Drastici tagli alle spese hanno colpito in tutta Italia gli istituti archivistici - Archivi di Stato e Soprintendenze archivistiche – dipendenti dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Le riduzioni, che interessano soprattutto i capitoli di funzionamento,oscillano tra il 40 e il 60 % del fabbisogno, determinato dagli effettivi consumi di energia elettrica, gas metano, acqua, pulizia locali, tassa di nettezza urbana, manutenzione ordinaria degli impianti. Esse porteranno entro pochi mesi alla totale paralisi di tutte le attività istituzionali,ivi compresa l'erogazione dei servizi al pubblico.
Sono in pericolo, quindi, le funzioni di tutela, di conservazione e di comunicazione della memoria storica, pubblica e privata, nelle sue straordinarie e molteplici articolazioni: dagli archivi delle persone,delle famiglie, delle comunità locali, fino a quelli delle istituzioni pubbliche e statali. Questa memoria, che costituisce il fondamento dell'identità nazionale, copre un arco cronologico ultramillenario che va, senza interruzioni, dal Medioevo ai giorni nostri e per essa il nostro Paese è famoso e ammirato nel mondo. Una vasta platea di utenti italiani e stranieri studenti, ricercatori, professionisti, storici, cittadini trova negli istituti archivistici indispensabili strumenti di lavoro e di conoscenza. Gli archivi, d' altra parte, sono essenziali anche per assicurare la conoscenza storica e quindi la tutela di tutti gli altri beni culturali, da quelli archeologici, a quelli librari, architettonici e artistici.
La sorte di questo patrimonio documentario di inestimabile valore è ora in pericolo!!I responsabili degli Archivi di Stato e delle Soprintendenze Archivistiche,certi che si possa e si debba assicurare la continuità delle fondamentali funzioni di conservazione e di tutela svolte da questi Istituti, denunciano la gravità della situazione al Ministro e ai competenti organi del Ministero, affinché vi pongano rapidamente rimedio; diversamente, la chiusura degli istituti archivistici sarà di fatto inevitabile.
31 marzo 2003
CHE STA succedendo sul fronte della dismissione del patrimonio artistico di proprietà pubblica? Dopo le polemiche sulla legge Tremonti dello scorso 15 giugno, uno strano silenzio circonda il destino dei nostri monumenti. Nessuno contesta che lo Stato possa vendere una parte dei propri beni (cosa che infatti si è sempre fatta), ma quella parte del patrimonio pubblico che è di riconosciuto valore storico-artistico era sempre stata inalienabile.
Quella legge, al contrario, per la prima volta nella storia italiana abbatteva a cannonate la barriera fra demanio pubblico e demanio artistico rendendo tutti i beni dello Stato disponibili ai meccanismi della cartolarizzazione e della vendita, in un gioco di bussolotti fra la "Patrimonio dello Stato s.p.a." e la "Infrastrutture s.p.a.", come questo giornale ha chiaramente spiegato. La debole garanzia di una preventiva intesa con il ministro dei Beni culturali, peraltro limitata ai soli monumenti "di particolare valore artistico e storico" non è bastata a tranquillizzare le coscienze di chi ha a cuore il futuro di questo Paese, tanto più che di quelle preoccupazioni si fece subito interprete il capo dello Stato, con una lettera al presidente del Consiglio.
Se quelle preoccupazioni sembrano ora meno pressanti a una parte dell’opinione pubblica, non è certo per la vaga e fumosa risposta di Berlusconi (che anzi peggiorava la situazione negando l’evidenza), ma per una direttiva emanata dal Cipe il 19 dicembre, che fissava precisi paletti "etici" alla dismissione dei beni artistici, e soprattutto per le dichiarazioni del ministro dei Beni culturali.
Da alcuni mesi, infatti, Giuliano Urbani non solo ha spesso affermato che avrebbe presidiato il patrimonio artistico scongiurandone la dismissione, ma ha anche detto nel modo più esplicito che la nuova codificazione delle norme di tutela, in preparazione a cura di una commissione presieduta da Gaetano Trotta, avrebbe messo al primissimo posto l’inalienabilità del patrimonio artistico e avrebbe accresciuto, non diminuito, le garanzie di tutela, in conformità con l’articolo 9 della nostra Costituzione. Il livello dei giuristi della commissione Trotta e la creazione, in parallelo, di un Consiglio scientifico per la tutela hanno dato credibilità alla nuova strategia del ministro.
È dunque giunta l’ora di mettere le nostre preoccupazioni nel cassetto? Sarà vero, come ha scritto recentemente il Giornale, che chi protestava a gran voce deve ora ammettere che c’era cascato come un ingenuo? Ahimè, no. Non c’è ragione di dubitare delle dichiarazioni di Urbani, ma intanto il suo collega di governo Tremonti percorre, ignorandole bellamente, una strada diametralmente opposta, e ha già cominciato a svendere il nostro patrimonio culturale. Veniamo ai fatti, incontestabili. Il primo fatto si nasconde sotto una sigla evocativa, Scip, che sta per "Società per la Cartolarizzazione degli Immobili Pubblici", creata, si badi bene, prima della "Patrimonio spa", con la legge 410 del 23 novembre 2001. Passata allora inosservata, questa legge introduceva in realtà una norma dirompente: essa infatti, come hanno scritto Giacomo Vaciago e Salvatore Parlato, si fondava «sull’idea di dismissione in blocco unico del patrimonio immobiliare dello Stato mediante il conferimento a una o più società veicolo appositamente costituite»; non solo, ma «allo scopo d’addivenire a soluzioni di first best» veniva «eliminata la procedura di richieste di pareri e limitata la possibilità di apporre vincoli». In altri termini, la norma è concepita in modo da evitare lo scomodo passaggio attraverso il parere del ministero dei Beni culturali, al punto che la stessa inclusione di un determinato immobile nelle liste pubblicate dal ministero dell’Economia, secondo la legge «produce il passaggio dei beni al patrimonio disponibile» (art. 3, c. 1), sottraendoli al demanio artistico (per sua natura inalienabile), e rendendone in tal modo agevole la vendita. Come si vede, non siamo solo nell’anticamera della "Patrimonio spa", ma in un meccanismo ancor più radicale, «la manifestazione di una chiara volontà da parte del governo di voler procedere a una massiccia dismissione del patrimonio immobiliare» (Vaciago).
Questa norma non è rimasta lettera morta: come ha rivelato sul Giornale dell’arte di febbraio Gaetano Palumbo (del World Monuments Fund), si è già proceduto attraverso la Scip a una prima asta di 35 beni di proprietà pubblica, da Milano a Palermo, da Genova a Trieste. Si badi bene: la legge prevede esplicitamente che gli immobili da porsi in vendita con questa procedura «non sono soggetti alle autorizzazioni di cui al d.l. 490/1999», cioè al Testo Unico sui Beni culturali, ed esclude ogni diritto di prelazione nell’acquisto da parte di tutti gli enti pubblici, centrali e locali (art. 3, c. 17). Viene in tal modo elusa anche la procedura per «l’alienazione di beni immobili del demanio storico e artistico» fissata dal governo precedente con Dpr 283/2000, e più volte richiamata dal ministro Urbani come garanzia contro le dismissioni troppo facili.
Non è tutto. Un nuovo d.l. (n. 282), datato 24 dicembre 2002, e cioè in clima non di Natale ma di Finanziaria, e convertito in legge n. 27 il 21 febbraio scorso, ha introdotto con un colpo di mano il concetto di «dismissione urgente», mettendo in vendita «a trattativa privata, anche in blocco» in una trentina di città italiane svariati immobili, di cui 27 appartenenti all’Ente Tabacchi. «La vendita fa venire meno l’uso governativo, le concessioni in essere e l’eventuale diritto di prelazione spettante a terzi», continua la legge. Fra gli altri immobili velocissimamente posti in vendita figura la Manifattura di Firenze, edificio monumentale già vincolato dal ministero (che non è stato nemmeno consultato), ma dismesso da Tremonti in dispregio delle leggi e delle dichiarazioni del suo collega Urbani, per quanto già destinato a "Cittadella della Cultura". Un altro esempio è la Manifattura di Milano, già destinata alla Scuola Nazionale del Cinema (che dipende dal ministero dei Beni culturali), e letteralmente "scippata" da un ministro all’altro. In molti casi, l’acquirente risulta essere la Fintecna, e cioè una società privata (ex Iri), ma controllata dallo stesso ministero dell’Economia: così per esempio l’edificio di Tor Pagnotta a Roma, dove hanno sede uffici del ministero delle Finanze, non sarà più proprietà dello stesso ministero, ma di Fintecna, che tuttavia è da esso controllata, e a essa dovrà pagare l’affitto, con un’operazione, suppongo, di finanza "creativa", o meglio fittizia. Il vulnus inferto da questa legge alle norme di tutela, ma anche alla credibilità delle dichiarazioni governative, getta un’ombra sinistra sul futuro del nostro patrimonio monumentale e ambientale. Dovremo assistere impotenti a nuovi scippi come questi?
Senza accumulare altri esempi (sarebbe facile), preferisco finire con una domanda. Quale è, su questo fronte, la politica del governo, dov’è la verità? Nelle dichiarazioni di Urbani, o nelle dismissioni di Tremonti? O dovremo pensare che il presidente Berlusconi, pur così poco incline ad apprezzare la cultura islamica, si è convertito alla dottrina della doppia verità professata dai seguaci dell’arabo Averroè?
Ho ritenuto opportuno raccogliere in un libro di rapida lettura una serie di scritti che nel corso degli ultimi mesi ho dedicato alla tanto discussa "Patrimonio S.p.A" e, più in generale alle disposizioni legislative che prevedono la possibilità di alienare, per fare cassa, beni appartenenti al patrimonio culturale dello Stato; o che, comunque, affacciano l’ipotesi di affidarli in concessione a una gestione di tipo privatistico che inevitabilmente comporterebbe limiti sia per un'efficace azione di tutela sia per la fruizione e il godimento pubblico. Ho integrato questa raccolta di scritti - quasi tutti già apparsi, anche se talvolta in forma ridotta, su giornali o riviste - con precisazioni e annotazioni che arricchiscono l'argomentazione o la rafforzano con dati o documenti. Nella seconda parte del volume mi e' invece parso opportuno riunire altri interventi, anch'essi molto recenti o comunque elaborati negli ultimi anni, che si riferiscono a problemi diversi da quello delle alienazioni e delle concessioni, ma che hanno una connessione molto stretta con il ragionamento di fondo che sta all base degli scritti raccolti nella prima parte.
C'è un filo rosso che, in modo molto evidente, percorre e unifica il libro. Esso sta nella preoccupazione, in me e non solo in me molto forte, per la preminenza che negli ultimi tempi e' venuta via via assumendo - in modo più palese nel campo dei beni culturali, ma con conseguenze molto negative anche in altri campi delle attività culturali, dalla scuola alle varie forme di comunicazione - una visione che tende a subordinare la cultura e la politica che la riguarda a un'impostazione di tipo economistico e alla pervasiva ideologia liberista. Tale subordinazione produce, infatti, conseguenze devastanti. Non solo perché apre pericolosamente la strada a distorsioni in senso aziendalistico e mercantilistico nell'elaborazione delle politiche culturali. Ma perché spinge a smarrire o comunque ad annebbiare il senso profondo del valore della cultura e del patrimonio culturale: quel senso profondo che sta nell'essere un elemento essenziale dell'identità di un popolo, nel costituire un fondamento da cui non si può prescindere per un avanzato sviluppo umano e civile, nel rappresentare un fattore qualificante per la formazione di una personalità libera e matura. Decisivo, perciò, è riaffermare, contro questa perversione economicistica, che il fine fondamentale delle politiche culturali deve essere nella valorizzazione della risposta che la cultura dà ai più alti e più ricchi bisogni dell’uomo: e quindi nell’avanzamento della ricerca e della conoscenza, nell’ampliamento della sfera delle libertà, nella fruizione da parte di un numero crescente di donne e di uomini di quanto di meglio la storia umana ha prodotto.
Proprio per questo mi è parso e mi pare giusto sottolineare due contraddizioni apparentemente paradossali che caratterizzano la situazione attuale. La prima è che – si tratta di un esempio, ma è un esempio molto significativo: ho perciò voluto dedicare ad esso il primo saggio raccolto nel volume – mentre la classe dirigente dello Stato italiano di fine ‘800 (uno stato davvero povero e con basi ancora molto fragili) dopo lunghe discussioni dovute appunto alle difficoltà economiche avvertì come dovere nazionale procedere all’acquisto di un autentico tesoro come la Galleria e la Villa Borghese, viceversa la classe dirigente dell’opulenta Italia di oggi, ottava potenza industriale al mondo, non esita a considerare la possibilità di vendere o dare in concessione anche parti importanti del patrimonio culturale pubblico per ridurre il deficit del bilancio statale. Senza per nulla sopravvalutare i governi di fine Ottocento, questo confronto è estremamente indicativo della miseria della cultura politica oggi dominante.
Il secondo apparente paradosso (e questo vale non solo per i beni culturali, ma per tutti i settori della cultura) è che proprio quando l’avanzamento scientifico e tecnologico e il dispiegamento delle forze produttive potrebbero ormai consentire – tanto più in un paese ad elevato reddito come l’Italia, e più in generale in tutto l’Occidente – di ridurre il tempo di lavoro e di dedicare una quota sempre più rilevante delle energie materiali e umane non a un’indefinita corsa alla crescita illimitata della produzione e del consumo di merci, ma alle più ricche e libere attività umane quali quelle dalla conoscenza e della cultura, proprio in questo momento prevale una concezione che tende a subordinare le attività formative e culturali a criteri economicistici o addirittura a una visione mercificante.
Ho parlato di contraddizioni “apparentemente paradossali” perché, in realtà, esse non si basano solo su errate valutazioni soggettive, ma affondano le radici in quel processo di “controriforma conservatrice” che a partire dagli anni ottanta si è sviluppato su scala mondiale. Un processo che certamente è stato favorito anche dalla crisi e dagli errori, spesso devastanti, delle ideologie e dei movimenti progressisti: ma che proprio per questo ha colpito al cuore le idee di preminenza dell’interesse pubblico, di regolazione del mercato, di impegno prioritario per la promozione dell’interesse sociale e delle attività formative e culturali, ossia quelle idee che erano state la base portante di una fase storica che, particolarmente in Europa, resta caratterizzata come la fase di realizzazione di un’esperienza di indubbio valore quale quella dello “Stato sociale”. Anche l’autonomia della cultura e delle politiche culturali è stata duramente violata dalla tendenza che questa controriforma conservatrice ha fatto emergere in modo sempre più marcato.
Per quel che in particolare riguarda l’Italia e, più specificamente, il settore dei beni culturali, non è certo un caso se già negli anni ottanta – cioè poco dopo che per tali beni era stato costituito in Ministero apposito, a proposito del quale si era assicurato (a mio avviso in termini illusori, come già allora ebbi a dire) che avrebbe avuto una struttura “atipica”, essenzialmente “scientifica e tecnica” – cominciò a manifestarsi la tendenza a spostare l’accento dai problemi specifici della tutela alla possibile redditività economica del patrimonio artistico e culturale. La prima iniziativa di questo tipo, di cui molto si discusse, fu quella dei famosi “giacimenti culturali”, promossa da De Michelis (che – va notato perché è significativo – era ministro dei Lavori Pubblici e non dei beni culturali). Quest’iniziativa si tradusse nella dispersione di molte centinaia di miliardi – molti per l’epoca e tanto più rispetto al poco che di solito si dedicava ai Beni culturali – senza alcun costrutto e non portò dunque ad alcun risultato positivo. Ma segnò una strada e contribuì a formare una mentalità. E infatti di lì a pochi anni seguì l’enfasi che si creò attorno alla proposta dei cosiddetti “servizi aggiuntivi”: cioè quei servizi (libreria, bar, ristorante guardaroba, ecc) che certamente sono necessari per agevolare i visitatori dei musei e che senza dubbio possono dare anche un certo reddito, ma che sono, appunto, un elemento di supporto e che in nessun modo possono diventare un fine. Poi vennero, via via, le leggi che in vario modo hanno, con crescente insistenza, spostato l’attenzione verso soluzioni di tipo privatistico e aziendalistico nella gestione dei beni culturali: sino a quel vero salto di qualità in negativo – la gestione del bene come merce, il fare cassa come fine – che caratterizza provvedimenti legislativi come quello che istituisce la “Patrimonio S.p.A”.
Su due punti voglio ancora richiamare l’attenzione, prima di concludere questa premessa: il primo è che , fortunatamente, una reazione così delle forze della cultura come delle associazioni impegnate in questo campo almeno in qualche misura c’è stata (in particolare contro i pericoli di una politica di privatizzazione e di alienazione) e ha costretto in più di un caso i governanti anche a passi indietro, rettifiche, correzioni, ricerca di soluzioni di compromesso: il peggio, che si temeva, non si è ancora del tutto verificato. E’ anche vero, però che si sono prodotte conseguenze negative che sarà assai difficile riassorbire. Mi riferisco, in particolare, al privilegio dato agli aspetti spettacolari di una politica di tutela (le mostre, i restauri di richiamo, gli eventi, ecc.) rispetto all’impegno quotidiano di studio e di conservazione; all’attenzione concentrata sul museo piuttosto che sul territorio ( sino a separare, proprio nelle maggiori città d’arte, il primo dal secondo); al crescente disinteresse per quelle strutture che non esercitano l’attrazione che ha il patrimonio artistico in senso stretto e che tuttavia svolgono – penso alle biblioteche, agli archivi ecc. – un ruolo decisivo per lo sviluppo culturale di un paese. Soprattutto, ha subito un colpo assai duro quello che era, e in parte è ancora, l’aspetto più qualificante del patrimonio culturale italiano: cioè quella sua diffusione e stratificazione sul territorio che per tanto tempo ha fatto dell’Italia un paese unico al mondo. Anni di lotta per reagire alla speculazione urbanistica e alla devastazione dell’ambiene, per richiamare l’attenzione sui centri storici sul paesaggio, sui valori ambientali, sul complesso legame fra il bene culturale e il contesto più generale in cui è inserito, rischiano di essere annullati dalle tendenze mercantilistiche ed economicistiche prevalse nell’ultimo periodo. Porre rimedio a questa situazione richiederà un impegno di ampio respiro e di lunga lena.
Il secondo punto è che non solo il settore dei beni culturali, ma il complesso della cultura e delle attività che lo qualificano è stato negativamente investito da questo processo. Nei giorni in cui scrivo questa introduzione, per esempio, è soprattutto l’organizzazione della ricerca scientifica che sta subendo duri colpi: non solo per il taglio dei finanziamenti che già da molti mesi era stato annunciato; ma col commissariamento del maggiore ente (il CNR) , coll’annullamento o la radicale riduzione delle forme di autonomia e di autogoverno democratico, colle decisioni dall’alto sul nuovo assetto di enti, centri, istituti, con la palese volontà di subordinare tutto il settore alle decisioni governative. Ma non è molto migliore la situazione di altri settori: dall’università – dove un’autonomia gestionale fortemente condizionata dalla contrazione dei finanziamenti pubblici e un’impostazione fortemente pofessionalizzante in senso praticistico stanno determinando un processo di americanizzazione in senso deteriore – al complesso dell’attività formativa e scolastica (rinvio, al riguardo all'analisi specifica sviluppata nel volume): per non parlare delle insidie sia per un reale pluralismo democratico sia per la qualità culturale dei prodotti che si presentano in modo sempre più marcato nel campo dell’informazione, delle attività di spettacolo, della comunicazione e soprattutto nel settore televisivo.
E’ doveroso dire, infine, che la sinistra – in particolare quella che ha avuto un ruolo di governo, ma non solo essa – non è certo immune da responsabilità per ciò che è accaduto negli ultimi due decenni. Se infatti si è realizzata un’autentica egemonia, nei diversi campi, delle ideologie della destra conservatrice – il mercato, l’impresa, il privato, in generale la prevalenza assegnata ai valori economici rispetto ad ogni altro criterio di valutazione – è anche perché debole è stata la resistenza opposta a queste ideologie. Anzi in molti casi esse hanno fatto presa - in Italia e fuori d’Italia – anche negli orientamenti di larghi settori della sinistra e nelle politiche da essa praticata.
Ciò si è verificato – si potrebbe osservare – in tutti i settori dall’organizzazione civile e sociale. Ma senza dubbio ha pesato particolarmente nel campo della cultura, dove la libertà della ricerca e della sperimentazione, l’autonomia dai vincoli di mercato, la preminenza dell’arte o delle scienze sull’economia sono condizioni essenziali per un più fecondo sviluppo. Si è così aggravato quel già difficile rapporto con la ricerca culturale più innovativa e più avanzata che durante tutto il Novecento ha rappresentato un handicap – accanto alla prevalente ideologia produttivistica – nello sforzo di affrancarsi compiutamente dall’egemonia del capitalismo e creare così le condizioni per cominciare davvero a costruire una propria egemonia.
Proprio per questo ho voluto inserire al termine del volume, un breve saggio – una riflessione appena accennata sul Novecento da Boccioni a Gehry - che non è la conclusione un po’ stravagante di una serie di scritti dedicati a questioni ben più attuali. Con questa riflessione ho invece voluto ricordare che il limite economicistico ha attraversato, durante il secolo che si è appena concluso, tutta la storia della sinistra anche nelle esperienze storicamente più rilevanti e ha inciso in particolare sul rapporto fra politica e cultura. Ciò ha significato, in sostanza, il permanere di una subalternità all’ideologia capitalistica: una subalternità che ancora non è risolta. Fare i conti con questi problemi non è dunque, per la sinistra, un tema secondario o collaterale: al contrario è uno dei temi di fondo che essa, proprio in un momento di grave crisi è chiamata ad affrontare.
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Chiarante, Patrimonio SpA
Approfittando della distrazione generale (lettori e giornalisti erano più occupati nella caccia ai regali che a controllare leggi e regolamenti), il Cipe ha varato una direttiva sui beni culturali non esattamente cristallina. «Come al solito, si vuole proteggere soltanto la grande opera, e si lascia intendere che i piccoli o meno noti beni possono finire sul mercato», protesta il verde Sauro Turroni, vicepresidente della commissione ambiente del senato.
Che cosa non la convince, nella direttiva del Cipe?
Si parla di beni «di particolare valore storico, artistico, culturale e ambientale», intendendo con questo il Colosseo, la Fontana di Trevi e gli Uffizi. Che fine faranno, viceversa, le migliaia di torri medievali, castelli, piccoli musei che arricchiscono la vita culturale dei cittadini italiani ma non hanno mai goduto degli onori delle cronache? L'altro giorno ho visto il castello dove fu organizzata la congiura dei Pazzi: è un edificio senza «particolari» bellezze, ma certo pieno di storia. L'impronta «immobiliarista» che questo governo vuole dare al paese, consentirà che se ne facciano miniappartamenti?
La direttiva accenna al fatto che si potrà vendere solo ciò che è vendibile. Tautologia a parte, esistono davvero beni culturali pubblici alienabili?
La questione è attualmente controversa, poiché il codice civile, agli articoli 822 e 823 dice che il demanio culturale non può essere alienato, ma il regolamento approvato nel settembre del 2000, quando al governo c'era ancora il centro sinistra, ha aperto la porta alle alienazioni. Nonostante non abbia formalmente modificato il codice civile, si intende implicitamente superato, in base al principio della gerarchia delle fonti secondo cui una legge successiva cancella quella precedente.
In pratica, il dpr 283 del 2000 consente di alienare i beni che non sono esplicitamente protetti da un decreto di vincolo. Come lei diceva, si abbandonano al loro destino tutte le opere disseminate in giro per l'Italia e prive di una dichiarazione vincolante. Ma si potrà almeno salvare ciò che la legge già protegge?
Dipenderà dalle soprintendenze regionali, dato che quello stesso regolamento impone al ministero di aggiornare e verificare gli elenchi dei beni culturali. E la stesura dell'elenco è demandata, come è ovvio, agli enti di tutela sul territorio, che sono le soprintendenze. Del resto, soltanto le soprintendenze regionali conoscono a sufficienza il loro territorio e soltanto loro sono in grado di redigere gli elenchi richiesti. Ma questo lavoro è stato fatto? Nella mia regione, l'Emilia Romagna, si è provveduto. Vorrei che vi fosse certezza anche per le altre regioni.
Le altre norme del Cipe sono più tranquillizzanti?
Mi preoccupa anche il punto 4, secondo cui la Patrimonio SpA «osserverà tutte le forme di tutela previste per la difesa del demanio». Poiché la legge attribuisce appunto al ministero e alle soprintendenze la funzione di tutela, non vorrei trovarmi di fronte a un ulteriore sconfinamento di poteri.
In questi giorni, il tesoro ha annunciato la vendita di carceri, caserme e porti. Dunque il peggio è per ora evitato?
Niente affatto, e per le ragioni che si son dette in precedenza. Prendiamo la mia città, Forlì. Il carcere del suo centro storico è inserito nella rocca di Caterina Sforza. Pur essendo un edificio di epoca più recente, è stato inserito dal soprintendente nell'elenco dei beni culturali intoccabili. Vorrei la sicurezza che gli elenchi comprendano davvero soltanto edifici privi di qualsiasi valore artistico e di qualsiasi significato storico. Noi comunque teniamo alta la guardia. Sono riuscito ad esempio a inserire nella finanziaria una norma di tutela anche per gli immobili di interesse storico e artistico di proprietà delle regioni, delle province e dei comuni.
Punto primo
Gasparrini:
L'intervento è, a mio avviso, coerente con le procedure previste nei casi dei Comuni sprovvisti di PRG e, come sai, ha l'avallo di tutti i soggetti istituzionali preposti ad approvarlo (oltre al Comune, la Regione, la Comunità Montana, la Sovrintendenza, l'ASL e così via): la legge approvativa del PUT non cancella infatti la Legge 17/1982 per i motivi che ho provato ad esplicitare e che leggerai. D'altro canto il Comune è ancora commissariato da anni sull'argomento (con un piano adottato e sospeso) non certo per colpa dell'attuale Sindaco e sarebbe assurdo pensare che, finchè tale situazione non si risolve (così come quelle di eventuali altri comuni in situazioni analoghe), non valgano le norme derogatorie della legge 17/1982 limitatamente alle categorie di opere pubbliche in essa previste, con i danni che sarebbe facile immaginare sulla dotazione di attrezzature del DM 1444/1968.
Salzano
Non sono daccordo. La legge regionale 17/1982 è anteriore alla legge regionale 35/1987, e quindi non può prevalere su di essa. Per di più, la 35/1987 è una legge speciale, perciò prevarrebbe in ogni caso su una legge ordinaria, quale la 17/1982 è.
Gasparrini
La legge 35/1987 così recita all'art. 5 (Norme di salvaguardia): "Dalla data di entrata in vigore del Piano Urbanistico Territoriale e sino all' approvazione dei Piani Regolatori Generali comunali (ivi incluse le obbligatorie varianti generali di adeguamento ai Piani Regolatori Generali eventualmente vigenti) per tutti i Comuni dell' area è vietato il rilascio di concessioni ai sensi della Legge 28 gennaio 1977, n. 10. Sono escluse da tale divieto le concessioni relative a opere di edilizia pubblica (residenziali, scolastica, sanitaria etc.) che comunque dovranno essere conformi alla normativa urbanistica all'atto vigente, e munite del parere di conformità della Giunta regionale." Ciò significa che sono escluse dal divieto l'ERP e le opere di "urbanizzazione secondaria" (quelle del DI 1444/1968 appunto) conformi alle norme urbanistiche vigenti che, nel caso di comuni sprovvisti di PRG, sono a livello regionale la legge 14/1982 e la legge 17/1982 e, a livello nazionale il DI 1444/68 per quel che riguarda le attrezzature. La legge 17/1982, all'art. 4, chiarisce che le limitazioni edificatorie indicate, fino all'approvazione dei PRG, "non si applicano nei confronti degli intervenuti volti alla realizzazione di edifici e strutture pubbliche, opere di urbanizzazione primaria e secondaria, di programmi per l' edilizia residenziale pubblica, nonchè dei piani e degli interventi previsti dalla legge statale 17 maggio 1981, n. 219" (le stesse peraltro indicate nella legge 35/1987). Il senso della norma è chiaro, come dico nella mia perizia: garantire il blocco dell’edificazione sino all’approvazione del PRG ma consentire comunque di realizzare opere di interesse vitale (come gli edifici e le strutture pubbliche o le opere di urbanizzazione primaria) e rispettare così gli obblighi normativi per opere pubbliche previste da leggi nazionali, quali sono appunto quelle di urbanizzazione secondaria (indicate nella L. n. 847/1964 e ricomprese nelle “attrezzature pubbliche” di cui all’art. 3 del D.I. n. 1444/1968) e di edilizia residenziale pubblica (L. n. 167/1962, L. n. 865/1971 e L. n. 219/1981). Il problema non può essere posto in termini cronologici (la legge 35/1987 è successiva alla 14/1982) se la nuova legge non abroga esplicitamente le precedenti ma è anzi coerente con esse. D'altro canto, la tua interpretazione sarebbe gravemente penalizzante proprio rispetto al principio posto dal legislatore nazionale e regionale a base della formulazione di quei valori minimi obbligatori di attrezzature che i Comuni devono comunque rispettare (anche in assenza di uno strumento urbanistico e anche in aree di interesse paesistico) e avrebbe una ripercussione fortemente negativa sulla qualità urbana degli insediamenti. Nello stesso tempo, metterebbe in discussione una prassi interpretativa che da anni viene adottata in proposito nell’area sorrentino-amalfitana e che ha consentito l’approvazione e realizzazione di numerose attrezzature pubbliche in altri Comuni. L'accordo di programma firmato da tutti gli enti, comprensivo del "parere di conformità" della Regione previsto dall'art. 5 del PUT va in questa direzione. Aspetto da te delucidazioni, alla luce di quanto appena detto, dei motivi per i quali (aldilà della cronologia) ritieni che la legge del PUT abroghi le leggi urbanistiche regionali.
Salzano
La legge 35/1987, quando afferma che sono escluse dal divieto a costruire fino all’approvazione del PRG “ le concessioni relative a opere di edilizia pubblica (residenziali, scolastica, sanitaria etc.)”, afferma nella stessa frase che esse “comunque dovranno essereconformi alla normativa urbanistica all'atto vigente, e munite del parere di conformità della Giunta regionale”. Alla normativa oggi vigente del PUT esse non sono certo conformi (questa è almeno l’opinione mia, ed essa coincide con quella del TAR quando sospese l’approvazione del PRG).
Per quanto riguarda la legge 17/1982 ti ripeto che nel diritto vige il principio (e i principi non si modificano con un parere tuo o mio) della prevalenza della disposizione secondo la loro successione cronologica, così come vale l’altro principio della prevalenza della legge speciale sulla legge ordinaria: ed è evidente che una legge di tutela di un ambiente come quello della Costiera non può non prevalere su una legge formata con l’occhio rivolto a Marcianise o a Gricignano o a Battipaglia
E per favore non mi venire a dire che la mia interpretazione “sarebbe gravemente penalizzante proprio rispetto al principio posto dal legislatore nazionale e regionale a base della formulazione di quei valori minimi obbligatori di attrezzature che i Comuni devono comunque rispettare”! Mi sembra proprio che ti arrampichi sugli specchi: (a) quei minimi obbligatori devono essere rispettati nella formazione dei piani urbanistici, come dice esplicitamente il DI 1444/1968; (b) un auditorium di 400 posti non rientra in certo quel “valore minimo obbligatorio” che deve essere assicurato ad ogni cittadino” (ti rendi conto che siamo in Italia?).
E non confondere “prevalenza” con “abrogazione”. La 35/1987 non abroga un bel nulla: invece, nella limitata (e delicatissima) area alla quale si riferisce, le sue determinazioni prevalgono, superano, devono essere rispettate anche se in contrasto (o meno “permissive”) di quelle di una legge che, come la 17/1982, oltre a essere antecedente, riguarda l’intera Regione Campania.
La chiudiamo su questo punto? La smetti di difendere la legittimità di una trasformazione sostenendo che tra le due leggi non c’è contrasto o che la più antica e generale prevale sulla più recente e speciale?
Gasparrini
l'auditorium è a pieno titolo un'urbanizzazione secondaria compresa nelle attrezzature di interesse comune del DM stesso, e trovo singolari le omissioni in proposito di Sandro e Vezio che, per motivi incomprensibili, non citano le attrezzature di interesse "culturale" tra quelle obbligatorie per legge
Salzano
Non sono d'accordo. Le attrezzature di cui all'articolo 3 del DI (interministeriale, non ministeriale) 1444/1968 sono senza dubbio distinte dalle attrezzature d'interesse generale (le Zone F), e a differenza di queste sono attrezzature locali. Ed è evidente che non possiamo pensare di avere un auditorium di 405 posti in ogni comune della Costiera. O no?
Gasparrini
Ti rispondo: Francamente non capisco bene la tua risposta che non entra nel merito della questione, da me lungamente trattata nella perizia, di cosa siano le attrezzature pubbliche del DI (non DM, ok) 1444/1968. Ho cercato di chiarire che:
- l'elenco riportato da Vezio nella sua perizia per i privati espropriandi non corrisponde a quello del DI e omette, incomprensibilmente, le attrezzature di interesse culturale;
- le attrezzature di interesse culturale non sono elencate nella legge e quindi devono essere articolate successivamente. Da chi?: dai Comuni, ovviamente. E sono i Comuni che decideranno se fare una biblioteca, un centro socio-culturale, una sala per spettacoli o quant'altro. Non credo che dobbiamo essere noi a deciderlo e questa libertà consentirà di fare le attrezzature giuste nel posto giusto (come lo è un piccolo auditorium di 400 posti a Ravello "città della musica" che può svolgere molteplici funzioni per eventi culturali). Sai bene, peraltro, che un museo, una biblioteca o un'altro contenitore di tipo culturale non è necessariamente più invisibile di una sala per spettacoli. Anzi.
- sfido chiunque (e quindi anche te) a dire poi che, nella categoria delle attrezzature culturali, non siano comprese le sale per spettacoli: tu sai molto bene che in questa direzione è stata interpretata la legge da tantissimi comuni (ho fatto ampie citazioni di autori nella mia perizia e l'Italia è fortunatamente piena di standard "di quartiere" che hanno consentito di realizzare cinema, teatri, sale per spettacoli in genere e auditorium appunto). Come è giusto che sia, d'altronde: un bravo giurista sa che il problema, su materie di questo tipo, è la giurisprudenza "di fatto" che si determina nell'applicazione della legge e non una presunta fedele interpretazione della volontà del legislatore che non traspare affatto dal testo normativo (che si limita ad enunciare, fortunatamente, le categorie di attrezzature) e sarebbe quindi assolutamente arbitraria;
- in un picclo centro (2500 abitanti), non esiste il problema di un'articolazione delle attrezzature per "quartieri": il centro nel suo insieme è assimilabile alla scala del quartiere (nelle città i quartieri sono molte miggliaia di abitanti, infatti). Quindi la scala locale indicata nel DI è, per Ravello, quella dell'intero centro. Ma su questo non mi dilungo perchè l'ho fatto nella mia perizia e tu sei perfettamente a conoscenza del concetto e delle pratiche che ne discendono nella programmazione dei servizi;
- sai bene poi anche che le attrezzature culturali non sono nominate nel DI tra le attrezzature di livello superiore. Anche se lo fossero, la sala di Niemeyer non potremmo classificarla certo tra queste.
E allora cos'è quest'opera? Quali sono le attrezzature "di interesse culturale"? Se fossero giuste le cosi che dici dovremmo arrivare alla conclusione che un'opera come quella di cui stiamo parlando (anche troppo) non potrebbe essere classificata e realizzata come un'attrezzatura pubblica. Mi sembrerebbe francamente paradossale (e non posso pensare che tu voglia dire questo, ma a questo si arriva seguendoti nel ragionamento). Poi ci meravigliamo perchè l'urbanistica viene odiata da alcuni (da altri lo è per motivi gravi e strumentali): facciamo il possibile per rendere complicata l'attuazione di cose che dovrebbero essere di normale amministrazione.
Salzano
La questione non è se un auditorium faccia o non faccia parte delle “urbanizzazioni secondarie”, o possa o meno essere considerato tra gli spazi pubblici di cui all’articolo 3 del DI 1444/1968. La questione è capire se un auditorium come quello progettato sia o no tra le opere previste, o consentite, dal PUT.
L’area dove dovrebbe sorgere l’auditorium ricade in Zona territoriale 3 del PUT. Questa zona – teniamolo presente – secondo la legge 35/1987, articolo 17, comprende “gli insediamenti antichi, integrati con la organizzazione agricola del territorio, presenti nella costiera Amalfitana e di notevole importanza paesistica”; una zona che “va trasferita nel Piano regolatore generale, come zona di «Tutela Integrata e Risanamento»”. In questa zona – prosegue la norma - ”con una progettazione estremamente dettagliata, documentata e culturalmente qualificata, il Piano regolatore generale fornirà indicazioni e norme (mediante elaborati di piano di dettaglio in scala almeno 1:500: planovolumetrici, profili, fotomontaggi etc.) tali da (omissis)”.
In questa zona delicatissima la legge 35/1987, sempre nel medesimo articolo 17, prescrive che il PRG deve
“ impedire ulteriore edificazione, fatta eccezione per:
- le attrezzature pubbliche previste dal PUT e quelle a livello di quartiere, sempre che l'analisi e la progettazione dettagliata del Piano regolatore generale ne dimostrino la compatibilità ambientale;
- eventuali limitatissimi interventi edilizi residenziali e terziari, ove ne sussista il fabbisogno di cui ai precedenti, articoli 9 e 10, e sempre che l'analisi e la progettazione dettagliata del Piano regolatore generale ne dimostrino la compatibilità ambientale”.
Quindi è inutile qualsiasi esegesi sul rapporto tra standard urbanistici e urbanizzazioni secondarie. I formalismi giuridici si infrangono sulla chiarezza della norma. Il PRG (che a Ravello non c’è, non per colpa di Italia Nostra) può prevedere non “urbanissazioni secondarie” o “centri culturali e da spettacolo”, ma “attrezzature di quartiere”. In parole povere, e da urbanista, quegli spazi pubblici di cui è essenziale che il cittadino disponga a una distanza tale da poterli raggiungere pedonalmente. Certo, in quartieri urbani si può anche pensare a una sala polivalente, a una biblioteca di quartiere, o a simili attrezzature. Ti sembra che sia questo il caso dell’auditorium progettato da Niemeyer-Zoccato?
Gasparrini
E’ un'attrezzatura "necessaria" non solo dal punto di vista normativo ma anche dal punto di vista dell'utilità inconfutabile di mettere in rete e valorizzare le strutture turistico-culturali esistenti, come dimostrano una serie di studi qualificati svolti per conto del Comune e che sono a supporto della valutazione di "compatibilità ambientale" che accompagna il progetto.
Salzano
E chi lo nega? Ma il fatto non cancella il diritto.
Gasparrini
Non ti rispondo perché la mia visione del diritto in questo caso l'ho già espressa. Ma prendo atto che sei d'accordo sulla necessità di un auditorium a Ravello.
Salzano
Non ho mai detto che sono “d'accordo sulla necessità di un auditorium a Ravello”. Ho detto che non ho mai negato questa necessità. Ma se si ritiene che un auditorium lì è davvero necessario, dopo aver ammesso che non si può farlo subito perché è illegittimo, bisognerebbe chiedersi che percorso occorre seguire per farlo. Lascio perdere l’aspetto procedimentale e mi soffermo sul merito urbanistico.
Poiché l’auditorium non è certo una struttura commisurata alle esigenze di 2500 abitanti, ma almeno di livello intercomunale (non parlo da giurista, quale non sono, ma da urbanista) occorrerebbe studiare il territorio almeno alla scala del presumibile bacino d’utenza. Vogliamo riferirci alla Costiera amalfitana, o vogliamo considerare l’intera penisola sorrentino-amalfitana? Naturalmente coinvolgendo gli altri comuni, oppureinveswtendo come protagonista un livello sovraordinato: la Regione? Forse si.
Poiché il sito è quello che è, occorrerebbe approfondire in particolare lo studio su due aspetti rilevantissimi: quello paesistico e ambientale da un lato, quello dell’organizzazione della mobilità e dell’accessibilità dall’altro. Se non facessimo così, correremmo il rischio di danneggiare un paesaggio la cui eccezionalità mi pare dimostrata, e saremmo certi di provocare disastri dal punto di vista di una viabilità già oltre l’orlo del collasso (se consideri le devastazioni del paesaggio che i lavori sulle infrastrutture hanno provocato).
Se gli studi confermassero l’opportunità e l’utilità di realizzare l’auditorium lì, occorerebbe tradurli in una serie coordinata e coerente di scelte sul territorio: in un piano, che probabilmente avrebbe qualche analogia con il PUT, ma naturalmente sarebbe più aggiornato, preciso, rigoroso, operativo. Dimenticavo, bisognerebbe provvedere anche alle risorse necessarie per renderlo effettivamente operativo (e allora, fatalmente, ci domanderemmo se, tra tutti gli interventi necessari, l’auditorium è proprio quella prioritaria).
Sulla base delle direttive di questo insieme di “scelte politiche tecnicamente assistite” (di questo piano territoriale) occorrerebbe poi redigere il piano comunale e, solo su questa base, affidare (magari con una procedura di pubblica evidenza? Non ne sono innamorato, ma forse un confronto tra soluzioni diverse potrebbe essere opportuno, per chi non s’innamora delle vedettes) affidare un incarico di progettazione, realizzare, inaugurare, con la certezza che il paesaggio sarebbe più bello che pria, e che le 400 automobili o i 5 pullman (pubblico, orchestrali, tecnici ecc.) non intaserebbero la precaria rete stradale e non solleciterebbero la realizzazione di nuove strade: magari avvalendosi di qualche nuova interpretazione corriva delle leggi, o a una legge ad hoc, o a una raccolta di firme prestigiose.
Gasparrini
un piccolo (400 posti!) e pregevole intervento di architettura contemporanea che interpreta in modo straordinario linguaggi, qualità spaziali, disposizioni al suolo e relazioni con il paesaggio, valorizzando la straordinaria stratificazione della costiera amalfitana e introducendo nuovi valori fisici e simbolici capaci di consolidare e arricchire quelli esistenti (ma su questo aspetto, so che non sei d'accordo quindi non insisto)
Salzano
Ti credo, come credo a Cesare de Seta che sostiene che Niemeyer ha fatto il progetto, e non solo il bozzetto come invece aveva scritto il Sindaco ( Corriere del Mezzogiorno, 15 gennaio 2004, p. 1). Ma non è questo un punto che io abbia sollevato. Tra l'altro, del progetto ho visto solo il materiale pubblicato in internet, perciò, benché conosca bene Ravello, non sono in grado di confermare né di smentire la tua affermazione. Dunque, fino a prova contraria ti credo. Ma non c'entra con le ragioni della mia critica.
Gasparrini
Prendo atto della tua fiducia e della disponibilità a pensare che questo sia possibile. Molti non lo sono per principio.
Gasparrini
E’ compatibile, in una lettura più dettagliata del progetto, con i requisiti spaziali e ambientali che possono ricondursi ad una interpretazione complessa e non manichea del suo "impatto" (ovviamente, non condivido la tua posizione secondo cui è comunque sbagliato aggiungere qualcosa all'attuale, intoccabile, bellezza del paesaggio).
Salzano
Quando ero assessore ho chiamato Giancarlo De Carlo a Mazzorbo (Venezia), Vittorio Gregotti a Cannaregio (Venezia), Gino Valle alla Giudecca (Venezia). Non ho quindi nessuna pregiudiziale ostilità nei confronti dell'architettura moderna nei paesaggi consolidati. Posso sostenere che forzare la legge per abbellire un luogo già bello, investire risorse pubbliche per migliorare un luogo già ottimo e distrarle da altri impieghi più urgenti, aumentare il carico urbanistico in contrasto con l'unico piano territoriale esistente in quell'area, e in assenza perfino di un piano regolatore vigente, è un errore? L'ho detto e continuo a ripeterlo fino alla nausea. La questione centrale è per me quella della legalità. E invece, di fronte ai puntuali rilievi di De Lucia tutti hanno detto che, si, c'è "qualche problema legale", oppure che ci sono "questioni burocratiche", ma in un modo o nell'altro si troverà il modo di risolverle. Nessuno che abbia voluto cercare di entrare nel merito, né quando la sola perizia in campo era quella di De Lucia, né quando ce n'erano due che dicevano cose diverse. Forse il fatto che De Lucia fosse stato interpellato da un gruppo di cittadini anziché da un ente pubblico rendeva meno valide le sue ragioni? No, caro Carlo, la ragione è un'altra, e sta nel clima che tutti respiriamo e da cui molti si fanno condizionare. Il clima per cui se una causa è da me ritenuta giusta la legge, le regole che valgono per tutti, non valgono. Come ho scritto a de Seta, trascurare la questione della legittimità, ridurla a quisquilia o pinzillacchera, o considerarla come cosa che possa essere risolta con una interpretazione ad usum delphini o, peggio ancora, con una legge ad personam, è molto pericoloso. Significa cedere alla tendenza che sembra dominare oggi nel nostro sciagurato paese: la tendenza a considerare prevalenti certi interessi specifici (poco importa se di singoli soggetti o di intere comunità locali o scientifiche) rispetto alla legge comune. Ti piaccia o no, Carlo, questo è berlusconismo, il quale, come tutti i virus, conosce i portatori infetti e i portatori sani.
Gasparrini
Proprio perchè conosco bene lo spazio che hai dato all'architettura contemporanea a Venezia (ricorderai che ci siamo incontrati da te sul piano di Venezia, assieme a Edgarda, allo stesso Vezio e a tanti altri per discutere sulle regole della conservazione/trasformazione del centro storico) e proprio perché ho sempre pensato che la tua posizione sui centri storici non fosse quella della cristallizzazione tout court (come quella di altri) ferma restando la nostra comune posizione su una rigorosa conservazione del patrimonio storico (cosa che ho perseguito anche nel nuovo Piano di Roma), non capisco il tuo attuale radicalismo sull'argomento. Se mi dici oggi che, in realtà, la questione principale è quella della legittimità, ti seguo e ne stiamo discutendo civilmente. Certo con argomentazioni di segno diverso ma che credo abbiano pari dignità e richiederebbero, da parte di altri, la stessa pazienza e voglia di capire che stiamo dedicando noi ad affrontare questioni così complesse e delicate
Salzano
Non mi soffermo sulle altre questioni, per le quali ti rinvio alla lettera aperta a Cesare de Seta di Lodo Meneghetti che troverai in Eddyburg. Con affetto
Cambia la legge sulla vendita del patrimonio pubblico. E’ già al lavoro una commissione che, con la partecipazione di Sabino Cassese, dovrà «demarcare» ciò che è patrimonio artistico intoccabile, come il Colosseo o Fontana di Trevi, da ciò che artistico non è e dunque potrà essere ceduto. In arrivo c’è anche un catalogo di tutti i beni pubblici non disponibili, diviso per categorie.
Giuliano Urbani, ministro dei Beni e delle Attività culturali l’annuncia durante un contraddittorio con Salvatore Settis, storico dell’arte e direttore della Normale di Pisa, oltre che ex direttore del Getty Research Institute. Tanto Urbani che Settis hanno scritto un libro sul presente e sul futuro del patrimonio dello Stato. Quello del ministro (Il tesoro degli italiani, Mondadori) difende com’è ovvio l’azione del governo e in particolare l’istituzione della Patrimonio Spa, la contestata società che dovrebbe valorizzare i beni pubblici. Quello di Settis (Italia Spa, Einaudi) rappresenta all’opposto un duro atto d’accusa e mette in guardia rispetto all’«assalto» al patrimonio culturale dell’Italia da parte del governo e dei privati. Il colloquio si svolge nella redazione di Repubblica e muove appunto dai libri.
La legge sulla Patrimonio Spa ha suscitato molte polemiche: c’era e c’è il timore che le bellezze d’Italia finiscano nelle mani dei privati. Urbani ha dedicato alla questione solo sette pagine e mezzo. Settis un intero saggio. Una evidente disparità, come mai?
URBANI «Per me la Patrimonio Spa funziona e non deve intimorire perché i beni culturali sono già tutelati da altre leggi. Però c’è stata polemica, è vero, peraltro mal condotta dalla nostra opposizione parlamentare e non parlamentare. Diciamo che hanno scelto la via del manicheismo: tutto ciò che fa il governo è male. Siamo arrivati al ridicolo di contraddire per intero la gestione precedente. Ma un amministratore pubblico non è solo un amministratore, è anche un signore che sa che meno dissenso c’è, meglio è. Perciò ho pensato alla Commissione di esperti: decideremo così nei dettagli cosa privatizzare. Ma ripeto: il patrimonio artistico già oggi è difeso».
SETTIS «Illustri giuristi da me consultati dicono di no. In via teorica il meccanismo della nuova legge prevede anche che si possa vendere il Colosseo: la normativa non lo esclude. Certo, ci vogliono le firme contestuali di Urbani e Tremonti. Ora i nostri ministri dicono che non firmeranno mai una cosa del genere: voglio crederlo. Ma che ne so io chi saranno i ministri tra otto, dieci, vent’anni?. E poi quando Urbani scrive nel suo libro che il nostro patrimonio nasce dai privati e dunque al massimo glielo restituiremo, ecco, è questo tipo di affermazioni che mi lasciano sconcertato. Sarebbe come dire che l’Unità d’Italia l’ha fatta un privato di nome Giuseppe Garibaldi. Il patrimonio, comunque sia arrivato, c’è. E di mezzo c’è l’entità dello Stato che lo elabora, i cittadini, la coscienza civica».
URBANI «Mi si consenta una precisazione: io sono un politologo e dunque attribuisco alle parole un significato più politico. Quando con una battuta dico che restituiremo ai privati un patrimonio realizzato dai privati, intendo dire che la peculiarità dei nostri beni artistici è quella di nascere più dall’iniziativa dei cittadini che non da quella delle istituzioni nazionali che peraltro fino ad un secolo e mezzo fa non c’erano neppure».
Al dunque cosa sarà privatizzato?
URBANI «Parlerei di privatizzazioni tra virgolette. In realtà si tratta di gestione in concessione. Chiederemo aiuto, con le modalità più sperimentate, a un mondo di specialisti per la gestione dei musei. Ma il pubblico rimarrà il padrone assoluto dei musei; i sovrintendenti restano i tutori. Diverso è il discorso delle dismissioni: c’è un enorme quantità di beni di cui lo Stato dovrebbe disfarsi. E’ nell’interesse pubblico venderli. Si tratta di capire cosa è disponibile e cosa non lo è».
SETTIS «E’ chiaro che nel patrimonio pubblico ci sono vecchi appartamenti lasciati da qualche vedova o vecchie scuole che non si usano: queste cose, se si vendono, è un bene. Il problema riguarda il patrimonio culturale. Qui è l’assalto. Non si possono mettere teoricamente sullo stesso piano, sia pure con delle garanzie, l’appartamento del 1950 e un bene culturale. E allora è chiaro che la Fontana di Trevi o il Colosseo non li vende nessuno, ma i beni più piccoli? Che ne è dei beni più piccoli? Ci vuole un intervento normativo che chiarisca bene ciò che è culturale ed incedibile. Da questo punto di vista la Commissione annunciata dal ministro aiuta».
Per favore, ministro, può spiegare bene il senso di questa commissione?
URBANI «Servirà appunto a tratteggiare un ragionevole confine tra ciò che è patrimonio artistico inalienabile e ciò che non lo è. Dico ragionevole perché non sarà facile per un paese come il nostro fare questa distinzione. Sarà poi ben richiamato il sistema dei vincoli a cui i beni sono già oggi sottoposti e a cui tutti teniamo molto».
Dunque in qualche modo il governo corregge la legge: è un ripensamento?
URBANI «Il campo è talmente delicato che più chiarezza facciamo e meglio è: siamo tutti più tranquilli rispetto al nostro patrimonio».
SETTIS «Se questa commissione ha il compito di fare chiarezza è un’ottima notizia: vuol dire che prima chiarezza non c’era. Ripeto: servono garanzie assolute per ciò che è patrimonio culturale. Questo è il punto».
Servirà anche un catalogo dei beni culturali. In Italia non c’è e in passato i tentativi di realizzarlo sono andati a vuoto...
URBANI «Sì certo, serve, ma non universale perché sarebbe un’aspirazione infantile e occorrerebbero dieci anni. Al contrario, il catalogo in un paese come l’Italia dovrà dire solo ciò che non è disponibile. Può fissare delle categorie, non fare elenchi».
SETTIS «Il fatto che finora non si è provveduto ad affrontare in modo sensato il discorso del catalogo denuncia uno scollamento istituzionale tra le esigenze di bilancio del paese e la gestione dei beni culturali. Se adesso si fa, tanto meglio. Detto questo: un catalogo universale è impossibile, è vero. Ma forme di catalogo progettate, questo sì. Mi chiedo: perché non se ne può fare uno finalizzato solo alle dismissioni? Già si escludono per esempio tutti i quadri, ci mancherebbe. C’è poi un altro punto su cui non sono per niente d’accordo col ministro: le mappe del rischio. Urbani nel libro scrive che queste cose possono farle anche i giovani, con un personal computer, a casa propria, nei pomeriggi liberi dalla preparazione degli esami universitari. E’ sbagliatissimo: queste sono cose di alta professionalità».
Finora s’è avuta solo una prima radiografia dei beni pubblici realizzata dall’Agenzia del Demanio: è uscita la scorsa estate ma era scritta in cifre, secondo un elenco di speciali particelle: non ci si capiva nulla.
URBANI «Vorrei ricordare che siamo in un paese che ancora non ha un catasto degno di questo nome. E vorrei aggiungere che io personalmente non dispongo neppure di un catalogo dei beni a rischio: non so dove concentrare le priorità perché non so dove sono i rischi maggiori. Quindi, figuriamoci.... Il lavoro da fare è immenso. Per questo insisto: non pensiamo a un catalogo universale, ma ad uno che elenchi ciò che non è disponibile, diviso per categorie. Oltretutto, grazie al cielo, gli archeologi continuano a scavare, a scoprire. Al resto, alle zone grigie, penseranno i sovrintendenti che sono quasi una magistratura»
Ministro, il presidente Ciampi, nel promulgare la legge su Patrimonio, ha chiesto garanzie per la vendita dei beni e chiarezza sui bilanci. Settis scrive che l’appello è rimasto lettera morta. Lei che dice?
URBANI «Non dimentichiamo mai che su quella legge il presidente ha apposto la sua firma. Vuol dire che ne ha condiviso la legittimità e anche la sufficienza formale. Dal punto di vista sociologico mi rendo conto che chi amministra ha il dovere di farlo con il consenso dei cittadini: meglio dunque accogliere perplessità e dissensi con una norma in più. Siamo il paese dell’eccesso normativo e dei ricorsi: non posso io fare il prezioso. Seriamente: più condivisione abbiamo delle regole del gioco, meglio è».
Il ministro converrà però che la legge è apparsa come un tentativo di monetizzare immediatamente qualcosa, per far arrivare quattrini nelle casse dello Stato. Era proprio necessario fare una legge prima di dotarsi degli strumenti che ne regolano la gestione? Non è stato un danno d’immagine per il governo?
URBANI «Nessun danno. C’è stata solo, come ho già detto, una vivace polemica, per di più mal condotta».
Il concetto di far cassa però è ben evidente.
URBANI «Questo non lo nego: è l’obiettivo innovativo della legge».
Ciampi non a caso parlava anche del rendiconto: voleva cioè una cassa pulita, chiara.
URBANI «E’ semplicemente un problema di soggezione e controllo della Corte dei Conti. Punto. A questo è stato risposto in maniera puntualissima ringraziando il presidente e accogliendo il suggerimento. Il rilievo del capo dello Stato è stato un auspicio, non un diktat. Non ha detto: se non fate questo io non firmo la legge».
SETTIS «Sulla questione del far cassa o non far cassa dico solo che c’è la Costituzione e una chiara sentenza della Corte costituzionale che sancisce la priorità del valore culturale: non può essere subordinato ad altri valori, compresi quelli economici».
Ministro, tra gli oppositori della Patrimonio c’è anche la Corte dei Conti. Ha scritto che in nessun paese Ocse si riscontra una soluzione così radicale nell’affidare la gestione del patrimonio dello Stato. L’accusa è consistente e non è di parte politica. Cosa ne pensa?
URBANI «Che non è un’accusa: è una constatazione. Mi spiego: proprio secondo l’Ocse siamo al penultimo posto in materia di libertà economica all’interno dell’area perché abbiamo una dimensione enorme del patrimonio, non artistico, posseduto. Per arrivare al livello di Germania, Francia e Inghilterra dobbiamo proprio fare ciò che la Corte descrive. Ecco perché, nella mia lettura non è un’accusa, ma una constatazione di qualcosa di positivo, che per di più va fatta».
Eppure sembra lo stesso una critica...
URBANI «Non credo proprio. Se riusciamo a staccare il patrimonio artistico da quello pubblico, si capisce che la Patrimonio Spa insieme alla società Infrastrutture è stata creata per una ragione molto semplice: abbiamo un debito pubblico enorme sul quale paghiamo fior di interessi. Tutti noi cittadini, quotidianamente. Abbiamo invece un patrimonio pubblico, il che ci mette al penultimo posto in graduatoria, su cui paghiamo solo costi con ricavi irrilevanti. Le due società sono state fatte insieme perché dalla valorizzazione in senso economico dei beni pubblici - Patrimonio Spa- arrivano risorse per realizzare le infrastrutture di cui il paese ha bisogno».
Bel paradosso. Dobbiamo cioè auspicare più autostrade per avere più tutela dei beni artistici?
URBANI «Io auspico più infrastrutture per il paese che ne ha bisogno. Ma non per avere più tutela, bensì più risorse per l’amministrazione in generale. Del resto, in un contesto di risorse decrescenti o ci inventavamo questo oppure... Mica potevamo istituire la quarta giocata settimanale all’Enalotto. Era troppo».
Ora i poteri: Settis scrive che enorme è l’arbitrio del ministro dell’economia e debole la potestà del ministro dei beni culturali. Aggiunge che basteranno le vostre due firme per vendere il Colosseo. E’ così?
URBANI «Il potere di decidere una dismissione è metà per uno».
SETTIS «I giuristi da me consultati dicono che è giusta la mia interpretazione sulla suddivisione dei poteri tra lei e Tremonti. Tuttavia io non ho mai pensato che Urbani voglia vendere un bene culturale importante né che voglia farlo Tremonti, perché non voglio dire che lui è quello buono e quell’altro il cattivo. Il punto è che, al momento, la normativa non esclude che il Colosseo possa essere venduto».
La nuova legge prevede anche un canone d’uso, un affitto al valore di mercato per certi beni. Settis si chiede nel libro quali sono i prezzi degli uffizi, di Brera, del Pantheon? Si calcoleranno in base al loro uso attuale o a potenziali trasformazioni in condomini, garage, discoteche?
URBANI «Noi abbiamo il dovere di valorizzare le proprietà pubbliche sottoutilizzate. Quanto agli Uffizi, quelli non sono disponibili. Lo sono invece le biglietterie. Tutto quello che rientra nella valorizzazione del patrimonio pubblico va separato dal patrimonio artistico altrimenti è chiaro che viene fuori la domanda: affittiamo gli Uffizi? La risposta è no».
SETTIS «Forse i giuristi da me consultati non hanno capito, ma secondo loro la legge non dice qui si affittano gli Uffizi a qualcuno. Dice invece: si affittano gli Uffizi agli Uffizi. Mi spiego: lo Stato, che possiede il fabbricato in cui ha sede il museo, fa pagare agli Uffizi il prezzo dell’affitto. E lo decide Tremonti, lei stavolta non c’entra. Questo è rischiosissimo».
Ministro, Tremonti sta firmando col sindaco Veltroni un protocollo per la valorizzazione del patrimonio mentre Berlusconi ha appena affidato al Fai Villa Gregoriana a Tivoli. Siamo forse di fronte ad una strategia per tacitare le polemiche per poi un domani fare ciò che si vuole?
URBANI (scherzando) «Dovrei rispondere: come si permette?». Poi, serio: «Dietro il nostro comportamento non c’è falsità, perché altrimenti lo sarebbe anche questa nostra conversazione, qui a Repubblica con le mie dichiarazioni tranquillizzanti. Certo, è interesse di chi governa tranquillizzare, ma tacitare no»
(a cura di Elena Polidori)
Giuliano Urbani innesta la retromarcia sulla Patrimonio S.p.A.. Gaetano Benedetto, vicepresidente del Wwf, apprezza, ma con moderazione. «Siamo contenti che il ministro voglia alzare il livello di garanzia per i beni storico-artistici, stabilendo nettamente che cosa non si può vendere del patrimonio pubblico. Il governo ha sbagliato, come sostenevano tutte le associazioni ambientaliste, e siamo contenti che lo ammetta. Ma gli suggeriamo una strada più rapida rispetto a quella che indica».
Il ministro ha incaricato una commissione per riformare il Testo Unico dei Beni Culturali. E lì verrà stabilito cosa è inalienabile. Non basta?
«Il governo potrebbe inserire una norma nella Finanziaria e chiarire in che modo il ministero del Beni Culturali può esercitare il suo controllo».
Vale a dire?
«Si deve richiamare esplicitamente il regolamento Melandri, il quale esclude categoricamente che si possano vendere alcuni beni e che in genere condiziona le cessioni a obiettivi di tutela. In ogni caso le parole di Urbani ci rassicurano solo per il patrimonio storico-artistico».
Che significa?
«Resta fuori tutto il patrimonio paesaggistico, per il quale la legge Tremonti non prevede alcuna intesa con il ministero dell’Ambiente».
Che cosa la preoccupa?
«Che una volta venduta una spiaggia, bene demaniale, chi la compra ci possa costruire uno stabilimento, con una strada per arrivarci, un parcheggio e un ristorante sconvolgendo paesaggio ed equilibrio territoriale».
E’ quello che può accadere?
«Certamente. Perché mentre per un edificio storico affidato ai privati la Soprintendenza avrebbe la possibilità di controllare che uso se ne faccia e se se ne fa un uso scorretto può anche revocare la concessione, per una spiaggia non è previsto un organo che vigili».
E la legge Tremonti non dà nessuna garanzia?
«Assolutamente no».
Sullo stesso argomento leggi l’intervista a Francesco Erbani rilasciata da Salvatore Settis, “Se l’arte finisce in mano ai privati”
Visita il sito http://www.patrimoniosos.it
Caro Meneghetti,
un amico mi segnala la Tua lettera sul sito di Eddy Salzano con il quale ho un antico rapporto spero non intaccato da questa divergenza. Mi avvedo che gli architetti sono degli eccellenti epistolografi e ne sono lieto, ma trovo anche che è inutile pestare acqua nel mortaio. Sulla questione Ravello-Niemeyer si è ormai superato il segno. Ne ho scritto per primo nel 1999, poi ho raccolto il saggio in un mio libro Le architetture della modernità tra crisi e rinascite. Bollati-Boringhieri, 2002. Per fortuna tu non mi poni problemi di legalità urbanistica alla quale sono attento quanto i miei interlocutori anche se il mio mestiere è altro e mi fido di amici urbanisti (Carlo Gasparrini) e giuristi (il prof. Laudadio, amministrativista di rango) i quali hanno fugato ogni mia remota preoccupazione al riguardo. Che altri la pensino in modo diverso non mi sorprende, ma neppure turba le mie convinzioni acquisite con cura e in tempi assai lontani dalla polemica.
Tu mi poni un preciso interrogativo e hai la cortesia di citare un mio testo su Piero Bottoni a Capri: naturalmente io condivido quel che ho scritto e non ho abiurato. Proprio il caso della grotta resa abitabile da Bottoni è la testimonianza più clamorosa di come una sfida impossibile è stata vinta da un architetto sensibile e creativo. Gli oppositori di Niemeyer a Ravello avrebbero consentito a Bottoni di costruirsi una casa in una grotta demaniale? Chiedilo tu a loro. Quel che penso sul Paesaggio l’ho scritto in un paio di Annali della Storia d’Italia (Einaudi): tutta la mia vita testimonia quanto mi sia caro il paesaggio, l’architettura, la città nella lenta e affascinante dinamica storica.
Credo che Ravello non sarà lesa da Niemeyer: la sua integrità è già lesa dalle case popolari nella valle del Dragone, dal ristorante - accanto al suolo dove sorgerà l’Auditorium, lunghezza massima 32 metri – lungo circa 120 metri e da cento altre brutture. Nessuno se ne è accorto? La Rondinaia dove abita Gore Vidal (un villone che vorrei esser Gadda per vederla crollare sotto le mie parole) “lede” il paesaggio di Ravello? Caro, il Paesaggio che è un’entità storica creata dall’uomo viva e vivente, non metastorico simulacro, né idola metafisico. Il mio amico Marc Augé ha pubblicato un libretto sulle rovine e sarebbe utile che gli oltranzisti della difesa lo leggessero, piuttosto che farsi drogare da Put, Pit, Pat e Pot che per me sono i personaggi di un romanzo di Dickens. Se mi permetti ti segnalo le pagine dedicate alla nuova architettura nel mio ultimo romanzo Terremoti, Aragno 2002: lì troverai pagine forse gradevoli nelle quali spiego fino in fondo e in modo molto chiaro (I suppose) tutto il mio pensiero sul rapporto tra architettura malnata e paesaggio. Ma il Niemeyer meticcio, come si autodefinisce, 96 anni, onestamente faccio fatica a collocarlo tra i creatori di architettura malnata, come fai tu e altri con tanta intransigente baldanza e scarsa considerazione per quel bene supremo che è la capacità di creare bellezza.
Credimi con cordialità,
Cesare de Seta
Caro De Seta,
ti ringrazio della lettera, benché, penso, forse giustamente stufo della diatriba, tu non accetti di accedere al senso del mio modesto intervento. Tra l'altro non noti che, circa Piero Bottoni e Capri, sono le case e non la grotta il centro del mio e del tuo stesso discorso. E poi non hai evidentemente letto il pezzo su Ravello precedentemente pubblicato da Eddy. Naturalmente conosco la tua effettiva posizione, Ravello a parte, figurati se no, e ti ammiro. Di qui la mia attuale sorpresa a vederti confuso in mezzo ai cosiddetti 165. Quanto all'"intransigente baldanza" che mi accomunerebbe ad altri, scusa carissimo, la respingo. Penso di aver ragionato, non di aver sentenziato. Non intendo paragonarmi a te, ai tuoi testi sugli Annali e ad altro. Ti indico però un mio libro abbastanza recente che mostra la mia posizione; potresti limitarti a leggere la recensione di Giancarlo Consonni che Eddy pubblica sul suo sito. Il libro, purtroppo pubblicato da un editore a scarsa diffusione (Unicopli di Milano), si chiama per l'appunto Architettura e paesaggio. Memoria e pensieri.
Lodo Menghetti
Sulla costiera amalfitana sbarcano progetti e iniziative. E con loro i timori, come sempre accade quando su un territorio così fragile si prevede di aggiungere cemento: il passato, soprattutto quello recente, non offre tranquillizzanti esperienze. Da Vietri a Conca dei Marini, passando per Amalfi e Ravello e fino a Positano e al piccolo arcipelago che la fronteggia divampano le polemiche fra chi propone interventi di più o meno forte impatto sul paesaggio e chi si oppone, contestandone l' utilità e anzi paventando il peggio.
A Vietri, il primo paese che si incontra arrivando in costiera da Salerno, stanno entrando in funzione i nuovi stabilimenti sull' arenile. A differenza di quelli precedenti sfoggiano strutture in cemento, non più rimovibili. Piattaforme di calcestruzzo al posto delle vecchie passerelle. Ma anche bar, ristoranti, uffici e botteghe. Finora sul lungomare sfilavano baracchette e casotti, accatastati in modo disordinato, cui si aggiungevano continuamente tettoie e altre coperture, spesso abusive. E da molte parti si chiedeva che la zona venisse risanata e che si rimuovesse quella specie di bidonville che ostruiva il rapporto fra l' abitato e la spiaggia. Ma il modo in cui il Comune è intervenuto, ottenendo anche l' assenso della Soprintendenza di Salerno, ha destato molte opposizioni. Il cemento non avrebbe dovuto sostituire il legno, secondo le sezioni salernitane di Italia Nostra e di Legambiente. L' intervento è abbastanza limitato (la superficie coperta è di 350 metri quadrati), ma il rischio è che, da Vietri in poi, anche altre spiagge della costiera siano invase dal cemento. Mentre altrove nel salernitano si tenta proprio di percorrere con fatica la strada opposta: dal cemento al legno (è il caso di Eboli).
Nel Comune di Vietri ricade l' area di Fuenti. Al posto del "mostro" demolito quattro anni fa, si avvierà un restauro paesaggistico con terrazzamenti alberati, vigneti e una minima cubatura. Molti sono i punti del progetto condivisi dalle associazioni di tutela. Ma fortissime perplessità suscita l' idea di ricostruire il profilo del promontorio segato di netto alla fine degli anni Sessanta per far posto all' albergo. «Sarebbe una specie di protesi in cemento rivestita di verde, quasi il prodotto di un senso di colpa», protestano gli ambientalisti. La costiera è un sistema. Paesaggio, centri storici, ambiente, agricoltura e turismo ne sono gli elementi cardinali. Ci si muove con difficoltà, soprattutto d' estate. La strada che corre lungo la roccia seguendone l' andamento sinuoso e infilandosi nei fiordi più profondi, è intasata da enormi torpedoni che gravano con un peso insopportabile e che spesso sono causa di dissesti (sulla Marina di Conca, alcuni anni fa, è precipitata una frana che solo per miracolo non ha fatto vittime).
Sull' integrità della costiera vigila un Put (piano urbanistico territoriale) varato a metà degli anni Ottanta dalla Regione Campania. è un piano da tutti giudicato di grande rigore (anche se violato da innumerevoli abusi). Ma contiene delle incognite, la principale delle quali è la previsione di una serie di gallerie che attraversano le montagne e che dovrebbero snellire il traffico. Di uno di questi tunnel si torna a parlare ora con insistenza: dovrebbe aggirare l' abitato di Amalfi ed essere usato anche come parcheggio sia di autobus che di macchine (ma parcheggi e garage multipiano stanno diventando un ossessione anche altrove in costiera, e spesso i progetti prevedono profondi buchi nella roccia). L' obiezione avanzata dal fronte ambientalista a queste iniziative si può sintetizzare in pochi concetti: il traffico di auto e pullman in costiera non va snellito né agevolato, ma va ridotto e il turismo estivo non può crescere oltre i limiti imposti dalla struttura fisica della costiera, semmai va distribuito meglio nel corso dell' anno.
Un altro progetto di grandi ambizioni interessa Ravello. Lo firma uno dei maestri dell' architettura contemporanea, Oscar Niemeyer, al quale si è affidata la Fondazione Ravello, un organismo nato alcuni mesi fa per iniziativa del sociologo Domenico De Masi, che di Ravello è stato assessore. L' architetto brasiliano ha schizzato il disegno di un auditorium che dovrebbe sorgere appena fuori della galleria che immette sulla piazza di Ravello, in una zona già intensamente edificata, spesso abusivamente. L' auditorium svetterebbe a picco sul mare, a un centinaio di metri da Villa Rufolo, nei cui giardini si tiene ogni estate una stagione di concerti. Il progettista che inventò Brasilia ha visto il sito in fotografia ed ha immaginato una struttura molto slanciata, alla quale stanno lavorando ora gli uffici comunali. L' auditorium, che piace molto al Comune (il sindaco è della Margherita) e alla Regione (Antonio Bassolino ha visto tempo fa Niemayer in Brasile), incontra però l' ostilità delle opposizioni in paese, dei Ds, dell' Udeur e di An, e divide le associazioni ambientaliste (contraria è Italia Nostra, favorevole è il presidente di Legambiente, Ermete Realacci). La struttura, che avrebbe una capienza di 500 posti, consentirebbe di prolungare anche in inverno la stagione dei concerti e inoltre potrebbe essere usato come sala di congressi. E sarebbe un' opera di grande architettura moderna. Questi gli argomenti dei sostenitori. Ai quali se ne contrappongono altri: l' auditorium avrebbe un impatto deturpante sul paesaggio e attrarrebbe tantissimo traffico. I Ds di Ravello propongono di costruirlo più sotto, mentre Italia Nostra vorrebbe che a Ravello non fosse aggiunto altro cemento. «Il fascino dei concerti è in gran parte nel panorama di Villa Rufolo», insiste Raffaella Di Leo, presidente di Italia Nostra a Salerno.
Un' altra spina è a Conca dei Marini. Su uno sperone di roccia di agghiacciante bellezza domina il paesaggio il convento di Santa Rosa. L' edificio risale alla metà del '500. Qui le suore devote alla santa inventarono un dolce che ha fatto la fortuna della pasticceria napoletana: la sfogliatella. Il convento è abbandonato, dopo aver funzionato per molto tempo come albergo. E va in malora. Tre anni fa è stato acquistato da una società inglese, che vorrebbe rinverdirne i fasti, trasformandolo in un hotel di grande charme. E fin qui tutti d' accordo. I problemi cominciano quando trapelano voci sulle modifiche previste, e in primo luogo sull' aggiunta di un manufatto di 300 metri quadrati. Sono indispensabili per un albergo di lusso, spiegano i proprietari (che hanno ottenuto un assenso di massima dal soprintendente, mentre la Regione, dopo un iniziale favore, sembra ora più prudente). Manomettono gravemente la sagoma e i volumi dell' edificio, protestano gli oppositori. L' ultimo cruccio viene da Li Galli, un arcipelago composto da tre isolette di fronte a Positano, dove i mitografi greci collocavano l' antro delle sirene. Su uno dei tre scogli, in basse casupole avvolte da chiome verdi, invisibili dalla costiera, hanno abitato Leonide Massine e poi Rudolf Nureyev. Ora ci sono un eliporto e una residenza a cinque stelle, che brilla d' un bianco sgargiante. Più distante, dove un tempo si riponevano gli attrezzi, spicca una sala di meditazione.
Appello di Italia nostra
PER IL RISPETTO DELLA LEGGE E LA TUTELA DEL PAESAGGIO
La costruzione a Ravello di un auditorium di 400 posti, in uno dei luoghi più panoramici di quel comune, non è consentita dal piano urbanistico territoriale: un piano di fondamentale importanza per la tutela della costiera amalfitana e della penisola sorrentina, approvato con apposita legge regionale. Ogni diversa ed errata interpretazione delle norme vigenti consentirebbe, ove accolta, il moltiplicarsi di iniziative illegali in tutti comuni sottoposti al piano.
Desta meraviglia e sconcerto la circostanza che alcuni pretendano di far prevalere la loro opinione sulla normativa vigente, senza rendersi conto che per questa strada si va verso l’illegalità generalizzata, non soltanto nel campo dell’urbanistica.
I sottoscritti chiedono perciò che siano rispettate le norme del vigente piano territoriale, che può essere modificato solo con legge. Ogni altro argomento, di natura ambientale, paesistica, e anche puramente economica (un auditorium di 400 posti del costo di 18 milioni di euro, che significa circa 45.000 euro a posto), è subordinato alla difesa del principio di legalità. Senza il rispetto della legge, le istituzioni pubbliche, che stanno vivendo una profonda crisi di legittimità, non possono ricostruire un proficuo rapporto con i cittadini.
Gianfranco Amendola, magistrato
Carla Anzalone, professoressa
Raffaele Attardi, Associazione Gaia
Pierfausto Bagatti Valsecchi, architetto
Mirella Belvisi, consigliere nazionale di Italia Nostra
Piero Bevilacqua, storico
Francesco Canestrini, consigliere nazionale di Italia Nostra
Teresa Cannarozzo, urbanista
Giuseppe Cantillo, professore di Filosofia Morale - Napoli
Nicola Caracciolo, storico
Pierluigi Cervellati, urbanista
Vincenzo Cerulli Irelli, giurista
Piero Craveri, storico
Alda Croce, Fondazione Benedetto Croce
Alberto Cuomo, architetto
Maurizio Cutini, biologo
Aldo De Chiara, magistrato
Mario De Cunzo, Comitato per la difesa del Mezzogiorno
Gigi De Falco, presidente Italia Nostra Campania
Raffaella Di Leo, presidente Italia Nostra Salerno
Vezio De Lucia, consigliere nazionale di Italia Nostra
Antonio Di Gennaro, agronomo
Anna Donati, senatrice
Guido Donatone, presidente Italia Nostra Napoli
Vittorio Emiliani, Comitato per la bellezza
Paolo Ferloni, consigliere nazionale di Italia Nostra
Piero Ferretti, consigliere nazionale di Italia Nostra
Andrea Fienga, WWF penisola sorrentina
Leonardo Filesi, professore di Ecologia I.U.A.V.
Giuseppe Giliberti, vice presidente Italia Nostra
Tommaso Giura Longo, architetto
Carlo Iannello, Fondazione Antonio Iannello
Silvia Imparato, produttrice vitivinicola
Italo Insolera, urbanista
Gianni Lanzuise, architetto
Giovanni Losavio, magistrato
Silvio Lugnano, criminologo
Antonio Mansi, consigliere nazionale di Italia Nostra
Massimo Maresca, Italia Nostra penisola sorrentina
Claudia Melica, professore universitario di filosofia - Trento
Gustavo Minervini, giurista
Luigi Montano, presidente Associazione Eidos Acerra
Riccardo Motti, Orto Botanico - Napoli
Raffaella Nappi, urbanista
Paolo Nicoletti, geologo
Gaia Pallottino, segretario generale Italia Nostra
Giulio Pane, storico dell’architettura
Rita Paris, archeologa
Desideria Pasolini dall’Onda, presidente Italia Nostra
Raffaele Raimondi, magistrato
Massimo Ricciardi, botanico
Carlo Ripa di Meana, già Ministro dell’Ambiente
Bernardo Rossi Doria, urbanista
Giovanni Russo, scrittore
Mario Russo, archeologo
Rodolfo Sabelli, architetto
Edoardo Salzano, urbanista
Luigi Scano, segretario Associazione Polis
Maurizio Sebastiani, consigliere nazionale Italia Nostra
Vittorio Sgarbi, storico dell’arte
Sauro Turroni, senatore
Massimo Venturi Ferriolo, professore di Filosofia Morale - Salerno
Francesco Erbani
Il cemento assedia la costiera amalfitana
Da la Repubblica del 26 luglio 2003
(…) Un altro progetto di grandi ambizioni interessa Ravello. Lo firma uno dei maestri dell' architettura contemporanea, Oscar Niemeyer, al quale si è affidata la Fondazione Ravello, un organismo nato alcuni mesi fa per iniziativa del sociologo Domenico De Masi, che di Ravello è stato assessore. L' architetto brasiliano ha schizzato il disegno di un auditorium che dovrebbe sorgere appena fuori della galleria che immette sulla piazza di Ravello, in una zona già intensamente edificata, spesso abusivamente. L' auditorium svetterebbe a picco sul mare, a un centinaio di metri da Villa Rufolo, nei cui giardini si tiene ogni estate una stagione di concerti. Il progettista che inventò Brasilia ha visto il sito in fotografia ed ha immaginato una struttura molto slanciata, alla quale stanno lavorando ora gli uffici comunali. L' auditorium, che piace molto al Comune (il sindaco è della Margherita) e alla Regione (Antonio Bassolino ha visto tempo fa Niemayer in Brasile), incontra però l' ostilità delle opposizioni in paese, dei Ds, dell' Udeur e di An, e divide le associazioni ambientaliste (contraria è Italia Nostra, favorevole è il presidente di Legambiente, Ermete Realacci). La struttura, che avrebbe una capienza di 500 posti, consentirebbe di prolungare anche in inverno la stagione dei concerti e inoltre potrebbe essere usato come sala di congressi. E sarebbe un' opera di grande architettura moderna. Questi gli argomenti dei sostenitori. Ai quali se ne contrappongono altri: l' auditorium avrebbe un impatto deturpante sul paesaggio e attrarrebbe tantissimo traffico. I Ds di Ravello propongono di costruirlo più sotto, mentre Italia Nostra vorrebbe che a Ravello non fosse aggiunto altro cemento. «Il fascino dei concerti è in gran parte nel panorama di Villa Rufolo», insiste Raffaella Di Leo, presidente di Italia Nostra a Salerno.(…)
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La Regione Campania, con legge 27 giugno 1987, n. 35, ha approvato il Piano urbanistico territoriale (PUT) dell’Area Sorrentino-Amalfitana.
L’area su cui è previsto l’Auditorium ricade nella Zona territoriale 3 del PUT, il quale, all’art. 17, contempla, come di seguito pedissequamente riportato, con valenza prescrittiva e, conseguentemente, obbligatoria rispetto agli strumenti di pianificazione locale e, per quanto logicamente coerente, immediatamente precettiva e operativa, esclusivamente, le seguenti possibili ipotesi d’intervento edilizio, sia pubblico, che privato:
Disciplina della Zona territoriale 3,
Tutela degli insediamenti antichi sparsi o per nuclei.
Comprende gli insediamenti antichi, integrati con la organizzazione agricola del territorio, presenti nella costiera Amalfitana e di notevole importanza paesistica.
Essa va trasferita nel Piano regolatore generale, come zona di «Tutela Integrata e Risanamento».
Per essa, con una progettazione estremamente dettagliata, documentata e culturalmente qualificata, il Piano regolatore generale fornirà indicazioni e norme (mediante elaborati di piano di dettaglio in scala almeno 1:500: planovolumetrici, profili, fotomontaggi etc.) tali da:
- individuare gli edifici ed i complessi di particolare interesse storico-artistico ed ambientale da assoggettare a soli interventi di restauro conservativo, di cui alle norme tecniche del successivo titolo IV, (con particolare riferimento agli edifici rustici coperti a volta);
- consentire per la restante edilizia esistente, gli interventi ammessi per la precedente « zona territoriale 1b », relativamente alla edilizia esistente a tutto il 1955;
- prevedere e/o consentire interventi per l'adeguamento dell'organizzazione agricola del territorio, secondo quanto previsto per la precedente «zona territoriale 1 b» lettera a;
- impedire ulteriore edificazione, fatta eccezione per:
- le attrezzature pubbliche previste dal PUT e quelle a livello di quartiere, sempre che l'analisi e la progettazione dettagliata del Piano regolatore generale ne dimostrino la compatibilità ambientale;
- eventuali limitatissimi interventi edilizi residenziali e terziari, ove ne sussista il fabbisogno di cui ai precedenti, articoli 9 e 10, e sempre che l'analisi e la progettazione dettagliata del Piano regolatore generale ne dimostrino la compatibilità ambientale.
Tanto per le attrezzature pubbliche quanto per gli altri eventuali interventi edilizi il Piano regolatore generale prescriverà tipologie, materiali e tecniche costruttive, anche in ottemperanza alle norme tecniche di cui al successivo titolo IV.
Alla luce del chiaro ed inequivocabile dettato normativo scaturisce che il progettato Auditorium solo alle seguenti condizioni potrebbe essere conforme alle prescrizioni del PUT:
Che l’intervento ricada in un’area espressamente destinata da un Piano regolatore generale approvato e vigente e che la relativa progettazione abbia dimostrato con elaborati di dettaglio in scala non inferiore a 1:500 la compatibilità ambientale della nuova edificazione nel sito individuato;
Che l’intervento coincida o con un’attrezzatura pubblica specificamente prevista dal PUT o con un’attrezzatura pubblica prevista dal Piano regolatore generale “al livello di quartiere”.
In forza di tanto ne discende che la progettata struttura è in palese contrasto con la L.R.C. n. 35/1987, atteso che difetta di tutte le condizioni imposte dal PUT, e soprattutto non rientra né fra le attrezzature pubbliche previste dal PUT medesimo e neppure tra quelle a livello di quartiere.
Preliminarmente, infatti, manca il presupposto, dal momento che il Comune di Ravello non è dotato di Piano regolatore generale approvato e vigente, bensì di un piano solo adottato e per giunta sospeso, proprio nella parte relativa alla localizzazione dell’Auditorium, per effetto della pronuncia cautelare del TAR di Salerno n. 1350 del luglio 2000, esattamente sul presupposto del ritenuto contrasto col PUT. In ogni caso, la previsione contenuta nel Piano regolatore generale adottato sarebbe, comunque, inidonea, visto che la progettazione è stata redatta in scala 1:2.000, anziché 1:500, come prescritto.
In particolare, poi, non è possibile comprendere l’Auditorium fra le attrezzature a livello di quartiere (che sono quelle di cui tratta il DM 2 aprile 1968 sui cosiddetti standard urbanistici), né fra le attrezzature pubbliche previste dal PUT.
il PUT non prevede alcun Auditorium, né attrezzatura pubblica ad esso assimilabile.
Pare evidente, quindi, che nessuna delle attrezzature e opere pubbliche previste dal PUT riguarda o almeno può riguardare i terreni in questione.
A tutto ciò è necessario aggiungere quanto segue.
Nel verbale della conferenza dei servizi del 4 agosto 2003 finalizzata all’acquisizione dei pareri sul progetto definitivo dell’Auditorium “Oscar Niemeyer” e alla stipula dell’accordo di programma per la sua realizzazione, nonché nel verbale di tale accordo di programma, sempre in data 4 agosto 2004, si sostiene che, risultando il comune di Ravello sprovvisto di strumento urbanistico, troverebbe applicazione l’articolo 4 della legge regionale 20 marzo 1982, n.17.
Si tratta di un macroscopico errore. Infatti, l’articolo da ultimo citato dispone, al primo comma, che:
nei Comuni sprovvisti di strumenti urbanistici approvati:
a) all'interno dei centri abitati [...] è vietato ogni intervento edilizio, ad eccezione delle opere di ordinaria e straordinaria manutenzione, di restauro, di risanamento conservativo e di ristrutturazione, che non comportino aumento delle volumetrie e delle superfici utili preesistenti;
b) all'esterno dei centri abitati [...] l'edificazione a scopo residenziale è soggetta alla limitazione di metri cubi 0,03 per ogni metro quadrato di area edificabile; per le opere strettamente accessorie all'attività agricola è consentito un indice di fabbricabilità aggiuntivo pari a 0,07 mc/mq; in questo caso il rilascio della concessione edilizia è subordinato alla trascrizione, a cura del concessionario, di un atto che vincoli all'attività agricola la destinazione dei fabbricati in progetto.
Mentre il successivo secondo comma stabilisce che
le limitazioni che precedono hanno efficacia fino alla data di entrata in vigore del Piano regolatore generale [...] e non si applicano nei confronti degli interventi volti alla realizzazione di edifici e strutture pubbliche, o opere di urbanizzazione primaria e secondaria, di programmi per l'edilizia residenziale pubblica, nonché dei piani e degli interventi previsti dalla legge statale 17 maggio 1981, n. 219.
L’errore consiste nel fatto che il Comune di Ravello è certamente sprovvisto di vigente strumento urbanistico generale comunale regolarmente approvato, ma per converso è sottoposto alla disciplina di uno strumento di pianificazione, quale il Piano urbanistico territoriale dell’area Sorrentino-Amalfitana, il quale, come è già stato ricordato, detta (oltre a direttive rivolte all’attività pianificatoria comunale) disposizioni immediatamente precettive e operative, correlate a una dettagliata zonizzazione del territorio (come sancito dall’articolo 3, comma 2, della legge regionale 35/1987).
L’articolo 4 della legge regionale 17/1982, di conseguenza, non può trovare applicazione relativamente ai comuni sottoposti alla disciplina del Piano urbanistico territoriale dell’area Sorrentino-Amalfitana.
Si consideri altresì che il Piano urbanistico territoriale dell’area Sorrentino-Amalfitana è stato, per l’appunto, approvato con la legge regionale 35/1987, posteriore alla legge 17/1982, sulle disposizioni della quale prevale per il principio generale della successione delle leggi nel tempo. Né, in ogni caso, si potrebbe sostenere il contrario, stante l’altro principio generale per cui una legge generale, quale indubbiamente deve essere considerata la legge regionale 17/1982 (recante norme transitorie per le attività urbanistico-edilizie nei comuni della Regione Campania), non può derogare a una legge speciale, quale indiscutibilmente è la legge regionale 35/1987, identificantesi con l’approvazione della disciplina urbanistica di uno specifico ambito territoriale regionale.
Si noti, per inciso, che ove si opinasse per la (necessariamente) generalizzata applicabilità dei disposti dell’articolo 4 della legge regionale 17/1982 a tutti i comuni dell’area Sorrentino-Amalfitana non dotati di strumentazione urbanistica generale comunale (obbligatoriamente conforme al Piano urbanistico territoriale regionale) si produrrebbe un esito inaudito, quale l’edificabilità in tutti i territori esterni ai centri abitati con indici di 0,03 mc/mq a fini residenziali, e di 0,07 (aggiuntivi) per strutture accessorie all’attività agricola.
In via del tutto accessoria, si fa presente che l’accordo di programma normato dall’articolo 34 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n.267 (Testo unico sull’ordinamento degli enti locali) può comportare variazione degli strumenti urbanistici comunali, non di quelli sovracomunali, com’è fatto chiaro dalla richiesta ratifica del solo consiglio comunale. E di certo, consistendo in atti amministrativi, non può variare una legge, qual è quella che, com’è stato ripetutamente ricordato, ha approvato il Piano urbanistico territoriale (PUT) dell’area Sorrentino-Amalfitana, contestualmente dettandone l’apparato normativo.
L’Auditorium ha un’importanza strategica per lo sviluppo culturale ed economico della Regione; è firmato da uno dei massimi architetti viventi; rispetta scrupolosamente le norme urbanistiche; ha ottenuto tutte le autorizzazioni necessarie; si adegua perfettamente al luogo cui è destinato; lungi dal disturbare il paesaggio, lo arricchisce con un capolavoro; il suo esempio eccellente costituisce un baluardo contro la speculazione edilizia; la sua presenza offre un ponte tra la cultura italiana e quella latino-americana. I sottoscritti, mentre si rimettono alla decisione che sarà presa il giorno 8 gennaio dai magistrati del TAR, confidano nella forza dei valori civili ed estetici che hanno ispirato quest’opera di pubblica utilità e di rilevanza universale.
Filippo Alison Architetto
Vittorino Andreoli Psichiatra
Franco Angeli Editore
Franco Angrisani Giornalista
Andrea Annunziata Parlamentare
Simona Argentieri Psiconalista
Persio Arida Economista
Corrado Augias Giornalista
Tommaso Avagliano Editore
Laura Balbo Sociologa
Franco Barbagallo Storico
Sila Barracco Architetto
Oliviero Beha Giornalista
Attilio Belli Urbanista
Faustro Bertinotti Segretario Rif. Com.
Enrico Bertolino Attore
Frei Betto Scrittore
Gianni Billia Professore
Flavio Biondi Manager
Michele Biscardi Operaio
Gianluca Bocchi Epistemologo
Remo Bodei Filosofo
Carlo Borgomeo Manager
Antonio Bottiglieri Dirigente Rai
Francesco Brancatella Giornalista
Ennio Brion Imprenditore
Renato Brunetta Europarlamentare
Cristovam Buarque Ministro brasiliano
Federico Butera Sociologo
Nicola Cacace Economista
Massimo Cacciari Filosofo
Bruno Cagli Presidente Acc. S. Cecilia
Antonio Calabrò Giornalista
Gaetano Caltagirone Architetto
Michele Campanella Musicista
Massimo Canevacci Antropologo
Aldo Canonici Giornalista
Aurelio Canonici Direttore d'orchestra
Massimo Capaccioli Oss. Astr. Capodimonte
Roberto Capucci Stilista
Enzo Cardi Presidente Poste
Fulvio Carmagnola Professore di Estetica
Franco Cassano Sociologo
Gino Castaldo Giornalista
Alessandro Cecchi Paone Giornalista
Pierluigi Celli Manager
Giovanni Cerami Architetto
Elena Chiavegato pedagogista
Massimo Chieli Manager
Roberto Ciuni Giornalista
Marina Colassanti Scrttice
Antonio Concina Manager
Claudio Cubitosi Giffoni Festival
Giuliano da Empoli Scrittore
Isa Danieli Attrice
Roberto D'Avila Giornalista
Mario De Biase Sindaco di Salerno
Luciano De Crescenzo Scrittore
Vincenzo De Gregorio Direttore San Pietro a Majella
Vincenzo De Luca Parlamentare
Giorgio De Michelis Professore
Affonso Romano De Sant'Anna Scrittore
Cesare de Seta Storico dell'architettura
Emi De Sica Consulente Cinematografica
Giancarlo Di Paola Imprenditore
Dario D'Incerti Regista
Democrito Dummar Editore
Wania Dummar Giornalista
Sergio Escobar Dir. Piccolo Teatro di Milano
Riccardo Esposito La Conchiglia Capri
Gian Paolo Fabris Prorettore IULM
Roberto Faenza Regista
Elido Fazi Editore
Lorenzo Ferrero Compositore
Elio Fiorucci Stilista
Lorenza Foschini Giornalista
Giulia Fossà Attrice
Donata Francescato Psicologa
Raimonda G. D'Aragona Scenografa
Pasquale Gagliardi Amministratore delegato Fondazione Cini
Massimo Galluppi Politologo
Valerij Gergiev Direttore d'orchestra
Antonio Ghirelli Giornalista
Eduardo Giannetti Economista
Francesco Giorgino Doc. e Giornalista
Paolo Glisenti Manager
Andrea Bruno Granelli Manager
Benedetto Gravagnuolo Architetto
Enrico Job Scenografo
Mimmo Jodice Fotografo
Romeo La Pietra Consiglio Naz. Ingegneri
Dario Laruffa Giornalista
Cinzia Leone Grafica
Giancarlo Leone Rai Cinema
Jaime Lerner Architetto
Mimmo Liguoro Giornalista
Celestino Pio Lombardi Professore
Graziella Lonardi Buontempo Incontri Internazionali d'Arte
Antonio Lubrano Gionalista
Elio Macinante Musicista
Fabio Magalhaes Storico dell'arte
Mario Manieri Elia Architetto
Maurizio Mannoni Giornalista
Roberto Irineu Marinho Rete globo
Giorgio Mariuzzo Scenografo
Helio Mattar Economista
Bruno Mazzara Psicologo sociale
Mauro Meli Dirrettore del Teatro La Scala
Donatella Monachesi Professoressa
Franco Monteleone Massmediologo
Giuseppe Montesano Scrittore
Mario Morcellini Massmediologo
Franco Moschini Imprenditore
Oscar Nicolaus Professore
Jorge Nobrega Manager
Alberto Oliverio Psicobiologo
Washington Olivetto Pubblicitario
Marina Pallotta Premio Fregene
Gaetano Panariello Direttore Conservatorio di Avellino
Andrea Pancani Giornalista
Roberto Panzarani Manager
Renato Parascandolo Giornalista
Vanni Pasca Professore di Estetica
Silvio Pasquarelli Architetto
Raimondo Pasquino Rettore Univ. Salerno
Laura Pellegrini Manager
Paola Petri Agente Cinematografica
Ivo Pitanguy Chirurgo
Alessandro Profumo Manager
Isabella Quarantotti De Filippo Scrittice
Manuela Rafaiani Manager
Lidia Ravera Scrittrice
Ermete Realacci Presidente Legambiente
Sergio Riccio Fotografo
Gennaro Rispoli Chirurgo
Antonio Romano Grafico
Giorgio Ruffolo Europarlamentare
Romolo Runcini Anglista
Gaetano Russo Nuova Orchestra Scarlatti
Sebastião Salgado Fotografo
Enzo Salomone Attore
Paola Saluzzi Giornalista
Giancarlo Santalmassi Giornalista
Gaetano Santangelo Giornalista
Maria Carla Santorelli Architetto
Andrea Santorelli Banca D'Italia
Riccardo Sarfatti Imprenditore
Salvatore Sciarrino Musicista
Antonio Scurati Scrittore
Milton Seligman Economista
Vittorio Sermonti Scrittore
Jose Serra Economista
Pino Settanni Fotografo
Simona Signoracci Fondazione Mediolanum
Giovanna Silvestri RCS
Vittorio Silvestrini Città della Scienza
Michele Spera Grafico
Daniele Spini Orchestra Sinfonica RAI
Cesare Stevan Professore
Paolo Sylos Labini Economista
Oliviero Toscani Fotografo
Giancarlo Trentin Psicologo
Remigio Truocchio Manager
Mario Unnia Consulente
Stefano Valanzuolo Giornalista
Giovanni Valentini Giornalista
Giuseppe Varchetta Manager
Ausilia Veneruso La Conchiglia Capri
Vincenzo Viccaro Nuova Orchestra Scarlatti
Augusto Vitale Architetto
Roman Vlad Musicologo
Alessio Vlad Musicista
Lina Wertmuller Regista
Alberto Wite Storico dell'architettura
Diego Zandel Giornalista
Mariella Zezza Giornalista
Giuliano Zincone Giornalista
Miriam Mafai Scrittrice
Andrea Illy Imprenditore
Celestino Santangelo Presidente Bagnoli Futura
Giovanni Gaviraghi CEO Sienabiotech
L’amministrazione comunale ha individuato l’area nella quale realizzare l’opera, la Regione Campania ha stanziato 18 milioni e mezzo di euro. Ma contro la realizzazione del progetto – che ha già ottenuto tutte le autorizzazioni urbanistiche - si sono schierati, con un ricorso al Tribunale Amministrativo della Regione Campania, i proprietari del terreno e due associazioni ambientaliste: Italia Nostra ed il WWF.
Secondoi firmatari il progetto non rispetta le norme fissate dal Piano Urbanistico Regionale, che a tutela di un’area straordinaria come la costiera amalfitana, vieta la realizzazione di qualsiasi opera in assenza di un Piano Regolatore Generale. Ed il Comune di Ravello un Piano Regolatore Generale non ce l’ha ancora.
Il sindaco di Ravello, i sostenitori del Festival e Legambiente ribattono invece che le norme regionali prevedono delle deroghe per la realizzazione di opere di edilizia pubblica destinate a scopi sociali e culturali e che l’Auditorium solo come tale può essere considerato. Sull’interpretazione delle leggi decideranno ora i giudici del Tribunale Amministrativo regionale.
Ma al di là dell’aspetto normativo è chiaro che la vicenda dell’Auditorium di Ravello, che ha registrato una insolita, quanto violenta spaccatura nel fronte ambientalista, rivela una divergenza sull’idea di conservazione del territorio. Un’area unica come la costiera amalfitana va preservata da qualsiasi tipo di intervento urbanistico? E’ giusto rinunciare all’idea di lasciare, anche in un contesto come questo, un segno della modernità, come può essere l’opera di un grande architetto? E come si coniugano, in questo quadro, le necessità di sviluppo e le esigenze di conservazione?
TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE PER LA CAMPANIA SEZIONE STACCATA DI SALERNO
RICORSO
per ITALIA NOSTRA o.n.l.u.s., Associazione nazionale per la tutela del patrimonio storico, artistico e naturale della nazione, in persona della Presidente Nazionale pro-tempore, dott.ssa Antonietta Pasolini dall’Onda elettivamente domiciliata in Salerno alla Via L. Cassese, 30, con l’avvocato Oreste Cantillo che la rappresenta e difende in virtù di mandato ad litem a margine del presente atto.
contro
il COMUNE DI RAVELLO, in persona del Sindaco pro tempore, domiciliato per la carica presso la Casa Comunale,
La REGIONE CAMPANIA, in persona del Presidente pro-tempore della Giunta Regionale, domiciliato per la carica in Via Santa Lucia n. 81, in Napoli;
La Comunità Montana Penisola Amalfitana, in persona del Presidente pro-tempore domiciliato per la carica in Tramonti – Frazione Polvica;
Il Ministero per i Beni e le Attività Culturali -SOPRINTENDENZA PER I BENI ARCHITETTONICI E PER IL PAESAGGIO, PER IL PATRIMONIO STORICO, ARTISTICO E DEMOETNOANTROPOLOGICO DI SALERNO E AVELLINO, in persona del legale rappresntante pro-tempore, ope legis domiciliato presso l’Avvocatura dello Stato in Salerno al Corso V. Emanuele n. 56,
avverso e per l’annullamento previa sospensione dell’efficacia
a) del decreto n. 697 del 16 10.2003, a firma dell’assessore all’Urbanistica della Giunta Regionale della Campania avente ad oggetto “Accordo di programma approvazione ex art. 34 del Legislativo 18 agosto 200 n. 267 per la realizzazione dell’Auditorium Oscar Niemeyer nel Comune di Ravello – Approvazione.
b) della deliberazione di C.C. n. 22 del 27 agosto 2003, con la quale è stato ratificato l’accordo di programma intervenuto tra le amministrazioni resistenti, ossia il Comune di Ravello, la Regione Campania e la Comunità Montana Penisola Amalfitana;
c) del verbale della Conferenza di Servizi tenutasi 04/08/2003;
d) del parere favorevole n. 41/03 espresso in data 17/07/2003 dalla Commissione Edilizia Integrata del Comune di Ravello (SA);
e) della delibera della Giunta Regionale n. 2525 del 06/08/2003 con la quale è stata ratificata il parere favorevole reso dal responsabile dell’amministrazione regionale in seno alla Conferenza dei servizi;
f) del parere del Comitato Tecnico Regionale – Sez. di Salerno del 24/07/2003, n. 1458;
g) del parere favorevole n. 5933 espresso sull'Auditorium dalla Azienda Sanitaria Locale “Salerno 1” -Dipartimento di Prevenzione- in data 29/7/2003;
h) del verbale della Commissione Valutazione tecnico-amministrativa del progetto definitivo del 30/07/2003;
I) di ogni altro atto preordinato, connesso e consequenziale comunque finalizzato all’adozione del provvedimento qui impugnato, per quanto lesivo degli interessi qui dedotti in giudizio
L’associazione ambientalista Italia Nostra o.n.l.u.s. ha come proprio obiettivo statutario lo scopo di concorrere alla tutela ed alla valorizzazione del patrimonio storico, artistico e naturale della Nazione. Per il conseguimento di detto scopo, Italia Nostra, fra l’altro, propone azioni volte alla tutela, la conservazione e la valorizzazione dei beni culturali, dell’ambiente, del paesaggio urbano, rurale e naturale, dei centri storici, dei monumenti e della qualità della vita, nonché assume iniziative per stimolare l’applicazione delle leggi di tutela e per incoraggiare l’intervento dei poteri pubblici allo scopo di evitare le manomissioni del patrimonio storico, artistico ed ambientale del paese, così da assicurarne il corretto uso e l’adeguata fruizione.
Ciò premesso, proprio con l’obiettivo di garantire la corretta applicazione delle norme che disciplinano la regolare pianificazione urbanistica del territorio del Comune di Ravello, nonchè di salvaguardare l’integrità e la piena fruibilità del particolare sito, caratterizzato da specificità paesaggistico-ambientali di assoluto rilievo, già dichiarate dall'UNESCO come Patrimonio Mondiale dell'Umanità, l’associazione ambientalista ITALIA NOSTRA O.N.L.U.S., a mezzo del sottoscritto avvocato - essendo legittimata perché ente esponenziale di posizioni giuridiche coinvolte nella presente vertenza – propone ricorso a codesto On.le Tribunale per i seguenti motivi di
FATTO
La Regione Campania, con legge 27/06/1987, n. 35, approvava il Piano Urbanistico Territoriale (PUT) dell'Area Sorrentino-Amalfitana, comprendente anche il territorio del Comune di Ravello. Successivamente, con deliberazione n. 236 del 9 agosto 1996, la Comunità Montana Penisola Amalfitana nominava per la redazione e l’adozione del P.R.G. del Comune di Ravello, un commissario ad acta. Quest’ultimo, in data 16 luglio 1999, con delibera n. 6, adottava il P.R.G. il cui iter è tuttora in corso di perfezionamento.
Tra le previsioni del detto P.R.G. rientra la realizzazione nel territorio del Comune di Ravello di un Auditorium in zona altamente panoramica (Via della Repubblica), poco distante dal Complesso Monumentale di Villa Rufolo e di Villa Episcopio ed altri immobili sottoposti alla tutela speciale della legge 1089/39.
L’assoluta illegittimità di tale intervento, per l’evidente contrasto con il citato P.U.T., oltre che per il suo irrimediabile impatto sull’intero assetto paesaggistico-territoriale del sito, veniva, tra gli altri, evidenziata – ai sensi degli artt. 9 e 10, l. 241/90 – dalla locale Associazione “Ravello Nostra”, aderente alla struttura nazionale di questa associazione, con osservazioni scritte rimaste però del tutto disattese. Ed anche a seguito di tale intervento, i proprietari del terreno su cui era stata immaginata la costruzione del citato auditorium adivano codesto On.le TAR per ottenere l’anullamento della localizzazione.
Con ordinanza n. 1350 del 5 luglio 2000, l’Onorevole Tribunale, accoglieva l’istanza cautelare con la seguente testuale motivazione “…ritenuto che sussiste il contrasto con il P.U.T. lamentato con il secondo motivo del ricorso….” sospendendo la delibera commissariale di adozione del P.R.G. in parte qua (cfrs. doc. all.). La predetta ordinanza non veniva impugnata dalle Amministrazioni rimaste contumaci e, pertanto, si formava il giudicato cautelare.
Di recente, e precisamente soltanto dopo la pubblicazione nel B.U.R.C. del provvedimento impugnato, questa associazione è venuta a conoscenza che, nonostante la sopraindicata chiarissima pronuncia del TAR, il Comune di Ravello – in aperto contrasto con il giudicato cautelare – aveva avviato, ai sensi degli artt. 14 e segg. della Legge 241/90 - ma, come si dirà, in totale spregio dei sommi principi di correttezza e buon andamento dell’azione amministrativa – la convocazione di una conferenza dei servizi finalizzata all’approvazione del progetto definitivo ed alla conseguente realizzazione, nel sito già individuato nell’adottato P.R.G. e dichiarato in contrasto con il P.U.T., dell’ “Auditorium Oscar Niemeyer”. Ed infatti, il 4 agosto 2003, le Amministrazioni oggi avversate, criunite in Conferenza dei servizi, esprimevano parere favorevole “ritenendo il progetto conforme al P.U.T.”.
In pari data, il Sindaco del Comune di Ravello, l’Assessore all’Urbanistica della Regione Campania ed il Presidente della Comunità Montana Penisola Amalfitana, stipulavano l’accordo di programma per la realizzazione dell’Auditorium, ai sensi dell’art. 34 del D.Lvo 18.8.2000, n. 267, accordo che veniva poi ratificato rispettivamente dal Consiglio Comunale di Ravello, con deliberazione consiliare n. 22 del 28.8.2003, dalla Giunta Regionale (deliberazione n. 2525 del 06.08.2003) e dalla Giunta esecutiva della Comunità Montana (deliberazione n. 117 del 07.09.2003).
Successivamente, con decreto n. 697 del 16.10.2003, pubblicato sul B.U.R.C. il successivo 03.11.2003, l’Assessore all’Urbanistica della Giunta Regionale della Campania approvava ex art. 34, commi 4 e 6, del D.Lvo 18.8.2000, n. 267, l’accordo di programma per la realizzazione dell’Auditorium “Oscar Niemeyer” nel Comune di Ravello.
Tale provvedimento, conclusivo dell’iter procedimentale accennato, unitamente agli altri atti endoprocedimentali sopra richiamati, sono radicalmente illegittimi vanno pertanto annullati per i seguenti motivi di
DIRITTO
I- VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DELLA L.R.C. N.35/1987. ECCESSO DI POTERE PER CARENZA DI ISTRUTTORIA E DI MOTIVAZIONE ED ERRORE NEI PRESUPPOSTI. VIOLAZIONE DELLA L.R.C. N. 14/1982 E DEL D.M. 02.04.1968, N. 1444. CONTRADDITTORIETÀ. ELUSIONE DEL DECISO DEL TAR SALERNO ESPRESSO NELL’ORDINANZA N.1350 DEL 2000.
1) Come è noto, con legge regionale n. 35/1987, la Regione Campania ha adottato, ai sensi dell' articolo 1/ bis della Legge 8 agosto 1985, n. 431, il Piano Urbanistico Territoriale ( PUT) dell' Area Sorrentino – Amalfitana, nella cui area di competenza, così come indicato dalla previsione di cui all’art. 2, è inserito il Comune di Ravello. A tale previsione consegue che nel Comune di Ravello qualsiasi intervento modificativo del territorio e, prima ancora, ogni scelta di pianificazione urbanistica, ivi compreso il Piano Regolatore Generale, deve obbligatoriamente attenersi alle prescrizioni contenute nella richiamata disciplina urbanistica regionale.
Ma tale elementare principio è stato del tutto disatteso nella vicenda in esame.
Ed infatti, in sede di Conferenza di servizi, le Amministrazioni partecipanti, a partire dal proponente Comune, hanno erroneamente condiviso, recepito ed approvato il parere reso dal Responsabile del Settore Urbanistica della regione Campania (ing. Morrone), secondo cui il progetto definitivo dell’auditorium è da ritenersi “conforme al PUT (L.R. 35/87), con la raccomandazione di utlizzare i materiali di cui alle norme tecniche riportate al Titolo IV della cita legge regionale 35/1987”.
L’assunto della Conferenza dei servizi, successivamente trasfuso nell’accordo di programma, così come ratificato e definitivamente approvato, è del tutto abnorme.
2) Invero, giova sottolineare che l'area, su cui è prevista la realizzazione dell'Auditorium, risulta individuata nel P.U.T. come “Zona Territoriale 3”, destinata a “Tutela degli insediamenti antichi sparsi o per nuclei”.
Infatti, la relativa disciplina, contenuta all’art. 17, dotata di valenza prescrittiva e conseguentemente obbligatoria rispetto ad ogni singolo strumento di pianificazione comunale, espressamente dispone che nella zona T.3 è impedita ogni ulteriore edificazione fatta eccezione per:
le attrezzature pubbliche previste dal Piano Urbanistico Territoriale;
per quelle a livello di quartiere,
per eventuali limitatissimi interventi edilizi residenziali e terziari, sempre che l’analisi e la progettazione dettagliata del PRG, da redigersi in forma estremamente dettagliata (mediante elaborati di dettaglio in scala 1:500), ne dimostrino la compatibilità ambientale.
Tale chiaro ed inequivocabile dettato normativo è stato, peraltro, suffragato dall’autorevolissimo conforto ricostruttivo del prof. Alessandro Dal Piaz, in forma di note tecniche, rese per conto dei privati Calce Fermo e Germani Palumbo, nel coevo ricorso n.r.g. 3331/2003, promosso dinanzi a codesto On.le TAR. L’illustre urbanista, coredattore del PUT, ha, in sostanza, fornito, attraverso il parere informale, una vera e propria “interpretazione autentica” della disciplina della L.R. n. 35/87, precisando che la teorica conformità del progetto dell’Auditorium alle prescrizioni del PUT imporrebbe la presenza, in rapporto ad esso, delle seguenti obbligatorie condizioni: che l'intervento coincida o con un'attrezzatura pubblica specificamente prevista dal PUT o con un'attrezzatura prevista dal PRG al livello di quartiere, nel rispetto ovviamente, in quest’ultimo caso, delle previsioni contenute nella L.R.C. n. 14/1982, la quale richiama il D.M. 1444 del 02.04.1968.
Ciò posto, si palesa in tutta evidenza che la pretesa realizzazione dell’auditorium in questione si pone in aperto contrasto con la disciplina normativa ora accennata. A sostegno di tali conclusioni, sul punto specifico del contrasto del progettato Auditorium con la L.R. n. 35/1987, milita la consulenza tecnica di parte resa, nell’interesse dei privati ricorrenti, da altro illustre urbanista, arch. Vezio De Lucia, le cui argomentazioni tecniche sono da intendersi, in questa sede, per integralmente riproposte e trascritte.
Ed infatti, la costruzione qui avversata non rientra in alcuna delle categorie che, in regime di eccezione, consentirebbero di eludere il generale divieto di erigere nuove costruzioni, così come imposto dal citato art. 17. del P.U.T., ed infatti:
sub a): l’Auditorium non può certamente essere ricompreso fra le attrezzature pubbliche previste dal PUT, in quanto esse sono analiticamente descritte ed inserite tra gli elaborati contenuti nella Proposta di Piano Territoriale di Coordinamento e Piano Paesistico dell’area Sorrentino-Amalfitana. La consulenza tecnica di parte a firma dell’arch. V. De Lucia, ha, infatti, puntualmente indicato (cfr. pagg. 4-5) le singole categorie di attrezzature pubbliche, la cui dettagliata elencazione è stata, pedissequamente, riportata negli elaborati allegati alla perizia (cfr. all. pagg. 175-185-187-188-189-190-192-234).
Dal semplice riscontro documentale offerto, deriva che il PUT non prevede alcun Auditorium, né attrezzatura pubblica ad esso assimilabile e, comunque, che nessuna delle attrezzature e opere pubbliche previste dal PUT riguarda l’area individuata nel progetto definitivo approvato attraverso l’accordo di programma;
Sub b): l’Auditorium non può, senz’altro, essere annoverato tra le attrezzature a livello di quartiere, la cui individuazione risulta debitamente circoscritta dalla L.R. n. 14/1982. Trattasi, invero, delle attrezzature pubbliche di base, di cui occorre garantire, come standards urbanistici, la presenza in ciascun centro abitato o in ciascun quartiere urbano. Esse sono disciplinate tassativamente dal DI 1444 del 2/04/1968, e comprendono esclusivamente: scuole materne, elementari e medie, asili nido, ambulatori, consultori, attrezzature per la partecipazione ai culti religiosi, parcheggi, giardini pubblici, impianti per l'esercizio sportivo;
Sub c) Radicalmente priva di qualsiasi fondamento è, poi, la paventata ipotesi che l’intervento in questione possa essere inserito nella categoria degli “interventi edilizi terziari” ove, evidentemente nella piena consapevolezza del palese contrasto con il PUT (cfr. Relazione generale, pag. 21), il Commissario ad acta, in sede di adozione del P.R.G., aveva tentato di inserire l’opera in questione.
L’assunto – il quale dà ulteriormente contezza della falsità del presupposto parere della Conferenza dei servizi e del successivo Accordo di Programma, reso in assoluta contraddittorietà ed inconciliabilità con l’originaria previsione contenuta nel PRG adottato – è manifestamente privo di pregio. L’argomento - già oggetto di scrutinio da parte di codesto On.le TAR (ricorso n.1799/2000 R.G., accolto con la richiamata ordinanza n. 1350/2000) che, sia pure in via cautelare, l’ha bollato come illegittimo - è macroscopicamente errato, sia perché la riferita tipologia d’intervento, a mente dell’art. 10 L.R. 35/1987, è possibile esclusivamente ad opera di privati e giammai della P.A., sia, segnatamente, perché, nemmeno in tale categoria di opere, può rientrare l’Auditorium.
A tanto aggiungasi, in ogni caso, che la previsione dell’Auditorium contenuta nel PRG adottato sarebbe, comunque, cartograficamente inidonea a dimostrare, nel rispetto della previsione dell’art. 17 L.R. n. 35/1987, la compatibilità ambientale della nuova edificazione rispetto all’area di ubicazione, in quanto la progettazione di Piano risulta redatta in scala 1:2000, anziché 1:500, come obbligatoriamente prescritto.
In forza della corretta ricostruzione operata discende che, nel caso in esame, la progettata struttura è in palese contrasto con la LRC n.35/1987, in quanto difetta di tutte le condizioni imposte, non rientrando né fra le attrezzature pubbliche previste dal PUT medesimo e neppure tra quelle a livello di quartiere.
3) Ma vi è di più!
L’adottato P.R.G. risulta sospeso dal TAR Salerno, proprio nella parte relativa alla localizzazione dell’Auditorium, per effetto della pronuncia cautelare n. 1350 del 5 luglio 2000, esattamente sul presupposto del comprovato contrasto col PUT.
Di talché, deriva la radicale illegittimità della riproposta localizzazione dell’infrastruttura nel precedente sito, atteso che, per effetto della richiamata pronuncia cautelare del TAR Salerno, risulta sospesa anche la previsione di PRG, presupposto ai sensi dell’art. 17 L.R. 35/1987, per consentire la verifica di conformità dell’opera al PUT.
Ne consegue che il parere reso dalla Conferenza dei servizi e trasfuso nell’accordo di programma, così come sottoscritto, ratificato e definitivamente approvato, non solo si pone, come in precedenza chiarito, in stridente contrasto con l’ordinanza cautelare di codesto On.le TAR Salerno, n. 1350 del 5 luglio 2000, ma elude, illegittimamente ed in maniera palmare, il deciso del G.A.
L’implicazione tecnico-giuridica derivante dalla predetta statuizione del TAR, avente, peraltro, una portata tipicamente anticipatoria del merito, è di elementare evidenza e comporta l’impossibilità, stante l’assenza di fatti nuovi e/o diversi, per qualsivoglia organo amministrativo di sostituirsi, ed in tal modo, vanificare la potestà giurisdizionale, già esercitata attraverso la dichiarata illegittimità della previsione dell’Auditorium per accertato contrasto con il PUT.
Né è, ovviamente, possibile ritenere che le Amministrazioni partecipanti all’accordo di programma ignorassero la pronuncia cautelare definitiva, atteso che il proc. n. 1799/2000 R.G. ha visto come resistenti ritualmente evocate, ma processualmente negligenti, in quanto contumaci, sia il Comune di Ravello, che la Comunità Montana Penisola Amalfitana.
Da ciò deriva l’ulteriore illegittimità dell’Accordo di programma per violazione della L.R. 35/1987, così come acclarata per effetto giudicato cautelare del TAR Salerno.
II- VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DEL'ART. 4 L.R. 20/03/1982, N. 17. ECCESSO DI POTERE PER ULTERIORE CONTRADDITTORIETÀ ED ILLOGICITÀ. DIFETTO ED ERRONEITÀ DI MOTIVAZIONE. VIOLAZIONE ART. 97 COST. MANIFESTA INGIUSTIZIA ED INIQUITÀ.
Le Amministrazioni partecipanti alla Conferenza di servizi, essendo ben coscienti dell’illegittimità dell’accordo di programma, giusta la censura esposta nel motivo che precede, hanno tentato di fornire veste giuridica alla decisione assunta, affermando l’applicabilità, al caso in specie, dell’art. 4 della L.R. 20 marzo 1982, n.17, sul presupposto che “il Comune di Ravello risulta sprovvisto di strumento urbanistico”.
La tesi, oltre ad essere inequivocabilmente infondata in diritto, palesa ancora una volta la clamorosa contradditorietà dell’azione amministrativa, la quale pone a base del proprio agire argomenti tra loro assolutamente incompatibili. Ed infatti, da un lato, il provvedimento impugnato poggia sull’unica motivazione di una sua pretesa ed indimostrata conformità alle prescrizioni imposte dallo strumento urbanistico del P.U.T., dall’altro, si sostiene l’applicabilità dell’art. 4, l. cit., disposizione che, come è noto, postula – al contrario – l’assenza di qualsiasi strumento urbanistico.
Quanto fin qui detto, solleva questa difesa dal dover argomentare oltre. In ogni caso, per mero scrupolo difensivo, è opportuno illustrare le molteplici ragioni che dimostrano, in ogni caso, l’erroneità del richiamo all’art. 4, L.R.C. 17/1982.
A) La noma, al primo comma, testualmente dispone che:
“nei Comuni sprovvisti di strumenti urbanistici approvati:
a) all’interno dei centri abitati (...) è vietato ogni intervento edilizio, ad eccezione delle opere di ordinaria e straordinaria manutenzione, di restauro e risanamento conservativo e di ristrutturazione, che non comportino aumento de/le volumetrie e delle superfici utili preesistenti;
b) all’esterno dei centri abitati (...) l’edificazione a scopo residenziale è soggetta alla limitazione di metri cubi 0,03 per ogni metro quadrato di area edificabile; per le opere strettamente accessorie all’attività agricola è consentito un indice di fabbricabilità aggiuntivo pari a 0,07 mc/mq; in questo caso il rilascio della concessione edilizia è subordinato alla trascrizione, a cura del concessionario, di un atto che vincoli all’attività agricola la destinazione dei fabbricati in progetto”.
Il successivo II comma stabilisce, infine, che:
“le limitazioni che precedono hanno efficacia fino alla data di entrata in vigore del Piano Regolatore generale ... e non si applicano nei confronti degli interventi volti al/a realizzazione di edifici e strutture pubbliche, o opere di urbanizzazione primaria e secondaria, di programmi per l’edilizia residenziale pubblica, nonché dei piani e degli interventi previsti dalla legge statale 17.5.1981, n.219”.
Ciò posto, appare evidente che se è vero che il Comune di Ravello è sprovvisto di strumento urbanistico approvato e vigente, è, per contro, sicuramente e obbligatoriamente, sottoposto alla disciplina generale di pianificazione urbanistico territoriale dell’Area Sorrentino-Amalfitana, di cui alla L.R. n.35/87, contenente, come più volte evidenziato, disposizioni immediatamente operative e precettive, in quanto strettamente connesse alla dettagliata zonizzazione del territorio.
Ne consegue che sostenere l’autonoma applicabilità dell’art. 4 della legge regionale n.17/ 1982, prescindendo dalla speciale disciplina del PUT si risove in un clamoroso errore di diritto, che travolge irrimediabilmente l’accordo di programma adottato. Ed infatti:
1) Il Piano Urbanistico Territoriale, approvato in data 27.06.1987, con L.R. 35, è posteriore alla L.R. 17, approvata in data 20.3.1982. Di conseguenza, le disposizioni del PUT, per il principio della successione delle leggi nel tempo, naturalmente, prevalgono.
2) La richiamata legge regionale n. 17/1982 deve essere, correttamente, inquadrata, non soltanto come disciplina di carattere transitorio, per l’attività edilizio-urbanistica dei Comuni, ma, anche, come norma di tipo generale. Per contro, il richiamato PUT, costituendo la fonte normativo-urbanistica esclusiva dello specifico ambito territoriale dell’Area Sorrentino-Amalfitana, è destinato necessariamente a prevalere quale lex specialis.
3) Il meccanismo di deroga contemplato al II comma dell’art. 4 della L.R. 17/1982, attiene esclusivamente all’ipotesi che l’intervento edilizio pubblico debba ricadere al di fuori del centro urbano, così come perimetrato (in termini: Cons. Stato, Sez. V. 22.2.2000, n. 914), donde l’assoluta inutilizzabilità, nel caso in esame, della richiamata norma, atteso che il progettato Auditorium insiste nel cuore del centro urbano di Ravello (Cfrs. doc. all.).
4) Laddove si opinasse per la generalizzata applicabilità del disposto dell’art. 4 della legge regionale 17/1982 a tutti i Comuni dell’area Sorrentino-Amalfitana, non dotati di strumentazione urbanistica comunale, si produrrebbe “un inaudito esito di edificabilità”, destinato a stravolgere la ragione stessa della pianificazione territoriale, così come concepita dal PUT, attraverso la prescrizione obbligatoria, per i singoli piani regolatori comunali, degli indici minimi ed indefettibili di fabbricabilità.
Sul punto specifico, si rimanda alla consulenza di parte (cfr. relazione arch. V. De Lucia, pag. 6), i cui puntuali rilievi tecnici sono, emblematicamente, dimostrativi dell’aberrante distorsione derivante dall’ipotetica applicazione dell’art. 4 L.R. 17/1982.
5) La dimostrazione definitiva della prevalenza della L.R. 35/87 sulla L.R. 17/82, tanto sotto il profilo della temporalità, quanto sotto quello della specialità, è rinvenibile nella disposizione obbligatoria per i Comuni, contenuta all’art. 15 del PUT, che testualmente prevede: “Le opere pubbliche in corso di esecuzione alla data di approvazione della presente legge o, alla stessa data già appaltata, possono essere eseguite. Tutte le opere pubbliche non comprese nella previsione di cui al precedente punto sono riesaminate dalla Giunta Regionale che, su istruttoria dei competenti Uffici dell’Assessorato Regionale all’Urbanistica, verifica la conformità delle stesse al Piano Urbanistico Territoriale”.
Il dato normativo è di evidente interpretazione ed impone di ritenere che, laddove l’opera pubblica non sia conforme, ovvero ne risulti dimostrata la non conformità al PUT, non è altrimenti realizzabile.
B) Ma vi è di più.
Se pure si volesse, per mera ipotesi di scuola, prendere per un attimo in considerazione la strana tesi proposta dalle Amministrazioni resistenti, i provvedimenti impugnati sarebbero allo stesso modo illegittimi, anche nell’ipotetica vigenza dell’art. 4, L.R.C. 17/1982.
Come è noto, infatti, nel caso in cui l’opera pubblica è localizzata in un’area non destinata, negli strumenti urbanistici approvati, a pubblici servizi, la deliberazione di approvazione del progetto costituisce adozione di variante degli strumenti stessi, soggetta alla necessaria approvazione con le modalità stabilite (così Cons. Stato ad. Plen. 30/4/1984, n. 10; Cons. Stato, sez. IV, n. 6309/2000; TAR Campania 81/2003 e n.6254/2002). A ciò si aggiunga che la comprovata incompatibilità dell’Auditorium al PUT non permette alcuna applicazione normativa surrettizia, ma, eventualmente, solo lo strumento specifico della variante (art. 15, ult. comma, L.R. 35/87) al Piano Urbanistico, da sottoporre alla necessaria approvazione del Consiglio Regionale.
Da ciò discende l’ulteriore profilo di illegittimità dell’accordo di programma, stante la marchiana erroneità ed inconferenza del richiamo ad una norma di legge, del tutto inapplicabile nell’ipotesi concreta.
C) La illegittimità della determinazione e la contraddittorietà del comportamento serbate dall’Amministrazione Comunale di Ravello nel corso della Conferenza dei servizi – in uno al contrasto dell’intervento con il P.U.T. – sono desumibili anche per altra via.
Infatti, nella seduta del Consiglio Comunale di Ravello per l’approvazione del Bilancio di previsione per l’anno 2003, ed in particolare, in sede di illustrazione del programma triennale delle opere pubbliche inserite in bilancio (2003-2006), l’Ufficio Tecnico Comunale ha predisposto un allegato descrittivo circa le “Problematiche di ordine urbanistico territoriale”. In detto allegato, l’UTC, in modo chiaro e puntuale, ha dichiarato l’Auditorium non conforme al PUT (Cfrs. doc. all.).
Per l’effetto, il Consiglio Comunale, approvando con il voto favorevole della Maggioranza, il Bilancio e l’annesso piano triennale delle OO. PP. come istruito dall’UTC, ha, formalmente, riconosciuto che la progettata infrastruttura, laddove localizzata, risultava in contrasto con la L.R. 35/1987.
Del tutto inopinatamente ed illegittimamente, in occasione della Conferenza dei servizi del 4 agosto 2003, tanto il Sindaco di Ravello, quanto i tecnici responsabili dell’UTC, hanno affermato la conformità dell’opera al PUT, senza alcuna plausibile motivazione, idonea a giustificare e comprovare il mutamento di indirizzo.
Da ciò l’ulteriore profilo di illegittimità dell’Accordo di Programma per difetto assoluto di motivazione, in uno allo sviamento.
III - VIOLAZIONE ED ERRATA INTERPRETAZIONE ART. 27, COMMA 5 DELLA L. 142/1990, COME MODIFICATO DALL'ART. 34 D.L.VO. 18/08/2000 N. 267. VIOLAZIONE DEL GIUSTO PROCEDIMENTO DI LEGGE - SVIAMENTO DI POTERE – PERPLESSITÀ.
In via del tutto subordinata, si fa presente che il procedimento amministrativo, conseguente alla sottoscrizione dell’accordo di programma, è inficiato da una serie di atti derivati, del tutto discordanti dal modulo procedimentale disciplinato dall’art. 34, D.L.vo l8.8.2000, n.267.
In particolare, va esaminata sia l’intervenuta ratifica dell’Accordo di programma da parte del Consiglio Comunale di Ravello, per effetto della deliberazione n. 22 del 27.8.2003, che la ratifica del parere reso dal Responsabile all’Urbanistica in seno alla Conferenza dei servizi, operata dalla Giunta Regionale della Campania, con deliberazione n. 2525 del 06.08.2003.
A) L’atto deliberativo del Consiglio Comunale, di ratifica dell’Accordo di programma e dell’allegato verbale della Conferenza di servizi, risulta assunto, ai sensi dell’art. 34, comma 5, del D.Lvo 18.8.2000, n. 267.
In base a tale previsione, infatti, “Ove l’accordo comporti variazione degli strumenti urbanistici, l’adesione del Sindaco allo stesso deve essere ratificata dal consiglio comunale entro trenta giorni a pena di decadenza”.
Appare del tutto chiaro, dal richiamato dato normativo, che la ratifica del Consiglio Comunale opera nel solo caso in cui l’accordo di programma sottoscritto dal Sindaco comporti variazione del P.R.G.
Nella fattispecie in esame, le Amministrazioni partecipanti nel corso alla Conferenza di servizi, hanno assunto, per contro, le seguenti determinazioni:
Il progettato Auditorium è stato ritenuto conforme al PUT;
Il Comune di Ravello è stato ritenuto sprovvisto di PRG.
Tali risultanze inducono a ritenere come illegittima, in via derivata e consequenziale, l’ulteriore procedura posta in essere dal Comune di Ravello, attraverso la cennata deliberazione, atteso che, per esplicita ammissione, contenuta nel Verbale della Conferenza di servizi e nel sottoscritto Accordo di Programma (“Il Comune di Ravello non è dotato di strumentazione urbanistica ed ha in itinere un PRG adottato con delibera del Commissario ad acta n. 6 del 16.7.1999”), non esiste alcuno strumento urbanistico, oggetto di possibile variazione.
Laddove, per mera ipotesi, l’Amministrazione Comunale di Ravello avesse inteso attribuire alla deliberazione consiliare, peraltro del tutto artatamente, un valore di variante urbanistica, emergerebbe, innanzitutto, un evidente contrasto tra la determinazione presupposta (adesione del Sindaco, fondata sull’assenza di PRG) e quella conseguente (atto di ratifica, con variante urbanistica), con palmare illegittimità da difetto assoluto di motivazione e sviamento.
Non senza aggiungere, comunque, che la deliberazione C.C. n. 22 del 27.8.2003, è, in ogni caso, affetta da ulteriore, radicale illegittimità, per incompetenza del Consiglio Comunale a ratificare l’accordo di programma, con valore di variante dello strumento urbanistico.
Infatti, il Comune di Ravello risulta commissariato ai sensi della L.R. 17/1982, per effetto della delibera G.E. n. 236 del 9.8.1996 e, pertanto, il Consiglio Comunale è sprovvisto di qualsivoglia potere in materia di pianificazione urbanistica.
Né, peraltro, la G.E. della Comunità Montana ha giammai restituito alcuna attribuzione pianificatoria al Consesso consiliare, avendo in seguito alla trasmissione del PRG adottato, unicamente prescritto al Comune di integrare gli elaborati mancanti.
Da ciò deriva che la deliberazione consiliare di ratifica è illegittima e, comunque, fondata su presupposto errato ed immotivato.
B) Quanto uantoQQalla deliberazione di G.R. n. 2525 del 06.08.2003, va innanzitutto evidenziato che non è dato rinvenire, nell’accordo di programma sottoscritto, alcun obbligo di ratifica da parte della Regione Campania, di talché trattasi di un atto non previamente concordato in sede di Conferenza di servizi.
Né, peraltro, è dato comprendere a che titolo l’organo esecutivo della Regione abbia ratificato, attesa la espressa dichiarazione di conformità dell’Auditorium al PUT.
Anche in questo caso, laddove l’Amministrazione Regionale avesse inteso attribuire alla deliberazione giuntale il valore di variante urbanistica, emergerebbe, comunque, un immediato ed evidente contrasto tra la determinazione presupposta (adesione dell’Assessore all’Urbanistica, fondata sulla conformità al PUT) e quella conseguente (atto di ratifica, con variante urbanistica), con palmare illegittimità da difetto assoluto di motivazione e sviamento.
Non senza aggiungere, in questo caso, l’illegittimità radicale, da incompetenza assoluta in cui verserebbe la delibera di G.R. n. 2525 del 6.8.2003.
Infatti, ai sensi dell’art. 15 della L.R. 35/87, approvativa del Piano Urbanistico Territoriale, le eventuali varianti, anche parziali, al PUT sono di esclusiva competenza del Consiglio Regionale.
IV. VIOLAZIONE ART. 97 COST. DIFETTO DI ISTRUTTORIA. VIOLAZIONE DEI PRINCIPI IN MATERIA DI COMPATIBILITÀ AMBIENTALE.
L’impugnato Accordo di Programma palesa la sua illegittimità anche per altro e decisivo profilo.
Gli atti avversati, infatti, omettono di considerare ed adeguatamente ponderare che l’intero territorio di Ravello è riconosciuto dall'UNESCO quale Patrimonio Mondiale dell'Umanità, per la sua particolarità paesaggistico-ambientale, caratterizzata dall’orografia a terrazzamenti, tipica proprio della zona su cui dovrebbe sorgere il progettato Auditorium.
Il luogo individuato per la realizzazione del progetto si compone, infatti, di tre terrazzamenti, di cui il primo è situato a quota strada rotabile (Via della Repubblica) e gli altri due sono sostenuti dalle caratteristiche macere a secco, di mt. 5 di altezza ciascuno.
Ne consegue che il massiccio intervento andrebbe necessariamente ad alterare l'andamento altimetrico del sito, con impatto paesaggistico-ambientale sconvolgente, specie in considerazione della continuità e contiguità con il fabbricato Albergo Graal, e annullerebbe quel rapporto tra edificato e spazi liberi, necessario a rendere armonioso ed unico il contesto ambientale e paesaggistico di Ravello.
A ciò si aggiunga che le dimensioni dell’edificio – progettato nelle immediate adiacenze della monumentale Villa Rufolo e di altri numerosi pregevoli immobili, tutti sottoposti alla speciale tutela della legge 1089/39 – avente una lunghezza di metri 50, una larghezza di metri 26 a Nord e metri 39 a sud è destinato a coprire l’intera area compresa tra il tratto superiore e quello inferiore di Via della Repubblica, mentre la sua altezza totale, quantificabile in metri 21, compromette irrimediabilmente le visuali prospettiche della sovrastante via panoramica Boccaccio, fino ad ostruire totalmente la vista del borgo medievale di Torello e di tratti della suggestiva Costiera.
Senza dire che l’inserimento in questione contrasta con quanto prescritto dal P.U.T., laddove, nella parte III della Proposta di Piano, stabilisce che i nuovi insediamenti debbano essere coerenti con le pregresse tipologie architettoniche.
Domanda di sospensione cautelare
Le considerazioni innanzi svolte impongono la sospensione, in via cautelare, dell’efficacia dei provvedimenti impugnati essendo evidente la sussistenza dei presupposti necessari e sufficienti per l’adozione del provvedimento ex art. 21, comma 7, della legge n.1034/71.
Non occorre indugiare circa la presenza del fumus boni iuris giacchè i motivi esposti in sede di ricorso per l’annullamento dei provvedimenti impugnati, ed a cui ci si riporta, non possono che portare il Tribunale adito ad un giudizio positivo circa la fondatezza delle doglianze mosse, consentendo, conseguentemente, di ritenere rilevante la probabilità di accoglimento della domanda principale.
Del pari esistente è l’ulteriore elemento del periculum in mora. E’ appena il caso di sottolineare che il tempo occorrente per ottenere la pronuncia nel merito concretizza l’obiettivo pericolo che la ricorrente subisca, per intero e senza effettiva possibilità di ripristino della situazione quo ante, l’irreparabile pregiudizio che l’esecuzione degli avversati provvedimenti. Non v’è dubbio, infatti, che l’avanzata fase del procedimento amministrativo, con l’avvenuta pubblicazione, nel B.U.R.C., del decreto approvativo dell’Accordo di Programma - in uno agli acquisiti pareri ed alla disponibilità finanziaria - prelude ad un imminente inizio dei lavori relativi ad manufatto che, se realizzato, determinerebbe un gravissimo vulnus alla salvaguardia delle caratteristiche paesaggistico-ambientali del territorio di Ravello, uniche nella loro specie.
Pertanto, nel necessario giudizio di ponderazione degli interessi in gioco, le istanze qui rappresentate devono apprezzarsi quali portatrici di un interesse pubblico assolutamente prevalente rispetto agli interessi di controparte, i quali sono percepiti dalla collettività – non soltanto del comune di Ravello e della Regione Campania, ma, senza tema di smentita per la dichiarata qualità di Patrimonio Mondiale dell’Umanità, dell’intera comunità internazionale – con preoccupazione ancora maggiore in quanto l’avversata costruzione comprometterebbe insanabilmente l’equilibrio paesaggistico ed ambientale del sito.
P.Q.M.
e per quanto ci si riserva di esporre in prosieguo,
voglia codesto On.le Tribunale Amministrativo Regionale:
in via cautelare : sospendere i provvedimenti impugnati;
nel merito : accogliere il presente ricorso e, per l’effetto, annullare i provvedimenti impugnati.
Con vittoria di spese, diritti ed onorari.
Si producono i documenti di cui all’indice.
Salerno, 15 dicembre 2003
Avv. Oreste Cantillo
Abbiamo un progetto di caratura internazionale ma non abbiamo una sede idonea all’interno delle regole di piano che permettano di esprimere le aspettative di un linguaggio architettonico internazionale all’interno del salotto culturale ravelliano. Possiamo permetterci di stravolgere la regola, le linee programmatiche di un piano territoriale, solo per potere indossare un abito alla moda? Il linguaggio dell’architettura contemporanea espressa ai più alti livelli dall’architetto Niemeyer rischia di trasformarsi in un volgare dialetto perché l’ architettura non è solo espressività ma anche rispetto delle regole. E quindi un progetto mirabile si impantana nella pervicace ossessione di Bassolino di perseguire ad ogni costo solo accordi di programma.
Alla confusione generale - norme urbanistiche disattese, accordi di programma , norme urbanistiche regionali caotiche e farraginose ed improbabili linee guide - si aggiunge la Francescato che con grazia “marianea” va dispensando pace fra WWF, Italia Nostra e Architetti che in nome del buon senso e del rispetto delle norme avversano questo progetto. E si barcamena tra dichiarazioni contraddittorie nel tentativo (mal riuscito) di non scontentare nessuno. Da una dirigente di un partito ambientalista ci si aspetterebbe una maggiore coerenza nei confronti delle regole di programmazione urbanistica, da quel partito tante volte sostenuto quale strumento di tutela all’arroganza abusivista. Quasi viene da pensare che se il Fuenti fosse stato costruito da Niemeyer avrebbe avuto tale aurea di dignità da non dovere essere abbattuto. E così la Francescato indossando i sacri paramenti tenta di celebrare un improbabile matrimonio tra sacro e profano ovvero tra l’ambientalismo e le politiche iperliberiste di mercificazione del territorio.PRC
Caro Sindaco,
la sua lettera di domenica scorsa mi sembra abbastanza strana. In fondo non bisognerebbe rispondere a chi apre la sua comunicazione accusando l’interlocutore (ma meglio sarebbe parlare di bersaglio) di “mix straordinario di spocchia e volgarità”. Le rispondo perché mi pare che la sua lettera riveli equivoci che non so chi e cosa abbia provocato, ma ai quali sono totalmente estraneo.
Lei cita a lungo i molti meriti dell’amministrazione di Ravello. E chi li nega? Io certamente no. Non conosco i progetti di cui lei parla, ma mi sembrano esprimere un orientamento interessante, che condivido. Ma né il mio intervento, né il successivo articolo sul Corriere del Mezzogiorno, né l’appello che ho firmato, e neppure gli interventi nel mio sito esprimono disprezzo o critica verso la politica del Comune di Ravello. Salvo su un punto. Sarà lecito criticare un intervento, se lo si ritiene sbagliato?
Ho scritto (già sul mio sito) e ho detto che critico (avvalendomi della facoltà che la Costituzione mi garantisce) due aspetti della questione. Che su una (l’improprietà dell’intervento in quel luogo) comprendevo che potevano esserci posizioni diverse, ma la mia era quella che ho esposto. Sono eccessivamente conservatore? Ho troppo poca fiducia nelle capacità di inserimento nel paesaggio degli operatori di oggi? Sbaglio a pensare che le risorse collettive dovrebbero essere impiegate diversamente, finanziando il restauro dei luoghi già belli e e la trasformazione dei luoghi ancora brutti? Può essere. Ma sarà pure lecito esprimere un’opinione, dopo aver pazientemente ascoltato quelle altrui?
Nell’ambito di questa mia opinione (che per il vero ho manifestato, a Ravello e sul Corriere, in modo molto sobrio e contenuto) ho anche sottolineato le affermazioni che lei stesso aveva fatto a proposito di due punti: il fatto che Niemeyer abbia regalato solo un bozzetto e non un progetto, e che questo lo abbia redatto (sia il preliminare sia l’esecutivo) l’architetto Zeccato; e che il grande architetto brasiliano non abbia mai soggiornato a Ravello. Non avrei neanche citato il primo punto se non fosse che tutta l’ammuina a difesa del progetto è stata provocata dal fatto che si voleva ostacolare una “opera di Niemeyer”. Al secondo punto (il non avere Niemeyer respirato l’aria e percorso i sentieri di Ravello) attribuisco invece un’importanza maggiore. Conferma il mio dubbio sul fatto che non sia l’architetto giusto per un intervento in quel luogo e in quel paesaggio. A mio parere, più il sito è ricco di qualità e di consolidati valori più il progetto di trasformazione deve nascere dal luogo, dalla comprensione vissuta delle sue regole. Ma. Le ripeto, esprimo un’opinione personale, alla quale altre possono legittimamente essere opposte senza che io consideri ciò scandaloso.
Ma il punto che a me premeva e preme sottolineare, e che in effetti ho sottolineato in tutti i miei interventi, è un altro: quello della illegittimità sostanziale dell’intervento, e del grave rischio che si corre procedendo con procedure derogatorie: dalla interpretazione distorcente alla legge ad personam.
Mi creda se le dica che il decreto sugli standard e il piano urbanistico territoriale li conosco entrambi molto bene. Alla formazione del primo ho collaborato personalmente, ed ero “interno” al Consiglio superiore dei LLPP quando in quelle stanze (e in quelle vicine della Direzione generale dell’urbanistica) si discuteva e si decideva. So bene che una struttura per gli spettacoli (e sia pure per spettacoli nobili e culturali) non fanno parte di quelle attrezzature di quartiere, o di vicinato, o – come poi scrisse il legislatore – “locali” cui fa riferimento il PUT. E basta che lei stesso legga l’articolo delle norme del PUT che si riferiscono alla zona in cui ricade il sito dell’auditorium per verificare che l’auditorium non è presente tra le altre attrezzature minuziosamente previste, e consentite, dal PUT. Che conosco benino non solo per averlo seguito a suo tempo come presidente dell’Istituto nazionale di urbanistica, ma per averlo ristudiato come commissario ad acta per il PRG di Positano e come collaboratore alla progettazione del PTCP di Salerno.
Mi rendo conto che porre la questione della legalità turba molto chi, come lei scrive, “mangia legalità a colazione, pranzo e cena”, ma a me turba invece enormemente che la questione della legalità - sulla quale nessuno, e neppure lei, ha replicato alle mie critiche - venga totalmente trascurata da persone che conosco, rispetto e stimo, come un paio di quelli che la fiancheggiavano nella trasmissione di RAI3.
Nella speranza di aver contribuito a chiarire qualche equivoco la saluto
P.S. – Non pubblico sul mio sito la sua lettera perché ho l’impressione che sia stata scritta sotto una forte spinta emotiva, e penso che si sarà pentito di alcune affermazioni davvero pesanti e prive di qualunque appiglio nei fatti. Mi rendo conto che in questo modo i miei lettori non troveranno molto chiara la mia risposta, ma non vorrei aumentare il suo disagio.
Si ricomincia a parlare del ponte sullo Stretto di Messina. Già ne abbiamo scritto su queste pagine, molti anni fa (La piramide sullo Stretto, n.84-85), per denunciare l'assurdità di quell'impresa: non tanto in se, nella sua valenza di tecnica ingegneristica (non avremmo del resto le competenze necessarie per esprimerci) quanto per la finalità di mero e superficiale prestigio che le viene assegnata dagli italici entusiasmi, e soprattutto per la sua assoluta non priorità nel quadro del complessivo sistema dei trasporti italiano e dei suoi problemi.
Molti sostengono oggi che non vale la pena di preoccuparsi per il ponte sullo Stretto: le difficoltà sono tali e tante che se ne parlerà ricorrentemente, vi si imbastiranno sopra campagne propagandistiche, si approveranno magari altre leggi e leggine per finanziare studi e progetti, ma non si vedrà mai la realizzazione dell'opera.
Andrà così? Può essere. A noi sembra però che già il solo parlare del Ponte sullo Stretto sia grave, sia per l'atteggiamento che esprime sia perché questa ingombrante presenza impedisce di affrontare in modo serio (e perciò diverso), i problemi dei trasporti e il ruolo in essi della Sicilia. Affidare la soluzione del problema dei collegamenti della Sicilia con il continente a una infrastruttura quale quella di cui si parla è coerente con una determinata strategia territoriale che è l'opposto di quella sensata. E' una strategia che affida le comunicazioni ai vettori su gomma e, subordinatamente, su ferro, trascurando il vettore più economico e meno inquinante, cioè l'acqua. E' una strategia che concepisce la Sicilia come il cul di sacco del sistema dei trasporti, relegando l'Isola al ruolo di estrema appendice di quell'appendice dell'Europa che é l'Italia. E' una strategia, insomma, che colpevolmente non solo non utilizza e valorizza, ma addirittura mortifica e nega due della più rilevanti risorse, storicamente consolidate, di cui l'Italia (se osservata con occhio non provinciale) palesemente dispone. In primo luogo, la sua posizione geografica, culturale e storica di possibile ponte (ma in senso metaforico) tra due continenti e molte civiltà. In secondo luogo, la presenza dell'imponente, potenziale "sistema autostradale acqueo" costituito dall'Adriatico, dal Tirreno e dalla "bretella" ionica.
Ciò che é singolare é che più di un gruppo politico sostiene l'opportunità di un dispiegato "ruolo mediterraneo" dell' Italia. Sono troppo pochi, però, quanti riescono a comprendere le politiche hanno loro precise proiezioni territoriali, che impongono di dire "no" a certe soluzioni territoriali, per dire "si" ad altre.
C'è un mito moderno, tanto assurdo quanto potente, che occupa l'immaginario di molti, non soltanto siciliani e calabresi. E' il ponte sullo Stretto di Messina. Dall'Unità d'Italia sino al dopoguerra il progetto del ponte ha rappresentato il simbolo della congiunzione materiale della Sicilia al continente. Era l'epoca dell'isolamento, della dipendenza, del sottosviluppo acuiti dalla difficoltà dei trasporti e della mobilità. Oggi, benché il divario tra il Mezzogiorno ed il Nord del Paese permanga, la questione non è più drammatica come un tempo e, soprattutto, la mobilità di persone, cose ed informazioni non costituisce più un problema. Da Napoli a Palermo, ad esempio, con le navi veloci si impiegano quattro ore: nessun mezzo via terra, anche attraverso un ponte, consentirebbe un trasporto così veloce. I moderni e mastodontici portacontainer, quelle navi che approdano a Gioia Tauro per intenderci, contengono ciascuno una quantità di merci pari a quella trasportata da mille Tir. Viviamo in un'epoca in cui il trasporto su gomma, con i suoi effetti di inquinamento e di congestione, costituisce un serio problema. Il progetto del ponte è divenuto allora obsoleto. Non conviene economicamente, finirebbe per creare nuovi problemi, e per di più è un progetto insicuro, temerario in un'area fortemente sismica e attraversata da forti venti. Nonostante ciò il mito del ponte resiste, cancella quello secolare di Scilla e Cariddi, incurante della distruzione di uno scenario paesistico noto a tutto il mondo per la sua bellezza e particolarità, cieco agli irreversibili e catastrofici danni ambientali ed ecologici che una simile opera realizzerebbe.
Perché questo mito? Il ponte oggi è simbolo della Modernità. La grande opera faraonica, di acciaio e cemento, è percepita come un monumento al Progresso. Che sia utile oppure del tutto inutile poco importa: il suo valore è simbolico e serve a rimuovere sensi di inferiorità e complessi di colpa, serve a scalzare quel fastidioso sentimento di mancanza che rode l'anima dei meridionali. E' difficile, con argomenti razionali, contrastare queste sensazioni. Eppure in esse vi è, ancora una volta, l'essenza della disgrazia del Mezzogiorno: l'incapacità di fare i conti con se stessi, di ritrovare la propria autonomia e la propria soggettività liberata dalla dipendenza da una immagine negativa che sul Mezzogiorno è stata proiettata e che i meridionali hanno incorporato. Il mito del Ponte attecchisce e diviene contagioso così come, nelle società moderne, si diffonde la sindrome dell'autoinganno, che porta a predicare certe cose ed a farne altre, del tutto opposte, che induce a dire che tutto va bene, quando invece in coscienza si sente che tutto è un disastro e siamo sull'orlo di un baratro. Su questa debolezza dello spirito speculano interessi di parte, forti interessi lobbistici chiaramente individuabili, così come - probabilmente - interessi occulti ed illegali (si legga mafiosi) che nel ponte vedono un'altra grande occasione di arricchimento privato e di rapina. Ma poco importa all'anima semplice, colpita dall'exploit faraonico.
Mille argomenti razionali sostengono l'insensatezza del progetto. La precarietà del progetto ingegneristico, che non considera i rischi del contesto geologico, i venti, la sismicità; l'insostenibilità economica nel rapporto costi-benefici; l'assenza di qualsiasi seria valutazione di impatto ambientale e sociale; la mancata considerazione di alternative multimodali più efficaci ed efficienti per l'attraversamento dello stretto; il fatto che il ponte - data l'altezza dell'impalcato prevista dal progetto - non consentirebbe il passaggio alle navi di più recente costruzione che raggiungono i 100 metri di altezza (il che vanificherebbe l'importanza del porto di Gioia Tauro); ed ancora si potrebbero elencare molte altre osservazioni ostative che studiosi ed esperti di molte università italiane ed estere hanno esplicitato. Tutto ciò però evidentemente non basta. E' vero che l'informazione - monopolizzata dalla lobby del ponte - ha oscurato questi argomenti. Occorre diffondere una contro-informazione, che faccia giustizia alla realtà dei fatti. Ma forse la presa del mito è ancora più accecante del black-out mediatico.
Dunque l'appello alla ragione ed al calcolo non basta.
Occorre rivalutare emozioni forti, richiamarsi al senso dei luoghi, ad una sensibilità e ad una estetica meridiane, prima che l'abitudine al brutto le seppellisca definitivamente. Occorre restituire dignità universale al significato emotivo che l'area dello Stretto di Messina ha avuto nei secoli, per chi qui vive e per tutti coloro - lontano da qui - che hanno vissuto questo significato nei racconti, nelle storie, in miti, che a ben vedere sono molto più realistici ed umani di quello del ponte. Possiamo cancellare, con l'exploit del ponte, la memoria iscritta nelle acque dello Stretto e farne un anonimo tratto di mare, una duplice baia - separata da un nastro trasportatore avvolto in una nuvola di benzene - su cui si rispecchierà soltanto ciò che di concreto appare dietro il mito del Progresso: un mondo di merci a rapida obsoloscenza, un mondo "usa e getta", un mondo sporco che consuma se stesso? Rifiutare il progetto non vuol dire soltanto opporsi alla distruzione di un luogo vitale, nel senso pieno ed esistenziale di questa parola. Significa prospettare, con alternative praticabili già da ora, una società meridionale sostenibile ed autosostenuta, che riconosce nei suoi luoghi e nella sua storia, nel suo carattere particolare ed al contempo denso di universalità, la risorsa per uno sviluppo altro. Significa prospettare una società che ponga al centro delle proprie energie il senso del rispetto, della misura e del limite. Una società che sia capace di coniugare ragione ed emozione.
Su queste riflessioni, nel 1987, si formò il comitato "Tra Scilla e Cariddi". L'iniziativa venne da singoli intellettuali, tra cui Alberto Ziparo e Osvaldo Pieroni, da associazioni ambientaliste come Legambiente, con Lidia Liotta, e il WWF, con Beatrice Barillaro, dall'allora Rifondazione Comunista, con Rosa Tavella e Michelangelo Tripodi, dai Verdi e da altre associazioni come il CRIC, con Piero Polimeni, Torre di Babele, ecc. Anche Ora locale aderì al comitato. L'appello alle Nazioni Unite per la salvaguardia dell'area dello Stretto, quale patrimonio naturale e culturale dell'umanità, costituì una sorta di manifesto contro il progetto del ponte, che venne sottoscritto da centinaia di intellettuali, associazioni, esponenti politici, cittadini. Tra coloro che sottoscrissero figurano i nomi di Serge Latouche, di Dario Fo, di Citto Maselli e di decine di docenti universitari.
Il libro di Osvaldo Pieroni, cui gli interventi presentati in questo numero si riferiscono, deriva dalla esperienza del comitato "Tra Scilla e Cariddi". Da qui il titolo. In esso viene ripercorsa la storia del progetto del ponte e vengono esposte le ragioni della opposizione. Il libro è però anche una storia d'amore, di un rapporto esistenziale con la terra di Calabria e con lo Stretto, in cui personale e politico si fondono. La vicenda del ponte è poi occasione per una riflessione di più ampio respiro sulla storia e sulle prospettive del Mezzogiorno, in particolare della Calabria. A questo libro farà tra breve seguito un saggio collettivo, curato da Alberto Ziparo e Virginio Bettini, con il contributo di studiosi di sette università italiane, che costituisce una vera e propria valutazione di impatto ambientale e sociale del progetto del ponte e ne mostra - dallo stesso punto di vista della scienza e della tecnica - l'insostenibilità. Sia nel caso del libro di Pieroni, che in quest'ultimo si vedrà che parlare del ponte sullo Stretto ed impegnarsi in una battaglia affinché il progetto venga accantonato vuol dire oggi riflettere su chi siamo e gettare le basi per il futuro non soltanto della Calabria e del Mezzogiorno d'Italia, ma dell'intera area mediterranea.
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Ripensando al mito di Colapesce ed al sacrificio immaginario di questo eroe, mezzo uomo e mezzo pesce, che non può fare ritorno perché deve per sempre reggere la colonna debole della Sicilia esposta ai terremoti, ancora una volta riscopro la lezione che il mito ci trasmette. Come un messaggio in bottiglia attraverso la deriva del tempo i miti ci consegnano un sapere: le intuizioni dei nostri padri e delle nostre madri che possono essere per noi sorgenti di nuova coscienza.
Perché i nostri antenati hanno immaginato questa bizzarra storia? Chi è il personaggio Colapesce? Non è completamente un essere umano ma ciò gli fornisce poteri divini che provengono dalla sua natura animale, dal suo essere parte della natura: la leggenda lo immagina figlio del dio Nettuno e fratello delle sirene ed egli ha il potere di vivere nel fondo del mare come un pesce e di conoscerne i segreti e le minacce. Da ciò nasce la sua capacità di vedere i limiti della natura, in questo caso matrigna, e così scopre uno dei pericoli che nasconde il mare: il sisma. Ci restituisce così l'immagine di un territorio debole e ferito, che necessita di interventi di protezione e sostegno, per i quali alla fine l'eroe si sacrifica, giungendo a rinunciare alla sua vita umana sulla terra. Ecco cosa possiamo apprendere dalla leggenda di Colapesce: l'eterno monito, l'eterno ricordo delle numerose ferite sismiche che la nostra terra ha subito. Evidentemente i nostri antenati avevano una sensibilità ecologica ante litteram che noi oggi rischiamo di perdere, abbagliati dai nuovi miti della tecnologia e del potere economico, ed anziché elaborare questa sensibilità in forma di coscienza moderna, come riflessione sul senso del limite, alimentiamo illusioni prometeiche, di cui il progetto del ponte sullo Stretto costituisce un ultimo attardato esempio. Invece coscienza del limite vuol dire pensare a noi razza umana come parte della natura e dei suoi equilibri e non come padroni incontrastati che possono capovolgere le leggi interne, modificare con arroganza e megalomania ciò che migliaia di anni di lavoro geologico hanno prodotto sulla faccia del pianeta, illuderci di diventare "chirurghi del pianeta", non per sostenere e proteggere i punti geologici più deboli ma per mutilarli, applicando orribili protesi e cambiandone i connotati.
La saggezza antica di cui Colapesce è un esempio, ritorna in forma moderna e scientifica tra gli scienziati e gli ambientalisti dei nostri giorni che in vario modo si sono espressi contro il progetto del mega-ponte sullo Stretto di Messina. Da molte voci si sono levati moniti contro il rischio sismico, si sono moltiplicate le critiche a proposito della inutilità e degli svantaggi economici di un'opera pubblica ciclopica come questa, ennesima riproposizione di un vecchio paradigma già fallito per lo "sviluppo del Sud". E non sono mancate le analisi e gli appelli degli urbanisti e degli ambientalisti che segnalano l'irrimediabile guasto all'ambiente naturale ed ai centri urbani dell'area dello Stretto che dalla costruzione della mega-infrastruttura deriverebbe.
Ma adesso abbiamo un nuovo Colapesce: il sociologo Osvaldo Pieroni ci offre uno sguardo nuovo, il punto di vista di chi studia l'impatto sociale e antropologico di un'opera di questo genere ed elabora una nuova espressione del "pensiero meridiano" (Cassano). Richiamandosi ad una visione alternativa della modernità, ovvero ad una modernità riflessiva, cosciente dei costi e dei rischi dello sviluppo tecnologico ed economicistico (U. Beck), Pieroni produce un saggio di sociologia dell'ambiente che analizza l'area dello Stretto come luogo e mondo vitale.
Partendo dal concetto di "colonizzazione del mondo vitale" di Habermas, Pieroni scrive: "Lo spazio in quanto paesaggio significativo, in quanto ambiente vissuto - ovvero luogo dell'azione, il luogo della dinamica del corpo - ed il tempo come storia evolutiva e delle generazioni che in quei luoghi o in riferimento ad essi si ripetono e si formano (si socializzano) sono parte del mondo della vita come sfondo della comunicazione e come riferimento della coscienza collettiva. Le emozioni ed i sentimenti che un luogo suscita, che dalla esperienza di un luogo emergono, attraverso l'intersoggettività linguistica ed il suo ripetersi, si tramutano in enunciati, ovvero in aspettative normative, in valori. E questi ultimi, in quanto tali, hanno pretese universalistiche. In questo senso, se consideriamo il luogo tra Scilla e Cariddi, in quanto luogo fisico e naturalistico, in quanto campo di emergenza emozionale ed in quanto simbolo linguisticamente costruito, come dimensione del mondo della vita, possiamo parlare della opposizione al progetto del ponte come resistenza alla colonizzazione del mondo della vita".
Una resistenza al passaggio dall'attuale luogo, in senso antropologico, al non-luogo emblematico. Da questa attenzione al sociale, alla memoria, all'antropologia dello Stretto, Pieroni deriva la particolare cura con cui analizza l'unicità di quel mondo fisico-spaziale e antropologico costituito dallo scenario di acque e terre di Scilla e Cariddi. L'analisi mette in evidenza le eccezionali caratteristiche ecomorfologiche e mitologiche dell'area: le correnti marine ed i gorghi acquatici da cui i miti di Scilla e Cariddi; il paradiso zoologico costituito dalla fauna ittica, che dagli abissi viene in superficie e dal crocevia del volo degli uccelli rappresentato dallo Stretto; le particolarità geosismologiche derivanti dall'intersezione tra i terminali dell'arco eoliano e l'incisione italiana della grande faglia mediterraneo-orientale; l'interessante geografia simmetrica dei due versanti peloritano e aspromontano; l'estrema bellezza paesaggistica dello Stretto derivante da un capolavoro geologico della natura che ha unito due differenti mari ed ha diviso in due parti la stessa terra.
I miti di una natura pericolosa fino al rischio mortale per i naviganti divorati dal mostro di Scilla o ingoiati dal gorgo di Cariddi, ma nello stesso tempo affascinante e magica come il canto delle sirene, capace di rapire ed ammaliare: questi miti esprimono l'ambivalenza tra rischio ed estasi, contemplazione e catastrofe e ci indicano come "stare" in questo luogo. Ci mostrano l'unico rapporto possibile con questo ambiente: guardare e godere, navigare e riposare, ma allo stesso tempo difendere e difendersi con i tappi di cera nelle orecchie come Ulisse e gli occhi vigili per prevenire i maremoti (o la "rema" troppo forte), gli uragani di vento ed i terremoti.
Come non capire che in un'area in cui si sono succeduti ben 36 terremoti catastrofici negli ultimi 2000 anni, l'unico mezzo ragionevole per i collegamenti deve essere il mare e che non possiamo affidarci ad una infrastruttura sospesa ad immense torri d'acciaio con i piedi ballerini ed esposta allo scirocco che da queste parti corre a più di 120 km all'ora. E quando il mare e il vento dicono no, che non si passa, è sempre possibile fermare i motori del traghetto e fermarsi a guardare, con poco danno economico, tutto sommato. Il fermo dovuto ad una notte di tempesta non ha mai mandato in rovina nessuno! Pieroni ci racconta tutto questo ed altro ancora, argomentando un'altra visione dello sviluppo locale e sembra ci dica: Prometeo non abita più qui.
Pieroni infatti compie una rassegna critica dei modelli di sviluppo e di modernizzazione proposti per il Sud negli ultimi decenni di cui il ponte sullo Stretto costituisce parte integrante ed insieme esempio emblematico. Modelli già ampiamente fallimentari in cui il Mezzogiorno è visto come una periferia dell'Occidente, in una spirale di dipendenza in cui non contano le risorse endogene e le compatibilità ambientali ma solo lo spazio da riempire con grandi opere e poli di sviluppo. Modelli che rimandano ad un pensiero unico e colonizzatore rispetto a cui il tentativo, riuscito, di Pieroni è quello di rifiutare l'ennesima omologazione culturale che l'ipotesi ponte rappresenta. E invece occorre fare attenzione ai soggetti locali che possono valorizzare il proprio "mondo della vita" e diventare sempre più consapevoli della immensa risorsa di bellezza ambientale oltreché di memoria, di letteratura e di mitologia che lo Stretto rappresenta. Dunque un modello alternativo a quello che rappresenta il ponte, che offra per l'area dello Stretto non una crescita (?) economica insostenibile, coi danni irreversibili che comporterebbe, ma un "giardino mediterraneo".
Il bilancio tratteggiato dal libro, sul progetto attualmente in discussione di ponte a campata unica, conclude che questo ponte sarebbe inutile e dannoso sotto il profilo delle economie locali e delle economie generali di trasporto, pericoloso sotto i profili sismico e della sicurezza, nocivo e distruttivo sotto l'aspetto ambientale, denso di conseguenze negative sotto il profilo urbanistico, regressivo e omologante sotto il profilo culturale.
Così tra la Scilla del sottosviluppo e della disoccupazione e la Cariddi della tecnologia distruttiva e del modello economico obsoleto e diffuso, il sociologo indica un'altra via più sicura, praticabile e sostenibile e soprattutto aperta alla bellezza, grande bisogno sociale e risorsa della memoria e del futuro.
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Quando nel 1998 sottoscrissi l'appello del comitato "Tra Scilla e Cariddi", Perché la saggezza prevalga sulla incoscienza, ero ben lontano dal riconoscere i mille ed uno dettagli di questo straordinario rapporto (Osvaldo Pieroni, Tra Scilla e Cariddi. Il Ponte sullo Stretto di Messina: ambiente e società sostenibile nel Mezzogiorno, Rubbettino, Soveria Mannelli 2000, pp. 267). E' merito di Osvaldo Pieroni l'aver prodotto, grazie ad un lavoro da certosino, una vera e propria summa, che raccoglie in modo chiaro ed intelligente tutti gli aspetti del dibattito.
In mancanza di queste conoscenze specifiche, all'epoca avevo aderito in qualche modo "d'istinto", fidandomi di un intuito che mi derivava dalla familiarità con i problemi dello sviluppo locale in Francia e con quelli dei grandi progetti in Africa, così come dalle mie ricerche sul progresso, la scienza, la tecnica e la modernità (si veda in particolare il mio libro La megamacchina. Ragione tecnoscientifica, ragione economica e mito del progresso, Bollati Boringhieri, Torino 1995).
Lavorando al piano di sviluppo urbano della regione Nord-Pas-de-Calais, negli anni Settanta, non si diceva già che le strade, costruite con grandi spese che gravavano sui fondi dipartimentali dell'agricoltura, destinati al benessere dei cittadini, con il pretesto di togliere dall'isolamento le aree rurali, servivano invece a far sloggiare l'ultimo contadino trasferendolo in città ed a permettere al primo parigino di fare della vecchia azienda agricola, in tal modo liberata, la propria casa di campagna! Avendo a lungo studiato il sottosviluppo del Terzo mondo con la sua scia di "elefanti bianchi" (così vengono chiamati quegli inutili, costosissimi e smisurati cantieri per opere faraoniche mai completate, Ndt.), di cimiteri delle cattedrali industriali nel deserto o di progetti "safari", mi è subito venuto in mente che "l'ottava meraviglia del mondo", questo superbo Ponte sullo Stretto di Messina, non fosse altro che - secondo la bella espressione di Sergio Cofferati (p. 79) - "un collegamento velocissimo tra due deserti infrastrutturali". Come nel caso della celebre diga di Inga nello Zaire di Mobutu, ritroviamo qui tutti i miti "sviluppisti" alleati alla più sfacciata corruzione. La disperazione generata dalle condizioni del sottosviluppo ed i complessi di inferiorità e di colpa che ne derivano, portano a confondere i virus più virulenti della malattia con la cura.
Essendo poi divenuto ancor più sensibile alle ferite irreparabili che l'economia infligge alla natura, ebbi anche il presentimento che, come dice Nella Ginatempo, "il Ponte sullo Stretto [...] distrugge una risorsa dell'ambiente: la bellezza" (p. 95). Sentivo che ci si stava muovendo verso una catastrofe ecologica.
Il bel lavoro di Osvaldo Pieroni ha rafforzato i miei timori ed ha sostenuto con solidi argomenti le mie riserve. Si potrebbe dire che si tratta di un caso da manuale, il quale dimostra che le lezioni di tanti fallimenti di progetti faraonici in contesti simili non servono per niente a scoraggiare gli imprenditori della distruzione in tempo di pace. "Pensare e progettare ancora lo sviluppo in termini di acciaio, asfalto e cementificazione - nota Osvaldo Pieroni - significa essere fuori dal nostro tempo, ancorati ad una modernità industrialista che mostra la sua drammatica obsolescenza tanto sul piano economico, che su quello politico e culturale" (p. 91).
Questo progetto costituisce un concentrato esemplare di come le logiche tecnoscientifiche, accoppiate ai meccanismi economici ed alle perversioni burocratiche, possano comportare quanto di più nocivo e pernicioso si possa immaginare. Esso contribuisce per di più a quella banalizzazione del male, denunciata da Hanah Arendt a proposito del totalitarismo, ma che invece è propria dei tempi moderni. Questa infatti si perpetua nella "democrazia di mercato" in modo più "soft", ma ancora più efficace che nei sistemi totalitari. Ad essa contribuiscono in larga misura il culto dell'exploit tecnoscientifico ("la più importante realizzazione dell'uomo dopo lo sbarco degli americani sulla luna", Nino Calarco, p. 20) e la credenza irrazionale nel progresso e nello sviluppo. In tal modo trova conferma la legge del sistema tecnico formulata da Jacques Ellul: se è possibile fare una cosa, bisogna farla. Sotto la pressione delle lobbies, da quelle del ciclo del cemento, della speculazione fondiaria e immobiliare, della mafia, fino alle corporazioni degli ingegneri e degli addetti ai lavori pubblici, una burocrazia furba passa all'attacco giocando fino in fondo la tattica del fatto compiuto. Le spese già fatte, le promesse sconsiderate non permettono più di tornare indietro. E' inutile insistere sugli elementi di un dibattito che l'eccellente indagine di Osvaldo Pieroni ha ordinato in modo pressoché esaustivo; non si possono che riprendere, sia pur in altro modo, le sue conclusioni.
Anche se il progetto fosse razionale, ovvero conveniente in termini di rigoroso calcolo economico, come in effetti sono parsi i progetti del tunnel sotto la Manica o il più recente collegamento tra la Svezia e la Danimarca che legano due zone ad intenso sviluppo e con un traffico in crescita, non sarebbe tuttavia ragionevole realizzarlo. L'assenza di una vera analisi dell'impatto ambientale ed ecologico, diretto ed indiretto, del progetto e delle sue ricadute non può che rafforzare le esitazioni delle persone sagge. La negligenza nel valutare la dinamica delle placche continentali, la sottavalutazione dei rischi sismici, dei venti e delle correnti marine dovrebbero comportare l'abbandono del progetto in virtù del principio di precauzione.
Tuttavia, in questo caso, l'analisi economica mostra che si tratta di un investimento irrazionale, troppo costoso rispetto ai ritorni previsti, inutile rispetto alle alternative immaginabili, senza prevedibili effetti di trascinamento vista l'importazione massiccia di tecnologie prodotte altrove; in breve si tratta di un esempio tipico di quegli investimenti sconsiderati già fatti nel Mezzogiorno, che denuncia il prof. Latella: "assolutamente privi di connessione organica con il territorio" (p. 105). Si vede bene che nei fatti la ragione economica non è invocata che a titolo d'alibi. Ciò che invece è sicuro è che, accantonando le soluzioni alternative, piuttosto che far emergere la regione dalla depressione, si porterà a termine un crimine contro la bellezza. Come scrive ancora Nella Ginatempo: "Se, dunque, mancano le categorie dell'utile e del giusto, salviamo almeno le categorie del bello!" (p. 108).
Solo il fascino della prodezza spettacolare, prometeica, della gloriosa sfida cinta d'aureola, del simbolo nazionalista e geopolitico dell'unificazione del territorio italiano e del ricongiungimento materiale al continente può spiegare l'accecamento nefasto di "brave persone" non corrotte da gruppi di pressione, i cui interessi di parte sono chiaramente identificabili. Se Giove acceca quelli che vuol perdere, vogliano gli Dei preservare la Calabria e la Sicilia da un destino così funesto!
(traduzione di Osvaldo Pieroni)
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1870: si parla per la prima volta di creare un’infrastruttura per attraversare lo stretto di Messina. Il progetto, opera dell’ingegnere Carlo Navone, prevede un avveniristico tunnel sottomarino. L’idea cadrà nel dimenticatoio per quasi un secolo.
anni ’50: in un padiglione della fiera di Messina è presentato un plastico di un ponte sospeso.
1969: l’Anas promuove un "Concorso di idee per l’attraversamento dello Stretto di Messina". Sei progetti si aggiudicano ex aequo il primo premio. Cinque di essi prevedono collegamenti sospesi, mentre il sesto, battezzato "Ponte di Archimede", immagina un tunnel subacqueo a 30 metri di profondità.
1971: la legge 1158 afferma il "prevalente interesse nazionale dell’opera" e pone le basi per la creazione di una società concessionaria per la progettazione, realizzazione e gestione.
1981: nasce la Società Stretto di Messina, concessionaria dell’opera. L’azionista di maggioranza è l’Iri (51%), quelli di minoranza le Ferrovie dello Stato, l’Anas e le regioni Calabria e Sicilia (tutte con il 12,5%).
1982: Claudio Signorile, ministro per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno, annuncia che la realizzazione di un collegamento tra il continente e la Sicilia avverrà "in tempi brevi".
1984: Signorile, ora ministro dei trasporti, assicura: "Il ponte si farà entro il ‘94".
1985: Romano Prodi, presidente dell’Iri, promette che "i lavori per la costruzione cominceranno al più presto". Sempre Signorile, passato ai lavori pubblici, afferma: "Nel 1988 vedremo la posa della prima pietra e nel ’96 la fine dei lavori".
1985: inizia l’attività operativa della Società Stretto di Messina.
1987-1988: prima le Ferrovie, poi il Consiglio superiore dei lavori pubblici e infine l’Anas si esprimono a favore del ponte sospeso. Viene dato l’avvio alla fase di progettazione.
dicembre 1992: la Società Stretto di Messina presenta il progetto di massima, accompagnato dalle relazione tecniche su costi e spese.
1993: Raffaele Costa, ministro dei trasporti, assicura che la realizzazione del ponte dovrebbe essere possibile "entro quattro anni".
luglio 1994: le Ferrovie dello Stato esprimono parere sostanzialmente favorevole al progetto di massima, ma chiedono l’approfondimento di alcuni aspetti tecnologici.
1995: anche l’Anas conclude l’esame del progetto, con parere analogo a quello delle Ferrovie.
1997: si passa al progetto di fattibilità, che viene presentato al Consiglio superiore dei lavori pubblici.
1998: Mediocredito Centrale predispone uno studio di fattibilità finanziaria per 7.140 miliardi di lire.
settembre 1998: il Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica) avvia l’istruttoria del progetto e ne demanda l’esame alla Commissione infrastrutture.
9 febbraio 1999: la Commissione decide bisogna approfondire le questioni ambientali, socioeconomiche e finanziarie. Si opta per l’affidamento a soggetti terzi, i cosiddetti advisor.
18 ottobre 1999: sono pubblicati due bandi di gara per gli advisor, uno di carattere ambientale, l’altro tecnico.
20 dicembre 1999: la gara ambientale è aggiudicata all’associazione temporanea di imprese creata da Certet dell’Università Bocconi, Sit, Sintra e Price Waterhouse Coopers. Il lavoro dovrà essere consegnato entro il 19 novembre 2000.
12 gennaio 2000: la gara tecnica è vinta dal colosso americano Parsons Transportation Group. Tuttora, però, non è ancora stato firmato il contratto di incarico.
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