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«Una riflessione di Giovanni Caudo, ex Assessore alla Trasformazione Urbana della Giunta Marino, sul manifesto di governo con cui l’avvocato Sadiq Khan ha vinto la sindacatura della più grande metropoli europea, Londra, a confronto con il dibattito elettorale in corso nella Capitale d’Italia». Carteinregola, 8 maggio 2016 (p.d.)

Contrastare l’emergenza abitativa, costruire migliaia di alloggi ogni anno e raggiungere l’obiettivo che almeno il 50% dei nuovi alloggi sia realmente a costo accessibile; e comunque fare in modo che il canone sia remunerativo per i proprietari degli alloggi dati in affitto. Essere il sindaco più pro-business di sempre, lavorando in partnership con le imprese per realizzare le infrastrutture e sostenere lo sviluppo. Assicurare una qualità dell’aria sana, entro i limiti di sicurezza fissati dalla legge, agendo per un trasporto più verde, ampliare le aree pedonali continuando a proteggere la cintura verde della città. E ancora, fare della città una tra le più tolleranti, aperta e accessibile a tutti e dove ognuno può vivere e prosperare libero dai pregiudizi.

Sono solo quattro delle dieci priorità, dettagliatamente descritte e misurate, che compongono il manifesto di governo con cui l’avvocato Sadiq Khan ha vinto la sindacatura della più grande metropoli europea: Londra (http://www.sadiq.london/introduction_manifesto).

Un linguaggio chiaro diretto, impegni semplici e precisi sostenute da schede per ognuno dei temi e l’obiettivo di governare una realtà complessa, diversa certo, ma non meno di quella romana.

Anche a Roma siamo in campagna elettorale, una campagna che deve affrontare la crisi profonda nella quale la città è sprofondata, soprattutto – a quanto ci dicono – negli ultimi tre anni. Ti aspetti proprio per questo che la campagna elettorale affronti in profondità e metta a fuoco i temi anche strutturali, quelli veri, la cui soluzione è indispensabile se si vuole invertire il declino e risanare la città, non da ultimo ad esempio le radici che hanno fatto proliferare Mafia Capitale (c’è un processo in corso ma sembra che nessuno sia interessato a sapere che cosa è successo). Una funivia tra due località in piano, la pubblicità per adottare le buche e ripianarle e poco di più sono gli argomenti riportati dai giornali, per altro in poche righe, e che hanno fatto “discutere” di programmi.

La sensazione prevalente è che a Roma sembriamo destinati ancora una volta a essere “figli di un Dio Minore”, e non solo rispetto a Londra, ma forse anche a Tunisi. E’ lodevole l’iniziativa del Corriere che con la rubrica “Cosa chiedo al sindaco” sta cercando di alzare il livello e spostare l’attenzione su questioni realmente centrali per il futuro della Capitale. Ma non dovremmo prima sapere da loro, dai candidati sindaco, cosa vogliono fare e con quali idee si candidano? Ho fatto un giro sui siti dei candidati in cerca dei programmi ma, nonostante l’impegno lodevole di alcuni, non mi sono sentito affatto rassicurato. Penso ad esempio che per esercitare il diritto di delega che la democrazia rappresentativa ci affida sarebbe importante che i candidati sindaco ci dicessero qualcosa ad esempio su:

– Su quale progetto per le Olimpiadi metteranno la firma, deciso da chi, dove e quando?

– In che modo si aprirà la città agli investimenti privati esteri (un obiettivo concreto potrebbe essere quello di vederli quintuplicati nei prossimi tre anni, arrivare almeno allo stesso livello di Dublino!);

– Quale modello aziendale si pensa di perseguire per mettere insieme energia, acqua e rifiuti? In che modo realizzare una integrazione che apporti più efficienza nel servizio ai cittadini e realizzi un modello industriale all’altezza delle sfide tecnologiche del settore energetico e ambientale?

– Come si pensa di contrastare e ridurre le crescenti disparità e disuguaglianze economiche e sociali che stanno lacerando il tessuto sociale della città, sempre più diviso tra ricchi (sempre meno e sempre più ricchi) e poveri (sempre di più e sempre più poveri)?

Ora che è ufficialmente aperta, buona campagna elettorale e che sia vera. Altrimenti ci assale il dubbio che sia solo una rappresentazione per il popolo, mentre dietro le quinte tutto è stato già deciso e andare a votare serve a eleggere si il sindaco migliore… ma a tagliare i nastri.

Il manifesto, 8 maggio 2016 (p.d.)

Allo storico dell’arte Salvatore Settis, uno dei promotori della manifestazione «Emergenza cultura» che ieri ha sfilato a Roma per chiedere di rivedere la riforma Franceschini sui beni culturali, lo Sblocca Italia e la riforma Madia, chiediamo perché ritiene fondamentale l’applicazione dell’articolo 9 della Costituzione. «È un articolo che viene ricordato anche da chi ci governa, senza però averne consapevolezza – risponde – Di solito viene usato per lodare le bellezze culturali o per dire che l’Italia è un museo a cielo aperto. Vuol dire conservare il patrimonio e il paesaggio nella sua peculiarità: la diffusione capillare su un territorio benedetto dalla storia che non ha pari in Europa. Il taglio delle risorse finanziarie e umane ha aumentato la crisi del settore e ha fatto crescere l’attenzione sul problema. Per fortuna un numero crescente di persone si stanno attivando per chiedere l’attuazione del diritto al patrimonio culturale».

Chiedete di rivedere la riforma Franceschini. L’abbiamo conosciuta a partire dalle nomine dei direttori dei musei italiani. Ad oggi qual è il bilancio?
Personalmente non sono mai stato contrario all’idea di dare uno scossone all’amministrazione, che ne ha bisogno. Aprire i concorsi anche agli stranieri è un’idea giusta. Non si capisce perché un italiano possa diventare direttore in Inghilterra e non viceversa. Il problema è che Franceschini ha formato una sola commissione composta da cinque persone che in poche settimane ha nominato venti direttori. Questo è fuori dagli standard internazionali. Non basta dare uno scossone solo a livello dirigenziale. Nemmeno un genio può fare qualcosa se mancano le risorse e non si assume il personale.

Il governo ha promesso cinquecento assunzioni. Sono sufficienti?
È una notizia molto positiva. Per il momento è un annuncio e il concorso non è stato fatto. Quando questi funzionari entreranno in servizio ne saranno andati in pensione altri mille. Stiamo mettendo pezze a una situazione emergenziale. Non si sta facendo nulla per far funzionare bene il paese.

Il governo stanzierà un miliardo per la cultura. È soddisfatto?
Ogni volta che ci sono soldi nei beni culturali bisogna essere contenti. Spero che siano soldi freschi e non una bufala come quella dei 2,5 miliardi per la ricerca denunciata Giorgio Parisi secondo il quale dal fondo manca un miliardo. Franceschini ignora che il problema non è avere fondi eccezionali una tantum, ma assicurare la normale amministrazione. Oggi non ci sono i soldi per pagare la benzina all’archeologo che deve fare un sopralluogo. È come per l’università: non ci sono i soldi per assumere i docenti già abilitati, ma si trovano quelli per creare 500 «cattedre di eccellenza». Vorrei vivere in un paese dove funziona l’ordinaria amministrazione e poi si aggiungono risorse. Non il contrario.

La riforma Franceschini interviene sulle soprintendenze e le direzioni generali del Mibact. Quali sono i problemi a suo avviso?
Franceschini ha fatto una scelta molto strana. Ha lasciato intatte le dieci direzioni generali, ha accorpato tre direzioni generali che tutelano il territorio, ha creato in tutta Italia soprintendenze miste. Non ci saranno più quelle archeologiche che esistono da 100 anni. Un solo soprintendenze dovrà dunque badare a tutti gli aspetti del territorio. Tutto è stato fatto in maniera velocissima senza fare nuove assunzioni. Non ci si è resi conto che in Sicilia le soprintendenze miste esistono da tempo e non hanno funzionato. Sarebbe stato il caso di studiare il perché, ma non lo hanno fatto. È una riforma fatta a tavolino, su indicazione dei consiglieri giuridici del ministro. Suppongo che conoscano bene il diritto, ma non hanno la minima idea di come funziona un museo.

La legge Madia metterà le soprintendenze sotto l’autorità dei prefetti. Cosa c’è di sbagliato?
È gia così di fatto. In questo modo la tutela territoriale che richiede competenze professionali precise viene assoggettata al prefetto al quale si attribuisce il potere di tacitare la voce dei soprintende, se questa voce verrà espressa. È come far dirigere un ospedale da un prefetto che dovrà decidere se si deve operare una persona o no. Per tutelare il territorio c’è bisogno di un archeologo, non di un prefetto. Un principio elementare disatteso dal governo.

Chiedete l’abolizione dello Sblocca italia. Cosa c’entra questa legge con il patrimonio culturale?
Quando la Costituzione dice che la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio culturale dice che questi aspetti fanno parte dei diritti del cittadino. Nello Sblocca Italia ci sono varie ragioni di incostituzionalità riconosciute dalla Corte costituzionale. La legge dà nuova linfa alle grandi opere e istituisce il meccanismo del silenzio-assenso già condannato in passato. Era un’idea fissa dell’ex ministro Lupi contro la quale il Pd si è battuto, ma che poi ha votato quando ha condiviso con lui il governo.

Cosa pensa dei bandi del Mibact che usano il volontariato e gli stagisti per mansioni che dovrebbero essere svolte da professionisti?
Il volontariato è una grande risorsa per creare la solidarietà sociale prevista dalla Costituzione, ma viene usato per sostituire il personale che manca o come alibi per le assunzioni che non si fanno. Queste sono mosse per far lavorare la gente con i voucher o addirittura senza pagarla. Sono provvedimenti che vengono imbellettati da soluzioni di avanguardia, mentre sono foglie di fico che occultano i veri problemi.

«Intervista a Virginia Raggi la candidata sindaco del M5S ci parla del suo programma per Roma: trasparenza e sicurezza, zero consumo di suolo, tutela dei beni comuni, laicità» Buone idee, ma non c'è una strategia per il territorio. MicroMega newsletter, 5 maggio 2016

Legalità. La parola viene scandita più volte da Virginia Raggi. “I partiti hanno creato questo disastro, noi metteremo in atto una rivoluzione legalitaria”. Nella città di Mafia Capitale e della corruzione endemica della governance, la candidata sindaco del M5S – 37 anni, già consigliera comunale – si mostra sicura di sé e guarda al ballottaggio: “Giachetti, Marchini, Meloni… non importa contro chi, rappresentano tutti il vecchio. È il turno del M5S”.

La deputata grillina Paola Taverna ha ipotizzato un complotto per far vincere il Movimento Cinque Stelle a Roma. Al di là della polemica che ne è scaturita, chiunque andrà a governare la città non rischierà di “bruciarsi” in poco tempo viste le enormi difficoltà?
Il punto è provarci, senza false promesse ed illusioni. Ci vuole pragmatismo. E noi siamo gli unici ad avere un progetto credibile perché sono stati i vecchi partiti gli artefici di tale dissesto. Il debito chi l’ha creato? E il disastro nelle municipalizzate? E i rifiuti per strada? E la corruzione? Roma è una città molto difficile ma riteniamo che non ci sia altra soluzione se non quella di rimboccarsi le maniche.

Esiste un debito di quasi 14 miliardi di euro, una voragine…
Le casse in rovina sono quelle ordinarie. E lì c’è da intervenire con una gestione oculata che miri al taglio degli sprechi, al recupero di risorse (sino ad oggi mai recuperate) e ad un livello di spesa che sia adeguato ai servizi, oltre a iniziare a lavorare per ottenere fondi europei tramite i bandi pubblici e per questo ho in mente una squadra di professionisti ad hoc che si occuperà proprio di ottenere queste risorse. Poi c’è la piaga del debito che è una cassa diversa, una gestione separata, come se fosse una bad company rispetto a Roma Capitale. E pare impossibile entrarci. Quando eravamo all'opposizione abbiamo provato a fare richiesta di accesso agli atti e ci è stata chiusa la porta in faccia.

Anche il commissario prefettizio Tronca ha risposto con un diniego alle vostre richieste?
Lui e i subcommissari non hanno ritenuto importante analizzare e approfondire la composizione di tale debito pur essendo una spada di Damocle per l’amministrazione della città: un mutuo che finiremo di pagare tra il 2040 e il 2048 a tranche di 500 milioni di euro l’anno.

Quindi, qual è la exit strategy? Esiste?

Vogliamo ristrutturare il debito di Roma, un debito che è principalmente finanziario e nei confronti delle banche. È nato per l’indebitamento di Roma Capitale verso fornitori e di soggetti vari, pensi che un miliardo riguarda le indennità da esproprio per i mondiali di calcio di Italia ‘90... C’è poca chiarezza. A nostro avviso bisognerebbe capire perché sono stati contratti quei debiti. Quindi interrogarsi sulle responsabilità e sui tassi di mutuo – se sono regolari o meno – ed infine trovare il modo per rinegoziare il debito con gli istituti di credito.

Le banche si opporranno, ovviamente.

Da sindaco, avanzerei l’ipotesi di un’Audit sul debito e pretenderei di entrare nella gestione commissariale, ormai priva di qualsiasi possibilità di controllo malgrado tutti i cittadini italiani paghino per ripianare questo debito. È possibile che nessuno possa entrare? Non è un tema soggetto a segreto di Stato. Hanno paura – e hanno ragione – che scopriamo la verità e rovesciamo il tavolo.

La accusano di provenire dal mondo di destra. Si sente tale?
Ho pure sempre votato a sinistra (ride).

Additano il M5S romano di essere legato e di provenire dal mondo della destra imprenditoriale e non..
Accusa sterile. Dove sono le prove? Quale mondo di destra? Quando parliamo di sicurezza ci accusano di essere di destra, quando parliamo di scuola o acqua pubblica ci accusano di essere di sinistra. Si mettessero d’accordo e decidano come vogliono definire il M5S.

Però c’è da chiarire la questione del suo curriculum: non crede ci sia stata poca trasparenza? Fa mea culpa?
No, ho inserito le mie esperienze lavorative e tendenzialmente lo studio presso cui si effettua la pratica forense non viene inserito a meno che non sia il medesimo studio nel quale si esercita l’attività. Da 13 anni lavoro in un altro posto.

E cosa mi dice del ruolo in una società in qualche modo vicina ai giri alemanniani?
Innanzitutto non era vicina agli alemanniani e a confermarlo è stato lo stesso Alemanno. Questo le fa capire la dimensione delle accuse che mi vengono rivolte dal Pd. Si trattava di un incarico, non di un lavoro, che svolgevo per conto dello studio Sammarco, tanto che poi ho lasciato l’incarico una volta che la Hgr ha interrotto il suo rapporto con lo studio. Quindi cosa avrei dovuto inserire nel cv? È come se mi veniste a chiedere di indicare i clienti che ho patrocinato in questi anni. C’è un codice deontologico e io non ritengo di dover inserire queste specificazioni.

Non temeva di essere attaccata e per questo ha volutamente preferito di sottacere l’informazione?

Dove avrei sbagliato? Di essere stata un presidente senza deleghe di una società per un anno? E perché? Fossi stata presidente di Telecom probabilmente avrebbe avuto un senso ma qui parliamo di una società con solo 20mila euro di capitale. Sa che le dico?

Cosa?
Mi stanno fossilizzando per un passato professionale perché evidentemente non possono attaccarsi a nessun tipo di trascorso politico. Sono ossessionati.

Cambiamo discorso. Il M5S si è sempre schierato per la difesa dei beni comuni. Da sindaca ripubblicizzerà Acea e gli altri servizi locali?
Vuole nuovamente far crollare il titolo di Acea in borsa? (ride, nuovamente. Poi torna subito seria). Vogliamo rispettare il risultato del referendum del 2011 e gestire i servizi idrici in maniera il più rispondente alle esigenze dei cittadini. Bisogna investire sulle reti, evitare i distacchi e i successivi riallacci, operazioni costose, soprattutto per le famiglie meno abbienti. È necessaria una gestione virtuosa di questa spa.

Il contrasto agli sprechi e la razionalizzazioni delle risorse forse non sono sufficienti per riassestare le municipalizzate. Saranno previsti licenziamenti?
Perché mai. In molte municipalizzate persevera la politica dei mega appalti dati ovviamente a soggetti terzi per effettuare servizi che gli stessi operatori di Acea potrebbero tranquillamente effettuare: dalla manutenzione, alle riparazioni, alla gestione dei guasti. Le società municipalizzate si trovano, di fatto, a pagare due volte per lo stesso servizio. Una follia.

Roma è da sempre la città dei palazzinari. Negli anni è stata svenduta ai privati con piani regolatori che hanno avvantaggiato i Caltagirone o i Parnasi di turno. Come vi opporrete ai poteri forti della città?
Roma non può essere ulteriormente devastata dal cemento. Consumo di suolo zero, basta. L’Istat ci dice che ci sono oltre 100mila appartamenti tra sfitti e invenduti quindi non c'è fame di nuove case. Caso mai ci sarà fame di occupare quelle già esistenti. Allora, il settore edilizio che è uno dei più operosi nella Capitale non va bloccato ma riconvertito in maniera sostenibile e compatibile con l'ambiente: rigenerazione energetica, riqualificazione, stabilità degli edifici, messa in sicurezza delle strade etc.

Non verrà costruita nuova edilizia pubblica nemmeno per porre fine all’annosa emergenza abitativa?
Il recupero del demanio pubblico presuppone un censimento, che ad oggi ancora non è completo, sugli immobili di proprietà del Comune di Roma. Completato il censimento, bisognerà capire quanti immobili potranno essere riconverti in alloggi popolari. E poi ci sono i temi dell'autocostruzione e dei piani di zona. Negli anni è stato consentito ai privati di costruire a prezzi agevolati ottenendo sovvenzioni dalla Regione, ottenendo sconti anche a livello di oneri che i privati avrebbero immesso sul mercato questi appartamenti o a canoni di locazione concordati o con un prezzo di cessione basso. Molti privati, invece, hanno violato gli accordi aumentando i canoni di locazione. E quindi gli inquilini che avevano accettato determinate condizioni si sono visti cambiare in corsa queste condizioni e sono ora a rischio sfratto. Parliamo di edilizia per una fascia media di popolazione che è stata truffata e va ora protetta.

Sulle molteplici occupazioni abitative invece ci sarà tolleranza?
Umanamente non possiamo rimanere sordi davanti al dramma di queste persone. Però, contemporaneamente, ci sono da anni migliaia di persone in lista d'attesa per un’assegnazione di una casa popolare. E noi dobbiamo ripristinare un discorso di legalità, senza dubbio. Perché tollerare un’occupazione a fronte di una persona che ha lo stesso diritto e si mette pazientemente in lista ad attendere? Ovviamente non faremo sgomberi coatti e aiuteremo gli occupanti a trovare una ricollocazione. Dobbiamo rimettere in circolo le buone pratiche.

Più volte ha ripetuto che le Olimpiadi non sono un’occasione per rilanciare Roma. Ma non sarebbe un’occasione importante per la città, anche in termini di immagine?
I fondi messi a disposizione dal CIO non sono sufficienti quindi la città dovrebbe indebitarsi ulteriormente per sostenere le Olimpiadi. Mi sembra alquanto azzardato. Detto questo, siamo contrari alle grandi opere e vogliamo riportare la politica del quotidiano. Se si vuole incidere sulla pratica sportiva iniziamo a ripristinare tutti i campi sportivi di atletica che abbiamo a Roma e che cadono a pezzi, che hanno il tartan sgretolato ad esempio. Ripartiamo da qui, altro che super piste e piscine.

Rimaniamo sul tema dell’edilizia, sullo stadio di calcio della As Roma che mi dice? Lo costruirete?
La legge stadi dà delle indicazioni precise riguardo alle modalità e ai luoghi nei quali debbono essere costruiti i nuovi impianti: o si recupera uno stadio esistente oppure si costruisce in un'area già urbanizzata. Noi vogliamo uno stadio della Roma così come vogliamo uno stadio della Lazio e faremo il possibile affinché siano realizzati, nel rispetto della legge.

Altro discorso. Secondo lei, l'immigrazione è un tema legato soltanto alla sicurezza? Sarà la questione su cui si giocheranno le elezioni?
Anche qui ci vuole pragmatismo. Abbiamo visto come Mafia Capitale abbia evidenziato che l'immigrazione e le politiche sociali siano utilizzati come cavalli di battaglia per stimolare da un lato la risposta pietistica delle istituzioni, dall'altro una pletora di avvoltoi dediti a lucrare sulle disgrazie umane. Il tema dell'immigrazione coinvolge quasi a 360 gradi la gestione delle casse capitoline, o almeno sicuramente i fondi per la sicurezza e l'inclusione sociale. Dobbiamo insistere affinché tutte le attività relative al riconoscimento dei diritti di asilo, per chi ne ha diritto, e dei migranti transitanti vengano effettuate nel minor tempo possibile, altrimenti si rischiano bombe sociali soprattutto nelle periferie più abbandonate.

E il Baobab - il centro di volontariato che si è occupato per mesi di accoglienza migranti ma poi sgomberato - riaprirà?
Nel solco della legalità dobbiamo di fatto incentivare queste forme di mutuo soccorso ma è chiaro che l'accoglienza è un’attività che va gestita direttamente dalle amministrazioni. La buona volontà dei cittadini e il loro attivismo nel sociale è fondamentale, ma è l’amministrazione in primis che deve creare le opportunità per una sana gestione del fenomeno.

Quindi è un no, il Baobab non avrà una nuova casa?
Valuteremo, ascoltando anche in questo caso la voce dei cittadini: che siano i residenti e che siano tutti quei volontari che vi hanno prestato servizio.

Il candidato sindaco di Napoli, De Magistris, ha dichiarato “Non sono violento ma meglio i centri sociali che i Casalesi”. Lei direbbe mai una frase del genere?
Non farei questo accostamento. È irrilevante, le due cose non hanno nulla a che vedere l'una con l'altra. I Casalesi sono da combattere sempre e comunque.

E i centri sociali?
Sono da ricondurre anche qui nell'alveo di una legalità, valorizzando comunque quanto di buono fatto per il territorio.

Non esclude nuovi sgomberi, anche se di fatto parliamo di realtà sociali che in alcuni territori hanno costruito welfare e servizi dal basso?
Vedremo caso per caso. Sicuramente i centri sociali nascono in un momento di manchevolezza delle istituzioni ree di aver abbandonato interi quartieri e di non aver valorizzato il protagonismo dei cittadini che riprendevano possesso del territorio sottraendolo al degrado. Si tratta di una tutela di un bene pubblico per fini non privatistici. Ma ora è finita l'era delle assegnazioni dirette. Lo dice pure il magistrato Cantone. Si passa per i bandi pubblici. Se questi spazi hanno lavorato bene sul territorio, parteciperanno al bando e, se meritevoli, lo vinceranno.

Oltre la legalità e il contrasto agli sprechi quali sono i suoi cavalli di battaglia per governare la città?
Beh, sicuramente, con una rapidità estrema ci sarà da verificare tutte le scadenze degli appalti che sono attualmente in essere in modo tale da poter riprogrammare subito le gare. Più trasparenza, quindi. Dobbiamo iniziare da subito a impostare bene il lavoro per il futuro. Un'altra cosa importante sarà verificare perché non c'è mai stato un potere ispettivo vero e proprio dei funzionari del Comune di Roma sulle società partecipate, per poter capire effettivamente come stanno i conti. Inoltre, istituiremo un ufficio che inizi l'immane lavoro di verifica dei piani di zona.

Il centro storico rimarrà pedonalizzato come ha deciso l’ex sindaco Ignazio Marino o ritornerà come prima?
Al momento quell'area è soltanto sottratta al traffico privato perché è un'area di cantiere. Hanno spacciato per pedonalizzazione una cantierizzazione.

Quindi voi chiuderete il centro storico anche a bus, taxi e auto blu?
Se la metro C, come sembra, arriverà al Colosseo il cantiere dovrà rimanere aperto, non c'è nulla da fare. Per il resto, creeremo delle aree pedonali all'interno di ogni municipio: zone pedonali che trovano il favore sia dei cittadini che dei commercianti.

Emergenza rifiuti. La discarica di Malagrotta verrà chiusa del tutto?
Si lavorerà in tale direzione. Sentendo i dipendenti dell’Ama, dobbiamo prevedere una riorganizzazione della raccolta dei rifiuti eliminando le varie storture, in modo tale che i lavoratori possano effettuare giri in maniera regolare tutti i giorni e in tutte le vie. E poi c'è tutta la parte dello smaltimento con centri di riuso, riparazione e recupero che per altro portano posti di lavoro. Possibilmente centri in tutti i municipi o comunque iniziando in tutti i quadranti di Roma affinché i prodotti di scarto vengano intercettati prima e vengano reimmessi sul mercato e se è possibile recuperati.

Mi sembrano obiettivi molto difficili da raggiungere. Sicura che non ci sarà bisogno di inceneritori?Non fanno parte del nostro vocabolario. Puntiamo sulla politica dei “rifiuti zero”.

Non hai mai nominato le politiche sociali, eppure nella città aumentano le sacche di povertà…
Le politiche sociali e i fondi per la scuola saranno svincolati dal Patto di stabilità. Non è possibile continuare così: ogni anno i servizi sociali terminano i soldi stanziati tra giugno e luglio. Dobbiamo razionalizzare il settore, evitando sprechi, e rifinanziarlo per sostenere i cittadini in difficoltà incidendo anche per quanto riguarda il sistema dell'assistenza domiciliare.

Lei è cattolica. Manterrà il registro delle coppie di fatto?
Siamo stati i primi a depositare la proposta di delibera in Aula Giulio Cesare. Non faremo un passo indietro sui diritti civili.

Ho letto anche della sua proposta di far pagare l’Imu agli immobili del Vaticano, siete pronti alla guerra contro la Chiesa?
È stato lo stesso papa Francesco a dire che gli immobili nei quali si effettua attività commerciale devono pagare le tasse. È giusto, etico e morale.

Data la disaffezione dei cittadini nei confronti della politica, a Roma non si rischia un tasso di astensionismo altissimo?
Da anni il M5S lavora perché il cittadino sia informato e si impegni in prima persona nella gestione della cosa pubblica: organizziamo eventi sulla democrazia partecipata, allestiamo info-point. Stiamo puntando sul far innamorare i cittadini alla prassi della buona politica.

L’astensionismo vi penalizzerà?
Non facciamo previsioni di questo genere. Il nostro obiettivo è far tornare la gente al voto.

Chi teme di più tra Meloni, Marchini e Giacchetti?
Rimasi colpita il primo giorno della mia consiliatura quando in Aula vidi i vari esponenti confabulare tra loro e salutarsi. Un po’ il clima dei compagni di scuola che si rincontrano dopo le vacanze estive. Destra, sinistra, centro… di fatto, tra loro c'è sempre stato un tacito patto per non pestarsi i piedi. Fanno parte di un unico sistema. Al loro Patto del Nazareno bis, preferisco il Patto coi cittadini.

Mi dica almeno chi teme di più al ballottaggio…
Nessuno. Una vale l’altro. Sono il sistema, noi l’alternativa.

Se andate al ballottaggio contro Roberto Giachetti chiederete i voti a Giorgia Meloni o alla sinistra radicale di Fassina?
Non facciamo calcoli né apparentamenti: miriamo a governare la città con il voto consapevole dei cittadini che preferiranno il nostro modo di far politica e le nostre idee.

Domanda personale, quali sono i tre leader politici che l’hanno formata?
San Suu Kyi, Martin Luther King e Gandhi. Mi piacciono le persone che si impegnano anima e corpo nei progetti nei quali credono.

Il Fatto Quotidiano, 6 maggio 2016 (p.d.)

Il sito del museo non funziona? Pazienza, è più cool avere Sentiment su Trip Advisor. I visitatori sono pochi? Attiriamoli con Batman di fianco all’Ercole Farnese. Gli incassi sono risibili? Affittiamo la località per matrimoni vista templi. E via così: questo stanno facendo i 20 direttori dei principali musei statali, nominati ad agosto da Franceschini, con un costo per lo Stato di 2-2,5milioni di euro all’anno. I loro stipendi variano da 145 a 78 mila euro (+ 40 o 15 mila di bonus), contro i 30-35miladei predecessori.

A quasi 9 mesi dalla nomina, e a quasi un anno dei quattro della carica, tutti i manager sono indaffarati nel rilancio dei rispettivi musei: alcuni con operazioni felici, come il rientro di una pala del Perugino per Brera, o l’adeguamento della Galleria di Urbino per i disabili, o la riapertura dell’Archeologico calabrese. Altri, invece, si stanno sbizzarrendo con il maquillage più che con interventi strutturali: c’è chi vuole sfrattare un asilo per aprire un ristorante, chi fa strisciare Jan Fabre in Piazza della Signoria,chi invita Federica Pellegrinia tuffarsi nelle “piscine” della Reggia di Caserta...

La valorizzazione è garrula, anche per questo il 7 maggio a Roma è stata indetta la manifestazione “Emergenza cultura”.Una delle tante, benché minori, conseguenze della riforma del Mibact è il caos online: alcuni siti museali non funzionano, o sono in allestimento perenne, o “attivi, ma in forma ridotta”, come quello del Polo Museale Fiorentino, che comprende i frequentatissimi Uffizi e Accademia, gli stessi che poi si lamentano dell’acquisto dei biglietti sui portali non ufficiali o dai bagarini in strada. In compenso, il Mibact “ha voluto fornire ai musei uno strumento che permette di monitorare la propria immagine digitale”: servizio appaltato a Travel Appeal, startup fiorentina del renziano Mirko Lalli.

Quanto agli ultimi stanziamenti Cipe, ne beneficeranno 12 musei su 20 per un totale di 252 milioni di euro su quasi un miliardo.

Galleria Borghese (Roma). Anna Coliva, unica riconfermata, a dicembre si lamentava del “numero contingentato di visite e della prenotazione obbligatoria”.A maggio nulla è cambiato,perché ora il problema è sfrattare un asilo per farci un punto di ristoro.

Uffizi (Firenze). Le zecche sono state debellate, ma non le code e i bagarini. Eike Schmidt promette di completare i Nuovi Uffizi entro 4anni, portare a 50 la lista delle opere incedibili e svuotare il Corridoio Vasariano. Chiedeva 35 milioni di euro e il Cipe gliene ha dati 40.

Gnam (Roma). Lavori incorso forever nel museo di Cristiana Collu: non per riesumare opere d’arte o ampliare le sale, ma per spostare bookshop e caffetteria. Il nuovo ingresso “trionfale” costa 2 milioni di euro e sacrificherà parte della collezione.

Accademia (Venezia). Paola Marini ha aperto 7 nuove sale e inaugurato una importante mostra su Manuzio, ma c’è chi denuncia infiltrazioni e degrado “tali da compromettere l’incolumità delle opere, come quelle di Vittore Carpaccio”.

Capodimonte (Napoli). È partito il servizio di navetta da Napoli a Capodimonte. Intanto Sylvain Bellenger ha deciso di prestare molte opere del Caravaggio, per cui il museo è famoso, alla Germania per una mostra sul barocco a Napoli.

Brera (Milano). James Bradburne sembra il più spigliato e operativo: pregevole l’allestimento di “Raffaello e Perugino attorno a due Sposalizi della Vergine”, per il quale è rientrata in Italia una pala. Come sponsor si è fatto avanti Ovs.

Reggia di Caserta. Mauro Felicori è famoso per il suo stacanovismo, però deve vedersela coll’ingombrante scandalo affittopoli e la transumanza di parcheggiatori e ambulanti abusivi. Atteso per il 1° giugno il riallestimento dell’eccezionale collezione “Terrae Motus”.

Accademia (Firenze). Cecilie Hollberg si è lamentata con il sindaco Nardella del “caos abusivi e mendicanti” e ha ammesso: “Io più di così non posso fare. Nemmeno aperture straordinarie perché il personale non è sufficiente”.A lei niente soldi Cipe.

Galleria Estense (Modena). Diretta da Martina Bagnoli , qualche giorno fa “la Galleria è entrata nel terzo millennio e sbarcata sui social network”. Dopo i concerti e gli aperitivi, forse si vedrà qualche spicciolo dal Cipe dei 70 milioni per il Ducato Estense.

Gallerie di arte antica (Roma). “A causa della carenza di personale potrebbe verificarsi la necessità della chiusura di alcune sale”: ora che Flaminia Gennari Santori riceverà 9 milioni dal Cipe cambierà qualcosa?

Galleria delle Marche (Urbino). Peter Aufreiter ha adeguato gli spazi per i disabili, ma online il museo è inagibile. Sgarbi plaude il direttore per “aver migliorato l’allestimento e aver negato il prestito di un’opera di Pierodella Francesca”.

Galleria dell’Umbria (Perugia). Appena nominato,Marco Pierini disse: “Bisogna lavorare subito alla comunicazione, fare un sito degno di questo nome. Serve l’abbicci”. Infatti il sito è ancora in allestimento. Il museo ospiterà invece Umbria Jazz.

Bargello (Firenze). Orari e giorni di apertura sono esilaranti, se non incomprensibili: in sostanza, però, il museo diretto da Paola D’Agostino è aperto solo al mattino, con una proroga recente fino alle 17 e fino al 31 luglio. Poi chissà.

Archeologico di Napoli. Paolo Giulierini si è inventato due mostre sui supereroi e sui fumetti: oltre a Batman c’è pure Yoda vicino al busto dell’imperatore Claudio. Ma“la Collezione Egizia è chiusa sino a data da destinarsi e le Collezioni della Magna Grecia” pure.

Archeologico di Reggio Calabria. Il museo è stato riaperto sabato dopo 10 anni di cantiere, 34 milioni di euro pubblici e un’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia. Ora il compito di Carmelo Malacrino sarà attrarre visitatori.

Archeologico di Taranto. Eva Degl’Innocenti annuncia: “Più 30% di visitatori rispetto al 2015”, ovviamente tacendo il numero esatto.Anche se il trend venisse confermato, si arriverebbe a 70mila ingressi annuali: cifra ridicola, meno di un terzo del 30° museo italiano.

Archeologico di Paestum. Gabriel Zuchtriegel ha aperto il sito ai matrimoni, con tanto di regolamento e tariffario: da 200 euro in su per le foto e da 2 mila euro per il rito civile. Per quello religioso,“rivolgersi alla parrocchia”(sic).

Palazzo Ducale di Mantova. Pochi giorni fa Peter Assmann diceva che “l’ingresso non è ben individuato” e reclamava “parcheggi, organizzazione delle file, un punto d’informazione, bagni puliti...”. Ma che ha fatto finora a parte invitare il “Chamber Music Festival”?

Palazzo Reale (Genova). Serena Bertolucci si è adoperata per creare una App del museo e un percorso di visita per i bambini. Però Palazzo Reale è ancora poco conosciuto o scambiato per il Ducale, persino da Google. Niente nemmeno dal Cipe.

Polo Reale di Torino. Gli annunci sono fuorvianti; davano la riapertura dei Giardini a Pasqua, ma poi sul sito si legge: “Da aprile sarà avviato il cantiere di restauro”, confermato ora dal Cipe. La cappella della Sindone invece sarà riaperta nel 2017, così dice Enrica Pagella.

. Intervista allo storico dell'arte Tomaso Montanari. La Repubblica, 6 maggio 2016 (c.m.c.)

Lo sviluppo della cultura che la Repubblica è chiamata a promuovere, secondo l’articolo 9 della Costituzione, non può essere inteso come mero sfruttamento economico del patrimonio. Invece, pare questa la logica del governo Renzi che sacrifica la tutela del paesaggio e del patrimonio, subordinandola alla filosofia dei beni culturali come pozzi petroliferi ». Spiega così lo storico dell’arte Tomaso Montanari le ragioni che lo hanno spinto a lanciare la manifestazione.

Da cosa è nata l’idea?
«Subito dopo l’insediamento, incontrai il ministro Franceschini e mi disse che Renzi voleva eliminare le soprintendenze. Ma disse anche che si sarebbe opposto, che avrebbe fatto di tutto per riformarle senza depotenziarle. Invece è quello che è successo con la legge Madia, che le subordina ai prefetti, e con la riforma Franceschini, che ne cancella le specificità – accorpando le archeologiche a quelle storico- artistiche e architettoniche – e separa tutela e valorizzazione. Come ha scritto Salvatore Settis, la linea di pensiero che emerge considera le soprintendenze e la tutela come una “bad company”, distinta dalla “good company” che sarebbero i musei».

L’intento è rendere autonomi i grandi musei perché siano valorizzati al meglio.
«Sì, ma il problema della riforma è che misura il loro successo solo in base a quanto incassano. Mentre non ci può essere valorizzazione senza tutela. Il Louvre è straordinario perché punta sulla ricerca, che in Italia è mortificata: basti pensare alle soprintendenze lasciate senza risorse e personale ».

Ci sarà però l’assunzione di 500 funzionari.
«Numeri risibili, non sostituiranno neppure chi andrà in pensione. Per completare l’organico del Mibact servirebbero almeno 1.400 professionisti, ma il reale fabbisogno secondo noi è di 7mila ».

E il miliardo stanziato dal Cipe per la cultura?
«Concentrarlo su 33 progetti, mentre intorno si lascia il patrimonio in abbandono perché non si finanzia l’ordinaria amministrazione, è come rivestire un uomo nel deserto con uno smoking, senza però dargli da bere. Si danno 100 milioni a Firenze per l’Auditorium e i Grandi Uffizi, ma intanto a Pisa la chiesa di San Francesco, con la tomba del Conte Ugolino, è in parte crollata e non si fa nulla. Bisogna far vivere quel patrimonio diffuso che è la vera ricchezza, forse non economica ma culturale, del Paese».


Un interessante, approfondimento delle valutazioni strategiche, molto diverse tra loro, sul destino degli ex scali ferroviari milanesi: per completare l trasformazione della città in una macchina per arricchire gli straricchi o per renderla più bella, più equa e più sana? arcipelagomilano.org, 3 maggio 2016

I numerosi articoli sul destino degli ex scali ferroviari milanesi pubblicati sul numero della scorsa settimana di ArcipelagoMilano se, per un verso, testimoniano del largo interesse per tale vicenda, per altro verso meritano un approfondimento delle valutazioni strategiche assai diverse tra loro che vi si sono espresse.

Bruscamente interrottasi nel dicembre scorso con la mancata ratifica da parte del Consiglio comunale dell’Accordo di Programma predisposto dall’assessora De Cesaris e sottoscritto dal Sindaco con Regione Lombardia e FS la vicenda è al centro di divergenti valutazioni tra i candidati sindaci Sala e Parisi, da una parte – che vorrebbero riportarlo in approvazione tal quale il prima possibile – e, dall’altra Basilio Rizzo, che ne propone un sostanziale ridimensionamento del carico edificatorio se vi saranno realizzati anche i grandi parchi urbani o, a parità di carico edificatorio, la sua “perequazione” con la proprietà delle aree dove più utilmente quei parchi urbani erano già previsti negli strumenti pianificatori (Parco Sud, Parco Martesana, ecc.), lasciando sugli ex scali ferroviari solo il verde e i servizi di quartiere e alcuni grandi servizi urbani in corrispondenza dei punti di più alta accessibilità. Non è nota al momento la posizione del candidato sindaco del M5S, Corrado.

L’attuale assessore all’urbanistica Alessandro Balducci, pur ammettendo di averlo ricevuto completamente preconfezionato dalla precedente assessora Ada Lucia De Cesaris, comprensibilmente nel complesso lo difende dichiarandosi disponibile a ridiscuterne solo, da un lato, l’insufficiente quota di edilizia sociale e la sua localizzazione troppo “ghettizzata” in ambiti periferici, e, dall’altro, la necessità di una discussione approfondita sullo scenario complessivo dell’insieme degli scali in una visione di sistema nella città piuttosto che come singole occasioni di sviluppo, di cui tuttavia non specifica obiettivi concreti e definiti.

Giorgio Goggi, già assessore al traffico dal 1996 al 2000 nella Giunta Albertini, infatti, fa acutamente rilevare come«tutta la superficie degli scali è stata lasciata alla libera edificazione privata, con quel po’ di verde e di edilizia sociale che non si nega a nessuno» e che «peraltro, la densità prevista dall’accordo di programma sugli scali non è poi tanto moderata», mentre manca una visione di «una città in cui i grandi servizi (ospedali, università, uffici pubblici) sono collocati sulle linee ferroviarie passanti e sulle metropolitane, più centrali ma accessibili in tempi urbani anche da tutta la Città Metropolitana (e da buona parte della Regione)».

Anche Michele Monte rileva come «la negoziazione dell’accordo sul riuso degli scali, nelle sue diverse versioni, è stato fortemente condizionato dalla pressione svolta dalle società del gruppo RFI per la massima valorizzazione immobiliare di quelle stesse aree» senza considerare adeguatamente che «che queste aree, oltre a portare in dote straordinari valori di rendita urbana, se opportunamente pianificate con funzioni qualificate (in particolari di livello sovracomunale) potrebbero essere in grado di spostare quote importanti di mobilità sul trasporto pubblico, con effetti positivi sull’intero sistema facilmente immaginabili».

Infine Emilio Battisti osserva che «le aree liberate dal sedime ferroviario non possono ridursi a delle opportunità immobiliari oltretutto tra loro slegate, ma devono rappresentare l’occasione unica per avviare una nuova fase della trasformazione del territorio, dove i diversi sistemi (trasporto, ambiente, attività economiche) siano integrati un’unica strategia.Ciò potrà avvenire innanzi tutto attraverso la concentrazione dei nuovi insediamenti nei luoghi a elevata accessibilità, grazie all’offerta di trasporto pubblico alle diverse scale, quale modalità privilegiata e sostenibile per supportare lo sviluppo delle attività di una metropoli moderna in rapida trasformazione» e – pur senza mettere in discussione il dimensionamento complessivo di edificabilità e spazi pubblici – propone che «l’insediamento delle funzioni che richiamano elevata mobilità in prossimità delle nuove stazioni, in modo tale che la questione della maggiore o minore volumetria da insediare nelle aree degli ex scali non sia affrontata solo quantitativamente ma considerata caso per caso in relazione alla condizione dei contesti urbani di appartenenza».

A queste considerazioni manifestatesi su ArcipelagoMilano, per lo più critiche sulla mancanza di visione strategica, affianco quelle di Stefano Boeri che, a margine delle iniziative del Fuorisalone del mobile, ha illustrato la sua proposta “Fiume Verde” che sulle aree degli ex scali ferroviari di Milano propone l’obiettivo della realizzazione di grandi Central Park, analogamente a quanto fatto nell’800 a Manhattan e in altre città americane in occasione di dismissioni di aree infrastrutturali.

Concludo ora con alcune mie valutazioni al riguardo. Condivido, innanzitutto le critiche alla mancanza di visione strategica di quella bozza di Accordo con FS e la necessità, invece, di introdurvi opportune concentrazioni di grandi servizi pubblici e edificazioni in corrispondenza dei punti di più elevata accessibilità ferroviaria, ma non che ciò possa essere fatto indipendentemente dalle densità edificatorie complessive previste, che – come giustamente rileva Goggi – “non è poi tanto moderata”, anche se è circa la metà di quella dei PII e del PGT di Lupi e Masseroli, ma che non può considerarsi un termine di paragone ragionevole.

I nuovi investimenti in infrastrutture ferroviarie quali Circle Line (che serve al riequilibrio dei flussi di traffico in ambito urbano) e Secondo Passante (soprattutto se auspicabilmente con poche fermate urbane, mirando al decentramento e riequilibrio tra Milano/area metropolitana e poli regionali) sono auspicabili e necessari. Ciò che non è accettabile è sovraccaricare di edificazione il riuso degli ex scali ferroviari milanesi (come faceva la bozza di AdP della assessora De Cesaris bocciata in Consiglio lo scorso dicembre) in cambio di investimenti da parte di FS in queste infrastrutture.

Quanto alla suadente proposta di “Fiume Verde” Stefano Boeri, come ha già fatto per il suo Bosco Verticale a Porta Nuova, si dimentica di rilevare che con gli indici edificatori contrattati dall’ex assessora De Cesaris con FS gli edifici attorno ai suoi Central Park avrebbero densità persino superiori a quelle di Citylife e Porta Nuova. Con gli indici edificatori e gli spazi pubblici previsti dall’Accordo non ratificato dal Consiglio comunale, la densità fondiaria media arriverebbe al folle valore di 40 mc/mq, proprio come a Manhattan. Inoltre, in quell’Accordo ai 23 mq/abitante di parchi urbani corrispondono solo 6 mq/abitante di verde e servizi di quartiere (meno della metà dei 18 mq/abitante minimi inderogabili per legge e molto meno persino dei 16 mq/abitante realizzati a Citylife e Porta Nuova).

Vi sembra accettabile che gli abitanti di quei quartieri dovessero andare« “in gita ai grandi parchi territoriali” anche solo per portare i bambini a scuola o al parco giochi? Se, invece, si realizzassero come auspicabile 26,5 mq/abitante di servizi di quartiere, al verde territoriale resterebbero solo 3,5 mq/abitante, con buona pace dei Central Park auspicati da Boeri. Se sugli ex scali si vuol fare anche Central Park l’edificabilità di quelle aree deve scendere da 0,65 mq/mq a 0,45 mq/mq (altrimenti gli edifici finirebbero accatastati più che a Citylife e Porta Nuova); se, invece, si mantiene lo 0,65 mq/mq, cioè realizzando solo il verde e i servizi di quartiere, FS può pretenderne solo lo 0,45 e il rimanente 0,20 va “perequato” con le proprietà dove si realizzeranno i parchi urbani territoriali (Goccia/ex AEM, Parco Sud, ecc.).

Sono due strategie entrambe accettabili e da valutare confrontandone pro e contro caso per caso. Invece, dare tutto lo 0,65 ad FS (come voleva l’accordo non ratificato) con anche Central Park sarebbe un disastro! È il gioco delle tre tavolette e il Consiglio comunale ha fatto bene a bocciarlo e i cittadini farebbero bene a non votare Sala e Parisi che vogliono riproporlo tal quale.

Introduzione a un libro che documenta e commenta le iniziative di resistenza nella città del Giglio alla politica neoliberista,di cui l'ex sindaco (e attuale Re d'Italia) è autorevole esponente 1

Ilaria Agostini, Urbanistica resistente nella Firenze neoliberista: perUnaltracittà 2004-2014" Aión edizioni

UN'ALTRA IDEA DI CITTA'
Introduzione di Ilaria Agostini

L’urbanistica neoliberista provoca resistenza popolare. Alla rappresentazione ufficiale delle politiche urbane si contrappone, in queste pagine, il racconto corale e antagonista di cittadine e cittadini, comitati ed esperti critici, uniti a Firenze nel “Gruppo Urbanistica” che ha fornito il sostegno tecnico alla lista di cittadinanza “perUnaltracittà”[1], per due legislature all’opposizione in Consiglio comunale.

Due legislature, dal 2004 al 2014: anni in cui, a livello planetario, si accresce per poi deflagrare, la “bolla” edilizia. Favorita, in Italia, dalla diminuzione dei trasferimenti statali ai comuni e dall’opera demolitoria di Franco Bassanini che, a cavallo del millennio, da una parte incrementava a dismisura il potere nelle mani dei sindaci, mentre dall’altra rendeva possibile riversare gli oneri di fabbricazione nella spesa ordinaria dei comuni. Lo scivolamento progressivo dal welfare state al real estate si traduce in una nuova fase di cementificazione, interpretata a livello nazionale come unica risposta alla penuria di cassa dai comuni sempre più poveri. In epoca di dismissione industriale conclamata, l’economia peninsulare si orienta francamente sul mattone. La città diventa un grosso affare economico, i valori immobiliari aumentano e sulla loro crescita si fonda il consenso politico.

Il «lucido disegno derogatorio» perseguito dagli anni Novanta[2], corrobora l’attività speculativa nell’edilizia. La contrattazione pubblico-privato nel decennio è prassi consolidata che immediatamente si trasforma in arbitrio e che sistematicamente – e legalmente – piega l’interesse comune a quello dei particolari. Il mestiere dell’urbanista, puntualizzava recentemente Edoardo Salzano, si trasforma in «facilitatore delle operazioni immobiliari». Dal canto loro, strette nella morsa del sistema finanziario, le imprese edili – che accedono al credito sulla base del capitale fisso (ossia del costruito) – costruiscono per poter continuare a costruire: è un circolo vizioso. Con un milione di nuovi alloggi invenduti[3], il consumo di suolo in Italia doppia generosamente la media europea. Lo scenario muta quando nel 2008, facendo seguito alla crisi dei mutui subprime, il mercato immobiliare crolla e i prezzi al metro quadro arrivati alle stelle, cadono in picchiata.

Firenze è per l’intero decennio il banco di prova per il grande cantiere politico nazionale. Nel 2004, alla Provincia è eletto presidente in quota democristiana (Margherita) Matteo Renzi, ignoto trentenne, che diventerà sindaco nel giugno 2009 raccogliendo il testimone da Leonardo Domenici (Ds-Pd) ma cedendolo per occupare Palazzo Chigi, pochi mesi prima della naturale scadenza. Nella città toscana sono messe in atto le politiche che dal febbraio 2014, in qualità di presidente del Consiglio dei ministri, il “sindaco d’Italia” estenderà dalla scala urbana all’intero paese[4]: concentrazione del potere e svilimento del ruolo degli organi collegiali, velocità decisionale e forzatura delle norme, propaganda in luogo della pianificazione, obliterazione del dato sociale in nome del nuovo, del brand e dello smart. E apologia della tabula rasa.

La città iniqua

Nel decennio, la pianificazione urbanistica rinuncia ai suoi compiti statutari ed è diffusamente percepita come anacronistica limitazione al finanzcapitalismo fondato sul «mattone di carta». Le politiche urbane si allineano al paradigma neoliberista che vuole l’1% arricchito a spese del restante 99%. Sintetizzato da Joseph Stiglitz nel 2011 nella formula fatta propria dal movimento di Occupy Wall Street («We are the 99%»), il paradigma produce “centri” ­– cittadelle del potere, fortificate e interconnesse da comunicazioni ad alta velocità – e “periferie” sempre più estese e distanti dai luoghi della politica[5], nelle quali i cittadini, lo registra in queste pagine Maurizio De Zordo, sono espropriati del naturale «diritto alla città»[6].

Non solo. L’urbanistica si rende “mezzo politico” capace di trasformare i quartieri in territorio di conquista da parte di quel segmento finanziario che non intrattiene «alcun legame con i luoghi in cui la ricchezza si produce»[7]. L’urbanistica diventa «qualcosa che può essere quotato in borsa, giocato con la stessa logica dei “derivati” su proiezioni del futuro»[8]. Si fa tossica. Alligna tra la debolezza dell’amministrazione e la miopia della speculazione finanziaria. Acceca i politici cui offre scenari a prospettiva raccorciata. In questa temperie si generano i disastri dei fallimenti comunali che alcuni critici denunciano da tempo[9].

Così, le «città infelici del neoliberismo» diventano sempre più estese e più ingiuste. All’aumento della superficie urbana segue infatti l’incremento delle spese – a tempo indeterminato – per la costruzione e la manutenzione delle infrastrutture di servizio e per i trasporti. Più la città cresce, più si indebita facendo ricorso agli strumenti finanziari che deliberatamente rompono il patto sociale su cui si fonda la vita civile (i debiti a lunga scadenza intaccano peraltro anche il patto generazionale). I bilanci comunali vacillano. Il rientro dal debito – nel segno dell’“austerità” – crea nuove sofferenze urbane nelle «periferie dolenti». A Firenze la polarizzazione delle risorse economiche nell’1% dello spazio urbano, tirato a lucido e usato come mero strumento di accumulazione e finanziarizzazione, ha valenza didascalica: a dispetto della propaganda renziana basata sulla necessità di un ribaltamento del vecchio sistema economico-politico che erodeva risorse a danno dei “giovani”, il «restyling» di via Tornabuoni fortemente voluto dallo stesso Renzi, è stato finanziato con un mutuo a lungo termine. Proprio il contrario di quanto sbandierato nei salotti televisivi.

«Tutto quello che vedi è in vendita», ricordava uno striscione sulla ringhiera del piazzale Michelangelo da cui si offre la vista di una città ridotta a puro valore di scambio. La mercificazione si attua prioritariamente attraverso la svendita del patrimonio edilizio pubblico e l’abdicazione al controllo della trasformazione di quello privato. La cittadinanza viene espropriata del fondativo diritto alla proprietà collettiva, osso della società civile e speranza per la sua rifondazione come avverte da anni Paolo Maddalena[10].

L’alienazione degli edifici pubblici rientra tra i principali elementi di pauperizzazione delle città italiane. Nel solo centro storico fiorentino sono centinaia di migliaia i metri quadri in vendita e in trasformazione, spesso in edifici di valore monumentale dei quali è negata la disponibilità sociale, come illustra Daniele Vannetiello nel saggio dedicato alla Firenze intramuros. La loro vendita vede tra i maggiori acquirenti una compiacente Cassa depositi e prestiti Spa (su cui ritorna Berdini nel capitolo che segue) e nel post-Renzi assume i toni grotteschi del “Florence, city of the opportunities” (sic): operazione propagandistica che vede il neosindaco Nardella vestire l’abito dell’agente immobiliare per promuovere edifici pubblici (ma anche privati) presso le fiere internazionali del real estate. È la parodia della politica urbana, che si sovrappone al mercato immobiliare, e con esso coincide.

I servizi alla cittadinanza, mercificati e privatizzati, drenano enormi ricchezze pubbliche. Rappresentano un non secondario aspetto della città iniqua: forniscono servizi peggiori ai cittadini più “periferici”, mentre costituiscono uno dei favoriti finanziamenti occulti della politica. La privatizzazione dell’Ataf, il servizio comunale di autotrasporti pubblici fiorentini, ha avuto forti ripercussioni sulla qualità della vita cittadina. Ma il presidente della società, privatizzata nel 2012, è ora amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato. Mobilità sociale.

Sulla mobilità veicolare si concentra in effetti il progetto “pubblico” della città, più futurista che moderno. Sottolineava Enzo Scandurra, in un recente dialogo, che l’urbanistica fiorentina si riduce ormai a due soli elementi: l’aeroporto e il sottoattraversamento Tav. Il nuovo aeroporto, fortemente voluto da Renzi presidente del Consiglio[11], adombra per mole di affari il grande nodo irrisolto della lottizzazione di Castello, come spiega nel suo saggio Antonio Fiorentino. Della resistenza civile e dei controprogetti “dal basso” al passaggio sotto Firenze del treno ad alta velocità parlano in questo libro Tiziano Cardosi e Alberto Ziparo, dando testimonianza, l’uno, del lavoro di costruzione corale del sapere critico nel comitato No Tunnel Tav, e l’altro, dell’impegno di un docente di urbanistica organico al movimento.

La città desacralizzata

A Firenze – palcoscenico del “nuovo” nazionale – è fatto abuso dei concetti di città creative e smart, invenzioni strumentali all’urbanistica «ossessionata dal marketing». Le une, le creative cities, ridicolizzano l’autorappresentazione urbana tramite un “brand”, creato espressamente per la competizione globale tra città che aspirano a collocarsi in classifiche di attrattività internazionale (per sedi di expó, olimpiadi o capitali della cultura, e per gli agognati “investimenti stranieri”). In esse, eventi e grattacieli sono icone che uccidono i simboli autocostruiti. Ognuna singolarmente, ognuna alienata dal contesto, le nuove icone sono messe in campo per mascherare l’obliterazione del dato sociale nelle politiche urbane. La civitas è sostituita con un simulacro vendibile: in questa logica, nel 2012, l’affitto del Ponte vecchio ad un sodale politico del sindaco, prima dell’arrampicata a palazzo Chigi, passa come atto di normale amministrazione.

Dal canto loro, invece, le smart cities – città furbette più che intelligenti, stigmatizzava Franco Farinelli[12] – incarnano il sogno delle città informatizzate: i problemi del traffico, della “sicurezza” o quelli ambientali, ognuno a sé stante, sono rimandati agli esperti di settore. Urbanisti e piani possono essere buttati al macero. In fondo, lo si è già detto, gestire la città secondo i principi neoliberisti, comporta la «de-significazione» del piano urbanistico. Nel caso fiorentino, il Piano strutturale (2011) e il Regolamento urbanistico (adottato nel 2014) – ormai privi del significato di “progetto comune sullo spazio comune” – eludono la materia pianificatoria e, infarciti di proclami, rifuggono una “narrazione” che possa contribuire al disegno della città futura.

Gli strumenti approvati o concepiti nel decennio si inviluppano nella triade «mixité sociale-governance-sviluppo sostenibile»[13], valida per lenire tutti i mali della città globale, che a Firenze si declina: nel «mix di funzioni» (funzioni che tuttavia sarà il privato a determinare, come approfondiamo nel saggio dedicato ai Piani neoliberisti); nella partecipazione (risolta nella farsa dei «facilitatori del consenso»); negli ammiccamenti a una “natura in città” (lo studio delle relazioni profonde dell’ecosistema urbano è tuttavia accuratamente evitato). In contrapposizione alle “scelte” di piano del tutto avulse dal contesto ambientale e impermeabili ai suggerimenti morfologici offerti dai luoghi, Roberto Budini Gattai offre in queste pagine soluzioni convincenti e non prive di fascino. Mentre Giorgio Pizziolo costruisce l’ipotesi a scala territoriale della «città/paesaggio» nella quale le relazioni ecologiche – ambientali, soggettive, sociali – guidano il progetto futuro di una città come «luogo vivente».

Il «bacio mortale»[14] dell’Unesco – che dal 1982 ha inserito nel world heritage il centro storico di Firenze – completa il quadro della desacralizzazione urbana nel segno della monocultura economicista. Il turismo, inesauribile «cash machine», estrae beni territoriali e li reinveste nelle cittadelle della finanza mondiale. Il tessuto della città storica è sottoposto a una pressione insostenibile che, ancora una volta, produce risultati nel segno dell’iniquità. La città dell’1% si realizza prioritariamente sull’espulsione dei residenti. Il centro da offrire ai media come immagine del successo del sindaco e della riuscita della città nella “competizione globale” è stato – da tempo – sterilizzato: via residenti e luoghi di aggregazione, via le bancarelle e via anche le macchine (oggi l’espulsione si attua anche attraverso una pedonalizzazione cui non faccia seguito un buon servizio di trasporto pubblico). Nei quartieri storici limitrofi al “salotto buono”, il processo di imborghesimento – nella letteratura di settore, processo definito «gentrificazione» – è in atto, e si realizza nella formula che fa coincidere il rinnovamento dei settori urbani con il rinnovamento dei residenti[15]. Laddove invece la concentrazione di popolazione migrante impedisce l’innalzamento di rango e di valore immobiliare dei quartieri centrali, la risposta dell’amministrazione risiede nell’adozione di soluzioni securitarie: l’illuminazione violenta di stile carcerario e le videocamere periferizzano alcuni settori della Firenze duecentesca (quartiere di San Lorenzo, via Palazzuolo). È l’altra faccia del modello centro-periferico che relega l’«umanità eccedente»[16] in aree non necessariamente remote.

La città felice?

Il capitalismo dalle nuove fattezze, del money by money, ha una sua precisa idea di città e di governo delle cose urbane. Una città mercantil-proprietaria che, individualista, indifferente alle relazioni ecosistemiche, nega la presenza attiva della cittadinanza che si autodetermina, ne nasconde i corpi, cancella le pratiche urbane con cui «gli abitanti usano e vivono lo spazio, e al contempo [...] gli attribuiscono un significato e un valore simbolico»[17]. Nel capoluogo toscano un esempio, forse minore, è tuttavia indicativo: il Mercato centrale, trasformato in una batteria di ristorantini bobó (bourgeois-bohème), non risponde alla richiesta diffusa nel quartiere di luoghi di assemblea e di riunione, di cui la città di Renzi-Nardella è sempre più avara.

La città comune – lo spazio urbano, le strade, le piazze, gli edifici collettivi, il suo paesaggio e la sua corona agricola – è gestita in stile privatistico, “valorizzata” con i metodi classici della produzione capitalista e i più moderni del turbocapitalismo. L’urbanistica neoliberista cala la maschera. Si accanisce sui luoghi di sperimentazione creativa, sociale e di «welfare dal basso», su ogni pratica di appropriazione collettiva di luoghi dismessi e oggi nuovamente appetiti. La sua fisionomia autoritaria si tratteggia nitida ogni volta che la legalità di un vuoto piano urbanistico viene a prevalere sulla legittimità di usi pluridecennali, autorganizzati, a servizio di quartieri poveri di luoghi di aggregazione.

Le autrici e gli autori dei saggi contenuti nel presente volume sono, oltre che narratori, protagonisti di quella decennale sperimentazione di ipotesi teoriche ed operative che abbiamo definito “urbanistica resistente”: un complesso di azioni animate dalla riflessione critica – di segno politico-tecnico, ecologico ed antropologico – sull’involuzione neocapitalista della città e sullo smantellamento in atto delle basi stesse della civiltà urbana. La loro esperienza dà linfa alla convinzione che sia ancora possibile progettare una città della gioia, una città felice. Un progetto che implica la costituzione di una nuova civitas avvertita delle relazioni col territorio, che dia spazio al mutualismo senza soffocare i conflitti, che incoraggi l’autorganizzazione e l’autogoverno delle risorse naturali, economiche e demiche[18]. In questo progetto tutti sono chiamati all’impegno in prima persona, ad essere il corpo vivo della città, presente nelle piazze e nei luoghi di rinascita collettiva, e a sostenere pratiche di cura e di accoglienza per rafforzare le convivenze possibili e ricostruire il legame sociale indebolito. Impegno non limitato, come talvolta accade, a mantenere «vivi certi tesori del passato e certi presentimenti del futuro», ma capace – sono ancora parole di Simone Weil – di rifondare «città umane [che...] avvolgono di poesia la vita di coloro che vi abitano»[19]. A partire da questa resistenza corale si invera l’altra idea di città.

Il libro è stato discusso e progettato collettivamente dal Gruppo Urbanistica della lista di cittadinanza perUnaltracittà (Puc). I suoi capitoli descrivono il quadro teorico e politico, le vicende urbanistiche, l’impegno e il lavoro di opposizione, le ipotesi progettuali condivise. Ma il libro non mira a raccontare dieci anni di storia urbanistica. Esso registra i modi della resistenza vissuta e ne delinea quelli futuri, raccoglie i risultati di una ricerca-azione di durata decennale che ha favorito e messo a frutto capacità relazionali e competenze nell’ascolto, abilità pratiche e organizzative con attenzione al calendario politico etc. Così la narrazione, da una parte, affonda nella memoria personale e collettiva, mentre dall’altra attinge alle fonti documentarie consentanee alla ricerca in urbanistica. Ossia alla produzione del Comune (delibere, atti, determine etc.) e ai piani urbanistici (studiati con attenzione e puntualità anche per la loro traduzione alla cittadinanza attiva “non esperta”); all’informazione a stampa; alla controinformazione. E, infine, sui materiali autoprodotti per l’opposizione in Consiglio: dai comunicati stampa alle pubblicazioni cartacee e digitali, disponibili sul sito della lista consiliare.

Il sito è tutt’oggi attivo e costantemente aggiornato dal “Gruppo Comunicazione”: nelle pagine del libro, Cristiano Lucchi ne rivela i segreti che non di rado hanno permesso di far breccia nel muro di silenzio dell’informazione ufficiale. Maurizio Da Re, segretario “in palazzo”, estrae dalla mole documentaria prodotta quegli atti consiliari, interrogazioni e domande di attualità che hanno avuto maggiori ripercussioni sull’andamento della politica cittadina, dando talvolta vita a vicende trasposte nelle aule del tribunale. Infine, lo spirito dell’azione politica della lista è illustrato dalla consigliera Ornella De Zordo che ha instancabilmente intessuto relazioni tra il palazzo, i quartieri cittadini e il territorio metropolitano, mettendo in rete l’esperienza fiorentina con le analoghe che cominciavano a dispiegarsi a scala nazionale.



[1]Per agevolare la lettura, con “perUnaltracittà” (o con la relativa sigla Puc) denominiamo la lista consiliarenell’intero periodo in esame, benché nella prima legislatura (2004-2009) essaassumesse il nome di “Unaltracittà/Unaltromondo”.
[2]Cfr. Sergio Brenna, La strana disfatta dell’urbanisticapubblica. Breve ma veridica storia dell’inarrestabile ma controversa fortunadel «privatismo» nell’uso della città e del territorio, Maggioli,Santarcangelo di Romagna, 2009. Sulla perdita della titolarità pubblica nelgoverno del territorio si veda anche EdoardoSalzano, Vent’anni e più diurbanistica contrattata, in Maria PiaGuermandi (a cura di), La cittàvenduta, atti del convegno (Roma, 6 aprile 2011), Italia Nostra, Gangemi,Roma, 2011, pp. 24-38.
[3]Cfr. Paolo Berdini, Le città fallite. I grandi comuni italiani ela crisi del welfare urbano, Donzelli, Roma, 2014.
[4]Cfr., oltre al mio Pianificar twittando,“il manifesto”, 3 aprile 2014, la prefazione di Ornella de Zordo a Riccardo Michelucci, Guida alla Firenze ribelle, Voland,Roma, 2016.
[5]«Più l’economia siinternazionalizza, più le funzioni centrali si concentrano: è la dinamica dellacittà globale» (Saskia Sassen, La ville globale, “Le Débat”, n. 80, 1994), cfr. anche Jean-Pierre Garnier, Un développement insoutenable. Sécuriser orassurer?, “L’homme et la société”, 2005, n. 155, trad. it. in Ilaria Agostini,Daniele Vannetiello (a cura di),La conversione dell’abitare. Comunità,fertilità, sapienza, “L’Ecologist italiano”, Lef, Firenze, 2015, pp. 68-83.
[6]Il riferimento è al classico HenriLefebvre, Le droit à la ville,Anthropos, Paris, 1968. Un’analisi marxista degli effetti del neocapitalismosull’ambiente urbano è in David Harvey,Il capitalismo contro il dirittoalla città. Neoliberismo, urbanizzazione, resistenze, Ombre Corte,Verona, 2012.
[7]Paolo Berdini, Quali regole per la bellezza della città?,“Casa della cultura”, 22 gennaio 2016, http://www.casadellacultura.it/paglaboratorio.php?id=257
[8]Franco La Cecla, Control’urbanistica, Einaudi, Torino, 2015, p. 41.
[9]Ad esempio in Berdini, Le città fallite cit.; cfr. anche il mioLa borsa valori dell’urbanistica, “ilmanifesto”, 22 aprile 2015.
[10]Cfr. Paolo Maddalena, Il territorio bene comune degli italiani.Proprietà collettiva, proprietà privata e interesse pubblico, Donzelli,Roma, 2014.
[11]Cfr. Ilaria Agostini, Le dieci cose da sapere sull’aeroporto diFirenze, “La Città invisibile”, 8 luglio 2015, n. 24.
[12]Franco Farinelli, Bologna che ha perso la memoria, “ilmanifesto”, 13 marzo 2014, di prossima ripubblicazione in un libro collettivo acura di Piero Bevilacqua e della scrivente.
[13]Jean-Pierre Garnier, Une violence éminemment contemporaine. Essais sur la ville, la petitebourgeoisie intellectuelle & l’effacement des classes populaires,Agone, Marseille, 2010, p. 11.
[14]Cfr. Marco D’Eramo, Unescocide, “New Left Review”, 2014, n.88, pp. 47-53.
[15]Così in Anne Clerval, Paris sans le peuple. La gentrification dela capitale, La Découverte, Paris, 2013. Sul tema si veda anche il piùrecente Giovanni Semi, Gentrification. Tutte le città come Disneyland?, il Mulino,Bologna, 2015.
[16]Enzo Scandurra, Un paese ci vuole. Ripartire dai luoghi,Città aperta, Troina, 2007, p. 108.
[17]Carlo Cellamare, Autorganizzazione e vita quotidiana. Storiedi città, a Roma, in Id., Roberto DeAngelis, Massimo Ilardi, Enzo Scandurra, Recinti urbani. Roma e i luoghi dell’abitare, manifestolibri, Roma,2014, p. 69.
[18]Rimando alle pagine dedicate a La cittàin Vandana Shiva (a cura di), Manifesto Terra Viva. Il nostro suolo, i nostribeni comuni, il nostro futuro, Navdanya International, Firenze, 2015,consultabile su www.navdanyainternational.it.
[19]Risp. Simone Weil, La prima radice. Preludio ad unadichiarazione dei doveri verso l’essere umano (1949), SE, Milano, 1990, p.39 ed Ead., Attesa di Dio (1950), Adelphi, Milano, 2008, p. 138.

Il progetto della Cassa Depositi e Prestiti per "riqualificare" una caserma a Torino è un caso esemplare di come un ente finanziato dai risparmiatori sia stato trasformato in società immobiliare controllata dal governo e dai suoi amici. Il Sole 24 Ore Casa 24 Plus, 1 maggio 2016 (p.s.)

Comincia da Torino il processo di riqualificazione delle ex caserme dismesse. Con un progetto del Gruppo Cassa depositi e prestiti da 25-30 milioni di euro per recuperare la caserma La Marmora in via Asti. Un luogo storico per la città che ,dopo l’intervento in variante fatto dal Comune e l’acquisizione da parte di Cassa depositi e prestiti, si trasformerà in uno spazio aperto e fruibile, destinato al residenziale e alla fruizione da parte di start up, laboratori e aree di co-working.

Le linee del progetto, sviluppato con Carlo Ratti, fondatore dello Studio Carlo Ratti Associati e docente al Mit di Boston, le descrive Aldo Mazzocco, Head of Group Real Estate di Cassa depositi e prestiti, proprietaria del complesso: «La caserma di via Asti si trasformerà per il 60% in nuove residenze e in uno spazio destinato allo Smart housing, una formula di recupero e valorizzazione di aree della città che accomuna Berlino, San Francisco e Barcellona e che punta su un’offerta residenziale con spazi condivisi, che possa attrarre creativi, startupper e giovani». Una prospettiva architettonica e sociale, insieme, che passa attraverso il co-working, ma che si allarga a forme nuove di co-living e co-making.

L’idea è di proporre una formula di residenzialità basata sugli affitti a costi approcciabili, in un contesto aperto e stimolante, che possa agevolare la nascita e lo sviluppo di nuove idee e che risponda, sottolinea Mazzocco, alle nuove esigenze di mobilità piuttosto che soltanto a criteri di reddito. «Si tratta di un modello che funziona nella Silicon Valley – racconta – che ha funzionato in città europee come Berlino e Barcellona e che può funzionare a Torino per le sue caratteristiche strutturali, per il tipo di mercato immobiliare presente e per la buona qualità di ricerca e università».

L’innovazione accanto alla storia. La Caserma La Marmora fu sede, dal 1943 al 1945, dell' Ufficio politico investigativo della Guardia nazionale repubblicana. Lì vennero imprigionati, torturati e interrogati decine di partigiani, in tanti persero la vita. Nell’area sarà ospitato il Museo della Resistenza. Per il sindaco di Torino, Piero Fassino, quello di via Asti è «un intervento di valore, per la rilevanza architettonica degli spazi e per l’importanza storica che mantengono nella memoria collettiva della città. La riqualificazione servirà a mantenere viva la memoria».

L’intero complesso ha una superficie di circa 20mila metri quadrati, l’impianto è formato da otto corpi di fabbrica intorno ad una corte centrale, racchiusi da muri di cinta lungo tutto il perimetro. Il progetto prevede la realizzazione di nuove residenze, attraverso un recupero rispettoso dell'architettura originale, risalente alla fine del XIX secolo. Le soluzioni realizzate avranno la caratteristica di moduli, seguendo le caratteristiche architettoniche degli edifici, con taglie diverse. Da extra small (20 metri quadri) a XL, 180 metri quadri. La “corte urbana” centrale, circa un terzo di piazza Vittorio, la più ampia di Torino, diventerà luogo di aggregazione e di rete per le attività che sorgeranno nell’area.

L’esperienza di Torino è anche una sorta di debutto per il nuovo modello di riqualificazione che intende proporre CDP per ricucire e rivitalizzare il tessuto urbano delle città italiane attraverso
forme innovative di residenzialità, perlopiù in locazione, arricchite di nuove di nuove funzionalità per le comunità urbane, sempre recuperando patrimoni storici e architettonici.

Completato lo studio di fattibilità da parte dello Studio Ratti, si prevede i lavori possano essere avviati nel 2017. Dal punto di vista urbanistico, spiega l’assessore del Comune di Torino Stefano Lorusso, si proseguirà con la progettazione urbanistica attuativa per poi avviare la commercializzazione dell'asset a seguito dell'adozione del Piano attuativo, entro il secondo semestre dell’anno.

«La manifestazione nazionale “Emergenza cultura” del 7 maggio, in piazza Barberini a Roma, è un’opportunità per dimostrare che esiste ancora un pensiero divergente. Che il patrimonio è un bene inalienabile, di tutti». Il Fatto Quotidiano online, 1 maggio 2016 (c.m.c.)

“Fatico a comprendere come si continui a dire che il nostro è stato un tentativo di separare la valorizzazione del patrimonio culturale dalla tutela. In realtà abbiamo tentato di distinguere i compiti e le finalità pubbliche creando un equilibrio territoriale”, ha detto il ministro dei beni culturali Franceschini, intervenendo il 21 aprile alla presentazione del libro di Lorenzo Casini Ereditare il futuro. Dilemmi sul patrimonio culturale .

Quanto quell’equilibrio territoriale sia precario, quanto la distinzione di compiti e finalità pubbliche sia incerto non lo sostengono ostinati detrattori. Né tanto meno elitari rappresentanti di una casta che osteggia qualsiasi cambiamento.A certificarlo sono le notizie che giungono da ogni regione d’Italia, esito naturale di politiche scellerate nelle quali la riforma delle soprintendenze costituisce soltanto cronologicamente l’ultimo intervento. Notizie sull’utilizzo di aree archeologiche e musei, ma anche di palazzi storici per eventi di ogni tipo. Ben inteso, eventi indiscutibilmente privati. Come aperitivi, matrimoni, convention aziendali, vernissage e perfino incontri politici. Servono profitti! Quindi avanti con chiusure temporanee, parziali e totali, di spazi pubblici. Quasi sempre spazi rappresentativi e in condizioni di conservazione tali da far bella mostra di sé. In ogni caso chiusure che penalizzano la libera fruizione.Creano le premesse per un pericoloso discrimine tra il semplice visitatore e l’imprenditore di turno.

Non è tutto.In questa operazione di nuovo marketing, che ha da tempo investito il patrimonio italiano, ci sono i riutilizzi. Ville e palazzi storici soprattutto, ma anche tipologie più specifiche come fari e forti militari, conventi e castelli, sparsi da nord a sud del paese. All’interno dei centri abitati, oppure isolati tra campagne e montagne. Beni, in gran parte di proprietà del demanio, messi sul mercato. Non di rado proprietà comunali e regionali. Un’asta per ricchi in cerca di un luogo prestigioso nel quale risiedere, il più delle volte nel quale sviluppare un nuovo business. Hotel a 5 stelle, come si accade a Venezia, B&B affacciato sui resti del foro romano, come accade a Brescia, appartamenti come accade a Firenze nel Palazzo della Beatrice dantesca.Esempi di un riutilizzo che sembra non avere regole. Verrebbe da dire, accortezze. Il palazzo del seicento trattato alla stregua del faro novecentesco. Ogni struttura come ciascun complesso, poco più di una elemento da monetizzare. Questo il punto.

Questa l’idea di fondo, che accomuna la riforma delle soprintendenze e la lista dei beni demaniali da mettere in vendita, con il corollario della riorganizzazione dei musei, di alcune misure dello “Sblocca Italia” e della legge Madia. La chiamano valorizzazione, anche se ha tutta l’aria di essere un’enorme dismissione. Articolata, certo. Ma pur sempre una dismissione. Nella quale i Beni Comuni vengono progressivamente cancellati, per diventare di pochi.Un’autentica emergenza culturale nella quale la valorizzazione, nella sua interpretazione corrente, diviene lo strumento non per esaltare monumenti e siti archeologici ma per farne contenitori di eventi.

Insomma qualcosa tra un set cinematografico e un palcoscenico. Mentre la tutela appare scriteriatamente dimezzata. Con nuove soprintendenze onnicomprensive che dovranno districarsi tra organici esigui e criticità crescenti. Ulteriormente e forse definitivamente relegate ad un ruolo di subalternità decisionale. Per questi motivi i rischi. anche se meno evidenti, sono grandissimi. La rincorsa negata, ma reale, a questa pseudo valorizzazione senza alcun limite e separata dalla tutela, sta rapidamente avvicinando il paese non soltanto a un’emergenza culturale ma anche della repubblica. Sempre meno garante della tutela ad esempio del paesaggio e del patrimonio storico e artistico.Sempre meno promotrice dello sviluppo della cultura che da bene comunitario si sta trasformando in risorsa per pochi.

Anche per questo la manifestazione nazionale “Emergenza cultura” del 7 maggio, in piazza Barberini a Roma è un’opportunità per dimostrare che esiste ancora un pensiero divergente. Che il patrimonio è un bene inalienabile, di tutti. “Prima classe, il passeggero è un miliardario forestiero. – Italia bella, io comperare. Quanti dollari costare?-. Ma il ferroviere, pronto e cortese: – Noi non vendiamo il nostro Paese”, scriveva nel 1960 Gianni Rodari in “Filastrocche in cielo e terra”. Il rischio che qualcuno voglia vendere il Paese esiste. E’ realtà, non è letteratura.

pagheranno chi ha inquinato e chi non ha controllato?. Ilfatto quotidiano.it, 21 aprile 2016 (m.p.r.)

L’ammissione, clamorosa, arriva direttamente dal direttore generale della sanità veneta Domenico Mantoan: «Io sono tra i super esposti - dichiara il dirigente regionale parlando dell’emergenza Pfas, le sostanze cancerogene nelle acque delVeneto - perché ho bevuto per trent’anni l’acqua di casa mia a Brendola, nel vicentino. Ora ho fino a 250 nanogrammi per grammo di Pfas nel sangue». La Regione Veneto cambia passo sull’emergenza sanitaria e ambientale per le sostanze perfluoroalchiliche, di cui fino a poco fa discuteva riservatamente nelle riunioni tecniche definendola “fuori controllo”, e decide di uscire allo scoperto rendendo nota tutta la gravità del problema, insieme agli esperti dell’Istituto Superiore di Sanità e dell’Oms. «Più di 60mila persone residenti nelle zone a maggior impatto sono contaminate – spiega l’assessore regionale alla Sanità,Lucio Coletto – Altre 250 mila sono interessate dal problema».

Insieme a Loredana Musmeci dell’Istituto Superiore di Sanità, a Marco Marcuzzi dell’Oms e al dirigente della sanità veneta Mantoan, l’assessore Coletto ha presentato i primi risultati del biomonitoraggio che la Regione ha realizzato con l’Iss sulla popolazione esposta ai Pfas, “possibili cancerogeni” per lo Iarc. Il risultato è che nel sangue dei veneti - e dei vicentini in particolare - scorrono quantità rilevanti di Pfas, un gruppo di composti prodotti per decenni dalla fabbrica chimica Miteni di Trìssino, nel vicentino, usati per l’impermeabilizzazione di pentole e tessuti, che hanno contaminato le falde acquifere delle province di Vicenza, Verona e Padova. La zona più colpita, dove si trovano i cittadini “esposti” (14 ng/g) e “super esposti” (70 ng/g), è quella compresa tra i comuni di Montecchio Maggiore, Lonigo,Brendola, Creazzo, Altavilla, Sovizzo, Sarego, in provincia diVicenza. Mentre la zona di controllo, a impatto minore, interessa i comuni di Mozzecane, Dueville, Carmignano, Fontaniva,Loreggia, Resana e Treviso. Nell’agosto del 2013 è stata effettuata la messa in sicurezza degli acquedotti, tramite l’applicazione di filtri a carboni attivi che costano 2 milioni di euro all’anno. Ma fino ad allora l’acqua ha intossicato la popolazione.

Un’emergenza rimasta a lungo sotto traccia, tanto che le indagini sull’origine della contaminazione, iniziate nel 2013 in seguito a un esposto dell’Arpa, sono rimaste ferme per tre anni inProcura a Vicenza. Secondo gli inquirenti, per contestare il reato di avvelenamento delle acque sarebbero stati necessari i risultati di uno studio epidemiologico. Ora la Regione, sotto il coordinamento dell’Iss, fa sapere di volerne avviare uno “della durata di 10 anni” partendo dalle 60mila persone più esposte della provincia di Vicenza. Le analisi, promette l’assessore Coletto, saranno effettuate a carico della sanità regionale e verranno estese a tutti i 250mila cittadini dei comuni del Veronese e del Padovano coinvolti. Chi risulterà positivo agli esami verrà seguito con un protocollo di follow-up semestrale a partire da gennaio 2017.

I composti Pfas, ha spiegato la dottoressa Musmeci dell’Iss, sono “idrosolubili e vengono assorbiti rapidamente per via orale. Una volta nell’organismo, si legano alle proteine del plasma e del fegato, e vengono eliminate dai reni solo molto lentamente”. Secondo gli studi epidemiologici, effettuati sulla popolazione della Mid-Ohio Valley, negli Usa, e su quella tedesca, i Pfas possono causare «colesterolo alto, ipertensione, alterazione dei livelli del glucosio, effetti sui reni, patologie della tiroide e, nei soggetti iper esposti, tumore del testicolo e del rene». Lo studio avviato in Veneto potrà essere determinante per modificare la classificazione di cancerogenicità dei Pfas fatta dello Iarc, che per ora si basa su una letteratura limitata. Mentre l’Unione Europea sta elaborando, sulla base del caso veneto, una direttiva che imponga minuziosi controlli sui Pfas nell’acqua.

«La magistratura è sempre stata informata fin dall’inizio - spiega a ilfattoquotidiano.it l’assessore alla Sanità della Regione Veneto, Lucio Coletto - e per quanto riguarda i danni sanitari e ambientali, nei primi mesi del 2014 ho scritto all’avvocatura regionale chiedendo di valutare la possibilità di rivalersi nei confronti della ditta che ha inquinato». Una decisione che dovrà essere presa dalla giunta regionale, ma che per l’assessore è ormai “una scelta obbligata”. Così come la richiesta al governo, che verrà discussa nella prossima riunione di giunta, dell’istituzione di un nuovo sito inquinato di interesse nazionale.

Il Fatto Quotidiano, 21 aprile 2016 (p.d.)

Si moltiplicano le adesioni alla grande manifestazione del 7 maggio a Roma “Emergenza Cultura” contro il caos e la paralisi che regnano nella rete della tutela del Belpaese, ma giornali e tv in maggioranza tacciono (la Rai totalmente) e continuano a parlare di “Bellezza” come di un bene al sicuro.

Comincia Matteo Renzi nel 2011 a scrivere nel suo “Stil Novo” contro il “potere monocratico” dei Soprintendenti che gli impediscono di sforacchiare il grande affresco di Giorgio Vasari dietro il quale, secondo lui, noto specialista, c’è ancora la Battaglia di Anghiari di Leonardo. E conclude con stile: “Sovrintendente de che?” Presto, presto, va indebolito, reso innocuo, sottomesso.

PRIMA MOSSA: poiché i Soprintendenti non hanno mai saputo valorizzarli (una balla, ovviamente) Franceschini stacca i musei da loro e quindi dal territorio (pure quelli di scavo...) onde renderli autonomi. Primo caos: da dividere ci sono sedi comuni, archivi cartacei e fotografici comuni, secolari, personale (poco e anziano), ecc.

SECONDA MOSSA: venti musei di “eccellenza” godranno di totale autonomia e dovranno rendere soldi (Renzi ignora che la macchinona del Louvre costa 204 milioni di euro l’anno e non frutta un solo euro, anzi lo Stato deve ripianare il suo passivo con 102 milioni). Per questi musei non si utilizza un regolare concorso europeo, ma l’accrocco di una “selezione” internazionale, colloqui e curricula. Alla fine, o bella, un solo funzionario già in carica viene “promosso”. Bocciati tutti i direttori in carriera, inclusi quanti, per esempio Antonio Natali agli Uffizi, hanno lavorato bene in condizioni impervie. Al suo posto, il tedesco Schmidt fin lì direttore del Museo di arti applicate e tessili del Minnesota. A Paestum, un giovane svizzero che non ha mai gestito nulla. A Napoli, mirabile museo greco-romano, un etruscologo dalla bibliografia minima. A Taranto, capitale della Magna Grecia, un’archeologa medioevale. Alla Reggia di Caserta, un laureato in marketing che esibisce due libroni sui cimiteri... Leggere per credere. Per essi stipendi da 145.000 euro lordi in su l’anno contro i 35.000 lordi dei loro predecessori.

TERZA MOSSA: Marianna Madia, nella maxi-riforma amministrativa, dà una mano a Renzi e alle pratiche “veloci” già previste dallo Sblocca-Italia ribadendo il micidiale silenzio/assenso se in 90 giorni le Soprintendenze non riusciranno a dare il loro parere e cinicamente si sa già che, con poco personale e tante pratiche, non ce la faranno mai. Quindi passerà trionfalmente anche il peggio del peggio della speculazione.

QUARTA MOSSA: la stessa angelica Madia infila una norma-killer con cui le Soprintendenze tanto detestate da Renzi finiranno (succedeva nel Regno di Sardegna, arretrato in materia), gerarchicamente sotto i Prefetti. Ai quali toccherà decidere, ad esempio, se mandare un archeologo o invece un dirigente Asl alla conferenza di servizi “delicata”. E comunque se mettere o no il vincolo lo deciderà l’onnisciente signor Prefetto.

QUINTA MOSSA: Franceschini ficca sotto la legge di Stabilità una mina che fa saltare le Soprintendenze archeologiche accorpandole in un solo organismo con Belle Arti e Paesaggio. “Un mostro”, secondo Antonio Paolucci, già grande soprintendente e ora direttore dei Vaticani. Accorpamento già fallito nel 1923, cancellato nel 1939 da un altro ministro fascista, il colto e ben consigliato Giuseppe Bottai che riconobbe il valore assoluto delle specializzazioni. Ora no, in pochi minuti, si rottamano sprezzantemente controlli e procedure tecnico-scientifiche a difesa degli interessi di tutti. E si vogliono pure allentare (emendamento del renzianissimo senatore Andrea Marcucci) i vincoli all’esportazione di opere d’arte. Godi, o Mercato.

Ma quali idee geniali sono venute sin qui ai venti super-pagati direttori? Dal bel servizio Ansa di Silvia Lambertucci si apprende che gioiscono per l’iniziativa dello svizzero Gabriel Zulchfriegel a Paestum di aprire a pagamento l’area sacra a matrimoni, festini, rinfreschi di nozze. Plaude Mauro Felicori dalla Reggia di Caserta (che ieri ha annunciato: “Voglio far nuotare Federica Pellegrini nella piscina della Reggia di Caserta. Bisogna aprire, diventare popolari”), è vivamente interessato per il Giardino d’Inverno di Urbino l’austriaco Peter Aufreiter. Esultano i wedding planners. È la Valorizzazione, bellezza!

Solo di stipendi, questi primi venti direttori –usciti col “bando della salama da sugo” (come è stata ribattezzata, alla ferrarese, la selezione franceschiniana) –costano oltre 3 milioni l’anno. Per genialate del genere non bastavano le Proloco coi loro pochi spiccioli di contributo annuale?

Qui, tutti i concorrenti alle prossime elezioni mentono. Ci rintronano con le stesse parole, prima fra tutte “innovazione”, nauseante ... (continua la lettura)

Qui, tutti i concorrenti alle prossime elezioni mentono. Ci rintronano con le stesse parole, prima fra tutte “innovazione”, nauseante da tanto che ce la ripetono in salse diverse invece uguali; poi “attrattività”. Politici di destra e di…, ce ne sono altri? Insomma, Milano già adesso attraente - vedremo chi e cosa - deve aumentarla immantinente, appunto, la famosa propensione a tener le porte aperte. Infatti, è riuscita a cacciar fuori di esse oltre mezzo milione di milanesi, in parte sostituiti, solo per numero e non per funzione, da immigrati per lo più non comunitari.

Quale innovazione? Se la volessero davvero e conoscessero la vicenda storica milanese dovrebbero perorare una curva a U: tornare indietro e ritrovare la condizione della Milano primatista assoluta per la produzione in un gran numero di settori, per il rapporto fra le classi sociali dialetticamente egemoni (numerosa classe operaia «per sé» e forte borghesia produttiva, dominante ma con giudizio, se così possiamo dire), per la cultura della sinistra antidogmatica: come fossero pungolati dal ricordo di un Karl Marx che studiava i primitivi, da cui il principio che il più alto livello di società moderna consisterebbe nella riproduzione in forma superiore di un tipo arcaico di società[i]. Dunque ritorno alla proprietà comunitaria collettiva e ai conseguenti rapporti sociali. Una forma di arcaismo sociale del resto la offrono «luoghi di vita prodotti da una storia più antica e più lenta ove gli itinerari singoli si incrociano e si mescolano»[ii]: come avviene ancora nelle piccole città dove resiste la piazza medievale e il gruppo sociale vi si riconosce e vi pratica relazioni di ogni genere[iii].

Ricostruire ovunque quei rapporti e istituire urbanistiche per spazi coerenti sarebbe utopia rivoluzionaria (ossimoro dovuto)? Se bandissimo persino il solitario piacere di poter pensare sia l’utopia che la rivoluzione introdurremmo anche nel profondo del nostro cervello il germe dell’incurante consentimento verso i contraffatti poteri già penetrato nel cuore. Gli innovatori della domenica, quando un sopravvissuto di quella sinistra riuscisse a raschiare pazientemente il palinsesto della città e mostrasse al mondo la verità della passata superiorità milanese a fronte della loro menzogna, lo farebbero arrestare dai vigili urbani (detti, ora, polizia locale, chiara allusione a più ampi poteri) e carcerare per turbativa del nuovo ordinamento d’obbedienze milanese[iv].

L’attrazione effettiva della città non rientra nel significato che i nostri sembrano attribuire a una parola che non esiste nella lingua; intendono una certa dote speciale, probabilmente riferibile a risorse e a richieste cosiddette immateriali, prodromi di una nuova generazione di affari: tanto per gabellarsi da capintesta preparati, moderni business-leader. Intanto permane l’obbligo a sopportare un faticoso pendolarismo sia per i lavoratori del terziario espulsi nell’hinterland dall’impossibilità di trovar casa a costo ragionevole sia per i loro colleghi già insediati nello sprawl. Niente è cambiato con l’istituzione formale della città metropolitana. D’altronde il richiamo di Milano ha trasfigurato la sua natura: mentre attraverso le famose porte aperte si disperdeva una impareggiabile carica produttiva sociale culturale, vi avanzava inesorabile come jüngeriana tempesta d’acciaio la totale finanziarizzazione dell’economia e della società. Principale preziosa derrata, al posto della produzione di beni e servizi utili, il denaro, unica chiesa la borsa, unico rapporto quello commerciale: comprare e vendere, il denaro poi le merci tipiche del consumismo il più esagerato, in qualsiasi parte del mondo prodotte e confezionate meno che a Milano.

Così entra tranquillamente nella nostra città anche una enorme massa di capitali di mafia, ‘ndrangheta e affini. Denaro che va a ripulirsi mediante investimenti, ritenuti legittimi, nella speculazione finanziaria e soprattutto in attività commerciali aperte appartenenti al circuito di vendita/acquisti più ricco o più frequentato. La magistratura ha segnalato che la mano mafiosa detiene circa il 25% del valore commerciale milanese e che «sul mercato» operano intoccabili gruppi di comando potenti quanto e più della vecchia nomenklatura siciliana o calabrese (o napoletana, pugliese o perché no lombarda). La vox populi dice che quando mangiamo in pizzeria la probabilità di farlo in un locale acquistato o finanziato dalla mafia è almeno del 50%. Questo, tuttavia, è un dettaglio insignificante nel quadro formato da negozi, magazzini, in ogni caso locali per acquisti di merci o per consumi in sito.

Consigliamo di compiere con gli occhi ben aperti rivolti man mano lentamente verso destra e verso sinistra, rischiando il torcicollo, il percorso da Piazzale Loreto a Largo Cairoli, l’asse commerciale più importante e sfavillante della città: Corso Buenos Aires, Corso Venezia, Piazza San Babila, Corso Vittorio Emanuele II, Duomo, Via Mercanti, Piazza Cordusio, Via Dante: circa 4.200 metri. Ebbene, sarete tramortiti dalla visione di non sappiamo quante centinaia se non migliaia di vetrine (anche dehors) dedicate quasi esclusivamente all’abbigliamento e, secondariamente, ai bar-fittizi-ristoranti; ma prima di cadere per terra avrete giudicato impossibile che tutta questa esibizione corrisponda a una realtà di commerci e consumi umanamente usuali, onesti. Meritati diversi giorni di riposo, provate a ripetere l’esperienza limitandola ai 450 metri di Corso Vittorio Emanuele, se riuscirete a muovervi dentro il travolgente flusso di gente.

Noterete la logica della sparizione/sostituzione delle insegne, dei veri e falsi marchi, degli svuotamenti incomprensibili. È la tecnica della mafia e del commercio ballerino poco pulito, l’una per spostare capitali e luoghi, farli girare vorticosamente rendendoli sfuggenti, l’altro per sostenersi in qualsiasi maniera nel grillo fra rischio e fallimento. Aggiungete che esistono molte altre strade commerciali a forte intensità (Corso Vercelli, Corso Torino, Corso XXII Marzo…) similmente trasformate; infine non dimenticate che rivoli derivati dai fiumi si riversano dappertutto: la costituzione di una Milano essa stessa smerciabile vi apparirà in tutta la sua avvilente (per noi) portata. Anche manifestazioni fieristiche come il salone del mobile (niente è prodotto qui), anche l’insistente riferimento al design, una volta glorioso e ora tradito da un liberismo svaccato delle forme (come nell’architettura degli internazionalisti), vi appartengono con perfetta coerenza. Né le decantate sfilate di moda possono sottrarvisi, mentre le più importanti case stanno cedendo il marchio a gruppi stranieri.

Ci dicono che è aumentato in modo esponenziale il turismo. È vero, la folla strascicata dei rutilanti percorsi commerciali comprende stranieri singoli o in gruppo, in maggioranza giapponesi, cinesi, sud-coreani, poi sudamericani, pochi europei… Comprano, spendono. È questo il turismo che vogliamo? Altro che turismo culturale, altro che turismo sociale. Nei luoghi monumentali, visitatori che dovrebbero far gara per goderseli all’esterno e all’interno non se ne vedono. Eccezioni: eccoli nella piazza davanti al Cenacolo, ma nessuno entra in Santa Maria delle Grazie; eppure lì la Tribuna del Bramante ti prende e ti trattiene a percepire quanto l’opera d’immensa arte contribuisca al tuo star bene nell’animo e nel cervello. Ah! il Duomo! Ci vanno in massa, incanalati fra indecorose transenne, pagano l’ingresso e nell’interno altre transenne li suddividono secondo diverse zone, per sorvegliarli e talvolta per concedere un misero diritto alle funzioni. Il milanese che voglia ripassare la propria conoscenza del grandioso spazio nell’insieme e nei particolari è svantaggiato per sempre.

La chiesa di Santa Maria Nascente appartiene in pieno, smaccatamente e volgarmente, al circuito commerciale, alla più vera Milano d’oggi. Sul fianco sinistro la curia ha fatto costruire un sensazionale volume in legno e vetro, sollevato dal suolo e dotato di scalinata. Magliette e gli altri capi d’abbigliamento più appetiti sono appesi ben in vista dietro le vetrate. Una grande scritta sottolinea la destinazione del manufatto, semmai qualcuno dubitasse: DUOMO SHOP. Non basta: raccontano che la forma sarebbe quella delle imbarcazioni che per secoli hanno trasportato i blocchi di marmo dalla Cava di Candoglia per la costruzione della Cattedrale. Su internet si può leggere addirittura: «un punto vendita carico di storia, all’ombra della Madonnina».

Allora, si accomodi Santa Maria Nascente, lasci spazio alla divinità pagana Mercurio, lei autentica protettrice del commercio e delle attività mercantili.

Carla Ravaioli, l’indimenticabile saggista critica del whirl capitalism strangolatore del mondo, non perdonava ai politici e agli amministratori locali l’incapacità o la contrarietà a liberare il turismo dalla soggezione, anch’esso come ogni altra attività individuale e sociale, al processo di assimilazione alla merce, «che sempre più definisce sotto ogni aspetto l’attuale forma del sistema capitalistico, cioè il neoliberismo; il quale solo all’aumento del prodotto finalizza il proprio agire, del tutto trascurandone i contenuti, la qualità, le conseguenze». E osò affermare che anche il turismo inquina (riferendosi, come esempio, allo stravolgimento delle coste italiane causato da un’enorme quantità di costruzioni private)[v].

Concludiamo ritornando ai personaggi in mostra per le elezioni. La loro storia professionale-politica e le prospettive di governo annunciate si conformano senza forzature alla condizione di una città tutta volta alla finanza, al commercio, all’edilizia, questa pur essa commercializzazione, compravendita o affitto in un sistema tutto privato, grazie all’indifferenza degli enti pubblici verso la costruzione di case sovvenzionata. Identici davvero i nostri, edilizia (speculativa) e connessa urbanistica (nemmeno riformista) attrazioni fatali. Sala avocherà a sé l’urbanistica, fra gli scopi un nuovo piano di governo del territorio; Parisi ripartirà dal piano e dalle pratiche dell’amministrazione Moratti-Masseroli (l’assessore che rinunciò nel 2013); intanto Albertini, capolista per Parisi, rivendica un «enorme processo di riqualificazione» della città al tempo di lui sindaco, quando parlava dei «suoi» architetti i migliori del mondo, «i Brunelleschi e i Bernini dei nostri giorni» (Hadid, Isozaki, Lebeskind…) o denominava «nostro Central Park» il verde sparpagliato fra i grattacieli sull’area dell’ex Fiera (futura City Life)[vi]. Poi, a rafforzare la figura di una Milano priva di industria manifatturiera e già diventata, al posto di una Roma del passato prossimo, «città della cazzuola», contribuisce il presidente della Triennale De Albertis, numero uno dell’Assimpredil e presidente dell’Associazione nazionale costruttori edili (Ance). Tutto si tiene in una evidente collocazione o spostamento a destra dei (mediocri) maggiorenti.

Terminiamo con la recitazione dei due candidati principali nel ridicolo teatrino di provincia, altro che metropoli. Parisi: Sala è più a destra di me. Giornalista: entrambi sono manager, entrambi sono stati direttori del Comune con amministrazioni di centrodestra, Parisi con Albertini, Sala con la Moratti. Sala: io sono uno che lavora, ha sempre lavorato mentre lui occupava i palazzi romani. Lui è più burocrate, io sono più operativo[vii]. Se questi sono i protagonisti…

[i] Cfr. L. Krader, Quando Marx studiava i primitivi, in «Rinascita», n. 10, 1978, p. 21.
[ii] M. Augé,
Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità (orig. Non-lieux, Seuil, Paris 1992), Elèuthera, Milano 1993, p. 63.
[iii] Cfr. L. Meneghetti, Alla ricerca dello spazio perduto (Discorsi di piazza), in
eddyburg, 25 novembre 2006, in «il Grandevetro», novembre-dicembre 2006, poi in Libere osservazioni non solo di urbanistica e architettura, Maggioli, politecnica, 2008, p. 15.
[iv] Sulla trasformazione sociale di Milano vedi anche L. Meneghetti,
Com’era Milano e com’è al tempo dell’Esposizione, in eddyburg, 11 aprile 2015.
[v] C. Ravaioli,
Il turismo inquinante, in eddyburg, 11 aprile 2005. Cfr. anche L.Meneghetti, Coraggiosa Carla Ravaioli. Turismo inquinante, in eddyburg, 22 aprile 2005, poi in L’opinione contraria, Libreria Clup, Milano 2006, p. 11.
[vi] Dal «
Corriere della Sera - Milano», 20 aprile 2006, p. 3.
[vii] Da A. Gallone e O. Liso in «
Repubblica - Milano», 3 marzo 2016.

Noi – cittadini italiani, donne e uomini impegnati con il nostro lavoro, stabile o precario, a produrre e diffondere cultura, membri delle associazioni professionali e delle associazioni per la tutela, studentesse e studenti delle università e delle scuole – denunciamo che «il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione» (art. 9 Cost.) sono oggi in gravissimo pericolo.

Denunciamo che le modifiche dell’ordinamento introdotte dal Governo Renzi, e passivamente subite dal ministro Dario Franceschini, stanno di fatto rimuovendo dalla Costituzione l’articolo 9.

Le generazioni future rischiano di non ricevere in eredità l’Italia che noi abbiamo conosciuto.

Il nostro è un grido di allarme: è emergenza per la cultura!

Noi vogliamo che la cultura sia davvero un servizio pubblico essenziale: che le biblioteche e gli archivi funzionino come negli altri paesi europei, che i musei siano fabbriche di sapere, che le scuole formino cittadini e non consumatori, che la salvezza dell’ambiente in cui viviamo sia l’obiettivo più alto di ogni governo.

Per questo chiamiamo a raccolta tutte le cittadine e i cittadini italiani: li chiamiamo a scendere in piazza, a Roma, il 7 maggio 2016.

Questa manifestazione chiederà al governo Renzi di sospendere l’attuazione dello Sblocca Italia, della Legge Madia e delle ‘riforme’ Franceschini: perché si apra un vero dibattito, nel Paese e nel Parlamento, sul futuro del territorio italiano, bene comune non rinnovabile.

Questa manifestazione chiederà di introdurre l’insegnamento curricolare della storia dell’arte dal primo anno della scuola superiore.

Questa manifestazione chiederà di permettere ad una nuova leva di ricercatori di entrare nei ranghi del Ministero per i Beni culturali: non con l’effetto-annuncio delle una tantum, che generano solo illusioni, ma con la costruzione di un futuro normale per chi vuole mettere la sua vita al servizio del paesaggio e del patrimonio culturale del Paese.

«La Repubblica tutela»

Chiediamo che si rinunci al ricorso a legislazione d’emergenza e di urgenza per aprire le porte alle devastanti Grandi Opere, come prevede lo Sblocca Italia.

Al governo che vuol fare il Ponte sullo Stretto, promuove nuove trivellazioni a danno del nostro mare e delle nostre coste, legittima il transito delle Grandi Navi nella Laguna di Venezia, chiediamo invece che venga studiata, finanziata, avviata l’Unica Grande Opera utile, anzi vitale per il futuro del Paese: salvare il territorio, risanarlo, metterlo in sicurezza sia dal punto di vista idrogeologico che dal punto di vista sismico.

Chiediamo che sia abbandonata la filosofia dei beni culturali come pozzi petroliferi, che comporta lo sfruttamento intensivo di una piccola porzione del patrimonio – spesso a vantaggio di pochi privati con forti connessioni politiche – e l’abbandono e l’incuria per la maggioranza dei siti. Sul territorio si deve continuare a fare tutela, ma anche valorizzazione: il vero obiettivo è portare gli italiani e i turisti nel nostro patrimonio diffuso, che nessuno conosce e che dunque cade a pezzi.

Chiediamo che si torni indietro rispetto all’idea cardine della Riforma Franceschini: la miope e pericolosissima separazione radicale tra tutela (di fatto impedita) e valorizzazione (troppo spesso trasformata in mercificazione). Chiediamo che si interrompa il processo di trasformazione dei musei statali in fondazioni di partecipazione aperte agli enti locali e ai privati. I musei devono continuare a fare sia tutela che valorizzazione: devono avere al loro interno vere comunità scientifiche permanenti, in grado di fare ricerca e comunicare la conoscenza. La selezione del personale deve essere seria e trasparente, non spettacolarizzata e deludente. E la politica deve ritirare le sue lunghe mani dai consigli d’amministrazioni, dai consigli scientifici e dalle direzioni dei musei autonomi.

Chiediamo che sia sospesa l’attuazione dell’accorpamento delle soprintendenze archeologiche, la soppressione della direzione generale per l’archeologia, lo stravolgimento dei depositi e degli archivi delle strutture territoriali di tutela.

Si rimediti sulla generalizzata confluenza delle soprintendenze storico-artisitiche con quelle ai beni architettonici: che dà già pessimi risultati.

Prima di qualsiasi riforma è necessario aprire un dibattito serio con le realtà del settore, in modo che si possa procedere a una vera modernizzazione, condivisibile e condivisa.

Chiediamo che venga ritirata la norma del silenzio-assenso contenuto nella Legge Madia: perché è incostituzionale, e perché fa scontare all’ambiente e al paesaggio gli inevitabili ritardi di una amministrazione che prima è stata scientificamente massacrata nei ranghi, nei finanziamenti, nel morale.

Chiediamo che il governo rinunci a far confluire le Soprintendenze in Uffici territoriali dello Stato diretti dai prefetti.

Chiediamo che venga ripristinata la competenza del Ministero per i Beni Culturali nella scelta degli immobili pubblici da vendere ai privati.

Chiediamo che non si indebolisca in alcun modo la legislazione sull’esportazione delle opere d’arte dall’Italia. Che il limite rimanga a 50 anni. Che non si introduca alcuna soglia di valore, né alcuna autocertificazione.

Chiediamo che si rinunci all’idea di smembrare i Parchi nazionali, che si rinunci al loro depotenziamento, che si nominino presidenti e direttori di livello nazionale e non più esponenti locali, adeguando la legge sulle aree protette al Codice per il Paesaggio.

Fondata sul lavoro

Denunciamo la demonizzazione dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, dei funzionari pubblici, dei dipendenti dello Stato: i quali mantengono aperto a tutti il patrimonio culturale della nazione, nonostante gli stipendi risibili, e nonostante l’incuria e il tradimento dei governi della Repubblica. I singoli casi di inadempienza sono da sanzionare, ma non devono oscurare il fatto che il lavoro nel settore, nonostante gli stipendi risibili, rappresenta la leva per mantenere aperto a tutti il patrimonio culturale della nazione e nonostante l’incuria e il tradimento dei governi della Repubblica. Le polemiche cavalcate dallo stesso Governo sulla chiusura di siti culturali famosi (basti pensare al polverone su Pompei o sul Colosseo) per assemblee o iniziative di protesta del personale hanno avuto un semplice fine, grave e inaccettabile: limitare le libertà sindacali e i diritti dei lavoratori del settore

Denunciamo che, nonostante l’annuncio di misure palliative di puro impatto mediatico (le ventilate 500 assunzioni dal 1° gennaio 2017 non serviranno nemmeno a rimpiazzare chi andrà in pensione da ora ad allora), vengono frustrate ancora un volta le speranze di chi si è duramente formato per lavorare al servizio del patrimonio culturale, della sua tutela e della sua apertura ai cittadini dell’Italia e del mondo.

Chiediamo che la tutela e la valorizzazione del patrimonio e la direzione degli istituti della cultura (compresi i musei) continuino ad essere affidate a professionisti (archeologi, storici dell’arte, architetti, bibliotecari, archivisti, restauratori, conservatori, demoetnoantropologi, diagnosti, operatori museali specifici e naturalisti, etc). Chiediamo che questo compito sia affidato agli operatori dei beni culturali, individuati dalla recente legge n°110 del 22 luglio 2014 sulle professioni nell’esercizio delle azioni di tutela e valorizzazione) assunti attraverso concorsi pubblici trasparenti, che tengano conto dell’offerta formativa presente nelle università del nostro Paese, indipendenti dal potere politico, tenuti ad obbedire solo alla legge, alla scienza e alla coscienza. Chiediamo che – come imponeva il comma 2 dell’art. 2 di quella legge – venga emanato (sentite, come imposto dalla legge, le associazioni professionali individuate dalla legge 4/2013 – o, in assenza delle stesse, una rappresentanza delle principali realtà associative – e il mondo della formazione), un decreto ministeriale che stabilisca le modalità e i requisiti per l’iscrizione dei professionisti negli elenchi nazionali, nonché le modalità per la tenuta degli stessi elenchi nazionali in collaborazione con le associazioni professionali. Chiediamo che vengano adeguatamente valorizzate le professionalità interne, troppo spesso mortificate e compresse, tramite lo sblocco dei percorsi di carriera e nel concreto riconoscimento della qualità degli apporti professionali.

Chiediamo che le competenze e l’impegno dei professionisti del patrimonio culturale non vengano sostituite ricorrendo a forme più o meno surrettizie di sfruttamento, mascherate da volontariato, o da formazione, come il fondo “1000 giovani per la cultura”. In un Paese con un tasso del 42% di disoccupazione giovanile e del 12% di disoccupazione tout court, ogni forma di volontariato utilizzato come scorciatoia per abbattere i costi del lavoro rischia di entrare in rotta di collisione con le professioni e con le competenze dei professionisti, e di portare dunque danni permanenti al Paese, sia dal punto di vista economico sia culturale – come lasciano intendere le caratteristiche del flusso turistico o la percentuale di lettori e di analfabeti di ritorno, paragonati ad altri paesi europei.

Chiediamo che vengano assunti immediatamente i 1400 lavoratori necessari a compiere l’organico del Ministero per i Beni culturali, e che quindi venga sbloccato il turnover annuale, attraverso concorsi regolari per l’assunzione a tempo indeterminato di professionisti.

Chiediamo dignità professionale e riconoscimento di diritti a tutele per i tanti professionisti del settore che esercitano con partita IVA: equità fiscale e previdenziale, protezioni sociali per maternità e malattia, sostegno al reddito anche per i lavoratori autonomi. Proponiamo agevolazioni sull’IVA (come già avviene per le guide turistiche) e una riduzione dell’aliquota previdenziale al 24% (così come previsto per artigiani e commercianti).

Chiediamo che, dalla bozza riguardante le linee guida per l’archeologia preventiva elaborata dalla Direzione Generale del MiBACT, si passi celermente all’emanazione di un provvedimento che ponga fine a difformità, spesso piuttosto marcate, di prescrizioni e procedure, anche all’interno degli uffici, sul territorio nazionale, con sensibile miglioramento dell’attività di tutela e offrendo nel contempo possibilità di lavoro qualificato ai professionisti del settore.

Finanziamenti

Chiediamo un piano di investimenti in settori chiave quali ricerca e istruzione, che generano ricadute virtuose sia in termini di competitività internazionale del paese, che in termini di cultura civile e democratica. Non la girandola di una tantum venduta come risolutiva dal Governo Renzi, né tantomeno il superfinanziamento di carrozzoni privati.

L’investimento in cultura e la produzione di conoscenza costituiscono la leva strategica di un modello di sviluppo la cui competitività non si risolva in sfruttamento della manodopera, ma in innovazione. E non c’è innovazione se non si garantiscono risorse adeguate alla scuola e all’università pubbliche, oltre che nelle infrastrutture della ricerca, a partire da biblioteche, archivi, laboratori scientifici.

Chiediamo che le biblioteche, gli archivi e in generale gli istituti di cultura statali – depositari di un tesoro librario in tutto paragonabile alle collezioni di arte e famoso in tutto il mondo – ricevano regolarmente il finanziamento ordinario che solo può consentirne la vita, e che di conseguenza possano assumere personale qualificato.

Formazione
Chiediamo che sia garantita a tutti la fruibilità pubblica della cultura e del patrimonio storico-artistico, chiave di ogni formazione alla cittadinanza attiva e consapevole. Chiediamo, dunque, che ogni politica di bigliettazione e gratuita sia fondata solo sul criterio della maggior accessibilità sociale, considerando tutti i luoghi della cultura, come parchi, siti, musei, archivi, gallerie, cinema e biblioteche come parte integrante del percorso formativo di ognuno.

Chiediamo che si insegni davvero la Storia dell’arte nelle scuole italiane: che la si insegni in tutte le scuole secondarie. Che la si insegni con particolare attenzione alle sue implicazioni culturale, a livello locale, nazionale e internazionale.

Chiediamo che, subito, si cominci col ripristinare le molte ore tagliate dalla Riforma Gelmini e non più reintrodotte, nonostante le promesse di questo Governo, e che gli insegnanti siano quei laureati e abilitati in Storia dell’arte, la cui preparazione costituisce un valore aggiunto per un’offerta formativa non solo culturale, ma anche civica e sociale.

Chiediamo un pieno finanziamento del diritto allo studio e dei luoghi della formazione nel nostro Paese. Chiediamo che scuole ed università tornino ad essere, in ottemperanza alla Costituzione, accessibili a tutti e baricentro di relazioni e interscambi con siti museali e patrimonio storico-artistico del territorio.

Conclusione

Il Presidente del Consiglio Matteo Renzi ama usare senza risparmio la retorica della Bellezza, e contemporaneamente sostiene che «soprintendente» sia la parola più brutta della burocrazia. Noi ci rivolgiamo al Paese per smascherare questa narrazione, questo storytelling, questa gigantesca mistificazione: se l’Italia è ancora bella, è perché le generazioni che ci hanno preceduto hanno saputo scrivere regole giuste e lungimiranti, e hanno saputo investire sul lavoro di chi era chiamato ad applicarle e a farle rispettare. Una storia antica, che è stata messa in crisi dalle decisioni dissennate prese nel ventennio berlusconiano, che tuttora si continua a seguire.

Oggi, invece, il governo Renzi scommette tutto sulla rimozione delle regole, e progetta un futuro in cui nessun tecnico possa opporsi all’arbitrio del potere esecutivo: questo significa porre le premesse del consumo finale del nostro paesaggio e della nostra arte.

Non ci riconosciamo in questa Italia che divora se stessa a beneficio di pochi ricchi e potenti. Ci riconosciamo, invece, nel progetto della Costituzione, per la quale il patrimonio culturale serve alla costruzione dell’uguaglianza sostanziale e al pieno sviluppo della persona umana.

Chiediamo con forza che quel progetto sia finalmente realizzato, non smantellato.

È emergenza cultura: salviamo l’articolo 9!

qui il link al sito del Comitato promotore

A furia di immagini pubblicitarie e di slogan da pataccaro Renzi tenta di coprire l'ennesimo imbroglio e, soprattutto, la strategia di sostituzione de decisionismo del Capo alle regole della democrazia e l'asservimento delle scelte di "rigenerazione urbana" agli interessi dei poteri economici.

Invitalia spa è l'azienda di proprietà del ministero per lo sviluppo economico che il governo ha scelto come soggetto attuatore per gli interventi nel sito di interesse nazionale (SIN) di Bagnoli-Coroglio. Com'è noto, l'art. 33 dello SbloccaItalia ha deciso di sperimentare a Napoli un nuovo meccanismo istituzionale per le aree compromesse da più gravi inquinamenti selezionate fra i 39 SIN individuati finora. Tale meccanismo include nelle competenze statali non solo la bonifica ambientale, ma anche la rigenerazione urbana, e affida il tutto ad un commissario di governo (per Bagnoli, Salvatore Nastasi), assistito da una cabina di regia (per Bagnoli, presieduta dal sottosegretario De Vincenti e composta da rappresentanti dei tre ministeri dell'ambiente, dello sviluppo economico e delle infrastrutture, della regione Campania e del comune di Napoli), e ad un soggetto attuatore, appunto, che deve redigere il “programma di risanamento ambientale e di rigenerazione urbana”, che – approvato dal commissario, dopo l'esame tecnico-amministrativo di una conferenza dei servizi – equivarrà a variante al piano regolatore e al piano urbanistico esecutivo. Il comune di Napoli, eccependo la incostituzionalità della sottrazione della sua competenza specifica sulla pianificazione urbanistica, ha presentato un ricorso al TAR, che il 22 marzo scorso lo ha però rigettato.

Il 6 aprile, alla riunione in prefettura della cabina di regia alla quale Invitalia doveva sottoporre gli indirizzi strategici del programma è intervenuto anche il A furia di immagini pubblicitarie e di slogan Renzi, che, qualche giorno prima, aveva già annunciato che nella prossima estate ci si sarebbe potuti bagnare sul litorale di Coroglio.

I presenti all'incontro hanno potuto assistere alla proiezione di poco più di una trentina di diapositive intitolate #RILANCIOBAGNOLI : immagini di riprese aeree o satellitari che mettono a confronto lo stato attuale dei luoghi con fotomontaggi delle proposte trasformazioni, accompagnati solo da iscrizioni secche quali «no edilizia residenziale», «balneabilità», «rimozione colmata», «highlights», «smart grid», «green data center», «il waterfront come “segno” del rilancio e principale attrattore», «moduli commerciali a basso impatto», «stadio della vela/centro preparazione olimpica», «riciclo, smaltimento e utilizzo nuove tecnologie e materiali per la nautica da diporto», «cantieristica per il refitting», «parco dello sport e wellness», «campus universitario specializzato in ricerca connessa con economia del mare», «prima università di eccellenza internazionale nel mezzogiorno», «industria creativa per la produzione digitale e multimediale» e via magnificando.

Per la mobilità e i trasporti solo gli annunci di una funivia fra Posillipo e Nisida, dell'interramento di Via Coroglio per la massima integrazione fra parco e spiaggia e di percorsi ciclabili nel parco. In materia di bonifica esclusivamente la specificazione che nel 2016 si effettueranno interventi urgenti e che il programma si completerà entro il 2019.

Nelle immagini della proposta colpiscono:
la spiaggia del tutto libera, da Coroglio al pontile nord, senza più la colmata Italsider e senza più Città della Scienza (il protocollo per l'accordo di programma quadro pubblicizzato a Napoli dal medesimo Renzi il 14 agosto 2014 aveva invece sancito la ricostruzione sul litorale del museo interattivo incendiato),
- un vasto parco verde (oltre 70 ettari, contro i 120 del PUE) con alcuni manufatti di archeologia industriale riutilizzati,
- un porto turistico da 700 posti barca (di cui ben 100, pare, per mega yacht) in ampliamento dell'approdo borbonico di Nisida, integrato da un grande contenitore, il «porto a secco», per i natanti minori,
- gli 'scatoloni' di alcuni nuovi volumi ai limiti del parco :
- il cospicuo «miglio azzurro» della cantieristica e per le attività dell'economia del mare sui suoli ex Cementir (gruppo Caltagirone),
- un albergo a Nisida alle spalle del porto e un altro alla radice del pontile nord (del cui tratto iniziale si prevede una sorta di vestizione in vetro per utilizzarlo come spazio espositivo),
-alcuni edifici di media dimensione verso l'interno.

Il porto a Nisida era stato proposto, mesi fa, dal presidente dell'Unione industriali che, insieme con quello dell'Associazione costruttori, esprime ora vivo consenso agli indirizzi di Invitalia. È vero che Nisida non è compresa nel SIN, ma commissario e soggetto attuatore dichiarano che chiederanno una modifica al suo perimetro, che vi includa quanto meno la costa nord-orientale «per poi valorizzare l'isola, almeno in parte» (Arcuri, amministratore delegato di Invitalia, durante il forum de Il Mattino, 8 aprile, pagg. 32-33, sintetizzato sotto il titolo «Arriva il porto, via il carcere da Nisida. Nastasi: presto la richiesta al governo»). Non sembrano preoccupare, in rapporto al dimensionamento del porto, né l'assenza di adeguati spazi a terra né l'accessibilità fornita unicamente dall'antico ponte ottocentesco. E non sembra pesare più di tanto il fatto che l'isola sia assoggettata a vincolo paesistico e sia inclusa nei siti di interesse comunitario della rete Natura 2000.

Nisida a parte, la successione delle immagini sembra corrispondere a gran parte delle rivendicazioni delle associazioni ambientaliste e dei comitati di base impegnati da anni su Bagnoli. Accompagnate dall'annuncio di stanziamenti per gli interventi fino a 272 milioni di euro, le diapositive appaiono innanzitutto, con la loro sconcertante estemporaneità, un vistoso spot pubblicitario per sottrarre argomenti e sostenitori alla campagna elettorale del sindaco De Magistris. Tanto – come la nuova previsione per Città della Scienza dimostra – non si avvertirà alcuna difficoltà, nel caso, a cambiare anche radicalmente le soluzioni ora proposte.

Il 14 aprile si è aperta la conferenza dei servizi, che ha discusso ed approvato solo il programma delle caratterizzazioni dei suoli e delle acque, affidato all'ISPRA. Anche i rappresentanti del comune di Napoli lo hanno ovviamente sottoscritto.

Ed è ripartita la propaganda e la disinformazione: «Ricordate che fummo accolti con urla, sassi e proteste e che il comune di Napoli parlò di esproprio del governo che voleva mettere le mani sulla città ? In conferenza dei servizi il governo ha ufficializzato il progetto presentato in prefettura e tutti (compreso il Comune!) hanno approvato all'unanimità» (Renzi su Facebook, citato da Il Mattino del 15 aprile a pag. 28). «Era dai tempi di Damasco che non si vedeva una conversione così efficace !» (Nastasi, riportato nella stessa pagina de Il Mattino).

La conferenza dei servizi si è aggiornata al 3 maggio per esaminare il piano di messa in sicurezza e pulizia dell'arenile nord. Entro un mese sarà bandita la gara europea per i rilievi e le analisi della caratterizzazione, i cui esiti consentiranno di definire poi il programma della bonifica e verificare le scelte di riassetto.

C'è il tempo di superare non solo il referendum sulle concessioni petrolifere in mare, ma anche le elezioni amministrative. Vedremo se, questa volta, a pensar male abbiamo solo commesso peccato.

Il 21 aprile 2015, insieme ad altri studiosi, abbiamo indirizzato una lettera al Ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali per segnalare le condizioni di abbandono della ex Stazione Sperimentale di Agraria di Modena.

Tale Stazione è stata prestigiosa sede operativa del Consiglio per la Ricerca e la Sperimentazione in Agricoltura, il più importante istituto di sperimentazione agraria in Italia. Essa nacque come istituto del ministero dell’Agricoltura nel 1870 e alla sua direzione si succedettero alcuni tra i più importanti scienziati italiani noti a livello internazionale per le avanzate analisi di laboratorio applicate all’agricoltura, per la selezione delle sementi e per le ricerche sulla coltivazione dei cereali.

Primo direttore “agronomo” della Stazione fu Alfonso Draghetti, che vi operò dal 1927, trasferendola nell’attuale edificio ottocentesco in Viale dei Caduti di Guerra. Draghetti, autore di oltre cinquecento lavori, membro di accademie e società scientifiche, delegato italiano alla FAO, si occupò di temi oggi attualissimi come quello della sicurezza agro-alimentare, della fertilità del suolo e della concimazione, della gestione e del governo delle acque, delle analisi bioeconomiche applicate alle aziende agricole. Alfonso Draghetti è oggi considerato a livello internazionale come uno dei padri dell’Agricoltura biologica e dell’Agro-ecologia.

La Stazione è stata chiusa nel 2006, in seguito ad una riorganizzazione voluta dall’allora Ministro delle Politiche Agricole e Forestali Alemanno, i locali sono stati destinati all’Ispettorato centrale della tutela della qualità e della repressione frodi dei prodotti agroalimentari, dipendente dal ministero dell’Agricoltura, che ha poi deciso di dismettere lo storico edificio. La ex-Stazione conteneva una preziosa biblioteca con oltre 12.000 volumi dal ‘700 ad oggi e rare collezioni (anche quarantennali) di riviste e pubblicazioni, gli strumenti di laboratorio, gli archivi pedologici e di ricerca, un patrimonio culturale, storico e scientifico di enorme valore per il paese. I testi della biblioteca sono stati tolti dalle scaffalature che erano state progettate specificatamente per ospitarli, imballati e inviati a Roma presso il CRA-RPS (Centro di Ricerca per lo Studio delle relazioni fra pianta e suolo). Pare che non siano usufruibili e non è chiaro come questi testi verranno conservati nella loro unitarietà.

La nostra lettera non ha ricevuto alcuna risposta e la riproponiamo, a un anno di distanza, segnalando ai partecipanti al convegno sulle Biblioteche ambientali che si terrà a Roma il 15 aprile 2016, il valore di questo nostro patrimonio storico anche alla luce del fatto che l’agricoltura biologica è cresciuta fino al 10% della superficie agricola utilizzata (SAU), divenendo una priorità strategica per lo sviluppo del sistema agroalimentare italiano.

I firmatari ricordano la numerose istanze presentate dal Comune e dalla società civile di Modena per la salvaguardia del patrimonio della Stazione Agraria e anche che la città di Modena si è già distinta nel panorama internazionale dell'agricoltura biologica per aver ospitato, nell'anno 2008, il XVI Congresso Mondiale dell' "International Federation of Organic Agriculture Movements" (IFOAM) dal titolo “Cultivating the future based on Science”.

L'articolo è inviato contemporaneamente agli organizzatori del convegno sulle Biblioteche ambientali che si terrà a Roma il 15 aprile 2016


«Mentre si moltiplicano le adesioni alla manifestazione del prossimo 7 maggio per l'articolo 9, Italia Nostra prende una posizione forte e chiara sulla 'riforma' Franceschini dei Beni culturali». La Repubblica online.,blog"Articolo 9", 11 aprile 2016


Completata la disarticolazione delle istituzioni di tutela. Un esito che investe la responsabilità del parlamento

Il più recente decreto del ministro di attività e beni culturali e turismo (n. 44 del 23 gennaio) completa il disegno di dissoluzione del compatto sistema della tutela di patrimonio e paesaggio voluto dall'art.9 della costituzione. Portando al parossismo l'assurda scomposizione di tutela e valorizzazione (endiadi inscindibile, essendo la valorizzazione funzione essenziale della tutela), la riforma dell'estate 2014 già ha rotto il nesso organico tra soprintendenze e musei, dimenticando che le soprintendenze sono nate come soprintendenze alle gallerie e che proprio le pubbliche raccolte sono state le attive fucine della tutela del contestuale patrimonio diffuso del nuovo stato unitario. Dichiaratamente per esaltare le attrattive turistiche, è stata operata una arbitraria selezione di qualità dei musei espulsi dalle soprintendenze (secondo due ordini di importanza, di prima e seconda categoria!) riconosciuti degni di autonoma gestione, con reclutamento dei direttori attraverso un concorso internazionale che ha privilegiato le esibite doti manageriali, non certo le specifiche competenze di studio delle singole raccolte maturate negli anni all'interno degli stessi istituti.

Tutti gli altri musei, ritenuti “minori” secondo una assurda gerarchia, sono stati alla rinfusa assemblati in una sovrastruttura burocratica, modellata non certo per riconosciute aree culturali, ma secondo il ritaglio del territorio regionale, il polo museale, mentre tutti, supermusei e no, fanno capo a una apposita direzione generale, concettualmente e funzionalmente ingiustificabile. Mentre il più recente decreto del ministro (art. 7, comma 2) vara la libera circolazione dei beni da un museo all'altro del “polo” o tra i distinti istituti del supermuseo, così definitivamente smarrite le specifiche identità.

All'artificioso accorpamento dei musei “minori” nei poli museali fa riscontro l'assemblaggio di tutte le soprintendenze di merito, con lo sconvolgimento di consolidati assetti funzionali e di servizi. Da ultimo, accorpate anche le soprintendenze all'archeologia fino ad oggi funzionalmente e unitariamente organizzate per vaste aree culturali come efficienti sedi di studio, ora invece frantumate nei più numerosi istituti di approdo. Quando invece il raccordo tra i distinti ambiti di tutela nei non frequenti casi di convergenti competenze di merito è stato ed è agevolmente altrimenti assicurato, essendo un palese pretesto l'addotta esigenza di più pronta determinazione nei confronti dell'attesa dei privati interessati. E anche alle accorpate soprintendenze l'ultimo decreto ministeriale (art. 4, comma 4) estende il criterio di reclutamento dei direttori, aperto al personale amministrativo anche di provenienza esterna alla amministrazione dello stato, con la mortificazione delle competenze di merito maturate nell'esercizio operoso della tutela.

Di fronte allo sconvolgimento del consolidato sistema di diffusa presenza territoriale nel nesso solidale tra istituti museali e cura dei contesti di necessario riferimento, che costituisce la originale caratterizzazione della istituzione della tutela nel nostro paese (indicata come esemplare anche nel panorama europeo), sembra ad Italia Nostra che ne sia investita la responsabilità del Parlamento. Perché necessariamente verifichi se l'esito dei distinti e disorganici provvedimenti legislativi che pur hanno legittimato la recente riforma nella organizzazione del ministero della tutela di paesaggio e patrimonio storico e artistico abbia corrisposto alla esigenza di piena attuazione del precetto costituzionale o non abbia invece gravemente indebolito l'esercizio di una funzione della Repubblica cui è riconosciuto il ruolo di assoluta primarietà rispetto ad ogni altro interesse sia pure di rilevanza pubblica. E sappia quindi adottare le doverose misure, anche nella prospettiva della delegata riforma della pubblica amministrazione (escluse innanzitutto ogni presunzione di silenzio-assenso e la dipendenza delle soprintendenze dalle prefetture), idonee a ripristinare quel ruolo.

Renzi annuncia la rimozione della colmata. Che dovrebbe già fare il suo governo». Articoli di Andrea Fabozzi, Vincenzo Iurillo, Adriana Pollice e Marco Palombi, il manifesto e il Fatto Quotidiano, 7 aprile 2016 (m.p.r.)



Il manifesto
RUOLO DEI PRIVATI
E TRUCCHI DI RENZI PER IL DOPO ILVA

di Andrea Fabozzi
«Il cemento non lo aumentiamo, anzi togliamo anche la colmata che ha segnato come simbolo negativo Bagnoli». Dopo quasi un quarto di secolo si può dire di tutto su Bagnoli. E così Renzi, sbarcato in elicottero, promette come grande successo della «sua» gestione commissariale quello che una legge dello stato impone da anni al ministero dell’ambiente di fare.

Spetta al suo governo, dunque, al suo ministro «petroliere» Galletti, ripristinare la linea di costa e sbancare la colmata. Da qualche parte al ministero dovrebbero esserci ancora i progetti esecutivi, i disegni. Anni fa c’erano. Però il Renzi da sbarco ha un vantaggio. Anche sul destino della colmata può farsi forte degli anni di indecisioni, compromessi e autosmentite delle diverse amministrazioni comunali. Persino di quella attuale che, se non ricordiamo male, fresca vincitrice delle elezioni, immaginò di riciclare quei terreni inquinati per la coppa America di vela, per fortuna poi cambiando idea.

Bagnoli precipita ancora una volta nelle campagne elettorali. Il presidente del Consiglio non cerca di nasconderlo. A Napoli, così si rivolge ai progettisti: «Vedo che le infrastrutture partiranno a inizio 2018. Sarebbe bene che sia almeno la fine del 2017. Capisco far di tutto per non far le cose in piena campagna elettorale, ma questa cosa la facciamo prima».

Davanti a sé ha i responsabili di Invitalia, l’agenzia per lo sviluppo che il commissariamento - imposto con il famoso decreto «Sblocca Italia» - ha messo al centro della bonifica. Affidandogli la responsabilità della trasformazione urbanistica e insieme la proprietà dei suoli.

Nella versione originaria si trattava di una società aperta ai privati, verosimilmente gli stessi che hanno inquinato per anni (la Cementir di Caltagirone, Fintecna) ai quali il commissariamento può regalare nuove occasioni. L’ultimo decreto «Milleproroghe» ha «cambiato le carte in tavola», come ha detto il sindaco De Magistris, che così si è visto respingere il ricorso al Tar contro il commissariamento.

Adesso gli «sbloccatori» sono formalmente una società «in house» dello stato. Per sbloccare bisogna anche un po’ truccare. E così bisognerà capire quanto di veramente realizzabile c’è nelle slide proiettate ieri durante la cabina di regia.

A prima vista il piano contiene anche sorprese positive, ad esempio lo spostamento di Città della Scienza dalla linea costiera all’interno del futuro parco, come chiedono da tempo gli abitanti di Bagnoli e i movimenti per la spiaggia libera.

Resta però il difetto ineliminabile del commissariamento, che allontana dalle istituzioni rappresentative e dal controllo dei cittadini le decisioni sul futuro dell’area. E lascia spazio alla propaganda, nella quale Renzi sguazza. «Consulteremo i napoletani», ha promesso il presidente del Consiglio andando via. Il sito internet delle meraviglie, tra le slide, informa che la campagna di ascolto (chi l'ha vista?) si è chiusa a fine marzo.

Eppure chi ieri è sceso in piazza è riuscito a farsi sentire.

Il Fatto Quotidiano
SCONTRI SU BAGNOLI:
DE MAGISTIS FURIOSO PER IL PIANO DI RENZI

di Vincenzo Iurillo

Annunciati, previsti, evocati, temuti o minacciati, gli scontri di piazza anti Renzi e anti commissariamento della bonifica di Bagnoli si sono puntualmente concretizzati nel primo pomeriggio sul lungomare liberato di Napoli, il luogo simbolo dell’amministrazione di Luigi de Magistris. Qui tra piazza Vittoria e via Partenope, una parte del corteo della manifestazione organizzata da comitati e centri sociali, circa 2000 persone (tra cui due assessori comunali) partite da piazza Dante con in testa lo striscione “Napoli sfiducia il governo Renzi”e un Pinocchio con la maglietta del Pd, ha provato a forzare il cordone di protezione della polizia.

I manifestanti puntavano alla sede del Mattino, dove di lì a poco il premier avrebbe tenuto un forum con la redazione del quotidiano edito dal gruppo Caltagirone, titolare nell’area ex Italsider dei resti della Cementir oggetto di un’ordinanza del sindaco che intima loro e alla Fintecna di ripristinare a loro spese la sicurezza delle rispettive aree di competenza. Le forze dell’ordine hanno usato manganelli, lacrimogeni e idranti per disperdere facinorosi e incappucciati. Turisti spaventati, bus in fuga per il fumo. Quattro agenti feriti, uno in ospedale.

Da giorni de Magistris aveva annunciato di voler disertare la riunione della cabina di regia su Bagnoli convocata in Prefettura con Renzi e con il sottosegretario e coordinatore Claudio De Vincenti. E poche ore prima degli scontri aveva ‘accolto’ il premier con parole durissime: «La cabina di regia non è luogo in cui ci si abbraccia, ma è luogo in cui si crea una torbida saldatura tra presunto interesse pubblico e ben individuato interesse privato. Non ci andiamo a sedere in luoghi in cui accadono cose che nulla hanno a che fare con l’interesse della città». Ed ancora: «Sorprendente che il premier non abbia ritenuto di incontrare il sindaco della terza città d’Italia».

Valeria Valente, candidata sindaco del Pd, ha valutato queste esternazioni come una istigazione: «La rabbia non si accarezza e non si fomenta mai! De Magistris prenda immediatamente le distanze. Napoli non è questo, Napoli non merita questo». Il sindaco non l’ha accontentata. De Magistris gioca su Bagnoli una partita in cui incrocia il futuro dei 300 ettari di fronte a Nisida con il destino di una campagna elettorale per le imminenti amministrative che affronta da favorito, ma senza un partito alle spalle. E in chiave anti Pd e antirenziana, sta aggregando intorno a una riconosciuta leadership sul territorio, una variopinta galassia di movimenti, centri sociali, comitati, sinistra estrema. Tutti d’accordo con de Magistris che si autodefinisce «il Che Guevara di Napoli».

Dimenticata la stretta di mano con Renzi del 14 agosto 2014, il giorno dell’accordo di programma tra Comune e Governo finito nel nulla con lo Sblocca Italia e la decisione di commissariare la bonifica di Bagnoli, il sindaco di Napoli ha aperto contro Renzi un fronte politico-giudiziario culminato in un ricorso al Tar contro la nomina del commissario Salvo Nastasi (perso in primo grado, ha proposto appello) e contro «gli interessi speculativi dei grandi gruppi di potere che vogliono mettere le mani sulla città». Anche ieri Renzi ha replicato rimandando la palla nel campo avverso: «Siamo qui perché altri non hanno fatto. Ma la seggiola del comune di Napoli è lì in cabina di regia e dopo ci sarà in commissione dei servizi. E sottolineo che non mi permetterei mai di cambiare i progetti urbanistici». Il piano annunciato dal premier prevede 272 milioni di euro per ripulire Bagnoli, subito ribattezzata «la più grande bonifica d’Italia», che si concluderà entro il 2019. Renzi ha citato il Prg di Vezio De Lucia e ad alcuni è sembrata una citazione mirata per provare a sbollire Antonio Bassolino, ancora infuriato per aver perso le primarie dei presunti imbrogli ai seggi, e che ieri ha incontrato “a lungo” il premier.


Il manifesto
BAGNOLI, UN'EXPO DA 270 MILIONI

di Adriana Pollice

Napoli. Il premier in elicottero viene contestato: «Mi sto affezionando alle proteste, tornerò». Lanciata la gestione commissariale. Polemiche per due assessori ai cortei. Il sindaco: cabina di regia? È un luogo pericoloso. Nel blitz del presidente del Consiglio c’è spazio per i tormenti del Pd alle amministrative: non incontra Bassolino, ma gli lancia un appello

Matteo Renzi è arrivato a Napoli ieri pomeriggio, la città blindata fin dalla mattina: la polizia in assetto antisommossa ha completamente chiuso l’area intorno alla prefettura fino alla sede della redazione del Mattino, dove il premier era atteso per un forum, prima di partecipare alla cabina di regia su Bagnoli.

I manifestanti, oltre duemila, si sono radunati alle 11 a piazza Dante, tra loro anche gli assessori comunali Sandro Fucito e Carmine Piscopo. In testa al corteo un enorme pinocchio con il volto del premier, la manifestazione ha sfidato i divieti per arrivare fin quasi al portone del quotidiano del gruppo Caltagirone, tra le cui proprietà c’è anche la Cementir cioè un pezzo di Bagnoli mai bonificato. Ed è lì che la polizia ha azionato idranti e lacrimogeni disperdendo il corteo con i manganelli. Un ragazzo è stato ferito alla testa, dieci poliziotti si sono fatti refertare.

Quali sono gli interessi in gioco lo spiega l’Assise di Bagnoli: «Fintecna pronta a costruire sul mare. Caltagirone autorizzato a fare della ex Cementir residence di lusso. I costruttori napoletani, che puntano su Nisida». Ed è proprio a Nisida che il premier è sbarcato in elicottero per incontrare i ragazzi del carcere minorile. L’associazione dei costruttori da tempo spinge per spostare il penitenziario altrove in modo da mettere le mani sul bellissimo isolotto, facendone anche la sede del porto turistico di lusso.

I manifestanti, riuniti nella sigla «Bagnoli libera», nel pomeriggio si spostano in galleria Umberto: «Il problema di ordine pubblico lo ha creato il ministero dell’Interno. L’unica cosa che il governo doveva fare è la bonifica e non l’ha fatta, mentre la gente muore di tumore». Da lì il corteo è avanzato verso la prefettura ma la polizia l’ha bloccato all’altezza del San Carlo, schierando ancora gli idranti.

Alle 18 Renzi avrebbe dovuto presiedere in prefettura la cabina di regia, ma alle 17.50 si è accomodato nella redazione del Mattino per il suo show personale: «Il Sud ha straordinarie opportunità ma deve essere messo in grado di correre» ha spiegato. Ma all’ad di Apple, Tim Cook, Renzi aveva consigliato di investire a nord di Roma. «Qualcuno racconta che facciamo operazioni di cementificazione - prosegue -, ma il piano regolatore per Bagnoli non lo fa il commissario, è quello di Vezio De Lucia. Eliminando le ecoballe e pulendo Bagnoli (272 milioni previsti) bonifichiamo la Campania».

Le norme dello Sblocca Italia affidavano alla cabina di regia il potere di derogare al piano regolatore e anche superare i vincoli delle soprintendenze, ma i ricorsi dell’amministrazione hanno evidentemente spinto l’esecutivo su posizioni più prudenti.

Duro con il sindaco Luigi de Magistris: «Siamo qui perché altri non hanno fatto. La seggiola del sindaco in cabina di regia sta lì. Poi ci sarà la conferenza dei servizi, anche lì c’è la sua sedia. Tutte le volte che vengo a Napoli ho contestazioni veementi, ormai ci sono affezionato, verrò più spesso».

Un’ora di storytelling senza freni: l’emendamento per Tempa Rossa è un’operazione legittima; la magistratura lavorasse se è capace. E ancora: «Le elezioni che mi riguardano sono le politiche nel 2018. Per le comunali, la candidata del Pd a Napoli si chiama Valeria Valente, vincitrice dalle primarie. Dopo le polemiche, faccio il mio appello a partire da Antonio Bassolino, il Pd ha le carte in regole per provarci».

Con un’ora e mezza di ritardo il premier arriva alla famosa cabina di regia, dando la dimostrazione di come tutto sia stato deciso in altri luoghi.

Al premier restano le telecamere per la presentazione del piano di bonifica, da ultimare entro il 2019, e del progetto di sviluppo: funivia Posillipo-Nisida, dove ci sarà il porto turistico da 700 posti e lo stadio della vela; il parco urbano; terrazze attrezzate e piscine; moduli commerciali; siti di archeologia industriale accanto a incubatori di impresa, start up e centri di ricerca. Insomma un affare per i costruttori con un occhio al turismo e un altro al mondo digitale.

Il sindaco in prefettura non è andato ma ha commentato: «La cabina di regia è un luogo pericoloso, in cui si crea una torbida saldatura tra presunto interesse pubblico e ben individuato interesse privato. Il comune ha smascherato un’operazione illecita. Non ci faranno mai diventare complici di qualcosa di indecente a livello politico e istituzionale».

Il Fatto Quotidiano
UN EQUIVOLO LUNGO
(PER ORA) VENTICINQUE ANNI

di Marco Palombi

Venticinque anni, 360 milioni di euro e un equivoco. È di questo che parliamo quando diciamo Bagnoli. L’equivoco in realtà sono molti: quello del Mezzogiorno industriale e della fabbrica che spazz ’o vico sostituendo l’educata tuta blu alla plebe dei bassi; poi c’è l’equivoco delle bonifiche, quello del campare di turismo, quello della primavera napoletana.

Oggi Bagnoli, nel senso dell’area Bagnoli-Coroglio, sono mille ettari: erano quelli in cui sorgevano gli impianti Italsider (oggi Fintecna, cioè Cassa depositi e prestiti), l’industria del cemento che ne sfruttava le scorie (Cementir, controllata dal gruppo Caltagirone), più le zone limitrofe e ovviamente il mare. Oggi - come da 16 anni - Bagnoli è un Sin, un sito di interesse nazionale, nel senso che va bonificato. Ma la storia inizia prima. È l’inizio degli anni ’90 quando si spegne l’altoforno. La Bagnoli di cui parliamo oggi inizia allora e sopravvive sopra quella che esiste da sempre dentro i Campi Flegrei e corre tra la collina di Posillipo e il Golfo di Pozzuoli.
Il piano urbanistico a cui Matteo Renzi oggi dice di volersi conformare nasce 22 anni fa, nel 1994, per merito di Vezio De Lucia, assessore all’Urbanistica di Bassolino: all’ingrosso prevede che i 3/4 dell’area vada destinato a verde pubblico attrezzato. È il Progetto Bagnoli, quello “del verde, del sapere e del loisir ”, il tempo libero. C’è un problema. Bagnoli, dopo un secolo di industria, è un disastro. Va bonificata e le bonifiche costano.
Nel 1996 il Parlamento decide che pagherà lo Stato e stanzia 20 miliardi di lire per la neonata Bagnoli Spa: quando verrà chiusa, nel 2002, ne avrà spesi 300 e senza aver nemmeno cominciato a pulire. Il 2002 porta con sé un’altra società: Bagnoli Futura Spa, partecipata da Comune, Provincia e Regione. Chiuderà nel 2013 tra scandali e inchieste della magistratura: a quel punto, se ne sono andati un decennio e altri 200 milioni di euro con risultati rivedibili. In alcuni lotti, diceva Bagnoli Futura, la bonifica è al 60% con tanto di certificati ufficiali della Provincia. Solo che, fecero notare i pm di Napoli, controllore e controllato sono la stessa cosa: le analisi effettuate dai magistrati segnalavano addirittura un peggioramento delle condizioni ambientali di lotti che risultavano puliti.
Il simbolo di Bagnoli è la “colmata a mare”. Una montagna di rifiuti industriali prodotti da Italsider e Cementir che sta lì dagli anni Sessanta e ha modificato persino la linea della costa: 200mila metri quadrati che, dicono le analisi, continuano a inquinare il mare ancora oggi. Il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, a fine 2013 aveva emesso un’ordinanza che intimava a Fintecna e Cementir di rimettere tutto a posto. “Chi inquina paga”, dice la legge. Era la terza ordinanza simile e come le precedenti non è stata rispettata. Stavolta a bloccarla ci ha pensato il decreto Sblocca Italia.
E adesso? Bisogna capire cosa c’è da fare. Ispra, ente del ministero dell’Ambiente, ha concluso a febbraio la “caratterizzazione” del sito: una suddivisione per dimensioni e problematicità degli agenti inquinanti. Ma per sapere cosa c’è davvero a terra e in acqua bisogna aspettare l’estate. Scrive Ispra: “Nonostante la grande accuratezza nella definizione delle potenziali sorgenti di contaminazione può accadere di trovarsi di fronte a situazioni di criticità ambientale non prevedibili dal modello concettuale”. Pure la conoscenza a volte è un equivoco.

Riferimenti

Vedi i numerosi articoli nella cartella "Città oggi">"Napoli". Tra gli altri, quelli di Vezio De Lucia del 2010, C’era una volta il rinascimento napoletano e del 2013, Da emblema del rinascimento a feudo dei partiti, l'appello dei Comitati e dell'Assise cittadina per Bagnoli, e l'articolo di Marco De Marco del 2015, Bagnoli, De Lucia e il voto

La Repubblica, 5 aprile 2015 (m.p.r.)

VIiggiano (PZ). Un documento rassicurante. Distribuito a sindacati, funzionari regionali, esponenti della politica, il 22 febbraio scorso, in occasione della riunione del Tavolo regionale della trasparenza sull’industria petrolifera della Basilicata e in particolare sull’inquinamento al centro oli di Viggiano. Un documento che stride con i dati che si leggono nell’ordinanza di 800 pagine alla base dell’indagine della procura di Potenza. «Tutti e cinque i dirigenti Eni che avevano partecipato a quella riunione - osserva il segretario della Fiom lucana, Emanuele De Nicola - oggi sono agli arresti».

Il documento presentato da Eni poco più di un mese fa riporta dati tranquillizzanti. Sintetizza così i «risultati del monitoraggio ambientale» effettuato dei tecnici della società. «La qualità dell’aria è buona - si legge - con dati da 5 a 10 volte inferiori ai limiti normativi » e addirittura «migliori che nella maggior parte delle città italiane». In particolare, sempre secondo l’Eni, i flussi delle emissioni in atmosfera «si attestano intorno al 25-30 per cento dei valori autorizzati dall’Aia», l’autorizzazione integrata ambientale valida nell’Unione Europea. Un dato certamente soddisfacente. Ma proprio su questo punto il documento della società petrolifera differisce in modo clamoroso da quanto è stato accertato dai pm di Potenza. A pagina 27 dell’ordinanza si legge che le emissioni in atmosfera, nel solo periodo tra dicembre 2013 e luglio 2014 «hanno superato per ben 208 volte i limiti di legge». In particolare la tabella allegata all’indagine sottolinea il caso delle emissioni di biossido di zolfo (So2) del termodistruttore contrassegnato con la sigla E 20. Secondo la perizia affidata dai pm e la tabella conseguente l’So2 nel punto E20 ha superato i limiti di legge per 29 volte nel periodo aprile2013-marzo 2014. Tanto da spingere il gip a commentare: «Tale elevata frequenza di superamenti indica in maniera chiara che l’assetto impiantistico e i sistemi di controllo per tale punto di emissione non sono in grado di assicurare in maniera stabile il rispetto dei limiti».

Eppure proprio sul termodistruttore E20 la narrazione del documento consegnato da Eni alla riunione del 22 febbraio è completamente diversa. A pagina 21 del dossier sulle migliori pratiche per la riduzione delle emissioni si legge che nell’impianto sono state adottate le procedure migliori «per evitare o, dove ciò si riveli impossibile, ridurre in modo generale le emissioni e l’impatto sull’ambiente nel suo complesso ». Dunque in uscita dal termodistruttore, di fronte a un limite Aia di 200 milligrammi per metro cubo di So2 la tabella indica quantità «inferiori a 180 milligrammi». Ampiamente al di sotto dei limiti, altro che «elevata frequenza dei superamenti». Siccome il termodistruttore è lo stesso e l’inquinante anche, le due ipotesi possibili sono comunque inquietanti. Sia che ad affermare il falso per nascondere i problemi sia stata una multinazionale come l’Eni sia che, al contrario, a forzare la situazione siano stato i periti che hanno redatto la consulenza per il tribunale.

Quella sulle emissioni del termodistruttore è solo una delle contraddizioni più stridenti tra quanto si legge nel documento Eni e quanto sta scritto nell’ordinanza del gip di Potenza. La stessa Eni dichiara che non esiste alcun problema relativo alle acque di reiniezione così come sulla salubrità della falda e dei fiumi. Per quanto riguarda le acque sotterranee ci sarebbe «il costante rispetto dei limiti normativi» mentre il lago artificiale del Pertosillo, al centro delle preoccupazioni delle popolazioni locali per le morie di pesci, «soddisfa tutti gli standard imposti dalla normativa». Toccherà ora al processo stabilire chi ha scritto la verità.

Critica Marxista, 1, 2016 (m.p.g.)

Avanti che il governo Renzi mettesse mano, prima col ministro Dario Franceschini e poi con la ministra Madia, a tutta una serie di "riforme" che investono in pieno il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, si pensava che quel corpo stremato e indebolito dai ripetuti tagli di risorse andasse anzitutto rivitalizzato subito con un piano graduale che prevedesse:
a) una congrua ricostituzione delle risorse per la cultura, divenute infime, e che ci ponevano, secondo l'Istat, al 22° posto, dopo Malta, Cipro e Bulgaria e prima delle sole Grecia e Romania;
b) la riduzione del "testone" centrale di direttori centrali e regionali, con il ripotenziamento delle Soprintendenze diffuse sul territorio e del personale divenuto drammaticamente insufficiente a fronte delle aggressioni portate al paesaggio, a partire da quello tecnico-scientifico, sottoretribuito e mediamente sui 50-55 anni di età;
c) l'organizzazione sollecita di autentici concorsi di merito coi quali rinsanguare gli ormai anemici quadri tecnico-scientifici e lo stesso personale di custodia del Mibact arricchendolo di nuove competenze e professionalità;
d) uno status giuridico ed una autonomia funzionale per i musei maggiori ai quali destinare una parte delle somme oggi lucrate dalla società oligopolistiche di servizi aggiuntivi;
e) un rapporto coi privati che privilegiasse i mecenati veri e che non avviasse alcuna ambigua privatizzazione delle gestioni museali.

Era una linea, questa, che ancora ricomprendeva la cosiddetta valorizzazione nella tutela stessa. Due valori scissi dal sciagurato pasticcio del Titolo V della Costituzione (Bassanini-Fassino), ricuciti a fatica, bisogna riconoscerlo, dai ministri Rocco Buttiglione e Francesco Rutelli.

Renzi e per lui Franceschini ha invece puntato sulla netta scissione fra valorizzazione e tutela al punto che si parla soltanto della prima e la seconda è praticamente sparita dal lessico ministeriale e governativo. In perfetta coerenza del resto con quanto aveva scritto nel suo libro "Stil novo" Matteo Renzi nel 2011 da sindaco di Firenze: "Sovrintendente (con la V e non con la P) è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario della burocrazia. E' una di quelle parole che suonano grigie. Stritola entusiasmo e fantasia sin dalla terza sillaba. Sovrintendente (sic) de che?" "Potere monocratico che non risponde a nessuno". Che "non può essere al centro di un sistema organizzativo dell'800" (Renzi non sa che dal punto di vista programmatico risale addirittura a Raffaello e alla famosa lettera-manifesto inviata nel 1519 a Leone X). Una bellicosa dichiarazione di intenti, più volte ripetuta nel tempo. Una strategia di guerra a competenze e controlli tecnico-scientifici a tutela del patrimonio archeologico, storico-artistico e paesaggistico.

Le leggi Franceschini e Madia col corollario del decreto Sblocca Italia configurano infatti due sistemi distinti: un sistema museale con 20 musei di eccellenza, 17 Poli museali incaricato della valorizzazione del patrimonio, della sua "messa a reddito" (possibilmente) da privilegiare e un sistema territoriale da lasciare in secondo piano con le Soprintendenze archeologiche, Belle arti e paesaggio, archivistiche+archivi e biblioteche, delle quali viene ridisegnata nella maniera più sbrigativa la stessa geografia culturale. Una scelta che travolge quell'idea geniale del "contesto" affermata fra '700 e '800 da Quatremère de Quincy o anche del "palinsesto millenario" del paesaggio in cui tutto si tiene e si lega riaffermata nella discussione al Senato per la legge Galasso da Giulio Carlo Argan.

Al fondo dell'ebbrezza "valorizzatoria" c'è probabilmente l'illusione provinciale che i Musei siano "macchine da soldi" sin qui scioccamente trascurate e lasciate impolverare. Ignorando che lo stesso Grand Louvre con le entrate proprie copre sì e no il 50 % dei costi e altrettanto accade al Metropolitan Museum. Ignorando il modello inglese che ha reso gratuiti gli ingressi ai maggiori Musei puntando anche così ad incrementare il turismo culturale e riuscendoci. Perché non sono i musei a far soldi bensì il loro indotto, cioè il turismo culturale debitamente organizzato e promosso.

Scindendo la valorizzazione dalla tutela si è tagliato di netto il rapporto fra Musei e Territorio, una delle acquisizioni più apprezzate della nostra cultura della tutela e della conservazione, un vero "modello italiano". Ognuno può constatare come oggi, nonostante le quotidiane razioni di lodi alla bellezza italiana, un'altra parola sia uscita dal lessico ministeriale: il paesaggio. Il valido Codice per il Paesaggio nell'ultima redazione Rutelli/Settis ha racimolato a fatica 3 soli Piani paesaggistici, in Sardegna, meritoriamente, ai tempi della Giunta Soru, in Toscana, fra roventi polemiche. e in Puglia, la regione più seminata di grandi pale eoliche.

Del resto gli stessi Parchi Nazionali - formidabile, insperata acquisizione degli anni '80 e '90 - sono oggi abbandonati a se stessi (alcuni, come lo Stelvio, già smembrati), affidati ad amministratori e ad interessi locali, a commissari e sub-commissari, senza direttori spesso e con fondi miseri in grado di garantire solo la più stentata sopravvivenza. E non stanno meglio i numerosi Parchi Regionali come ci confermano le notizie recenti del primo di essi, quello del Ticino, minacciato da autostrade insensate e da nuove piste aeroportuali, e dell'Appia Antica dove sulla componente archeologica pende la minaccia continua di essere sacrificata ad altre logiche, anche qui "valorizzatorie".

Con gli archivi e le biblioteche, tesori culturali strepitosi, siamo lontani dall'idea della turbo-cultura e quindi è logico che siano abbandonati all'inedia e agli sforzi eroici di archivisti e bibliotecari con un 66 % dei "funzionari archivisti di Stato" che ha già superato i 60 anni. Siamo all'estinzione fisica progressiva. Il corpo dunque gracile. spossato, invecchiato dei Beni Culturali e Ambientali (riprendo la mirabile dizione spadoliniana), invece di essere oggetto di cure ricostituenti, è stato squassato da una terapia tanto violenta quanto affrettata, priva di una idea generale, strategica che non fosse la mitica "valorizzazione".

In chiave mediatica e turistico-commerciale. La stessa creazione dei 20 Musei di eccellenza con un concorso internazionale (che però non era un vero concorso), uno solo dei quali affidato ad un funzionario del Mibact, ha forse portato in Italia grandi esperti di management museale o promosso italiani di autentico spessore specifico? Alla napoleonica Pinacoteca di Brera è stata accorpata anche la teresiana Biblioteca Braidense storicamente antecedente e da sempre autonoma e il nuovo titolare James Bradburne si è affrettato a rassicurarci che a lui "piacciono molto anche i libri". Dopo qualche mese, fra l'altro, lo stesso Bradburne ha dichiarato pari pari che "valorizzazione e tutela devono marciare di pari passo", smentendo quindi il suo ministro e Renzi. Agli Uffizi, dove tanto si era prodigato in condizioni decisamente difficili Antonio Natali, il suo successore Eike Schmidt, un esperto di scultura, arti applicate e tessili (del Minnesota), ha enunciato due linee strategiche: accrescere le aree museali da affittare per eventi commerciali e "abbattere le code e le attese troppo lunghe". Come? Non si sa. Poi, per la verità, è tornato sui suoi passi negando di voler concedere spazi museali agli "eventi" commerciali, semmai grandi terrazze (Loggia dei Mercanti, Boboli, ecc.). A Paestum è andato un giovane tecnico svizzero il quale per primo dichiara di non avere alcuna esperienza gestionale e che ora però si è messo alla testa della lotta agli abusivi riconfermando con ciò l'indissolubile legame fra musei, siti archeologici e territorio, l'unitarietà di tutela e valorizzazione. A Taranto Museo mirabile della Magna Grecia una archeologa del Medio Evo. A Napoli straordinario Museo della classicità greco-romana un etruscologo dalla bibliografia disarmante per pochezza e a Caserta, la "Versailles italiana", un laureato in marketing con due pubblicazioni sui...cimiteri monumentali.

Come non avvertire un qualche profumo di antiche spartizioni "politiche"? Tutti messi a capo di strutture con pochi custodi demotivati e con ancor meno tecnici. Per cui il Mibact nei giorni scorsi ha avuto l'idea geniale di allestire - "alla chetichella" secondo il coordinatore toscano del sindacato Confsal Unsa Learco Nencetti - un helpdesk , una sorta di Telefono Amico "esclusivo" che soccorrerà i supermanager in tutte le materie strategiche: bilancio, personale, spesa, valorizzazione e tutela, prestiti per mostre, sponsorizzazioni e erogazioni liberali ecc. ecc. Qualcuno si chiede: ma sono davvero supermanager esperti della materia? Anche quelli già in carica, come Anna Coliva alla Galleria Borghese (unico funzionario del Mibact confermato alla guida di un grande museo) hanno dovuto constatare che la nuova situazione non crea miracoli, che i soldi per ora sono pochi, come i custodi disponibili, per cui la stessa Galleria Borghese, affollata di prenotazioni, ha dovuto chiudere alcune sale.

In realtà questi 20 superdirettori retribuiti con 145.000 euro lordi all'anno contro i circa 35.000 lordi dei loro predecessori agli Uffizi, a Caserta o a Brera - come del resto le decine di direttori (assai meno remunerati) andati ai musei non autonomi e ai Poli museali - si devono essere accorti che la cura radicale cui è stato sottoposto il vecchio nobile malnutrito, debilitato destriero dei Beni culturali lo sfianca e confonde non poco. Essa prevede che le Soprintendenze, le quali spesso gestivano direttamente Musei e Pinacoteche, si tengano le loro sedi e, quando possono, il loro personale tecnico-amministrativo, i loro, per quanto antiquati computer, i loro archivi, inclusi quelli fotografici, ecc.

E ai Musei cosa va? Maggiori fondi, ma quando? C'è stato inoltre un certo travaso di tecnici, per esempio di storici dell'arte (già rari), ai musei, magari archeologici, per cui nella Soprintendenza accorpata Belle Arti e Paesaggio sono rimasti soltanto architetti (pochi pure loro). E' successo che ad una importante Soprintendenza sia stata chiesta l'expertise su una certa pala d'altare e che nessuno fosse in grado di esaudire la richiesta. Da tempo in certe Soprintendenze, per carenza di personale, lo stesso Ufficio all'Esportazione ha funzionato a scartamento ridotto o rimane chiuso per giorni fra le proteste degli spedizionieri. Figuriamoci ora.

Intanto i direttori dei Poli museali dovrebbero correre come disperati per la regione con stipendi insufficienti e senza i rimborsi (almeno teorici) per le trasferte previsti fino a che erano nei ranghi della Soprintendenza. E va malissimo anche a quei funzionari divenuti direttori di musei o siti diversi in città o cittadine differenti. Stipendio medio: 1.650 euro al mese.

Ancor più problemi pone ovviamente nella gestione dei musei archeologici la scissione fra museo e territorio che in questo caso è l'area di scavo con cui sono stati sin qui, logicamente, un tutt'uno. Guai molto pesanti provoca la separazione dei musei, parlo ovviamente di quelli archeologici, dalla Soprintendenza. Infatti musei nazionali, a parte quelli di tradizione ottocentesca che hanno raccolto vecchie collezioni, come quelle borboniche, nella prevalenza dei casi sono strettamente legati al territorio, sono di formazione recente ed hanno saputo coniugare e promuovere tutela, conoscenza, promozione costituendo veri presidi permanenti sul territorio.

La riforma Franceschini però altera o sconvolge gli equilibri di questo rapporto virtuoso e condanna alla impotenza le Soprintendenze e alla staticità i musei archeologici privandoli dell'apporto continuo di nuovi restauri e nuovi scavi. La separazione tra magazzini e musei, tra nuove acquisizioni di materiali provenienti dalla ricerca e nuovi progetti espositivi, causerà problemi a non finire. Al vertice del Ministero evidentemente ignorano che l'intensa attività di tutela degli ultimi decenni per fronteggiare l'espansione edilizia speculativa, opere pubbliche fortemente invasive e distruttive ha determinato l'accumulo di quantità impressionanti di materiali di grande interesse, ma tuttora da schedare, da conoscere.

I rischi sono facilmente intuibili, aggravati dall'ormai vicino pensionamento di molti validi funzionari tecnici, privati di riconoscimenti e impossibilitati a trasferire ad altri le loro conoscenze. Archivi umani che saranno persi a breve. Il personale al momento appare disorientato, stanco, spaventato, spesso anche con l'angoscia di possibili trasferimenti paventati volutamente dalle strumentali propagande di alcuni gruppi interni. In Calabria, musei prestigiosi e lontani come Sibari con relativo parco archeologico e Vibo Valentia con il parco di Ipponion verrebbero assegnati in modo analogo allo stesso funzionario. In Puglia il medesimo funzionario dovrebbe curare l'importante museo di Manfredonia nel Foggiano, noto per le sue stele daune e per le presenze pre-protostoriche, e contemporaneamente l'altro importante museo di Gioia del Colle posto all'interno del castello federiciano e con annesso parco archeologico. Nel Lazio sono state sospese le nomine dei direttori di musei archeologici importanti come Palestrina e Civitavecchia. Ci si rende conto al Collegio Romano che il sistema non funziona? Non ci voleva molto a capirlo.

Per ora si divide il poco personale smarrito, stanco e sfiduciato tra uffici del polo e direzione della Soprintendenza archeologia. I magazzini-deposito perdono i punti di riferimento conoscitivo. Le risorse finanziarie già ridotte, prima condivise, devono essere ripartite tra gli uffici. Gli archivi storici delle Soprintendenze, come quelli fotografici e documentari, sono contesi tra i dirigenti e rischiano una pericolosa frammentazione che somiglia e si avvicina molto alla loro distruzione. Il personale tecnico-amministrativo, ormai anziano, frustrato da anni di politiche che sovente hanno mortificato il merito e premiato le clientele, rischia l'implosione.

E di conseguenza, tutto il sistema della tutela pazientemente costruito negli anni, sostenuto dalla passione e dalla generosa attenzione di tanti funzionari, si appresta a scomparire. Contemporaneamente, le numerose Università italiane che hanno prodotto laureati in Lettere Classiche o Beni Culturali vedono con grande mortificazione la fuga all'estero dei loro prodotti migliori o, in alternativa, la loro utilizzazione in lavori che non richiedono necessariamente un percorso di studi universitari.

Le nuove piante organiche non sembrano destinate a risolvere il problema neanche in prospettiva, visto che le dotazioni delle Soprintendenze restano enormemente al di sotto delle necessità effettive e a poco potrà valere, sempre se verrà messo in pratica, l'annunciato concorso per 500 posti per funzionari tecnici. Esso probabilmente coprirà a malapena i pensionamenti. Mentre i 150 milioni in più promessi per il 2016 con la legge di stabilità riportano, sì e no, il bilancio del Mibact ai livelli già depressi del 2008-2009 recuperando un po' di più dell'inflazione. Comunque denari benvenuti dopo anni di tagli (sempre che la legge di stabilità regga sino alla fine).

Ma veniamo al territorio, al paesaggio. La riforma, pur sollevando le Soprintendenze dalla gestione dei siti museali e monumentali assegnati ai poli regionali, prevede il raddoppio delle competenze su tutti i territori (tutela architettonica e paesaggistica + storico artistica e etnoantropologica). In alcuni casi particolari tale raddoppio è ulteriormente aggravato dalla ridefinizione territoriale: in Calabria sono stati accorpati i territori, quindi il carico di lavoro nel settore della tutela tende a quadruplicarsi, mentre la nuova Soprintendenza unica dell'Aquila, pur relativa ad un territorio limitato, assomma anche le competenze della tutela archeologica e quelle di stazione appaltante della ricostruzione post-sisma, in un ambito territoriale in cui si concentrano criticità e complessità enormi, che ad oggi vengono gestite con pochissime unità di personale tecnico (ad oggi solo 8 architetti, 2 storici dell'arte e 2 archeologi di altro istituto in collaborazione temporanea...in attesa dei nuovi organici).

Il potere salvifico della (pur doverosa) informatizzazione e modernizzazione degli uffici con la costituzione di sistemi di banche dati non basterà, laddove si stanno perdendo competenze, esperienze e saperi specifici per i quali non viene previsto un ricambio né tantomeno un adeguato percorso di affiancamento tra nuovi assunti e funzionari anziani. Ma quale sarà l'impatto che deriverà - sugli uffici così indeboliti e, ovviamente, sull'intero sistema della tutela sul territorio - dalla progressiva attuazione delle novità normative introdotte dal governo negli ultimi 18 mesi in ordine alle grandi opere e all'edilizia residenziale e non residenziale? Primo: è stata anzitutto concessa alle amministrazioni la possibilità di richiedere il riesame di tutti i pareri rilasciati, attraverso l'operato delle commissioni regionali (introdotto dal decreto art bonus e definitivamente reso operativo dalla riforma Mibact di cui al DPCM 171/2014 e successivi decreti attuativi. Secondo: le disposizioni contenute nella legge Madia e i suoi primi decreti attuativi del 25 gennaio 2016 hanno confermato che la "velocizzazione" dei pareri, la semplificazione delle procedure producono effetti sciagurati, a partire dal famigerato silenzio/assenso che il governo Renzi ha esteso per la prima volta (dopo anni in cui la sinistra si opponeva fieramente e con successo ad analoghi tentativi da parte dei governi di centro destra) alla materia dei beni culturali e del paesaggio. Terzo: le modifiche delle norme sul funzionamento della conferenza dei servizi, già introdotte,col decreto Sblocca Italia per alcune categorie di interventi e rese permanenti ed estese con la legge Madia. In tal modo si istituisce una sorta di livello superiore decisionale quando permangano diversità di vedute nei pareri degli enti preposti alla tutela e delle amministrazioni locali. Esaminiamoli nel dettaglio. Ecco che allora la commissione regionale, composta dai dirigenti Mibact della regione, può ricevere la richiesta di pubbliche amministrazioni di riesaminare qualunque parere o atto emanato dalle Soprintendenze entro 3 giorni dal ricevimento. La commissione deve esprimersi entro 10 giorni.

Considerando che la riforma attribuisce alla commissione gran parte dei compiti che prima spettavano al direttore regionale (conclusione dei procedimenti) e che per questo la commissione deve naturalmente prevedere riunioni molto frequenti, è evidente che gli obblighi connessi al riesame dei pareri richiederebbero convocazioni ravvicinatissime, con carico di lavoro soprattutto per i dirigenti che operano in città diverse (e costi di missioni). Quindi: un ufficio lavora per settimane o mesi per produrre un parere o un atto (p.es. un vincolo), il Soprintendente lo firma e lo inoltra alla commissione per l'emanazione del provvedimento finale, la commissione si riunisce, lo approva ed emana il decreto, il comune lo riceve e entro tre giorni chiede il riesame, la commissione deve nuovamente riunirsi entro dieci giorni per valutare la richiesta e confermare o sconfessare se stessa ed emanare di nuovo l'atto (uguale o modificato). Tutto ciò moltiplicato per tutti in pareri o atti che possono risultare in contrasto con le volontà delle amministrazioni locali.

Il silenzio assenso della legge Madia, operativo dallo scorso mese di agosto, si riferisce ai soli pareri "endoprocedimentali", cioè quelli in cui gli uffici Mibact sono chiamati ad esprimersi nell'ambito di procedure tutte in capo alle amministrazioni locali. Salvo pochi casi (cartelli pubblicitari o occupazioni di suolo pubblico nei centri storici) esse riguardano essenzialmente la tutela paesaggistica e comprendono (attenzione!) tutte le procedure che pervengono ai Comuni da parte dei privati e che i Comuni trasmettono alle Soprintendenze per il nulla osta. Quindi si tratta di un silenzio/assenso che non mira, come si è detto, a semplificare e velocizzare i rapporti tra amministrazioni, ma di fatto apre un percorso preferenziale agli interessi dei privati.

Non basta. Infatti le autorizzazioni paesaggistiche "ordinarie" - quelle dei cittadini che correttamente presentano i progetti e chiedono il previsto nulla osta prima di costruire - già godono di una forma di silenzio/assenso, addirittura più "conveniente", visto che il codice prevede che se la Soprintendenza non si esprime, già al 60° giorno il Comune può procedere autonomamente. V'è di più e di peggio. La nuova norma risulterebbe avvantaggiare realmente, con un automatismo difficile da controllare, soltanto coloro che devono/vogliono regolarizzare una illegittimità che prima d'ora poteva essere sanata unicamente con un espresso parere positivo della Soprintendenza. Nessuna abdicazione alla tutela, è stato detto, ma solo la previsione che la tutela venga esercitata in tempi certi e rapidi, ma perché ciò viene introdotto proprio per i reati edilizi? E quale rapidità si può ragionevolmente invocare da uffici ridotti ai minimi termini, sepolti sotto montagne di pratiche molto complesse che richiedono ricerche e sopralluoghi, normalmente 5-10 pratiche a testa per giorno lavorativo, addirittura 79 pratiche al giorno (parola dell'ex direttore generale Roberto Cecchi) alla Soprintendenza di Milano?

Le norme della legge Madia prevedono anche un "estremo appello", se tutti gli espedienti dei punti precedenti dovessero fallire e/o trovare una Soprintendenza "pronta ed efficiente" e una commissione compatta del difendere i pareri espressi: è il passaggio che prevede, in caso di mancato accordo tra amministrazioni statali, l’intervento del Presidente del Consiglio – su deliberazione del Consiglio dei Ministri - nel definire le modifiche al provvedimento. Infine, le nuove norme in materia di conferenza dei servizi prevedono la partecipazione di una sola figura in rappresentanza di tutti gli uffici statali. E' ovvio che tale unificazione in un solo rappresentante riduce ad uno anche il peso di un eventuale voto nella conferenza dei servizi. Qui emerge una evidente anticipazione del previsto progetto (riforma Madia della P.A.) di unificare sotto le Prefetture tutti gli uffici delle amministrazione statali sul territorio, a partire dalle Soprintendenze.

Una proposta storicamente e culturalmente scandalosa, una regressione complessiva mai vista a ben prima delle leggi della Repubblica (articolo 9) e seguenti, a ben prima delle stesse leggi bottaiane del 1939, per non parlare di quelle giolittiane. Le Soprintendenze come Sottoprefetture alla antica e autoritaria maniera sabauda. E pensare che la rete delle nostra tutela era ammirata e "copiata" da altre importanti Nazioni. Dunque, le disposizioni della legge Madia, presentate come norme moderne volte a perseguire obiettivi di semplificazione e velocizzazione delle procedure amministrative per garantire “il diritto dei cittadini ad avere risposte certe nei tempi previsti dalla legge” e “costringere le amministrazioni a prendersi la responsabilità delle proprie decisioni”, in realtà per quanto attiene al campo dei beni culturali e paesaggistici finiscono per agevolare quegli interventi realizzati (più da soggetti privati che da amministrazioni pubbliche) in aree tutelate in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica. Situazioni di illegittimità che a volte finora non sarebbero neanche sanabili per legge. Allarme "rosso".

Si pensi che fra 1996 e 2005, cioè prima dell'ultima lunga recessione, i Comuni hanno autorizzato bel 3,2 miliardi di metri cubi di nuova edilizia, con consumi pazzeschi di suoli e di paesaggi. Continuiamo infatti a "mangiarci" 8 mq di suoli liberi al secondo, cioè un'area grande come quella di Napoli in solo cinque mesi. Siamo esattamente al triplo del consumo medio di suolo in Europa: 6,8% contro 2,3%. In sostanza si potrebbe paradossalmente affermare che il Ministero si trasformerà in una grande (speriamo) Agenzia Viaggi per il Turismo Culturale, mentre la tutela o quel po' che ne rimane sarà affidata alla mano prudente dei Prefetti sotto i quali andranno a collocarsi le Soprintendenze ridotte - secondo la riforma Madia - a Sottoprefetture. Difatti Franceschini è subito passato con una "normetta" nascista nelle pieghe della legge di stabilità (ormai si "riforma" così") all'accorpamento delle varie Soprintendenze - archeologia, belle arti e paesaggio - in un solo organismo.

Riforma tentata nel 1923 e poi abbandonata dallo stesso fascismo che per bocca del ministro Giuseppe Bottai sostenne che in tal modo venivano frustrate e sacrificate le competenze specifiche degli archeologi, degli storici dell'arte, degli architetti e varò nel 1939 le leggi n. 1089 sul patrimonio artistico e 1497 sul paesaggio, ottime leggi, molto centraliste certo, che però, rese costituzionali, sono servite per anni a tutelare il Belpaese. Così accorpate e depotenziate (in un autentico caos per l'attribuzione degli uffici, degli archivi cartacei e fotografici, ecc.), le Soprintendenze potranno rientrare più docilmente sotto i prefetti e magari sotto il Ministero dell'Interni dove del resto è già allocato il Fondo per l'Edilizia di Culto, l'unico organismo che ha soldi e che si occupa delle centinaia di chiese (pochi lo sanno) di proprietà dello Stato dall'Unità d'Italia, soltanto a Roma SS Apostoli, Chiesa Nuova, Sant'Ignazio, Gesù, Caravita, Sant'Andrea al Quirinale, San Marcello al Corso, Santa Sabina e tante altre.

Questi accorpamenti avvengono per aree oltretutto disegnate nel modo più improvvisato: Bologna si vede staccata dalla Romagna e da Ferrara alle quali è sempre stata storicamente e culturalmente legata, per essere collegata con Modena e Reggio Emilia con le quali non ha grandi rapporti. Una follia che sta suscitando la protesta generalizzata degli archeologi soprattutto, giustamente orgogliosi della loro "specificità", i quali formarono la prima divisione generale (delle Antichità) nel corpo del Ministero della Pubblica Istruzione a fine Ottocento. Ma un sia pur sintetico passaggio devo dedicarlo al capitolo da anni doloroso del personale del Ministero che in certe inchieste giornalistiche dilettantesche viene in partenza considerato "pletorico". Esso in realtà deve tutelare, conservare, custodire, gestire direttamente o avere sotto controllo indirettamente circa 2 mila aree e siti archeologici (dei quali 740 statali), 95 mila fra chiese e cappelle di cui 85.000 vincolate e circa 2500 "nazionalizzate" (e nel Sud le chiese sono i veri musei di pittura e scultura), più di 7o antiche sinagoghe, oltre 4 mila musei dei quali 700 statali, 1500 civici e 700 ecclesiastici, 40 mila fra torri e castelli, migliaia di archivi, pubblici e privati (25mila parrocchiali e altri 3 mila fra diocesani, seminariali, capitolari, di congregazioni) e di biblioteche antiche, oltre 20 mila centri storici dei quali almeno mille straordinari, circa 141 mila Kmq di territorio vincolato in forza delle leggi Bottai e Galasso (il 47 % del territorio e del paesaggio italiani) e via elencando.

Nel 2010 i dipendenti del Mibact erano 21.242. Alla fine del 2011 se ne contavano 19.545 con un calo generalizzato di 1.697 unità (- 8 %) fra esodi e pensionamenti non ricoperti. Alla fine del 2014 il numero dei dipendenti dal Mibact è sceso ancora: esattamente a 18.209 (- 1.636 unità - 8,3 %). Nel quadriennio in esame i dipendenti si sono ridotti di 3.033 unità con una calo percentuale del 14,3 %. Neppure dove gli introiti sono da primato come al Colosseo dove si incassa un terzo di tutte le entrate dei Musei statali: dalle ingenerose polemiche contro i custodi è emerso che gli stessi sono 27 a pieno organico per un pubblico ordinario sulle 10-12.000 unità che diventano anche 25-30.000 nelle tanto vantate domeniche gratuite. Con lo sconvolgimento portato dalle "riforme" renziane le forze in campo per la tutela si riducono ancor più. Comunque già prima di esse avevamo 487 architetti in tutta Italia per vigilare sul territorio vincolato che si è appena detto, cioè un architetto ogni 290 Kmq. Nei nostri archivi statali c'erano 2.761 addetti di cui 365 archivisti di Stato-direttori. Il solo Royal Archive di Londra può contare su 90 archivisti e su un personale complessivo di 530 unità. Nel 2000 il bilancio consuntivo del Mibac registrava risorse pari allo 0,39 % del bilancio dello Stato.

Nel 2013 le risorse costituivano lo 0,19 %, con un pratico, disastroso dimezzamento delle risorse in tredici anni. Cali continuati inesorabilmente. Per il prossimo esercizio, in extremis, il governo ha operato una prima inversione di tendenza riportando la spesa prevista quasi ai livelli del 2000 (governi D'Alema e Amato). In termini assoluti, non in percentuale sul bilancio dello Stato e senza recuperare l'inflazione. Tuttavia è prevedibile che i milioni di euro previsti in più rispetto agli ultimi esercizi vengano dirottati sulla valorizzazione e quindi soprattutto sui Musei di eccellenza a discapito della tutela e dei piccoli e medi musei. Per il progetto - tipico della cultura-spettacolo o turbo-cultura - del ripristino dell'Arena Colosseo voluto con grande energia dal ministro - si prevedono (senza contare, temo, le spese indispensabili per regimare le acque del sottosuolo, impetuose, anzi irrefrenabili, per ora, con le grandi piogge) ben 18 milioni di euro coi quali si potrebbero, ad esempio, acquisire e restaurare tanti siti e monumenti oggi non curati della mirabile Appia Antica ancora privata al 90 e più per cento. Per l'Appia poi, la "normetta" Franceschini, ha previsto di creare un Parco archeologico che non avrebbe (il condizionale è d'obbligo) funzioni di tutela bensì di valorizzazione del comprensorio. Per trasformarlo in una sorta di "parco ludico-sportivo-turistico" magari a pagamento? E' probabile.

E contro di esso si è svolta sabato 13 febbraio una grande marcia alla quale hanno partecipato 500 persone. Potevano e dovevano dunque razionalizzare, modernizzare, potenziare il Ministero e le sue articolazioni territoriali a beneficio di tutti, del Belpaese. Hanno invece sconvolto l'esistente, già debole e povero di mezzi e di tecnologie, introducendo non il "nuovo", ma il caos. Da anni ci aspettiamo il peggio, fin dalla Giornata di protesta nazionale che organizzammo - Bianchi Bandinelli, Assotecnici e Comitato per la Bellezza - con l'indimenticabile Beppe Chiarante esattamente dieci anni fa, l'11 novembre 2005 in pieno berlusconismo. Ma non pensavamo che sarebbe sopraggiunta questa slavina a sconvolgere tutto e a scomporre il Ministero, già tanto indebolito, in una sorta di Agenzia Viaggi e Turismo e in tante Sottoprefetture soggette ai prefetti, cioè al Viminale.

Con tutto ciò, continueremo instancabilmente a denunciare guasti e a proporre ragionevoli soluzioni, come ci hanno insegnato a fare i nostri maestri e fratelli maggiori. Come Beppe Chiarante appunto.

La succosa introduzione a un libro collettaneo che racconta come nelle città italiane (non a caso l'esempio scelto è Firenze, cavia dello stregone Renzi) i declina l'idea di città del neoliberismo e come un pugno di urbanisti può animare una molteplice attività di resistenza

Urbanistica resistente nella Firenze neoliberista, perUnaltracittà 2004-2014, a cura di Ilaria Agostini, AIÒN edizioni 2016, €18,00

UN'ALTRA IDEA DI CITTÀ
L’urbanistica neoliberista provoca resistenza popolare. Alla rappresentazione ufficiale delle politiche urbane si contrappone, in queste pagine, il racconto corale e antagonista di cittadine e cittadini, comitati ed esperti critici, uniti a Firenze nel “Gruppo Urbanistica” che ha fornito il sostegno tecnico alla lista di cittadinanza “perUnaltracittà”[1], per due legislature all’opposizione in Consiglio comunale.

Due legislature, dal 2004 al 2014: anni in cui, a livello planetario, si accresce per poi deflagrare, la “bolla” edilizia. Favorita, in Italia, dalla diminuzione dei trasferimenti statali ai comuni e dall’opera demolitoria di Franco Bassanini che, a cavallo del millennio, da una parte incrementava a dismisura il potere nelle mani dei sindaci, mentre dall’altra rendeva possibile riversare gli oneri di fabbricazione nella spesa ordinaria dei comuni. Lo scivolamento progressivo dal welfare state al real estate si traduce in una nuova fase di cementificazione, interpretata a livello nazionale come unica risposta alla penuria di cassa dai comuni sempre più poveri. In epoca di dismissione industriale conclamata, l’economia peninsulare si orienta francamente sul mattone. La città diventa un grosso affare economico, i valori immobiliari aumentano e sulla loro crescita si fonda il consenso politico.

Il «lucido disegno derogatorio» perseguito dagli anni Novanta[2], corrobora l’attività speculativa nell’edilizia. La contrattazione pubblico-privato nel decennio è prassi consolidata che immediatamente si trasforma in arbitrio e che sistematicamente – e legalmente – piega l’interesse comune a quello dei particolari. Il mestiere dell’urbanista, puntualizzava recentemente Edoardo Salzano, si trasforma in «facilitatore delle operazioni immobiliari». Dal canto loro, strette nella morsa del sistema finanziario, le imprese edili – che accedono al credito sulla base del capitale fisso (ossia del costruito) – costruiscono per poter continuare a costruire: è un circolo vizioso. Con un milione di nuovi alloggi invenduti[3], il consumo di suolo in Italia doppia generosamente la media europea. Lo scenario muta quando nel 2008, facendo seguito alla crisi dei mutui subprime, il mercato immobiliare crolla e i prezzi al metro quadro arrivati alle stelle, cadono in picchiata.

Firenze è per l’intero decennio il banco di prova per il grande cantiere politico nazionale. Nel 2004, alla Provincia è eletto presidente in quota democristiana (Margherita) Matteo Renzi, ignoto trentenne, che diventerà sindaco nel giugno 2009 raccogliendo il testimone da Leonardo Domenici (Ds-Pd) ma cedendolo per occupare Palazzo Chigi, pochi mesi prima della naturale scadenza. Nella città toscana sono messe in atto le politiche che dal febbraio 2014, in qualità di presidente del Consiglio dei ministri, il “sindaco d’Italia” estenderà dalla scala urbana all’intero paese[4]: concentrazione del potere e svilimento del ruolo degli organi collegiali, velocità decisionale e forzatura delle norme, propaganda in luogo della pianificazione, obliterazione del dato sociale in nome del nuovo, del brand e dello smart. E apologia della tabula rasa.

La città iniqua

Nel decennio, la pianificazione urbanistica rinuncia ai suoi compiti statutari ed è diffusamente percepita come anacronistica limitazione al finanzcapitalismo fondato sul «mattone di carta». Le politiche urbane si allineano al paradigma neoliberista che vuole l’1% arricchito a spese del restante 99%. Sintetizzato da Joseph Stiglitz nel 2011 nella formula fatta propria dal movimento di Occupy Wall Street («We are the 99%»), il paradigma produce “centri” – cittadelle del potere, fortificate e interconnesse da comunicazioni ad alta velocità – e “periferie” sempre più estese e distanti dai luoghi della politica[5], nelle quali i cittadini, lo registra in queste pagine Maurizio De Zordo, sono espropriati del naturale «diritto alla città»[6].

Non solo. L’urbanistica si rende “mezzo politico” capace di trasformare i quartieri in territorio di conquista da parte di quel segmento finanziario che non intrattiene «alcun legame con i luoghi in cui la ricchezza si produce»[7]. L’urbanistica diventa «qualcosa che può essere quotato in borsa, giocato con la stessa logica dei “derivati” su proiezioni del futuro»[8]. Si fa tossica. Alligna tra la debolezza dell’amministrazione e la miopia della speculazione finanziaria. Acceca i politici cui offre scenari a prospettiva raccorciata. In questa temperie si generano i disastri dei fallimenti comunali che alcuni critici denunciano da tempo[9].

Così, le «città infelici del neoliberismo» diventano sempre più estese e più ingiuste. All’aumento della superficie urbana segue infatti l’incremento delle spese – a tempo indeterminato – per la costruzione e la manutenzione delle infrastrutture di servizio e per i trasporti. Più la città cresce, più si indebita facendo ricorso agli strumenti finanziari che deliberatamente rompono il patto sociale su cui si fonda la vita civile (i debiti a lunga scadenza intaccano peraltro anche il patto generazionale). I bilanci comunali vacillano. Il rientro dal debito – nel segno dell’“austerità” – crea nuove sofferenze urbane nelle «periferie dolenti». A Firenze la polarizzazione delle risorse economiche nell’1% dello spazio urbano, tirato a lucido e usato come mero strumento di accumulazione e finanziarizzazione, ha valenza didascalica: a dispetto della propaganda renziana basata sulla necessità di un ribaltamento del vecchio sistema economico-politico che erodeva risorse a danno dei “giovani”, il «restyling» di via Tornabuoni fortemente voluto dallo stesso Renzi, è stato finanziato con un mutuo a lungo termine. Proprio il contrario di quanto sbandierato nei salotti televisivi.

«Tutto quello che vedi è in vendita», ricordava uno striscione sulla ringhiera del piazzale Michelangelo da cui si offre la vista di una città ridotta a puro valore di scambio. La mercificazione si attua prioritariamente attraverso la svendita del patrimonio edilizio pubblico e l’abdicazione al controllo della trasformazione di quello privato. La cittadinanza viene espropriata del fondativo diritto alla proprietà collettiva, osso della società civile e speranza per la sua rifondazione come avverte da anni Paolo Maddalena[10].

L’alienazione degli edifici pubblici rientra tra i principali elementi di pauperizzazione delle città italiane. Nel solo centro storico fiorentino sono centinaia di migliaia i metri quadri in vendita e in trasformazione, spesso in edifici di valore monumentale dei quali è negata la disponibilità sociale, come illustra Daniele Vannetiello nel saggio dedicato alla Firenze intramuros. La loro vendita vede tra i maggiori acquirenti una compiacente Cassa depositi e prestiti Spa (su cui ritorna Berdini nel capitolo che segue) e nel post-Renzi assume i toni grotteschi del “Florence, city of the opportunities” (sic): operazione propagandistica che vede il neosindaco Nardella vestire l’abito dell’agente immobiliare per promuovere edifici pubblici (ma anche privati) presso le fiere internazionali del real estate. È la parodia della politica urbana, che si sovrappone al mercato immobiliare, e con esso coincide.

I servizi alla cittadinanza, mercificati e privatizzati, drenano enormi ricchezze pubbliche. Rappresentano un non secondario aspetto della città iniqua: forniscono servizi peggiori ai cittadini più “periferici”, mentre costituiscono uno dei favoriti finanziamenti occulti della politica. La privatizzazione dell’Ataf, il servizio comunale di autotrasporti pubblici fiorentini, ha avuto forti ripercussioni sulla qualità della vita cittadina. Ma il presidente della società, privatizzata nel 2012, è ora amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato. Mobilità sociale.

Sulla mobilità veicolare si concentra in effetti il progetto “pubblico” della città, più futurista che moderno. Sottolineava Enzo Scandurra, in un recente dialogo, che l’urbanistica fiorentina si riduce ormai a due soli elementi: l’aeroporto e il sottoattraversamento Tav. Il nuovo aeroporto, fortemente voluto da Renzi presidente del Consiglio[11], adombra per mole di affari il grande nodo irrisolto della lottizzazione di Castello, come spiega nel suo saggio Antonio Fiorentino. Della resistenza civile e dei controprogetti “dal basso” al passaggio sotto Firenze del treno ad alta velocità parlano in questo libro Tiziano Cardosi e Alberto Ziparo, dando testimonianza, l’uno, del lavoro di costruzione corale del sapere critico nel comitato No Tunnel Tav, e l’altro, dell’impegno di un docente di urbanistica organico al movimento.

La città desacralizzata

A Firenze – palcoscenico del “nuovo” nazionale – è fatto abuso dei concetti di città creative e smart, invenzioni strumentali all’urbanistica «ossessionata dal marketing». Le une, le creative cities, ridicolizzano l’autorappresentazione urbana tramite un “brand”, creato espressamente per la competizione globale tra città che aspirano a collocarsi in classifiche di attrattività internazionale (per sedi di expó, olimpiadi o capitali della cultura, e per gli agognati “investimenti stranieri”). In esse, eventi e grattacieli sono icone che uccidono i simboli autocostruiti. Ognuna singolarmente, ognuna alienata dal contesto, le nuove icone sono messe in campo per mascherare l’obliterazione del dato sociale nelle politiche urbane. La civitas è sostituita con un simulacro vendibile: in questa logica, nel 2012, l’affitto del Ponte vecchio ad un sodale politico del sindaco, prima dell’arrampicata a palazzo Chigi, passa come atto di normale amministrazione.

Dal canto loro, invece, le smart cities – città furbette più che intelligenti, stigmatizzava Franco Farinelli[12] – incarnano il sogno delle città informatizzate: i problemi del traffico, della “sicurezza” o quelli ambientali, ognuno a sé stante, sono rimandati agli esperti di settore. Urbanisti e piani possono essere buttati al macero. In fondo, lo si è già detto, gestire la città secondo i principi neoliberisti, comporta la «de-significazione» del piano urbanistico. Nel caso fiorentino, il Piano strutturale (2011) e il Regolamento urbanistico (adottato nel 2014) – ormai privi del significato di “progetto comune sullo spazio comune” – eludono la materia pianificatoria e, infarciti di proclami, rifuggono una “narrazione” che possa contribuire al disegno della città futura.

Gli strumenti approvati o concepiti nel decennio si inviluppano nella triade «mixité sociale-governance-sviluppo sostenibile»[13], valida per lenire tutti i mali della città globale, che a Firenze si declina: nel «mix di funzioni» (funzioni che tuttavia sarà il privato a determinare, come approfondiamo nel saggio dedicato ai Piani neoliberisti); nella partecipazione (risolta nella farsa dei «facilitatori del consenso»); negli ammiccamenti a una “natura in città” (lo studio delle relazioni profonde dell’ecosistema urbano è tuttavia accuratamente evitato). In contrapposizione alle “scelte” di piano del tutto avulse dal contesto ambientale e impermeabili ai suggerimenti morfologici offerti dai luoghi, Roberto Budini Gattai offre in queste pagine soluzioni convincenti e non prive di fascino. Mentre Giorgio Pizziolo costruisce l’ipotesi a scala territoriale della «città/paesaggio» nella quale le relazioni ecologiche – ambientali, soggettive, sociali – guidano il progetto futuro di una città come «luogo vivente».

Il «bacio mortale»[14] dell’Unesco – che dal 1982 ha inserito nel world heritage il centro storico di Firenze – completa il quadro della desacralizzazione urbana nel segno della monocultura economicista. Il turismo, inesauribile «cash machine», estrae beni territoriali e li reinveste nelle cittadelle della finanza mondiale. Il tessuto della città storica è sottoposto a una pressione insostenibile che, ancora una volta, produce risultati nel segno dell’iniquità. La città dell’1% si realizza prioritariamente sull’espulsione dei residenti. Il centro da offrire ai media come immagine del successo del sindaco e della riuscita della città nella “competizione globale” è stato – da tempo – sterilizzato: via residenti e luoghi di aggregazione, via le bancarelle e via anche le macchine (oggi l’espulsione si attua anche attraverso una pedonalizzazione cui non faccia seguito un buon servizio di trasporto pubblico). Nei quartieri storici limitrofi al “salotto buono”, il processo di imborghesimento – nella letteratura di settore, processo definito «gentrificazione» – è in atto, e si realizza nella formula che fa coincidere il rinnovamento dei settori urbani con il rinnovamento dei residenti[15]. Laddove invece la concentrazione di popolazione migrante impedisce l’innalzamento di rango e di valore immobiliare dei quartieri centrali, la risposta dell’amministrazione risiede nell’adozione di soluzioni securitarie: l’illuminazione violenta di stile carcerario e le videocamere periferizzano alcuni settori della Firenze duecentesca (quartiere di San Lorenzo, via Palazzuolo). È l’altra faccia del modello centro-periferico che relega l’«umanità eccedente»[16] in aree non necessariamente remote.

La città felice?

Il capitalismo dalle nuove fattezze, del money by money, ha una sua precisa idea di città e di governo delle cose urbane. Una città mercantil-proprietaria che, individualista, indifferente alle relazioni ecosistemiche, nega la presenza attiva della cittadinanza che si autodetermina, ne nasconde i corpi, cancella le pratiche urbane con cui «gli abitanti usano e vivono lo spazio, e al contempo [...] gli attribuiscono un significato e un valore simbolico»[17]. Nel capoluogo toscano un esempio, forse minore, è tuttavia indicativo: il Mercato centrale, trasformato in una batteria di ristorantini bobó (bourgeois-bohème), non risponde alla richiesta diffusa nel quartiere di luoghi di assemblea e di riunione, di cui la città di Renzi-Nardella è sempre più avara.

La città comune – lo spazio urbano, le strade, le piazze, gli edifici collettivi, il suo paesaggio e la sua corona agricola – è gestita in stile privatistico, “valorizzata” con i metodi classici della produzione capitalista e i più moderni del turbocapitalismo. L’urbanistica neoliberista cala la maschera. Si accanisce sui luoghi di sperimentazione creativa, sociale e di «welfare dal basso», su ogni pratica di appropriazione collettiva di luoghi dismessi e oggi nuovamente appetiti. La sua fisionomia autoritaria si tratteggia nitida ogni volta che la legalità di un vuoto piano urbanistico viene a prevalere sulla legittimità di usi pluridecennali, autorganizzati, a servizio di quartieri poveri di luoghi di aggregazione.

Le autrici e gli autori dei saggi contenuti nel presente volume sono, oltre che narratori, protagonisti di quella decennale sperimentazione di ipotesi teoriche ed operative che abbiamo definito “urbanistica resistente”: un complesso di azioni animate dalla riflessione critica – di segno politico-tecnico, ecologico ed antropologico – sull’involuzione neocapitalista della città e sullo smantellamento in atto delle basi stesse della civiltà urbana. La loro esperienza dà linfa alla convinzione che sia ancora possibile progettare una città della gioia, una città felice. Un progetto che implica la costituzione di una nuova civitas avvertita delle relazioni col territorio, che dia spazio al mutualismo senza soffocare i conflitti, che incoraggi l’autorganizzazione e l’autogoverno delle risorse naturali, economiche e demiche[18]. In questo progetto tutti sono chiamati all’impegno in prima persona, ad essere il corpo vivo della città, presente nelle piazze e nei luoghi di rinascita collettiva, e a sostenere pratiche di cura e di accoglienza per rafforzare le convivenze possibili e ricostruire il legame sociale indebolito. Impegno non limitato, come talvolta accade, a mantenere «vivi certi tesori del passato e certi presentimenti del futuro», ma capace – sono ancora parole di Simone Weil – di rifondare «città umane [che...] avvolgono di poesia la vita di coloro che vi abitano»[19]. A partire da questa resistenza corale si invera l’altra idea di città.

Il libro è stato discusso e progettato collettivamente dal Gruppo Urbanistica della lista di cittadinanza perUnaltracittà (Puc). I suoi capitoli descrivono il quadro teorico e politico, le vicende urbanistiche, l’impegno e il lavoro di opposizione, le ipotesi progettuali condivise. Ma il libro non mira a raccontare dieci anni di storia urbanistica. Esso registra i modi della resistenza vissuta e ne delinea quelli futuri, raccoglie i risultati di una ricerca-azione di durata decennale che ha favorito e messo a frutto capacità relazionali e competenze nell’ascolto, abilità pratiche e organizzative con attenzione al calendario politico etc. Così la narrazione, da una parte, affonda nella memoria personale e collettiva, mentre dall’altra attinge alle fonti documentarie consentanee alla ricerca in urbanistica. Ossia alla produzione del Comune (delibere, atti, determine etc.) e ai piani urbanistici (studiati con attenzione e puntualità anche per la loro traduzione alla cittadinanza attiva “non esperta”); all’informazione a stampa; alla controinformazione. E, infine, sui materiali autoprodotti per l’opposizione in Consiglio: dai comunicati stampa alle pubblicazioni cartacee e digitali, disponibili sul sito della lista consiliare.

Il sito è tutt’oggi attivo e costantemente aggiornato dal “Gruppo Comunicazione”: nelle pagine del libro, Cristiano Lucchi ne rivela i segreti che non di rado hanno permesso di far breccia nel muro di silenzio dell’informazione ufficiale. Maurizio Da Re, segretario “in palazzo”, estrae dalla mole documentaria prodotta quegli atti consiliari, interrogazioni e domande di attualità che hanno avuto maggiori ripercussioni sull’andamento della politica cittadina, dando talvolta vita a vicende trasposte nelle aule del tribunale. Infine, lo spirito dell’azione politica della lista è illustrato dalla consigliera Ornella De Zordo che ha instancabilmente intessuto relazioni tra il palazzo, i quartieri cittadini e il territorio metropolitano, mettendo in rete l’esperienza fiorentina con le analoghe che cominciavano a dispiegarsi a scala nazionale.

Note

[1] Per agevolare la lettura, con “perUnaltracittà” (o con la relativa sigla Puc) denominiamo la lista consiliare nell’intero periodo in esame, benché nella prima legislatura (2004-2009) essa assumesse il nome di “Unaltracittà/Unaltromondo”.
[2] Cfr. Sergio Brenna,
La strana disfatta dell’urbanistica pubblica. Breve ma veridica storia dell’inarrestabile ma controversa fortuna del «privatismo» nell’uso della città e del territorio, Maggioli, Santarcangelo di Romagna, 2009. Sulla perdita della titolarità pubblica nel governo del territorio si veda anche Edoardo Salzano, Vent’anni e più di urbanistica contrattata, in Maria Pia Guermandi (a cura di), La città venduta, atti del convegno (Roma, 6 aprile 2011), Italia Nostra, Gangemi, Roma, 2011, pp. 24-38.
[3] Cfr. Paolo Berdini,
Le città fallite. I grandi comuni italiani e la crisi del welfare urbano, Donzelli, Roma, 2014.
[4] Cfr., oltre al mio
Pianificar twittando, “il manifesto”, 3 aprile 2014, la prefazione di Ornella de Zordo a Riccardo Michelucci, Guida alla Firenze ribelle, Voland, Roma, 2016.
[5] «Più l’economia si internazionalizza, più le funzioni centrali si concentrano: è la dinamica della città globale» (Saskia Sassen,
La ville globale, “Le Débat”, n. 80, 1994), cfr. anche Jean-Pierre Garnier, Un développement insoutenable. Sécuriser o rassurer?, “L’homme et la société”, 2005, n. 155, trad. it. in Ilaria Agostini, Daniele Vannetiello (a cura di), La conversione dell’abitare. Comunità, fertilità, sapienza, “L’Ecologist italiano”, Lef, Firenze, 2015, pp. 68-83.
[6] Il riferimento è al classico Henri Lefebvre,
Le droit à la ville, Anthropos, Paris, 1968. Un’analisi marxista degli effetti del neocapitalismo sull’ambiente urbano è in David Harvey, Il capitalismo contro il diritto alla città. Neoliberismo, urbanizzazione, resistenze, Ombre Corte, Verona, 2012.
[7] Paolo Berdini,
Quali regole per la bellezza della città?, “Casa della cultura”, 22 gennaio 2016, http://www.casadellacultura.it/paglaboratorio.php?id=257

[8] Franco La Cecla, Contro l’urbanistica, Einaudi, Torino, 2015, p. 41.
[9] Ad esempio in Berdini,
Le città fallite cit.; cfr. anche il mio La borsa valori dell’urbanistica, “il manifesto”, 22 aprile 2015.
[10] Cfr. Paolo Maddalena, I
l territorio bene comune degli italiani. Proprietà collettiva, proprietà privata e interesse pubblico, Donzelli, Roma, 2014.
[11] Cfr. Ilaria Agostini,
Le dieci cose da sapere sull’aeroporto di Firenze, “La Città invisibile”, 8 luglio 2015, n. 24.
[12] Franco Farinelli,
Bologna che ha perso la memoria, “il manifesto”, 13 marzo 2014, di prossima ripubblicazione in un libro collettivo a cura di Piero Bevilacqua e della scrivente.
[13] Jean-Pierre Garnier,
Une violence éminemment contemporaine. Essais sur la ville, la petite bourgeoisie intellectuelle & l’effacement des classes populaires, Agone, Marseille, 2010, p. 11.
[14] Cfr. Marco D’Eramo,
Unescocide, “New Left Review”, 2014, n. 88, pp. 47-53.
[15] Così in Anne Clerval,
Paris sans le peuple. La gentrification de la capitale, La Découverte, Paris, 2013. Sul tema si veda anche il più recente Giovanni Semi, Gentrification. Tutte le città come Disneyland?, il Mulino, Bologna, 2015.
[16] Enzo Scandurra,
Un paese ci vuole. Ripartire dai luoghi, Città aperta, Troina, 2007, p. 108.
[17] Carlo Cellamare,
Autorganizzazione e vita quotidiana. Storie di città, a Roma, in Id., Roberto De Angelis, Massimo Ilardi, Enzo Scandurra, Recinti urbani. Roma e i luoghi dell’abitare, manifestolibri, Roma, 2014, p. 69.
[18] Rimando alle pagine dedicate a La città in Vandana Shiva (a cura di),
Manifesto Terra Viva. Il nostro suolo, i nostri beni comuni, il nostro futuro, Navdanya International, Firenze, 2015, consultabile su www.navdanyainternational.it.
[19] Risp. Simone Weil,
La prima radice. Preludio ad una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano (1949), SE, Milano, 1990, p. 39 ed Ead., Attesa di Dio (1950), Adelphi, Milano, 2008, p. 138.

Il manifesto e Il Fatto quotidiano, 19 marzo 2016

Il Fatto Quotidiano
ASTENSIONE SULLE TRIVELLE:
LA CEI SCOMUNICA IL PD
di Tommaso Rodano

La scomunica che non ti aspetti ha per protagonisti i vescovi italiani, per oggetto il referendum sulle trivelle e per destinatario, nemmeno troppo implicito, il Partito democratico, che ha invitato i suoi elettori ad astenersi. La Conferenza episcopale non prende posizione per il sì o per il no, ma chiarisce un punto: la gente va coinvolta e informata sull’argomento, non può essere sollecitata ad ignorarlo.

Dopo l’entrata a gamba tesa nel dibattito sulle unioni civili, dunque, i vescovi dicono la loro anche sul voto del 17 aprile, quello che deciderà se cancellare o meno la norma che consente alle società petrolifere di estrarre gas e petrolio entro 12 miglia dalle coste italiane anche oltre la scadenza delle licenze, fino all’esaurimento dei giacimenti. La discesa in campo è stata annunciata dal Consiglio Episcopale Permanente. I vescovi fanno sapere di aver discusso «sulla questione ambientale e, in particolare, sulla tematica delle trivelle» e hanno sottolineato «l’importanza che essa sia dibattuta nelle comunità, per favorirne una soluzione appropriata alla luce dell’Enciclica Laudato si’ di papa Francesco”.
Nel testo di Bergoglio, manifesto dell’ambientalismo cattolico, il Pontefice invita l’umanità a «prendere coscienza della necessità di cambiamenti di stili di vita, di produzione e di consumo, per combattere» il riscaldamento globale. «Perciò - scrive il Papa - è diventato urgente e impellente lo sviluppo di politiche affinché nei prossimi anni l’emissione di anidride carbonica e di altri gas altamente inquinanti si riduca drasticamente». Da qui riparte la Cei.
La posizione è stata ulteriormente specificata dal portavoce, il monsignor Nunzio Galantino: «Non c’è un sì o un no da parte dei vescovi al referendum, ma il tema è interessante e che occorre porvi molta attenzione. Gli slogan non funzionano. Bisogna piuttosto coinvolgere la gente a interessarsi alla questione. Il punto non è esser pro o contro, ma creare spazi di confronto». Esattamente il contrario di quanto indicato dalla maggioranza del Pd, che punta a sabotare il referendum di aprile invitando gli elettori a disertare le urne per far mancare il quorum (il 50%+1 degli aventi diritto).
Anche il mondo laico ieri ha preso posizione sull’argomento. Le voci critiche nel partito di Matteo Renzi non sono esclusiva della minoranza di sinistra (Roberto Speranza ha definito «inaccettabile» la posizione del partito). Tra i più polemici c’è Michele Emiliano, presidente della Regione Puglia (una delle 9 che hanno promosso il referendum). «Sono pronto ad autodenunciarmi agli organi di garanzia del Pd: se ci sarà un ordine di astensione, sarò costretto a non rispettarlo». Emiliano ha raccontato un retroscena: «Ad agosto io e il presidente della Basilicata Pittella abbiamo incontrato il sottosegretario Vicari, a nome delle regioni critiche sul tema delle trivellazioni. Dopo qualche tempo, lo stesso Vicari ci ha comunicato che il governo non aveva più alcun interesse ad affrontare la questione. È stato solo dopo questa porta sbattuta in faccia che diverse Regioni governate dal Pd, a malincuore, hanno chiesto il referendum».
Sulle trivelle è tornato a parlare anche Romano Prodi. L’ex premier, pur senza appoggiare l’astensione, si è augurato il fallimento del quesito referendario: «Se dovessi votare, voterei certamente per mantenere gli investimenti fatti. Su questo non ho alcun dubbio anche perché è un suicidio nazionale quello che stiamo facendo. Quindi se voto al referendum voto no”.
Intanto però i movimenti referendari sono in fermento. E uniscono le forze per tentare la spallata a Renzi: i No Triv, gli insegnanti contro la “Buona Scuola”, i sindacati contro il Jobs Act, i comitati contro l’Italicum e la Riforma Costituzionale. Giovedì si sono incontrati a Milano, ieri a Roma, in una grande assemblea pubblica a cui hanno partecipato circa 300 persone. C’erano i giuristi Alessandro Pace, Massimo Villone, Domenico Gallo, Stefano Rodotà, e poi Maurizio Landini, Stefano Fassina, Moni Ovadia, Pancho Pardi, Sandra Bonsanti e tante altre personalità della società civile e delle associazioni. “Sarà una vera e propria stagione referendaria sia su temi istituzionali, sia su temi sociali – ha spiegato Villone –. Renzi ha paura: vuole frammentare le forze sociali e restringere gli spazi democratici. Bisogna lavorare insieme, senza dividersi, tutti i referendum sono di ognuno di noi: difendere la Costituzione con il No è cruciale, ma da solo non è sufficiente”.

Il manifesto
I NO TRIV: «SI VUOLE IMPEDIRE AI CITTADINI
DI ESERCITARE UN DIRITTO»

di Serena Giannico

«È stato deciso che questo referendum deve fallire!». Il coordinamento No triv della Basilicata risponde alla decisione del Pd, guidato dal premier Matteo Renzi, di boicottare il referendum, puntando ufficialmente sull’astensionismo. Dicendo, chiaramente agli italiani che non devono andare alle urne, il prossimo 17 aprile, perché inutile. I No triv non lesinano accuse. «La strategia imposta dal Governo centrale a un mese soltanto dal voto, - viene detto in una nota - si caratterizza come una squallida scelta dominante, volta a imporre l’ignoranza e dunque l’indifferenza dei cittadini sui problemi posti dai quesiti referendari e dunque ad impedire l’esercizio dei propri diritti».
Indice puntato, quindi, contro la segreteria Pd e i due vice-Renzi, Debora Serracchiani e Lorenzo Guerini. Questi ultimi, snobbando la verità, hanno affermato che se il referendum passa, nel settore del petrolio ci sarà un’emorragia di posti di lavoro. «Roboanti falsità - ribattono gli ambientalisti - ai quali fa da contrappasso l’assoluta assenza di contraddittorio riguardo ai posti di lavoro che, con le perforazioni in mare, si perderebbero nei settori della pesca e del turismo». I comitati denunciano il tentativo di oscurare la consultazione: «L’unico modo per far fallire il referendum del 17 aprile, dopo averle tentate tutte per impedirlo e metterlo in ombra, è quello di nasconderlo all’opinione pubblica.
La parola d’ordine del partito della Nazione è... astensione. Astensione degli italiani dal voto e prima di questo astensione delle televisioni, delle radio, dei giornali, dalla discussione e dalla campagna referendaria. Astensione anche da ogni pratica democratica di discussione e consenso. A tanto si è ridotta la democrazia in Italia. Il tutto a discapito della salute, delle bellezze e della ricchezza dei nostri territori».
E tra le Regioni? Che succede? «La Puglia pare sia l’unica, al momento, - affermano i No triv - che con Emiliano ha iniziato, insieme alla campagna elettorale per il Sì, anche una campagna per stanare l’ipocrisia di un partito. Ma cosa sta facendo il “governatore” Pittella per questo referendum? Cosa stanno facendo i politici lucani?». I No Triv della Basilicata si rivolgono anche alla minoranza dem, in particolare a Massimo D’Alema, Pier Luigi Bersani e Roberto Speranza: «Cosa stanno facendo di concreto per il Sì? In che modo si stanno distinguendo da quanti stanno lavorando per il silenzio, per l’ignoranza, per la rassegnazione, per l’astensione di milioni di elettori?».

il manifesto e Il Fatto Quotidiano, 18 marzo 2016 (m.p.r.)



Il manifesto
I GUARDIANI DELLE TRIVELLE

di Andrea Fabozzi

«La minoranza dem protesta: “Chi ha deciso per l’astensione sul referendum?”. Durissima replica dei vicesegretari Serracchiani e Guerini: «Noi. E vedremo in direzione chi ha i numeri per usare il simbolo del partito”».

«L’astensione è la scelta dei gruppi dirigenti, non dei cittadini, militanti ed elettori del Pd. Che non la rispetteranno». È arrabiato Pietro Lacorazza, presidente del Consiglio regionale della Basilicata e frontman del comitato promotore del referendum sulle trivellazioni in mare. Il quesito è stato voluto da nove regioni, sette delle quali a guida Pd. «In totale sono oltre cento i consiglieri regionali democratici che si sono espressi per il Sì, e sto parlando di gente votata da migliaia di elettori, io ho avuto 11mila preferenze. Chi ha deciso di schierare il Pd per l’astensione? Chi rappresenta?».

«Scontro nel Pd» è più un revival che una notizia, le liti sono magma bollente nel corpaccione del partito, ma questa volta trovano nel referendum del 17 aprile un cono di risalita velocissimo. Anche perché il segretario non fa nulla per limitare l’eruzione. La nota dei suoi due vice dopo le prime proteste della minoranza è durissima. Alla domanda che arriva un po’ da tutti – «chi ha preso questa decisione?» – la risposta è «noi due». Firmata Debora Serracchiani e Lorenzo Guerini.

I due vice devono dare corpo alla finzione, persino per questo presidente del Consiglio, e segretario Pd, sarebbe un po’ troppo invitare ad andare al mare direttamente da palazzo Chigi. Bettino Craxi quando lo fece, e gli andò male, era solo segretario del Psi; nemmeno Berlusconi osò tanto, disse solo che il referendum sulla legge 40 era «demagogico». «È inutile» dicono adesso i due vice, non il titolare, contraddicendosi un attimo dopo spiegando che il referendum è pericoloso per l’economia nazionale. Dicono poi, loro, che farà sprecare 300 milioni, ma è stato il governo a non volere l’election day per sperare nell’astensionismo.

Le correzioni però sono solo il preludio: «Vedremo lunedì in direzione (ecco dove si deciderà, ndr) chi ha i numeri a norma di statuto per utilizzare il simbolo del Pd». Frase durissima, da frazionismo di maggioranza si sarebbbe detto un tempo. O più da Grillo e Casaleggio che da Serracchiani e Guerini, si potrebbe dire oggi.

Ma mentre la minoranza si sgola - «la segreteria non si riunisce da mesi», dice il senatore Miguel Gotor - Legambiente e Greenpeace condannano la scelta astensionista - «scandalosa», «incoerente» -, su tutto il partito scende una cappa di imbarazzo. Mercoledì sera, richiesto di confermare la notizia apparsa sul sito dell’Agcom, lo sventurato Lino Paganelli (il dirigente Pd già addetto alle feste del partito) al quale era toccata la comunicazione burocratica, rispondeva solo: «È corretto», rifiutando ogni commento. Ieri il presidente della Puglia Michele Emiliano preferiva esorcizzare la notizia, mentre il lucano leader dei bersaniani Roberto Speranza faceva domande che potrebbero essere rivolte anche alla stessa minoranza: «Fino a quando si può andare avanti così?». Già, ma chi ha votato prima lo Sblocca Italia e poi la legge di stabilità contro la quale tenterà di agire il referendum? Lacorazza ha una sua lettura: «I parlamentari del Pd hanno votato tutta la manovra con la fiducia, non un singolo provvedimento, devono sentirsi liberi di votare anche Sì al referendum. Del resto, può un partito che si dichiara democratico fare l’appello all’astensione?».

È giornata di domande senza risposta, ma quantomeno la polemica serve a far parlare del referendum – siamo ormai al sedicesimo giorno di una teorica campagna elettorale. E ieri il direttore per l’offerta informativa della Rai Carlo Verdelli ha risposto alle proteste del movimento 5 Stelle. Promettendo che la tv pubblica darà «sempre maggiore spazio al tema del referendum abrogativo con l’avvicinarsi dell’appuntamento elettorale». Come prova di buona volontà le 9 tribune politiche previste diventano 13. E saranno trasmesse non più in orari morti ma a ridosso dei Tg.
Il Fatto Quotidiano
TRIVELLE, IL PD SI ASTIENE. È CONTRO LE SUE REGIONI
di Virginia Della Sala

Perché un partito che porta nel proprio nome il richiamo alla sovranità popolare svilisce così gravemente un istituto fondamentale di democrazia diretta come il referendum? Per una forza nata in risposta al crollo della prima Repubblica, riecheggiare il Craxi che invitava gli italiani ad andare al mare invece di votare non mi pare un bel traguardo”. Domanda e osservazioni sono legittime, poste da Andrea Boraschi, responsabile della campagna clima ed energia di Greenpeace, il primo ad accorgersi della presenza del Partito democratico tra i soggetti politici favorevoli all’astensione per il referendum del 17 aprile.

In effetti, nella giornata di ieri, dentro e fuori dal Pd di democratico c’è stato ben poco. Dentro, perché la decisione di schierarsi per l’astensione non è stata discussa in assemblea né tantomeno era prevista nell’ordine del giorno della direzione nazionale di lunedì prossimo («analisi della situazione economica, ratifica commissariamento Pd provinciale di Caserta, varie ed eventuali» i punti all’ordine del giorno). Fuori, perché per molti parlamentari dem istigare ad astenersi dal confronto elettorale, nato poi dalla legittima richiesta di nove consigli regionali come previsto dalla Costituzione (ne basterebbero cinque) è un atto “fortemente antidemocratico”.
Una cosa è certa: il referendum sulle trivelle sta spaccando il Pd più di quanto non lo sia già. Fratture tra maggioranza e minoranza, tra Roma e Regioni, tra elettori e rappresentanti. Ieri, per tutta la giornata, nelle stanze di governo un po’ tutti chiedevano spiegazioni su quella parola, “astensione”, segnata nell’area Par Condicio dell’Agcom: dai civatiani a Sinistra Italiana, da Roberto Speranza ai parlamentari dem - passando per Stumpo, Cuperlo e Gotor - da Legambiente ai Verdi e fino ai Cinque Stelle (che hanno anche scritto al direttore editoriale Rai Verdelli per segnalare la criticità dell’informazione sul referendum).
Finalmente, un segno di vita nel pomeriggio. A rispondere, i vicesegretari del partito Debora Serracchiani e Lorenzo Guerini: quello sulle trivellazioni è un referendum “inutile”, la decisione l’hanno presa loro “come vicesegretari”, e lunedì “sarà ratificata durante la direzione”. Poi, il colpo basso della spesa, quei 300 milioni di euro che si spenderanno per la consultazione e che sarebbero potuti essere destinati ad “asili nido, a scuole, alla sicurezza, all’ambiente”. Ma che, è stata la pronta risposta trasversale, si sarebbe potuto evitare di spendere con un election day (ci vorrebbe un decreto legge ad hoc, aveva detto Alfano durante un question time in Parlamento a febbraio) e che in tanti hanno chiesto per settimane ricordando come, nel 2009, fossero state uniti i ballottaggi delle amministrative al referendum in materia elettorale.
«Per evitare i costi del referendum, sarebbe bastato indirlo nella stessa data delle elezioni amministrative», ha detto il governatore della Puglia Michele Emiliano (Pd), che nella sua replica ha sottolineato come le Regioni - sette su nove targate Pd – avessero in origine provato a mediare più volte con il governo sul tema trivellazioni, ricevendo come risposta una comunicazione del sottosegretario Vicari: il governo semplicemente non voleva incontrarle. «Se il governo avesse voluto discutere, avremmo potuto certamente evitare il referendum sin dall’inizio». Conferma del fatto che l’obiettivo è, prima di tutto, togliere potere decisionale alle Regioni in tema ambientale. Come per gli inceneritori.
Tra le motivazioni di Guerini e Serracchiani, quella dei presunti posti di lavoro che si perderebbero se il referendum dovesse abrogare la legge dello Sblocca Italia, che estende le concessioni fino all’esau - rimento del giacimento. Una prima risposta era già arrivata dai comitati No Triv: la prima concessione entro le 12 miglia scadrà tra almeno cinque anni e molte hanno ancora diverse proroghe di cui godere (il referendum chiede che non siano rinnovate alla loro scadenza). Emiliano è stato ancora più preciso. «Ho sentito questa affermazione erronea anche dal Segretario nazionale del partito durante una lezione alla scuola di formazione politica del Pd», ha detto prima di spiegare che, in caso di abrogazione, tornerebbe in vigore la norma precedente (legge 9/91) che non ha mai determinato licenziamenti e che confermerebbe l’iter secondo cui il permesso di estrazione degli idrocarburi dura trent’anni, prorogabili per dieci anni e poi all'infinito di cinque anni in cinque anni senza alcuna interruzione della attività estrattiva. “Un sistema con processi di verifica e controllo migliori di quelli previsti nello Sblocca Italia. Stasera non sono contento del mio partito e del panico in cui cade troppo spesso nei casi in cui la coscienza si divide dalla verità”, spiega Emiliano. E sul fabbisogno? Secondo i comitati per il sì, le riserve di petrolio presenti nel mare italiano basterebbero a coprire solo 7 settimane di fabbisogno energetico e quelle di gas appena 6 mesi.

Il manifesto
EMILIANO: «LA POSIZIONE DEL PD INGIUSTA E STRUMENTALE»
di Serena Giannico

«Referndum No triv. Il governatore della Puglia: “Il partito siamo noi che lottiamo per l’ambiente non gli altri”».

Ci sono tweet e post del governatore della Puglia, Michele Emiliano, a rendere più dura un’altra giornata nero petrolio del Pd. Perché le trivelle, pure le trivelle, spaccano il partito di Renzi. C’è la posizione ufficiale, quella che predica l’astensione al referendum del 17 aprile. Ma ci sono anche le Regioni, quelle che il referendum l’hanno chiesto e ottenuto. E 7 delle 9 regioni che hanno combattuto per il referendum (Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise) sono amministrate proprio dal Partito democratico.

E allora? Emiliano cinguetta: «Io e Barack Obama siamo contro le trivellazioni petrolifere marine. Il Pd italiano che fa? Il 17 aprile vota Sì». E infila il link di un articolo in cui si parla della decisione del presidente degli Stati Uniti di non approvare le piattaforme e perforazioni nell’Oceano. E poi aggiunge: «Obama vieta le trivellazioni petrolifere nell’Atlantico. E noi in Italia dobbiamo fare un referendum!!!». A chi sul social gli fa notare che la consultazione popolare nasce da precise scelte del Pd, Emiliano risponde: «Il Pd siamo noi che lottiamo per l’ambiente non gli altri». E invita a «non dimenticare che senza il Pd non ci sarebbe stato il referendum: l’opposizione impotente – sottolinea – si sarebbe divertita di più. Nel mio partito – aggiunge – siamo quasi tutti contro le trivellazioni e abbiamo chiesto e ottenuto il referendum». Poi, sul suo profilo Facebook, la faccenda viene trattata approfonditamente. Ed è una risposta al documento dei due vicesegretari del Pd che hanno bollato la consultazione popolare come «inutile» e costosa. «È sbagliata e ingiusta questa posizione – tuona Emiliano -.

Se il Governo avesse voluto discutere la materia con le Regioni avremmo potuto certamente evitare il referendum, sin dall’inizio. Non è certo colpa delle Regioni se il Governo non è tecnicamente riuscito a neutralizzare con il suo intervento legislativo anche il sesto quesito sopravvissuto. Per evitare i costi del referendum il sistema c’era e consisteva nell’indirlo nella stessa data delle elezioni amministrative». Sarebbe bastato un decreto legge, come già accaduto in passato. Quindi Emiliano prosegue: «Addolora molto tutte le Regioni governate dal Pd che il nostro stesso partito sia così disinformato e facile a propagare luoghi comuni come fossero verità assiomatiche. Non ci pare uno stile degno di un grande partito leader della sinistra europea. Altrettanto falsa è la rappresentazione che l’eventuale accoglimento del quesito referendario superstite determinerebbe dei licenziamenti. Rattrista pensare – dice ancora Emiliano – che tutto questo che ho rappresentato possa diventare irrilevante o falso solo perché la maggioranza del Pd lunedì voterà a schiacciante maggioranza in direzione, senza nemmeno aver inserito il punto all’ordine del giorno».

Secondo il governatore pugliese si sarebbe potuto discutere in assemblea «solo pochi giorni fa, per sanare la posizione di astensione del Pd improvvidamente anticipata». Una posizione «anch’essa strumentale perché il vero scopo è impedire il raggiungimento del quorum e negare alla maggioranza del popolo italiano di esprimersi».

«Non nego la speranza che il nostro esperimento possa indicare un metodo esportabile a livello nazionale», dice Airaudo .Altre volte nella storia de secolo scorso, Torino ha aperto strade nuove, non solo per la sinistra. Mai però con persone come Piero Fassino. Corriere della sera, 14 marzo 2016

TORINO Annunciazione, annunciazione. Dopo lunga ed estenuante ricerca fatta in tutta la penisola, pare sia stata rinvenuta una forma di sinistra unita, nata un mese fa in un locale, umile ovviamente, di corso San Maurizio. Quel che finora non è avvenuto in nessuna delle città italiane dove si voterà in tarda primavera accade invece in quel di Torino. Esserci, ci sono proprio tutti. Persino Pippo Civati e la sua Possibile, a riprova dell’eccezionalità dell’evento, oltre a qualche fuoriuscito del Pd che forse si vuole portare avanti con l’utopia scissionista.

«Non nego la speranza che il nostro esperimento possa indicare un metodo esportabile a livello nazionale». L’autore del miracolo fa parte dell’album di famiglia della sinistra cittadina, e già questa potrebbe essere una prima istruzione per l’uso. Anche Giorgio Airaudo, come il suo grande avversario Piero Fassino, è un ex ragazzo di via Chiesa della salute, da intendere come l’indirizzo della storica sede del Pci torinese. Quando l’attuale sindaco era il segretario della federazione provinciale, il candidato della «Izquierda unida» torinese guidava i Giovani comunisti a pochi uffici di distanza. «Abbiamo avuto un percorso comune. Proprio per questo gli rimprovero di lasciare che la sua storia venga usata come copertura del Partito della nazione in via di costruzione qui a Torino, e poi in Italia».

Con tutte le cautele del caso e del tempo che ancora manca alle elezioni, ma sono molti i segnali che indicano Torino, un tempo villaggio di Asterix di un Pd del nord assediato dalle truppe berlusconian-leghiste, come sede della tempesta perfetta per i democratici. E non solo per via delle visite già annunciate ai rispettivi quartier generali di Matteo Renzi e Beppe Grillo, le uniche finora in calendario, e dei sondaggi, che girano ma non vengono resi pubblici per carità di patria democratica. Il sindaco uscente fu l’ultimo segretario dei Ds e uno dei fondatori del Pd. E il suo passato ne fa un bersaglio di notevole importanza. Il Movimento 5 Stelle era così convinto di avere sottomano la persona giusta che ha tagliato corto su comunarie e affini online.

Chiara Appendino è una manager ben conosciuta, figlia e moglie di un imprenditore, che in questi giorni ha giocato d’anticipo presentando le proprie liste. Sta lavorando molto per accreditarsi presso Camera di commercio, Unione industriale e salotti assortiti, dimostrandosi anche disponibile a sacrificare qualcosa della originaria alterità dei Cinque stelle, che a Torino hanno solide radici movimentiste e di sinistra-sinistra. «In realtà stiamo facendo un percorso di ascolto di tutte le parti della città. Ci stiamo presentando come una forza compatta, l’unica ad avere un programma definito dallo scorso settembre. Vogliamo fare le cose per bene. Perché questo voto, inutile negarlo, ha anche valenza nazionale. Non solo per Airaudo o Fassino».

In attesa che le molte anime del centrodestra locale trovino una linea e un progetto comune intorno a Osvaldo Napoli, «battezzato» ieri da Silvio Berlusconi e da FI, l’altra novità che si appresta a fare di Torino il principale campo di battaglia dopo Roma e Milano è l’inopinata presenza di una sinistra unita in ogni suo frammento sotto il simbolo di una Mole rovesciata. A Bologna la ricerca del candidato unico è finita non male ma peggio, con baruffe ed ennesimi strappi. A Milano, Napoli e Roma la litigiosità tra parenti e affini fa da ostacolo alla nascita della «cosa» oltre il Pd.

«Io ho detto che ci stavo solo se tutti rinunciavano alla loro appartenenza. Qui esiste una storia politica e sociale unitaria, è più facile. Ma chissà, magari da qui può nascere una esperienza che potrebbe proseguire anche dopo le elezioni». La Torino in comune di Airaudo si ispira alla Barcellona di Ada Colao. «Che non è Podemos, ma un’altra cosa» tiene a precisare l’attuale parlamentare indipendente di Sel, 55 anni, moglie, tre figli e soprattutto una lunghissima esperienza come responsabile del settore auto della Fiom. L’ultima referenza è quella politicamente più importante, vedi alla voce Maurizio Landini. «Alle ultime europee la lista Tsipras ha preso il 5 per cento. Da lì in su è tutto buono. In doppia cifra, sarebbe una promessa di futuro, non solo per la città».

Quei numeri comportano l’ineluttabilità della resa dei conti. Il grande avversario non sono i Cinque stelle, con i quali Airaudo vanta ottimi rapporti, ricambiati, ma Fassino, il suo vecchio compagno, al quale spera di togliere i voti necessari alla vittoria al primo turno. «Anche se non mi nego il sogno del ballottaggio. E lì allora ci sarebbe davvero da divertirsi». La rassegna stampa inviata dai suoi collaboratori mette bene in chiaro qual è la posta in gioco. Dall’ex governatore forzista Enzo Ghigo che dichiara il suo appoggio a Fassino all’ex vicepresidente del Csm Michele Vietti, area Udc, indica la sua città come futura capitale del partito della Nazione, fino all’arruolamento del meno noto Giovanni Pagliero, ex presidente Pd del quartiere più popoloso. Torino, Italia.

Qui il sito web della lista Torino in comune

Ecco perché, primarie o non primarie, oggi a Roma la speranza è Stefano Fassina, se saprà vincere (come sembra che stia facendo) le trappole che gli stanno disponendo intorno.Il manifesto, 13 marzo 2016

Anche lo scarno coinvolgimento popolare nelle primarie conferma quanto sia esile la candidatura di Roberto Giachetti a sindaco di Roma. Non che i suoi competitori squillino o risaltino, ma tornare a guidare il Campidoglio o raggiungere le soglia di ballottaggio, per il Pd appare arduo. E del resto, siccome la politica di solito non fa sconti, è inevitabile che così vadano le cose. Dopo la deludente esperienza della giunta Marino e dopo la sua ignobile defenestrazione, la credibilità del partito si attesta su quote di mera sopravvivenza.

Dunque il candidato Giachetti è debole. Ed ecco qua e là affiorare in suo soccorso le prime movimentazioni politiche, palesi o sottotraccia che siano. Quelle obbligate, provenienti da saloni, salotti e sottoscala governativi. Quelle scontate, orchestrate da un’informazione conformista e cortigiana. Quelle impigrite, motivate dalla pavida rassegnazione al meno peggio. Quelle interessate, giustificate dal timore di dover rinunciare a prebende e linee di finanziamento. Quelle malintese, prigioniere di un’appartenenza politica ormai completamente svanita. E infine quelle (per così dire) di convenienza, dettate dall’ansia di ritrovarsi nudi e crudi, sguarniti e indifesi.

Non stiamo qui a stupirci se l’esteso sottobosco di notabili, faccendieri e guardaspalle si sentano impegnati a salvaguardare se stessi e gli assetti di potere che li nutrono. O se l’indistruttibile trama politica centrista preferisca rivolgersi al bischero rampante, piuttosto che al cavaliere cadente o, ancor peggio, agli stellati emergenti.

Ma se a soccorrere il candidato di Matteo Renzi ritroviamo anche chi dovrebbe al contrario contrastarlo, allora un po’ di stupore dobbiamo pur ammetterlo. Con amarezza e dispiacere, oltreché con quel disperante rammarico che come una dannazione emerge tutte le volte che solo si profila un’unità delle sinistre. Che è esattamente quel che a Roma si sta provando a realizzare. Così come a Torino, Trieste, Bologna, Napoli, Ravenna e in diverse altre città. Tra tormenti e fatiche.

Si possono capire diffidenze e incredulità. Si può capire quanto possa apparire ancora parziale e di sicuro imperfetto. Ma è tuttavia un processo in atto, che come prima tappa (prima, non ultima) ha scelto di misurarsi con le elezioni comunali. Sta insomma per comporsi una lista unica della sinistra, che ambisce a governare Roma in alternativa alle destre, al movimento cinquestelle, al Pd e a chiunque altro. Un progetto autonomo, dunque, che recide definitivamente i legami parassitari del recente passato.

Come tutti e ciascuno, Stefano Fassina a Roma si segnala per qualità e limiti. Ma un merito gli va indiscutibilmente riconosciuto. E’ riuscito a tenere insieme quel che da anni insieme non stava più. Partiti, forze sociali, movimenti, soggettività, intenti e stati d’animo. Si è di fatto autocandidato, è vero. Ma paradossalmente ha consentito un’aggregazione politica, che, se lasciata alle solitudini dei tavoli di confronto o agli esiti di irrealistici processi partecipativi, non avrebbe fatto neanche un passo. Intorno a lui s’è insomma creato un embrione di quel che potrebbe diventare un’esperienza nuova della sinistra romana. Ancora insufficiente, non del tutto definita, forse manchevole nella sua impronta culturale. Ma tuttavia viva, vitale e desiderosa d’incamminarsi verso prospettive promettenti.

Ecco perché i tentativi di incrinarne il percorso e offuscarne il senso appaiono insensati e anche un po’ meschini. Avanzare nuove candidature a sinistra, riesumare figure inaffidabili, alludere a improponibili scappatoie arancioni non solo indebolisce il progetto unitario e disorienta l’elettorato, ma trasmette quella disperante sensazione di una sinistra patologicamente divisa e inconcludente. Va da sé che tale sensazione non può che suscitare ulteriore disincanto. A beneficio di altri: per esempio, del Pd renziano del renziano Giachetti.

Ma come sappiamo la strada dell’unità delle sinistre è lastricata di agguati e di insidie. C’è solo da percorrerla con il respiro profondo e lo sguardo lungo, sperando che non se ne aprano altre, tanto malintese quanto ingannevoli.

Qui il sito che illustra il percorso e le schede programmatiche della candidatura diStefano Fassina per le elezioni a sindaco di Roma.
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