po’ no che si presenta come « blog della Rete Civica Iperbole», ovvero della rete telematica del Comune di Bologna, la teoria di Florida viene esplicitamente richiamata:

«La creatività come motore generale del cambiamento non solo negli stili di vita o nella gestione del tempo libero, ma anche nelle attività produttive e nel lavoro. […] Linea guida è quella delle élites della città creativa, basata sulle 3T di Richard Florida ovvero Tecnologia, Talento e Tolleranza»

Essendo la pagina un po’ ufficiale e un po’ frufru è difficile dire sic et sempliciter che il Comune di Bologna si riconosce nella teoria di Florida e nelle «3T». Forse lo scopo ultimo di questa forma di comunicazione dallo statuto incerto è precisamente quello di non assumersi la responsabilità di concetti che, pure, si è deciso di far circolare. E poi quanto è ridicolo parlare di «3T» proprio a Bologna?

In ogni caso il dialogo tra TSH e l’istituzione sembra sposare in pieno le fantasie di Florida:
«Vogliamo sostenere – ha detto il fondatore [di TSH] Charlie McGregor – la comunità di Bologna nella sua ambizione di diventare un’area a livello mondiale per l’innovazione e il talento».

A cui risponde il Comune:
«La partenza del progetto rappresenta “l’inizio di qualcosa di meraviglioso”, sottolinea Osvaldo Panaro, direttore del settore Marketing e Turismo di Palazzo D’Accursio: ”The Student Hotel” porta in città “una ventata di aria fresca ed un nuovo modo di investire”.» (Rcdc)

TSH likes Comune, Comune likes TSH

Nel 2016, inaugurando le telecamere di sorveglianza (sic!) del mercato di via Albani, a due passi dall’ex-Telecom, il sindaco Merola dichiara:

«Ieri ho avuto un incontro con una società internazionale scozzese, The Student Hotel, che vuole realizzare nell’ex Telecom uno studentato con 300 camere a prezzi contenuti e servizi per gli studenti, così come stanno facendo in molte altre città europee».

[Il prefisso «Mac» nel cognome dell’amministratore delegato ha confuso il sindaco: la compagnia è neerlandese, non scozzese. Poco male. È la svista sui «prezzi contenuti» che, invece, suona meno innocente.]

L’anno successivo l’assessora all’urbanistica Orioli tiene una conferenza coi progettisti del TSH alla fiera mondiale della speculazione immobiliare, il Mipim di Cannes. Al Mipim i privati vendono progetti immobiliari, gli amministratori si vendono le città.

Nello stesso 2017 TSH chiede di sopraelevare lo stabile di un piano, ma senza mettere a disposizione il maggior numero di parcheggi e il verde pubblico che — da standard urbanistici — sarebbero conseguenti all’aumento di cubatura. Con la delibera 199479/2017 il Comune risponde affermativamente: dichiara TSH «edificio di interesse pubblico», concede la sopraelevazione e accoglie la proposta di «monetizzare » gli standard urbanistici, quantificati in 500mila euro.

Invece quindi di far valere gli standard di verde e parcheggi — pensati a tutela della qualità della vita dei residenti — il Comune ne accoglie la loro trasformazione in denaro. Denaro che userà per imporre la propria idea di città, come vedremo.

La «monetizzazione degli standard urbanistici» è una delle più diffuse e perniciose prassi antiurbanistiche. Nel nostro caso, su proposta dell’Unità di Governance per l’Immaginazione Civica (sic), i 500mila euro di TSH vengono destinati alla ristrutturazione della pensilina (tettoia) Nervi, struttura che verrà utilizzata «anche per eventi ad elevato affollamento, con la possibilità di creare sinergie anche con la stessa struttura ricettiva [cioè il TSH] per la rivitalizzazione del Quartiere».

Tradotto:

1. I soldi di TSH, che arrivano al Comune in cambio della rinuncia all’urbanistica di quest’ultimo, alimentano quello stesso mondo di eventi che è il cuore pulsante del marketing di TSH stesso;

2. Con la pensilina Nervi TSH avrà a disposizione un enorme dehors per feste, eventi, apericene ad alto tasso di hipsterismo (questo significa infatti «creare sinergie anche con la stessa struttura ricettiva»);

3. il Comune prende i soldi dei gentrificatori non quindi per lenire le ferite della gentrificazione, ma per gettarvi sale producendo ulteriore gentrificazione. Anzi: più che gettarlo, lo distribuisce con cura come sull’orlo di un Margarita. Da sorseggiare sotto la tettoia Nervi.

4. Il quartiere, svuotato dalle vite di sgomberati e sfrattati, viene rivitalizzato dall’alto, con l’allegria monetizzata dei gentrificatori.

Notevole infine un passaggio della stessa delibera, assunta il 19 giugno 2017, che per giustificare le concessioni a TSH parla della «necessità di mantenere il livello di “città accogliente” che connota Bologna a livello internazionale». Cinque mesi dopo il Comune emetterà i primi Daspo urbani nei confronti di persone «sdraiate su materassi e accerchiate da numerose masserizie », insomma poveri che dormivano in strada. La parola «accoglienza», quando esce dalla loro bocca, ha il tanfo del marcio.


TSH likes gli architetti di chi conta

Il progetto della ristrutturazione dell’ex-Telecom è dell’architetto Matteo Fantoni. La tag cloud che nel suo sito accompagna i disegni del TSH restituisce i soliti specchietti per allodole à la Florida: «vibrant», «young», «innovative» «emotional» «dynamic» «hip» e, naturalmente, «cool».

Non posso fare a meno di chiedermi quali fossero le parole chiave di un altro suo progetto, il Billionaire di Malindi, in Kenya (di cui Briatore, peraltro, sta cercando di liberarsi).

La progettazione strutturale, il coordinamento, la direzione lavori eccetera del TSH bolognese è invece affidata a Open Project, società di architetti che frequenta le stanze dei committenti più importanti. Ha ristrutturato o edificato per CCC, Comune di Bologna, Coop… Anche il centro commerciale Minganti, in Bolognina, è un suo progetto, peraltro premiato al Mapic di Cannes (la fiera sorella di Mipim dedicata agli insediamenti commerciali). Nonostante il premio, il centro Minganti è desolatamente vuoto solo dodici anni dopo l’inaugurazione, abbandonato dal supermercato Coop e anche dalla superstite palestra Virgin.

Di Open Project, infine, è anche il progetto che esibisce l’eccitazione capitalistica della «cooperazione rossa»: il priapico grattacielo Unipol.

TSH ed estrattivismo #1: CDP

La gentrificazione è estrattivismo al quadrato. Non solo, infatti, viene estratto valore dalla società e dalla cultura (o «controcultura») dei quartieri da gentrificare, ma il più delle volte i capitali e gli immobili attraverso i quali avviene l’estrazione hanno una storia di privatizzazione alle spalle, e dunque sono stati — a loro volta, in precedenza —estratti dalla ricchezza sociale.

A Firenze TSH ha aperto nel «Palazzo del sonno», che fino al 2004 era di proprietà del gruppo (pubblico) FS, ed è stato venduto in occasione delle «cartolarizzazioni» dell’allora ministro Tremonti.

Un altro TSH fiorentino verrà costruito nell’ambito dell’enorme operazione sull’ex Manifattura Tabacchi, un’area che ha un passato statale (prima del Monopolio, poi dell’Ente Tabacchi) e un presente privatissimo, nelle mani del fondo Perella Weinberg(che, guarda caso, è anche finanziatore di TSH). A traghettare tra privato e pubblico c’era Cassa Depositi e Prestiti (CDP).

A Roma lo studentato per ricchi aprirà «in un’emergente zona popolare con artisti, artigiani, scrittori, intellettuali e attori» , come la descrive, senza timore del ridicolo, un comunicato congiunto di TSH e CDP. Si tratta dell’area della dogana di San Lorenzo, un tempo demaniale e oggi di una società immobiliare di cui CDP detiene il 75%.

«L’operazione tra Cdp e il gruppo alberghiero è in una fase preliminare che verrà perfezionata in seguito al verificarsi di alcune condizioni come la bonifica, la realizzazione delle opere di urbanizzazione finalizzate alla trasformazione urbana e la definizione di tutti i permessi necessari. Se ne occuperà una joint-venture tra il gruppo alberghiero e l’Area Group Real estate di Cassa depositi e prestiti. Al termine di questa fase preliminare, verrà perfezionata la vendita al gruppo olandese.» (Romatoday, 3 marzo 2017)

Secondo l’urbanista – ed ex assessore della giunta Raggi – Paolo Berdini il prezzo concordato è conveniente soprattutto per TSH:
«Se gli oneri di Cassa Depositi e Prestiti sono la bonifica e i permessi, 90 milioni di euro sembrano un po’ pochi […]. Se questi sono i soldi, vorrei capire cosa si intende per valorizzazione» (Il Fatto, 27 novembre 2017 )

CDP era statale fino alla trasformazione in società per azioni nel 2003, e ancora oggi è all’86% in mano pubblica (che pure la gestisce in senso privatistico). Storicamente CDP raccoglieva il risparmio postale dei cittadini e lo usava per finanziamenti a tasso agevolato agli enti locali, e oggi potrebbe mettere a disposizione risorse per calmierare il mercato immobiliare, sostenere la messa in sicurezza del territorio eccetera… Invece, al contrario, opera sistematicamente a favore della «penetrazione dei grandi interessi finanziari nella società» , finanziando «la svendita del patrimonio pubblico dei comuni e la privatizzazione dei servizi pubblici locali», come scrive Marco Bersani.

È ancora la «tentacolare» CDP a gestire il bando ministeriale per la realizzazione di residenze studentesche per «studenti capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi finanziari». Il bando non può interessare TSH, essendo riservato a onlus, enti locali e soggetti no profit; nondimeno, come dice l’assessora Orioli in un’intervista che parte dalla pensilina Nervi e dal TSH bolognese, «il tema degli studentati è sotto i riflettori». E, aggiunge Orioli, «soggetti, anche internazionali, hanno già manifestato il proprio interesse intercettando i finanziamenti statali disponibili per queste iniziative». Che non ci sia un nesso tra quel bando e TSH è evidente; ma è altrettanto evidente che per Orioli, e per chi pensa come lei, un TSH ha davvero a che fare con le (reali) esigenze di alloggio degli studenti, e questo è già – di per sé – preoccupante.
TSH ed estrattivismo #2: ABP

Nel 2015 TSH riceve un finanziamento di 100 milioni da ABP, fondo pensionistico neerlandese (il conferimento avviene tramite il gestore APG). Quanti sono 100 milioni nell’economia di TSH? Non pochi: per lo studentato bolognese una stima (ormai datata) dell’investimento è di 30-35 milioni di euro, per il «Palazzo del sonno» fiorentino è di 40 milioni.

Lo «Stichting Pensioenfonds ABP» è il quinto fondo pensionistico al mondo. È paradigma d’estrattivismo finanziario: i «suoi» soldi sono quelli degli accantonamenti per pensione di 2,8 milioni di dipendenti pubblici dei Paesi Bassi. Soldi dunque di provenienza pubblica, spediti nell’iperspazio della finanza speculativa.

Ma non basta: ABP stesso era ente pubblico fino al 1996, quando è stato privatizzato. La retorica per far passare la privatizzazione è stata, lassù, la stessa che abbiamo ben conosciuto qui da noi: il «baraccone di stato» doveva diventare una «macchina di gestione finanziaria guidata dal mercato».

[Ovviamente la contrapposizione tra pubblico e «libero mercato» è pura propaganda. Il «libero mercato» ha bisogno della ricchezza pubblica come il vampiro ha bisogno del sangue del la sua vittima; e sempre gli servono politici che indichino bene il punto in cui mordere – anzi, che ci facciano proprio un bel circoletto attorno con il pennarello. L’attuale presidente di ABP, Corien Wortmann-Kool, è una ex parlamentare europea di centro-destra. Qui si può leggere un suo breve intervento contro l’introduzione di clausole sociali nella legislazione comunitaria.]

Una macchina «guidata dal mercato» va dove la porta il cuore, cioè il profitto. Nel dossier «Dirty & Dangerous» l’organizzazione Both ENDS analizza gli investimenti di ABP nei combustibili fossili. E scopre – nonostante le promesse green di ABP e la contrarietà di gruppi di dipendenti pubblici, involontariamente implicati – che nel 2015 e 2016 gli investimenti di ABP in «Gas, oil & coal» sono cresciuti di valore.

Nel 2017, mentre Both ENDS chiudeva il suo dossier, il Comune di Bologna riconosceva a TSH di aver privilegiato «la mobilità sostenibile ed alternativa dotando ciascun posto letto di una bicicletta, progettando perciò 626 posti bici», e usava, il Comune, anche questo pretesto per incassare la «monetizzazione degli standard urbanistici» (si veda al capitoletto TSH likes Comune).

Uno degli impianti a carbone in cui investe ABP è quello (enorme) in costruzione a Batang (Java, Indonesia), da tempo al centro di critiche locali e internazionali. Pescatori e agricoltori che temono per le proprie fonti di sostentamento, durante una protesta, hanno composto sul terreno la scritta
«FOOD NOT COAL!»

La scritta è un appello disperato di povera gente travolta dalla grande opera inquinante. Eppure, in virtù della doppiezza costitutiva del «capitalismo green», quella stessa frase non stonerebbe affatto sul muro dell’area lounge di un TSH, pure finanziato dalla stessa ABP.

Ancora: secondo il network di giornalisti Danwatch, «il fondo pensionistico neerlandese Stichting Pensioenfonds ABP ha 97 milioni di euro in tre banche israeliane» che a loro volta hanno interessi nei territori palestinesi occupati. Gli investimenti europei nei territori occupati, ricorda Danwatch, allontanano la possibilità della soluzione pacifica «a due stati», che è quella ufficialmente auspicata dai paesi UE.

Ma tranquilli, nessun allarme: nei TSH di tutta Europa si tengono i Bed Talks, conferenze di tizi che indossano calze rosse e parlano restando sdraiati a letto. Ascoltando i creativi rossocalzati sarà possibile scoprire, nientemeno,
«COME ANDARE A LETTO CREERÀ LA PACE NEL MONDO […] condivide[ndo] idee per superare le ingiustizie o missioni per pareggiare gli squilibri mondiali, per risolvere, tanto per fare qualche esempio, la crisi dei migranti, per creare macchine in grado di trasformare i rifiuti umani in energia, per sfruttare lo sport c[ome] veicolo di pace nel mondo» (TSH, Bed Talks)

TSH likes prezzi alti

A Dario Nardella, sindaco di Firenze, scappano spesso le parole di bocca. Egli è, in qualche modo, il giullare di se stesso, il fool che dice ciò che un sindaco del Pd non dovrebbe dire, ma che pure un sindaco del Pd profondamente pensa. Ebbene, il 7 giugno scorso dichiara a La Nazione:

«Questo non è uno studentato. È un’offerta nuova che intercetta la classe dirigente di domani. Un segmento di clientela internazionale che prima da Firenze non passava neppure per sbaglio. E poi qui si ha una stanza con 750 euro mensili, comprensivi di utenze, di palestra e di molto altro ancora. Un prezzo in linea con gli standard europei. Fossi uno studente ci verrei subito».

Non uno studentato, dunque, ma un luogo in cui la classe agiata riproduce se stessa. I prezzi poi, verificati sul sito TSH meno di una settimana dopo le dichiarazioni di Nardella, vanno dai 970 ai 1164 euro al mese. Non sono affatto «in linea» con i prezzi fiorentini (per una singola, generalmente, si pagano 350-450 euro al mese), e neppure con «gli standard europei», se non nel senso che anche ad Amsterdam TSH costa molto di più di una normale stanza in affitto. Lo standard europeo di TSH, insomma, è proprio questo eccedere gli standard locali.

Anche le fantasie del suo collega Merola sullo «studentato con [….] camere a prezzi contenuti» saranno smentite non appena TSH Bologna aprirà le prenotazioni. TSH è un albergo-studentato d’élite, che turisti e wannabe possono assaggiare per qualche sera, ma in cui solo veri benestanti passeranno un intero anno accademico. La storica dell’architettura Roos van Strien descrive in questo modo la «comunità» di TSH:
«Con i suoi servizi condivisi, i party organizzati e l’idea generale di avere tutto sotto un solo tetto, TSH si presenta come “comunità completamente connessa”. Ma forse sarebbe più preciso dire che è una moderna e anonima “gated community”. Anche se non ci sono cancelli o barriere fisiche che interdicono l’ingresso a ospiti indesiderati, e se la hall dell’albergo è in effetti accessibile a tutti, TSH è accessibile solo a pochi […] nuove barriere vengono erette dalle sue caratteristiche lussuose ed esclusive, che recintano la “comunità” separandola da chi ne è fuori.»

TSH avrà un effetto dopante sugli affitti per studenti, generando ulteriori difficoltà per normali studenti e studentesse che cercano una casa a prezzi tollerabili – come se non bastasse la pressione dei flussi turistici a far crescere i prezzi. E, a proposito di turisti, l’impasto tra questi e gli studenti ricchi, cifra di TSH che i media italiani hanno rilanciato del tutto acriticamente, è illustrato nelle sue ragioni materiali ancora da van Strien:
«Ottenendo una licenza come hotel, [TSH] ha trovato una scappatoia nel sistema di valutazione della proprietà, sulla base del quale viene fissato il massimale dell’affitto [nella legislazione dei Paesi Bassi]. Un hotel – quali che siano le dimensioni della stanza – può richiedere qualsiasi prezzo. Inoltre, non è vincolato a un contratto [di locazione] e può sfrattare le persone quando più lo ritenga opportuno.»

Per il suo comportamento da «cowboy» nel mercato degli affitti di Amsterdam, l’attivista studentesca Lisa Busink propone di «vietare The Student Hotel».

«Everybody should like everybody», reprise

Pensavo, in chiusura, di proporre una lettura diversa dello slogan che sarà tracciato sul muro del TSH. Non un appello all’amore universale, ma l’istanza di chi sa che sarà odiato, e sa pure perché, e si gioca in anticipo una carta vittimista: «Dovremmo piacervi, perché non vi piacciamo?» Questo pensavo, ma forse le cose non stanno così.

Quando ho pubblicato dei tweet a proposito delle iniziative su TSH di Xm24 e di Cua Firenze (che ha ridicolizzato i Bed Talks mettendo in scena i Bad Talks, un bagno di realtà contro le favole in calzetti rossi), mi ha più volte risposto Cecilia Sandroni, la PR italiana di TSH. Le sue parole dimostrano che non c’è la minima consapevolezza del fatto che possa esistere – e del perché esista – una critica alle loro operazioni: «Lusso?» «Fuffa? Informatevi meglio»

Segue un classico (anche farinettiano): l’«invito».
«se volete visitarlo di persona Benvenuti. Credo che prima di contestare serva sempre valutare sperimentare. Buona giornata ragazzi da una ex studente non facoltosa.» «[…] Se poi vi innamorate del progetto come ho fatto io che sono arrivata a Firenze da studente lavorando e studiando che si fa? ♥»

E infine l’apoteosi, con foto di Charlie MacGregor:
«vi auguro di diventare a 40 anni come lui. Impegnato socialmente, educato, incredibilmente gentile, dalla grande visione e con un infinito ottimismo e fiducia nei giovani. Nato in Scozia vive in Olanda. E pure bello! ;-)»

Il loro non è vittimismo dunque, ma la sincera convinzione di piacere a «everybody». La classe dirigente del capitalismo hip, a furia di essere blandita da istituzioni, media… praticamente da chiunque, neppure immagina un’opposizione. Massimo massimo concepisce una pernacchia. Inevitabilmente, li stupiremo.

VALORI. 13 giugno 2018. Tutti i nodo vengono al pattine, gli errori svelati, i colpevoli additati. Intervista a Paolo Berdini sulla lunga e tortuosa vicenda dello stadio della Roma oggi sotto i riflettori della giustizia. Con riferimenti (e.s.)

«L'intervista a Paolo Berdini, urbanista ed ex assessore della Giunta Raggi: “Lo stadio a Tor di Valle è un progetto che sfama solo interessi privati”»

Probabilmente saranno i 9 arresti legati alla costruzione dello stadio della Roma a determinarne lo stop. Ma in Campidoglio era arrivata anche una pila di ricorsi e atti di opposizione: 31 in tutto. Si sono opposti i comitati di pendolari e residenti, preoccupati per la viabilità che andrebbe in tilt, gli ambientalisti in allarme per l’Ecomostro e il rischio speculazione, il Codacons che giudica l’operazione “illegittima”, i Radicali. E ancora gruppi di ingegneri e architetti, compreso Paolo Berdini, urbanista di fama internazionale, assessore all’Urbanistica e Lavori Pubblici per 8 mesi durante la giunta Raggi, che ha spedito in Comune un suo documento per chiedere di fermare l’approvazione della variante urbanistica.

«Sulla questione “stadio della Roma calcio” i Cinquestelle e Virginia Raggi hanno cancellato le promesse fatte in campagna elettorale. Una inversione a U rispetto alle posizioni nettamente contrarie all’opera espresse quando Roma era guidata da Ignazio Marino».

Professor Berdini, il suo è stato uno dei soli quattro nomi di assessori rivelati dalla Raggi prima delle elezioni. In teoria avrebbe dovuto essere fra gli inamovibili. Che è successo invece?

È successo che ho dovuto osservare un progressivo cambio di rotta rispetto a quanto i Cinquestelle hanno sempre affermato quando erano all’opposizione, sia a Roma sia a livello nazionale.

Quando ha iniziato a collaborare con loro?

Ho iniziato nel 2013 con il gruppo 5 Stelle alla Camera per scrivere una legge per bloccare il consumo di suolo. Quel testo fu trasformato in una proposta di legge e pubblicizzato in giro per l’Italia. Poco dopo, i 4 consiglieri pentastellati al Comune di Roma (tra i quali la stessa Raggi), all’opposizione della giunta Marino, mi chiesero di collaborare alle azioni contro il progetto stadio. Nel programma quindi la loro posizione era chiarissima.

Poi con la vittoria alle elezioni comunali di giugno 2016, il cambio di rotta…

Sono stato scavalcato nella ricerca di un compromesso con Pallotta e soci. Una cosa molto grave, soprattutto perché dopo mesi di lavoro era arrivato il parere negativo dagli uffici dell’assessorato Urbanistica contro quello sciagurato progetto. E invece si riapre il “tavolo di confronto” con la speculazione fondiaria.

Non la stupisce che una forza politica di rottura, come affermano di essere i 5 Stelle, nonostante una clamorosa vittoria elettorale, abbia accettato quel progetto?

Ovviamente. Si avvertiva in città una tensione positiva enorme: dopo gli scandali dell’amministrazione Alemanno e Mafia capitale, governava Roma una forza pulita libera da interessi oscuri. Forse è mancata quella indispensabile cultura politica che può permettere di affrontare le sfide più difficili. Sullo stadio si sono spaventati di una eventuale richiesta di risarcimento da parte dell’AS Roma. Qualcosa di simile era già accaduto nei mesi scorsi per il progetto di recupero del compendio immobiliare dell’ex Fiera di Roma di via Cristoforo Colombo, ma in quell’occasione nella mia posizione ero stato spalleggiato da Marcello Minenna e Carla Raineri (assessore al Bilancio e capo di gabinetto, dimessisi a settembre in polemica con Raffaele Marra, ndr).

Ha ricevuto pressioni di gruppi finanziari per un via libera al progetto?

Personalmente no. Ma è evidente che importanti istituti bancari hanno interesse a poter finanziare un progetto faraonico come questo. E alla stessa Unicredit conviene se Parnasi, che è un importante debitore della banca, si rafforza economicamente.

E i 5 Stelle che vantaggio traggono?

Avevano già detto no alle Olimpiadi – secondo me a torto perché avrebbero potuto dimostrare all’Italia intera come si può trasformare un grande appuntamento spesso segnato da sprechi e scandali in un’opportunità di rilancio per la città. Ma non hanno accettato la sfida. Eppure si trattava di un progetto pubblico interamente finanziato dallo Stato. Il paradosso è che hanno rifiutato un’opera pubblica come sarebbero state i Giochi olimpici e invece hanno detto sì a un progetto che soddisfa esclusivamente appetiti privati. Forse qualcuno all’interno di quel movimento pensa che per arrivare al governo nazionale qualche prezzo vada pagato…

Dal punto di vista tecnico, che ne pensa dell’accordo trovato tra il Comune e la AS Roma?

Ho sempre detto che nell’area di Tor di Valle, a forte rischio idrogeologico e completamente avulsa dal tessuto urbano della città, anche costruire un solo metro cubo di cemento è un errore. E ho al contrario sempre perorato l’ipotesi di costruire il nuovo stadio altrove, dove sarebbe potuto diventare un’opportunità di sviluppo di una periferia, come nella zona di Torre Spaccata, nella periferia sud-est di Roma. Solo per aver espresso la mia opinione sono stato vergognosamente accusato di favorire interessi di altri proprietari terrieri. La macchina del fango si era messa in moto.

A Roma c’è lo Stadio Olimpico. Poi c’è il Flaminio, considerato un gioiello di architettura ma che cade a pezzi abbandonato. Ma serve davvero un terzo stadio?

Quelle due strutture esistenti andrebbero profondamente rimaneggiate per renderle adeguate alle attuali esigenze ma sono intoccabili perché sottoposte a vincolo monumentale. Forse si sarebbe potuto avviare – come è stato fatto per lo stadio del tennis del Foro italico – un serio rapporto con le Soprintendenze per permettere mutamenti rispettosi delle caratteristiche dei manufatti così da evitare di avere zone abbandonate in piena città. Ma ho accettato pure la sfida di un altro stadio, se collocato in un luogo che potrebbe trasformarlo in un beneficio per l’intera comunità. Del resto, la legge sugli stadi è in vigore e chi amministra deve rispettare le leggi dello Stato.

Quindi esistono grandi opere compatibili con l’interesse collettivo?

Sì. A patto che sia il potere pubblico, a partire dall’amministrazione comunale, a guidare i giochi, decidendo dove vanno fatte e in che modo. Altrimenti è solo un favore ai poteri forti. E purtroppo la storia urbana di Roma negli ultimi venti anni, e cioè da quando trionfa l’urbanistica contrattata, è un ignobile campionario delle più spregevoli speculazioni immobiliari.

A proposito dei poteri forti: questa vicenda dimostra che essere onesti non basta. Che cosa serve per contrastarli davvero?

Bisogna essere preparati e aver studiato. Tanto.

Articolo tratto dal sito qui raggiungibile.

Riferimenti

Sull'argomrnto eddyburg ha pubblicato tra l'altro gli articoli di Piero Bevilacqua, Uno stadio salverà Roma, di Vezio De Lucia Stadio della Roma: tutti d'accordo, pagherà Pantalone , di Salvatore Settis, Come uno zombie riemerge dal passato, di Annamaria Bianchi, Il nuovo stadio della Roma. Eddyburg aveva raccolto numerose adesioni a un appello dell'ottobre 3016 , Appello Lo stadio come cavallo di Troia:

Nigrizia, 31 Maggio 2018. Dopo anni di continue insistenze un comitato di cittadini è riuscito a ottenere la riutilizzazione per i senza tetto di una parte del monumentale Albergo dei poveri, realizzato nel 18° secolo .

L’edificio costruito a metà del Settecento, durante il regno di Carlo III di Borbone, per dare un tetto ai bisognosi, che arrivò a ospitare 8mila persone. Lo stabile è rimasto inutilizzato per lungo tempo finché, a fine 2015, la giunta del sindaco De Magistris ha deciso di ristrutturarne una parte e di realizzare un centro diurno per i senza fissa dimora. Una vicenda che si trascinava da una decina di anni e che si è concretizzata anche in virtù delle lotte di un comitato di cittadini che ha incalzato le istituzioni, prima la giunta Jervolino e poi quella dell’attuale sindaco.

Il comitato ha dovuto confrontarsi anche con le persone che vivono nell’area del Real albergo. Sobillati da Casa Pound e da altri gruppi di destra, gli abitanti si sono a lungo opposti all’apertura del centro diurno. La giustificazione di questa opposizione è che il Real albergo può diventare un polo di attrazione per i migranti. Il comitato ha fatto valere le proprie ragioni spiegando, dati alla mano, che i senza fissa dimora sono quasi tutti napoletani e che non si può ignorare questo fatto.

A Napoli vivono per la strada oltre 2mila persone che in buona parte dormono all’aperto e non hanno accesso a nessuno spazio dove poter usufruire di docce e servizi igienici. Certo ci sono gruppi di cittadini, alcune parrocchie, le piccole comunità cristiane che danno loro una mano, ma non basta.

Quello che il comitato ha sempre chiesto è che le istituzioni si dichiarassero interessate a riconoscere la dignità a queste persone. E si è arrivati al dunque qualche tempo fa con una delibera comunale che mette a disposizione 1500 m² del Real albergo per l’accoglienza diurna. Il comune ha investito un po’ di risorse e una parte del finanziamento dei lavori di ristrutturazione è arrivata, tramite la stipula di una convenzione, da Rotary International.

Oltre ai servizi di base, già funzionanti, i senza fissa dimora potranno a breve usufruire di un ambulatorio medico. Si vuole poi istituire un’anagrafe dei senza fissa dimora, sempre nella logica di considerare queste persone dei cittadini come tutti gli altri. Il comitato ha avuto modo di essere riconosciuto dal comune, con apposita delibera, come Comitato di programmazione, di verifica e di controllo del centro diurno.

Dunque il Real albergo deve diventare un luogo in cui si acquisisce e si esercita la dignità.

Lo abbiamo ribadito la sera dell’8 maggio in un momento di festa, allietato dal gruppo musicale “Madonna fate luce. Oratorio breve per la città di Napoli”, presenti anche il sindaco De Magistris, l’assessore ai beni comuni Carmine Piscopo e l’assessore alle politiche sociali Roberta Gaeta.

Nell’occasione ho voluto sottolineare che il comitato ha tanto lottato perché ritiene che questo centro diurno sia – come in effetti ora è – un atto politico. È il comune di Napoli che dà una risposta a un grosso problema. Non è un atto di carità. Spesso con i senza fissa dimora si va avanti con la carità, ma non è giusto. La politica, se vuole essere politica, deve considerare innanzitutto gli ultimi. Ed è bello che il comune abbia compiuto un altro passo in questa direzione.

Real albergo dei poveri

Realizzato dall’architetto Ferdinando Fuga, è il maggiore palazzo monumentale di Napoli e una delle più grandi costruzioni settecentesche d’Europa. L’opera è rimasta incompiuta per cui gli attuali 103.000 mq di superficie utile rappresentano solo un quinto del progetto originale. L’intento era di accogliere coloro che, anche se abili a lavoro, non avevano una casa né un lavoro stabile. Nonostante i buoni propositi, l’istituzione caritatevole era funzionale al bisogno di sicurezza urbana e divenne un vero e proprio carcere. Non a caso il popolo napoletano lo ha etichettato come “serraglio”, intendendo un luogo dal quale non è possibile uscire.

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

il manifesto, 11 maggio 2018. Cambia la tipologia dei veleni che iniettiamo nella nostra terra per aumentarne la produttività, e quindi il valore per chi la possiedi e usa, ma non diminuisce la tossicità (m.p.r.)

Sono sempre più «amare», nel senso di inquinate, le acque dolci italiane, sia superficiali che sotterranee. A certificarlo è l’ultimo rapporto Ispra sui residui di pesticidi nelle acque, relativo al biennio 2015-2016, il più completo sforzo di monitoraggio capillare su tutto il territorio italiano con riferimenti anche ai sedimenti storici e alla loro interferenza con i nuovi prodotti utilizzati .

Il rapporto si basa sui campioni prelevati, purtroppo ancora abbastanza a discrezione, dalle Regioni e dalle aziende locali per la protezione ambientale e si preoccupa di fornire linee guida, che sono: aumentare i dati, armonizzare le ricerche e investire su ricerca e innovazione per l’agroecologia. Cioè filiera sostenibile e a chilometro zero che riduca l’uso di prodotti chimici.

L’indagine è corposa anche se non è ancora esaustiva, basti pensare che su 400 sostanze chimiche potenzialmente tossiche in concentrazione ma autorizzate e reperibili sul mercato per essere impiegate in agricoltura soltanto 259 sono state cercate e rintracciate. Le analisi sono lacunose in particolare nelle regioni del Centro-Sud: su 35.353 «provette» analizzate nel biennio 2015-2016, per un totale di quasi 2 milioni di misure analitiche, il 50% dei punti di monitoraggio si concentra nel Nord mentre nel resto del Paese la campionatura è disomogenea e a maglie molto, troppo, larghe, con il «buco nero» della Calabria, dove campeggia un disastroso cartello «non pervenuta».

Delle pericolosità dei mix poi poco o niente si sa, considerando che si è osservato che la pericolosità è determinata al 90% dall’effetto tossico cumulativo, cioè da ciò che si sedimento in natura tra gli «antichi» inquinanti, alcuni dei quali oggi proibiti e non più in vendita, e i più recenti.

Il più famoso erbicida oggi si chiama glifosato, ad esempio, ma che dire dei livelli ancora alti del Ddt con cui durante i primi anni Cinquanta venivano irrorati a pioggia i campi dagli aerei militari americani o dell’ex celebre atrazina, altro erbicida bestia nera della campagna ambientalista che portò al referendum del 1990 – però senza quorum – per la sua messa al bando. Oggi il veleno peggiore, perché il più diffuso nelle acque, oltre al glifosato, si chiama Ampa ed è il metabolita che si ottiene dalla degradazione del glifosato stesso, immesso a man bassa nelle acque reflue da almeno quarant’anni perché oltretutto presente anche in moltissimi detersivi per la casa.

Il glifosato e i suoi derivati, anche se potenzialmente cancerogeni, non sono però i veleni peggiori trovati nei campioni analizzati dai laboratori Ispra. Nell’elenco dei veleni dai nomi che sembrano medicine ce ne sono di tossicità massima, con effetti sull’apparato respiratorio e sugli occhi, e poi i più comuni insetticidi come imidacloprid, e fungicidi come i tradimenol, oxadixil e metalaxil. Tutti questi sono nelle acque sotterranee di 260 punti di rilevamento (l’8,3% del totale) con concentrazioni superiori ai limiti.

La presenza dei pesticidi nel periodo 2003-2016 è cresciuta del 20% nelle acque superficiali e nel 10% di quelle sotterranee. La contaminazione riguarda il 67% dei punti di acque superficiali monitorate e il 33, 5 % di quelli delle acque profonde, dove evidentemente la saturazione è tale da non permettere una diluizione. Tanto che Giorgio Zampetti, direttore di Legambiente, avverte come la situazione di fiumi, laghi e falde acquifere sia «sempre più preoccupante».

L’aumento dipende in realtà in parte da un campionatura più estesa e accurata, soprattutto nella pianura padana, ma è la persistenza di questi agenti chimici nell’ambiente che aumenta i livelli di rischio con l’accumulo nella catena alimentare che dispiega effetti a lungo andare soprattutto sul sistema endocrino umano e può, a livello di specie, ridurre la capacità riproduttiva.

C’è da dire, come nota di speranza, che la vendita dei prodotti fitosanitari più pericolosi dal 2001 al 2014 in base ai dati Istat è sensibilmente diminuita (-12% e -22% per principi attivi) ma si è diffusa quella dei diserbanti e insetticidi più comuni passando, dopo dieci anni di riduzione, a un rialzo fino a 136 mila tonnellate commercializzate nel 2015 (erano 130 mila soltanto l’anno prima).

Il Fatto Quotidiano, 5 maggio 2018. Imbrogli, imbroglietti e imbroglioni per tentar di cancellare il piano di Renato Soru per la difesa delle coste della Sardegna. Da che parte sta l'attuale presidente della Regione?

L’ urbanistica, si sa, in Sardegna è un tema delicato, su cui possono fondarsi i destini politici di una legislatura e su cui può cadere una Giunta. Ne sa qualcosa Renato Soru, il padre della legge salva coste e del piano paesaggistico regionale che si dimise, nel 2008, dopo la bocciatura in Consiglio Regionale di un emendamento alla legge urbanistica allora in discussione e da quel momento in poi rimasta in sospeso. L’onere di riprovarci è toccato all’attuale presidente Francesco Pigliaru, con un disegno di legge di riordino che avrebbe dovuto accogliere le rigorose indicazioni di tutela del Ppr del 2006 ma che in realtà, dicono gli ambientalisti, rischia di stravolgerle, dando il via libera a una nuova colata di cemento sulle coste sarde.

All’articolo 43 (“deroghe per programmi e progetti ecosostenibili di grande interesse sociale ed economico”) e l’allegato A4 sul calcolo del dimensionamento volumetrico assegnato per comune (oltre 9 milioni di metri cubi di cemento in più sulle coste sarde), che lo stesso presidente della Regione Pigliaru, nel corso di un’assemblea pubblica il 27 aprile, si diceva convinto di voler stralciare dal testo generale, insieme alle “grandi deroghe”, troppo arbitrarie, dell’articolo 43.

In questo clima, proprio mentre Pigliaru inaugura la fase d’ascolto pubblica estesa ai portatori d’interesse e alle associazioni, accade il giallo: il 30 aprile sul sito istituzionale della Regione compare per poche ore un testo “unificato” sulle “Norme per il governo del territorio”, contenente delle modifiche mai passate al vaglio del voto nella commissione competente, che provoca la rivolta degli alleati e il rischio di una crisi, poi rientrata dopo i chiarimenti dell’assessore all’Urbanistica Cristiano Erriu e la rimozione del documento dal sito.

Ad alimentare il giallo rimane però un avviso in carta intestata della Commissione Urbanistica che invita le parti interessate a visionare il “Testo unificato del dl 409 - Norme per il governo del territorio” . “Ma quale testo unificato? In Commissione non si era discusso di unificare i testi o di apportare modifiche, eravamo in piena fase istruttoria”. A parlare è Eugenio Lai (Mdp) che subito dopo aver appreso le novità è corso a chiedere spiegazioni sull’accaduto, pronto, se del caso, a ritirare la fiducia alla maggioranza in Regione. “Non c’è stata votazione articolo per articolo ” prosegue, “né tantomeno una votazione finale anche perché la roadmap stabilita da Pigliaru prevede prima l’apertura al dibattito pubblico e solo dopo il momento di sintesi all’interno della maggioranza”.

Cadono dalle nuvole anche gli ambientalisti, fra cui Sandro Roggio, già componente della Commissione Urbanistica regionale nell’era Soru ed oggi schierato contro il ddl Urbanistica: “Ci siamo trovati davanti un altro testo, per giunta con peggiorative . N e ll ’articolo 43 revisionato, ad esempio, i “grandi progetti” presentati su proposta della giunta vengono ora sottoposti all’approvazione del Consiglio regionale. Peccato che così ogni consigliere regionale si sentirà autorizzato a portare gli interessi del suo territorio, dai grandi investimenti del Qatar in Gallura a quelli di un piccolo imprenditore locale in Ogliastra. Un disastro”.

officinadeisaperi.it, 3 maggio 2018. Raccogliamo e rilanciamo un appello per la tutela e l'utilizzazione di un grande patrimonio di testimonianze materiali e immateriali indispensabile per comprendere un'intere epoca della nostra storia (m.b.)

Una singolare vita, quella di Luigi Micheletti (1927-1994), comunista, partigiano, imprenditore, e appassionato di storia contemporanea, raccontata da Pier Paolo Poggio nella rivista telematica della Fondazione “altronovecento”. Nel bresciano c’erano le basi della Repubblica di Salò (RSI). Dopo il crollo, per decenni, pochissimi si occuparono di quella vicenda. Micheletti raccolse tutto quanto era possibile, perché gli storici la studiassero. Con ancora maggiore passione si dedicò a raccogliere manifesti, documenti e testimonianze della Resistenza che rischiavano la scomparsa. Gettò le basi di una biblioteca e archivio che diventarono poi una Fondazione che porta il suo nome chiamando a raccolta persone appassionate come lui. Si rese anche conto che le lotte per la difesa dell’ambiente non erano altro che una delle pagine della protesta popolare contro le fabbriche inquinanti, la speculazione edilizia, la violenza alla natura, insomma testimonianze della storia civile democratica.

Si è venuto così creando a Brescia il più grande archivio dell’ambientalismo italiano attraverso la paziente raccolta degli archivi privati donati in vita o dagli eredi, da molti testimoni di tali lotte. E’ stato così possibile recuperare quanto resta dell’archivio di Laura Conti, staffetta partigiana, medico, consigliere comunista alla Regione Lombardia, fondatrice della Legambiente, in prima fila nelle lotte contro l’inquinamento provocato dall’esplosione della fabbrica di Seveso.

Ma la storia contemporanea si può comprendere soltanto attraverso la storia del lavoro e delle macchine e dell’industria, e alla biblioteca e archivio iniziali si è presto affiancata una straordinaria raccolta di tutte le macchine che la Fondazione riusciva a salvare dalla distruzione. E’ nato il Museo dell’Industria e del Lavoro (MusIL), costituito in ente autonomo nel 2005, contenente incredibili raccolte di macchine utensili, e dei principali settori manifatturieri, ma anche i reperti di due stabilimenti cinematografici, e le collezioni di alcuni pionieri italiani del disegno animato.

E’ così possibile vedere nel MusIL come venivano disegnati, fotogramma per fotogramma, i cartoni animati.Mostrare come si lavorava --- il tema del “lavoro” è centrale nell’impegno del MusIL --- è diventato occasione per incontri con il mondo della scuola ed è suggestivo vedere la sorpresa dei ragazzi per la riscoperta di tecniche artigianali.

Il bresciano è stata la patria della metallurgia alimentata dalla forza del moto delle acque, diventata poi la fonte delle centrali idroelettriche. Il passo successivo della Fondazione è stato il recupero della bellissima centrale idroelettrica di Cedegolo (1910), in Val Camonica, dedicata all’energia dell’acqua, una fonte rinnovabile derivata dal Sole. Il MusIL ha riattivato anche un’officina metallurgica alla periferia di Brescia, alimentata da una ruota idraulica in grado di produrre l’elettricità per le attività didattiche che vi si svolgono.

Ben presto gli spazi per accogliere i materiali del MusIL hanno cominciato a scarseggiare e la Fondazione ha ottenuto in comodato e ristrutturato un grande capannone a Rodengo Saiano a pochi chilometri da Brescia. E’ emozionante vedere esposte decine di macchinari anche di grandi dimensioni, in una gigantesca vetrina che occupa uno dei lati dell’edificio.

I nuovi spazi hanno così potuto ospitare parte degli archivi, le collezioni di macchinari e offrire la possibilità di tenere convegni, lezioni, e permettono di toccare con mano le testimonianze esistenti.
Però il comodato è scaduto, il Comune si disinteressa, i proprietari dell’edificio minacciano di sloggiare il museo e tutto quello che contiene. E pensare che, con grande fatica, il MusIL è riuscito a racimolare i soldi per acquistare questa importante sede, ma l’operazione è ostacolata da lungaggini burocratiche, mettendo a repentaglio un patrimonio irripetibile.

Una beffa anche perché si sta per realizzare un antico sogno di Luigi Micheletti, ridare vita per attività culturali ad uno degli stabilimenti più importanti di Brescia tra ‘8 e ‘900, l’ex Metallurgica Tempini, che può, con restauri e sistemazioni uscire dal silenzio, dopo il vociare di tanti operai per tanti anni, e tornare ad ascoltare la voce di studenti, studiosi, cittadini, divenendo la sede principale del MusIL.

Tutto questo lavoro archivistico e museale è stato affiancato da una intensa attività convegnistica ed editoriale. Si possono ricordare, fra gli altri, i convegni sulla storia dell’energia solare e sulle prospettive di una nuova agricoltura che produca cibo secondo criteri rispettosi delle esperienza e delle singolarità ecologiche locali. La produzione editoriale è cominciata negli anni ’70 e proseguita con la rivista “Studi Bresciani” dal 1980, con alcuni importanti “Annali” e una rilevante serie di monografie, prodotte in proprio o in coedizioni nazionali. La rivista telematica “altronovecento” ha raggiunto venti anni di vita e 40 numeri. Fra i libri si possono ricordare le storie di imprese come la Agusta, la Bernardelli, la Ideal Standard, quelle della siderurgia al forno elettrico nata dal recupero di rottami residuati di guerra, la monumentale storia del “comunismo critico”, curata da Pier Paolo Poggio con quattro volumi pubblicati e il quinto in uscita (presso Jaca Book).

Di grande interesse le ricerche sui rapporti fra industria e ambiente, fra cui si possono ricordare gli studi sull’ACNA di Cengio, sulla Caffaro di Brescia, sulla Farmoplant di Massa Carrara e quello sull’”autarchia verde”. Ma per meglio comprendere perché la Fondazione chiede il sostegno dell’opinione pubblica e delle istituzioni per poter sostenere e ampliare questo grande lavoro la cosa migliore è visitare i due siti: www.fondazionemicheletti.eu e www.musilbrescia.it, ricchi di riproduzioni di testi, di fotografie storiche e di descrizione del patrimonio e delle iniziative delle due istituzioni.

il Fatto Quotidiano, 26 aprile 2018. Un altro bene prezioso della nostra storia. Come sempre, in bilico tra l'esigenza di conservare e quella di trasformarli in merci, affidate alla voracità degli interessi immobiliari, l'egoismo delle archistar, l'incultura degli amministratori

La vecchia signora asburgica, abituata ai tempi lenti dei suoi caffè mitteleuropei, ha preso a correre. “Trieste”, dice Mitja Gialuz, presidente della Barcolana, la più grande regata del mondo quest’anno arrivata alla sua cinquantesima edizione, “è una delle poche città italiane che non nasconde il suo mare”, come fanno invece Genova o Palermo. Anzi lo accoglie come prolungamento naturale della sua piazza più bella. Per i triestini, il mare è Barcola, dove si va a fare il bagno anche tutti i giorni, nella bella stagione. Ma ora il mare è soprattutto il porto. Dal Caffè degli Specchi, in piazza Unità d’Italia, vedi il Molo Audace e intravedi, a sinistra, il porto nuovo, a destra il Porto Vecchio. Le ciacole ai tavolini lasciano il posto ai conti e ai progetti. Sono in arrivo tanti, tanti soldi.

Il porto nuovo è già il primo d’Italia per movimento merci, 61 milioni di tonnellate l’anno, con 36 milioni l’anno incassati di sole tasse portuali. È il primo per collegamenti ferroviari, 8.800 treni l’anno, che portano merci in Austria, in Baviera, a Budapest, nella Repubblica Ceca. Il primo anche per il petrolio che da qui parte verso il Centro Europa con l’oleodotto transalpino. “Ma nel 2017”, racconta il direttore del porto Mario Sommariva, “il traffico di container è aumentato del 25 per cento”. Ora i cinesi hanno deciso che Trieste sarà il terminale occidentale della “nuova via della seta”. Arrivano investimenti da Pechino, ma anche da Turchia, Russia, Danimarca, Usa.

Dall’altra parte, c’è Porto Vecchio, reso punto franco nel 1719 da Carlo VI d’Asburgo e poi ampliato dall’imperatrice Maria Teresa. Gli immensi magazzini, i moli, la grande gru Ursus: una struggente area di 600 mila metri quadrati andata via via in disuso perché le navi si sono spostate al porto nuovo. Area demaniale, cioè dello Stato. Bloccata per anni, inutilizzata e inutilizzabile. È stata l’amministrazione di centrosinistra a sbloccarla, nel 2016: con la “sdemanializzazione”, cioè il passaggio dell’area dal Demanio al Comune. L’ha portata a casa il senatore Pd Francesco Russo, affiancato dal sindaco Pd Roberto Cosolini e dalla presidente della Regione Debora Serracchiani. Non ha portato bene: Russo non è stato rieletto in Senato, Cosolini ha dovuto lasciare il posto al nuovo sindaco di Forza Italia Roberto Dipiazza, Serracchiani sarà molto probabilmente sostituita, dopo le regionali del 29 maggio, dal leghista Massimiliano Fedriga. Saranno loro, Dipiazza e Fedriga, a gestire il domani, insieme all’Autorità portuale presieduta dal veronese Zeno D’Agostino. “È partita”, dice eccitato il sindaco Dipiazza, “una magnifica rincorsa verso il futuro”.

La “sdemanializzazione”, infatti, produce due effetti. Il primo: i privilegi doganali del porto franco saranno via via trasferiti dal Porto Vecchio al porto nuovo, attirando nuovi investimenti privati, soprattutto internazionali, per insediarsi nelle aree retroportuali dove si potrà fare non solo logistica (magazzini), ma anche trasformazione, manifattura, assemblaggio di prodotti arrivati via mare. Il secondo effetto: Porto Vecchio diventa il più grande progetto di riqualificazione urbana del Nordest e uno dei più importanti d’Europa. L’area (doppia rispetto al già riqualificato Porto Antico di Genova) con la sua trasformazione avrà un impatto gigantesco su Trieste, che è una città piccola di 200 mila abitanti. Impatto urbanistico, ma anche economico: sono già arrivati 50 milioni di fondi europei, che ora dovranno essere gestiti da Comune, Regione e Autorità portuale. Ma gli investimenti complessivi previsti, pubblici e privati, potrebbero raggiungere i 5 miliardi di euro. Una succulenta torta Sacher che galvanizza gli amministratori che dovranno gestire il progetto, che fa drizzare le antenne ai grandi gruppi finanziari e imprenditoriali che potrebbero realizzarlo e che attira gli appetiti delle organizzazioni criminali: “C’è anche il pericolo d’infiltrazioni mafiose”, avverte il procuratore della Repubblica di Trieste Carlo Mastelloni.

Ma che cosa fare in quei 600 mila metri quadrati? La polemica è tra progetto unitario e “spezzatino”. C’è chi vorrebbe un concorso internazionale per realizzare un masterplan unitario degli interventi. Qualche archistar ha dichiarato il suo interesse, come Massimiliano Fuksas, già impegnato a progettare una grande torre a Capodistria: “Dopo aver progettato a Beverly Hills, a Los Angeles e a Pechino, ora l’unico luogo che mi interessa, dove lavorare, è Trieste”. Il sindaco Dipiazza il 10 aprile lo ha accompagnato in visita lungo i moli e gli angiporti da far rivivere, ma poi ha imboccato la strada del fare una cosa alla volta: lo “spezzatino”, appunto. Un’area resterà pubblica, con un Museo del Mare (nei Magazzini 24 e 25), un centro congressi e polo fieristico (27 e 28), mercato del pesce e ristoranti (30) e un polo per la ricerca (Magazzino 26) in vista del 2020 quando Trieste diventerà Capitale europea della scienza. Altre parti sono già “impegnate”: l’area terminal per la Msc Crociere, l’area ovest già accaparrata dalla Greensisam Real Estate. Il resto? È possibile che arrivino terziario, residenze, commerciale… Nascerà qui la “Città della scienza” dove potrebbero confluire i tanti istituti di ricerca triestini? Sarà l’ennesima speculazione immobiliare? Il Comune manterrà la guida del progetto o lascerà fare a chi porta più soldi?

il manifesto, 20 aprile 2018. Niente da fare. Da quando Renato Soru non c'è più le coste della Sardegna sono governate dagli "sviluppisti", più o meno aggressivi: il paesaggio è una variabile subordinata. con postilla

Diventa sempre più alta la probabilità che la legge urbanistica della Sardegna, al momento in discussione in commissione, arrivi nell’aula del consiglio regionale prima dell’estate. Dopo le polemiche dei mesi scorsi la maggioranza di centrosinistra guidata da Francesco Pigliaru ha deciso di cancellare dal testo della legge l’articolo più contestato dagli ambientalisti e più pericoloso, il numero 43, in base al quale veniva concessa la possibilità di realizzare «progetti ecosostenibili di grande interesse sociale ed economico» in aree attualmente protette dal Piano paesaggistico regionale (Ppr) approvato nel 2006 dalla giunta Soru, che impedisce ogni costruzione nella fascia dei trecento metri dal mare.

Se approvato, l’articolo 43 avrebbe consentito a grandi gruppi nazionali e internazionali di realizzare progetti di insediamento turistico – prevalentemente alberghi ma anche villaggi – in zone vergini dal punto di vista paesaggistico e attualmente protette dal Ppr. Un meccanismo di deroga rispetto alle norme del Piano paesaggistico contro il quale era insorto tutto il fronte ambientalista, sardo e nazionale, ma anche una parte della maggioranza guidata da Pigliaru. In particolare, dentro il Pd Renato Soru si era spinto ad annunciare un suo voto contrario se nel testo presentato in consiglio fosse rimasto l’articolo 43. Che ora invece sparisce, insieme con un’altra parte del testo originario della legge particolarmente insidiosa per gli equilibri ambientali delle coste sarde, l’allegato 4 sui criteri di calcolo delle cubature comune per comune, che ricalcava vecchie norme degli anni Novanta superate dal Ppr e che avrebbe consentito a molti centri dell’isola di superare le soglie fissate dalle attuali norme di tutela.

Resta invece, nel testo che approderà in consiglio, un altro articolo contestato dagli ambientalisti, il numero 21, che autorizza incrementi volumetrici fino al 25 per cento per gli alberghi già presenti nella fascia dei trecento metri dal mare. La giunta regionale giustifica questa misura con «la necessità di adeguare molti alberghi – dice l’assessore all’urbanistica Cristiano Erriu – alle esigenze del mercato internazionale del turismo, che più che nuove camere richiede servizi, come piscine, solarium, sale benessere». Gli ambientalisti replicano che molti alberghi entro i trecento metri sono già molto grandi e che quindi un aumento delle volumetrie del 25 per cento creerebbe veri e propri ecomostri. Inoltre, molte delle strutture che beneficerebbero dell’articolo 21 hanno già approfittato negli anni scorsi di una sorta di versione sarda della “legge sulla casa” di berlusconiana memoria approntata dalla giunta di centrodestra guidata da Ugo Cappellacci, che ha governato l’isola dal 2009 al 2014. Camere in più ne sono state costruite già tante.

Resta quindi molto duro, nonostante il ritiro dell’articolo 43 e dell’allegato 4, il giudizio degli ambientalisti. «La nuova legge urbanistica – accusa il presidente regionale di Italia Nostra, Graziano Bullegas – è un provvedimento improntato a garantire, attraverso l’articolo 21, il massimo dell’utile in termini di cubature e a considerare il territorio merce di scambio piuttosto che bene comune da preservare. Di fatto serve a svuotare il Piano paesaggistico regionale. E’ sconcertante poi la risposta che la legge urbanistica dà al fenomeno del consumo di suolo: fino al 10% delle superfici già urbanizzate, incrementabile. Scelta in controtendenza rispetto agli indirizzi urbanistici europei». Per Italia Nostra la legge resta pericolosa: «Se approvata riporterà la Sardegna all’edificazione selvaggia e incontrollata».

«Prima di portare il testo della legge in consiglio – replica Francesco Pigliaru – avvieremo, a partire dal 27 aprile, una fase di consultazione di base in tutti i territori dell’isola, attraverso una serie di dibattiti pubblici. Molti nella mia maggioranza dicono che bisogna approvare la legge comunque; io sostengo che bisogna approvarla solo se si raggiunge una sintesi alta, che salvaguardi l’ambiente e nello stesso tempo renda più facile l’adozione dei piani urbanistici da parte dei comuni, oggi bloccati quasi dappertutto».

postilla

In realtà il Piano paesaggistico regionale non tutela solo una fascia di 300 metri (già tutelata dalla "sciabolata" della legge Galasso), ma un'area costiera di dimensione variabile a seconda delle caratteristiche specifiche del territorio, fino a una profondità di circa 3mila m. Sulla nuova legge urbanistica della regione Sardegna si veda tra l'altro su eddyburg Sardegna, legge urbanistica con pseudo tutela e Sardegna. Quod non facerunt barbari .

arcipelagomilano.org, 17 aprile 2018. Un caloroso invito a partecipare al grande corteo sonoro organizzato per difendere Città studi, un'area vitale per la città che vorrebbero distruggere mediante la "rigenerazione urbana". Le ragioni dei cittadini di Augusta per una vicenda connessa

Rispondo all’appello di Luca Beltrami Gadola a difesa della città di Milanocontro scelte politiche inadeguate, e chiedo ai lettori di Arcipelago dimettersi insieme e unirsi al corteo sonoro che giovedì 19 aprile partirà dapiazza Leonardo da Vinci per dire NO al trasferimento delle facoltàscientifiche a Rho Expo e SI’ al loro sviluppo nella storica sede di CittàStudi. Con vari strumenti musicali faremo sentire nuovamente la nostra vocedopo il grande successo della fiaccolatadel 7 novembre scorso che ha visto oltre 1000 persone scendere instrada a difesa di un pezzo di città.
Perché?
Come esposto più volte in vari articoli apparsi su questa rivista:

1.Città Studi è un quartiere universitario che funziona, è integrato neltessuto urbano, è vivace e accogliente, unisce saperi diffusi e sperimentacoesione nella città. Tutte le università, là dove possibile, si espandonopartendo dal loro nucleo centrale e a Città Studi lo spazio c’è. Costerebbeanche di meno. Ma del famoso studio comparativo, tra quanto costerebberilanciare Città Studi e quanto andare a Expo, non c’è traccia. Studiocomparativo tanto richiesto dai cittadini, durante i vari momenti di cosiddettapartecipazione, che servirebbe a capire con quali criteri si facciano certe sceltepolitiche con i soldi pubblici.

2. L’Università Statale verrebbe penalizzata con quasi 100 mila mq in meno.Sì, certo, a Expo si razionalizzerebbero gli spazi, come sostengono i fautoridel trasferimento, ma andate a chiedere ai matematici e agli informatici cosapensano di questa tanto decantata razionalizzazione che in pratica non sarà chel’allocazione dentro anonimi edifici di tutte le aule per lezioni della Facoltàdi Scienze, da utilizzare a rotazione per i vari corsi di laurea.
Ricordiamo che a causa di questi limiti di spazio, la maggior parte delpatrimonio librario delle attuali biblioteche di Matematica, Fisica, ecc. nonpotrà confluire nell’unica Biblioteca prevista in area Expo e questi tesorifiniranno dimenticati in un magazzino inaccessibile a Sesto. Inoltre non cisarebbe alcuna possibilità di futura espansione del nuovo campus, visto che illuogo è notoriamente chiuso fra tangenziali e autostrada.

3. Un intero quartiere subirebbe un graveespianto: si trasferiscono servizi pubblici come l’UniversitàStatale e due Istituti ospedalieri, Besta e Tumori, in cambio di vaghe promessee progetti per i quali non è stanziato neppure un euro.

Unica eccezione il barcone naufragato nel Canale di Sicilia il 18 aprile2015 – evento in cui morirono 700 migranti- che dovrebbe arrivare la prossimaestate nel cortile di Veterinaria, in via Celoria. Per il suo trasferimento daAugusta sono stati stanziati 600 mila euro nell’ultima legge di bilancio. Unemendamento voluto dall’onorevole Quartapelle, con l’intenzione di creare unMuseo dei diritti umani, caldeggiato dalla professoressa Cristina Cattaneo delDipartimento di Medicina Legale che ha coordinato l’umanissimo lavoro diidentificazione dei cadaveri delle vittime.

Senza nulla togliere a questo lodevole progetto, resta da chiedersi se nonabbia invece ragione il “Comitato 18 Aprile” di Augusta, sorto nel 2016, di cuifanno parte vari cittadini partecipi e attivi sul fronte della migrazione,oltre che la Cgil e Legambiente, e sostenuto da parroci e dalla sindaca CettinaDi Pietro. In un comunicato stampa del 18 dicembre 2017 sostiene che queisoldi avrebbero potuto essere utilizzati per salvare vite umane e, soprattutto,ribadisce che il “Giardino della memoria” gli abitanti di Augusta lo vorrebberogiustamente a casa loro, visto che è proprio la comunità siciliana che si è distintanella solidarietà nei confronti dei migranti. I giovani democratici siciliani hanno già espresso la loro contrarietà a tale progetto.

Claudio Fava, consigliere regionale di Centopassi ha presentato a febbraio2018 un’interrogazioneal presidente della Regione, Nello Musumeci, e all’assessoreregionale alla Cultura, Vittorio Sgarbi, per chiedere di intervenire colgoverno nazionale al fine di evitare l’ennesimo scippo ad Augusta e l’ultimadepredazione del patrimonio museale dell’isola.”. Viene da chiedersi per qualimotivi Milano voglia arrogarsi tale diritto sul relitto/simbolo. Secondo leparole del consigliere comunale di Augusta Giancarlo Triberio: “a Milanorisulterebbe del tutto decontestualizzato sia sotto il profilo geografico,perché totalmente estraneo al luogo del naufragio, sia sotto il profilostorico, perché è questa città e questa regione a subire il maggiore impattodell’immigrazione dal mare.”
Ancora una volta si ignora la proposta e la voce di una collettività dipersone, in questo caso sensibili e impegnate sul fronte dell’accoglienza.

4. L’intera città sarebbe impoverita, preda di una politica urbanisticaassoggettata a interessi privati. In tutta questa vicenda assisto oramai datempo a operazioni dove gli interessi privati prevalgono sul bene pubblico,dove le sane e spontanee reazioni dei cittadini vengono distorte e si vuol farpassare una critica costruttiva come una visione miope e conservatrice. Osservoun’amministrazione pubblica che sta progressivamente trasferendo all’areaprivata alcune delle proprie competenze fondamentali. Un’amministrazione che èsotto il controllo del mondo dell’impresa, dell’economia e della finanza.Scelte politiche su come assegnare risorse, stanziare fondi, distribuirebenefici, localizzare investimenti e altri tipi di decisioni vengono dirottativerso direzioni altre, che noncoincidono con il bene della collettività. Scelta di strumentifinanziari come il project financing che relegano ilsoggetto pubblico ad una marginalità decisionale e ad una sudditanza operativasempre più marcata a vantaggio di grandi operatori privati”.

Un’amministrazione pubblica depauperata della sua coscienza sociale chevorrebbe cittadini con una coscienza partecipativa allineata e mai critica.Nella pratica una riduzione di libertà. Perché ogni cm quadrato di territoriodella città mal gestito, gestito senza una visione unitaria e armonica ogestito solo nell’interesse di pochi è un cm quadrato di libertà in meno perciascun cittadino. Sia che si tratti di un cittadino del centro storico o diuna periferia. Senza alcuna distinzione.
Nonostante l’abilità comunicativa nel creare un consenso diffuso erassicurante costruito su una serie di promesse e illusioni.

5. Sarà la nostra risposta alle carichedella polizia del 6 marzo. E se anche dovessimo essere solo in 10 alcorteo del 19 aprile, quei 10 non saranno mai dei perdenti, perché i perdentirimarranno coloro che hanno voluto blindare, chiamando poliziotti e carabinieriin assetto antisommossa, la via S. Antonio dove il Senato accademicodeliberava. Un corpo accademico che teme i propri studenti con le mani alzate.Studenti che chiedono di partecipare e far sentire la loro voce su una sceltastorica di tale portata. Zittiti, manganellati. La forza contro la parola. Unabrutta scena alla quale non avrei mai voluto dover assistere.
Per tutti questi motivi è davvero arrivato il tempo di unirci, di tornare albene comune della città, di riappropriarci anche della solidarietà e dellareciproca partecipazione tra i tanti comitati milanesi che difendono unavisione etica e unitaria della città, che si oppongono a scelte improvvisateper sanare precedenti operazioni fallimentari che hanno arricchito solo pochi eimpoverito la città. Comitati di cittadini che difendono il verde contro lacementificazione, il pubblico contro il privato.

Raccogliamo l’appello del Direttore di Arcipelago, e mettiamo in atto leparole con cui si chiude un articolo su Città Studi apparso suOfftopic:
«Si sta giocando in questi mesi una partita che città e istituzionivorrebbero chiusa. Noi diciamo invece che la partita è ancora aperta, e che lacittà può essere convocata. Perché c’è già in atto un processo collettivo,disperso nei quartieri, di difesa dei beni comuni. Un percorso che riguardastudenti, collettivi, comitati, cittadini, abitanti di diverse parti dellacittà, lavoratori».
Immaginiamo la forza che avrebbe questa cosa. La forza di una rivoluzione.

Cominciamolaquesta rivoluzione pacifica. Partiamo dal corteo del 19 aprile!

il Fatto quotidano, 14 giugno 2018. Come faranno a convivere due posizioni così radicalmente diverse? Conoscendo i politici italiani, non siamo ottimisti. Ma la speranza è l'ultima a morire

Mentre si profila una possibile intesa fra Luigi Di Maio e Matteo Salvini, mi tornano in mente le dure polemiche consumatesi in Parlamento fra i loro due gruppi in materia di cultura, di natura, di ambiente, di aree protette, e, comunque, le opposte opinioni espresse.

Andate a rileggervi sul sito dei 5 Stelle il programma elettorale in materia di beni culturali e paesaggistici: 1) Bisogna difendere e rafforzare il ruolo delle Soprintendenze indebolite dai governi Berlusconi e Renzi sul piano dei poteri; 2) Bisogna tornare a dividere il Turismo dai Beni culturali evitando che il Mibact consideri quei beni o quel centri storici, beni commerciali, “macchine da soldi”.

All’opposto le posizioni della Lega (e in generale del centrodestra): in uno “storico” dibattito televisivo da Bruno Vespa, Matteo Salvini, infuriato per la bocciatura (sacrosanta) di un’altra strada sul Lago di Como da parte del soprintendente Luca Rinaldi, se ne uscì reclamando l’abolizione delle Soprintendenze e dei loro “assurdi vincoli e poteri”. E la renzianissima Maria Elena Boschi fu di fatto d’accordo: “Della soppressione delle Soprintendenze si può discutere, noi intanto, con la riforma Franceschini, le abbiamo ridimensionate…”. Renzi docebat.

Non meno opposte le posizioni della Lega e dei 5 Stelle in materia di paesaggio e di ambiente, di parchi. Nei mesi scorsi ci sono state forti polemiche (che hanno spaccato pure il Pd) sulla legge Caleo che sfasciava la legge Cederna-Ceruti del 1991 sulle aree protette. La quale ha consentito – pensate quale “rivoluzione verde” – di portare da 4 appena a ben 24 i Parchi Nazionali e a 136 quelli regionali. Con una superficie protetta che da un 4 per cento scarso dell’Italia è balzata all’11 per cento. Con un evidente beneficio per la biodiversità vegetale e animale, per i nostri polmoni e per la nostra salute in generale in tempi di smog sempre più grave nelle città e nelle aree metropolitane.

Contro il disegno di legge “Sfasciaparchi” (firmato dall’onorevole Massimo Caleo del Pd, trombato il 4 marzo) e a difesa della legge Cederna-Ceruti è intervenuto lo stesso Beppe Grillo che nel suo blog ha fatto alcune affermazioni di questo tenore: “La vera scommessa sarebbe quella di destinare maggiori risorse alla tutela del patrimonio attuale che contribuisce alla ricchezza della Nazione e affinare ed estendere le competenze di gestione al di là dei 24 parchi nazionali e delle 30 aree marine protette per garantire una tutela attiva, ad esempio agli oltre 2.200 siti di interesse comunitario localizzati nel nostro Paese, fiore all’occhiello della Ue nel mondo. E invece abbiamo a che fare con una bassa cucina della politica che vuole condizionare le nomine del presidente e dei Direttori dei parchi nazionali (…) e ridurre le aree marine protette a una sorta di condominii degli enti locali”.

Durissimo Grillo contro l’idea di introdurre “royalties” per quanti sfruttano le risorse dei Parchi, e concedere così “una licenza ad inquinare”, a rapinare con cave, estrazioni petrolifere, ecc. Con una frase finale ammonitrice che vale per tutto il patrimonio storico-artistico-paesaggistico: “La tutela non può, non deve essere sacrificata allo sviluppo economico”. Da applausi.

E Salvini? E la Lega? Tutto il contrario: vogliono anzitutto fare “spezzatino” anche dei più antichi Parchi Nazionali e ci sono già riusciti col Parco Nazionale dello Stelvio (80 anni di vita) diviso fra Lombardia, Trento e Bolzano. Vogliono rendere “remunerativi” gli stessi. Vogliono da sempre reintrodurre la caccia nei parchi e nei loro immediati dintorni anche per le specie protette, ecc. ecc. Ma quali accordi di governo sono mai possibili su materie così strategiche per la salute, la cultura, il benessere psico-fisico degli italiani? Quali compromessi fra civiltà e barbarie?

il Fatto quotidiano, 4 aprile 2018. Il drammatico elenco della gigantesca indigestione di cemento, vetro, acciaio, asfalto e pattume vario che sta ingozzando, usque ad mortem, una città una volta non priva di futuro e bellezza

Milano è cambiata (in meglio) negli ultimi anni. Ma promette di cambiare ancor di più nel prossimo decennio (in peggio?). Sono in cantiere in questi mesi progetti che coinvolgono oltre 3 milioni di metri quadrati: spazi immensi, che possono trasformare la città. Area Expo (1,1 milioni di metri quadrati). Scali ferroviari (1,2 milioni di metri quadrati), Bovisa Gasometro (850 mila metri quadrati), Aree Falk e Città della Salute (1,4 milioni di metri quadrati). Quest’ultima è a Sesto San Giovanni, ma ormai non c’è soluzione di continuità tra Milano e i Comuni che la circondano. Se poi ci aggiungiamo le trasformazioni in corso o progettate a Città Studi, a Citylife, a Fiera Milano City, alla Piazza d’Armi e nell’infinito cantiere di Milano Santa Giulia a Rogoredo, il cambiamento diventa ancor più radicale.

È possibile valutare i grandi progetti uno per uno, soppesando annunci e realtà, promesse palesi e interessi sotterranei. Ma poi si può fare un esercizio ulteriore: guardarli tutti insieme, quei progetti, confrontarli e sovrapporli, scoprendo duplicazioni, conflitti, imposture. Il quadro che ne esce mostra che a Milano si sta progettando il futuro con tanto cemento ma senza alcuna visione strategica globale, più attenti agli interessi privati che al bene comune dei cittadini. Si sta anche preparando una nuova bolla immobiliare?

Area Expo. L’operazione “Mind” è il più grosso affare in corso a Milano: 510 mila metri quadrati di nuovi edifici, che ospiteranno 40 mila utenti, per un progetto da 2 miliardi di euro. Sarà soprattutto terziario (200 mila mq), con l’arrivo, per ora solo ipotizzato, di grandi aziende come Novartis, Bayer, Glaxo, Bosch, Abb, Celgene, Ibm. Poca residenza (63 mila mq) di cui 9 mila senior living, cioè residenze di altissimo livello, e 30 mila di social housing, ossia case a prezzo calmierato. In più, altri 54 mila mq di residenze per studenti. Completano il progetto 16 mila mq di spazi commerciali, ma senza grande distribuzione, e 7 mila mq di hotel. Tutto gestito dai privati di Lend Lease insieme alla società pubblica proprietaria delle aree, Arexpo.

Investimenti previsti: 2 miliardi pubblici e 2 privati. Per sviluppare il progetto e “valorizzare” almeno 250 mila mq, Lend Lease verserà ad Arexpo 671 milioni di euro, in cambio di una concessione che durerà 99 anni. Altri 230 mila mq saranno “valorizzati” direttamente da Arexpo, che conta di ricavarci 130 milioni, o vendendoli a Lend Lease o direttamente a privati. Oltre a tutto ciò, sull’area sorgerà anche un ospedale, l’ortopedico Galeazzi, che pagherà ad Arexpo 25 milioni per i 50 mila mq ottenuti.

Ma ciò che renderà davvero possibile l’operazione “Mind”, facendo da calamita per le aziende hi tech e big pharma, sarà il trasferimento sull’area Expo delle facoltà scientifiche dell’Università Statale (150 mila mq, costo ipotizzato 380 milioni), oltre al più piccolo centro di ricerca Human Technopole su genoma e big data, che ha già occupato Palazzo Italia e si amplierà ad alcuni edifici a ovest dell’Albero della Vita.

Secondo il progetto Lend Lease, 460 mila metri quadrati dell’area saranno occupati da un parco. Ma per raggiungere questa cifra si devono sommare anche i canali, l’anello esterno, l’arena, la Cascina Triulza e aree come il “decumano” e il “cardo” di Expo, che saranno in realtà trasformati in viali pedonali alberati (rispettivamente di 60 e 35 mila mq), su cui dovranno comunque transitare automezzi per i rifornimenti e che saranno creati sopra la piastra di cemento che impedisce la piantumazione di alberi ad alto fusto. Chi non ha la memoria labile ricorda inoltre che i cittadini milanesi nel 2011 hanno votato “Sì” a un referendum consultivo che impegnava a lasciare a parco tutta l’area.

Scali ferroviari.Sette grandi aree delle Ferrovie dello Stato (scali Farini, Romana, Porta Genova, Lambrate, Greco Breda, Rogoredo, San Cristoforo), per oltre 1 milione di metri quadrati, saranno riprogettate. È stato fatto un accordo con il fondo anglosassone Olimpia investment fund: sorgeranno nuovi edifici per 674 mila metri quadrati. Meno di un terzo dovrebbe essere edilizia convenzionata, per il resto speculazione immobiliare: residenze, uffici, aree commerciali.

La giunta di Giuseppe Sala presenta il progetto come una grande occasione per rinnovare la città. Ma nelle due aree più grandi e preziose, lo Scalo Farini e lo Scalo Romana, l’indice edificatorio è altissimo, più dello 0,8: vuol dire quasi 1 metro quadrato di superficie lorda di pavimento (slp, in pratica la somma delle superfici dei piani costruiti) per ogni metro quadrato di area. Un diluvio di cemento, che potrà portare almeno 500 milioni di euro nelle casse delle Ferrovie.

Questi terreni sono stati pagati dalla collettività e dati in passato alle Fs per il trasporto pubblico, ma oggi le Ferrovie li usano per fare cassa, come fossero un immobiliarista privato. Il Comune di Milano ha lasciato loro mano libera e concesso un accordo di programma, trattandole alla stregua di un investitore estero. Le istanze di cittadini e comitati, che chiedevano di destinare le aree soprattutto a verde, non sono state prese in considerazione. Contro il progetto sono stati presentati ricorsi al Tar, alla Corte dei conti, alla Presidenza della Repubblica, all’Autorità sulla concorrenza. Si denuncia la mancata pubblicazione di una variante al Pgt (Piano di governo del territorio), che ha impedito ai cittadini di formulare osservazioni, e la carenza dei necessari spazi pubblici.

Città della Salute. Sulle aree di Sesto San Giovanni un tempo occupate dalle acciaierie Falk saranno costruiti edifici per 1 milione di metri quadrati. L’indice edificatorio è altissimo, 0,90: si potrà costruire quasi 1 metro quadrato di pavimento per ogni metro quadrato di area. Il progetto è stato chiamato “Città della salute e della ricerca”, perché qui saranno edificate le nuove sedi dell’Istituto neurologico Besta e dell’Istituto dei tumori: spesa 480 milioni (328 li mette la Regione, 40 lo Stato, 80 i privati). Quanto alla ricerca, il progetto sull’area Expo ha sostanzialmente scippato l’idea a questa area. Così, a parte i due ospedali, tutto il resto è il solito terziario, residenziale e centri commerciali. Tanto che Renzo Piano, che aveva firmato il primo progetto, se n’è andato sbattendo la porta (“Lascio il progetto dell’area ex Falck. Non sono certamente il garante di uno shopping center con un parco divertimenti”). L’operatore è la Milano Sesto dell’immobiliarista Davide Bizzi, insieme al gruppo arabo Fawaz Abdulaziz Alhokair che ha il 25 per cento della società.

Bovisa Gasometro
. Nel quartiere della Bovisa c’è una vasta area che dal 1906 ha ospitato i gasometri e poi, fino al 1994, è stata utilizzata per la produzione di energia. Una parte, chiamata “La Goccia”, di 80 mila metri quadrati, sarà bonificata (da metalli pesanti, arsenico, cianuro, idrocarburi e composti organici cancerogeni), dopo una sospensiva chiesta da un comitato locale, e restituiti a verde.

Una parte più vasta, di 850 mila mq di proprietà mista Comune, Politecnico e A2a, non ha ancora una destinazione, che sarà decisa nella prossima revisione del Piano di governo del territorio. Il Comune sostiene che manterrà per l’area una destinazione prevalentemente pubblica, con un parco e la realizzazione del campus del Politecnico. Ma, anche qui, una parte della volumetria sarà probabilmente usata per residenza e terziario.

Citylife. È il nuovo quartiere residenziale costruito sulle aree della vecchia Fiera campionaria di Milano e realizzato da Generali con Allianz (socio di minoranza che poi si è sfilato). Ha il record della cementificazione: l’indice edificatorio è 1,15. È quasi completato: pronti i grandi palazzi disegnati come fossero navi, pronto il centro commerciale Citylife, pronti due dei tre grattacieli progettati, quello di Zaha Hadid (lo Storto), dove andrà Generali, e quello di Arata Isozaki (il Dritto), nuova sede di Allianz. Mancano ancora il terzo grattacielo, “il Curvo”, firmato da Daniel Libeskind, che sarà affittato a PricewaterhouseCoopers, e alcuni edifici minori. Per finire quel che manca non c’è la ressa dei finanziatori, visto che quasi il 50 per cento delle residenze già completate, 10 mila euro al metro quadrato, sono invendute. Anche il rapper Fedez, che aveva comprato un appartamento, lo ha già messo in vendita.

Santa Giulia. Santa Giulia è un quartiere residenziale su un’area da 1,2 milioni di metri quadrati, con accanto la grande sede di Sky. Avventura intrapresa dall’immobiliarista Luigi Zunino, con progetti ambiziosi affidati all’archistar Norman Foster, finito però in mano alle banche dopo il crac di Zunino del 2010 che ha impedito il completamento del progetto: ci sono ancora 400 mila metri quadrati da edificare. Ci penserà Lend Lease, lo stesso gruppo che ha vinto la gara per le aree Expo e che gestisce il project management (cioè lo sviluppo) di City Life. Ha sottoscritto a ottobre 2017 un accordo con Risanamento spa, la società che un tempo era di Zunino, e ora dovrebbe edificare i lotti Nord, quelli rimasti incompiuti, 50 per cento residenziale di lusso, il resto terziario e alberghiero.

Piazza d’Armi. È un’area militare di 416 mila metri quadrati, compresa tra la caserma Santa Barbara e gli ex Magazzini di Baggio. Invimit, la società del ministero del Tesoro incaricata dal Demanio della valorizzazione della Piazza d’Armi, aveva incaricato l’architetto Leopoldo Freyrie di realizzare un masterplan che prevedeva un eco-quartiere di 4 mila alloggi, con un parco di 270 mila metri quadrati (più grande dei Giardini pubblici di Porta Venezia). Poi invece è arrivata la proposta dei nuovi padroni dell’Inter, che vogliono farne il campus della squadra, investendo 100 milioni di euro per 300 mila metri quadrati (dei 416 totali), realizzando 20 campi da calcio, una residenza sportiva, palestre e un centro medico specializzato. Sparisce il quartiere progettato da Freyrie, ma in compenso il verde prima pubblico diventa privato. E il costruito è comunque di 270 mila metri quadrati (equivalente a quello di Citylife). Sono in corso valutazioni sul rischio bellico e indagini ambientali, per quantificare i costi delle bonifiche necessarie.

Progetti di Catella. Manfredi Catella, immobiliarista figlio d’arte che si è fatto le ossa con Salvatore Ligresti, è forse l’investitore italiano più attivo negli ultimi anni nel business immobiliare milanese. Dopo aver guidato le attività italiane di Hines, colosso immobiliare americano, ha fondato Coima. Con Hines ha realizzato la riqualificazione dell’area di Porta Nuova (che comprende, tra l’altro, il celebrato Bosco Verticale di Stefano Boeri e la Unicredit Tower di Cesar Pelli, che racchiude piazza Gae Aulenti, diventata uno dei luoghi glam della città).

Il progetto Porta Nuova lo aveva rilevato da Ligresti alla vigilia del suo fallimento e lo ha poi girato al fondo sovrano del Qatar. Di Coima è il business center delle Varesine, il quartier generale della Vodafone in via Lorenteggio e la nuova sede di Microsoft e Fondazione Feltrinelli disegnata da Herzog & de Meuron a Porta Volta.

Coima costruirà anche il grattacielo di 26 piani che prenderà il posto della torre Inps di via Melchiorre Gioia e si è aggiudicata gli attigui 32 mila metri quadrati, ex parcheggio su area comunale.

In conclusione. Cifre totali: a Milano sono in arrivo nuove costruzioni su oltre 3 milioni di metri quadrati, di cui buona parte a destinazione terziario e residenziale. Questo in una città che ha invenduti o sfitti 1,5 milioni di metri quadrati a uso commerciale. Secondo la società immobiliare internazionale Cushman & Wakefield è vuoto il 6,8 per cento degli uffici nelle aree centrali, il 16 per cento in periferia e il 13 per cento nell’hinterland. A questi “vuoti” si sommano, nell’edilizia residenziale, circa 30 mila appartamenti sfitti o inutilizzati.

A che cosa serve, allora, aggiungere altro cemento? Agli operatori immobiliari serve perché le aree edificabili e i progetti da realizzare sono valori preziosi da mettere a bilancio ed esche per ottenere altri ricchi finanziamenti dalle banche. Un capitale fittizio (finché non si vende) che negli anni scorsi ha portato al dissesto di operatori come Zunino e Ligresti e all’esplosione dei crediti deteriorati nei bilanci delle banche. Il rischio dunque è che il nuovo sviluppo di Milano stia costruendo, nell’euforia generale, la nuova bolla immobiliare destinata a scoppiare in un domani ormai non troppo lontano.

Quello che manca è una visione d’insieme, un progetto unitario, saldamente nelle mani del pubblico amministratore (che dovrebbe essere il sindaco della città metropolitana, dunque Giuseppe Sala). Ogni area ha una storia a sé, ogni grande progetto (Expo, Scali Fs, Città della Salute) è pensato come un’isola senza contesto, ha i suoi padrini politici, passati e presenti, ed è sostanzialmente lasciato in balìa degli operatori privati che decidono che cosa fare, mentre la pubblica amministrazione si limita a ringraziarli per i soldi che portano. Nel migliore dei casi, la pubblica amministrazione cerca di contenere un po’ le volumetrie per non fare esagerare con il diluvio di cemento.

È questa la grande Milano che sta crescendo sotto i nostri occhi, celebrata con enfasi da amministratori e media?

Articolo ripreso dalla pagina qui raggiungibile

la Nuova Venezia, 6 aprile 2018. Il racconto altisonante di come un'archistar trasforma un territorio in un immaginario fatto di lusso, bon ton e tanta ricchezza. Nei dettagli l'amara verità. La ex colonia trasformata in un enclave ad uso esclusivo dei ricchi. (m.p.r.)

STELLA DEL MAR

MAXI RESIDENCE A JESOLO
PROGETTO DA 75 MILIONI

Jesolo. Un progetto da 75 milioni di euro, nasce allido "The Summer Houses - Design District", residence con 99 appartamenti e albergo in via Levantina, fronte mare. Le costruzioni ad uso turistico non si fermano e Jesolo prosegue nella sua lenta opera di rinnovamento con la costruzione di un complesso che diventerà uno dei più grandi sul litorale. Ancora una ricettività destinata a un target molto alto, che ormai ha preso il sopravvento nella Jesolo del futuro. I turisti con disponibilità economiche che scelgono la località per la sua posizione strategica, la spiaggia, l'intrattenimento ad ampio raggio, la vicinanza a Venezia.

Con queste premesse, gli investimenti non mancano perché chi ha soldi da spendere non ci pensa troppo quando si tratta di soggiornare in strutture di altissimi livello o di acquistare ville e appartamenti lussuosi. La Massimo Frontoni Avvocati, con un team formato dal fondatore Massimo Frontoni e da Andrea Mattioli, ha ricevuto l'incarico di assistere la società Ponente Italia srl e Stella del Mar srl, con gli sponsor Kronberg International - Berlin e RIV Group Sas - Jesolo. Seguirà tutta la parte contrattualistica che è alla base della realizzazione del complesso urbanistico "The Summer Houses - Design District". Contratti di direzione lavori, contratti con gli appaltatori e tutto quanto attiene al progetto. Sorgerà sulle aree di proprietà di Stella del Mar Srl, in corrispondenza del numero civico 241 di via Levantina, poco distante dal complesso Jesolo Lido Village.
La ex colonia è stata rasa al suolo, aprendo questa ulteriori finestra sul mare tra la zona dell'ospedale e piazza Milano che sta diventando davvero il tratto di litorale più prestigioso dopo gli anni delle piazze e dei grattacieli che hanno deluso le aspettative del mercato turistico e immobiliare.La concessione edilizia è stata rilasciata il 16 marzo 2018 dal Comune. Il totale degli investimenti previsti è di 50 milioni di euro per la parte residenziale e altri 25 milioni per l'albergo che completerà il quadro delle strutture ricettive "stellate" al lido. Progetto dell'archistar Richard Meier di New York che a Jesolo ha già sperimentato il suo genio allo Jesolo Lido Village. Novantanove saranno le unità residenziali oltre a una struttura ricettiva residence e hotel cinque stelle con garage interrato. Il lotto è una delle ultime aree edificabili sul fronte mare in questa location di lusso e si estende su una superficie di complessivi 11.500 mq con forma rettangolare di circa 100m x 110m.
Ecco un famoso scempio di Richard Meier
nel delicato centro storico di Ulm

Una zona tranquilla e un po' fuori dalle rotte del turismo degli eccessi, spostatosi ormai verso il cuore del lido. Da piazza Milano verso il lido est Kronberg International e RIV Group saranno gli sponsor di riferimento. Massimo Frontoni Avvocati è uno studio specializzato nel settore edilizio e immobiliare, delle grandi infrastrutture e dei servizi di pubblica utilità. Ha fornito la consulenza legale. Il gruppo Kronberg è conosciuto a livello europeo, in particolare nel mercato tedesco, austriaco e italiano, nel settore immobiliare da oltre 25 anni. RIV Group è invece uno dei leader del mercato Jesolano con 20 anni di esperienza che ha realizzato 1.000 appartamenti. Due partner importanti per una delle operazioni immobiliari di maggior peso al lido, destinata a far parlare anche perché si inserisce in un tratto di litorale contraddistinto da molteplici strutture ricettive di altissimo livello per una clientela selezionata proveniente da tutta Europa

PISCINE, SAUNE E DISCREZIONE

COSÌ IL LIDO HA CAMBIATO VOLTO
«Questa nuova opera va a occupare la zona compresa tra l'ospedale e piazza Milano
Un quadrilatero d'oro sempre fronte mare per una clientela che non bada a spese»


JESOLO. In principio è stato lo "Jesolo Lido Village". L'architetto newyorkese Richard Meier era uno degli archistar di fama internazionale che mai ci si sarebbe aspettato di vedere al lido per nuovi disegnare nuovi progetti, concepire spazi e forme avveniristiche per il turismo internazionale.Nei primi anni del 2000 quel suo progetto sembrava atterrare direttamente da Miami, bianco candido, sottili ringhiere a vista. E fu subito un modello da imitare. Gli investimenti arrivavano dall'Alto Adige e facevano capo alla ricca e dinamica famiglia Reichegger, così come i primi ospiti di una lunga schiera disposta a spendere per questi villaggi avulsi dalla normale realtà jesolana.

L'architetto di fama mondiale Richard Meier aveva presentato davvero un'offerta residenziale che non aveva precedenti nel litorale veneziano. Lui stesso disse a proposito del progetto: «Sto creando un nuovo concetto di spazio, dove trascorrere le vacanze e il tempo libero, utilizzando come unità di misura le dimensioni umane». Sono sorti così tre elementi integrati tra loro, The Pool Houses, The Beach Houses e The Hotel & Spa. Tutto bianco per catturare la luce naturale e lussuosi appartamenti per vacanze andati a ruba quasi subito, chiusi nella loro impenetrabile area che quasi non pare avere rapporti con l'altra Jesolo.
Qui si vedono famiglie numerose dai tratti "kennedyani" con patriarchi carismatici, eleganti figli devoti ed emancipati, nuore bellissime, nipotini educati e ben vestiti. Quelle famiglie che discendono dai monti o arrivano dalle plaghe europee in cerca dello sbocco sul mare di Venezia.Era solo l'inizio di un lungo cammino dorato. Di lì a pochi anni è arrivato il primo hotel a cinque stelle di Jesolo, il gigantesco hotel Almar, tutto jesolano nella proprietà che fa riferimento alla famiglia Boccato, oggi riferimento per l'alta cucina e gli eventi internazionali, seguito a breve distanza, di metri e anni, da un altro grande hotel della catena altoatesina Falkensteiner, anche questo molto richiesto da una clientela europee dal palato fine e il contante sempre disponibile. Hanno offerto aperture destagionalizzate, saune e centri Spa.Il polo del lusso tra la zona ospedale e piazza Milano si completa ora lungo via Levantina con questa nuova opera di Meier che stupirà ancora lasciando il segno della sua mano nuovamente al lido.

perUnaltracittà, newsletter 4 aprile2018. Firenze. Come distruggere insieme urbs e polis. L'insegnamento della città guida del renzismo urbanistico. Ma contrastare si può passando dalla denuncia all'azione.

Proprio in nome della “rigenerazione urbana”, una Variante al Regolamento Urbanistico sottopone a trattamento degenerativo il corpo esangue della città storica e lo predispone a nuova speculazione immobiliare. La Variante al RU, approvata dalla Giunta e a breve in discussione consiliare, aggredisce il patrimonio edilizio storico e abolisce l’obbligatorietà del restauro sui monumenti architettonici: la loro tutela viene demandata alla libera discrezionalità della Soprintendenza, ridotta allo stremo dalla riforma Franceschini.

Nel feudo del declinante potere renziano

All’ultimo anno di mandato, la Giunta Nardella si esprime con questo pericoloso provvedimento che apre la strada agli appetiti sulle architetture monumentali del centro città e delle colline, che agevola la sciagurata vendita di edifici storici di proprietà pubblica e che, infine, legittima vecchie speculazioni bloccate dal sistema giudiziario. È l’estrema torsione amministrativa, liberista e servile, un regalo agli “investitori”, agli immobiliaristi, ai parassiti della rendita.Ma è principalmente un atto di selezione sociale.

L’accelerazione impressa dalla Variante rafforza infatti il processo di esclusione della vita civile e delle funzioni sociali dai luoghi rappresentativi della comunità cittadina, prodromo dello spossessamento degli spazi pubblici e comuni. Corrobora ulteriormente la già avviata sostituzione dei residenti con «utenti» che, dotati di notevole disponibilità economica, influiscono sull’assetto urbano senza tuttavia partecipare alla vita politica[1]. Tutta urbs niente polis, verrebbe da dire. La popolazione ideale da governare.

Tutto il contrario di quanto sarebbe auspicabile per ridar vita alla città storica. La soluzione è da ricercare semmai in politiche cariche di valenza sociale, che tutelino l’ambiente di vita urbana tutelando la vita ivi condotta, secondo l’esempio originario di Bologna (anni Sessanta-Settanta), certo da rinnovare, perfezionare e rendere applicabile nei giorni presenti.

Carico di tali connotati sociali, il restauro è stato consacrato dalla cultura e dalle pratiche urbanistiche come il metodo di intervento più indicato sulle città storiche. Mai era stato messo in crisi, formalmente, il principio della tutela dell’edificato storico. Ci prova ora – sotto le insegne dell’innovazione urbana, ma da solida posizione di retroguardia culturale – il Comune di Firenze.

Ristrutturazione “alla fiorentina”

La proposta Variante all’art. 13 delle Norme Tecniche di Attuazione del Regolamento Urbanistico agisce sulla disciplina delle trasformazioni del patrimonio immobiliare storico introducendo un’inedita “ristrutturazione edilizia limitata” su quasi metà dell’edificato del territorio comunale[2](sono esclusi i beni culturali, ma su di essi torneremo subito).

La “ristrutturazione edilizia limitata” pur preservando la sagoma, le facciate – ancorché “sostanzialmente” – e alcuni elementi distributori (scale, androni), non tutela la configurazione interna degli edifici ed espone il patrimonio edilizio a ulteriori frazionamenti finalizzati agli affitti turistici. Del rischio di “façadisme” abbiamo scritto su queste pagine nell’articolo Dietro la facciata niente, a cui rimandiamo.

Se già appariva surreale l’invenzione di una ristrutturazione “alla fiorentina”, appare fuor di ragione la normativa che il Comune ha delineato per i monumenti architettonici: i pezzi più pregiati, dagli Uffizi a Forte Belvedere, dalla Villa di Rusciano alla Manifattura Tabacchi, saranno suscettibili di “ristrutturazione edilizia” tout court (“senza limitazioni” si precisa nella delibera). Non è un caso che molti di essi corrispondano alle “Aree di Trasformazione” del RU e alcuni siano anche presenti nei Piani di alienazione.

La sostituzione del restauro con la “ristrutturazione” contravviene alla prescrizione di tutela del Bene culturale espressa nell’art. 29 del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio. La ristrutturazione edilizia è infatti la classe di intervento che consente la maggior libertà nelle opere di trasformazione, persino la demolizione dell’edificio e la sua ricostruzione in forme diverse da quelle originali. Quanto a previsioni urbanistiche dunque, sui monumenti si potrà agire con la stessa libertà con cui si opera su un capannone industriale.

La tutela sarà demandata totalmente alla Soprintendenza, che finora ha lavorato a fianco del Comune autorizzando le trasformazioni consentite dal RU (poiché sono due i dispositivi che rispondono al precetto di tutela del Bene Culturale: il permesso di costruire, in capo al Comune, e l’autorizzazione del soprintendente). Ma come ognun sa, la Soprintendenza non è il Comune, non è un organo rappresentativo della cittadinanza, ha funzioni di diversa natura, non tratta di pianificazione, non è suo compito occuparsi della disciplina in materia di attività edilizia ed urbanistica. In altre parole: il Soprintendente non può sopperire alla mancata pianificazione comunale.

Degenerazione amministrativa

Rimettendo alla Soprintendenza il destino degli edifici monumentali, il Comune recede da un obbligo costituzionale. Elude le funzioni attribuitegli dalla Legge urbanistica (L 1150/1942), dall’art. 118 della Costituzione, definite dal “Testo unico degli enti locali” che specifica:

«Spettano al comune tutte le funzioni amministrative che riguardano la popolazione ed il territorio comunale, precipuamente nei settori […] dell’assetto ed utilizzazione del territorio» (DLgs 267/2000, art. 13, co. 1).

L’urbanistica, quale funzione primaria ed essenziale, rientra tra tali compiti amministrativi: attraverso il Piano Regolatore (nelle sue varie denominazioni regionali) il Comune ha l’obbligo di dettare la disciplina delle trasformazioni e dell’uso di ogni immobile ricadente nel territorio comunale, nell’interesse generale. Nessuno escluso.

[L’articolo è la trascrizione del contributo dell’autrice all’incontro All’assalto della città pubblica! Firenze elimina il restauro e spiana la strada ai grandi capitali organizzato da Spazio InKiostro, tenutosi a Firenze il 28 marzo 2018. In apertura: Santo Stefano al Ponte Vecchio, aprile 2018,

Note al testo

[1] Si veda su questo argomento il sintetico: Alessandro Barile, Utenti contro residenti. La nuova dialettica metropolitana tra cittadini e fruitori, “Alias”, supplemento a “il manifesto”, 17 marzo 2018.

[2] Ossia, sulle «emergenze di valore storico architettonico» non vincolate; sugli «edifici di interesse documentale» e sugli «edifici storici o storicizzati» (ricadono in questa voce le case popolari di via dei Pepi poste in vendita nel piano comunale delle alienazioni).

la Repubblica, 17 marzo 2018. Napoli, città dei contrasti: da un lato un complesso conventuale, San Paolo Maggiore, che si disfa per l'incuria dei suoi vecchi tutori, e dall'altro Sant'Eframo Nuovo, che resuscita e diventa Je so' pazzo, grazie all'ingresso di un nuovo popolo risanatore.

Il corpo di Napoli si disfa, ci precipita addosso. Non è un incidente quello di ieri, non una fatalità: ma l’ovvia, annunciatissima conseguenza di decenni di abbandono.

Quando, nel pieno Seicento, Napoli era la più grande metropoli d’Italia e una delle prime d’Europa, nel suo cuore antichissimo sorse una città nella città. Centinaia di chiese, conventi, monasteri, confraternite: una immensa ‘Napoli sacra’ che non conteneva solo luoghi di culto o dormitori, ma anche chiostri in cui il silenzio era rotto solo dalle acque abbondantissime delle fontane; incantati e profumatissimi giardini di agrumi; biblioteche; farmacie; opere d’arte d’ogni sorta. «Non è omo che non la brami, e che non desideri di morirvi … Napoli è tutto il mondo!» scriveva l’accademico Ozioso Giulio Cesare Capaccio nel suo Forastiero (1634). Il convento di San Paolo Maggiore era uno dei luoghi più illustri di questo ombelico del mondo: sorto sull’agorà della Napoli greca, ridette vita al tempio dei Dioscuri, usandone le colonne e conservandone l’aura. Ed è in uno dei suoi due chiostri che ieri sono venute giù due volte: senza provocare una strage solo per miracolo.

I lavori in corso erano quelli del Grande Progetto Unesco che, lentissimamente, sta finalmente provando a salvare ciò rimane del centro di Napoli. Dove nel Seicento si visitavano 400 chiese, quelle accessibili e in discrete condizioni sono oggi una cinquantina. Almeno altre duecento esistono ancora: ma sono sprangate per tutti tranne che per i ladri che le spogliano inesorabilmente di marmi barocchi che finiscono nelle ville dei boss, o sul mercato internazionale. Moltissime altre sono chiuse, spesso dal 1980: pericolosamente siringate di cemento dopo il terremoto, e poi riempite di ponteggi, disseminate di piccioni e topi in decomposizione, coperte da una infinita coltre di polvere.

Negli ultimi decenni questa vertiginosa e perduta Napoli Sacra è stata la grande rimossa di ogni politica culturale. Lo Stato, il Comune e la Curia (i principali proprietari di un patrimonio frammentatissimo) si sono dedicati agli eventi, all’industria delle mostre, da ultimo ai musei: dimenticando, però, il corpo di Napoli. Che ora ci ricorda che esiste nell’unico modo possibile: sfarinandosi.

Sono mancati i soldi, certo. Ma prima ancora l’attenzione, l’amore, la conoscenza: e, soprattutto, un progetto unitario. Una visione chiara di come ridare senso a questa enorme città nella città senza stravolgerne il carattere storico e artistico, anzi tutelandolo ed esaltandolo. Mentre la Curia affitta chiese mirabili a improbabili imprenditori, e il Fondo Edifici di Culto del Ministero dell’Interno organizza mostre con i pezzi pregiati, solo la giunta di De Magistris ha dimostrato di avere un’idea: per esempio destinando l’ex Asilo Filangieri (che è parte di una altra grande insula monastica, quella di San Gregorio Armeno) ad un esemplare uso civico. È da qua che bisogna ripartire: perché la nostra generazione non salverà il corpo di Napoli se non saprà dargli un’anima nuova.






la Nuova Venezia, Corriere del Veneto, 13-15 marzo. Per salvare 5 aziende, e all'insegna di “consumo zero di territorio” si dà il via allo scempio: la cava in galleria nel Parco dei Colli Eugani. (m.p.r.)

la Nuova Venezia, 15 marzo 2018
CAVE, SI' ALLA LEGGE

«ORA SI VOLTA PAGINA»
di Albino Salmaso

«Nuove norme approvate: via libera ai tunnel per estrarre la trachite nel Colli Euganei ma stop a nuove concessioni»

Venezia. Piano cave, tutti d'accordo: dopo 36 anni di anarchia si gira pagina. La frase porta la firma di Maurizio Conte e Maurizio Calzavara, che hanno dato l'imprinting alla legge, approvata con 31 sì e 14 no (Pd e M5S e Cristina Guarda di Amp). La filosofia è il "consumo zero" del territorio, con lo stop a nuove concessioni e il test verità ci sarà la prossima settimana con il Prac. La legge Fracanzani varata nel 1971 per la tutela dei Colli Euganei finisce in soffitta e si apre la stagione delle "gallerie di trachite" per salvare cinque aziende tra Vo, Zovon, Montemerlo e Cervarese Santa Croce: quelle pietre formatesi 35 milioni d'anni fa, nell'era dell'Oligocene, sono un tesoro per la tutela dei centri storici.
Senza "masegne" di trachite, Venezia sarebbe una distesa di brutale cemento e così le piazze medievali di Padova, Vicenza e Verona e di mezza Italia, ma c'è sempre un punto di equilibrio da rispettare: la tutela dell'ambiente. E su questo tema il confronto si è fatto molto serrato, con il Pd e il M5S che hanno dato battaglia, con un insolito battibecco tra Andrea Zanoni e Silvia Rizzotto. «I comuni sono stati spogliati di ogni potere e si lascia assoluta libertà agli imprenditori nell'apertura di cave» ha detto il consigliere Pd durante la presentazione di uno dei suoi sessanta emendamenti, tutti bocciati. Immediata la replica della capogruppo della Lista Zaia: «Ma consigliere Zanoni, lei ha letto bene la legge? Ha capito o no che abbiamo impedito l'apertura di nuove cave? Zero concessioni. Ripeto: si congela la situazione attuale» ha urlato la capogruppo Silvia Rizzotto per dare il buongiorno all'aula, verso le 11.40 di ieri.
Lo scoglio più duro, l'articolo 32, ha occupato tre ore di dibattito, con il Pd e il M5S contrari al «colpo di mano maturato in commissione e mai discusso». È sempre Andrea Zanoni che va all'attacco, sostenuto da Graziano Azzalin e Claudio Sinigaglia: «L'articolo 32 arriva fuori sacco in commissione e si configura in aperta contraddizione con la legge istitutiva del parco dei Colli Euganei perché cancella il vincolo ambientale naturalistico per anteporre gli interessi di poche aziende». Luciano Calzavara, l'ex sindaco di Jesolo e relatore del provvedimento, non si perde d'animo: «È stato il comune di Vo a chiedere la sperimentazione delle cave-tunnel di trachite, si parte con una concessione di cinque anni nel rispetto di due esigenze: tutelare l'ambiente e bloccare lo sfregio dei Colli Euganei e al tempo stesso garantire la fornitura di questo pregiato materiale ai sindaci che vogliono rendere più belle le nostre città».
Alle 13 si passa alle dichiarazioni di voto. Parla Manuel Brusco del M5S: «La svolta è troppo timida, ci vuole più coraggio nelle sanzioni contro chi sgarra. Le Province sono tagliate fuori. Voteremo contro», dice l'alfiere delle battaglie contro i Pfas. Parla Massimo Giorgetti, (FI), che bacchetta Zanoni perché il governo Gentiloni ha impugnato alla Corte costituzionale la norma con cui il Veneto blocca le nuove cave: Roma sostiene che abbiamo violato la direttiva Bolkestein sulle liberalizzazioni e voi ci fate la predica. State zitti che vi conviene.
Ci sono delle norme rivoluzionarie: nelle aree ricomposte delle cave si potranno coltivare i noccioli per la Nutella o la marijuana per attività terapeutica senza sprecare territorio. Mi piacerebbe un voto unitario». Richiesta respinta. Pd e M5s non abboccano alla "cava alla marijuana": dopo il ko alle elezioni, per rianimare i Dem ci vorrebbe un doping stile Armstrong, mentre i grillini sono già gasati dal trionfo e non cedono alle tentazioni. Parla anche Sergio Berlato, che la butta in politica e punzecchia Azzalin del Pd. «Mi prendete in giro, ma se avessi voluto andare a Roma mi sarei candidato in un collegio uninominale blindato. Non sono uno stolto né un dilettante allo sbaraglio. Ho assolto al mio compito e la lista Fratelli d'Italia della Meloni è passata da 0 a 5 parlamentari. Il nostro successo è strepitoso, mentre il Pd piange ancora per la tremenda sconfitta. Non sono io a bloccare il riordino dei parchi naturali in Veneto». Poi si vota e finisce 31 a 14. E il presidente Roberto Ciambetti commenta: «Sono soddisfatto, è una riforma tra le più rilevanti di questa legislatura».
Corriere del Veneto, 13 marzo
CAVE, SCOPPIA IL CASO COLLI EUGANEI

LA REGIONE VUOLE SCAVARE NEL PARCO
di Angela Tisbe Ciociola
Padoova. Per secoli ha costituito una fonte di ricchezza per tutto il territorio della Serenissima, che l’ha usata come base per i nobili edifici che si affacciavano sulla laguna. Poi, negli ultimi decenni, la trachite, pietra estratta dai fianchi dei Colli Euganei, è piombata al centro delle polemiche: le sue cave, che hanno scavato le colline padovane tra Cervarese Santa Croce, Vo’ e Galzignano, oggi territorio protetto da un parco regionale (anche se commissariato e al centro di molti cambiamenti), da macchina da soldi erano diventate un attentato alla bellezza dell’area, e per questo motivo nel 1971 venne approvata una legge per impedire l’estrazione della trachite.

La proposta di legge regionale


Ecco perché la proposta di legge regionale che approderà martedì in Consiglio regionale a Venezia ha tutti i presupposti per suscitare un vero vespaio. La Commissione ambiente, infatti, ha inserito un emendamento, l’articolo 32, che regola le «disposizioni in materia di coltivazioni di trachite nel Parco dei Colli euganei». Stando al testo che martedì potrebbe essere approvato dall’assemblea di palazzo Ferro Fini, «al fine di incentivare l’impiego di metodi di coltivazione (cioè estrazione, ndr) innovativi rispetto a quelli tradizionali, funzionali alla diminuzione del consumo del territorio, delle alterazioni del paesaggio e degli impatti ambientali negativi, possono essere autorizzate, anche a titolo di sperimentazione operativa, attività di cava per l’estrazione di trachite, in deroga alle limitazioni contenute nel Piano ambientale e nel Progetto tematico cave».
Ma cosa significa tutto questo? «È una bella domanda - commenta il consigliere del Pd Claudio Sinigaglia -. In pratica viene data nuovamente l’autorizzazione a scavare in un parco naturalistico senza che venga specificato quanto si potrà scavare, quanto a lungo o quanto a fondo. È vero, parlano di metodi innovativi, quindi non ci saranno più le cave a cielo aperto come ci sono state fino ad ora: le aziende promettono che scaveranno solo gallerie in profondità, quindi tutto rimarrà nascosto alla vista e che tutto è soggetto all’approvazione di Comuni ed Ente parco. Ma tutto il materiale ricavato dovrà essere trasportato lontano. Questo significa che ci sarà un via vai di camion, con tutte le conseguenze su viabilità e inquinamento. E il rumore?».

Lo scontro politico

E se, interpellati, l’assessore all’Ambiente Gianpaolo Bottacin e il presidente di Commissione Francesco Calzavara non hanno risposto, la minoranza promette battaglia. Anche perché il discorso è più ampio. «Tutto è partito da un contenzioso tra Regione e aziende che volevano un piano cave che, in Veneto, manca da 36 anni - chiarisce il consigliere dem Andrea Zanoni -. Due sentenze, una del 2014 e una del 2016, avevano stabilito la realizzazione di un Prac, un Piano regionale per le attività di cava, entro il marzo del 2018. I tempi ormai sono stretti. Quindi l’approvazione della legge è indispensabile per l’approvazione del Prac che dovrebbe arrivare in Consiglio la prossima settimana».

A dare il là all’emendamento, continua a spiegare Zanoni, è stata una proposta avanzata da Confindustria nell’agosto del 2017. «Sono state le aziende a chiedere nuovi scavi, esattamente con le stesse parole poi inserite nell’emendamento». Se lo scorso anno, quindi, Regione e associazioni ambientaliste si erano scontrate sulla modifica dei confini del Parco dei Colli Euganei, pensata per permettere la caccia ai cinghiali, con il progetto di legge di Sergio Berlato, il capogruppo di Fratelli d’Italia-An e patrono delle associazioni venatorie, favorevole a «riclassificare» il parco riducendo della metà la fascia di protezione (con la grande maggioranza dei Comuni che si è detta contraria), la questione delle cave si preannuncia altrettanto sensibile e promette di creare diversi problemi. Non c’è pace, quindi, per i Colli Euganei.
La Città invisibile", 3 marzo 2018. Qualcuno dei sindaci che governano le città mariterebbe d'essere cacciato a furor di popolo.Ma non si può fare, ed è giusto. Ma allora bisognerebbe lavorare meglio per educare il popolo

Tutelare o demolire? Conservare la scena urbana di Firenze, il brand che fa cassa, o favorire la speculazione immobiliare sull’edilizia storica? Un dubbio lacerante, ma la risposta è pronta: scavare case e palazzi, mantenerne le facciate e inserire al loro interno nuove strutture e nuove funzioni. È quanto prevede il documento di avvio di una Variante che introdurrà nel Regolamento Urbanistico fiorentino una pratica di intervento finora impedita dalla cultura del restauro e dal sistema di tutela nazionale.
Un po’ di storia. Nel 2017 i grandi cantieri nella città storica sono congelati in conseguenza di una sentenza della Corte di Cassazione (sez. Terza Penale, n. 6863) che censurava l’impiego della SCIA (segnalazione certificata di inizio attività) per interventi di frazionamento edilizio e cambio di destinazione d’uso.
Per risolvere la situazione di stallo, il sindaco chiede aiuto a Roma. Roma risponde con la modifica al Testo Unico dell’Edilizia (DPR 380/2001). La modifica all’art. 3, apportata con un emendamento entrato in extremis nella “mini manovra” finanziaria (L 96/2017), inserisce nella categoria del “restauro” il mutamento della destinazione d’uso, purché compatibile e conforme alle previsioni di piano.
Il Piano Strutturale di Firenze sarebbe sufficientemente lasco per favorire i cambiamenti auspicati, eppure il Comune non si accontenta e rivendica maggior libertà per gli “investitori”. Ricorre dunque alla succitata Variante all’art. 13 delle norme tecniche di attuazione del RU (dicembre 2017), che ha appena avviato il suo iter.
Tentiamo di illustrare la ratio che ispira la Variante. A causa delle modifiche al TUE, il restauro sarebbe divenuto una categoria d’intervento troppo ampia, persino pericolosa per gli edifici storici del «centro Unesco»: per la loro efficace protezione gli uffici devono perciò provvedere ad «aggiornare la definizione dell’intervento massimo ammissibile sul patrimonio» di valore storico. I tecnici zelanti individuano allora la «limitazione massima ammissibile» in una classe d’intervento ancor più “permissiva”: cioè nella ristrutturazione edilizia «“semplice” o “leggera”» prevista da un decreto legge, relativo peraltro esclusivamente a normare procedimenti amministrativi (DL 222/2016, all. A; dal quale allegato si coglie fior da fiore, omettendo tuttavia di assumere che nella ristrutturazione “leggera” possono rientrare i soli interventi che non «comporti[no] mutamento d’uso urbanisticamente rilevante nel centro storico», p. 84).
Insomma, è la tutela all’inverso. È l’abbassare gli argini, affermando di rafforzarli. Un’azione disorientante vòlta ad ampliare le manovre speculative.
Il trucco sta tutto nel porre «limitazioni» alla ristrutturazione edilizia, che, ricordiamo, consente un insieme di opere che «possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente» (lett. d), art. 3, TUE). A Firenze, le limitazioni si “limitano” alla salvaguardia integrale della sagoma e «sostanziale» della facciata. È tutto, o quasi. Si salvano solo «androni, corpi scale» e i solai qualora non siano «privi di interesse» [sic]. Da questo meccanismo sono esclusi gli edifici vincolati, naturalmente finché restano in vita le Soprintendenze.
È urgente dunque ostacolare l’iter della Variante, non ancora adottata. Chiamiamo perciò all’azione residenti e turisti, comitati e associazioni, università e istituzioni culturali, italiane ed estere, affinché questo pericoloso dispositivo possa essere bloccato, in nome della tutela del patrimonio urbano, unico e irripetibile. Patrimonio privato, pubblico, ma innanzitutto comune.​

il manifesto, 3 febbraio 2018. «Je so' pazzo. Gli attivisti dell'Ex Opg ripuliscono l'edificio cinquecentesco, lasciato privo di manutenzione dai proprietari, per ospitare chi non ha una dimora fissa». Giustizia contro legalità formale. (m.p.r.)

Ieri all’alba sono entrati nella chiesa di Sant’Antonio a Tarsia (abbandonata da anni) e, sotto lo sguardo curioso del quartiere, hanno cominciato a portare dentro brandine e materassi. I ragazzi dell’Ex Opg di Napoli Je so’ pazzo, che hanno dato vita alla lista Potere al popolo!, hanno attrezzato un’area lungo la navata per ospitare almeno una ventina di senza fissa dimora. Si tratta di una delle attività che l’Ex Opg porta avanti con la Rete di Solidarietà popolare, di cui fanno parte ad esempio Don Franco, parroco di Poggioreale, e Napoli insieme, un’associazione che distribuisce pasti agli homeless. «Avevamo chiesto al comune e alla Curia la gestione di uno spazio abbandonato, a spese nostre, per dare asilo nei mesi invernali a chi non ha una casa – spiega Viola Carofalo, capo politico di Potere al popolo! -. Nessuno ci ha risposto e allora abbiamo deciso di fare da soli. Dall’inizio del 2018 già cinque persone sono morte di freddo in Italia. Otto l’anno scorso.

La Curia di Napoli è il maggior proprietario immobiliare della città. Vanno poi aggiunti gli immobili delle circa 150 arciconfraternite e quelli delle parrocchie. Per non parlare dei beni in mano ai singoli ordini religiosi».

La polizia si è presentata in mattinata ma non è intervenuta, non erano riusciti a contattare la proprietà per procedere eventualmente allo sgombero. L’edificio cinquecentesco è stato lasciato privo di qualsiasi manutenzione dalla confraternita dei Redentoristi, gli ultimi proprietari dell’antico complesso nel cuore popolare di Napoli. Il quartiere racconta che avrebbero provato a vendere il bene, un convento con vista verso la collina del Vomero, ai privati. Hanno persino aperto un varco nelle mura perimetrali per permettere l’accesso alle automobili. Al primo piano sono ancora visibili gli antichi soffitti a volta, la balaustra in piperno intarsiato e il cortile interno, lasciato in totale degrado. Agli ultimi due piani invece una recente ristrutturazione ha cancellato ogni traccia delle architetture barocche, lasciando pareti squadrate, orribili mattonelle a fiori accanto a infissi anodizzati.

«Stasera porteremo i pasti cucinati all’Ex Opg – prosegue Viola -, cercheremo di coinvolgere il quartiere in attività per la comunità e proveremo anche a contattare l’università Suor Orsola Benincasa, che ha il dipartimento di Conservazione dei Beni culturali, per cercare di evitare che la struttura vada in malora».

Chiara Capretti, candidata di Pap e attivista di Je so’ pazzo, legge l’occupazione anche come risposta al decreto Minniti-Orlando: «Siamo qui per ribaltare il concetto di decoro, che utilizza il daspo per relegare nelle periferie chi vive in condizioni di disagio e povertà estrema. Il nostro decoro è la solidarietà. Il governo Pd ha aperto la strada ma i comuni si sono accodati con le squadre di vigili addette all’applicazione della norma, dai 5S a Torino e Roma a Como, Bologna e Milano. Domani avremo iniziative in molte città: lavoreremo ad attività come attrezzare il verde pubblico o liberare le panchine dai dissuasori».

Tra gli scranni della chiesa c’è anche lo storico Giuseppe Aragno, anche lui candidato con Pap: «La norma firmata da Minniti e Orlano ha un precedente: il decreto fascista sul ‘decoro urbano’ del 1934, le similitudini sono evidenti già nel nome. I disoccupati dell’epoca minavano il concetto di ordine e l’immagine delle città fascista, così dovevano essere allontanati verso i paesi di origine. È grave che chi viene dal Pci utilizzi gli stessi strumenti del Ventennio. L’iniziativa a Tarsia è un modo per dare una risposta politica alle aberrazioni delle classi dirigenti, tutte genuflesse al liberismo».

L'articolo tratto da il manifesto è raggiungibile qui

The Submarine, 29 gennaio 2018. L'Italia è un paese che sta andando a pezzi, a partire dal a struttura geologica che ne è la base naturale. Lo si Sto arrivando! da secoli, ma non si fa nulla: le risorse servono ad altro. Con postilla

Lo scorso 7 ottobre sulla SP 75 che collega, in Piemonte, la valle Cannobina al Lago Maggiore si è abbattuta una frana che ha invaso completamente la carreggiata rendendo impraticabile la provinciale e spezzando di fatto la valle Cannobina in due tronconi.

I dati resi pubblici dall’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) dovrebbero ricordarci la vulnerabilità dell’Italia in materia di fenomeni franosi. Il 7,5% del territorio nazionale, con indici di franosità più o meno allarmanti, è potenzialmente soggetto a frane e smottamenti. Le sempre più frequenti calamità naturali, i fenomeni climatici estremi intensificatisi (specie in autunno) negli ultimi anni uniti alla scarsa cura del territorio e alla manutenzione non adeguata delle infrastrutture pubbliche, alimentano sempre di più nei cittadini (e tra le più alte cariche dello Stato) la consapevolezza del problema ambientale.
A livello amministrativo, spesso, le cose non sembrano andare invece per il verso giusto. Le province — mai realmente scomparse — lamentano l’inopportunità del decreto Delrio, quando possono chiamano in causa le regioni e nel complesso annaspano di fronte ai tagli statali alle risorse economiche locali. Non avendo i mezzi per fare prevenzione agiscono il più delle volte in ritardo, a cose fatte — a frana caduta. È questo il caso della valle Cannobina, enclave della Provincia del Verbano Cusio Ossola e simbolo, tra le centinaia di casi che ogni anno interessano il nostro paese, di un’Italia passiva, inerme e totalmente impreparata di fronte alla piaga del rischio idrogeologico
postilla
Non ci sono risorse per intervenire. Ma le spese militari portano via 23 miliardi di euro all'anno (64 milioni al giorno), di cui 15 milioni al giorno per armamenti. Non parliamo delle forza lavoro che fugge dagli inferni del 3° mondo
pagina tratta da "The Submarine", qui raggiungibile
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