loader
menu
© 2025 Eddyburg

MILANO - C’è molto di nuovo, a Milano, sotto il sole. Basta affacciarsi un pomeriggio dal portellone dell’elicottero AB 212 PS 81 della Polizia di Stato in volo nel cielo sopra Milano per notare che la città sta cambiando. Eccome! Milano sta smarrendo il tradizionale tetto a due falde rivestito in coppi rossi, quello delle sue basiliche e delle sue cascine, per far posto alla nascita di un nuovo quartiere posto a una ventina di metri da terra: il quartiere dei sottotetti. Perché lì in alto, negli ultimi cinque anni, si è sviluppata una città nella città. Che vedono solo i piccioni, è vero, ma che è grande - solo per la sua parte di recente costruzione - come tutto il quartiere Orlando di Livorno, un’area, per intendersi, di oltre 500 mila metri quadrati dove potrebbero esserci abitazioni e un porto per 800 barche! Una città estesa quanto la nuova Fiera di Rho-Pero che è «la più grande d’Europa»; quanto il Mall di Ontario Mills a Los Angeles che è «il più grande del mondo» e quanto il piano di recupero dell’Olona che attraversa due comuni: Cairate e Lonate...

Questa rivoluzione urbanistica senza un piano regolatore celeste si è sviluppata dal 1999, anno in cui è entrata in vigore la legge regionale 22 che consente la variazione dell’inclinazione delle falde del tetto per rendere abitativi i sottotetti (la legge 15 sul recupero dei sottotetti con già sufficiente altezza era entrata in vigore nel 1996). Così a Milano, nel ’99, sono stati rifatti 156 sottotetti per un totale di 23.400 metri quadri di superficie. Ma attenzione: nel 2000 gli interventi erano già saliti a 538 per oltre 80 mila metri quadrati; nel 2001 a 843 per 126 mila metri; nel 2002 gli interventi sono stati 1.019 per 152 mila metri e nel 2003 ben 1.048 per 157.200 metri quadrati. E così come esiste una Milano del sottosuolo fatta di cantine, canali e metropolitane, esiste ora una Milano sopra i tetti fatta di piscine, giardini pensili, abbaini, sopralzi, mansarde e cappuccine.

Decollando da Linate e sorvolando Milano sino alla periferia nord-ovest, la città sopra i tetti è un cantiere aperto che pare seguire, nella logica urbanistica, le fasce delle circonvallazioni: la zona più esterna e periferica non è toccata dal fenomeno dell’innalzamento dei sottotetti, anche perché fatta di abitazioni a torre costruite negli ultimi vent’anni. Qui, semmai, ci sono piscine e giardini con vista verso il centro città. La fascia intermedia è quella dei sopralzi in grande stile. Quella del centro storico entro i bastioni, invece, è caratterizzata da abbaini e cappuccine, perché forse i sopralzi sembravano troppo invadenti per trovar casa.

Basta che il comandante Francesco Cipriano abbassi un po’ di quota l’elicottero e si vede la vita di questa nuova città a un solo piano realizzata in quota. Qui non ci sono più gli stenditoi condominiali, terreno di storiche dispute tra massaie, e neppure i fili da tagliare all’antenna del vicino perché disturba. Ora, questa, è la zona più trendy di Milano, di quelli che vivono nei loft, prendono il sole ai bordi delle piscine private e leggono i giornali all’ombra dei ficus. Un secolo e mezzo dopo il trionfo della vita della bohème, i protagonisti dei sottotetti non sono più lo squattrinato poeta Rodolfo e Mimì dalla «gelida manina» e neppure gli artisti scapigliati del romanzo «Scene della vita di boheme» di Henri Murger, ma la high-society ambrosiana intesa a districarsi tra aria condizionata e liti condominiali.

Ma anche se non ci sono gli artisti della Scapigliatura, il sottotetto è ugualmente il luogo del trionfo della fantasia. Basta vederli! Ciascuno li ha rifatti come vuole. Le cappuccine sono spesso a due falde, ma qualcuno si è inventato il tetto tondo come quelli delle autofficine mentre i sopralzi sono dei grandi occhi di vetro sulla città. Come negarne la legittimità visto che nel Settecento il più grande architetto milanese, Francesco Croce, fece lo stesso rialzando di un piano il Palazzo della Ragione? Prosit!

Ma in alcuni condomini sono stati persino alzati dei tetti piatti: insomma, una cosa contro natura. Quanto alle mansarde, bisogna ricordare che hanno dato un volto riconoscibile a Parigi, e che sono state inventate alla fine del Seicento a Place Vendôme dal grande architetto Jules Harduin Mansart, dal quale hanno preso nome. Insomma: una copiatura da tre secoli fa! Dall’alto appare chiaro che non tutte le ciambelle sono però riuscite con il buco al punto giusto. Così per alcuni funghi velenosi come un’amanite che spuntano dai tetti di corso Lodi e di viale Umbria e per vari abbaini in stile cuccia di cane in pieno centro.

Scesi a terra le polemiche non mancano. L’assessore regionale Alessandro Moneta, firmatario delle leggi sui sottotetti, le difende. E spiega perché non si poteva costruire un po’ più con i piedi per terra. «Con la legge sul recupero dei sottotetti - dice - abbiamo cercato di frenare l’espansione abitativa sul territorio, che mangiava le poche aree agricole in prossimità di Milano». Quelle aree agricole così ben lavorate dalla mano dell’uomo che per Carlo Cattaneo erano una delle meraviglie d’Italia. Dunque leggi in difesa della bellezza del territorio come da verbo del governatore Roberto Formigoni? Risponde lo stesso presidente della Regione: «Quella di Moneta è una buona legge applicata male. Permette di risparmiare territorio. Se è stata utilizzata male è responsabilità di alcuni comuni, ma non di quello di Milano, e di alcuni progettisti: una legge non può stabilire i canoni del bello. Comunque stiamo introducendo dei parametri nella legge sul paesaggio a tutela della bellezza».

Ed è proprio per la tutela del paesaggio che i Verdi chiedono di bloccare ogni intervento. Ma le cucce dei cani sui tetti deturpano la città? La soprintendente regionale, Carla Di Francesco, frena; non si può vincolare tutto e bisogna puntare sulla qualità: «Meglio privilegiare i sopralzi ben progettati che gli abbaini». Già, ma chi stabilisce la qualità dell’intervento? Qui in terra non la stabilisce formalmente nessuno, anche se dal febbraio del 2003 il Comune di Milano ha imposto che gli interventi che mutano volumetria passino dalla Commissione edilizia per una valutazione, diciamo, anche «estetica». E il 70% degli interventi ammessi in commissione sono stati bocciati.

Ma a questo punto sono gli architetti a lamentarsi: i committenti vogliono spendere poco, ci sono le burocrazie da rispettare, le norme sulla sicurezza e ora anche una sorta di valutazione estetica senza nessun «prontuario» da seguire. Un rebus! Ma niente paura: il Comune di Milano starebbe predisponendo una mappatura tipologica degli interventi sulla base della quale fornire indicazioni pratiche. Peccato che per il direttore di «Domus», Stefano Boeri, una mappatura e un prontuario sono «proprio ciò che non ci vuole». E’ la deregulation celeste, bellezza!

Insomma, per vedere « il nuovo che avanza», a Milano non bisogna avere paura di volare. Anche sopra la Scala, dove s’innalza la madre di tutti i sopralzi: il cilindro di Mario Botta. Perché giunti a terra resta solo il traffico di viale Forlanini.

Una città lineare, stesa lungo tutto il perimetro delle coste sarde, una colata di cemento di proporzioni impressionanti. Tutto andato in malora quando, lo scorso 10 agosto, la giunta regionale di centrosinistra (un centrosinistra allargato a Rifondazione comunista) ha approvato un decreto che vieta qualsiasi attività edilizia all'interno di una fascia di due chilometri dal mare. I piani di cementificazione erano già tutti approvati, capitali ingenti erano impegnati in un'impresa che avrebbe fruttato profitti straordinari. Ora gli interessi colpiti dalla decisione dell'esecutivo guidato da Renato Soru reagiscono. E duramente. Il consiglio regionale è di fatto bloccato dall'ostruzionismo di Forza Italia e dei suoi alleati, che hanno presentato 1824 emendamenti al decreto, nel frattempo diventato progetto di legge. Hanno provato a far decadere il provvedimento, che ha il 10 novembre come data di scadenza, ma la maggioranza ha votato una proroga di altri tre mesi. Non è bastato. Il centrodestra non ha mollato, ha deciso di portare alla paralisi il consiglio, con il rischio di aprire una crisi istituzionale senza precedenti. Cinque anni di governo di centrodestra alla Regione e la vittoria della Casa delle libertà in molti comuni nelle elezioni amministrative avevano creato la situazione più propizia a un saccheggio sistematico delle coste. Poi la vittoria di Soru. Nel programma elettorale della coalizione di centrosinistra la difesa dell'ambiente era uno dei punti qualificanti. Non a caso il sostegno dei gruppi ambientalisti è stato, per tutta la campagna elettorale, particolarmente convinto; un recupero dell'area dei movimenti che si è rivelato uno degli elementi determinanti della vittoria dell'alleanza guidata dall'ex presidente di Tiscali. E la nuova giunta non ha perso tempo. Trascorsi nemmeno due mesi dalla chiusura delle urne, l'esecutivo regionale ha approvato il decreto dei due chilometri. Gli interessi toccati sono molto forti.

Tra i colpiti c'è anche la «Edilizia Alta Italia», proprietaria di 467 ettari di terra a sud di Olbia, e controllata dalla holding Finedim, a sua volta controllata dalla Fininvest di Marina Berlusconi, figlia del presidente del consiglio. La «Edilizia Alta Italia» vorrebbe costruire un villaggio turistico dalla cubatura di oltre 500 mila metri quadri. Sindaco di Olbia è Settimio Nizzi, di Forza Italia. Berlusconi in persona è venuto in Sardegna a fargli la campagna elettorale. Nizzi a «Edilizia Alta Italia» avrebbe spalancato tutte le porte, ma ha dovuto fare i conti con l'opposizione degli ambientalisti. Alla fine, il consiglio comunale, con il voto di maggioranza e minoranza unite, ha dato il via libera a un progetto dimagrito: solo, si fa per dire, 250 mila metri cubi. Ma con il decreto approvato dalla giunta Soru saltano anche quelli. Così come sfuma il piano di ampliamento della Costa Smeralda messo a punto da John Barrack. Il miliardario texano, uno dei leader mondiali dell'industria delle vacanze, ha acquistato Porto Cervo e dintorni dal principe Karim Agha Khan. Ora vorrebbe allargarsi, costruendo soprattutto nuovi alberghi di lusso.

Ma non sono solo Marina Berlusconi e John Barrack a fare il tifo per l'ostruzionismo del centrodestra in consiglio regionale. Ci sono anche imprenditori sardi e non sardi che hanno investito in mega-progetti su tutta la costa, da Alghero a Bosa, dalla penisola del Sinis a Is Arenas, da Arbus alle spiagge ancora incontaminate dell'Ogliastra. Imprese i cui capitali spesso hanno provenienze non chiare e che ora agitano lo spauracchio della chiusura e dei licenziamenti. Iniziative che, come ricordava già trent'anni fa Antonio Cederna in una delle sue inchieste sul sacco delle coste sarde appena cominciato, «alimentano un'economia drogata, nella quale non c'è prospettiva. E' il mattone per il mattone. Quando non ci sarà più nulla da costruire, perché tutto è stato costruito, chi potrà più pensare che una natura che non esiste più possa essere una risorsa?» Il decreto Soru prefigura, per la prima volta, quel mutamento di paradigma che Cederna, inascoltato, invocava.

GRUMBLE è una bella parola, di quelle rotondamente onomatopeiche, che significa più o meno “brontolare”. L’abbiamo imparata dai fumetti, quando Paperino o chissà chi altro è inquadrato di spalle mentre si allontana piuttosto incazzato e frustrato, coi pugni stretti e sbuffi di fumo che salgono dalle orecchie. GRUMBLE.

Dopo gli articoli comparsi su Eddyburg a proposito dell’outlet di Vicolungo, l’architetto responsabile del progetto di “Parco Commerciale” mi ha scritto. Era interessato a discutere le critiche alla qualità degli spazi, purché non si finisse a parlare dei soliti “ political grumblings”, ma si potesse onestamente e concretamente stare coi piedi per terra, magari pure litigare, ma su differenti idee di forma urbana e territoriale. In fondo aveva pure ragione, e un ottimo punto di vista per sostenerla, visto che si tratta di professionista internazionale di alto livello, che ne ha viste di cotte e di crude in fatto di “brontolii” e sa di cosa sta parlando. Eppure ...

Eppure, sarà il vizio mediterraneo di baloccarsi coi grandi sistemi, ma non sono riuscito a seguire la vecchia ricetta che Jerome K. Jerome ci suggerisce sin dalle prime battute del suo Tre uomini in barca: fatti una bella passeggiata, vai a letto presto, e non farcirti il cervello di cose che non capisci.

Tra le cose che non capisco, vorrei elencare in ordine sparso: il comitragico affaire Buttiglione/culattoni, un convegno organizzato dalla Regione Veneto che chissà perché si tiene a Milano, il grave problema internazionale dello sci nautico in pianura padana, e il Signor V. E forse è meglio cominciare dal fondo. Dal Signor V.

Chi segue per amore o per forza le campagne pubblicitarie, probabilmente non ha potuto fare a meno nei giorni scorsi di vedere manifesti (e almeno un paio di pagine web) con una grossa “V” che cambiava leggermente forma, colori, contesto: nera su fondo giallo ricordava il logo di Batman, sotto una cascata di scaglie color mozzarella si trasformava in un trancio di pizza, a colori pastello e con l’aggiunta di un’oliva ti serviva un virtuale Martini Dry Cocktail. Come poco sotto spiegavano le scritte a caratteri più piccoli, quella “V” era non solo supereroi, non solo spuntini veloci, non solo cocktail parties, ma anche e soprattutto Vicolungo Outlets, inaugurato lo scorso 7 ottobre da una variante della solita compagnia di giro nazionalpopputa marca Mediaset.

Nel frattempo un’altra “V” molto più discretamente si piazzava in un altro manifesto-locandina: Il Corridoio V transeuropeo: attori, opere, opportunità. Si tratta di un convegno promosso dalla Regione Veneto, organizzato dall’INU, che vede tra i partners l’università di Ca’ Foscari, il Politecnico di Torino, la Provincia autonoma di Trento, il Centro Ricerche FIAT, e altri. Spicca curiosa, per un convegno milanese, l’assenza almeno ufficiale di qualunque soggetto “locale”. Un altro elemento di curiosità (oltre che ahimè di emergenza sociale, ma questa è un’altra storia) è che quasi contemporaneamente la FIAT annunci proprio a Milano l’intenzione di “sganciarsi” dal polo produttivo di Arese, dalle pur vaghe idee di riconversione alla “mobilità sostenibile”, e di puntare probabilmente ad una speculazione sull’area. Arese, come ben sanno gli automobilisti pendolari dell’ovest, sta in cima al triangolo infrastrutturale (un’altra “V”, a pensarci bene) definito dall’anello delle tangenziali, dalla Milano Laghi e dalla Milano-Torino. Appoggiato all’esterno di uno dei lati di questo triangolo, sta il polo esterno della Fiera, già “il più grande cantiere d’Europa”, di prossima inaugurazione.

Ma facciamo di nuovo dietrofront e con meno di mezz’ora in macchina torniamo nel bel mezzo della prima “V”, tra le ex risaie di Vicolungo. Qui, spazzate via le paillettes delle ballerine inaugurali, i negozi hanno cominciato a funzionare, anche se restano ancora parecchi spazi da riempire. E proprio tra questi varchi, dal percorso interno focalizzato sulle vetrine si intravede ancora qualche squarcio di ex campagna, con la lunga linea grigia del Corridoio Voltri-Sempione a tagliare l’orizzonte. Perché proprio qui, si realizza il miracolo visivo: i corridoi infrastrutturali vagheggiati dal “political grumbling” si possono vedere, e anche toccare nel loro effetto di autoalimentazione, che per semplicità chiamerò qui: grumbling-feedback (un po’ di inglese a sproposito non guasta mai). Se ne era già parlato, del quadrante autostradale, che qui vedeva incrociarsi l’asse Mi-To con uno dei canali di comunicazione Mediterraneo-Europa continentale, che non a caso vede da anni piazzato al primo angolo di corridoio, il primo outlet village italiano, giù a Serravalle.

Poniamo allora di usare questo tipo di (relativamente) piccola trasformazione spaziale coma cartina di tornasole, e di fare qualche ipotesi in libertà. Per esempio, subito dopo la lunga linea grigia dell’A26 e della intersezione con l’A4, sta il comune di Recetto. Come leggiamo sul sito web municipale “Il Consiglio Comunale di Recetto ha approvato il Progetto preliminare delle opere di accompagnamento ai Giochi Olimpici del 2006. Il progetto prevede nuove edificazioni e riqualificazioni nell’area del Parco Nautico e del vicino Centro Sportivo per un investimento totale di € 7.362.000, 00”. Un insieme di interventi che parte dalle strutture già attive dei bacini per lo sci nautico, ed esplicitamente si colloca a saldatura e consolidamento di quanto in corso di sviluppo nell’adiacente territorio comunale di Vicolungo, a costituire un elemento di attrazione a scala “almeno internazionale”. E del resto anche le varie ipotesi di poli di retailtainment concorrenti, come l’outlet di Santhià poco oltre il fiume (che inaugurerà la prossima primavera), o il piano di parco a tema Mediapolis Canavese (la cui esistenza ha modificato sensibilmente il progetto generale per l’area di Vicolungo), confermano un’immagine: la progressiva saldatura in un unico sistema, sempre più visibile, compatto, e ahimè pare piuttosto semplicione, del mitico Mi-To. Proprio quanto sbertucciato a fine anni Sessanta come ingenuo capitolo da “libro dei sogni”, magari dagli stessi che volevano sognarla da soli, quella roba, e poi fabbricarsela in casa, brick-and-mortar, senza i lacci e lacciuoli di programmi pubblici.

E vorrei concludere, brevemente, con l’ultima cosa che nonostante il sonno ristoratore suggerito da Jerome continua a farcirmi il cervello insieme alle varie “V” più o meno cementizie: l’ affaire Buttiglione/culattoni. Credo sia apparsa abbastanza lampante, a buona parte degli osservatori, la tranquilla determinazione con la quale l'ex filosofo di CL ha esposto di fronte ai suoi esterrefatti ascoltatori le proprie idee sulla famiglia e la società in generale. Basta sommare questo, agli scatti immediati di solidarietà del centrodestra (forse non solo nazionale), per sospettare che ci siano grandi manovre in corso parallele al rinnovo della Commissione. Il che letto in una certa prospettiva può anche significare: sinora una sciagurata maggioranza continentale ha spacciato come universali valori che non lo sono affatto, ma non andrà avanti sempre così. La famiglia tradizionale, certo, e il trionfo dello spazio privato, a tutte le scale. Per quello che interessa più da vicino i temi legati a queste note, il privato della casa, il privato della piazza pubblica privatizzata nello shopping mall, il privato delle grandi scelte concordate a livello strategico con gli interessi particolari, il cui ruolo per la collettività si misura “a prescindere”. Anche quel corridoio, che passa o non passa a sud della catena alpina, ad esempio: nuovi equilibri continentali, via i "culattoni", e lo faremo passare da dove vogliamo, il Corridoio. Chissà.

Per ora, la cosa visibile sono solo le più o meno sottili imperfezioni degli spazi realizzati, la vaga idea che ci sia qualcosa che non va, anche oltre il fastidio perché stanno chiudendo tutti i negozi della via, o l’insopportabile coda per andare tutti allo stesso centro commerciale a venti chilometri di distanza. Indispensabili fratture della modernizzazione, come si premurano di spiegarci alcuni nazionalsociosofi? GRUMBLE.

Care/i compagne/i, quando abbiamo annunciato il tema del nostro ormai tradizionale seminario di settembre alcuni compagni mi hanno fraternamente espresso qualche perplessità.

Da un lato la preoccupazione che la materia fosse troppo specialistica e non si prestasse quindi ad essere trattata dai non addetti ai lavori. Dall'altro l'idea che il tema, pur essendo di sicuro interesse culturale, sia però abbastanza estraneo al campo d'azione della Cgil. Affido a Eddy Salzano il compito di fugare la prima preoccupazione. Per quanto riguarda la seconda consentitemi invece qualche rapida considerazione.

Il documento conclusivo del nostro Congresso provinciale affermava autocriticamente che la nostra Camera del Lavoro ha una “scarsa dimestichezza” con il tema della città e dell'uso del territorio. L’ impegno congressuale di lavorare per colmare questa lacuna ha avuto prime risposte nel documento sulla città che abbiamo presentato nel gennaio 2003 e che ha ispirato varie iniziative provinciali e di zona.

Ora ci proponiamo di fare un altro passo avanti cercando di cogliere il nesso tra le politiche per lo sviluppo e il lavoro e il tema della città e dell'uso del territorio.

Nel seminario dello scorso anno con Bruno Trentin e Vittorio Rieser abbiamo analizzato le trasformazioni del lavoro ovvero il passaggio al “nuovo modo di produzione” che definiamo postfordista. Ne abbiamo esaminato le conseguenze dal punto di vista della precarizzazione del lavoro, dell'indebolimento dei diritti e delle tutele, della compressione del costo del lavoro. Oggi ci proponiamo di esaminare l'altra conseguenza di questo “nuovo modo di produzione”, lo sviluppo disordinato generato dalla fabbrica postfordista che esternalizza costi con ricadute pesanti sull'ambiente in termini di:

a) spreco di territorio, squilibrio idraulico, inquinamento dei corsi d'acqua;

b) difficoltà crescenti nello smaltimento dei rifiuti;

c) peggioramento della qualità dell'aria che respiriamo;

d) congestione del traffico;

e) omologazione e spersonalizzazione dei nostri paesi città;

Cosa c'entra tutto ciò con il postfordismo? Nella vecchia fabbrica fordista tutto si faceva in casa. La grande fabbrica segnava anche simbolicamente il territorio: Torino era la Fiat, Olivetti era Ivrea, Marzotto si identificava con Valdagno, la Lanerossi era Schio e così la Pellizzari per Arzignano e le Smalterie per Bassano.

Il postfordismo è il rovesciamento di questa impostazione. Conviene esportare fuori dalla fabbrica una serie di funzioni, si risparmia. È una corsa alla riduzione delle dimensioni produttive, la fabbrica snella tende a procurarsi all'esterno ciò che prima produceva all'interno. Nasce così l'impresa a rete, il lavoro si disperde nel territorio e così nascono come funghi i capannoni che si mangiano il territorio.

Prima le reti sono corte, distrettuali, oggi le reti diventano sempre più lunghe, tendono a stendersi ed articolarsi su scala planetaria, connettendo segmenti di produzione, saperi tecnologici e reti commerciali dislocate magari in continenti diversi. La fabbrica just in time elimina il magazzino, il magazzino viaggia sulle nostre strade congestionate. Il cambiamento reso possibile dalla rivoluzione delle nuove tecnologie dell’ I.C.T. che velocizzano le comunicazioni e dalla ricerca del capitale di luoghi di produzione a minor costo del lavoro (Samorin/Cina).

Ma le merci non viaggiano via satellite e neppure attraverso le fibre ottiche. Ecco che allora il nuovo modo di produzione genera una mobilità esasperata e multidirezionale delle merci e delle persone, generalmente su gamma e quasi sempre su mezzi privati da un punto all'altro di un sistema insediativo disperso nel territorio.

Il traffico è sempre più congestionato. Di qui la richiesta di nuove autostrade che si mangiano un'altra fetta di territorio. Capannoni e strade impermeabilizzano il territorio, rallentano la ricerca delle falde acquifere, provocano esondazioni dei corsi d'acqua.

Si affermano nuovi modi di costruire. Prendiamo ad esempio la Statale 11 verso Montecchio Maggiore ed oltre. Essa è diventata una strada-mercato, una successione lineare di fabbriche ed edifici mostra. Più in generale, quello che un tempo era campagna è diventato un paesaggio reticolare della piccola impresa disseminato di case laboratorio. Nuovi monumenti suburbani crescono come funghi, sono i centri commerciali che sostituiscono le vecchie piazze cittadine.

Insomma, per farla breve, il paesaggio urbano che avanza prepotentemente e sembra quasi un fiume inarrestabile, è il paesaggio reticolare della città diffusa, insieme rurale e urbana, ma credo che a Eddy non piaccia questa definizione, credo anch'io sia più corretto parlare di città dispersa.

In sostanza un ambiente urbano a marmellata sempre più privo di forma e memoria dei luoghi. Un ambiente vissuto in modo sempre più alienante soprattutto da parte delle nuove generazioni. Noi siamo abituati ad affrontare questi problemi in modo settoriale, ovvero non sistemico. Se c'è un problema di traffico la soluzione è semplice: facciamo una nuova strada, meglio se autostrada.

Scrive un grande urbanista: " l'errore più grave è quello di pensare di risolvere un problema così grave come quello del traffico isolandolo dal più generale contesto della pianificazione urbanistica territoriale”. Appunto, la pianificazione urbanistica è mancata nel Veneto e i risultati sono sotto i nostri occhi.

Il territorio è stato trasformato dagli spiriti animali del capitale. Oggi anche la parte più avvertita della classe dirigente vicentina si rende conto che occorre mettere un freno a questo sviluppo disordinato, ma le soluzioni proposte sono solo delle toppe.

Occorre invece pensare ad una riorganizzazione complessiva e organica del territorio, che riduca la dispersione delle attività produttive, commerciali e residenziali; che punti al trasporto collettivo delle persone e a soluzioni logistiche adeguate. E’ il tema che ci illustrerà Marco Guerzoni domani mattina.

Tutto ciò è necessario ma non basta. Occorre connetterlo con l’idea di uno sviluppo più qualificato capace di competere nella fascia alta ed innovativa delle produzioni e, di conseguenza, in grado di generare lavoro qualificato, di sostenere più elevati livelli salariali e migliori condizioni di lavoro. Questo tipo di economia è anche più rispettosa dell’ambiente, meno “energivora”. Per questa via passa anche il tema della riconversione ecologica dell’economia di cui ci parlerà Salzano.

Proviamo invece a vedere cosa succede a Vicenza, Vicenza città capoluogo. A Vicenza manca il PRG. Nessuno sa che fine ha fatto il piano Crocioni, costato un paio di miliardi di vecchie lire. Nel contempo apprendiamo, senza che ciò provochi particolare scandalo in città, che il Sindaco e i vari amministratori adattano gli strumenti urbanistici alle pretese di vari operatori privati interessati ad edificare migliaia di metri cubi. E tutto ciò indipendentemente dalle reali esigenze della città.

E così nascono astruse sigle, il Piruea ( ex Cotorossi) per 218.000 mq, lo giustificano con l’esigenza del nuovo tribunale, ma esso riguarderebbe poco più di un quarto della superficie. Il resto è suddiviso tra direzionale, commerciale, residenziale. La stessa logica vale per il nuovo stadio Menti, per l’ex Lanerossi, per la Cittadella dello Sport e via dicendo.

Dalla semplice somma di questa ed altre iniziative dalla scarsa trasparenza emerge la ragguardevole cifra di 1 milione di mq di nuova edificazione da realizzarsi con la deprecabile modalità dell’urbanistica contrattata. Una follia per una città di poco più di 100.000 abitanti. Il nostro obiettivo è invece recuperare qualità urbana e sociale.

Cosa è accaduto in questi anni a Vicenza?

La prima dinamica. La città si allarga perché tanti vicentini vanno a vivere nei comuni della provincia. I motivi di questa fuoriuscita vanno ricercati in primo luogo nell’elevato costo degli affitti e delle case e nella ricerca di una qualità della vita urbana migliore che si trova nei comuni della cintura. La fuga dalla città ha effetti sul sistema territoriale che si misurano in una esponenziale crescita della mobilità privata e sul sistema cittadino con un allentamento dei legami sociale e dell’identità dei luoghi con una tendenza all’isolamento che riduce la socialità.

La seconda dinamica. Vicenza e la sua provincia in questi anni sono diventate più ricche grazie all’eccezionale crescita dell’economia e, in particolare del settore industriale. Gli insediamenti produttivi e terziari hanno consumato il territorio. L’assenza di un adeguato governo del territorio e delle sue trasformazioni, lasciate alle spontaneità degli spiriti animali, ha però determinato quell’ambiente urbano a marmellata, sempre più privo di identità e memoria dei luoghi, di cui abbiamo già parlato.

La terza dinamica. I trend demografici mostrano che nel prossimo decennio avremo una diversa composizione anagrafica con un aumento delle fasce di popolazione costituite da bambini e anziani e di “ immigrati extracomunitari”.Il futuro richiede quindi più Welfare e quindi maggiore impegno da parte dell’amministrazione pubblica. Se tale impegno non dovesse esserci lo scenario futuro potrebbe riservarci situazioni di emarginazione sociale e la creazione di quartieri monoculturali ed etnici. La risposta della giunta Hullweck di tenere fuori dalla città i migranti e i ceti poveri è pericolosa perché è l’antitesi dell’integrazione necessaria al nostro sistema produttivo. Quando i luoghi di lavoro sono lontani dai i luoghi dell’abitare e a loro volta sono lontani dai luoghi dei sevizi e della socialità si perde gradualmente l’identità sociale di una comunità e la sua coesione sociale.

Dunque, qualità urbana e qualità dello sviluppo devono connettersi alla qualità sociale, ciò significa affrontare il tema dei servizi collettivi, del Welfare locale sempre più minacciato dai tagli del governo e della Regione.

Il nostro obiettivo è recuperare qualità urbana e sociale. Quanto della qualità sociale dipende anche dalla qualità urbana? Lo chiedo al Compagno e al Prof. Edoardo Salzano.

Noi ci riconosciamo in quello che egli ha scritto con grande efficacia. “Ricostruire una città umana significa eliminare la congestione, restituire alle piazze la loro funzione originaria di luogo d’incontro, di scambio di esperienze, significa rendere accessibile per i deboli, come per i forti, i luoghi della vita collettiva ed i luoghi della vita privata, significa fare della città il luogo nel quale i differenti ceti, i differenti mestieri, funzioni sociali, differenti etnie, abitudini, culture si mescolano e si scambiano reciproci insegnamenti.

La visione è un invito alla socialità, se possibile alla socievolezza, la città come luogo della libertà e della crescita personale.

E’ una visione che tradotta nel nostro linguaggio più consueto si propone di affermare il diritto all’ambiente, alla mobilità, alla casa, al lavoro, alla salute, all’istruzione e poi anche opportunità formative e culturali.

Per questo abbiamo promosso questo seminario e chiesto ad Edoardo Salzano, a cui tra un attimo cedo la parola, di alfabetizzarci su una materia della quale abbiamo “scarsa dimestichezza” ma al contempo anche la consapevolezza che essa è essenziale per la nostra azione politica e sindacale.

La disciplina per il centro storico nell’ambito del nuovo PRG di Napoli

Convegno fondazione Michelucci, Fiesole, 18 febbraio 1999

Intervento di Roberto Giannì,

Il nuovo PRG di Napoli, recentemente adottato dalla giunta comunale, è il frutto di un intenso lavoro iniziato con la prima amministrazione Bassolino, quando assessore all’urbanistica era Vezio De Lucia e portato a termine, nei giorni scorsi, con la delibera di giunta su proposta dell’attuale assessore Rocco Papa. Ora la parola passa al consiglio comunale. Elaborato interamente dagli uffici comunali, il piano è stato inizialmente concepito come somma di cinque varianti parziali che avrebbero dovuto coprire l’intero territorio comunale. Questa procedura è stata rivista parzialmente nel corso dei lavori. In definitiva la procedura adottata è stata la seguente.

Due di queste varianti sono state approvate. Si tratta della variante per la zona occidentale, avente per oggetto la riconversione industriale dell'area di Bagnoli, e della variante di salvaguardia, che si occupa principalmente della tutela delle aree verdi sopravvissute all'ondata di speculazione edilizia che nel dopoguerra ha funestato la città, cambiando i connotati alle bellissime colline napoletane.

Le altre tre varianti, quella per il centro storico, quella per la zona orientale, la più grande zona industriale della città, e quella per le zone nord-occidentale (la grande periferia della città) sono state invece unificate e, insieme con i territori originariamente compresi nella variante di salvaguardia, costituiscono un’unica grande variante. Tale variante, sommata all’altra variante per Bagnoli, concepite secondo una metodologia e uno schema di classificazione unitario, formano, di fatto, il nuovo PRG della città. Nella nuova disciplina urbanistica per Napoli il piano per il centro storico, come vedremo si tratta per la gran parte di regole direttamente operative, fa parte del piano regolatore generale della città, non costituisce un documento a parte, come in molte altre esperienze di pianificazione, soprattutto di grandi città.

Prima di soffermarci sul tema specifico di quest’incontro, le scelte di pianificazione per il centro storico, è indispensabile pertanto riassumere gli elementi salienti del nuovo Prg, che si propone l’obiettivo prioritario di migliorare la qualità urbana, ritenuta una pre-condizione allo stesso sviluppo economico. Il nostro piano, che esclude tassativamente ulteriori espansioni edilizie, è basato sulla combinazione di interventi di conservazione e interventi di trasformazione. I primi riguardano l’ancora consistente patrimonio di aree verdi e il centro storico. I secondi concernono l’espansione del secondo dopoguerra e, in particolare, le aree industriali dismesse: il legame verso il passato, da un lato e la proiezione verso il futuro, dall’altro, nella consapevolezza che un forte radicamento nella storia è una condizione imprescindibile per tutelare l’integrità fisica del territorio, e la stessa identità culturale della città e per determinare vantaggiose condizioni di sviluppo. La combinazione tra rispetto e restauro delle parti più pregiate e definizione di grandi progetti di sviluppo è possibile ed è necessaria perché è possibile trovare gli spazi di trasformazione e di modernizzazione occorrenti per portare la città a competere con le grandi metropoli del mondo.

Mobilità

L'elemento di coesione, quello che deve tenere insieme queste differenti iniziative e che rende plausibile l’obiettivo della riqualificazione è la riforma della mobilità cittadina, consistente in primo luogo in un fortissimo potenziamento della rete su ferro e nel contemporaneo alleggerimento del grovigli sovrabbondanti di superstrade che soffoca la città senza servirla. Questo è uno dei lavori più impegnativi ai quali il comune di Napoli si è dedicato negli ultimi cinque anni, al fine di migliorare l’accessibilità nel centro storico, impedirne l'invasione da parte delle auto, consentire collegamenti tra centro storico e grandi aree verdi della periferia, eccetera. Alla riforma della mobilità è affidato inoltre il compito di rompere la marginalità delle aree periferiche e metterle in condizione di recepire le manovre di riqualificazione che il piano propone per essa.

Un problema comune a molte altre città italiane, e che anche Napoli vive in termini che ritengo particolarmente gravi, è lo squilibrio tra la scala dello strumento di pianificazione amministrativamente praticabile e l'estensione concreta dei problemi. Mentre le trasformazioni urbanistiche avvengono cioè alla scala metropolitana, lo strumento di pianificazione utile per governarle, è costretto a operare nell’ambito del confine comunale, con evidentissimi limiti (ricordo a questo proposito che la provincia di Napoli è più piccola del comune di Roma e l'area comunale occupa un decimo di questo territorio). Nel corso della preparazione di questo piano abbiamo fatto il possibile per adottare soluzioni ispirate a una potenziale e possibile proiezione alla scala metropolitana, almeno su alcuni problemi importanti, come quello della mobilità e delle politiche ambientali.

Verde

L’altro tema è quello del verde. A Napoli esistono 3.500 ettari, sugli 11.000 dell’intero territorio cittadino, che si sono salvati miracolosamente dalla speculazione edilizia del dopoguerra. Sono ambienti di straordinaria bellezza, comprendenti i parchi storici tradizionali della città, come il parco di Capodimonte, quelli di nuova formazione, come il parco dei Camaldoli, nonché le aree agricole, e che sono stati oggetto della tutela prevista dalla variante di salvaguardia. Dei 3.500 ettari, ben 2.000 sono ancora coltivati (pensate: 2.000 ettari di agricoltura che penetrano fin dentro il centro storico). La manovra sull’agricoltura costituisce uno dei più ambiziosi e significativi contenuti del piano. È anche attraverso il sostegno e il rilancio dell’agricoltura, infatti, che il comune si propone di tutelare il territorio e di ricostruire l’immagine del paesaggio napoletano, un paesaggio rappresentato, a volte anche idealizzato, in molte pitture, soprattutto dell’'800, che noi consideriamo un patrimonio da restaurare e da conservare. Ne è un esempio la collina di S.Martino, in pieno centro storico, sulla quale è ritornata l’agricoltura, sono stati reimpiantati i vigneti: la fermezza con cui l’amministrazione napoletana, dalla variante di salvaguardia in poi, ha posto questo problema, sta portando a primi risultati concreti.

Rimane l'interrogativo di cosa fare dei 3.500 ettari di verde superstite. La proposta avanzata dal piano è di farne un grande parco regionale, anzi due grandi parchi regionali, che dovranno costituire il cuore verde dell’area napoletana: un elemento intorno al quale ricostruire la pianificazione dell’intera area metropolitana, costituita da oggetti molto diversi tra loro, nei quali occorre inserire un luogo per il godimento della natura, per lo spazio e il tempo libero e anche per l’accoglienza dei turisti. Sostanzialmente, si intende costituire un’attrezzatura metropolitana per lo sport e il tempo libero; un’alternativa al lungomare di Napoli e alle attrezzature che si dovranno formare nell’area dismessa di Bagnoli.

Aree dismesse

E veniamo così all’altro tema portante del piano, quello delle. A Bagnoli sono iniziati i lavori di bonifica e sta procedendo di pari passo – dopo l’approvazione della variante urbanistica - il piano urbanistico esecutivo. Qui si prevede di ricostituire la spiaggia, formare un grande parco attrezzato di circa 190 ettari, arricchito dalle più significative architetture industriali, restaurate per ospitare nuove funzioni e, infine un nuovo insediamento edilizio a bassa densità con residenze, produzione avanzata e attrezzature per il turismo di cui Napoli è carente pur in presenza di una domanda di accoglienza turistica in forte crescita.

L’altro polo di trasformazione è l’area industriale orientale della città. Anche qui, per quanto l'intento del comune sia quello di farne principalmente un nuovo insediamento produttivo, la manovra sugli aspetti ambientali è determinante. La delocalizzazione di tutte le attività petrolifere è uno degli elementi basilari del piano. La ricerca della qualità si persegue con la riforma del sistema delle urbanizzazioni e del disegno urbano. Una nuova maglia stradale riconnetterà le attività produttive ancora operanti e quelle che sostituiranno le fabbriche dismesse. Gli elementi del nuovo impianto sono: un boulevard – in realtà un lungo viale pedonale e ciclabile - che congiunge, anche simbolicamente, il centro con l’estrema periferia orientale; il grande parco di Napoli orientale, che congiunge il mare con la piana agricola dell’entroterra. il tracciato di un corso d’acqua che riprende il percorso del mitico fiume Sebeto, che scorreva dalla piana agricola di Volla fino al mare. Il restauro di questo bacino, sostanzialmente una riproposizione dello stesso, ha al tempo stesso una funzione di riordino idraulico di una zona che soffre dell’urbanizzazione incontrollata degli ultimi decenni, ma anche di restauro paesaggistico di questo territorio.

Centro storico

Passiamo ora all’illustrazione delle scelte che il piano opera per il centro storico. E’ utile a questo fine ricordare una specificità del centro storico di Napoli, che lo differenzia dai centri storici di altre grandi città. A differenza del centro storico di Firenze, ad esempio, o da quello di Milano e di Roma, il nostro centro storico non presenta fenomeni consistenti di terziarizzazione ma, al tempo stesso, non vi si riscontrano quei fenomeni di spopolamento e abbandono che si verificano in altre aree centrali, in Italia l’esempio più evidente è Palermo. Esso è ancora abitato dalla popolazione e dalle attività tradizionali, che hanno conservato in vasti quartieri di quest’area un apprezzabile circuito di sussistenza. Si tratta di una condizione che, per un verso, rende difficile l’opera di restauro, che si deve svolgere in un’area densamente popolata, ma per un altro verso l’avvantaggia, se è vero che l’essenza del centro storico non sono solo le pietre, i fabbricati, ma anche la popolazione e le attività che tradizionalmente li hanno occupati.

La mancanza di estese trasformazioni fisiche e sociali di quest’area si è accompagnata tuttavia – e non poteva essere diversamente – a un lento declino delle sue condizioni fisiche e sociali. E’ per questa ragione che l’amministrazione comunale ha inteso avviare nel centro storico un procedimento di pianificazione a due velocità: nel tempo breve, con la già citata variante di salvaguardia, sono stati estesi i confini del centro storico, introducendo al tempo stesso una normativa transitoria che consentisse una ripresa dell’attività edilizia finalizzata agli interventi di conservazione (l’attuale Prg che risale al 1972, rinvia invece tutti gli interventi all’approvazione di piani particolareggiati, che non sono stati mai redatti); nel tempo medio, l’approntamento della disciplina definitiva, con una normativa di Prg direttamente operativa per gran parte del territorio: insomma, da circa cinque anni è in corso un avvicinamento progressivo all’obbiettivo della riqualificazione.

L’estensione dei confini del centro storico, introdotta dalla variante di salvaguardia, è una misura che noi consideriamo di significativo rilievo. Il perimetro del centro storico nel Prg del 1972 includeva sostanzialmente la città preindustriale. La nuova delimitazione si spinge ben oltre, fino a comprendere gli insediamenti ottocenteschi e novecenteschi, fino alla seconda guerra mondiale, e i centri periferici di origine agricola. La sua estensione passa così da circa 700 ettari, ai 1.700 ettari della variante di salvaguardia (il confine definitivo, delimitato nell’ultima variante misura circa 1.900 ettari). Il documento usato per definire il nuovo perimetro è un rilievo fotografico militare del 1942.

Lo scopo che ci siamo proposto è stato quello di segnare un confine tra città storica e città moderna, che separa essenzialmente il complesso degli organismi cresciuti sulla base di una pianificazione o di una regola riconoscibile dalla informe espansione edilizia del dopoguerra. Si tratta di organismi fortemente dissimili tra di loro, anche nelle quantità: a Napoli, come in tutte le grandi città italiane, lo spazio occupato dalla città sorta dal dopoguerra è fino a dieci volte più grande di quello occupato dalla città fino al 1945.

Le modalità d’intervento in quest’area così estesa sono, per la gran parte del territorio, direttamente fissate nella normativa di Prg: quando l’obiettivo è la conservazione servono poco i piani particolareggiati. Solo dove l’impianto esistente richiede, per ragioni diverse, un intervento, sia pure limitato, di trasformazione il piano prevede un rinvio all’elaborazione di strumenti urbanistici esecutivi.

Per la disciplina degli interventi diretti, il piano ha adottato il metodo della classificazione tipologica. L’intero organismo storico, ovviamente classificato come zona A, è stato sottoposto a un lavoro meticoloso di classificazione che ha portato alla individuazione di oltre 16.000 unità di spazio, raggruppate in più di 50 tipi edilizi. Per unità di spazio si intende tanto il singolo fabbricato, quanto lo spazio aperto che viene trattato allo stesso modo, dato che allo stesso modo contribuisce alla costituzione dell’organismo storico che è l’oggetto della tutela.

Sostanzialmente la classificazione degli edifici è stata fatta distinguendo le due grandi famiglie: l’edilizia di base, nata per finalità abitative, e l’edilizia speciale, costituita soprattutto dai grandi edifici religiosi o civili. Distinti secondo l’epoca di costruzione, preottocentesca, ottocentesca, otto-novecentesca e così via, gli edifici, integrati dalle schede relative agli spazi aperti, vengono suddivisi ancora in base alle varie tipologie: a blocco, a corte, eccetera.

Il sistema viene poi perfezionato con ulteriori articolazioni della classificazione. E’ così che, per esempio, il tipo dell’unità edilizia di base preottocentesca originaria con struttura a corte, si articola ulteriormente nella corte pre-ottocentesca rurale, o nella corte pre-ottocentesca semplice o di corte pre-ottocentesca complessa. Questo sistema di classificazione è formulato non sulla base del valore dell’edificio ma delle sue caratteristiche strutturali. Ciò consente, di volta in volta, una valutazione più attenta e oggettiva del tipo di intervento possibile.

Il materiale di base per la formulazione di questo apparato normativo è costituito da una ricca serie di documenti fotografici e cartografici di cui è stato fatto un uso comparato: la carta del Lafrery, o quella del Duca di Noja, o ancora quella redatta dallo Schiavoni, che fu realizzata per predisporre piano per il risanamento della città alla fine del secolo scorso e fu elaborata negli uffici comunali. Questi documenti sono stati messi a confronto prima fra loro stessi, sia in modo sincronico che diacronico, e poi con il rilievo della situazione attuale, riguardante tutti i piani terra dei 1.900 ettari che compongono il centro storico: un rilievo ottenuto mettendo insieme vari documenti esistenti (principalmente il rilievo elaborato da un gruppo di lavoro diretto dal prof Italo Ferraro, ma anche rilievi della società per il risanamento, dello Iacp e altri documenti sparsi) ma anche effettuando numerosissime battute sul campo. Ogni unità edilizia è stata osservata per lo meno tre volte prima di decidere la sua classificazione.

La classificazione consiste, sostanzialmente, nel selezionare in ogni tipologia gli elementi ricorrenti tipici, strutturalmente caratterizzanti l’organismo edilizio. Questi stessi elementi essenziali sono anche quelli da porre sotto vincolo di tutela e che, per converso, consentono i necessari margini di libertà sugli altri elementi, quelli che invece possono essere oggetto di manovra per l’operazione di modernizzazione sul fabbricato, che pure è necessaria. Si tratta di un’operazione complessa, che in molti casi deve consentire anche il frazionamento dell'unità edilizia, poiché il centro storico di Napoli annovera un numero assai elevato di palazzi, secondo la classica definizione tipologica, organismi edilizi nati per ospitare una sola famiglia; palazzi che oggi devono essere convertiti ad un uso residenziale diverso, dal momento che resta necessario consolidare anche la funzione residenziale del centro storico.

Questo tema del rafforzamento della funzione residenziale nel centro storico è uno dei –contenuti forti del piano: il diffuso recupero, che riteniamo indispensabile, della funzione residenziale nel centro storico, richiede di studiare le modalità per attribuire l’utilizzazione residenziale non solo all’edilizia di base, l’edilizia ordinaria, che per tipologia si presta ancora a questo uso, ma anche a molti edifici monumentali, i palazzi aristocratici per esempio, che nel tempo hanno perso questa funzione. Essi hanno caratteristiche tipologiche e dimensioni che non ci consentono di utilizzarli per abitazioni, con gli standard attuali, senza modificazioni consistenti. E’ per questo che di solito si preferisce utilizzarli per attrezzature pubbliche e rilevanti funzioni sociali e culturali. Ma questi edifici hanno una sorprendente diffusione nel centro storico di Napoli e non si può certo pensare di trasformarli tutti in musei o in altre simili attrezzature. E’ stato indispensabile quindi individuare una normativa che ci consenta di riportarci dentro la gente, gli abitanti, lasciando inalterati i caratteri più significativi della loro tipologia. E’ nata da quest’esigenza la norma che consente il frazionamento.

Nel complesso, è naturalmente dalla definizione degli elementi strutturali, caratteristici della tipologia, che è possibile stabilire quali siano gli interventi edilizi che è possibile consentire e quali le utilizzazioni compatibili. Quest’operazione è stata svolta con un sufficiente grado di dettaglio, d’intesa con le soprintendenze, il che dovrebbe facilitare, tra l’altro, la successiva fase della gestione. Questo tipo di classificazione consente soprattutto di operare con grandi margini di libertà, superando i vincoli posti dalla legge 457/1978 con la sua definizione dei tipi di intervento, e di determinare invece, per ogni singola tipologia, quali siano precisamente gli interventi possibili e quali no, andando anche molto al di là della definizione tradizionale di restauro e di risanamento conservativo.

L’effetto sorprendente di questo lavoro è stato il sostegno da parte dell'Associazione dei costruttori di Napoli, che ha assunto le difese del piano, benché esso non consenta nemmeno un metro quadrato di espansione edilizia, cogliendo l’importanza che regole così concepite per il centro storico possono avere anche per un rilancio del settore edilizio: ipotesi peraltro confermata dalle prime rilevazioni dell’attività edilizia dopo il varo della variante di salvaguardia.

Non tutto il centro storico è disciplinato, come abbiamo detto, per intervento diretto. Ci sono alcune parti per le quali abbiamo invece ritenuto indispensabile subordinare l’intervento alla preventiva redazione di piani urbanistici esecutivi. Questa modalità si rende necessaria per circostanze diverse tra le quali merita un rilievo particolare quella relativa alle aree di rilevanza archeologica. Si tratta di pezzi del centro storico dove vi è una forte compenetrazione tra edilizia storica, nata dall’epoca medievale in poi, e preesistenze archeologiche, elementi appartenenti alla città antica. Quale dei due periodi deve prevalere sull’altro? O sono possibili soluzioni capaci di preservare questa ricchezza di stratificazioni, come quella che la soprintendenza archeologica di Napoli sta, proprio in questi mesi, sperimentando in un’area del centro greco-romano? E’ evidente che la configurazione definitiva del progetto di restauro non può essere determinata in questo caso con una norma astratta, ma va affidata a un progetto urbanistico esecutivo.

Altro aspetto che merita un rinvio alla pianificazione urbanistica esecutiva è quello delle mura della città antica e storica. Obiettivo del piano è di far riemergere queste mura, quando è possibile, ma anche in questo caso è necessaria la redazione di specifici piani urbanistici esecutivi.

Tutto questo lavoro è stato effettuato con strumenti informatici e l’informatizzazione si sta ulteriormente perfezionando. Nel momento in cui la nuova disciplina sarà approvata, soprattutto quella che riguarda gli interventi diretti, noi ci auguriamo di poterla tradurre in un congegno informatizzato, capace di semplificare i procedimenti di gestione. L’informatizzazione presenta numerosi vantaggi, tra i quali mi limito a ricordarne due: il primo è che consente di trattare temi complessi come questo - perché la classificazione tipologica, la descrizione delle caratteristiche dei fabbricati, la disciplina per gli interventi, sono argomenti molto complessi - con un atteggiamento amichevole e trasparente nei confronti dei cittadini. Insomma, tanto per capirci, il nostro obiettivo e di far sì che il Sig. X, che vuole chiedere una concessione per operare sul suo fabbricato, possa avere a disposizione uno strumento informativo che non solo gli dia tutte le informazioni sull’oggetto fisico che lui intende conservare, ma che lo informi anche sulla disciplina, cioè sulle cose che deve fare per ottenere la concessione edilizia, senza complicate interpretazioni delle norme, ma ottenendo un risultato immediatamente. Noi pensiamo di poter spingere questo lavoro fino ai dettagli, con la collaborazione, naturalmente, delle amministrazioni dello Stato che sono preposte a questo livello di tutela, a cominciare dalla soprintendenza per i Beni Architettonici. Dovrebbe essere possibile poter dire ai cittadini: ”guarda che se utilizzi questa tecnica per restaurare il pavimento, ti sarà consentito automaticamente il diritto di ottenere la concessione e il permesso della soprintendenza”.

Insomma - è questo il secondo punto - poter fare in modo che, progressivamente, questa disciplina, anche informatizzata, si configuri come uno strumento definitivo per il restauro e la manutenzione del centro storico. Uno strumento che potrebbe essere oggetto di miglioramento, di perfezionamento, ma non dovrebbe richiedere sostanziali revisioni. D’altra parte, salvo che non cambi l’orientamento generale, che cioè non prevalga a un certo punto un orientamento che, per il centro storico, ritenga prevalente la trasformazione piuttosto che la conservazione (ma quest’eventualità non mi sembra francamente possibile): salvo che non si verifichi quest’improbabile mutamento di orientamenti, che bisogno ci sarebbe di cambiare uno strumento che è basato sulla conoscenza dell’oggetto da conservare?

Nota di aggiornamento del 17 settembre 2004

All’epoca del convegno il piano era stato appena completato in sede tecnica e la giunta comunale aveva assunta la delibera che ne proponeva l’adozione in consiglio. Se si considera che fino alla primavera dell’anno precedente il dipartimento urbanistica, che ha curato la progettazione del piano, era stato impegnato nella formazione due varianti citate in questo testo ( per Bagnoli e di Salvaguardia, approvate entrambe nelle primavera del 1998) e nel seguire le relative procedure di approvazione, si può dedurre che l’elaborazione tecnica del documento definitivo ha richiesto circa un anno di tempo. Il percorso di approvazione è stato lungo e travagliato: si è concluso solo nel giugno di quest’anno con l’approvazione regionale. Le modificazioni che sono state apportate al testo originario, specie per effetto delle circa 300 osservazioni, non sono tali da modificare l’illustrazione che del piano si fa in questa nota.

Anche il piano urbanistico esecutivo per Bagnoli, cui la nota fa cenno, è stato intanto adottato dal consiglio (anche in questo caso l’elaborazione è a cura del dipartimento urbanistica) ed è pronta la delibera di controdeduzioni. Sempre per Bagnoli il comune ha acquisito le aree ex industriali e ha costituito una società di trasformazione urbana (Bagnolifutura Spa) per la gestione degli interventi.

[OMISSIS]

Può a questo punto passarsi all'esame del merito della controversia. Il verbale di conferenza di servizi e l'Accordo di Programma tra il Comune di Ravello, la Regione Campania e la Comunità Montana Penisola Amalfitana per la realizzazione dell'auditorium "Oscar Niemeyer" di Ravello , redatti in data 4 agosto 2003, precisano che il Comune di Ravello non è dotato di alcuna strumentazione urbanistica e che, pertanto, trattandosi di ente sprovvisto di strumento urbanistico, il progetto è assentibile ai sensi dell'articolo 4 della legge regionale n. 17/1982.

Rileva il Tribunale che tale norma, destinata a disciplinare i limiti di edificabilità nei comuni sprovvisti di strumenti urbanistici approvati dispone, al comma 2, che "Salva l'applicazione obbligatoria delle misure di salvaguardia, di cui alla legge 3 novembre 1952, n. 1092 e successive modificazioni ed integrazioni, le limitazioni che precedono hanno efficacia fino alla data di entrata in vigore del Piano Regolatore Generale, da adottare ai sensi dell'articolo 1 della presente legge e non si applicano nei confronti degli interventi volti alla realizzazione di edifici e strutture pubbliche, o opere di urbanizzazione primaria e secondaria, di programmi per l'edilizia residenziale pubblica, nonché dei piani e degli interventi previsti dalla legge statale 17 maggio 1981, n. 219".

La concreta realizzabilità dell'auditorium discenderebbe, dunque, a tenore dei provvedimenti impugnati, dalla natura dell'opera de quo la quale, rientrando nella categoria degli "edifici e strutture pubbliche" ovvero delle "opere di urbanizzazione", non sarebbe assoggettata ai limiti di edificabilità dettati dalla normativa di salvaguardia contenuta nella richiamata legge regionale.

L'Accordo di programma ed il verbale di conferenza di servizi, sopra richiamati, danno peraltro atto che le aree interessate ricadono nella Zona 3 (di tutela degli insediamenti antichi e per nucleo) del Piano Urbanistico Territoriale dell'Area Sorrentino Amalfitana, approvato con legge della Regione Campania 26-5-1987, n. 35, onde occorre altresì verificare se sulla realizzabilità dell'opera incidano o meno le disposizioni di tale legge.

Al riguardo, ritiene in primo luogo il Collegio che non sia condivisibile la linea interpretativa prospettata in via principale dalla Regione Campania (v. pag. 4 della memoria difensiva), secondo cui la natura del PUT quale piano di coordinamento e di direttive, da specificare mediante i piani urbanistici comunali, ne escluderebbe l'applicazione in ipotesi di comuni sprovvisti di PRG, operando per questi ultimi unicamente la normativa regionale che regolamenta l'attività edilizia nei comuni non dotati di strumento urbanistico e, segnatamente, l'articolo 4 della legge regionale n. 17/1982, che consente l'intervento edilizio per cui è causa.

E valga il vero.

Con la legge 27 giugno 1987, n. 35 la Regione Campania ha approvato il Piano Urbanistico Territoriale ( P.U.T.) dell'Area Sorrentino-Amalfitana, ai sensi dell'art. 1 bis della legge n. 431/1985.

Tale Piano, a norma dell'articolo 3 della legge regionale, è Piano Territoriale di Coordinamento con specifica considerazione dei valori paesistici ed ambientali e sottopone a normativa d'uso il territorio oggetto di considerazione. Esso prevede norme generali d'uso del territorio dell’area e formula direttive a carattere vincolante alle quali i Comuni devono uniformarsi nella predisposizione dei loro strumenti urbanistici o nell'adeguamento di quelli vigenti.

L'articolo 5 della legge detta, poi, norme di salvaguardia, destinate ad operare dalla data di entrata in vigore del P.U.T. e sino all'approvazione dei Piani Regolatori Generali Comunali.

Da quanto sopra emerge, dunque, che la richiamata normativa regionale realizza, nell'ambito della funzione urbanistica precettiva, non solo la funzione di disciplina sostanziale del potere di pianificazione, ma anche quella di salvaguardia, contenendo disposizioni che mirano ad impedire che, nelle more della entrata in vigore della obbligatoria disciplina urbanistica comunale di piano conforme alle disposizioni del P.U.T., queste ultime vengano ad essere vanificate dalla realizzazione di interventi di trasformazione urbanistica del territorio ad esse non conformi.

Orbene, la corretta lettura del richiamato articolo 5 (corroborata sul piano logico dalla considerazione della finalità stessa della norma di salvaguardia, evidentemente diretta ad impedire che sia pregiudicata l'attuazione delle prescrizioni del P.U.T.) induce a ritenere che, fino all'approvazione di un PRG a questo conforme, gli interventi relativi alla realizzazione di opere pubbliche, pur se svincolate dalle previsioni del PRG o della variante generale di adeguamento, siano possibili solo se conformi alle prescrizioni del PUT medesimo.

Ritiene il Tribunale che tale normativa di salvaguardia si applichi agli interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia da effettuarsi nel territorio del Comune di Ravello, atteso che quest'ultimo è ricompreso nell'area di perimetrazione del P.U.T. ed è conseguentemente assoggettato alle disposizioni della legge regionale n. 35/1987, la cui normativa di salvaguardia trova applicazione in luogo delle analoghe disposizioni contenute nella legge regionale n. 17/1982 vuoi per il principio di specialità (trattandosi delle peculiari disposizioni di un piano territoriale di coordinamento con specifica considerazione dei valori paesistici ed ambientali, emanate per una particolare area del territorio regionale), vuoi per quello cronologico (dovendosi nella specie applicare la disciplina di salvaguardia del territorio successivamente emanata dall’autorità legislativa regionale).

Ciò posto, è dunque necessario verificare se la realizzazione dell'Auditorium per cui è causa costituisca o meno opera conforme al Piano Urbanistico Territoriale dell'Area Sorrentino-amalfitana, in relazione alle disposizioni d'uso del territorio dallo stesso dettate per la specifica area di intervento.

Come sopra evidenziato, quest'ultima ricade in Zona Territoriale 3 del P.U.T., qualificata quale zona di "Tutela degli insediamenti antichi sparsi o per nucleo".

L'articolo 17 della legge n. 35/1987 prevede in proposito che essa "comprende gli insediamenti antichi, integrati con l'organizzazione agricola del territorio presenti sulla costiera amalfitana e di notevole importanza paesistica".

In tale zona vengono consentiti interventi sul patrimonio edilizio esistente (restauro conservativo per gli edifici ed i complessi di particolare interesse storico-artistico ed ambientale, restauro conservativo ed adeguamento funzionale per la restante edilizia esistente a tutto il 1955), nonché interventi per l'adeguamento e l’organizzazione agricola del territorio.

Di poi, viene stabilita la regola generale del divieto di ulteriore edificazione, ponendosi, per la parte che qui interessa, una eccezione relativamente alle "attrezzature pubbliche previste dal Piano Urbanistico Territoriale e quelle a livello di quartiere, sempre che l'analisi e la progettazione del piano regolatore generale ne dimostrino la compatibilità ambientale".

La verifica di compatibilità dell'opera per cui è causa con le disposizioni del PUT impone a questo punto di acclarare se l'Auditorium che si intende realizzare rientri nel novero delle opere pubbliche consentite ed, in particolare, se quest'ultimo possa qualificarsi in termini di "attrezzatura pubblica prevista dal Piano Urbanistico Territoriale" ovvero di "attrezzatura pubblica a livello di quartiere".

Va al riguardo premesso che il percorso interpretativo deve essere ispirato al massimo rigore, coerentemente alla voluntas legis espressa dalla norma, la quale ha posto come principio generale per la zona di riferimento il divieto di ulteriore edificazione, configurando gli interventi edilizi di nuova edificazione quale ipotesi eccezionale e modulando questi ultimi in termini di attribuzione di un potere generale di localizzazione in primo luogo al pianificatore del PUT e solo per fattispecie residuale e specifica al pianificatore comunale.

La previsione di ammissibilità della realizzazione di attrezzature pubbliche risulta, pertanto, disposizione normativa di stretta interpretazione.

Ciò posto, va in primo luogo escluso che l'Auditorium costituisca attrezzatura pubblica prevista dal Piano Urbanistico Territoriale, considerato, per come peraltro appare pacifico tra le parti, che il suddetto strumento di pianificazione non contiene una espressa previsione di tale specifica opera.

Resta da acclarare se la stessa configuri o meno "attrezzatura pubblica a livello di quartiere".

Ritiene il Tribunale che al quesito debba darsi risposta negativa per le considerazioni che di seguito si espongono.

Deve in primo luogo farsi riferimento al dato letterale della norma, il quale non opera un generico riferimento alle "attrezzature pubbliche", ma richiede altresì che queste si connotino per essere "attrezzature pubbliche a livello di quartiere".

Tale specificazione - letta in stretta coerenza alla lettera della legge in considerazione del carattere eccezionale della previsione, derogatoria della regola generale del divieto di nuove edificazioni - induce a ritenere che l'attrezzatura pubblica a livello di quartiere sia una entità urbanistico-edilizia caratterizzata da una restrizione finalistica e funzionale al quartiere o comunque allo stretto contesto territoriale (di valenza sub-comunale) nel quale viene ad inserirsi.

L'opera, dunque, è posta al servizio di una parte specifica del territorio comunale e della relativa popolazione (quartiere) e non anche dell'intero Comune o di un contesto sovracomunale.

Il dato letterale, pertanto, smentisce la tesi prospettata dalla difesa del Comune di Ravello, secondo cui in un comune di piccole dimensioni, come quello resistente, la scala del "quartiere" può anche coincidere con l'intero territorio comunale.

Va al riguardo osservato che ove mai il P.U.T. avesse inteso riferirsi ad attrezzature pubbliche funzionali all'intero territorio comunale o ad ambiti più ampi lo avrebbe espressamente detto e comunque non avrebbe utilizzato la specificazione limitativa del "livello di quartiere", come dimostrato dai numerosi riferimenti normativi presenti nella legge n. 35/1987, la quale reca espressa indicazione anche ad "attrezzature pubbliche" in modo generico ( v., ad esempio, art. 17, sub zona territoriale 4) ovvero ad "attrezzature pubbliche comunali" o ad "attrezzature di interesse comunale" (v. art. 11 della legge).

D'altra parte, la suddetta restrizione finalistica e funzionale al quartiere risulta pienamente coerente con la natura della zona territoriale di riferimento (Z.T. 3), che si connota per la presenza di "insediamenti antichi sparsi o per nucleo" e non anche per agglomerati urbani accentrati. Essa è, poi, logicamente correlata alla peculiare esigenza di tutela in tale zona perseguita ed al connesso sistema delineato dalla norma, che attribuisce la scelta discrezionale (ed eccezionale) di localizzazione delle attrezzature pubbliche in generale al P.U.T. medesimo e solo per quelle "a livello di quartiere" al pianificatore comunale.

Sotto tale profilo, pertanto, assolutamente non condivisibile risulta l'affermazione contenuta nel progetto definitivo dell'opera (elaborato "studio di fattibilità ambientale"), secondo cui, per giustificare la compatibilità dell'intervento con il PUT, si afferma che "il Comune di Ravello può definirsi quartiere in un contesto geografico ed urbanistico comprensoriale..." e che "in tale ambito il Comune di Ravello, Città della Musica per antonomasia, può essere riguardato effettivamente come un quartiere con una specifica caratterizzazione". Osserva, di poi, il Tribunale che, se l'esame del dato letterale, come sopra effettuato, smentisce già prima facie che il progettato Auditorium possa considerarsi "attrezzatura pubblica a livello di quartiere", a tale conclusione a maggior ragione induce il riferimento alla funzione che l'opera è in concreto destinata a realizzare, quale risultante dalla documentazione amministrativa e tecnica relativa all'intervento per cui è causa.

Ed, invero, l'opera non appare destinata, per natura e funzione, a soddisfare esclusive esigenze di quartiere ovvero della popolazione del Comune di Ravello.

Nella "Relazione generale e quadro economico" del progetto definitivo dell'opera si legge dell'Auditorium quale "strumento indispensabile per raggiungere una destagionalizzazione dei flussi turistici prolungando l'offerta tipica di Ravello, denominata città della musica, anche durante il periodo invernale con positivi riflessi sulle attività turistiche della intera costiera amalfitana".

L'opera risulta, inoltre, inserita nel P.I.T. Ravello, destinato alla realizzazione di un distretto turistico integrato di alta qualità Ravello­Scala.

La lettura del redatto Studio di Fattibilità del suddetto distretto turistico integrato appare al riguardo illuminante.

Si legge nella Introduzione del Rapporto Finale che "Il Festival della Musica di Ravello è una manifestazione di grande valore culturale e di interesse turistico. Il beneficio economico associato all'evento festival - oltre ad essere direttamente legato a ricavi di bigliettazione degli otto eventi del Festival - è anche indirettamente prodotto dalla spesa turistica degli spettatori associata all'attivazione di beni e servizi intermedi necessari alle attività culturali. Ravello - comunemente chiamata città della musica - trova quindi nel Festival una risorsa d'attrazione turistica di notevole interesse e di elevata potenzialità. È evidente quindi che la creazione di strutture culturali strettamente connesse all'evento - quali nel caso specifico l'Auditorium - ... assumono pertanto un'importanza rilevante in un'ottica di sviluppo culturale e dell'indotto ad esso correlato".

Il quadro di sintesi del suddetto studio (sub "Le opere in progetto: linee generali") scolpisce la funzione dell'opera in questione, qualificandola come "destinata ad integrare con spazi al coperto e spettacoli teatrali la stagione musicale di Ravello e ad offrire uno spazio di livello per attività convegnistiche e congressuali".

Ulteriori specificazioni sono contenute nel richiamato Rapporto Finale (v. cap. 4 "Sostenibilità economica e finanziaria", par. 4.1 "Individuazione e quantificazione della domanda effettiva e potenziale").

Esso afferma che "la realizzazione dell'Auditorium consentirà di incrementare la domanda (il numero di spettatori) associata alla fruizione degli eventi musicali per almeno due ordini di motivi:

- la presenza di uno spazio coperto consentirà di ampliare la stagione concertistica anche ad alcuni periodi dell'anno che attualmente non consentono la realizzazione di eventi. Inoltre, consentirà comunque la realizzazione di quei concerti programmati durante il periodo estivo che attualmente sono messi in pericolo dalle improvvise precipitazioni piovose;

- l'inserimento nel palinsesto di Ravello delle attività teatrali produrrà un positivo "effetto richiamo";

- la realizzazione dell'auditorium, per il prestigio dell'opera ed il battage promozionale e mediatico che ne seguirà, potrebbe consentire un incremento della domanda associata agli eventi normalmente programmati".

Si afferma, quindi, come "la nuova struttura sia in grado di proporre due eventi festival di cinque giorni ciascuno e ... 30 eventi musicali e teatrali di 1 giorno ciascuno", rilevandosi che "il nuovo auditorium sarà in grado di attivare 10.000 nuove unità di domanda di eventi musicali ...". Quanto, poi, alla offerta congressuale, viene specificato che "la realizzazione dell'auditorium e la sua destinazione anche a funzioni congressuali potrebbe permettere l'organizzazione di almeno 50 congressi addizionali .. In pratica, si stima che l'Auditorium possa essere in grado di generare il raddoppio delle presenze attualmente connesse a convegni e congressi".

Si sottolinea, poi, come "nell'incremento del numero di utenti per la funzione musicale e per il turismo congressuale il valore artistico e di richiamo dell'edificio realizzato da un maestro dell'architettura come Niemeyer risulti un fattore determinante e rappresenti, di per se stesso, un elemento di forte attrattività".

Dalla documentazione sopra richiamata emerge, dunque, in maniera inequivocabile che l'opera in questione non è finalizzata, conformemente alla prescrizione del P.U.T. per la zona di riferimento, al perseguimento esclusivo di un interesse pubblico urbanistico "a livello di quartiere", ma è destinata anche e soprattutto al soddisfacimento ed all'incremento della domanda turistica nel territorio.

Ritiene, inoltre, il Collegio che la specifica disposizione contenuta nel richiamato articolo 17 della legge regionale n. 35/1987 (attrezzature pubbliche a livello di quartiere) escluda , altresì, la sussumibilità in essa dell'Auditorium sotto il profilo della qualificazione di quest'ultimo in termini di opera di urbanizzazione secondaria ai sensi dell'articolo 4 della legge n. 847/1964 (tesi quest'ultima prospettata dalla difesa delle amministrazioni resistenti).

E' ben vero che tale norma ricomprende tra le opere di urbanizzazione secondarie le "attrezzature culturali" e che in tale categoria può essere astrattamente ricompreso un auditorium.

Tuttavia, la qualificazione di quest'ultimo in termini di "attrezzatura culturale" non lo rende automaticamente conforme alla prescrizione del P.U.T., occorrendo l'ulteriore requisito del "livello di quartiere".

Né l'opera di urbanizzazione secondaria è per definizione struttura "a livello di quartiere".

Invero, l'elencazione in proposito fornita dall'articolo 4 della legge n. 847/1964 qualifica espressamente come "di quartiere" solo alcune tipologie di manufatti (mercati di quartiere, impianti sportivi di quartiere, aree verdi di quartiere), tra i quali non rientrano le attrezzature culturali.

Sicché la giurisprudenza (cfr. TAR Lombardia - Milano, III, 26-8-1998, n. 1337) ha avuto modo di chiarire che le "attrezzature culturali" non contengono nell'art. 4 della legge n. 847 del 1964 alcuna restrizione finalistica e funzionale al quartiere, per cui - nella mirata assenza di quella limitazione - emerge la specifica volontà del legislatore di prescindere, per quelle opere di urbanizzazione, dallo stretto contesto urbanistico.

Orbene, dato, per presupposto, che anche le opere di urbanizzazione secondaria costituiscano "attrezzature pubbliche" per come è nella loro natura ed anche nella qualificazione fornitane dal legislatore regionale (si veda in proposito l'art. 11 della citata legge reg. n. 35/1987), è indubitabile che il P.U.T. abbia inteso consentire nella Zona Territoriale 3 la sola realizzazione di attrezzature pubbliche "a livello di quartiere", connotate dunque dal requisito ulteriore della specifica restrizione finalistica e funzionale al quartiere o comunque allo stretto contesto territoriale.

Tale connotazione, per le ragioni tutte sopra esposte, difetta nell'opera oggetto della presente controversia ed, inoltre, essa non è per definizione evincibile dalla mera collocazione della stessa nella categoria della "attrezzatura culturale-opera di urbanizzazione secondaria" di cui alla richiamata legge n. 847/1964, atteso che nella suddetta previsione normativa definitoria manca il riferimento al "quartiere".

Né può dirsi che in tal modo l'attuale configurazione del PUT impedisca in assoluto la realizzazione di attrezzature culturali prive della suddetta connotazione finalistica.

Si osserva, in proposito, che la legge regionale n. 35/1987 contiene espresso riferimento alle attrezzature culturali nella disciplina della Zona Territoriale 11 (Attrezzature turistiche complementari, ritenute indispensabili per la riqualificazione dell'offerta turistica), laddove si parla di "attrezzature sportive ... con annesse strutture di servizio, soggiorno e culturali ....").

Sulla base delle considerazioni tutte sopra svolte, pertanto, può affermarsi che l'opera in questione non è conforme alle prescrizioni dettate dal P.U.T. per l'area di riferimento.

Invero, la localizzazione dell'opera sul sito individuato avrebbe dovuto necessariamente passare per una variante al Piano Territoriale, la quale, come risulta dall'articolo 15, u.c., della legge n. 35/1987, richiede l'approvazione del Consiglio Regionale.

Al riguardo, per come emerge dall'insegnamento del Consiglio di Stato (cfr. Cons. Stato, VI, 5-1-2001, n. 25), ben può essere utilizzato lo strumento dell'accordo di programma previsto dall'articolo 34 del Testo Unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, considerata la portata generale dell'istituto i cui limiti oggettivi devono essere individuati con il solo riferimento all'ampia definizione contenuta nella citata norma (e che pertanto può riguardare anche opere ed interventi che comportino la modifica di un piano territoriale paesistico).

Peraltro, l'accordo di programma non può derogare agli ordinari criteri di competenza, con la conseguenza che sullo specifico effetto di variante al P.U.T. risulta necessaria una pronunzia (in via preventiva o successiva) del Consiglio Regionale della Campania, competente ai sensi del citato articolo 15 della legge n. 35/1987.

Nel caso in esame, a prescindere dalla considerazione assorbente che gli atti amministrativi impugnati non hanno espressamente disposto alcuna variante, ma anzi hanno affermato la conformità dell'opera al Piano Territoriale, (e ciò ne comporta, attesa l'illegittimità del decisum, l'obbligatorio travolgimento), si rileva che precedentemente all'atto di esternazione costituito dal decreto regionale di approvazione n. 617 del 16 ottobre 2003, non è intervenuta alcuna determinazione (di autorizzazione preventiva o di ratifica successiva) da parte del competente Consiglio regionale.

Da quanto sopra consegue la fondatezza dei primi due motivi di ricorso e l'annullamento degli atti amministrativi oggetto di impugnativa (evincibili dalle indicazioni contenute nell'epigrafe del ricorso, nel fatto e nei motivi di gravame, cfr. Cons. Stato, VI, n. 25/2001 e IV, n. 465/1981 ) che hanno illegittimamente affermato la conformità dell'opera in questione al P.U.T. e la realizzabilità della stessa sulla base della prescrizione normativa di cui all'articolo 4 della legge regionale n. 17/1982.

Resta assorbito l'esame degli altri motivi di ricorso.

Va pertanto disposto l'annullamento del decreto dell'assessore all'urbanistica della Giunta regionale della Campania n. 697 del 16-10-2003, dell'Accordo di Programma tra il Comune di Ravello, la Regione Campania e la Comunità Montana Penisola Amalfitana sottoscritto il 4-8-2003, del verbale di Conferenza di Servizi del 4-8-2003, delle delibere di ratifica della Giunta Regionale n. 2525 del 6-8-2003, del Consiglio Comunale di Ravello n. 22 del 27-8-2003 e della Giunta esecutiva della Comunità Montana n. 117 del 7-9-2003.

Le spese del presente giudizio possono essere integralmente compensate fra le parti costituite , in considerazione della peculiarità della controversia.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania Salerno (Sezione I), definitivamente giudicando sul ricorso in epigrafe proposto da Italia Nostra o.n.l.u.s. e dato atto della rinuncia dell'intervento ad adiuvandum da parte dell'Associazione Italiana per il World Wide Fund for Nature W.W.F. Italia o.n.l.u.s., lo accoglie nei limiti di ragione e, per l'effetto, annulla il decreto dell'assessore all'urbanistica della Giunta regionale della Campania n. 697 del 16-10-2003, l'Accordo di Programma tra il Comune di Ravello, la Regione Campania e la Comunità Montana Penisola Amalfitana sottoscritto il 4-8-2003, il verbale di Conferenza di Servizi del 4-8-2003, le delibere di ratifica della Giunta Regionale della Campania n. 2525 del 6-8-2003, del Consiglio Comunale di Ravello n. 22 del 27-8-2003 e della Giunta esecutiva della Comunità Montana n. 117 del 7-9-2003.

Il mio commento alla sentenza, e ai rischi successivi

Non c’è che dire, il progetto presentato dalla giunta comunale segna una svolta. Da qualsiasi parte lo si voglia guardare si tratta di un documento che delinea una precisa idea di città. Una città che viene intesa innanzitutto come una collettività a cui si chiede di partecipare attivamente alla definizione del proprio futuro. Una visione diversa, innovativa, che procede dal basso e via via mette in rete tasselli diversi il cui interagire produce risultati che non sono la banale sommatoria degli elementi immessi, ma genera un arricchimento della complessità e dunque effetti moltiplicatori. Una cultura della città sensibile alle differenze e al valore aggiunto che la loro correlazione innesca.

Un modo di guardare ai problemi e di prospettare soluzioni che nel linguaggio della mia disciplina si definisce “territorialista”, per sottolineare la trasversalità, la pervasività dello sguardo. Ma nello stesso tempo per enfatizzare la dimensione umana di quella costruzione atavica che è il territorio. Fatto di mille sfaccettature, mille sottili equilibri, mille conflitti e lacerazioni. Che solo le comunità locali conoscono appieno e sono in grado di sanare se si mettono a dialogare attorno a un tavolo.

Il documento della giunta Cofferati pensa ai tempi lunghi e alle dimensioni vaste. Scavalca le piccinerie della bolognesità e pensa alle relazioni con il resto del paese e del mondo. Intende riposizionare la città in seno all’Europa e valorizzare le ricchezze di intelligenza e competenza da troppo tempo assopite o comunque inascoltate.

Un progetto che ha scelto terminologie nette, chiare, che non gioca con equivoci. Parla di programmazione, di regole da individuare e rispettare, di equilibri da ristabilire, di equità da garantire, di diversità da colmare. In sostanza del ruolo del pubblico da reinventare.

Scelte forti e strategiche, le regole per attuarle e le procedure democratiche per definirle. Reti di nuovi municipi, anch’essi ridisegnati nei compiti e nelle dimensioni. Laboratori di quartiere per sperimentare l’urbanistica partecipata, i bilanci partecipativi, i bilanci di genere. Nuove centralità attorno a cui coagulare il senso di cittadinanza e condivisione. Un nuovo Piano Strutturale da coniugare con l’idea di città metropolitana. Qualità urbana e recupero delle periferie. Attenzione ai nuovi soggetti e alle forme aggregative, all’accoglienza e all’integrazione - dai migranti agli studenti. Ai saperi, alle culture e al ruolo cardine dell’Università. Impegni infrastrutturali e indicazioni logistiche, ma anche welfare, coesione sociale e cooperazione decentrata. Sostenibilità ambientale e energie alternative.

Un documento che si ispira a una nuova idea di sviluppo, fondata sulla consapevolezza che armonia sociale, collaborazione e fiducia rappresentano i prerequisiti del successo. Oltre che il fondamento culturale e morale di una società matura e preoccupata delle contraddizioni implicite alla globalizzazione.

Un piano finalmente. Che tuttavia partendo dal presupposto della condivisione e della comune individuazione delle regole, mette in moto un esercizio democratico che viaggia lontano dai pericoli del dirigismo e dell’autoreferenzialità. Come anche dai lassismi della deregolazione.

E’ proprio nell’attesa di questa filosofia urbana che si è ribaltata la situazione in città e che oggi i bolognesi possono sperare di vedere realizzati i sogni che avevano tenuto congelati. Si tratta a questo punto di sbrinare le idee e discuterle con la comunità, confrontarle, valutarle assieme. Un percorso che spinge a ritrovare quel senso del collettivo di cui si erano smarriti la sensatezza e il piacere. Ognuno a questo punto è (davvero) libero: di dire, proporre, suggerire, sperimentare. Le aperture e gli spunti sono molti, si tratta di allargarli e direzionarli. Di tradurli in buone pratiche. Compito non facile nelle attuali angustie del decentramento.

Utopie? Non direi. Il documento sta lì scritto, l’ho trovato nel sito del Comune e ho deciso di conservalo come fosse un contratto (oddio, cheddico!). Questo però mi piace molto di più: non promette ma invita e responsabilizza. Chiama al dovere di essere cittadini. A fornire contributi, a dire, a fare, a partecipare. Ad allargare gli orizzonti e a ripensare finalmente al futuro. Il gioco è cominciato. Giochiamo, non abbiamo più alibi.

Vedi qui stralci e link del programma per Bologna

Il Tar di Salerno ha accolto oggi il ricorso (sentenza 1792) di Italia Nostra contro il progetto per la costruzione di un auditorium a Ravello. La correttezza e validità del nostro intervento trova dunque un’autorevole conferma: abbiamo evitato un’altra aggressione al fragile assetto ambientale della costiera amalfitana già gravemente compromessa dalla speculazione edilizia, mal contrastata (e con l’ultimo condono, palesemente agevolata) dai pubblici poteri.

La sentenza pone fine a progetti di sviluppo del territorio che, come quello dell’auditorium- prevedono nuove cementificazioni per favorire invece – questo ci auspichiamo- le opportunità di sfruttamento delle tante risorse culturali già esistenti.

Italia Nostra spera che gli enti locali coinvolti prendano atto dello stop imposto dal Tar e che utilizzino i finanziamenti per progetti compatibili la realtà ambientale.

E’ sintomatico che sulla questione auditorium Italia Nostra si sia trovata sola nella battaglia ambientalista e di civiltà giuridica – ha dichiarato Desideria Pasolini dall’Onda, presidente dell’associazione -contro una alleanza tra Comune, Regione e soprintendenza. Siamo stati attaccati da molte parti sulla questione auditorium; hanno scritto e detto di noi che siamo conservatori a oltranza: non è così, il nuovo ci piace, ma essere conservatori in certi casi è addirittura rivoluzionario e bisogna avere il coraggio di avere tutti contro quando si è convinti di avere ragione”.

Sul sito di Italia Nostra (www.italianostra.org) cliccando sulla foto centrale si possono leggere gli articoli di Bernardo Rossi Doria e Edoardo Salzano sul progetto auditorium a Ravello.

Italia Nostra Comunicazione

Nanni Riccobono 328 6195061

----------------------------------------------------

Comunicato della Fondazione Antonio Iannello

La Fondazione Antonio Iannello apprende con soddisfazione che il tribunale amministrativo regionale ha accolto il ricorso di Italia Nostra e ha chiarito che la costruzione di un Auditorium a Ravello è contraria alla normativa urbanistica in vigore.

Si dimostra così la fondatezza della maggiore obiezione sollevata da Italia Nostra e da pochi altri per cui una interpretazione diversa avrebbe permesso il moltiplicarsi di iniziative illegali in tutti i comuni sottoposti al piano, provocando la vanificazione di uno dei maggiori strumenti a difesa del valore paesistico approvati dalla Regione Campania.Ulteriore motivo di soddisfazione è che il TAR ha ribadito i fondamentali principi dello Stato di diritto facendo prevalere il rigoroso rispetto della legge.

La Fondazione Antonio Iannello si augura che il nome di un grande architetto non costituisca in futuro viatico per opere palesemente contrarie alla normativa urbanistica e paesaggistica vigente.

Carlo Iannello

Franco si sveglia ogni sabato all'una, prende il camion da Forcella, Napoli, per venire a vendere a Porta Portese, Roma, le sue merci a buon prezzo. Pacchi di maglie e calze: "Togliere questo mercato? Seee... ma prima devono spostare il Colosseo". Franco si sbaglia. Nella pianta in 3D dell'assetto strategico del Tevere il mercato di Porta Portese non c'è. Il frammento di piano regolatore, già approvato, trasformerà in qualche anno la zona del più famoso mercato delle pulci d'Italia in un parco fluviale. Ci sarà la pista ciclabile, il filare di alberi, le terrazze panoramiche, ci sarà anche il vicolo dei biciclettari, salvato da un sindaco amante del cinema perché appariva nel capolavoro neorealista Ladri di biciclette. Ma il mercato, che esiste dal dopoguerra, è stato cantato da Claudio Baglioni, è entrato al pari di Fontana di Trevi nelle attrazioni turistiche della città e viene visitato da ogni italiano in gita, quello non c'è più. Nella pianta tutta colorata del piano regolatore, che censisce gli edifici da salvare della zona, resta il deposito degli autobus, reperto mastodontico di un'epoca oggi consegnata all'archeologia industriale. Qualcuno voleva farne un design hotel ma non c'è riuscito, perché nel corso degli scavi è stato trovato un mitreo. Resta l'edificio fascista che ora ospita il Cinema Sacher di Nanni Moretti, una trattoria nei locali di una corderia (perché tutta la zona fino alla fine dell'Ottocento era portuale), e resta un gioiello del '700: l'arsenale pontificio, simile a quello di Venezia ma infinitamente più piccolo, da anni occupato da una rivendita di materiali edili. Sarà che le pietre tranquillizzano e le persone meno: il progetto di "riqualificazione urbana" del comune di Roma salva tutto tranne i duemila mercatari e gli oltre 70 mila romani che ogni domenica, dal '51, i tempi della borsa nera, a Porta Portese vengono a risparmiare e a divertirsi gratis. Il fatto è che il mercato di Porta Portese è, sì, un'istituzione, ma al contrario del Colosseo, non è un monumento. Se lo fosse, si sarebbe forse salvato dalla furia urbanistica di fare ordine e "mettere a reddito" la zona di Trastevere. Magari sarebbe stato spostato, blocchettino per blocchettino, come i templi di Luxor sul Nilo o come la stessa porta di Urbano VIII da cui prende nome, la Porta Portese appunto, ricollocata insieme alle mura aureliane qualche metro più in là, alla fine del Seicento. Invece quell'agglomerato anarchico di robivecchi, giacche vintage, chioschi di kebab e ambulanti di frittelle, dove si trova di tutto, dal cellulare rubato alla pelliccia di seconda mano, dal francobollo di Stalin alla maniglia vecchia - non è un'opera d'arte. Non è nemmeno un pezzo di città, se assessori, architetti e politici oggi possono dire, con la baldanza di uno slogan, "Liberando Porta Portese restituiremo un pezzo di città ai cittadini". In seconda battuta, sottovoce, quasi tutti aggiungono: "E ai turisti". Certo non a Irina, falsa bionda e vera dura, slava, che al mercato la domenica viene a comprare ma anche a vendere: "A mia figlia ho preso il vestito della prima comunione dalla signora cinese. Aveva i pizzi e un fiocco vero, l'ho pagato 12 euro, in negozio costava più di 50". A vendere ci viene quando ha qualcosa di buono: cianfrusaglie, diresti a occhio, cose antiche dice lei: "Ci faccio quei 50, 100 euro che aiutano". Il mercato, da oltre venti anni, è diviso in due grandi aree: la parte nuova e la parte vecchia. E tra le due zone c'è un'antica ruggine: "Hanno trasformato il mercato in una jeanseria" dicono i vecchi, "siamo noi a fare il commercio, a portare la gente" rispondono i nuovi. I vecchi sono gli antiquari, che vendono preziosi, mobili, cornici, ma anche lampade di design, abiti da sera, rubinetti degli anni '40. La parte più estesa però è quella nuova, frequentata in massa da migranti, molti slavi che comprano vestiti da pochi soldi ma alla moda, molte famiglie filippine che riforniscono gli armadi dei figli, molti adolescenti a caccia di jeans taroccati. Qui, da qualche anno ormai, gli stranieri lavorano in pianta stabile: montano e smontano le strutture all'alba, friggono gli hamburger, vendono i giornali. L'amministrazione vuole conservare la parte vecchia e ridurre la nuova o, come dice l'assessore al commercio Daniela Valentini: "Tenere la storia e togliere la baraccopoli. Mettere a posto le cose insomma, che non vuol dire ingrigire il mercato, ma rilanciarlo". Altrove però, non qui. "C'è anche un problema di regole: l'ordine non è un fatto solo estetico o burocratico, l'abusivismo è un problema morale", continua l'assessore. Effettivamente a Porta Portese l'abusivismo è la regola, ma da quaranta anni: su oltre duemila operatori, solo 500 hanno la licenza, tutti gli altri si arrangiano, autoregolamentandosi, cedendosi i banchi, vantando anzianità, pagando anche, quando si deve, ai vigili urbani. "Lo so, ordine e disciplina può sembrare uno slogan della destra", ammette l'assessore. "Diciamo, allora, regole e fantasia. Anche perché mettere a posto un mercato sembra una contraddizione". E sì, perché un mercato ordinato è un supermercato. Il modello dell'assessore Valentini, comunque, non è certo il suq di Istanbul, che pure è pulitissimo: "Portobello a Londra è un modello che ci piace, è caratteristico ma al tempo stesso non è caotico. E poi sta in un posto adeguato". Ai mercatari l'amministrazione sta per promettere licenze. Per tutti. E dato che una licenza vale anche un miliardo, nessuno avrà da ridire nel caso in cui il mercato venisse trasferito in qualche periferia, lontano dai turisti. Per far fuori i mercati rionali a Roma, oltre una decina nel centro storico, la formula ufficiale è stata sempre la stessa: "Mercato in sede impropria". "Si tratta di capire impropria rispetto a chi. L'ordine non è un valore assoluto, e poi non è che tutti vogliono andare in bicicletta o possono permettersi una gita sul fiume", obietta l'urbanista Silvia Macchi dell'Università la Sapienza che a Roma ha lavorato sul contro-piano regolatore. "Ogni volta che vuole cambiare le relazioni di potere di una città, chi la usa, chi la controlla, per prima cosa cambia l'immagine. Finora nessuno ha pensato che Porta Portese non era al suo posto, adesso improvvisamente lo chiamano "luogo improprio"". Per spiegare Porta Portese riqualificata l'architetto Gennaro Farina, direttore dell'ufficio Centro Storico di Roma che sta progettando il restyling, mostra una stampa del 1748 dove si vedono orti e barchette: "Riqualificare significa elevare. Mettere in luce i monumenti, e in questa zona ce ne sono di bellissimi: costruiremo una lunga passeggiata che dall'Aventino andrà a Porta Portese, con un ascensore per salire al giardino degli Aranci e il porticciolo da dove prendere il battello per navigare il fiume". Quel che l'architetto non dice è che il progetto di restyling non è stato ancora finanziato e i soldi non si sa da dove verranno. "La valorizzazione di cui si parla è soprattutto di natura economica", ribatte Silvia Macchi: "Saranno consentite demolizioni, cambi d'uso, cubature nuove". Una opportunità per i costruttori insomma, il parco fluviale potrebbe essere la loro foglia di fico. Ma le polemiche sono soprattutto sulle valenze "culturali" dell'operazione: "Vogliono una città borghese e per borghesi, con grossi marciapiedi per camminare, alberi, cancellate a difesa dei luoghi. È lo stesso modello urbanistico che vuole fare di piazza del Popolo un salotto, e che a piazza Vittorio, anch'essa risanata, non ha voluto le panchine per evitare che ci vadano a dormire gli extracomunitari", conclude Macchi. Il sospetto è che il modello culturale di riferimento finisca per assomigliare all'aulica New Architecture del principe Carlo d'Inghilterra: separare ciò che è antico, vale a dire ciò che è ottocentesco, da ciò che è venuto dopo. Come se la storia si fosse fermata. Per Nando, benzinaio a Porta Portese, la storia invece si è fermata al '51: "Quando vedo arrivare la gente che viene qui a risparmiare qualche soldo, penso ai nostri nonni, vedo l'Italia che ricostruiva e sgobbava nel dopoguerra. I turisti vengono per questo, vengono a vedere la vita di Porta Portese. L'Arsenale sarà pure bello, ma è morto, ha fatto il tempo suo. E poi dicono che il mercato è sconcio. Ma è solo antico: non ce l 'hanno forse trovato?".

Prime indiscrezioni sulle variazioni che l'Assessore Verga proporrà nel caldo agosto milanese sul recupero dei sottotetti nel Centro Storico (zona A) e nelle zone di recupero (zone B2)

Il 3 febbraio 2003 il Consiglio Comunale ha approvato all'unanimità, con l'assenso dell'Assessore Verga, l'emendamento del Consigliere dei Verdi Baruffi che impediva il sopralzo dei tetti nel recupero dei sottotetti degli edifici del Centro Storico anteriori al 1940. L'emendamento bloccava le speculazioni edilizie nel centro storico consentite dalla Legge Regionale 22/99 sul recupero dei sottotetti, che avevano portato allo stravolgimento di importanti edifici ed ambiti della città.

Si erano subito scatenate le proteste di chi non poteva più creare un piano aggiuntivo negli edifici del centro storico come l'Associazione della Proprietà Edilizia e il Collegio dei Geometri e l'Assessore Verga aveva deciso di riaprire i termini delle osservazioni da parte dei privati. Nel frattempo le nuove norme valgono in regime di salvaguardia e molti edifici sono stati salvati dagli scempi. Ora, dopo più di un anno e approfittando dell'estate l'Assessore sta per firmare un nuovo testo - che dovrà nuovamente passare nei consigli di zona e in consiglio comunale - che consente la modifica della linea di colmo e di gronda e della pendenza delle falde anche per gli edifici anteriori al 1940, come stabilito dall'Aula di Palazzo Marino nel febbraio 2003 ed eliminando addirittura il vincolo per gli edifici anteriori alla data del 1858 (in vigore prima del 3 febbraio 2003). Il divieto di cambiare il profilo del tetto verrebbe mantenuto solo per gli edifici particolarmente significativi dal punto di vista architettonico, storico e testimoniale ma non per gli altri, anche se hanno valore ambientale. Nella bozza che è alla firma dell'Assessore verrebbe raccomandato di non modificare eccessivamente il profilo del tetto e di mantenere l'allineamento e la proporzione della facciata, ma senza indicazioni precise. Viene inoltre concessa alla Commissione Edilizia la possibilità di autorizzare la variazione del profilo del tetto anche in deroga ai pochi vincoli rimasti. Paradossalmente i centri storici dei comuni assorbiti nel comune di Milano nel 1923 (ad esempio Baggio, Lambrate, Precotto) sono maggiormente tutelati in quanto si potrà cambiare il profilo del tetto solo negli edifici costruiti dopo il 1935.

Anche nelle zone di recupero esterne al Centro Storico (zone B2) il Comune fa marcia indietro rispetto all'ultima versione della normativa inviata al Consigli di Zona: rinuncia a tutelare gli edifici con valore ambientale, e questo senza neanche chiedere il parere obbligatorio del Consigli di Zona. Inoltre la nuova normativa fa riferimento ad una classificazione degli edifici del centro storico che per ora è ancora limitata ad alcune zone e quindi consentirà ai proprietari degli edifici non classificati di fare quello che vogliono.

In base ad una ricerca effettuata dal Comune, la metà degli edifici del centro storico anteriori al 1940 non hanno valore architettonico, cioè non sono citati nei libri di architettura. Ma si sa che anche edifici non citati formano un tessuto che valorizza gli immobili più pregevoli. Inoltre il sopralzo di un edificio ha un notevole impatto anche sugli edifici circostanti.

La decisione dell'Assessore Verga rappresenta un cedimento agli interessi edilizi che vogliono sopralzare gli edifici di Milano per vendere appartamenti a prezzo elevatissimo. Il FAI aveva chiesto che la normativa milanese di tutela nei confronti della sciagurata legge regionale fosse estesa a tutti i centri storici della Lombardia, l'Ordine degli Architetti aveva chiesto nelle sue osservazioni di impedire la variazione del profilo del tetto in parti significative della città, appartenenti anche a quartieri differenti dal centro storico. L'assessore regionale al Territorio Moneta aveva criticato l'applicazione della sua legge fatta dal Comune di Milano e si era mostrato disponibile a cambiarla. "Ora il quadro sembra improvvisamente mutare - hanno dichiarato il consigliere comunale dei Verdi Maurizio Baruffi e Michele Sacerdoti, responsabile della campagna TettiProtetti - a favore di una normativa che ha già prodotto molti danni al panorama della città e che consentirà di far ripartire l'assalto alla diligenza. Se Verga firmerà un testo con questi contenuti ci attrezzeremo per una durissima lotta in Consiglio Comunale".

I Verdi chiedono che l'Assessore non firmi un provvedimento così sciagurato, che gli edifici anteriori al 1940 del Centro Storico continuino ad essere adeguatamente tutelati e che venga esteso a tutta la città il divieto di cambiare il profilo dei tetti di questi edifici. Infine sollecitiamo l'Assessore regionale Moneta a mettere mano alla revisione della legge secondo le indicazioni che aveva data negli scorsi mesi.

Bozza di lettera da inviare all’Assessore Verga

all'Assessore allo Sviluppo del Territorio del Comune di Milano

assessore.verga@comune.milano.it

p.c.

Gruppo Consigliare dei Verdi al Comune di Milano

tettiprotetti@gruppoverdiapalazzomarino.it

Oggetto: Modifiche agli art. 18, 18-bis e 19 bis del Piano Regolatore relative al recupero dei sottotetti

Egr. Assessore,

mi risulta che Lei stia proponendo al Consiglio Comunale di approvare una nuova versione degli articoli in oggetto che consentirà:

- di cambiare il profilo del tetto degli edifici del Centro Storico di Milano (zona A) costruiti anteriormente al 1940, facendo eccezione solo per gli edifici più importanti,

- di cambiare il profilo del tetto degli edifici delle zona B2 di Milano fuori dal Centro Storico definiti come immobili con valore ambientale e elementi di valore ambientale.

Questa sua decisione contraddice le sue promesse di estendere la normativa in vigore nel Centro Storico dal 3 febbraio 2003 ad altre zone di pregio della città, come richiesto da gruppi politici, associazioni, consigli di zona, singoli cittadini e giornali, in seguito alle scempio apportato agli edifici della città dal recupero dei sottotetti.

E' stata peraltro presentata dai Verdi in Consiglio Regionale una proposta di legge di modifica della Legge Regionale sui sottotetti che non consentirà più la variazione del profilo del tetto nel recupero dei sottotetti, e che si spera verrà discussa dopo l'estate. Ritengo che la sua decisione vada contro gli interessi della città e rappresenti un cedimento agli interessi speculativi che vogliono costruire nuovi appartamenti in zone di pregio da vendere a carissimo prezzo sul mercato immobiliare.

La prego pertanto di voler soprassedere alla sua decisione, di mantenere gli articoli in oggetto nella loro attuale versione, come approvata dal Consiglio Comunale e dai Consigli di Zona, e di estendere il limite del 1940 al resto della città.

COMUNICATO STAMPA

In data 2 aprile 2004 alcuni cittadini residenti in vie immediatamente adiacenti al recinto storico della Fiera di Milano (via Gattamelata, via Eschilo, via Silva) hanno presentato al TAR Lombardia ricorso contro il Decreto del Presidente della Giunta Regionale della Lombardia n. 405 del 19 gennaio 2004 (pubblicato sul BURL n. 6 del 2.2.2004), con il quale viene approvata la variante al PRG che consentirebbe di realizzare sull’area del vecchio recinto quasi 900.000 metri cubi di case e uffici, con un indice quasi doppio di tutti gli altri piani di trasformazione urbanistica sinora approvati dal Comune di Milano.

I motivi del ricorso possono essere così sintetizzati:

- l’integrazione all’Accordo di Programma del 1994 sulla riduzione del polo fieristico interno e la realizzazione del polo fieristico esterno che introduce la variante al PRG non è giustificata da alcuna finalità di interesse pubblico, poiché le nuove destinazioni dell’area dismessa da Fiera sono esclusivamente private (residenza, terziario, produttivo); l’unica motivazione della variante è consentire al successivo PII di intervenire su un’area già destinata ad uso privato, senza dover quindi recuperare gli spazi di uso pubblico soppressi;

- il PII previsto come strumento attuativo dalla variante non è giustificato da alcuna finalità di interesse pubblico, per i medesimi motivi esposti sopra; esso, intervenendo su un’area già resa ad uso privato dalla variante, non dovrebbe nemmeno sottostare all’obbligo dell’art. 6 comma 3 della L.R. 9/99 di assicurare contestualmente il recupero delle dotazioni di uso pubblico che verrebbero meno;

- La riduzione da 314.000 mq a 255.000 mq dell’area dismessa dagli usi fieristici (ed il conseguente aumento da 130.000 a 189.000 dell’area mantenuta ad uso fieristico) non è giustificato da alcun interesse pubblico, ma solo da interessi aziendali di Fiera Milano ad utilizzare alcuni edifici esistenti. Tale scelta impedisce però la prosecuzione di viale Scarampo entro l’ex recinto fieristico e il riassetto dell’area di trasformazione secondo tessuti urbani coerenti con quelli generati dall’asse di corso Sempione; come da moltissimi anni indicato dalla più consapevole urbanistica milanese (Bottoni, BBPR, de Finetti, Gardella, Pagano, Terragni);

- il Comune non ha effettuato alcuna valutazione critica delle richieste di Fiera in relazione alle esigenze di riassetto della città; infatti Fiera ha comunicato agli aspiranti acquirenti superfici, indici e strumenti attuativi già in data 4 aprile 2003 (Sole 24 ore, Financial Time, Handelsblatt), prima che la Giunta comunale li riproponesse pedissequamente nella propria delibera del 15 aprile successivo;

- l’indice Ut=1,15 mq/mq è quasi doppio di quello adottato in tutti gli altri PII e PRU sinora approvati a Milano (Ut=0,65 mq/mq) e con la cessione del 50% dell’area ad uso pubblico si produce un indice fondiario altissimo (Uf= 2,3 mq/mq = 7 mc/mq), molto superiore a quello massimo prescritto per l’attigua area mantenuta a Fiera (Uf=1,5 mq/mq= 4,5 mc/mq); se la cessione ad uso pubblico fosse più del 50%, tale Uf sarebbe ancora più alto, in contrasto con l’art. 7 del DM 1444/68; un indice così elevato è giustificato solo dagli interessi economici di Fondazione Fiera rivolti unicamente alla massima valorizzazione immobiliare dell’area;

- la cessione minima del 50% dell’area ad uso pubblico non è giustificata da alcun ragionamento urbanistico, ma solo da una sorta di spartizione mezzadrile tra pubblico e privato; se le aree ad uso pubblico prescritte dalla variante (44 mq/ab) fossero cedute interamente occorrerebbero 258.000 mq, superiori all’intera area oggetto di variante; anche se si cedessero 26,5 mq/ab, occorrerebbero 155.000 mq, superiori al 50% minimo prescritto (127.500 mq), ma con Uf= 8,8 mc/mq > 7 mc/mq massimi ammessi dal DM 1444/68;

- la variante non prescrive limiti massimi di densità fondiaria, di altezza e distanza degli edifici, di destinazione funzionale, in contrasto con molti disposti del DM 1444/68; essa è indirizzata unicamente all’assoluta libertà di massima valorizzazione immobiliare da parte dei futuri acquirenti dell’area; l’esito urbanistico sarà di circa 60 edifici alti non meno di 36 metri, ma ravvicinatissimi o più probabilmente edifici meno ravvicinati, ma alti da 72 metri (30 edifici) a 144 metri (15 edifici);

- se, invece, si imponessero i limiti di altezza e distanza degli edifici prescritti dagli artt. 8 e 9 del DM 1444/68 l’indice Ut effettivamente realizzabile varierebbe, a seconda degli schemi distributivi adottati, tra 0,52 e 0,84 mq/mq; l’indice Ut=1,15 mq/mq richiede edifici altri da 36 ad oltre 72 metri, cioè dal doppio ad oltre il quadruplo di quelli esistenti e circostanti, e ciò in contrasto con gli artt. 7 e 8 del DM 1444/68 e peggiorando le condizioni di congestione urbana e vivibilità della zona.




Come base della discussione del seminario è stato proposto il documento "Costruire la grande Milano”, che reca la firma di un gruppo di lavoro costituito da esperti e da funzionari del Comune di Milano.

Il documento offre diversi livelli di lettura: alcuni con più specifico riferimento alla situazione milanese, e uno (scelto dagli organizzatori come privilegiato per il dibattito), concernente “la ricerca per la pianificazione di una maggiore efficacia”.

È attorno a questo argomento che sviluppo le mie osservazioni, le quali mirano ad argomentare una mia convinzione radicata: che, cioè, la soluzione proposta dal documento milanese, oltre a essere illusoria nella sua pretesa di rendere più efficace la pianificazione, è pericolosa per qualunque intenzione di corretto ed efficace governo pubblico delle trasformazioni urbane e territoriali

Nel seminario di Roma il documento è stato illustrato da Luigi Mazza, che se ne è dichiarato l’autore: cosa che era nota a chiunque lo conosca, e conosca le sue idee. In una discussione presieduta da Giorgio Piccinato ne hanno ragionato, oltre a me, Maurizio Marcelloni, Alberto Clementi, Michele Talia, Elio Piroddi, Carlo Donolo, Maurizio Calvaresi, Luigi Scano. Appena ne disporrò, pubblicherò in questo sito i materiali della discussione. Con Luigi Mazza siamo d’accordo nel proseguire la discussione; ne inserirò i materiali in questo sito.

Una valutazione positivadel passato più recente

Il documento parte da una critica intelligente e serrata, e del tutto condivisibile, della pianificazione tradizionale; parte anche da una valutazione positiva delle modifiche legislative introdotte nel corso degli anni 80 e 90. Di queste interpreta correttamente – a mio parere - il significato, ma gli attribuisce – e su questo non concordo affatto - un valore positivo:

I provvedimenti più recenti hanno segnato un significativo mutamento della legislazione urbanistica rivolto a facilitare i processi di variante del piano regolatore generale, ad introdurre un ruolo cooperativo degli altri attori con l’amministrazione comunale, e a sviluppare forme consensuali di decisione. (p.3).

Sulla base di una puntuale analisi dei nuovi strumenti normativi introdotti a partire dal “decreto Nicolazzi” del 1982, gli autori affermano, con un’incontestabile valutazione complessiva, che (i corsivi sono miei)

i nuovi istituti introdotti dal legislatore negli anni ‘90 costituiscono veri e propri strumenti di pianificazione finalizzati ad agevolare la trasformazione e la riconversione di ampie zone del territorio prescindendo dalle regole stabilite per tali zone dal piano regolatore generale. E questo nuovo assetto urbanistico non scaturisce da un atto autoritativo, ma da un accordo con i privati che confluisce nell’accordo di programma e costituisce lo strumento fondamentale per la realizzazione dell’intervento di trasformazione urbana (p.23).

La mia opinione è che in quegli anni “il ruolo cooperativo degli altri attori con l’amministrazione comunale” e le “forme consensuali di decisione” sono stati ricercati e utilizzati (insieme alla valorizzazione dell’abusivismo nel Sud e alla delegittimazione culturale dell’urbanistica) per facilitare quelle pratiche di perverso intreccio tra poteri pubblici e interessi privati cui è stato dato il nome di Tangentopoli. Questa tesi l’ho argomentata, con Piero Della Seta, nel libro Italia a sacco, Editori Riuniti, Roma 1992, e ad esso rinvio chi voglia valutarla.

Certezze e incertezzenel piano regolatore generale

Per gli autori del documento per la Grande Milano, invece, le tendenze derogatorie e delegificatorie che si sono manifestate in quegli anni hanno la loro legittimazione nella scarsa rispondenza del piano regolatore generale rispetto alle esigenze degli operatori immobiliari. Il documento riprende e sviluppa con intelligenza le critiche alla vigente pianificazione urbanistica che sono state sviluppate negli ultimi decenni dalla cultura urbanistica italiana. Sviluppa in particolare un punto, che mi sembra esprimere con compiutezza il punto di vista dell’operatore immobiliare. Mi riferisco alla questione delle “certezze e incertezze” del piano regolatore.

Il documento osserva a questo proposito che il piano regolatore generale, se

produce due tipi di certezza: la certezza dei diritti esistenti, che il piano conferma, e la certezza dei diritti legati alle trasformazioni prescritte dal piano

produce anche .

due forme di incertezza, dovute alla possibile inadeguatezza delle norme nei confronti delle variabili aspettative del mercato e al possibile mutamento delle norme nel tempo. Inoltre, il processo di pianificazione aggiunge due altre forme di incertezza che riguardano il contenuto e il tempo delle decisioni. (p.29)

Su questo punto conviene soffermarsi, perché nella formazione della proposta degli autori gioca un ruolo essenziale. Secondo le categorie adoperate,

il riconoscimento degli usi esistenti costituisce la certezza dei diritti d’uso in atto e dei valori corrispondenti. La disposizione delle trasformazioni degli usi esistenti e la definizione di nuovi diritti d’uso è anch’essa una certezza — è una certezza giuridica perché il piano è una legge —, ma la prospezione dei nuovi valori legati ai nuovi diritti costituisce […] solo una certezza ipotetica. L’espressione suona come un bisticcio, ma cerca di esprimere il fatto che la prescrizione da parte del piano delle trasformazioni degli usi esistenti è in realtà una disposizione ipotetica o condizionale, in quanto la prescrizione di un nuovo uso del suolo equivale ad un’affermazione del tipo ‘se … allora’. Solo se la prescrizione del piano viene rispettata , allora i nuovi usi verranno posti in atto e si produrranno i nuovi valori (p.29)

Di fronte a questo sistema di certezze e incertezze del piano regolatore generale da parte degli operatori viene

una richiesta contraddittoria: da un lato si esprime la domanda di certezze che garantiscano gli investimenti, dall’altro la domanda di flessibilità per permettere di adeguare norme e programmi di investimento alle dinamiche del mercato.

In definitiva, secondo gli autori del documento, certezze e incertezze

presentano vantaggi e svantaggi, ma le certezze legate alle trasformazioni prescritte dal piano — indicate come certezze ipotetiche — si rivelano un inutile elemento di rigidità del sistema e, per introdurre elementi di flessibilità nel sistema, la loro scomparsa risulta necessaria.

Modello continentale e modello britannico

Il ragionamento di fondo del documento è sorretto da una valutazione più generale, che costituisce in qualche modo il punto d’avvio dell’intera argomentazione (e della proposta di cui essa costituisce l’abito). Esso ha la sua premessa in una valutazione, a mio parere corretta e condivisibile, delle differenze nelle pratiche e nelle culture della pianificazione presenti in Europa. Nel documento si osserva infatti che:

la rigidità di sistema non è una caratteristica specifica dell’urbanistica italiana ma di tutta l’urbanistica europea, ad eccezione di quella britannica. La coppia certezza/flessibilità assume caratteri molto diversi nella tradizione urbanistica continentale e in quella britannica. Il confronto tra piano regolatore e piano di struttura britannico permette di capire come il prezzo della flessibilità sia la discrezionalità amministrativa, e come la flessibilità incida sul rapporto tra piano e progetti, e quindi tra amministrazione e operatori, pubblici e privati. Nel modello continentale il rapporto tra piano e progetti è regolato dal controllo di conformità, mentre nel modello britannico prevale il controllo di prestazione. Nel modello continentale le norme preesistono al progetto e formalmente sono un vincolo-risorsa per l’investitore, nel modello britannico le norme sono, almeno in parte, il frutto di un rapporto negoziale tra l’amministrazione e l’investitore.

Nello svolgere il loro ragionamento agli autori non sfugge la ragione della differenza tra l’impostazione continentale e quella britannica. La “profonda diversità” tra i due sistemi è

dovuta soprattutto al fatto che nella tradizione britannica i diritti di trasformazione urbana sono dello Stato (p.5).

E la maggiore discrezionalità del modello britannico poggia proprio sulla circostanza

che i diritti di trasformazione degli usi del suolo sono di proprietà dello stato e ciò garantisce al modello la sua flessibilità; al contrario, la mancanza di discrezionalità che caratterizza il modello italiano e continentale è dovuta alla necessità di rispettare i diritti soggettivi di trasformazione degli usi del suolo e ciò determina le certezze formali offerte dal modello.

Non è certo una differenza da poco. La necessità di un forte e penetrante potere pubblico nel campo delle decisioni sull’uso del territorio, di una pervasiva capacità regolatrice dello Stato sull’esercizio dei diritti immobiliari, sta nel fatto che questi erano stati venduti ai proprietari privati: erano stati individualizzati. Basta rileggere le pagine di Hans Bernoulli per averne un’illustrazione convincente.

È evidente che, là dove lo Stato dispone dei “diritti di trasformazione urbana” (dove cioè il controllo delle trasformazioni è strutturale e patrimoniale) gli interessi collettivi non hanno bisogno di rilevanti supporti normativi e regolativi per essere soddisfatti. Ma è vero anche il contrario: dove i “diritti di trasformazione urbana” appartengono ai privati la tutela degli interessi collettivi ha bisogno di rilevanti supporti normativi e regolativi. Non è anche in questo senso, forse, che può esser letta tutta la discussione sull’urbanistica che si è sviluppata in Italia particolarmente dagli anni 60? Si può dire che il tentativo perseguito prima attraverso l’esproprio generalizzato delle aree di trasformazione urbanistica (Sullo), poi attraverso l’attribuzione allo stato dello jus aedificandi (Sandulli), esprimeva proprio l’intenzione di superare il controllo regolativi (sistema dell’Europa continentale) con il controllo strutturale (sistema britannico).

Gli autori del documento dimenticano la profonda differenza strutturale che è alla base dei due modelli. Essi, anzi, si compiacciono del fatto che

malgrado la profonda diversità dei due modelli […] si manifesta sempre più nelle pratiche una loro convergenza.

Questa, con ogni evidenza, non si esplica nello svilupparsi, nelle società del Continente, della tendenza ad attribuire allo Stato maggiori “diritti di trasformazione urbana”, ma in quella di diminuire, a favore degli interessi immobiliari privati, la capacità regolativa dello Stato anche là dove questo non dispone dei diritti di trasformazione urbana, o ne dispone in misura limitata.

È proprio alla convergenza “verso il basso” del modello continentale con quello insulare che “fanno riferimento le nuove procedure proposte per Milano”. Si propone la sintesi tra i due modelli e la costruzione di un terzo modello:

È possibile comporre parte delle qualità dei due modelli in un terzo modello caratterizzato da un relativo indebolimento dei caratteri di entrambi, ad esempio, un modello di tipo italiano che acquista flessibilità rinunciando alle certezze ipotetiche. Il modello proposto può essere definito ‘certo e flessibile’, poiché è rigido e certo per quanto riguarda i diritti soggettivi degli usi del suolo esistenti, flessibile e discrezionale per quanto riguarda le possibili trasformazioni dei diritti d’uso del suolo (p.4).

Il “modello milanese”

In altri termini, il “modello milanese” (conviene a questo punto chiamarlo così, anche per cogliere il sottile filo rosso che lega tutte le esperienze dei diversi “riti ambrosiani”) si propone di rendere il regime delle trasformazioni urbane certo per il privato, e di renderlo flessibile per il pubblico a vantaggio degli interessi del privato. Ma vediamo più da vicino come si articola la proposta del “modello milanese”.

Esso si basa sul presupposto (sulla scelta) che

in sistemi urbani densi e ad alta infrastrutturazione non sia utile conferire un valore normativo alle previsioni di piano regolatore — ad esclusione di particolari salvaguardie —, ma che programmi e progetti di trasformazione urbana debbano essere decisi in attuazione delle strategie della Amministrazione e a seguito della valutazione dei risultati attesi.

Quest’affermazione può sembrare abbastanza generica. Ma essa viene subito precisata e chiarita:

In questa prospettiva programmi e progetti costituiscono uno strumento per la verifica e non solo per la messa in opera delle strategie. In altre parole, la realizzabilità di una strategia è provata nel momento in cui viene tradotta in progetti operativi. La redazione dei progetti serve per verificare se una strategia è concretamente realizzabile o, se non lo è, per individuare gli ostacoli a realizzarla, cioè se siano tali gli stessi criteri fissati dall’Amministrazione e/o vincoli determinati dal contesto. In accordo con questa prospettiva, progetti e programmi di intervento proposti da soggetti pubblici e privati sono un contributo indispensabile alla verifica delle strategie dell’Amministrazione, e possono suggerire utili modificazioni o integrazioni delle politiche pubbliche in attuazione delle strategie nonché delle strategie stesse. Infine, anche progetti e programmi proposti indipendentemente dalle strategie sono utili, purché la proposta sia motivata da argomentazioni sufficienti a far modificare le strategie già adottate (p.47)

In sostanza, la pianificazione comunale si limiti a definire la disciplina delle parti della città già conformate, delle quali si intende conservare la stabilità dell’assetto raggiunto, e dei connessi valori immobiliari. Lì il piano sia certo e inequivocabile.

Dove viceversa si prevedono trasformazioni negli assetti (e nei valori immobiliari), lì la pianificazione sia generale, generica, “strategica”: indichi scenari, obiettivi, indirizzi. Si esprima non in un “piano” (in un documento impegnativo, specificamente riferito al territorio e opposable aux tiers), ma in un “documento”: un documento che peraltro non sia in alcun modo cogente, ma sia continuamente modificabile dai progetti e programmi presentati dagli operatori, purché adeguatamente motivati e argomentati.

In altri termini, la pianificazione dovrebbe essere “certa e flessibile” in modo profondamente asimmetrico. Nelle aree dove i valori immobiliare sono già consolidati, dovrebbe garantire (ai titolari dei valori immobiliari) la certezza della loro stabilità nel tempo. Nelle zone dove invece si possono prevedere trasformazioni, il pubblico sostituisca la certezza delle sue determinazioni con una flessibilità funzionale (verrebbe da dire asservita) agli interessi (alle “convenienze”) degli operatori privati. Quando questi ultimi si manifestassero e divenissero maturi, l’amministrazione dovrebbe tradurli in certezze.

Non mi sembra che ci sia molto da aggiungere. Del resto, il documento lo afferma già nelle prime pagine: il piano deve essere “rigido e certo per quanto riguarda i diritti soggettivi degli usi del suolo esistenti, flessibile e discrezionale per quanto riguarda le possibili trasformazioni dei diritti d’uso del suolo”.

Gli autori del documento si rendono conto di alcune delle più immediate conseguenze della loro proposta: Essi scrivono infatti:

È evidente che l’aumento di flessibilità e di discrezionalità comporta maggiori opportunità per gli interessi individuali di accesso al piano e al mercato urbano, ma il rischio che interessi individuali prevalgano sull’interesse generale non dipende dal tipo di strumenti tecnico-giuridici disponibili quanto dalla volontà e dalla capacità politica di resistere a pressioni che sono in contrasto con l’interesse generale.

È un’osservazione giusta, ma le conseguenze possono essere molto preoccupanti. Gli strumenti tecnico-giuridici sono un sistema di garanzie la cui ratio sta nell’assicurare che gli interessi collettivi, e quelli strutturalmente meno protetti, siano adeguatamente posti al riparo dagli errori e dalle debolezze degli uomini, e dalla partigianeria degli interessi specifici. Rinunciare a quelle garanzie, senza sostituirle con altre, significa trasformare la società in una giungla in cui solo i più forti sopravvivono.

A me sembra molto più convincente, e più sicuro, cambiare le regole anziché dire che regole non ce ne devono essere più. Da questo punto di vista, mi sembra molto più convincente un’altra “terza via” che si sta tentando di percorrere.

Un’altra “terza via”

Mi riferisco a quel tentativo, che abbiamo cominciato a sperimentare a Venezia negli anni 80, che è stato illustrato in alcuni convegni all’inizio degli anni 90, che è stato rilanciato dall’INU a partire dal 1994, che ha dato luogo (in forme più o meno chiare) alle leggi regionali della Toscana, della Liguria, del Lazio e dell’Emilia Romagna, e che è sostanzialmente ripreso nel testo unificato della Commissione Ambiente e Territorio della Camera di deputati.

È un tentativo che si basa anch’esso sulle critiche all’inefficacia della vigente strumentazione urbanistica, che tende anch’esso a introdurre elementi di flessibilità nella pianificazione e nel governo pubblico delle trasformazioni, che tende anch’esso a introdurre anche nella pianificazione italiana elementi di operatività, ma che – a differenza del “modello milanese” –conserva il primato del potere pubblico nel campo della trasformazioni urbane e territoriali.

Si tratta di quel modello basato sulla distinzione tra due tipi di “regole”:

1. quelle relative alle scelte strategiche e alle “condizioni alle trasformazioni” poste dalle esigenze di tutela delle qualità ambientali e storiche e di prevenzione dei rischi territoriali, da definire in relazione ai tempi lunghi e con prescrizioni “forti”, certe e non negoziabili;

2. e quelle relative alle concrete trasformazioni fisiche e funzionali, da decidere in relazione alle esigenze, alle opportunità, alle disponibilità di risorse e di attori, valutate nel breve-medio periodo e da definire con procedure caratterizzate da flessibilità e negoziabilità: nell’ambito, certamente (e questo è il punto fondamentale) di prestazioni preliminarmente definite.

Di questo modello fa parte integrante un istituto già introdotto di recente. Mi riferisco alle "società per progettare e realizzare interventi di trasformazione urbana", di cui al comma 59 dell’articolo 17 della legge 127/1997. Si tratta, com’è noto, di strutture simili a quelle dell’esperienza francese, che consentono l’esplicarsi di un’attività imprenditoriale nel campo immobiliare. Beninteso, dove gli interventi da progettare e realizzare devono essere “in attuazione degli strumenti urbanistici vigenti”, e dove si deve provvedere “alla preventiva acquisizione delle aree interessate”.

Per concludere, alcuni principi

Intendiamoci, il modello che si esprime nelle proposte dell’INU, nelle leggi urbanistiche che ho citato, nel testo unificato della Camera dei Deputati non è certo – nelle sue differenti formulazioni – limpido e privo di errori. Io stesso ne ho in più occasioni criticato questa o quell’altra applicazione. Nella sua stessa logica di fondo, non è certamente l’unico modello proponibile, e neppure il migliore.

In tutte le sue formulazioni esso peraltro resta fedele ad alcune prerogative, ad alcuni principi, che a me sembrano essenziali e che del resto appartengono alla tradizione e alla prassi europea. Proverò a enunciarli:

1. il primato del pubblico nella definizione e nel controllo delle scelte di trasformazione del territorio,

2. la definizione preliminare di regole non negoziabili relative alle tutele,

3. la capacità di misurare la coerenza dell’insieme delle trasformazioni,

4. la trasparenza del procedimento di formazione delle scelte,

5. la garanzia degli interessi collettivi coinvolti.

Mi sembra che è a questi principi che bisognerebbe riferirsi nell’esame di qualunque modello di nuova pianificazione, e che è sulla coerenza con essi che si dovrebbe misurarlo.

Così come si dovrebbe ragionare sugli effetti che rischia di avere, sul sistema economico nazionale, un approccio alle trasformazioni urbane che privilegi – come quello milanese - gli interessi degli operatori immobiliari, e che anzi assuma il loro punto di vista come centrale. Resto convinto che una delle radici dei mali del sistema economico italiano sia nell’incompiutezza della rivoluzione borghese, nel compromesso tra borghesia capitalistica e ancien régime che fu stipulato per costruire lo stato nazionale, sull’effetto deprimente che la facile percezione di rendite ha sempre avuto sul processo d’accumulazione e sulla conseguente tensione all’innovazione. Ma questo porterebbe ad aprire un altro discorso.

Tre grattacieli al posto della Fiera

di Luca Pagni

La Repubblica del 03.07.04 - Con un'offertada 523 milioni battuta la concorrenza di Pirelli Real Estate e Risanamento. La cordata Generali, Ras e Ligresti si aggiudica la gara per Fiera Milano.

MILANO - Una gara così non la si vedeva da tempo. Per conquistare i 225 mila metri quadrati dei vecchi padiglioni della Fiera di Milano si sono sfidati i più bei nomi del gotha della finanza italiana. Alla fine, con un'offerta di 523 milioni di euro, la riqualificazione dell'ultima grande area dismessa della città, a due passi dalla vecchia cerchia delle mura e grande come venti campi di calcio, è andata a una cordata composta da Generali, Ras, Progestim (gruppo Ligresti, che segna così il suo ritorno in grande stile nei progetti di trasformazione urbanistica dopo gli scandali degli anni Ottanta), Lamaro appalti (della famiglia Toti, i costruttori romani) e, unici stranieri, gli spagnoli del Grupo Lar Desarrolos Residentiales. Nel consorzio, i primi tre soci detengono quote paritetiche intorno al 25-30%.

«È stata una vittoria del peso finanziario della cordata», è stato il commento unanime degli addetti ai lavori. Di sicuro il grande pubblico rimarrà colpito dall'idea forte di trasformazione di questo angolo di città: la realizzazione di tre grattacieli uno di fronte all'altro (a forma di parallelepipedo, di vela e di mezza elica), destinati con tutta probabilità a diventare uno dei nuovi simboli di Milano. La più alta delle tre misurerà due volte il Pirellone.

L'offerta dei primi classificati, a quanto è stato possibile apprendere, è stata superiore alla seconda classificata di oltre il 15%: un consorzio guidato da Pirelli Real Estate, Vianini Lavori, Roma Ovest Costruzioni e Unicredit Real Estate. Ancora più lontana l´offerta dei terzi in graduatoria: Risanamento (gruppo Zunino), Fiat Engineering, Astaldi, Chelsfield e Langdale Consulting.

È stata anche un sfida tra grandi architetti. Ha vinto il progetto firmato da Arata Isozaki (suo il ridisegno della Loggia degli Uffizi), Daniel Libeskind (che si è aggiudicato il concorso per la ricostruzione del World Trade Center di New York), l'irachena Zaha Hadid (vincitrice a Roma del progetto per il centro d'Arte contemporanea) e Pierpaolo Maggiora.

A indire la gara era stata la Fondazione Fiera spa, proprietaria dell'area. Con il ricavato potrà così rientrare degli oltre 600 milioni investiti per la costruzione del nuovo polo esterno che, secondo le previsioni, dovrà essere inaugurato nella primavera dell'anno prossimo. Advisor per la Fondazione è stata la banca d'affari Lazard che ha proposto una procedura particolare: i primi tre classificati sono arrivati alla fase finale dopo la scrematura di una quindicina di proposte in base alla validità del progetto. Poi la vittoria alle buste. L'area verrà consegnata alla cordata vincitrice nei primi mesi del 2006, mentre i lavori del nuovo centro dovranno essere terminati all'inizio del 2014. La vittoria nella gara non ha avuto particolari riflessi in Borsa. Generali ha chiuso in calo dello 0,18%, Ras in aumento dello 0,25% e Fonsai dello 0,02%.

Tre giganti di vetro in Fiera

di Luigi Pastore

La Repubblica del 03.07.04

L'offerta della cordata CityLife ha battuto Pirelli e Zunino. Il progetto firmato da Libeskind, Isozaki, Hadid e Maggiora. Tre torri più alte del Pirellone. Le costruirà Ligresti che ha vinto la gara per il quartiere Fiera. La proposta del colosso assicurativo è forse quella più innovativa rispetto alla tradizione milanese. Anche negli altri due progetti finalisti erano previste delle torri. Quella di Piano ricorda la London Bridge Tower. Vince Ligresti. Albertini: "Mi aspettavo più verde". A firmare il progetto vincente un team con Arata Isozaki, Zara Hadid e Daniel Libeskind, l'architetto di Ground Zero. Tra due anni cominceranno i lavori, che dovranno finire entro il 2014. Nell'area il Museo del Design e uno spazio bambini. L'offerta della cordata Generali-Sai supera quelle di Pirelli e di Risanamento. Roth: "Un gesto che entrerà nella storia" Formigoni: "La città al centro del mondo".

Vecchia Fiera all'americana. O meglio ancora, come aveva chiesto il sindaco Gabriele Albertini, «un Central Park in Fiera». Sarà alta 218 metri, quasi cento più del Pirellone, e dominerà un pezzo di città che cambia completamente volto. È la torre di vetro disegnata dall'architetto giapponese Arata Isozaki per la cordata CityLife, il colosso assicurativo composto da Generali e Ras, che si è aggiudicato l'onore-onere di ripensare l'area del polo interno fieristico, o meglio i due terzi di esso che tra un paio d'anni con il completamento del trasloco a Pero-Rho, diventeranno un cantiere aperto.

La torre più alta di Milano, destinata a ospitare quasi esclusivamente uffici, ma anche ristoranti e altri spazi pubblici, è accompagnata da due "gemelle", una di 175 metri a forma di vela, disegnata da Daniel Libeskind, l'architetto che ha vinto il concorso per ridare vita a Ground Zero dopo l'11 settembre, e un'altra, di 185 metri, opera dell'artista iraniana Zara Hadid. Intorno, nel progetto firmato anche dall'italiano Pier Paolo Maggiora, il Museo del Design, l'attuale padiglione 3 della Fiera destinato a ospitare attività sociali soprattutto per bambini, e tante case e palazzine (altezza media dieci piani) con la presenza di quel verde diffuso esplicitamente richiesto dal bando di gara, ma che il sindaco Albertini avrebbe voluto ancor più presente: «Un bellissimo progetto, soprattutto con il gran gesto architettonico delle tre torri. Ma forse sarebbe stato ancora più bello, se ci fosse stato un po' più di verde».

Il successo della cordata di Salvatore Ligresti è figlio della migliore offerta economica rispetto agli altri due raggruppamenti rimasti in gara dopo la prima selezione. Sono stati messi in busta 523 milioni di euro, cifra nettamente migliore rispetto a quelle non ufficializzate, ma ben note agli addetti ai lavori, offerte da Pirelli e da Zunino, la prima con 438 milioni e la seconda con 378 milioni. Secondo indiscrezioni erano, invece, superiori le cifre inserite in busta dal gruppo italo-americano Immsi di Roberto Colanninno con Aig-Lincoln (480 milioni) e dalla italo-francese Greenway, che avrebbe offerto addirittura 550 milioni, ma che sarebbe stata esclusa perché nel suo progetto era assente «il gesto emblematico», ossia il grattacielo: «I tre progetti finalisti sono stati considerati tutti sullo stesso livello», spiega Claudio Artusi, amministratore delegato di Sviluppo Sistema Fiera, la società di scopo che cura tutta l'operazione. Decisiva, dunque, l'offerta economica, salutata con soddisfazione dal presidente di Fondazione Fiera Luigi Roth, secondo il quale «con questa entrata copriamo oltre due terzi dell'ingentissimo investimento per la realizzazione del nuovo polo a Pero-Rho. Il gesto urbanistico entrerà nella storia».

La trasformazione di un'area di 260.000 metri quadrati, collocati in una zona strategica e al tempo stesso residenziale della città, prevede secondo il progetto vincitore anche la presenza dell'acqua e 10.000 posti auto, ma tutti sotterranei. Nella zona dovrebbero abitare circa 5.000 persone, ma saranno tra le 10.000 e le 15.000 persone quelle che la utilizzeranno quotidianamente. In particolare, il parco urbano di almeno 130.000 metri quadrati era esplicitamente richiesto nel bando di gara, e il requisito è stato rispettato da tutti e tre i gruppi finalisti, anche se in modo più evidente soprattutto nel progetto firmato dal britannico Norman Foster per la Risanamento guidata da Luigi Zunino. E forse proprio questa considerazione ha fatto rilevare al sindaco come «un pochino di verde in più non mi sarebbe dispiaciuto».

La più grande rivoluzione urbanistica di Milano nell'ultimo mezzo secolo inizierà nella primavera 2006, quando l'area sarà liberata dai padiglioni dell'attuale quartiere fieristico, perché sia dato il via ai lavori. Un'imponente trasformazione che dovrà essere completata entro il 2014 e che è destinata ad avere un impatto storico, come sottolineato anche dal presidente Roberto Formigoni («Milano torna al centro dell'architettura mondiale»), visto che il progetto di CityLife presenta elementi altamente innovativi sull'architettura milanese: «I progettisti, provenendo e rappresentando culture e civiltà differenti, sono riusciti a elaborare il progetto di più ampio respiro internazionale con il quale la Fiera tornerà, in un certo senso, a essere Campionaria: Daniel Libeskind la cultura mitteleuropea con la contaminazione americana, Arata Isozaki la cultura orientale, Zara Hadid la cultura delle origini dell'uomo, quella della Mesopotamia, Pier Paolo Maggiora la cultura della nostra scuola», osserva l'assessore all'Urbanistica Gianni Verga.

La trasformazione della vecchia Fiera si sovrappone a quelle dell'area Montecity-Rogoredo e di Garibaldi-Repubblica, per la quale proprio negli scorsi giorni il consiglio comunale ha dato il via libera all'accordo di programma.

LA CURIOSITÀ - La più alta arriverà a 218 metri Sarà quasi il doppio del Pirellone

Nel 1960 fu il grattacielo Pirelli targato Gio Ponti. Con i suoi 127,10 metri di altezza costruiti in quattro anni, divenne il simbolo del boom economico di Milano, superando di 10 metri il grattacielo di piazza della Repubblica. Una creatura di trenta piani, che oggi fa ombra ad altri simboli cittadini, sacri e profani: la Madonnina del Duomo, di 108,5 metri, e la torre Velasca, di 87.

Tra queste due altezze, si piazzano altri due giganti oltre i cento metri di altezza: la torre Littoria di Parco Sempione di 108 metri e il grattacielo Galfa, tra le vie Galvani e Fara, di 102. Seguono le torri di Porta Garibaldi, che raggiungono i 98 metri, e il palazzone di viale Filippetti, 89 metri.

Nel 2004, però, è la stessa Regione a rilanciare la sfida dei grattacieli. Il progetto di Pei-Cobb-Freed & Partners e Caputo vede entro il 2008 la realizzazione di un complesso architettonico, destinato a ospitare gli uffici della Lombardia e, soprattutto, a superare il Pirellone. Due torri di 32 piani stabiliranno il record di 160,2 metri nell'area tra via Pola e Melchiorre Gioia. Ma il primato è già in forse. Alla corsa al cielo oggi si aggiunge la cordata "Citylife", che si è aggiudicata la gara per la riqualificazione della Fiera con i progetti di tre torri di vetro, alte 218, 185 e 175 metri.

"Sarà la nuova piazza di Milano"

di Paolo Berizzi

La Repubblica del 03.07.04 - L'architetto Maggiora: qui si entrerà solo a piedi o in bici. "Abbiamo disegnato la zona in modo tale che possa vivere 24 ore su 24. Il verde c'è ed è stato pensato per valorizzare le case, con alberi piazzati dappertutto".

La grande piazza, al centro. Una moderna agorà abbracciata da tre torri. La più bassa è ricurva; le altre due si guardano, una di fronte all'altra, con l'ombra dei grattacieli che si staglia sul parco che collega la piazza alla zona dove sorgono le abitazioni. In mezzo scorre un corso d'acqua, un nuovo Naviglio. Intorno, immancabile, qui fondamentale, la pista ciclabile: al nuovo quartiere fieristico si accede solo in bici o a piedi. Alle spalle della torre ricurva altri due edifici, linee futuriste, uno rotondo, l'altro triangolare: sono, rispettivamente, il museo e il centro del design; valorizzazione di un punto di forza del made in Milano. L'architetto Pier Paolo Maggiora, 60 anni, torinese, unica firma italiana nella squadra (Daniel Libeskind, Arata Isozaki, Zaha Hadid) che ha concepito il progetto presentato da CityLife, osserva il plastico del nuovo quartiere fieristico. «È un sogno diventato progetto» semina entusiasmo Maggiora, stringendo mani e incassando complimenti. «Spero davvero che riesca a fare sognare la città».

§ Architetto, qual è il punto di forza del vostro progetto?

«La vivibilità. Abbiamo cercato, inseguendo il massimo dell'innovazione, di offrire il migliore prodotto possibile a chi abiterà in questo nuovo quartiere, e anche a chi abita intorno».

§ Questa è un'area importante di Milano, per tanti anni ha rappresentato l'anima della città, la sua vocazione internazionale. Le tre torri diventeranno un nuovo simbolo della metropoli?

«Le tre torri, certo. Ma l'idea forte, l'icona di tutto il lavoro, è la piazza. La nuova piazza di Milano. Quella del terzo millennio. Ecco, abbiamo pensato questo: il Duomo ha segnato il millennio passato. Adesso arriva questo nuovo luogo di aggregazione, un luogo simbolo. Vogliamo riattivare la socialità, anche grazie ad un sistema efficiente di mezzi pubblici. E offrire verde, tanto verde».

§ Centodiecimila metri quadrati di parco. Un polmone enorme in mezzo a edifici futuristi.

«Ci interessava il rapporto verde-acqua-edifici. Il Naviglio come riproposizione delle grandi riflessioni leonardesche sull'acqua rispetto alla città. L'acqua in movimento che si sposa con il verde. Tutto in relazione con il costruito, le abitazioni, gli uffici, i grandi edifici. Ecco il perché dei viali alberati. Il verde è un punto essenziale. È stato pensato in modo da valorizzare le costruzioni, le case. Oltre al parco, ci saranno altri 75 mila metri quadrati di "aiole", alberi piante disseminati dappertutto».

§ Quante persone potranno abitare nel quartiere che verrà?

«Cinquemila. Più, abbiamo calcolato, altre cinquemila che ruoteranno intorno agli uffici, ai negozi, ai centri d'intrattenimento. In tutto sono 10mila cittadini che saranno accolti ogni giorno da un´area pensata apposta per vivere bene, lavorare bene. Una zona immaginata per essere vissuta 24 ore su 24 sette giorni su sette».

§ E vietata alle auto.

«Assolutamente sì. Qui si entra solo in bicicletta o a piedi. Per le automobili ci saranno parcheggi sotterranei, solo sotterranei».

§ E i servizi pubblici?

«La zona sarà servita dalla metropolitana, fermata Amendola, e da un passaggio ferroviario. Sono vicinissimi, ci sarà un collegamento svelto e agevole con il resto della città».

§ Il museo e il centro del design.

«Sono stati pensati per esaltare uno dei fiori all'occhiello di questa metropoli. La sua storica e naturale vocazione alla modernità. Il progetto, complessivamente, guarda molto al futuro, ma partendo dal passato e da una tradizione dalla quale non si può prescindere».

§ Isozaki, Libeskind e Hadid hanno modi di disegnare per certi aspetti molto diversi tra loro. Come siete arrivati a fare quadrare il progetto?

«Il fatto che le matite siano diverse non è determinante. Ci siamo seduti intorno a un tavolo, e prima che uno tracciasse il primo segno ci sono voluti tre mesi. Alla base c'è stato un grande lavoro concettuale».

§ Come è avvenuta l'elaborazione di un progetto così importante e così costoso (523 milioni di euro)?

«Il lavoro ha tenuto impegnate per sei mesi 300 persone: 100 architetti e 200 tecnici. Abbiamo fatto sette workshop, con gli altri tre progettisti ci incontravamo a Milano, Londra, New York. Ci sono stati momenti di scontro anche molto forti, ma sempre costruttivi. E il risultato lo potete vedere. I nostri investitori hanno quasi raddoppiato la base d'asta: vuol dire che sono loro i primi a sognare con questo nuovo pezzo di città».

di Pierluigi Panza

Il Corriere della sera del 03.07.04 -La cordata CityLife si è aggiudicata la gara internazionale per la riqualificazione del quartiere. Offerta di 523 milioni. Fiera, vince l’architetto di Ground Zero. Nel centro di Milano nasceranno tre grattacieli «come le tre caravelle» e un grande parco. Gruppo di assicurazioni vince il concorso per riqualificare l’ex Campionaria. Il lavoro affidato all’ideatore del nuovo Ground Zero - Tre grattacieli al posto della Fiera - Nel progetto il Museo del design e un parco. «Regione e Comune alleati per una Milano capitale dell’architettura».

La cordata delle assicurazioni CityLife si è aggiudicata la gara internazionale per la riqualificazione del quartiere storico della Fiera. L’offerta che ha consentito a CityLife di assicurarsi la gara è stata di 523 milioni di euro. Battute Pirelli Real Estate con Renzo Piano e Risanamento con Foster e Gehry. Altrettanti soldi serviranno per costruire le architetture. L’area interessata dall’intervento di riqualificazione riguarda 255 mila metri quadrati e sarà progettata da Arata Isozaki, Daniel Libeskind, Zaha Hadid, Pier Paolo Maggiora. A luglio si firmerà il precontratto. I lavori di costruzione dovrebbero avvenire entro il 2014. Il progetto prevede residenze per 5 mila persone e uffici per altrettante. Gli uffici saranno ospitati in tre grattacieli al centro dell’area, il più alto dei quali sarà di 218 metri. Sorgeranno al centro del cosiddetto Central Park, caratterizzato anche dalla presenza di canali d’acqua. È previsto anche il Museo del Design e la conservazione dello storico padiglione 3 della Fiera Campionaria, che sarà destinato ad anziani e bambini. Per il presidente della Fiera, Luigi Roth, è «un progetto che lascerà un segno nella storia». Per Albertini e Formigoni è la dimostrazione del nuovo Rinascimento lombardo e di come «facendo sistema, il buon governo vince le sfide».

MILANO - La cordata CityLife, composta dai gruppi Generali, Ras, Progestim e dagli architetti Daniel Libeskind (quello che sta ricostruendo Ground Zero), Arata Isozaki, Zaha Hadid e Pier Paolo Maggiora si è aggiudicata la gara internazionale per la riqualificazione dello storico quartiere della Fiera Campionaria. Dal 2005, infatti, la Fiera di Milano si trasferirà nella nuova sede di Rho-Pero. L’offerta che ha permesso a CityLife di aggiudicarsi la gara è di 523 milioni di euro, superiore dell’8% rispetto alla seconda offerta (la base d’asta era 300 milioni). Gli altri due raggruppamenti rimasti in gara erano Pirelli Real-Estate con Renzo Piano e Risanamento con Norman Foster. Più o meno altrettanti milioni di euro serviranno ora alla cordata per realizzare il progetto. L’area d’intervento è di 255 mila metri quadrati (dei 440 mila di Fiera), ed è stata destinata il 50% a parco (come da bando) mentre sul resto sorgeranno residenze e tre grattacieli che diventeranno le tre «caravelle» di Milano: saranno alti 218, 185 e 170 metri; quasi il doppio del Pirelli e della Madonnina del Duomo. Sono tre volumi in ferro e vetro di cui uno è un parallelepipedo perfetto (il più alto), uno è ritorto su se stesso e il terzo è curvo a forma di vela. Nel parco sorgerà anche il Museo del design, che libererà così la Triennale dall’incombenza di realizzarlo al proprio interno (purché si coordino), mentre lo storico padiglione 3 della Fiera sarà conservato e utilizzato per servizi destinati a giovani e anziani. Le residenze sono per 5mila persone; altrettante persone possono ospitare i tre grattacieli destinati al terziario. Raggiunto in Polonia, Libeskind ha dichiarato che si è trattato «di un lavoro di gruppo il cui obiettivo è stato conferire una nuova opportunità per Milano basata su qualità e bellezza e anche attenzione ecologica nella progettazione del grande Central Park della città». E ha aggiunto che dopo aver iniziato il 4 luglio i lavori di costruzione della Freedom tower a Ground Zero, spera di essere presto a Miano, dove ha vissuto tra il 1986 e l’89.

Entusiastiche le valutazioni del presidente della Fiera, Luigi Roth, del presidente della Regione, Roberto Formigoni e del sindaco Gabriele Albertini, con una vena critica sul parco «che poteva essere ancora più grande». La selezione dei progetti era stata effettuata dalla Fiera con una commissione di esperti e la Lazard. Il 30 luglio verrà firmato il contratto preliminare di compravendita dell’area, che verrà consegnata al vincitore nel primo trimestre 2006. L’intervento dovrebbe essere realizzato per il 2014.

Questo progetto esalta il ridisegno della Milano post 2010, che vedrà nascere una downtown di funghi verticali, con poli il nuovo palazzo della Regione Lombardia di I.M.Pei (160 metri), la Città della moda di Cesar Pelli (140 metri) e questo intervento. Era dalla fine degli anni Cinquanta, con la Torre Velasca dei BBPR e il Pirellone di Gio Ponti, che Milano non costruiva con questa intensità e qualità in altezza. E lunedì otterrà il lasciapassare in Comune anche il progetto Montecity firmato da Norman Foster, «una città nella città» su un milione e 200 mila metri quadrati di proprietà di Luigi Zunino, la più grande area dismessa d’Europa interessata a risanamento.

Un portale per l’Europa. È il secolo dell’accoglienza

di Daniel Libeskind

Il Corriere della sera del 03.07.04

Il progetto CityLife per il Polo Urbano della ex Fiera Milano non propone semplicemente lo sviluppo di una vasta zona della città, ma si propone di inserire una città del 21° secolo all’interno di un contesto storico. Questo progetto nasce dall’idea che il 21° secolo non sarà più come il precedente, semplicemente il secolo dell’unica idea dell'individuo ma della molteplicità: non più l’epoca in cui esiste una sola idea, un solo punto di riferimento (comandante, padrone) e un solo fallimento. Il Ventunesimo secolo si presenterà sicuramente come una società democratica aperta, con condizioni plurime e adeguata alla ricchezza culturale della vita odierna.

Questo progetto, dunque, ha un significato che esula dal semplice contesto in cui è collocato. Dal momento in cui rappresenta Milano come un portale per l’Europa, rappresenta Milano come un incrocio paradigmatico tra presente, passato e futuro, tra una tradizione della città così com’è sempre stata e una nuova che sta emergendo soltanto in questi tempi. Al centro di un nuovo, stratificato programma per l’ex Fiera, permane l’idea che questo non è un sito a sé stante, un luogo che nasce dalla città senza contaminazioni, ma la proiezione di una nuova connettività del sito e la creazione di una autentico «quartiere». Tutto ciò richiede una pluralità di mezzi, sia architettonici che urbanistici, per creare un ricco pattern di differenze e prospettive che sia adeguato alla molteplicità delle funzioni di quest’area della città. Questo quartiere è concepito come un’area strettamente e organicamente integrato nel suo contesto circostante, che include gli imponenti edifici della Fiera a nord come le più contenute ville a sud. Questa differenza di scala offre l’opportunità di creare una gerarchia all’interno del sito, che spazia dagli edifici residenziali nell’area a sud, passando per il grande Central Park fino al «portale» creato dagli edifici alti e le attività culturali a nord.

Il Parco è il tessuto connettivo dell’intera città, è l’attrattiva che permette di generare vasti spazi pubblici come la Piazza delle Tre Torri al centro dell’area così come le aree di gioco e svago disseminate attorno alle abitazioni. Il Palazzo dello Sport è mantenuto e trasformato in un nuovo centro di gioco per le famiglie, una specie di «giardino protetto», emblematico per la sostenibilità e il potenziale ecologico rappresentato dal piano. I venti, la luce, le condizioni atmosferiche non sono elementi astratti, ma presi in considerazione nel progetto che pone attenzione all’ecologia. Quest’area è stata concepita come un sistema attivo 24 ore al giorno e sette giorni su sette.

di Claudio Schirinzi

Corriere della sera del 03.07.04

Gio Ponti sarebbe contento dei milanesi. «Veri milanesi - diceva - sono coloro che, aborrendo dalle addormentatissime nostalgie formali, avranno una nostalgia sola, vivificatrice, quella della antica virtù creativa e in nome di quella conserveranno in vita non le antiche forme mortissime, ma le antiche virtù creative italiane; l'antico coraggio intellettuale, l'antica immaginazione, l'antica grandezza d'animo e di spirito, per fare le nuove cose e diversissime». Di «nuove cose e diversissime» (anche se per ora soltanto in progetto), Milano non ne ha mai avute così tante e tutte insieme: la nuova città nella città, presentata ieri; il complesso Garibaldi-Repubblica, con la nuova sede della Regione, il nuovo palazzo per gli uffici comunali e il Museo della moda; e poi Montecity, con case, uffici, centro congressi (finalmente) e un grande parco. Nuove cose e diversissime, appunto, destinate a cambiare lo skyline di Milano, ma non la sua specificità, non la sua vocazione. Meno di cinquant'anni fa, quando venne inaugurato il grattacielo Pirelli, sul tetto del palazzo, per iniziativa dell'allora cardinale Montini, venne collocata una copia in scala ridotta della Madonnina. Perché per la prima volta Milano aveva una costruzione più alta del Duomo, 127 metri contro i 109 della cattedrale, e la Madonnina doveva comunque continuare a vegliare sulla città dal punto più elevato. Come dire? Innovazione nella tradizione. Ebbene, il progetto che ha vinto la gara per l'area urbana della Fiera prevede fra l'altro un grattacielo alto esattamente il doppio del Duomo: 218 metri. Forse la Madonnina del Pirellone finirà sul suo tetto. E sarà una sorta di passaggio del testimone fra la Milano del ventesimo secolo e quella del ventunesimo, fra la Milano della Fiera Campionaria, dove le famiglie facevano in una sola giornata il giro del mondo fra le meraviglie del primissimo consumismo, e quella che deve trasformare la globalizzazione da minaccia in opportunità.

Milano non vuole essere Shangai con i suoi 400 grattacieli, ma non deve neppure avere paura di cambiare. Architetti e urbanisti diranno se il cambiamento, così come è stato disegnato, aggiunge qualità urbana alla città del… secolo scorso, ma già il fatto che i più prestigiosi progettisti del mondo si siano messi in gara per poter apporre la propria firma a questa o quella parte del cambiamento dice quanto Milano sia una vetrina importante. Ora però la sfida si fa ancora più difficile. Secondo le previsioni ci vorranno dieci anni per ultimare i lavori sull’area della vecchia Fiera (che impressione doverla già definire così) e altrettanti per Garibaldi-Repubblica e per Montecity. Sul rispetto dei tempi, però, l’esperienza del recente passato non è rassicurante: il Passante Ferroviario è un’eterna incompiuta; il cantiere del nuovo Piccolo Teatro è stato come la Fabbrica del Duomo; Malpensa 2000 è stata inaugurata quando ancora non erano pronti i collegamenti necessari. Unica eccezione è la nuova Fiera di Rho-Pero che cresce secondo le tabelle di marcia. L’innovazione non può prescindere dall’efficienza. E per ritornare a Gio Ponti forse è il caso di ricordare che il grattacielo Pirelli venne costruito, con le meno sofisticate tecnologie di allora, in soli quattro anni: dal 1956 al 1960.

LA RIQUALIFICAZIONE DELLA FIERA

di Francesco Spini

La Stampa del 03.07.04 - Tre torri d’acciaio per cambiare Milano. La più alta raggiungerà i 220 metri, il doppio del Pirellone. «Dopo due secoli di Duomo, sarà questo il nuovo centro». Enormi spazi verdi tra gli edifici, l’inaugurazione nel 2014.

MILANO - Guardate bene Milano così com’è finché siete in tempo, perché forse tra dieci anni non la riconoscerete più. Il Duomo ci sarà ancora, d’accordo, ma non sarà più l’unico punto di riferimento. A svettare dall’altro lato della città, dove fino ad oggi hanno stazionato i grigi padiglioni della Fiera, saranno tre torri, tutto vetro e acciaio, simbolo, secondo il sindaco della città, Gabriele Albertini, «di un nuovo rinascimento urbanistico e architettonico di Milano, dopo aver vissuto per troppo tempo solo di ricordi». La più alta si slancerà a 220 metri dal suolo, come a dire il doppio del Pirellone, un’altra mediana, in mezza torsione, toccherà i 185 metri. L’ultima, quella che sembra piegarsi a mo’ di riverenza in mezzo alle altre due, sarà alta 170 metri, una volta e mezzo il Pirelli.

E’ il progetto di quella che sarà la riqualificazione della vecchia zona fieristica così come l’ha disegnata un team di progettisti che conta architetti di primo piano. Ci sono Arata Isozaki, giapponese, all’attivo il Pala-hockey per le Olimpiadi 2006 di Torino, il polacco Daniel Liebeskind, vincitore nel 2003 del concorso per la ricostruzione del World Trade Center di New York, Zaha Hadid, nata a Baghdad, firmataria, tra l’altro, del progetto per il centro di arte contemporanea di Roma. Insieme a loro il piemontese Pierpaolo Maggiora, all’attivo la vincita del concorso per il Comparto olimpico Torino 2006. Riuniti attorno al tavolo «virtuale» della tecnologia, hanno svolto un lavoro corale: «Per tracciare il primo segno sul progetto è passato un mese, nei sei successivi tutto è filato tra continui confronti e discussioni», dice Maggiora.

Dietro i progettisti c’è la cordata CityLife (Generali Properties, in qualità di capocordata, insieme a Ras, Progestim, Lamaro Appalti, Grupo Lar Desarollos Residentiales) che, con un’offerta capogiro da 523 milioni di euro, ha bruciato i concorrenti Pirelli Real Estate e Risanamento. «Tutti progetti di altissimo livello: differenti, ma uguali nella qualità», ha ricordato il presidente della Fondazione Fiera di Milano, Luigi Roth. Tutti rientravano infatti nella short list selezionata da una commissione di valutazione che si è avvalsa anche della collaborazione di Lazard & C Real Estate.

Non sarà una nuova Milano da bere, quella disegnata da CityLife. Piuttosto una Milano da vivere, con ampi spazi verdi (180 mila metri quadrati su 255 mila complessivi). Il cuore del progetto, infatti, si dipana da un’enorme piazza centrale dominata dalle tre torri. «Noi l’abbiamo concepita come la nuova piazza di Milano», racconta Maggiora tra sorrisi e strette di mano. «Così come la piazza del Duomo ha dominato gli ultimi secoli - dice -, noi immaginiamo che questa sarà la piazza del terzo millennio». Il suo cuore centrale sarà il parco, l’ambiente in termini generali. Non c’è infatti un confine per il verde, vero trait d’union tra le aree residenziali e i centri direzionali. Il parco, progettato con l’assistenza del noto vivaista milanese, Vittorio Ingegnoli, sarà percorso da un naviglio e, «anche per la scelta delle essenze, sarà un grande polmone naturale per la città».

Altro nodo sarà quello dei servizi pubblici che avranno due fulcri dominanti. Ci saranno un museo e un centro del design inserito all’interno della vecchia Fiera. «Un simbolo per il “made in Italy” - dice Albertini -, anzi per il “made in Milano”». E ci sarà la rivitalizzazione del Padiglione 3 della Fiera (avrà il tetto trasparente) come centro d’incontro, «riferito ai bambini e agli adolescenti - spiega Maggiora - che avranno qui un punto di ritrovo, insieme agli anziani, in un’ottica di partecipazione a tutto quello che è il rapporto sociale e di vivibilità». All’interno del nuovo quartiere c’è già una certezza: le automobili saranno bandite («almeno qui, abbiamo immaginato un ritorno alla vita d’incontro»), ma non mancheranno i parcheggi. Saranno 10 mila, tutti sotterranei, pensati per chi ci vivrà - lo spazio è per 5 mila persone, tra quelle pronte a sborsare cifre che, va da sé, non saranno alla portata di ogni tasca -, per i 5 mila lavoratori che andranno a occupare gli uffici, dentro e fuori le torri, ma anche per quei milanesi che sceglieranno il nuovo centro come meta di svago. Dentro e fuori le torri non si conteranno negozi, ristoranti, cinema. «Un risultato eccezionale, anche per i tempi - ha commentato il governatore della Regione Lombardia, Roberto Formigoni -. Un modello di ottima relazione tra pubblico e privato, e un chiaro esempio di come possa funzionare il sistema federalista e della sussidiarietà». Per vedere tutto questo bisognerà attendere il 2014. Fino ad allora continueremo a godere del buon caro vecchio Duomo.

Fiera, le future torri simbolo della città

di Pierluigi Panza

Corriere della sera del 04.07.04

«I tre grattacieli saranno il simbolo della nuova Milano». Per gli urbanisti, il progetto CityLife che ha vinto il concorso della Regione per la riqualificazione della Fiera, sarà il segno del rinnovamento. E se per gli architetti sarà un design «poco adatto alla città», l’assessore all’Urbanistica Gianni Verga sembra esserne entusiasta: «La trasformazione della Fiera è una necessità per una città pratica come Milano che è capace di cambiare e rigenerarsi». Dopo mesi di selezione per premiare qualità e offerta, adesso per «le tre caravelle» di Libeskind, Hadid e Isozaki arriva la prova della città. E mentre docenti di estetica e storici del design plaudono o criticano, il consiglio comunale si prepara ad approvare il Piano integrato di intervento del progetto.

Il progetto Fiera è cosa fatta, ma fatta del tutto non è. Dopo mesi di selezione per premiare qualità e offerta, oppure offerta e qualità a seconda se parlino la Fiera e le istituzioni oppure «gli architetti» e le opposizioni, per le «tre caravelle» di Libeskind, Hadid e Isozaki alte il doppio della Madonnina, ora viene «la prova» della città. Parlano i primi critici e, soprattutto, parleranno i rappresentanti dei cittadini: ovvero il consiglio comunale quando il progetto verrà portato in aula. L’assessore Gianni Verga sembra tranquillo: «Bisogna presentarlo in consiglio per approvarne il Piano integrato di intervento. Ma per me la trasformazione della Fiera è necessaria per una città pratica come Milano che è capace di trasformarsi e di rigenerarsi».

Per ora il progetto non è ancora all’ordine del giorno, anche perché domani bisogna già approvare il Piano per la nascita di Montecity di Zunino e Foster, i secondi classificati alla gara della Fiera. Ma Gianni Occhi, di Rifondazione, fa già capire che le opposizioni non hanno alcuna intenzione di ratificare il progetto senza discuterne.

«Noi abbiamo già presentato un ricorso al Tar - spiega Gianni Occhi - perché la volumetria stabilita per questi palazzi è incompatibile con le leggi, sono troppo alti rispetto all’intorno. Hanno usato un indice volumetrico di 1,15 metro quadro su metro, quando in genere l’indice è 0,65. Montecity, ad esempio, è 0,64. Unica eccezione è l’area Garibaldi-Repubblica, dove hanno fatto 0,65 per le residenze private e 1 per gli spazi pubblici. Fiera può vendere entro fine luglio, ma il Piano deve essere approvato dal consiglio».

Vedremo anche quale sarà la posizione della Lega («Ne discuteremo domani pomeriggio in sede», dice Matteo Salvini) di fronte al fatto che il costruttore Lamaro di Roma, attraverso il rappresentante della proprietà Claudio Toti, ha dichiarato che «i lavori saranno seguiti da Roma» e che la società non ha una sede milanese: «Costruiamo da cent’anni, abbiamo fatto interventi anche più estesi anche se mai, ovviamente, abbiamo costruito grattacieli così alti». Ci sono poi le indiscrezioni. Con quel «mi aspettavo più parco», il sindaco Gabriele Albertini ha forse lasciato intendere che preferiva altri progetti? Forse quelli della short-list di Piano e Foster? Oppure quello della italo-francese Green-Way Parco delle esposizioni firmato da Buffi-Desvigne-Rota che, si è scoperto, aveva l’offerta più alta (550 milioni) e il parco più grande (16 ettari con 4 ettari d’acqua)?

In città il dibattito architettonico è appena al via. Gillo Dorfles ha approvato i grattacieli come «nuovi segni necessari per una città piatta».

Anche l’estetologo Stefano Zecchi, presidente di giuria nel concorso che ha premiato il grattacielo di Pei per la Regione Lombardia, afferma di «apprezzare Libeskind, capace di progettare questi grandi segni». Con loro molti altri.

Ma giungono anche alcune velate critiche. Non stiamo andando verso una città della globalizzazione che si spersonalizza?

«Da una prima osservazione - afferma Mario Botta, il progettista della nuova Scala - io preferivo il progetto di Renzo Piano; era più consapevole della città storica. Costruiva un pezzo di Milano, che non è Hong Kong o Dubai. Ma forse Milano vuole andare in una direzione internazionale e globalizzata, ma mi chiedo con quale consapevolezza. Piano divideva bene il parco dalla parte urbanizzata».

Lo sostiene anche il critico di design, Aldo Colonetti: «Mi sembrano un po’ anonimi e adatti in qualsiasi luogo. E poi la corsa ai grattacieli si sta inflazionando: a Milano vanno bene alcuni grattacieli, ma qui tre. Se si cercasse la globalizzazione sarebbe un difetto, una scorciatoia per arrivare alla città moderna». Ma il dibattito è appena all’inizio.

La trasformazione del quartiere della Fiera - Solo tre cordate in gara

di Franco Capitano

La Repubblica del 02.07.04 - Trei progetti rimasti in gara, l'offerta più vantaggiosa passa solo se supera dell'8 per cento la seconda in graduatoria. Fiera, oggi si sceglie il vincitore. Un affare da 500 milioni ricostruire l'area del Portello.

Il giorno è arrivato. Saranno aperte oggi le buste con le offerte per riqualificare l'area del quartiere storico della Fiera di Milano. Una partita da 500 milioni di euro, un prezzo molto più alto dei 310 milioni fissati come base d'asta. In gara sono rimaste tre squadre sulle cinque che tre mesi fa hanno presentato, separatamente, progetto e offerta economica. Fanno parte della short-list CityLife, composta dai bracci immobiliari dei primi tre gruppi assicurativi italiani: Generali Properties (capocordata), Ras e Fondiaria-Sai (Progestim), con Lamaro Appalti e il gruppo Lar; Pirelli Real Estate (capocordata), con Vianini Lavori, Roma Ovest Costruzioni e Unicredit Real Estate; Risanamento (capocordata) con Ipi, Maire Engineering (ex Fiat Engineering), Astaldi, Chesfield, Langadale Consulting. I loro progetti sono stati giudicati i migliori, cioè quelli che «hanno saputo interpretare meglio le linee guida» per trasformare i 255 mila metri quadrati oggi occupati da Fiera Milano in un «nuovo simbolo per la città». I tre finalisti si sfideranno oggi. Si potrà avere un vincitore soltanto se l'offerta più vantaggiosa avrà superato la seconda offerta in graduatoria di oltre l'8 per cento. In caso contrario la gara riprenderà venerdì 9 luglio, quando si passerà alla fase dei rilanci (che potranno essere al massimo due). Il primo rilancio, in busta chiusa, sarà recepito dalla commissione, in seduta aperta ai concorrenti. La gara sarà aggiudicata se l'offerta migliore supererà la seconda del 4 per cento. Altrimenti si passerà al secondo rilancio in busta chiusa e la commissione assegnerà la gara al concorrente che avrà presentato l´offerta più alta. L'area da riqualificare sarà consegnata al vincitore entro marzo 2006, e le opere dovranno essere completate in otto anni, entro il 2014. Se oggi ci sarà già un vincitore, verranno svelati subito anche i cinque progetti (finalisti ed esclusi), finora rimasti segreti. «Mi auguro che dalle buste escano numeri che ci consentono di chiudere subito la gara», ha affermato Luigi Roth, presidente della Fondazione Fiera.

di Cristina Bassi

Corriere della sera del 29.06.04 - Il vincitore proclamato entro luglio. Solo tre cordate in gara per trasformare il quartiere della Fiera. Citylife, Pirelli Real Estate e Risanamento si contendono l’appalto.

La «lista» si accorcia. CityLife, Pirelli Real Estate e Risanamento sono i tre gruppi finalisti - da cinque che erano - nella gara per la trasformazione del vecchio quartiere fieristico in uno dei nuovi quartieri-simbolo della città. Entro il 31 luglio sarà indicato il vincitore e stipulato il contratto per la ricostruzione di buona parte dell’area: 255 mila metri quadrati degli attuali 440 mila. La short list dei concorrenti è stata decisa dalla commissione di valutazione del committente della maxi riqualificazione, la Fondazione Fiera Milano. I tre raggruppamenti riuniscono colossi internazionali della progettazione, del recupero urbano, istituti di credito. La cordata CityLife è guidata da Generali Properties ed è composta da Ras, Progestim, Lamaro Appalti e Grupo Lar Desarrollos Residentiales: tra i progettisti figurano Daniel Libeskind, Arata Isozaki, Pier Paolo Maggiora. Pirelli Real Estate è alla testa della seconda cordata (che include Vianini, Roma Ovest e Unicredit real estate), il cui progetto è stato curato da Renzo Piano. Infine Risanamento Spa (con Ipi, Fiat engineering, Astaldi, Chelsfield e Langdale), guida una cordata che ha ingaggiato Norman Forster, Frank Gehry, Rafael Moneo, Cino Zucchi.

«Tutti i cinque progetti partecipanti alla gara - commenta Luigi Roth, presidente di Fondazione Fiera Milano e Sviluppo sistema Fiera - hanno un elevato valore qualitativo e dimostrano il notevole impegno imprenditoriale e progettuale che ha portato alla loro realizzazione. La short list è composta dai tre studi che meglio hanno saputo interpretare la forma e i contenuti delle linee guida stabilite dalla committenza». Nei prossimi giorni verranno aperte le buste con le offerte d’acquisto. Il prezzo minimo fissato è di 310 milioni di euro.

A fine luglio sono previste l’indicazione del vincitore e la stipula del contratto. Per il marzo 2006 Sviluppo sistema Fiera consegnerà l’area: il progetto dovrà essere realizzato in otto anni, entro il marzo 2014. Chi si aggiudicherà l’appalto dovrà inoltre provvedere alla manutenzione del parco e del verde pubblico nei cinque anni successivi alla conclusione dei lavori. La grande riqualificazione servirà a Fondazione Fiera a finanziare il polo esterno che sta sorgendo alle porte di Milano, tra Rho e Pero, su progetto di Massimiliano Fuksas. Inaugurazione prevista: aprile 2005.

di Desidera Flachi

La Repubblica del 29.06.04 - A luglio sarà scelto il progetto vincitore. Quartiere Fiera, ora la partita si gioca a tre Ligresti, Zunino e Real Estate. Nei prossimi giorni l'apertura delle buste e la scelta fra gli architetti Libeskind, Piano e Foster. Fiera, tre per la corsa finale. Restano in gara i progetti di Ligresti, Pirelli e Zunino. Nell'area riqualificata ci saranno grattacieli in mezzo ad un grande parco in città. Ora deciderà l'offerta economica. E Generali-Sai potrebbe essere favorita.

E ora siamo a tre: Zunino, Pirelli e Ligresti. Si restringe la sfida tra i big dell'immobiliare e tra i migliori architetti del mondo per ripensare la Fiera, inseguendo il sogno di un Central Park alla milanese del sindaco Albertini che, proprio ieri, parlava di un vero «Rinascimento in città, per quanto riguarda il mondo dell´urbanistica e dell'architettura».

Nella gara per aggiudicarsi la riqualificazione del vecchio quartiere fieristico, dopo mesi di studio la commissione di valutazione dei progetti ha infatti ristretto il numero dei gruppi in gara da cinque a tre, promuovendo le ideazioni che portano la firma di grandi architetti come Renzo Piano, Daniel Libeskind, che ha vinto il concorso per ricostruire Ground zero, Zaha Hadid, autrice de Centro delle arti contemporanee a Roma, e Norman Foster, vincitore del Pritzker price, il Nobel per l'architettura e creatore del Millenium bridge a Londra. Nei prossimi giorni, forse già venerdì, verranno aperte le buste contenenti le offerte di acquisto dell'area, offerta che deve essere superiore ai 310 milioni di euro. Entro fine luglio si saprà il vincitore, ma la questione sarà risolta molto prima, praticamente subito dopo l'apertura delle buste, se uno dei tre gruppi avrà offerto oltre l´8% in più degli altri. In caso contrario, si procederà a una asta al rialzo. E tra gli addetti ai lavori le indiscrezioni parlano di una probabile offerta più alta da parte di Generali, che a questo punto sarebbe quindi favorita per il successo finale.

A valutare i progetti, tutti contenenti torri o grattacieli insieme ad un grande parco in città, è stato il consiglio di amministrazione di Sviluppo Sistema Fiera, con l'aiuto di 11 esperti italiani e internazionali di architettura, urbanistica, sociologia, estetica, mobilità, storia, economia urbana e paesaggistica. Secondo il sindaco Gabriele Albertini, la gara sul polo interno conferma la felice stagione che Milano sta vivendo, «quasi un Rinascimento urbanistico ed architettonico», mentre il presidente della Regione Roberto Formigoni ha dichiarato che i progetti prescelti «fanno fare un grande balzo in avanti alla città nella direzione del bello e della qualità di vita». Tra i gruppi rimasti fuori, la cordata Greenway con l'architetto Jean Pierre Buffi, che ha rifatto il quartiere di Bercy a Parigi, e la Aig Lincoln con la Immsi di Roberto Colaninno, che portavano un progetto di David Chipperfield, l'architetto inglese che sta ristrutturando l'ex Ansaldo.

Nuova Fiera, a metà giugno i finalisti

La Repubblica del 27.05.04

È un altro pezzo di città che cambia volto: 255mila metri quadrati dei 440mila oggi occupati dalla Fiera. È un altro grande concorso internazionale che sta per concludersi. Il vincitore, quello vero, si conoscerà solo entro il 31 luglio. Ma la commissione incaricata di decidere chi ridisegnerà il quartiere storico della Fiera definirà, entro metà giugno, una shortlist di progetti tra i cinque rimasti in gara.

I finalisti saranno scelti, tra le grandi cordate, seguendo linee guida fondamentali: l'emblematicità dell'intervento, la vivibilià, la qualità architettonica e ambientale, i tempi di realizzazione.

In Fiera si progetti il futuro - Intervista a Daniel Libeskind

di Pierluigi Panza

Il Corriere della sera del 06.03.04

L’architetto di Ground Zero: vanno costruite residenze, spazi pubblici, centri culturali. Non bisogna sviluppare una sola grande idea, ma una pluralità di funzioni. «Milano e l’Italia hanno un grande passato. Ma se non si pensa al futuro, si perde anche il passato. Non bisogna creare delle città museo! L’Italia ha straordinari centri scientifici, ha un marchio come la Ferrari... Deve continuare a progettare il futuro e non a imitare con nostalgia il passato».

Daniel Libeskind, progettista d’origine polacca, cittadino del mondo e anche di Milano, dove ha abitato dal 1985 al 1989, papà del nuovo Museo ebraico di Berlino nonché del Parco della Riconciliazione e della Freedom-tower che sorgeranno sopra Ground Zero, era ieri a Milano. Ospite della Triennale, dove ha tenuto un’affollata conferenza intitolata «Proof of things invisibile» e di «City life. Un progetto per Milano», la cordata (Generali, Ras, Fondiaria-Sai, Lamaro) per la quale sta predisponendo uno dei progetti che concorrono alla ridefinizione dell’area Fiera.

§ Come ripensare l’area della Fiera per il futuro di Milano?

«Quello della Fiera non è un progetto locale: mette Milano di fronte a una competizione globale nel campo dell’architettura. Per questo è importante, per questo non bisogna sviluppare una sola grande idea, ma una pluralità di funzioni. L’area dev’esser specchio della cultura che rappresenta, che è complessa. Bisogna costruire residenze, spazi pubblici aperti, luoghi per la cultura».

§ Ma si può costruire dell’architettura moderna in centro città?

«Le vecchie città hanno necessità di nuova creatività proprio in centro e non in periferia. La città non deve diventare un museo. Il centro resterà sempre il luogo più attrattivo, ma bisogna che le periferie vengano integrate. Per far questo bisogna che tutti i livelli culturali, e non solo quelli manageriali, siano impegnati nella ridefinizione strategica della città metropolitana».

§ Bisogna realizzare anche un Central Park, come chiede il sindaco?

«Milano è densa. Se si crea un parco pubblico ne beneficia tutta la città. Che darà un magnete e migliorerà la sua qualità naturale. Certo, bisogna pensare a un parco del XXI secolo e non a uno del Novecento. Quindi non bisogna solo tracciare delle linee bidimensionali al suolo, ma pensare alla creazione di un luogo culturale».

§ Lei a New York ha uno studio che guarda l’area di Ground Zero. E per la ricostruzione di quest’area ha messo a punto il «Master-plan della Riconciliazione». Ce lo descrive?

«E’ composto dal Parco della memoria, da piazza 11 settembre e da tre torri in ferro e vetro, la più alta delle quali si chiamerà Freedom tower. Per ora stiamo ripulendo il terreno e si dovrà ancora abbattere un grattacielo che dà su Ground Zero perché compromesso. Poi partirà la costruzione vera e propria: ci vorranno dieci anni».

§ Come dispone, su quest’area, i grattacieli e il parco?

«Ho studiato la posizione in cui si trovava il sole al primo impatto dell’aereo. Poi quella nella quale si trovava quando è caduta la seconda torre. Ho tracciato per terra i due assi creando una sorta di meridiana. Dove si incontrano, ho fatto nascere piazza 11 settembre, il luogo della memoria».

§ Terrà una rovina delle torri cadute?

«Sì, un lungo muro delle fondazioni. Lo lascerò in piedi e farà da quinta di chiusura al parco urbano che partirà dalla Piazza 11 settembre. Sarà il luogo della memoria collettiva, ma non un Muro del pianto! Al contrario dovrà far capire che da qui rinasce la vita. Da questo muro si innalza il nuovo edificio. Sarà un luogo dove si vive ogni giorno e da dove nasce il futuro».

§ Quanto alla Freedom tower…

«Con i suoi 532,8 metri (1776 piedi, cifra che ricorda l’anno della Costituzione americana), sarà l’edificio più alto del mondo. Ma sarà una torre ecologica: useremo anche ventilazione naturale e sarà occupata da uffici sino a circa 400 metri. Più in alto ci saranno delle serre con dei giardini d’inverno, spazi per vedere dall’alto la città e anche del vuoto. In cima partirà l’antennone».

§ Per Milano,invece, niente grattacielo?

«È anacronistico pensare a un grattacielo. Per l’area Fiera ci vuole sensibilità, rispetto per il passato e bisogna introdurre tante funzioni, residenze, parco, spazi pubblici aperti, luoghi di intrattenimento. Solo così si rispetta la complessità di Milano».

§ Non teme altri possibili attacchi aerei ai grattacieli?

«Non dobbiamo cambiare il volto di New York o delle città per il terrorismo. Io dico che possiamo ancora costruire in altezza, e senza paura».

§ Alla Triennale, davanti a più di 500 persone, ha parlato di «cose invisibili». Quali sono?

«La cosa più invisibile è la città, perché non se ne vede l’anima. A Milano come a New York. Ma se c’è una identità di Milano che puoi cogliere camminando tra le vie è un’atmosfera di modernità».

Grattacieli sulla Fiera - L’ipotesi si allontana

di Pierluigi Panza

Il Corriere della sera del 07.03.04 - Dicerto si vedrà la nascita di un grande parco pubblico, ma difficilmente quella di un grattacielo. Offerte da 500 milioni e costruzioni per 300 mila metri quadrati.

La mezzanotte del 31 marzo, data ultima per presentare i progetti e l’offerta di acquisto da parte delle cordate che partecipano al concorso per la risistemazione dell’area Fiera, si avvicina. Ufficialmente i gruppi in corsa sono otto; ma alla fine solo cinque o sei consegneranno gli elaborati. Ma se si avvicina la scadenza del concorso, pare allontanarsi uno dei due sogni coltivati dal sindaco Albertini. Dalle indiscrezioni trapelate, infatti, di certo si vedrà la nascita di un grande Parco pubblico per la Milano del XXI secolo, ma difficilmente si vedrà sorgere un alto grattacielo. Proviamo a spiegarne i motivi. Oltre al progetto architettonico, le cordate devono presentare alla Fiera l’offerta di pagamento per il terreno. Il prezzo base è di 310 milioni di euro, ma le offerte potrebbe aggirarsi intorno ai 500. Il meccanismo di selezione è questo: dopo il 31 marzo i vertici della Fiera valuteranno i progetti architettonici. Ne sceglieranno alcuni che faranno parte di una short-list. Quindi apriranno le buste con l’offerta economica relativa ai progetti della short-list: chi avrà presentato l’offerta economica più alta sarà il vincitore (si saprà il 31 luglio). «Un modo - ha dichiarato l'amministratore di Sistema Fiera, Claudio Artusi - per tutelare prima la qualità architettonica e poi l’offerta».

Da ciò si comprende tuttavia la difficoltà di veder nascere un grattacielo. Gli investitori di ciascuna cordata, per vincere, devono dunque presentare alla Fiera un buon progetto e la più alta offerta economica di acquisto del terreno, quindi sopportare i costi per la costruzione delle case-uffici e del parco. Ma poi, devono rientrare del denaro speso. E proprio per questo motivo la costruzione di un grattacielo potrebbe non risultare economica.

Le cordate sono di due tipi: alcune formate da investitori che resterebbero proprietari degli edifici per una ventina d’anni per porli in affitto. In questo caso non c’è vantaggio economico nel realizzare un grattacielo, perché ha costi di manutenzione molto più alti di quelli di un palazzo di venti piani. E andrebbero sopportati per decenni dai proprietari. Ma anche per le cordate formate da società che rivenderanno subito gli appartamenti potrebbe non esserci vantaggio per i grattacieli. Il condominio tradizionale, infatti, è più vendibile e assicura ai compratori minore spese condominiali. C’è un solo caso, forse, in cui vedremmo davvero un super-grattacielo. Se uno degli investitori avesse trovato un accordo con una grande impresa che vuole portar lì il suo quartier generale di uffici, i progettisti potrebbero realizzare un grattacielo ad-hoc.

Di certo, non vedremo nemmeno un quartiere di abitazioni basse. Infatti, dei 120 mila metri destinati alle costruzioni, almeno il 30 per cento sarà superficie di drenaggio e sul restante 70 per cento ci dovranno essere anche i parcheggi della Fiera Portello (non troppo interrabili per via della falda), nuove strade di attraversamento con annesso verde, i palazzi con magari anche infrastrutture culturali o d’intrattenimento. Quindi, se la soluzione del rebus è giusta, l'ipotesi più attendibile è che siano realizzati circa 300 mila metri quadrati di abitazioni su circa il 35 per cento dei 120 mila metri, con diversi palazzi a torre alti al massimo una ventina di piani.

Sfida tra architetti per ridisegnare la Fiera

di Pierluigi Panza

il Corriere della sera del 18.02.04 - Grandiprogetti per la Fiera. In corsa per ridisegnare l’area dell’ex campionaria, con altri sette cordate, c’è anche Daniel Libeskind, l’architetto incaricato della ricostruzione di Ground Zero. Lavori in anticipo per il polo esterno. Otto i progettisti pronti a riqualificare la zona

Entra nel vivo la gara per selezionare chi, tra le otto cordate di progettisti-imprenditori, si aggiudicherà il concorso per la riqualificazione del Polo interno della Fiera, uno degli appalti più prestigiosi degli ultimi anni. La gara per questo progetto urbanistico prevede la presentazione dei progetti entro il 31 marzo e l'aggiudicazione dell’opera entro il 31 luglio. L’intervento, che verrà effettuato su un’area di 250.000 metri quadrati, di cui il 50% sarà destinato a verde pubblico, richiederà un investimento di circa 1,5 miliardi di euro.

Ieri una delle otto cordate è uscita allo «scoperto»: si tratta di Citylife. Un progetto per Milano, cordata formata da Generali properties, Ras, Progestim (Fondiaria-Sai) e Lamaro appalti. La cordata è assistita dagli advisor Mediobanca, Deloitte e Bovis lend lease. «È il più grande progetto urbanistico e insieme il più rilevante investimento della Milano contemporanea. Ma è al tempo stesso un passo di strategica importanza per lo sviluppo di Milano», ha spiegato Ugo Debernardi, vice direttore di Generali properties. A firmare il progetto sono gli architetti Arata Isozaki, Daniel Libeskind, Zaha Hadid e Pier Paolo Maggiora. L'architetto di origine polacca Libeskind, incaricato del progetto per la ricostruzione dell’area di Ground Zero, ha anche vissuto a Milano tra il 1987 e l’88.

E le altre cordate? Tutte sono qualificate e comprendono progettisti che hanno già trasformato il volto di numerose città.

AM-Development BV è una cordata olandese: si affida al «guru» delle nuove star dell'architettura, Rem Koolhaas (appoggiato dall’italiano Stefano Boeri).

La cordata italiana Risanamento con IPI, FiatEgineering, Astaldi, Chelsfield-PLC, Foster& Partners, ha come progettista lo stesso sir Norman Foster, l'architetto della Re- Swiss Tower di Londra, del nuovo Reichstag di Berlino, che vanta il più grande studio d'architettura del mondo.

Cordata italo-americana è « Aprile» con Hines Italia, Aedes, Galotti e Techint. Il progettista di riferimento è Lee Polisano della KPF- Kohn Pederson Fox (con appoggio italiano in Renato Sarno) con il gruppo ARUP. Polisano sta costruendo a Shanghai il più alto grattacielo del mondo. A Milano punta sul parco, facendosi appoggiare dal paesaggista Peter Latz: «Hyde Park o il Central Park non sono paragonabili, per dimensioni, all'area della Fiera - afferma riprendendo un tema caro al sindaco Albertini. Ma quello che importa è l'articolazione dell'area con il il resto della città e l’idea che questo spazio resti un luogo d'incontro, come è stato con la Fiera».

C'è poi la cordata italianissima (e anche milanese) della Pirelli Real Estate, con Vianini Lavori, Roma Ovest Costruzioni, Unicredit Real Estate, che si affida al nostro progettista di punta: Renzo Piano. Il quale, dunque, potrebbe sbarcare a Milano non con la risistemazione di Ponte Lambro ma con la ben più qualificante area fiera.

La cordata ING Real Estate (olandese) lavora con Pizzarotti e ha come progettisti un parterre di grandi firme: Mario Cucinella, Richard Rogers, Jean Nouvel, Jo Coenen, Erick Van Egeraat.

Il progetto della cordata AIG/Lincoln IMMSI è firmato dall'inglese David Chipperfield che, a Milano, dovrebbe realizzare la Cittadella delle culture all'Ansaldo. Con lui ci sono di Dominique Perrault, Aukett-Garretti e Land e altri.

L’ottava cordata è la Greenway-Parco delle Esposizioni, con Borio Mangiarotti e un lungo elenco di aziende. Vasto il carnet dei progettisti: Jean Pierre Buffi, Raffaello Cecchi, Antonio Citterio, Michel Desvigne, Pier Luigi Nicolin, Anna Giorgi, Ermanno Ranzani, Italo Rota.

Secondo una ricerca svolta da Eurisko su un campione di 1.300 persone, i milanesi si aspettano dalla riqualificazione «un’area che si integri senza soluzione di continuità con le abitazioni e lo stile sobrio del quartiere». Ma anche «un’area in grado di rappresentare l'orgoglio e la genialità creativa del popolo milanese, che oggi si ritiene poco rappresentato dall'immagine urbanistica e di arredo della città». L’81% dei milanesi valuta positivamente l'iniziativa di riqualificazione di Fiera. P.Pan.

Grattacieli ecologici nella Milano di domani - Intervista a Norman Foster

di Luigi Pastore

La Repubblica del 12.12.03

L'architetto in gara per il gruppo Zunino: "Per il recinto fieristico bisogna partire da un grande spazio pubblico aperto". Qui ci sono due esempi come la Torre Velasca e il Pirelli. Per il futuro penso ad un mix di uffici e abitazioni. "Costruire in altezza non è l'unica soluzione, ma la migliore per far crescere intorno sempre più verde e migliorare la qualità della vita". "Non voglio anticipare nulla, ma sul Portello verrà fuori qualcosa di fantastico. E Montecity-Rogoredo sarà un nuovo cuore della città".

«Montecity-Rogoredo è il futuro, la città del futuro a quattro chilometri a mezzo dal centro storico. La Fiera è una sfida bellissima, che si concluderà con qualcosa di fantastico». Sir Norman Foster, baronetto del Regno Unito, è uno dei fuoriclasse in gara per creare un nuovo pezzo di Milano nel vecchio recinto della Fiera. Ma tante altre cose lo riguardano, a partire dalla realizzazione di una cittadella vera e propria nell'area dismessa di Montecity-Rogoredo, sulla quale il gruppo Zunino ha realizzato un investimento imponente. Foster ieri era a Milano per un confronto a Palazzo Marino con altri grandi architetti sul tema dei grattacieli, che per lui «è come andare a nozze». Ne ha già realizzati alcuni nel mondo, l'ultimo in ordine di tempo è l'innovativa torre nel cuore di Londra, la "Swiss Re": «I grattacieli sono il futuro dell'architettura, soprattutto i grattacieli ecologici, con un mix tra abitazioni, uffici e servizi», spiega in una lunga lezione su come costruire in verticale. Una lezione davanti ad un interessatissimo sindaco Albertini.

§ Foster, la entusiasma parlare di grattacieli?

«Costruire in altezza è entusiasmante, a patto che la spinta verticale parta dal luogo in cui l'edificio nasce e si sviluppa. È fondamentale l'edificio e il contesto in cui si affaccia, cioè gli altri edifici e le vie circostanti. Lo abbiamo già sperimentato altrove, dove in alcuni casi il grattacielo comunica con altri palazzi attraverso vie interne disegnate apposta. Il grattacielo non dev'essere monofunzionale, ma ospitare al tempo stesso abitazioni e uffici. Poi, c'è il tema del combustibile pulito...».

§ Dica.

«Si possono utilizzare nuove forme di energia, ma dev'essere un edificio molto sensibile al suo contesto. I grattacieli ecologici sono in ogni caso la soluzione del futuro, per inquinare di meno e risparmiare di più. Ma dopo l'11 settembre occorre pensare anche ad altre risorse per le torri, ad esempio a più spazi e vie di fuga che tranquillizzino chi ci vive o ci lavora. E poi c'è il verde pensile, un'altra soluzione per migliorare la qualità della vita. Più in generale, bisogna trovare una soluzione per recuperare sempre maggiori spazi verdi, costruendo in altezza, per accrescere la vivibilità delle nostre città».

§ È quanto molti, a partire dal sindaco Albertini, auspicano anche per il futuro di Milano.

«Milano ha già due esempi emblematici di grattacieli degli anni '50 e '60, la Torre Velasca e il Pirelli, cui sono anche affettivamente legato, perché a quell'epoca ero giovanissimo e studente. Per il futuro si vedrà. Posso dire che su Montecity-Rogoredo sarà difficile andare troppo in altezza, c'è vicino l'aeroporto di Linate».

§ E sulla vecchia Fiera?

«C'è tempo sino a marzo per presentare il progetto, non vorrei anticipare nulla. Stiamo lavorando, adesso sono arrivati altri colleghi importanti come Gehry».

§ Però, le aspettative sono fortissime.

«Non c'è alcun dubbio che le aspettative siano fortissime. Per la città è un'occasione grandissima di accrescere la propria qualità e densità abitativa. Lo sapete che a me le torri piacciono, anche se non sono l'unico modo di costruire, ma bisogna vedere il discorso nel suo insieme, dedicando molta attenzione al bisogno di spazio pubblico aperto. Le prossime scelte di design dovranno cercare di mantenere questo equilibrio tra edifici e spazio aperto. Ecco, questo è il vero nodo intorno al quale occorre sviluppare tutto il resto del progetto».

§ C'è chi sogna un grande parco pubblico mai visto a Milano.

«Non le rispondo cosa proporremo, ma le dico che sarà in ogni caso qualcosa di fantastico. L'architetto è come un equilibrista, deve mettere pesi e contrappesi. Lo stesso discorso vale per il rapporto con il traffico e le auto in centro. Non possiamo fare a meno delle auto, fanno parte della nostra vita, ma bisogna mettere dei contrappesi».

§ Ad esempio?

Si è concluso da qualche giorno il concorso per l' area centrale della Fiera di Milano, che verrà abbandonata alla data del compimento della nuova sede in costruzione nel Nordovest di Milano. Si tratta di uno degli episodi più tristemente significativi della bassa condizione in cui vive la cultura architettonica milanese, italiana e, in parte, anche internazionale. Il concorso è stato vinto dal gruppo finanziario-assicurativo formato da Generali, Sai e Ras, tra sei concorrenti, dai quali ne erano stati scelti tre. Scrivo del gruppo finanziario vincitore perché i nomi e i progetti degli architetti chiamati dai vari gruppi a collaborare non hanno contato quasi nulla. Ha contato solo l' offerta economica e l' affidabilità finanziaria con cui il vincitore ha superato gli altri concorrenti.

Il progetto peraltro era nato sin dall' inizio con i peggiori auspici. Densità eccessive, scarsi spazi verdi, ampia apertura alla monetizzazione degli standard del piano, tutti elementi contro i quali erano mosse osservazioni e ricorsi sinora rimasti inascoltati. I progettisti, buoni o meno buoni, scelti tra i nomi più alla moda e sovente assai lontani dalle specifiche questioni locali, sono stati comunque utilizzati come specchietti per le allodole così come i consulenti esterni (sociologi, economisti, storici, trasportisti) il cui parere è rimasto a livello del tutto accademico. La commissione giudicatrice di un concorso dall' evidente importanza urbana era formata solo dai componenti del consiglio di amministrazione dell' ente banditore. Il disprezzo per la cultura architettonica non potrebbe essere più ampio. Naturalmente sul piano giuridico l' Ente Fiera è un privato che si comporta come meglio crede. Toccherebbe piuttosto all' autorità comunale dare il giudizio sulle qualità e opportunità pubbliche del progetto vincitore: ma questo è impossibile che avvenga con la necessaria distanza critica essendo il Comune di Milano coinvolto politicamente ed economicamente nell' affare sin dall' inizio. Ma vi sono due altre questioni. La prima è la morfologia del progetto vincitore: il progetto vincitore sembra la rappresentazione dell' «horror-show» omologato dalla opinione corrente dei gusti di massa. Che si trattasse di grattacieli nessuno aveva dubbi, date le barzellette su Hyde Park (su cui peraltro non affacciano grattacieli) e il provincialismo della cultura milanese che vede ancora, dopo un secolo e mezzo dal proprio apparire, negli edifici alti un segno di modernità e il simbolo di orgoglio cittadino, anziché una qualunque delle possibili soluzioni tipologiche dell' abitare.

Le seconda questione è quella del valore puramente mediatico dei protagonisti vincitori apparenti, evidente omaggio all' indifferenza globalista dei contesti culturali. Non voglio certamente fare appello a dazi culturali di stampo nazionalista, ma perché le équipes scelte sono quasi tutte di architetti non italiani? La risposta potrebbe apparentemente essere semplice e cioè che architetti buoni in Italia ce ne sono ben pochi; ma forse le cose sono più complicate di così. La questione della prevalenza degli stranieri (alcuni fra loro, intendiamoci, sono ottimi architetti) nei concorsi italiani degli ultimi anni è impressionante. A Milano vi sono casi clamorosi come quello del mediocre progetto olandese scelto per la nuova biblioteca o quello, non certo brillante, scelto per la sede della Regione Lombardia, mentre per la stazione dell' alta velocità di Firenze è stato scelto l' ottimo Foster e per Napoli il discutibile progetto della simpatica Zaha Hadid: una «vera artista». E l' elenco potrebbe continuare a lungo. I concorsi internazionali fanno parte della storia della modernità anche se sovente essa ne è uscita sconfitta. Ma in quegli anni almeno i concorsi internazionali erano un momento significativo dello stato della cultura architettonica e non solo un confronto professionale o di mercato urbano come oggi. Va confermato subito che le partecipazioni internazionali sono un fatto assolutamente positivo anche se la reciprocità fra le varie comunità europee non è così frequente e negli Stati Uniti i concorsi pubblici sono rarissimi. Le cause del fenomeno dei concorsi italiani sono più complicate e nello stesso tempo più modeste. Vi è naturalmente una componente di superficiale snobismo che deriva però, in generale, dalla scarsa competenza specifica di chi sceglie. Un fattore che io spero minore (anche se presente) è anche la discriminazione politica. Ciò che conta veramente è che la scelta della «vedette» straniera permette di non prender partito nel dibattito intorno alla cultura architettonica o, meglio, permette di mettersi al riparo dalle critiche locali e di fare alla fine una scelta architettonica il più possibile astratta e alleata con le mode estetiche del momento nella speranza del consenso di massa. Naturalmente gli architetti stranieri conoscono bene questa situazione a loro favorevole e cercano di utilizzarla, anche se questo li spinge talvolta a considerare, con eccessiva disinvoltura, l' Italia un Paese coloniale. La cultura architettonica italiana ha certamente molti vizi, ma non sono pochi i talenti tra le giovani generazioni in grado di assumere le responsabilità di una tradizione con la coscienza di tutte le sue contraddizioni: almeno a questo dovrebbero servire i grandi concorsi. Vittorio Gregotti Tre giganti, un parco e un museo Tre grattacieli, abitazioni, un parco e il Museo del Design: tutto questo troverà posto nell' area dell' ex Fiera Campionaria di Milano. Il cantiere prenderà il via solo nel 2006, dopo che l' intera area sarà stata «liberata». La cordata CityLife si è aggiudicata la gara con un' offerta di 523 milioni di euro. L' investimento globale previsto sarà di oltre un miliardo e mezzo di euro. Il cantiere avrà un' ampiezza di 255 mila metri quadrati; l' area potrà accogliere 15 mila persone. Arata Isozaki, Daniel Libeskind, Zaha Hadid, Pier Paolo Maggiora sono i progettisti dei tre grattacieli: la «vela» (170 metri) è firmata da Libeskind, il grattacielo «attorcigliato» (185 metri) da Zaha Hadid e quello «modulare» (215 metri) da Isozaki

È stato premiato il peggiore. Dei progetti finalisti è stato scelto il più brutto. Nell´area dell´ex-Fiera Campionaria sorgeranno tre grattacieli uno più assurdo dell´altro; tutti viziati da un formalismo esasperato, ossia da una configurazione volutamente bizzarra e gratuita che non risponde a nessun criterio di funzionalità, né di logica costruttiva, né di economia edilizia.

presenta come una sottile lama rettangolare, un imponente prisma in cristallo, superbo dei suoi 200 metri di altezza. Ma perché appoggiarli contro quelle ridicole stecche inclinate, come se non fosse capace di stare in piedi da solo, sorretto dalla sua ben calcolata struttura interna? Stecche ridicole, che sembrano voler contrastare la spinta del vento ma che, al primo soffio di brezza, si spezzerebbero di schianto.

Degli altri due grattacieli quello più spettacolare si presenta come una enorme vela gonfia, una gigantesca lastra curva in procinto di rivolgersi con un inchino verso la città. Il costo di questa acrobatica struttura, contraria alle sane regole della scienza statica, sarà proibitivo; e la funzionalità, a causa del suo eccentrico profilo, sarà problematica se non disastrosa, come dimostra la torre degli ascensori, costretta a sbucare come una gobba sulla lastra incurvata.

Infine il terzo grattacielo, dall´aspetto più frivolo e stravagante, ricorda una flessuosa ballerina che si avvita sulle caviglie in un gesto di provocante civetteria. Anche qui è meglio non domandarsi quali difficoltà strutturali e quanti costi aggiunti si dovranno superare, non solo per tenere in piedi l´edificio ma anche per garantirne la stabilità sotto la pressione del vento, che ? come si sa - è il vero problema di tutti i grattacieli.

Tutti insieme i tre grattacieli vincitori, privi fra di loro di qualsiasi rapporto (visivo formale compositivo) sembrano tre giganti impazziti che conducono una danza scomposta e scoordinata.

Se sono da criticare i quattro famosi architetti che hanno firmato il progetto vincitore, lo è ancora di più la giuria, che li ha premiati; ed ha regalato a Milano un grottesco complesso edilizio, capace di snaturare per sempre la sobria misurata e seria edilizia della nostra città. Non si è accorta la giuria che gli altri due concorrenti si sono dimostrati ben più seri ed aderenti alla realtà di quanto non sia stata la squadra dei vincitori? Tra loro si distingue il progetto, serio e rigoroso, di Renzo Piano, che innalza una guglia sottile, unica ed isolata, sopra una successione geometrica di edifici bassi, e crea un efficace contrasto tra un corpo verticale, aguzzo e pungente, ed una estensione orizzontale, piana e regolare.

E la stampa cittadina? Non una voce di protesta; non un cenno di dubbio, di perplessità, di dissenso. Fa eccezione il garbato e civilissimo articolo di Antonio Monestiroli, apparso ieri su Repubblica. Tutte le altre recensioni ed i commenti ufficiali si adeguano servilmente agli elogi di circostanza pronunciati dal sindaco, dal presidente della Regione, e dalle pubbliche autorità. Da un lato ascoltiamo con irritazione le lodi retoriche rivolte ai tre grattacieli, e gli elogi che ne esaltano i valori simbolici (Milano in ascesa economica) e le dimensioni straordinarie (Milano all´avanguardia tecnica); dall´altro vediamo con amarezza il Duomo, rimpicciolito e schiacciato, mentre la statua d´oro, che lo sormonta e che ha protetto per secoli la nostra città, finirà per essere occultata ed emarginata. La canzone .. "oh mia bella Madonina ...", sarà costretta ? con rassegnazione ? a diventare .... "oh mia pòera Madonina .....".

Dov’è

I segni hanno sempre un senso. Figuriamoci i monumenti, quelli veri, come una bella statua di bronzo in mezzo a un’aiuola circolare. Una cosa che a chiunque fa venire in mente l’idea di città.

Ed è esattamente a questo che pensa un chiunque passante, o meglio guidante, in rotta verso Milano dal settore orientale, quando sullo sfondo di una lunga prospettiva di pioppi e precompressi misti la vede. La statua di bronzo, di una figura umana seduta, alta un paio di metri e qualcosa sul cocuzzolo di una rotatoria. Incongrua per dimensioni e localizzazione, ma ineccepibile nel segnalare che la nuova dimensione metropolitana ha raggiunto anche il mondo dei segni, oltre a quello delle densità e delle correlazioni spaziali e sociali. Per gli aspetti politico-amministrativi, naturalmente, dovremo aspettare ancora qualche lustro, o secolo.

Siamo sulla strada Rivoltana, l’asse viario che inizia in Piazza San Babila, e poi cambia varie sezioni e nomi passando per esempio davanti alla Provincia, al quartiere razionalista “Fabio Filzi” di Franco Albini, al famigerato centro per immigrati di via Corelli, e poi assume natura e nome di grande arteria davanti al palazzo Mondadori di Oscar Niemeyer, dove si ricongiunge col viale dall’aeroporto ( el stradon per andare all’Idroscalo, di Jannacci). Alla fine del territorio comunale di Milano, la strada attraversa una porzione del territorio comunale di Segrate, dove si affacciano tra l’altro sia la citata Mondadori, sia una delle più note neo-cittadelle da utopia piccolo borghese anni Settanta: Milano San Felice. E proprio all’altezza di San Felice inizia il territorio del comune di Pioltello, frazione Limito, segnato da quella rotatoria con monumento cocuzzolare. Di fianco alla rotatoria, una strada sterrata inquadra un cartello. Sullo sfondo, lontano tra i pioppi radi di inizio pianura, qualche gru spunta dall’erba. Il cartello recita: Progetto Malaspina. Per maggiori informazioni consultare il sito web.


L'Individuo Ignoto Margini del Parco Sud La Rivoltana a San Felice

Cos’è

Dato che chi scrive non è neppure un dilettante della comunicazione, lascio doverosamente un po’ di spazio ai professionisti: “SINTESI DI BENESSERE. Alle porte di Milano, sul lago Malaspina, nasce un grande progetto di Aedes, Banca Antonveneta, Pirelli Real Estate. Un’iniziativa immobiliare pensata attorno all’individuo, per vivere e lavorare meglio. Residenze e uffici armoniosamente immersi nella natura, in una delle più grandi aree verdi della Lombardia. 720.000 mq di cui 498.000 mq circa destinati a parco pubblico”. Ecco qui, in sintesi (di benessere), più o meno tutto. Compresa un’importante specificazione: si tratta di un progetto “attorno all’individuo”. Ecco cosa raffigurava quella statua in mezzo alla rotatoria: l’Individuo.

Il PDF da cui è tratta la citazione contiene naturalmente molti altri dati e informazioni. Per esempio che le residenze avranno una superficie lorda di pavimento complessiva di 44.000 metri quadrati, e che il Business Park offre 22.000 metri quadrati di superficie coperta, e circa 80.000 mq di superficie lorda di pavimento edificabile. Alle superfici edificabili, si aggiungono poi 78.000 mq “direzionali”, 3.000 mq commerciali, 11.000 mq accessori.

Se si osserva la planimetria generale del progetto, si nota un’organizzazione generale lungo l’asse nord-sud, perpendicolare e relativamente autonomo rispetto a quello della statale Rivoltana, col raggruppamento degli uffici a nord e, separata anche da uno spigolo del lago artificiale che da’ il nome al quartiere, la zona residenziale, inserita ai margini della grande area verde.

Un’area verde che, a parte gli standards ovviamente vantati dai promotori, è tutta farina di un altro sacco. Siamo infatti sui margini settentrionali del metropolitano Parco Sud (come si capisce anche da qualche stralcio di paesaggio), e soprattutto in una delle località dove la Regione Lombardia, settore Agricoltura, ha promosso l’iniziativa delle cosiddette “foreste di pianura”.

La Foresta

Il Bosco della Besozza (da nome della cascina) copre una superficie di 37 ettari, che sarà interessata da interventi di riforestazione e altre operazioni di ri-costruzione del paesaggio. Come ci spiega il sito del settore regionale competente, il progetto generale si articola in:

E scusate se è poco, a un chilometro a sud dei laghetti di cigni artefatti e minuscoli di Milano Due, e dai pezzi di Parco Lambro via via ritagliati dall’espansione edilizia. Una Milano Due bis, o ter, o quater, almeno negli effetti sull’intorno, che il progetto Malaspina poteva anche diventare, a suo tempo (e fino a non molto tempo fa).


La Foresta della Besozza, planimetria generale

Cosa doveva essere

I circa settecentomila metri quadrati di questo terreno a Limito di Pioltello, al confine con San Felice di Segrate, sono conosciuti da queste parti col nome di Bica. Potrebbe sembrare il solito toponimo da cascina, o corso d’acqua, e invece è una sigla. Sta per Beni Immobili Civili e Agricoli, ovvero il fondo previdenziale dei dirigenti Montecatini (il buon Bianciardi ci scriverebbe un thriller, fosse ancora vivo). Gli immobili Bica sono acquisiti negli anni Ottanta, da nientepopodimeno che Edilnord, ovvero Berlusconi, che nello stile diventato poi noto alle cronache inizia a suo modo i processi di valorizzazione.

L’idea iniziale è di realizzare un complesso per uffici con 12.000 occupati complessivi, sviluppato - pare di capire - a nastro lungo la statale. Cresce l’opposizione locale a quello che si capisce essere un progetto ad alto impatto su un territorio di prima cintura ancora ricco di potenzialità ambientali, ma già sovraccarico in termini di congestione da traffico e insediamento industriale. Con intrecci (ovvio: qui siamo anche fisicamente a Tangentopoli) giudiziari vari, e rinvii nella realizzazione, finalmente si arriva alla metà degli anni Novanta a definire una possibile soluzione, anche se di compromesso. Una variante al PRG del 1999 si riassume per questa zona in:


Progetto Malaspina L'area Bica nel PRG di Pioltello

Conclusioni e saluti

Ecco, solo per fare un esempio, da dove viene quell’orientamento perpendicolare ereditato dagli attuali promotori (che hanno rilevato le proprietà Edilnord), inusuale e certo diverso dal solito sviluppo a nastro che soffoca tutte le statali per decine di chilometri a diradare in tutte le direzioni. Certo, come si riconosce anche ufficialmente all’interno dell’amministrazione, si poteva anche fare di meglio. E aggiungerei io anche di meno, e magari pure da un’altra parte, visto che qui a fare da cesura col polmone del Parco Sud c’è già la cittadella “introversa” di San Felice, che nonostante tutto il suo privatissimo verde sembra comunque un corpo estraneo piantato in mezzo al paesaggio. Poi ci sarebbe anche da dire sulla scelta della netta separazione anche planimetrica fra il business park e le residenze: buono in un manuale di zoning degli anni Venti, con la sua certezza dell’investimento ed efficienza gestionale interna, lontanissimo da qualunque idea di città non strampalata. Certo si tratta di piccole dimensioni relative, ma trattandosi di un insediamento nuovo forse anche un progettista americano new urbanism, abituato a ben altre scale, storcerebbe il naso davanti ad un’occasione persa di mixed use.

Comunque, a quanto pare ce l’abbiamo e ce lo dobbiamo tenere, questo progetto Malaspina, con tutte le sue probabili barriere, visive e non, rispetto al resto del territorio, e col suo bel Monumento all’Individuo Ignoto sul cocuzzolo della rotatoria. Una forma attenuata di quanto pensato nelle brume metropolitane di pre-Tangentopoli, ma tutto sommato un’eredità di un modo sballato di pensare il territorio.

Certo, visto da un altro punto di vista, un successone, se si pensa a quello che succede “a dieci minuti d’auto”, ovvero nella ex Fiera, nella futura Fiera, o in tanti altri casi. Ma queste sono storie che si raccontano altrove.

Nota: le informazioni pubblicitarie generali sul quartiere sono disponibili al sito Progetto Malaspina. Il quadro generale del programma per le Foreste di Pianura sta al sito della Regione Lombardia, Settore Agricoltura . Il riassunto delle tormentate vicende dell’urbanistica comunale di Pioltello è desunto dal sito di una formazione politica locale, Lista per Pioltello. L’atmosfera degli appetiti sul territorio che ha caratterizzato e caratterizza Milano, l’area metropolitana, e tutto il resto, purtroppo non ha bisogno di indicazioni. (fb)

E’ del 10 dicembre 2003 il mio pezzo La rovina definitiva dello skyline milanese. Raccontavo del disastroso effetto della legge regionale cosiddetta “dei sottotetti”. Il 24 gennaio successivo “la Repubblica” ne pubblicava una versione ridotta sulle pagine di Milano. Si sono mossi i Verdi; il consigliere comunale Baruffi è intervenuto più volte; in eddyburg Mariacristina Gibelli ha fatto pubblicare (20 marzo) l’appello e la petizione del Gruppo consiliare dei Verdi; l’amministrazione comunale, vagamente spaventata dalle oscene apparecchiature edilizie più meno abbainiche e persino da interi piani (dotati a loro volta di sottotetto!) apparsi al di sopra dei cornicioni anche di bei palazzi Ottocento e Novecento, ha tentato di buttarla sull’estetica, impegnando per finta sé stessa e qualche collega solleticato in una fantomatica commissione a controllare meglio “d’ora in poi”, a bocciare un po’ di progetti; la Fondazione degli architetti milanesi (colleghi, questi, da me già segnalati per l’ambiguità del loro comportamento) ha dedicato una serata alla discussione del fenomeno (alla quale ho evitato di partecipare). Per dire come nomi emeriti, lì presenti, non abbiano capito nulla: Gae Aulenti, invece che contestare la legge e chiederne la cancellazione o la radicale trasformazione, l’ha buttata, anche lei, nell’estetica, nel mero disegno architettonico: i risultati non sarebbero buoni perché si farebbero abbaini di gusto ottocentesco e non coraggiosamente moderno! (riportato da “la Repubblica”). Grazie tante: i vecchi abbaini milanesi nei tetti di coppi, soprattutto in case popolari ora sparite o diventate irriconoscibili protagoniste di mercati a prezzi altissimi, appartenevano strettamente, armonicamente alla costruzione, erano semplici, contenuti elementi necessari a solai non destinati ad abitazione (come avveniva invece, ad esempio, in numerosi edifici torinesi nei quali, infatti, l’abbaino veniva realizzato secondo misure ben più ampie e sforava verso figure mansartiane francesi). Sarebbe dunque la mancanza di fantasia, di idea architettonica la responsabile? Ma via, non solo l’aggressione al cielo non si è fermata essendosi ridotto a mero, breve teatrino il pentimento del Comune, ma se ne vedono ogni giorno di tutti i colori, peggio di prima quanto a fantasia, perversa interpretazione della legge, liberismo anarcoide al puro fine dello sfruttamento massimo di superfici e volumi. Altro che gusto ottocentesco, cara Gae. A costo di ripetermi narro: tempietti accostati l’uno all’altro occupanti l’intero fronte, mezzi tuboni a schiera penetranti nella profondità del tetto opportunamente rialzato e reso ripido; nuovo semipiano finestrato oltre il vecchio cornicione e nuova base più alta di partenza del tetto a sua volta rimpinzato di “abbaini” per ottenere due piani d’abitazione in più, e altre creazioni di una nuova specie di “architettura”, quella pornografica, particolarmente adatta al compito di una città volta soprattutto al comprare e vendere.

Ed ecco, in merito al tema dei sottotetti, l’ultima notizia davvero sconcertante. E’ questa, in verità, la ragione che mi ha spinto a intervenire di nuovo.

Una strana “società”, denominata RIABITA 2004, sostenuta da alcune industrie edili medio-piccole, bandisce tramite la Rima Editrice un concorso nazionale “finalizzato all’individuazione e alla valorizzazione di recenti interventi di ristrutturazione relativi alla tipologia: mansarde e sottotetti”. Eccovi serviti, tutti voi dapprima fiduciosi in una naturale regressione del fenomeno. Sentite ancora: “La valutazione della giuria terrà conto del carattere innovativo dell’intervento (sottolineatura mia) sia sul piano tipologico sia del linguaggio…”. E la giuria? Stento a capacitarmene, ma i membri più autorevoli sono architetti e professori che conosco bene: Cesare Stevan, già preside per vent’anni alla Prima Facoltà di architettura del Politecnico, Amedeo Bellini, uno dei maggiori esperti nel campo della conservazione dei beni architettonici e del restauro, Antonio Piva, formatosi in riferimento alla cultura e alle opere di Franco Albini, Fabrizio Schiaffonati, già direttore del dipartimento “tecnologico” per la progettazione e produzione edilizie. Dunque? Come possiamo vincere a Milano le nostre battaglie per salvare i residui di funzionalità e bellezza che ancora qua e là presenta, se abbiamo nemici nelle nostre file?

Sull'argomento si veda anche Demolizioni e ricostruzioni, e Campagna tetti protetti - un appello per Milano

Marco Guerzoni mi ha mandato questi quattro testi, adoperati in differenti occasioni nella campagna elettorale:

La città di luoghi

Più case , meno cemento

Una nuova stagione urbanistica

Brandelli di urbanistica

La città di luoghi (26 febbraio 2004)

La lettura di Pentesilea, "città continua" di Calvino, mi dà la possibilità di affrontare il tema proposto in questa serata, dalla parte non tanto della città (le periferie sono l'esito di un processo relativo alla città in quanto tale) ma piuttosto dalla parte, per così dire, del territorio.

Mi pare di poter dire, e ne abbiamo discusso a lungo in questi ultimi tempi con altri amici e colleghi (e la letteratura è abbondante in materia), che sia indubbio ed evidente il processo di trasformazione che il territorio contiguo e fortemente relazionato alle città, che qualcuno chiama regione metropolitana, ha subìto negli ultimi anni del secolo appena trascorso. Una modificazione fisica innanzi tutto: il territorio metropolitano è più costruito, più infrastrutturato di ieri. I paesini si sono espansi. Le frazioni ospitano nuovi edifici residenziali. I casolari agricoli vengono progressivamente riconvertiti in edifici esclusivamente residenziali. I luoghi completamente naturali sono sostanzialmente scomparsi o ridotti a pochi frammenti relittuali.

Guardando a Bologna, alla sua pianura, è sufficiente ripercorrere - anche solo di anno in anno - la via Emilia, o la Persicetana, o la Galliera, per toccare con mano la trasformazione del paesaggio a cui mi riferisco.

Si tratta anche di una cambiamento sociale: è noto che la Città di Bologna sta espellendo residenti da ormai 3 decenni, a favore del territorio circostante, verso i comuni di cintura in una prima fase, e oggi questa "migrazione" procede anche nei municipi più lontani e nelle località più disperse e piccole del tessuto agricolo. La gente insomma, un po' per libera decisione e un po' per le imposizioni di una città sempre più inquinata, caotica e costosa, sta progressivamente lasciando Bologna per abitare il territorio vasto. Se ne vanno i ceti "medi", che ripopolano le campagna e i comuni della provincia, e rimangono i ceti "bassi" e quelli "alti", che per opposte ragioni possono permettersi la vita nella città.

Lo stesso, o quasi, vale per le attività produttive in senso lato: rimangono quelle a più alto profitto e se ne vanno quelle a più alto impiego di lavoro; rimangono o arrivano le boutiques e se ne vanno le botteghe, che tuttavia non si ricollocano nel territorio metropolitano, ma semplicemente spariscono, perché nel territorio metropolitano nascono i centri commerciali, gli shopping center, o i più recenti outlet.

Sembra quindi che si possa ragionare in termini di una relativamente nuova dicotomia: se nel dibattito "storico" sulle città i termini a confronto erano centro e periferia (o città e campagna), oggi i termini a confronto sembrano essere città consolidata (o città centrale) e regione metropolitana, cioè quell'intorno di relazioni, di vita e di produzione, piuttosto difficile da confinare con precisione, ma che nei fatti esiste, e che soprattutto viene oggi adoperato in maniera complessa, con relazioni pluridirezionali, in maniera erratica e non più sistematica. In altre parole un territorio che ha diverse funzioni collocate non solo nella città di Bologna per esempio, ma anche in molti altri luoghi della provincia, e che perciò viene percorso e vissuto in modo intenso e in diverse direzioni, per consumare e produrre, per dormire o svagarsi.

Vengo così all'oggetto della mio intervento. E' possibile che il territorio metropolitano che ho sommariamente richiamato costituisca - o rischi in futuro di costituire - una nuova forma di periferia? Possiamo cioè dire che le nuove forme dell'abitare metropolitano possano oggi o domani soffrire degli stessi mali di cui soffrono le periferie classicamente intese? E, in caso affermativo, esistono indirizzi per limitare, circoscrivere, questi fenomeni?

Intanto bisogna subito dire che esiste una differenza sostanziale tra quelle che usualmente chiamiamo periferie e il territorio metropolitano. Le prime sono, in qualche modo, l'esito concreto di un certo tipo di governo, di una certa urbanistica, di certe decisioni amministrative. Il territorio metropolitano, nei contorni che prima ho richiamato, sembra invece l'esito, per certi versi, di un processo più spontaneo, meno governato, meno deciso.

Le decisioni ci sono state certo, perché ciascun comune della pianura bolognese ad esempio, ha deciso come e dove costruire, secondo le sue convenienze, le case, le fabbriche, le scuole, ma nessuno ha mai deciso per l'insieme dei comuni; intendo dire che se c'è stata una razionalità nella costruzione delle singole parti, dei singoli comuni, la composizione, la somma di queste singole "parti del tutto", non sembra dare un disegno complessivamente razionale: questo "spazio vuoto della decisione" sembra essere il luogo della spontanea formazione del territorio metropolitano.

Perciò bisogna riconoscere la diversità "genetica" di questi due differenti "mondi".

Ci sono ulteriormente 4 elementi, 4 temi, che possono aiutare a comprendere i fenomeni di cui parlo, le similitudini e le differenze.

L'accessibilità

La qualità

L'identità

I costi

L'accessibilità

La periferia è il luogo per definizione "poco accessibile", o meglio il cui accesso è più faticoso, perchè magari arrivano pochi autobus, perché il percorso a piedi per arrivare "in centro" o al lavoro, o a scuola, è troppo lungo e quello in bicicletta troppo accidentato. Perché l'automobile, in questo caso, è poco adatta se nel "centro" non puoi parcheggiare liberamente, o durante il tragitto il traffico snervante induce a continui ritardi.

Il territorio metropolitano, al contrario, è la "patria" dell'automobile. Tutti gli spostamenti, o la maggior parte, si svolgono con la macchina. Perché il trasporto pubblico non può arrivare ovunque e perché le necessità del "cittadino metropolitano" implicano spostamenti frammentati, a volte imprevedibili.

La periferia poi è il luogo in cui non si hanno i servizi sotto casa, per cui bisogna spostarsi per andare a far la spesa, o dal medico, o per andare a scuola. Più questi spostamenti sono complessi e lunghi, più siamo "perifierici". La stessa condizione, anche se a scala diversa, si osserva nel territorio metropolitano, ma ancora una volta gli spostamenti necessari avvengono generalmente con l'automobile e per percorsi più lunghi

L'identità

La periferia è un luogo, passatemi il termine semplicistico, senza storia o con "poca storia". Sono luoghi di relazioni labili, di un vicinato che fatica ad essere amichevole. In cui la "produzione sociale" è complicata, poco agevole. Ci sono a Bologna (ma anche in altre città) esempi di "periferie consolidate", "periferie storiche", la cui identità è riconoscibile: ma quelle sono diventate, per così dire, nuova città (non sono più periferie), in ragione di una buona progettazione, di buona dotazione di servizi, cioè di "buone decisioni pubbliche".

Il territorio metropolitano è formato da luoghi con importante identità. Le frazioni rurali, i capoluoghi e i nuclei dei comuni sono, nella stragrande maggioranza dei casi - almeno qui a Bologna - luoghi con una storia importante, riconoscibili, identitari. Ma il territorio metropolitano è anche "colonizzato", passatemi il termine, da "nuovi luoghi" e da "non luoghi" (nuove zone residenziali isolate nella campagna; isole commerciali; cittadelle sportive; grandi complessi cinematografici multisala ecc). Non voglio dilungarmi su questi fatti ma solo dire che il territorio metropolitano oggi è eterogeneo, fortemente eterogeneo, al punto che spesso le funzioni insediate nelle sue diverse parti tendono a confliggere le une con le altre, a generare cioè "zone critiche".

La qualità

Qui dico veramente poche cose e banali, per questioni di tempo. Le periferie sono spesso prive di qualità formale ed estetica. Poche periferie si possono dire "belle". Sono poco curate, progettate "in economia", poco manutenute. Il paesaggio urbano spesso è per nulla affascinante.

Il territorio metropolitano, e qui mi riferisco specificamente a Bologna, grazie alla sua storia e alle sue diversità è ricco di "paesaggio" e in qualche modo anche di "bellezza"; ma tuttavia, per i fatti che ricordavo poco fa, la metropolizzazione di questo territorio tende a far scomparire progressivamente questi connotati. C'è una tendenza continua a compromettere il tessuto agricolo e quello storico testimoniale; a corrompere, passatemi il termine, "l'identità dei luoghi".

I costi

Ultima questione, molto brevemente. I costi legati a differenti "modi di abitare".

Si può dire che esista una discriminante economica che divide le periferie dal territorio metropolitano: i costi che la collettività sopporta, direttamente o indirettamente, per conseguenza dei due diversi "modi di abitare".

Dicevo prima che il territorio metropolitano è la "patria" dell'automobile. Questo vuole dire che nel territorio metropolitano si consuma proporzionalmente più energia che nella città "compatta": più carburante per gli spostamenti, e quindi si produce più inquinamento. Ma gli spostamenti massicci danno origine anche ad altri costi: per esempio l'incidentalità stradale, che sappiamo essere una piaga di dimensioni rilevanti.

Certo, anche nella città consolidata e nelle sue periferie, si consuma parecchia energia per gli spostamenti, perché comunque l'auto è adoperata; e pure anche gli incidenti stradali avvengo. Me esiste una differenza: che nella città "compatta" i sistemi di trasporto pubblico - cioè i servizi in grado di porre rimedio al problema dell'inquinamento e dell'incidentalità - sono competitivi con il trasporto privato, cioè con le automobili: lungo un chilometro di periferia cittadina si intercettano molti più utenti potenziali che in un chilometro di territorio metropolitano, e di conseguenza i costi unitari del trasporto pubblico sono assai minori in città; e ciò permette di costruire sistemi e politiche per la mobilità più capillari ed efficienti, quindi più competitivi. Il territorio metropolitano se procederà nella sua costruzione "spontanea", al contrario, non consente e non consentirà queste efficienze.

Conclusione

Concludo, cercando di rispondere alla mia domanda d'apertura (i territori metropolitani sono o rischiano di diventare nuove periferie?).

Io credo che oggi, i territori metropolitani non siano ancora "periferie", ma la tendenza a diventare "periferie" esiste, è concreta e reale.

Il territorio metropolitano rischia di diventare nuova periferia se non si governano i processi spontanei. Attenzione, non voglio dire che bisogna impedire i processi spontanei, bisogna governarli, cioè serve più capacità di governo e più governo pubblico specialmente in relazione ai 4 temi richiamati: cioè governare l'accessibilità e la mobilità, trovando le convenienze e i modelli insediativi metropolitani idonei a rendere competitivo il trasporto pubblico; è necessario progettare e pianificare per aumentare e non ridurre l'identità e la qualità dei luoghi. E' infine necessario ripensare, riformare, il sistema della fiscalità locale, per trovare nuovi equilibri e sistemi compensativi, tra costi e benefici delle diverse funzioni di questi territori metropolitani. Certamente è poi fondamentale ridare qualità "al centro", alla città compatta, per vivere meglio anche nel territorio metropolitano.

Insomma, e chiudo veramente, mi pare che progettare il futuro delle nostre aree urbane significhi, per usare uno slogan, pensare ad un sistema relazionale e interdipendente di più luoghi: una città di città.

Più case , meno cemento (8 aprile 2004)

Qualche tempo fa, in una trasmissione televisiva, mi è capitato di ascoltare un esponente del Governo della Repubblica e un esponente dell’opposizione parlamentare, concordare sul fatto che il “problema della casa” in Italia è una “bomba a orologeria”, che prima o poi mostrerà la sua forza dirompente. Lo stesso esponente del Governo (per la cronaca si tratta di Mario Baldassarri, viceministro dell’Economia) faceva seguire a questa cruda osservazione una soluzione semplice: per risolvere il problema della casa in Italia bisogna costruire più case!

Devo dire che se qualcuno cercasse ancora motivi per distinguersi dalla destra di governo, questo è certamente un buon argomento: sostenere infatti che oggi il problema abitativo delle famiglie italiane si risolva con l’incremento massiccio di edilizia residenziale è un atteggiamento retrogrado, populista e rozzo, connotati questi, tipici appunto di quella destra che oggi sta al governo.

Perché basta leggere qualche dato, nella prospettiva storica, sulla dinamica delle famiglie, del lavoro e delle abitazioni per capire che la massiccia edificazione di case, la massiccia urbanizzazione del territorio, c’è già stata (e continua ad esserci) ma ha risolto solo parzialmente il problema abitativo degli italiani; non ha dato risposte alle esigenze dei cittadini migranti; sta impedendo la mobilità delle forze lavoro che per le esigenze occupazionali si spostano sul territorio nazionale; sta selezionando drasticamente la popolazione universitaria, respingendo coloro che, pur nella volontà di formarsi presso gli istituti pubblici non possono permettersi gli affitti delle città universitarie: tutto questo, che già non mi pare un bel risultato, è avvenuto compromettendo in modo grave l’equilibrio del territorio e dell’ambiente, gravità cui oggi si risponde con l’ennesimo infame condono edilizio.

Allora, cerchiamo di essere seri: si tratta non tanto di aumentare ulteriormente e indiscriminatamente la dotazione di case, ma semmai di usare con maggiore efficienza il patrimonio edilizio e di suoli urbanizzati, già esistente, tramite processi di ristrutturazione, di riqualificazione, di ridimensionamento, intervenendo prioritariamente sui suoli cittadini già urbanizzati e defunzionalizzati: si tratta cioè di organizzare forti politiche pubbliche, capaci di mobilitare le leve della fiscalità locale per incentivare i comportamenti virtuosi e penalizzare quelli speculativi.

Qualcuno attribuisce a queste posizioni la volontà di impedire lo sviluppo del settore delle costruzioni e dell’indotto che esso produce: sono, queste, affermazioni fuori dalla realtà. Non si tratta infatti di chiudere la produzione edilizia, e di ignorare la ricchezza materiale che essa produce, ma di indirizzarla verso innovazioni di processo e di prodotto che garantiscano l’occupazione e le imprese, nel rispetto delle esigenze di vivibilità della collettività e dell’equilibrio ambiente.

Come dicevo, per comprendere l’inconsistenza della tesi di chi propone un futuro con più cemento per risolvere il problema della casa, bisogna ricordare che la superficie urbanizzata di Bologna negli anni cinquanta era di circa 1.400 ettari; negli anni ottanta è aumentata fino a 3.800 ettari e oggi, nel duemila, la superficie urbanizzata di Bologna è di oltre 5.800 ettari: questo significa che in cinquant'anni il suolo costruito (le case, le strade eccetera) si è praticamente quadruplicato, e la sua incidenza sul suolo agricolo o "non urbano" (cioè la collina, le aste fluviali e gli ultimi cunei agricoli) è passata dal 10% degli anni cinquanta a oltre il 40% di oggi: una crescita che non ha eguali nella storia di questo territorio.

Significa anche che un cittadino bolognese solo vent'anni fa - negli anni '80 - aveva a disposizione in media, circa 80 metri quadrati di suolo urbanizzato mentre oggi ne ha a disposizione oltre 150, cioè quasi il doppio.

E ancora, oggi a Bologna ci sono quasi 4 mila famiglie in meno rispetto a 20 anni fa ma ci sono 6 mila case in più.

Questi dati parlano chiaro dunque: l’abbondanza di suoli costruiti e di stock di abitazioni è evidente, così come è evidente che questa abbondanza non sembra rispondere con efficienza alla domanda abitativa della città; altrimenti non si spiegherebbero i problemi e le crisi ben documentati da Valerio Monteventi nella sua relazione.

Allora che fare?

Intanto bisogna distinguere il problema abitativo nelle sue diverse componenti, e riconoscere che esiste ancora, ed esisterà in futuro, una frazione consistente della domanda abitativa cui solo l’intervento pubblico può rispondere: l’edilizia residenziale pubblica è, in questo senso, una risorsa strategica che va incrementata e razionalizzata, e non ridotta e svenduta

Bisogna operare un rigoroso controllo e una ferrea valutazione dei processi di dismissione e alienazione del patrimonio di edilizia pubblica, per impedire che il prezioso capitale sociale accumulato in questi anni, vada disperso. L’alienazione del patrimonio pubblico è da considerarsi un attività “straordinaria”, e non una politica cui ricorre sistematicamente: l’alienazione può essere accettata solo quando sia utile a generare realmente altro capitale sociale, e non “flussi di cassa”.

Il reperimento di quote, in termini di “superficie edificabile”, da destinare all’edilizia sociale deve essere affrontato anche a partire da condizioni negoziali - tra il Comune e i proprietari delle aree - marcatamente differenti dal passato. Nelle zone di trasformazione o di espansione urbana, che producono elevata rendita privata, è necessario “pretendere” quote significative e consistenti di superficie utile da non destinare al libero mercato della residenza, ma ad altre forme: edilizia sociale “pura”, a quella convenzionata, a quella per l’affitto concordato permanente e “a tempo”; all’edilizia cooperativa a proprietà indivisa.

Per ciò che riguarda l’affitto a libero mercato bisogna prendere atto della sostanziale inefficacia della legge 431/98, quella dei così detti “canoni concordati”. Il numero di contratti siglati con le fattispecie previste da questa legge è irrisorio, e le “calmierazioni” ottenute sono ancora troppo basse rispetto al tenore del mercato di Bologna. Nella speranza di una radicale riforma di legge, bisogna intanto agire su alcune leve possibili:

su quelle fiscali, per premiare i comportamenti virtuosi e penalizzare quelli speculativi.

Bisogna poi, al di là di quanto prevede la legge, promuovere un vero “patto tra amministrazione pubblica, parti sociali e imprenditori”: se il fine di tutti deve essere quello di creare migliori condizioni di vivibilità, per assicurare le “utilità” di ciascuna parte, è indubbio che sia urgente riconoscere che queste condizioni sono legate anche alla “ricchezza delle famiglie” e perciò, implicitamente, all’incidenza dei canoni di mercato sui redditi. Bisogna cioè intervenire per regolare il mercato, proporre una disciplina certa e stabile, perché esso diventi un vero mercato e non un cartello che specula su un diritto fondamentale di cittadinanza: il diritto alla casa.

La questione dell’università e degli studenti. La condizione di forte presenza di studenti fuori sede, nel mercato bolognese, produce evidenti distorsioni, perché dalla “competizione” tra la disponibilità a pagare degli studenti che oggi si possono permettere di studiare (assieme alla loro, diciamo così, “flessibilità” abitativa) rispetto alla disponibilità a pagare delle famiglie, dall’altra parte, ne è conseguito un aumento straordinario degli affitti e una progressiva esclusione dei segmenti sociali più deboli e oggi anche delle classi medie, sia nel contesto degli studenti che in quello delle famiglie residenti.

Fermo restando la necessità di rilanciare, con l’università, una politica di assistenza e di tutela per gli studenti in condizioni di specifiche necessità, è opportuno agire su due fronti:

dare consistenza pratica al decentramento universitario alla scala metropolitana, favorendo questa delocalizzazione con le garanzie di una efficiente mobilità permessa dall’entrata a regime del Servizio Ferroviario Metropolitano e dei trasporti urbani di massa;

operare “iniezioni”, consistenti e diffuse, di edilizia speciale (tipologie specifiche per la residenza degli studenti) destinata al libero mercato, integrata con la struttura urbana e con i suoi servizi, al fine di dirottare quote massicce di studenti “fuori” dal mercato abitativo “per le famiglie”, incentivando i privati ad intervenire in questo settore e riproponendo meccanismi di convenzionamento per una parte del nuovo realizzato.

Non mi soffermo su altre proposte perchè Valerio Monteventi le ha già anticipate. Solo un ultima considerazione. Chi paga?

Chi paga è la domanda che sempre si pone quando si tratta di dare servizi pubblici e di governare un territorio. Perché oggi la casse dei comuni sono sempre più vuote e i canali di finanziamento statale son sempre meno generosi.

A me pare che in queste condizioni di forte contrazione della capacità di spesa pubblica sia necessario stabilire delle priorità, escludendo dalla lista le attività meno prioritarie o addirittura inutili.

Allora bisogna dire con forza, per esempio, che la metropolitana che Guazzaloca sta ostinatamente portando avanti non è una priorità! Si potrebbe cominciare da qui a riprogrammare il finanziamento delle attrezzature pubbliche e delle politiche sociali.

Una nuova stagione urbanistica (3 giugno 2004)

Nei giorni scorsi su un giornale cittadino si leggeva che uno dei meriti maggiori della giunta Guazzaloca è stata la continuità con un percorso politico tutto sommato già in essere. Si parla di un’amministrazione che non ha portato cambiamenti forti alla città, che ha governanto dinamiche considerate ineluttabili; che non ha perciò provocato schok ai cittadini.

E dunque “il continuismo” sembra essere di per sé un valore positivo, almeno per alcuni osservatori e alcuni politici.

Io non sono – in nulla – d’accordo con questa tesi. Questo Sindaco, che io mi auguro torni presto alla tranquillità della vita privata, è il simbolo della degenerazione di errori commessi in passato. Altro che continuismo positivo…

Bologna ha un Piano Regolatore che è del 1989. Per questioni complicate che non sto a raccontarvi, tutte comunque legate alla politica e agli interessi economici che alla fine degli anni ottanta si scontrarono drammaticamente, il nostro Piano Regolatore, tutt’oggi vigente, ha delle previsioni di crescita fisica della città molto grandi. Cioè si era prevista una crescita dell’economia e uno sviluppo demografico che nei fatti non si è verificato. Perciò ci troviamo oggi con un residuo di suoli edificabili, molto consistente, che in assenza di una forte ripresa demografica e un’altrettanto forte impulso dello sviluppo produttivo, sarà difficile utilizzare completamente anche nei prossimi anni.

Nonostante questa condizione, la Giunta Guazzaloca ha appena deliberato una proposta di nuovo Piano Regolatore (che oggi, in base alla nuova legge, si chiama Piano Strutturale), che raddoppia di fatto le capacità residue del vecchio Piano, prospettando in questo modo un futuro in cui il libero mercato potrà costruire qualcosa come 20 – 25 mila nuovi appartamenti.

Per capire il tenore di questa ondata di cementificazione bisogna dire che oggi a Bologna si costruiscono mediamente 500-600 alloggi l’anno: significa che a questi ritmi, se non si intervenisse per interrompere il processo proposto dalla giunta Guazzaloca, verrebbero ipotecati i prossimi 40 anni di sviluppo a Bologna. Una condizione che impone alle forze progressiste di alzare la voce per opporsi in modo radicale a questo stato di cose, e ai cittadini di manifestare il loro dissenso il 12 e il 13 giugno prossimo, nel decisivo appuntamento elettorale.

Nonostante le ampie possibilità di costruzione offerte dal Piano Regolatore vigente, dalla seconda metà degli anni ’90, si è cominciato ad usare uno strumento urbanistico che nella sua natura doveva servire per “riqualificare” parti della città particolarmente sofferenti, dal punto di vista dei servizi, del verde, della casa ecc.

A Bologna invece si è interpretato questo strumento come un modo facile e speditivo per rendere edificabili alcuni suoli che il Piano Regolatore aveva molto oppoprtunamente scartato, per trasformare piccoli magazzini, per riempire vuoti interstiziali, e molto raramente per trasformare zone produttive dismesse in strutture e funzioni rispondenti alle domande della collettività. Perché le trasformazioni operate in questi anni, avvenute col nome di riqualificazione, sono state – quasi esclusivamente – orientate a costruire residenza per il libero mercato della vendita, a prezzi così alti che oggi Bologna è in cima alle classifiche delle città in cui le case costano di più. Questo tipo di riqualificazione, invece di sgravare la città dalle condizioni di un certo affaticamento, ha imposto pardaossalmente ultireriori condizioni di stress alle zone interessate dalle trasformazioni.

Le quantità edilizie messe in gioco, con questa riqualificazione, investono complessivamente quasi 110 ettari di suolo cittadino, per una capacità edificatoria di 320.000 mq si superficie, della quale il 70% destinata a residenza, che tradotto significa circa 2.500 - 3.000 nuovi alloggi. Di cui, ripeto, solo un numero irrisorio (sotto al 3-4%) è stato dedicato all’affitto a canoni fuori mercato.

Non bisogna pensare che in occasione di questa campagna elettorale, le attività speculative si siano non dico arrestate, ma per lo meno congelate. Basta leggere i giornali per rendersi conto che l’amministrazione comunale continua a mietere progetti da approvare con urgenza straordinaria, per sdoganarli prima della chiusura del mandato: ecco allora che sorgeranno torri in via della Villa – nella zona fiera; che sorgeranno appartamenti e un hotel nell’area ex SEABO; che si promettono parcheggi multipiano alla STAVECO; che al posto dell’ex mercato ortofrutticolo si costruirà di tutto fuorchè strutture e servizi utili alla bolognina e strategiche per la città metropolitana, vista la stretta relazione con la stazione ferroviaria, che si appresta a diventare una delle più trafficate d’Italia.

ALLORA CHE FARE?

Intanto bisogna ridiscutere subito le proposte contenute nel nuovo Piano Strutturale, per impedire ulteriori speculazioni sui suoli vergini, agricoli, naturali.

Biasogna puntare sulla vera riqualificazione - dentro al Piano Strutturale - dei tessuti già edificati e oggi dismessi: quella riqualificazione che ha il coraggio politico di togliere cemento per far spazio al verde e ai servizi; la riqualificazione che pone al centro dell’edificazione non solo la rendita privata dei legittimi proprietari ma anche e soprattutto il dramma dei cittadini che cercano case a costi regionevoli. Una riqualificazione che deve avvenire all’interno di un disegno organico per la città, una prospettiva cioè che solo un Piano Strutturale può garantire.

Terzo punto, e ho finito. Sembra incredibile, ma Bologna non ha ancora un Piano dei Servizi, non ha cioè un programma pluriennale che in base alle previsioni di sviluppo edilizio e socio economico, e in base alle necessità di ciascun quartiere, predisponga in tempo, gli asili nido, le scuole materne, i parcheggi, le aree verdi e tutta la gamma di servizi necessari ad una vita dignitosa. Questa situazione non può protrarsi ulteriormente: un bilancio e un conseguente piano dei servizi è oggi una delle priorità per Bologna.

Brandelli di urbanistica (da “Ciao, Bologna”, Angeli, 2004)

«Esistono due modi per uccidere: uno, designato apertamente col verbo uccidere; l’altro, quello che resta di norma sottinteso dietro il delicato eufemismo: “rendere la vita impossibile”. È la forma di assassinio, lenta e oscura, consumata da una folla di complici invisibili. È un “auto-da-fé” senza “coroza” e senza fiamme, perpetrato da un’Inquisizione senza giudici né sentenza [...]».

(Eugenio d’Ors, La vie de Goya) [1]

1. La «vita impossibile» dell’urbanistica

Ci sono segnali – non pochi e non nascosti – che portano a ritenere l’attuale condizione del governo del territorio e delle città, in crisi non solo «di fatto» ma anche «di principio».

È evidente, perché esplicita, epidermica e documentata, che la vivibilità di molti territori e di molte città del Paese non ha subito, nell’ultimo decennio, «balzi in avanti», come si era sperato quando la coscienza civile, risvegliatasi dopo gli anni delle truffe e delle tangenti ai danni del territorio (e quindi della collettività), sembrava aver indicato con determinazione la necessità di un cambiamento profondo, anche per conseguenza dell’emergere dei cosiddetti «temi globali»; condizioni che imponevano al nostro Paese, alla sua classe politica, a quella imprenditoriale e a quella intellettuale, di riformare il patto con i cittadini: lo Stato doveva riprendere possesso del governo delle trasformazioni, dopo gli anni del liberismo selvaggio, ma soprattutto dopo gli anni del banditismo politico connivente con le mafie e i sistemi criminali.

L’inizio degli anni ’90 quindi, per certi versi, è stato l’espressione quasi euforica della volontà di riscatto, e sarebbe lungo e qui inopportuno elencare i fatti che documentano questa ripresa civile.

Altrettanto complicato è spiegare il perché del fallimento sostanziale di questo tentativo di rinascita. Perché l’euforia si è presto consumata, la corruzione quiescente si è riattivata, e non hanno tardato a risvegliarsi il brigantaggio e le ruberie ai danni del territorio; mentre una «nuova» forma di comportamento socio-economico si è affacciata: il «neoliberismo deregolativo».

Ma se i fatti, i comportamenti, e gli esiti di questo stato di cose sono – purtroppo – sufficientemente noti e prevedibili, la novità preoccupante di questa «nuova ondata» – quella che stiamo vivendo in questi ultimi tempi – è il riconoscimento delle sue prassi come «socialmente accettabili»: la prassi, cioè, si candida a modificare, piegandolo o spezzandolo, il «principio» e spesso anche la «norma», che originano e sottendono il governo urbano e territoriale.

È una prassi che trova la sua natura nella filosofia individualistica che il neoliberismo impone, secondo la quale la somma dei comportamenti privati, liberamente competitivi, genera benessere, privato e in fine collettivo; che affonda le sue radici nella concezione dell’inesauribilità delle risorse naturali; che impone la coercizione come principio educatore.

La città e il territorio, nella cultura occidentale, non sono però, in alcun modo, l’esito formale e sostanziale di una siffatta prassi, al punto che in tempi ormai lontani questi stessi comportamenti hanno rappresentato la «patologia» per cui è collettivamente maturata la necessità di formare una disciplina – l’urbanistica – che potesse rimediare a queste deviazioni, che avevano reso invivibili quei luoghi in cui gli uomini avevano deciso di convivere democraticamente (le città).

Oggi, questa prassi sembra non essere più patologica, ma organica o per così dire «endemica». È come un parassita che si è innestato nel corpo dello Stato e sembra in paradossale simbiosi, producendo dissesto, congestione, inquinamento, saccheggio, segregazione, che gli «anticorpi» non riconoscono più come malattie ma come manifestazioni normali, di un organismo sano.

L’urbanistica, in questo senso, non è stata assassinata: è il bersaglio di uno stillicidio poco eclatante, ma sistematico e scientifico, diretto a comprometterne gli organi vitali, tramite un anestetico che rende questo declino «socialmente accettabile».

2. Bologna, dal «mito» al «rito»

Bologna ha preso in pieno, e nel verso peggiore, il vento del «neo-liberismo deregolativo» spirato negli anni ’90, sull’urbanistica e sul governo del territorio.

Ci sono stati, è vero, in quegli anni, anche lampi di luce, e belle speranze, di cui lo Schema direttore metropolitano è certamente un esempio, così come lo sono stati i tentativi di governare certe trasformazioni della città con strumenti di valutazione ambientale all’avanguardia.

Ma il vento di scirocco ha ridotto drasticamente la portata e l’efficacia di quegli strumenti, ha inghiottito l’entusiasmo delle donne e degli uomini che ne furono gli artefici; ha seccato e poi bruciato le radici riformiste da cui quegli strumenti erano cominciati a fiorire.

L’analisi necessaria a dar conto dei motivi di questa disfatta è complessa e, probabilmente, nemmeno alla portata di chi scrive. Ma su un fatto bisogna riflettere: quale sia stata l’utilità sociale, cioè il «profitto collettivo», che dieci anni e oltre di smantellamento delle «rigidità» e delle «ingessature», dei «lacci e lacciuoli», connaturate – secondo taluni – all’urbanistica e al governo del territorio, hanno prodotto per la città e per i cittadini che la vivono.

E ancora bisogna domandarsi dove stiano le responsabilità, in quale anfratto sociale o in quale istituzione, in quale processo economico e in quali interessi si nascondano gli errori, le omissioni, le ingenuità e le infatuazioni, che hanno compromesso il rilancio della città del «mito urbanistico», e dove, in fine, ci sia terreno fertile per ricominciare.

Perché bisogna ricominciare, per progettare un nuovo futuro, da dove si è smesso il «mito» ed è cominciato il «rito», quello della contrattazione senza garanzie democraticamente validate e codificate, senza strumenti e obiettivi strutturali, che ha svuotato i Consigli comunali del potere assegnato loro dalla Costituzione repubblicana; quel «rito» che ha distorto e piegato il senso delle operazioni volte a riqualificare tessuti urbani defunzionalizzati, a «costruire sul costruito» e a chiudere definitivamente la stagione dell’espansione urbana verso suoli vergini.

Bisogna chiedersi perché, nonostante Bologna non sia mai stata un polo della grande industria, e di conseguenza non abbia subito, nei tempi recenti, fenomeni di dismissione produttiva o di crisi funzionale di grandi comparti urbani, di dimensione in qualche modo paragonabile a quelli vissuti in altre aree del Paese (per esempio a Napoli-Bagnoli, o a Sesto S. Giovanni), essa sia stata martellata per troppi anni da una costante e unica attività «urbanistica»: quella della «riqualificazione speculativa».

L’attività di sostituzione e ridefinizione funzionale di tessuti già urbanizzati o interstiziali attraverso interventi di media e piccola dimensione ha prodotto infatti, in questi ultimi anni effetti di non secondario rilievo, sia dal punto di vista delle quantità messe in gioco dai programmi complessi realizzati o in fase di realizzazione (in totale quasi 3.000 alloggi), sia dal punto di vista dell’impatto che la sommatoria di questi nuovi fatti urbani ha generato (e genererà) sulla città.

Una prima questione riguarda dunque l’intendimento circa la «semantica della riqualificazione» in un area priva di evidente e significativo degrado, almeno non nei termini con cui ci si misura in altri luoghi del Paese o d’Europa.

A questo proposito è utile ricordare che negli anni ’90 un motivo fondamentale – o forse strumentale – che ha indotto ad inserire nella disciplina urbanistica nazionale e poi regionale gli strumenti di programmazione complessa, era il fattore «tempo»: a fronte delle modificazioni del paradigma tecnico-produttivo a cui si è assistito negli anni ’80, molte aree industriali storiche del Paese erano entrate in una fase repentina di declino e conseguentemente molte città dovettero rispondere alle esigenze di riconversione di grandi comparti, spesso incuneati nel tessuto urbano, in tempi utili ad evitare il degrado indotto da una dismissione prolungata.

Gli strumenti originati da questa necessità prevedevano quindi forme procedurali che dovevano essere più speditive di quelle ordinarie, e introiettavano la necessità di concertazioni negoziali che coinvolgessero risorse private: l’accettazione della deroga dallo strumento urbanistico generale e dalle sue procedure era sostenuta da argomentazioni di urgenza e dalla particolarità di ciascuna delle situazioni da affrontare che postulava l’opportunità di strumenti appositi e di trattative «caso per caso», anche non necessariamente inquadrate in un disegno urbanistico complessivo e «di lungo respiro».

Tali caratteristiche originarie si sono peraltro evolute negli anni ’90 fino a dare luogo ai programmi ministeriali più recenti in cui la dimensione strutturale e strategica e il lungo respiro sono di nuovo richiesti come requisiti fondamentali.

Le diverse interpretazioni che sono scaturite nel tempo, da questa evoluzione legislativa, hanno dato luogo a differenti comportamenti nella prassi urbanistica, sedimentati negli esiti concreti che oggi, nella stessa area bolognese, sono chiaramente riconoscibili, e che consentono agevoli valutazioni.

Un primo aspetto di questa «stagione urbanistica» riguarda, quindi, la completa assenza del rapporto fra le singole operazioni e una strategia urbana che fornisca motivazione e giustificazione dei singoli interventi: si tratta cioè, senza dubbio, di azioni indipendenti l’una dall’altra, che esauriscono la loro ragione nella mera trasformazione edilizia dell’area.

Le quantità messe in gioco, tuttavia, dimostrano che gli interventi di trasformazione sono di assoluto rilievo nella dinamica edilizia complessiva dell’area bolognese, relativamente all’ultimo decennio: si tratta di oltre 50 interventi [2], tutti in deroga dal Prg, che investono complessivamente quasi 110 ettari di suolo cittadino, per una capacità edificatoria di 320.000 mq di superfici utile, della quale 212.146 mq (66%) [3] destinata a residenza (soprattutto per il libero mercato della proprietà), a cui corrispondono circa 2.500-3.000 nuovi alloggi.

Per inquadrare il significato di questi dati è opportuno ricordare che il Prg vigente, nella versione adottata nel 1985, aveva calcolato un fabbisogno decennale di 5.600 alloggi, stima sostanzialmente non smentita dai dati della produzione edilizia, di poco superiore alla media di 500 alloggi l’anno per tutti gli anni ’90, che rappresenta bene la capacità effettiva di assorbimento dei nuovi alloggi da parte del mercato libero.

Con i programmi complessi, tra il 1998 e i giorni nostri si «aggiunge» così alla città un carico urbanistico pari a cinque/sei anni di attività edilizia.

Molti degli interventi per i quali si sono richiamate le procedure della riqualificazione, oltre a non lasciare intravedere un disegno urbano di riferimento, aprono uno squarcio sulle asserite situazioni di degrado urbano (ambientale, o sociale, o funzionale) da riqualificare. Nei fatti, numerosi degli interventi proposti agiscono su aree completamente inedificate, spesso destinate dal Prg a standard, con vincoli più volte reiterati e scaduti; le trasformazioni sembrano originati e motivate da problematiche importanti (vincoli scaduti), ma che hanno poco a che fare con la riqualificazione.

I tempi di trasformazione delle aree selezionate si sono rivelati del tutto simili agli strumenti di pianificazione ordinaria; ci sono, ad esempio, interventi selezionati nel 1997 che ad oggi debbono ancora trovare la definitiva concertazione tra le parti: condizione che rivela, definitivamente, l’inconsistenza della tesi secondo cui la concertazione e la deroga dal Piano, sono il mezzo più veloce per trasformare la città.

La «complessità» delle operazioni urbanistiche, sia in termini progettuali che di relazione con le diverse compagini sociali ed economiche, non ha movimentato risorse straordinarie.

La destinazione abitativa è stata largamente dominante in tutte le operazioni di «riqualificazione», ma paradossalmente non ha contribuito, se non in misura marginale, ad una politica per la casa, considerando che dalla concertazione si sono ottenute quote irrilevanti di edilizia sociale, a fronte di prezzi degli alloggi a libero mercato collocati costantemente ai margini più alti delle classifiche nazionali.

Si deve avere il coraggio allora di riconoscere l’inutilità, per la collettività, delle operazioni urbanistiche che in questi anni sono state nominate col termine «riqualificazione», per le quali si è abbandonata la prassi garantista della pianificazione a favore di un sistema di contrattazioni miopi e fuori dalla sovranità democratica delle assemblee elettive, ridotte drammaticamente a semplici organi di ratifica.

Questi fatti, per finire, non lasciano dubbi sull’opportunità di chiudere una stagione che ha fatto a brandelli l’urbanistica bolognese. Si tratta ora di riprendere un’altra strada, nella direzione della pianificazione.

[1]. È la stessa citazione che Antonio Gramsci, nel 1930, ha annotato su uno dei suoi celebri Quaderni del carcere.

[2]. Ci si riferisce alla somma degli interventi relativi ai bandi pubblici OdG 70 e OdG 136, concertati e non concertati.

[3]. Percentuale che diventa il 71% se si escludono dal conteggio due interventi che destinano ad attività produttiva l’intera superficie utile.

torna in cima

Premessa a un link - di Fabrizio Bottini

Tra gli infiniti punti di vista che offre la valle del Po, forse le confluenze dei corsi d’acqua minori nel grande fiume sono i più significativi. Eugenio Turri, descrivendo la Megalopoli Padana, ci invitava a leggere una lezione di geografia direttamente sul testo del paesaggio, ad uno di questi nodi, dove le acque limpide e azzurre di un affluente di origine alpina formavano una netta “V” con quelle giallastre del Po, frutto degli affluenti limacciosi torrentizi del versante sud. Tra questi particolarissmi snodi, spicca certamente quello in cui nel giro di poche centinaia di metri mescolano le acque nel grande fiume il Terdoppio, sceso dalle alture novaresi attraverso la Lomellina, e lo Scrivia, che dall’Appennino Ligure scende, attraverso le province di Alessandria e Pavia, fino a un larghissimo tratto del Po, attraversato dal bel ponte ad arcate metalliche della strada Sannazzaro dei Burgundi-Casei Gerola.

L’area definita dal corso dello Scrivia, che comprende tre regioni e tre province diverse, non contiene grandi centri metropolitani (a meno che si vogliano considerare tali, che so, Voghera o Alessandria, che tra l’altro sono ai margini del bacino vero e proprio), ma fa storicamente parte sia del “triangolo industriale”, sia di due grandi corridoi di traffico padani: il Voltri-Sempione e la fascia di bassa pianura Torino-Adriatico, che a Piacenza si articola tra i percorsi pedecollinare (Emilia) e padano vero e proprio (Cremona-Mantova-bassa padovana). Ed è, quella del bacino Scrivia, una centralità relativa che si esprime soprattutto per difetto, ovvero nell’essere questa terra luogo di passaggio, scambio, deposito. Anche e soprattutto di schifezze, a quanto pare.

Niente di particolarissimo, visto che ogni territorio ha le sue belle gatte da pelare in termini di grandi progetti e grandi oggetti buttati qui e là senza badare molto a dove cascano, ma qui la varietà, dimensione media e concentrazione sembrano davvero rilevanti. Soprattutto se paragonate al contesto geografico, ambientale, socioeconomico, tutto sommato da territorio di campagna o poco più, con ricchezze paesistiche notevoli e diffuse, e dove la ragnatela di impianti, reti, buchi, tubi, montarozzi, cinture, bretelle eccetera, spicca davvero più del “normale”. E le poche cose della zona di cui ci siamo già occupati sulle pagine di Eddyburg, ovvero le strutture commerciali a Serravalle e Montebello della Battaglia, sono davvero poca cosa rispetto al panorama generale.

Una cosa particolare, è la forma assunta qui dai comitati per il territorio, e dal sito web che ne rappresenta l’espressione: niente di più lontano dall’idea di NIMBY. Il concetto di NIMBY va infatti ben oltre l’acronimo facile da ricordare. Not In My Back-Yard (fatelo altrove, ma non nel mio cortile) rinvia infatti, quasi sempre e a tutto vantaggio dei soliti noti, ad un’idea tutta localistica, passatista, di pura resistenza passiva alla modernizzazione. In questo caso come in altri, a ben vedere basta cercarle nella realtà (o solo nel sito web) quelle parole, per scoprire che proprio non ci sono. Manca il NOT perché i comitati esprimono idee e proposte, non barricate in difesa di un vago passato felice. Manca il MY perché l’identità espressa è articolata, culturalmente, socialmente, e sul piano geografico-amministrativo. Infine quel BACK-YARD, il “cortile”, beh: quello è abbastanza grande da far passare a chiunque la voglia di pensare a prospettive anguste. Basta guardare la cartina, e vedere che il cortile comprende molte realtà amministrative, insediamenti, sistemi infrastrutturali. Insomma un bel modello di complessità.

E se si entra nel sito si scopre la faccia comunicativa di questa complessità, tematica e territoriale. Innanzitutto l’indice è doppio, appunto tematico e territoriale, e così si può scorrere la serie dei guai derivanti, che so, dall’Alta Velocità ferroviaria, oppure la serie completa dei guai che affliggono l’area di Tortona. Ed è solo l’inizio, perché i testi che si aprono dagli indici sono molto più (e molto altro) che segnalazioni, polemiche, appelli. Pur lontano da qualunque velleità o scimmiottatura “professionale”, il sito offre un’ampia tipologia di contributi, che attraversano tutto lo spettro, dalla locandina di convegno, alla nota locale, alla notizia di carattere più generale/disciplinare, all’informazione tecnico-scientifica ecc.

Alla faccia di chi, anche in buona fede, è convinto che dai comitati non si possa cavare altro che una confusa forma di esagitata partecipazione, che poi lo specialista dovrà distillare ... Beh, il resto potete immaginarvelo.

Naturalmente il lettore può non essere d’accordo con la mia opinione. Ma non posso farci niente, salvo invitare chi non lo conosce a farci un salto, al sito dei Comitati Scrivia. Pro o contro, per metodo o merito, ne vale certamente la pena.

Link al sito a cura dei del Comitati Scrivia

(foto f.b.)

Premessa a un link – di Fabrizio Bottini

Era già emerso, solo per fare un esempio, dalla nostra garbata polemica urbanisti/Micromega che potremmo titolare “Scusi, dove sta il territorio?”: ai partiti la questione dello spazio, urbano, territoriale, del come quando e dove trasformare, non pare importare moltissimo. E questo vale anche per altri aspetti che col territorio sono strettamente legati, come le forme di partecipazione locale e meno locale, o più prosaicamente gli indirizzi di spesa e il loro ovvio rapporto con il sistema della fiscalità. Perché sembra troppo facile, per esempio, enunciare un insieme di valori di riferimento condivisi, e poi escluderne di fatto alcune declinazioni appena esse assumono la forma tangibile di un investimento orientato secondo una direzione piuttosto che l’altra, dalle grandi infrastrutture, alla ricerca, ai servizi.

Succede anche alla sinistra, o meglio centro-sinistra, o ancora meglio declinazioni locali del centro-sinistra: nel territorio, dove i valori condivisi o concordati dovrebbero “avvitarsi” e interagire con la società e l’ambiente, essi sembrano invece spesso volatilizzarsi, sostituiti da quanto viene presentato come “pragmatismo”, o opzione che nulla ha a che spartire con quei valori, e che dunque si evolve in modo ad essi estraneo. È successo, anche nel caso dell’intreccio padano di opere pubbliche, e connesso sistema di partecipazione e consenso, di cui abbiamo riferito nell’articolo sull’autostrada Cremona-Mantova. Un progetto contraddittorio, inserito entro un contesto di strategie e investimenti ancora più contraddittorio, sul quale però non si sono riprodotti (come spessissimo accade) gli schieramenti destra-sinistra, nemmeno con le fisiologiche o patologiche correzioni del caso.

Accade allora che comitati territoriali già impegnati per alcune battaglie sull’ambiente e i trasporti, si trovino (quasi loro malgrado, verrebbe da dire) a doversi far carico direttamente di un impegno politico in senso stretto, presentando una propria lista alle prossime elezioni provinciali cremonesi, alternativa sia al centrodestra che al centrosinistra, soprattutto anche se non solo su temi “territoriali” (come la revisione del PTCP, in testa al programma in questo senso).

Dato che SOS padania è un nodo di flussi, e non una vetrina elettorale, lasciamo naturalmente e completamente ai lettori il giudizio sul programma, la lista, il suo contesto, limitandoci a riportare il link al sito, così come ci è stato segnalato dai responsabili.

Nello stesso modo, “simpatico” ma allo stesso tempo neutro, riferiremo in futuro di altre iniziative simili e dei loro sviluppi (comunque positivi, come tutti i veri sviluppi).

Qui l'articolo sull'autostrada ACME


Link al sito della lista Ambiente Territorio Società, con i programmi, le iniziative, gli eventuali aggiornamenti a cura dei responsabili

Caro Pirani,

lei stesso ha ricordato -all’inizio del suo articolo sulla Repubblica con il quale accusa Italia nostra di essere diventata “cieca”- le nostre battaglie per la salvaguardia di Venezia. Non ricorda forse che tra quelle battaglie c’era quella contro il progetto del grandissimo architetto Frank Lloyd Wright, per la costruzione della sua “piccola splendida casa”sul Canal Grande (che lei cita come altro esempio di “pregiudizio ideologico). Chissà, forse siamo ciechi dalla nascita.

Nel caso di Ravello, questa nostra cecità ci deriva da motivi precisi, che provo ad elencare per sua conoscenza e per conoscenza, spero, dei lettori di Repubblica:

Ravello è il tipico esempio di paesaggio che possiede una perfezione (transitoria certo, niente è immutabile) data dall’equilibrio tra aspetti estetici e funzionali, il risultato di una serie di fattori che tra terra, cielo, mare e opera dell’uomo hanno creato un equilibrio che, per il momento, non può migliorare se non per piccoli interventi minimali. Può solo essere conservato, curato, preservato. Non è certo un caso che Ravello ( come tutta la costiera amalfitana) sia protetto dall’Unesco come sito di importanza internazionale.

Eppure a Ravello si vuole costruire un auditorium per 400 posti. Un bel progetto anni settanta. Un progetto di grandi ambizioni e grandi costi. Firmato ( ma non è proprio così ) da un grande architetto, uno dei maestri dell’architettura contemporanea, Oscar Niemeyer. A dispetto della legge che non lo prevede, ed è questo il motivo fondante della nostra opposizione, del nostro ricorso al Tar. Del resto in questo clima di caduta generalizzata della legalità (le invierò il dossier della nostra rivista di maggio, dedicato a questo tema), forse, riflettiamoci insieme, non è un così grave errore fare riferimento alle leggi come garanzia.

Lei argomenta che in questa battaglia Italia Nostra è sola contro tutti. E’ vero. E’ un torto questo? Se non si fa parte di un coro si è ciechi? Italia Nostra privilegia il rispetto di una norma generale alla legge del caso per caso. Enfatizziamo il rispetto per la natura nei luoghi in cui si interviene. E si, abbiamo il coraggio dell’ opzione “zero” se le altre ci sembrano sbagliate e illegali.

Ringraziandola dell’attenzione che vorrà certamente porre a questa mia risposta, che gradirei veder pubblicata- almeno nelle lettere- resto sua

Desideria Pasolini dall’Onda

Presidente di Italia Nostra

PRIME VALUTAZIONI SUL CRITERIO ASSUNTO IN TEMA DI CONSERVAZIONE DAL NUOVO PRG DI ROMA

Il nuovo PRG di Roma, sia per l’importanza della città sia per l’autorevolezza dei consulenti, costituirà non solo per la capitale un indubbio caposaldo di riferimento che si porrà forse come suggello disciplinare nella variegata e spesso confusa cultura urbanistica dell’ultimo decennio ma certamente sarà anche oggetto di attenta valutazione da parte degli urbanisti più sensibili all’evoluzione della disciplina proprio per i suoi contenuti metodologicamente innovativi e per l’originalità di non poche impostazioni progettuali. Tale PRG indubbiamente inoltre costituisce, nel bene o nel male, un precedente autorevole e talvolta significativo a cui la prassi o il “mestiere” professionale potrebbero, come spesso accade, richiamarsi per attingervi suggerimenti ogni qualvolta è in gioco il tema della pianificazione urbana delle nostre città.

Non sempre, però, riferirsi alla metodologia del PRG romano è auspicabile.

Nel campo della conservazione della città storica notevoli spunti di riflessione critica, raramente positivi, presentano gli elaborati di analisi e di progetto ma, soprattutto, sono le norme tecniche di attuazione che maggiormente lasciano a desiderare, a prescindere dalle modifiche successivamente introdotte dalla reggente legge obiettivo n° 443 del 21.12.01 che dal 10.04.02 deregolarmenterà molti interventi con la cd procedura della “super DIA”.

Appare subito evidente, nel come viene affrontato il tema del recupero della città storica, l’intento dei consulenti di superare il tradizionale criterio operativo che si esauriva quasi sempre nel declinare una gamma di interventi conservativi riferiti soprattutto al singolo edificio, in forza di specifici giudizi di carattere architettonico-ambientale.

Con il nuovo PRG viene, infatti, proposta la logica della conservazione e valorizzazione degli edifici partendo anzitutto dai “tessuti urbani”, considerati come matrice fondamentale e primaria, solo attraverso i quali è possibile distinguere come e dove intervenire per meglio far convergere le soluzioni di dettaglio nei diversi casi di studio, siano essi riferiti a edifici, spazi aperti o singoli ambiti di valorizzazione. Tutto ciò, in linea di principio è del tutto accettabile ed operativamente altrettanto condivisibile per la sua impostazione sia metodologica che culturale.

Tali considerazioni, tuttavia, cambiano, come già detto, quando in concreto si vanno a valutare nel merito le singole prescrizioni delle NTA e le relative conseguenze operative.

L’articolo 20 delle citate norme sottolinea, ad esempio, con il 1° comma, perché si deve parlare di “città storica” e non più di “centro storico” e se ne dà una definizione ed una giustificazione che è tutto fuorché innovativa dato che già molti PRG di recente elaborazione hanno già fatto propria tale opportunità estendendo il criterio della conservazione anche ai tessuti edificati nella prima metà del XX secolo, almeno fino agli anni ’40 e ’50 del 1900.

Meno felice sembra, inoltre, lo sforzo dei redattori delle NTA quando cercano di sintetizzare, nel 2° comma, quali debbano essere gli interventi di conservazione e valorizzazione ammissibili nella città storica. Trattandosi di un comma importante posto a sostegno di tutta l’impalcatura regolamentare che deve garantire da una parte il progettista e dall’altra l’ufficio competente circa la correttezza e la “qualità” della prosposta di restauro che si vuole effettuare, questo non solo appare troppo schematico, per non dire generico in talune sue affermazioni, ma sembra soprattutto essere anche in contraddizione con quanto in parte viene esposto in altre articoli del Capo 2. C’è da aggiungere che tale comma appare addirittura di difficile interpretazione lessicale o di superficiale impostazione storico-critica dato che postula giudizi che possono dar luogo a difformi valutazioni operative e a conseguenti contenziosi, per non parlare della tanto invocata “certezza di diritto” che dovrebbe garantire il proprietario e che, invece, si configura come un’entità alquanto evanescente.

Certamente, con tali premesse a livello culturale non si è fatto con il PRG di Roma un grande passo in avanti nel campo della conservazione, e dire che sarebbe stato auspicabile stante l’importanza del tessuto storico della città! Sembra anzi di assistere quasi ad un passo indietro rispetto a quanto la disciplina specialistica ha saputo fornire in questi ultimi anni in tema di salvaguardia delle città storiche elaborando più esaustivi e meglio approfonditi criteri metodologici ed operativi redatti su più consistenti basi concettuali e storico-critiche.

Per non restare nel vago e per meglio chiarire questo ultimo punto, il 2° comma di tale articolo rende estremamente difficile garantire il recupero degli “stratificati caratteri storico-morfologici” affidandosi alle vaghe prescrizioni su ciò che si può o si deve demolire (lettera a). A nulla serve, poi, la raccomandazione, certamente condivisibile ma così come esposta ininfluente, circa il recupero della residenzialità (lettera b). Corretto, sebbene bisognasse essere più espliciti, è il criterio che deve presiedere al “restauro dei complessi e degli edifici speciali”, anche se sarebbe stata opportuna una più chiara definizione degli interventi da escludere ed una meno generica indicazione su gli “interventi unitari” (lettera c). Particolarmente delicato se non attentamente controllato è il tema della cd “valorizzazione delle strutture e degli elementi di archeologia antica e medievale rilevati”; l’incentivo a tale “valorizzazione” può provocare danni enormi all’integrità linguistica e stilistica delle singole architetture se non condurre a veri e propri errori d’interpretazione circa la messa in luce delle non meglio precisate “parti strutturali” (lettera d). Generiche ed eccessivamente permissive sono, infine, le clausole per “l’integrazione delle attrezzature e dei servizi mancanti” che potrebbero permettere l’inserimento di tutto e del suo contrario (lettera e).

In sostanza, l’intero secondo comma, anziché limitarsi a tali superficiali sub-articolazioni dal sapore vagamente pedagogico e manualistico, se non talvolta addirittura equivoche per le applicazioni negative che ne potrebbero derivare, avrebbe fatto meglio a ribadire il principio irrinunciabile della centralità del restauro, della conservazione e della valorizzazione dei caratteri tipo-morfologici storicizzati di ogni singolo edificio, con più chiarezza, decisione e cogenza riducendone i contenuti ordinatori a tutto vantaggio di quelli perentori.

E’ ben vero, tuttavia, che negli articoli successivi, qua e là, vengono indicati con maggior forza e chiarezza i caratteri distintivi che debbono essere posti alla base di qualsiasi progetto di conservazione, ma tali affermazioni entrano troppo spesso in conflitto con altri articoli o parti di essi generando un costante disorientamento che alla lunga finisce per avvantaggiare indirettamente solo coloro che sono così abili (e sono tanti!) nell’interpretare a proprio favore le singole frasi prese in modo discontinuo dai vari articoli, assemblandole capziosamente per ottenere risultati ben diversi da quelli previsti per la conservazione e la salvaguardia dei tessuti e degli edifici storici.

Condivisibile, invece, appare l’intero 3° comma, anche se i riferimenti agli “studi, sistemi e regole” in scala 1:10.000 e 1:5.000 sono culturalmente assai discutibili, ma tali studi e analisi saranno oggetto di un successivo commento in un altro numero della rivista.

A conclusione di questa sintetica analisi dei primi articoli delle nuove NTA relative alla città storica non si possono ignorare gli articoli che vanno dal 21 al 29 e che riguardano i diversi tessuti storici, da quelli medievali sino a quelli di espansione novecentesca passando per quelli rinascimentali, barocchi e ottocenteschi. Tale suddivisione per “epoche”, che verrà meglio analizzata anch’essa in un successivo articolo per debito di informazione e completezza sull’intero Capo 2, è certamente innovativa essendo il frutto di una lunga serie di studi predisposti in occasione del nuovo PRG, di carattere quasi sempre indicativo, ma che sono certamente da considerare interessanti per l’inquadramento storico-documentario di sintesi che contengono, indipendentemente dalle omissioni occasionali, delle ipotesi più o meno verificabili e delle determinazioni talvolta poco analitiche e dai presupposti chiaramente aprioristici che li caratterizzano in gran parte.

Tali studi, anche per la loro natura, è assai discutibile che possano considerarsi utili ai fini della conservazione, se non altro per il carattere dichiaratamente “cronologico” che li impregna, quando dovrebbe, invece, essere ben noto che nel campo della conservazione le “fasi temporali” non hanno alcun diritto da rivendicare. Che valore ha, ad esempio, la cronologia per il periodo manieristico o, peggio ancora, per quello medievale?

Tutti questi elaborati, tuttavia, per non far torto all’onestà intellettuale e al generoso impegno di quanti vi hanno lavorato con passione, pur se ininfluenti, valgono certamente per quello che sono, e cioè come ausili orientativi e di primo riferimento ricognitivo, talvolta anche privi di verità, dato che solo in pochi casi essi assumono un significativo valore certo e documentario.

Opinabile, pericoloso e culturalmente improprio, se non scorretto, appare, per ultimo, lo sforzo di traino che le NTA (art. 21, 8° comma) intendono assumere sia con l’elaborato G8 “guida per la qualità degli interventi” e sia con l’elaborato G1, proprio per l’eccessivo schematismo e apoditticità che li caratterizza entrambi. Tali “guide” costituiscono un momento certamente innovatore nel panorama delle indagini urbanistiche ma c’è da augurarsi che tale “impegno” non crei un precedente per far germinare in Italia analoghi elaborati pseudo-storici, del tutto acritici, e che tale sforzo non si trasformi in un esercizio metodologicamente improprio al fine di poter valutare il grado di intervento necessario per la conservazione degli edifici storici delle nostre città, altrimenti la cultura del restauro urbano ritornerebbe indietro di almeno trent’anni. Ma tale argomento è bene rinviarlo ad una riflessione più approfondita per non disconoscere tutte quelle positività che sono indubbiamente presenti nel nuovo PRG di Roma, malgrado tali rilievi.

Roma, 5 febbraio 2002

LA CONSERVAZIONE DEL CENTRO STORICO “PER TESSUTI”

Singolare, anche se non originale, è lo studio che si è voluto riservare ai tessuti urbani storici nel recente PRG di Roma come espressione di una nuova strategia certamente innovativa per la conservazione degli edifici e degli ambienti urbani di consolidato e stratificato valore culturale. La singolarità dell’impostazione concettuale, metodologica e normativa nasce dal ritenere che l’individuazione delle supposte diversità morfologiche nei diversi tessuti storici, dovute alla specificità dei vari assetti urbani succedutisi nel tempo, renderebbe l’intervento conservativo sulle singole proprietà più attento e meglio corrispondente ai fini delle strategie operative da adottare per un più pertinente e differenziato controllo dei valori storici esistenti. Tutto ciò parrebbe valido se la pretesa metodologica la si potesse ritenere disciplinarmente corretta e culturalmente fondata.

Tale studio viene infatti giustificato dagli estensori del Piano come essenziale per poter meglio stabilire le individue peculiarità dei luoghi al fine di calibrare con maggior oculatezza i modi di intervento per tutelarne più rigorosamente le singolarità sia di impianto sia d’insieme, a seconda del tipo di spazio urbano che contraddistinguono.

Tali assunti, se pur condivisibili a livello problematico e interessanti certamente per un buon seminario universitario, rimangono, però, a livello di enunciati di principio non incidendo sostanzialmente sull’operatività del progetto rivestendo poca rilevanza oggettiva atta a giustificare la divisione crono-morfologia per epoche; e ciò per l’impossibilità concettuale, di principio prima e di metodo poi, di poter determinare categorie d’intervento così astrattamente diversificate in un unico macrocontesto urbano come è quello della città storica di Roma che è stato trasformato, modificato e riprogettato più volte nel corso dei secoli.

Tali ambiti sono stati articolati nel PRG in tessuti di origine medioevale, di espansione rinascimentale e moderna preunitaria, di ristrutturazione urbanistica otto-novecentesca e via classificando fino a quelli di espansione novecentesca con impianto moderno e unitario (art. dal 21 al 29 del Capo 2°, Titolo III), con una sinteticità che lascia attoniti.

Un siffatto innovativo approccio culturale viene inoltre, non senza compiacimento, presentato come alternativo alle metodologie tradizionali tese soprattutto a definire, secondo il parere degli Estensori del Piano, i diversi gradi di intervento applicabili direttamente ad ogni singolo edificio, mentre sarebbe stato opportuno procedere più correttamente per approssimazioni successive, sempre più mirate e guidate, per poter meglio essere capaci sia di ridurre gli “errori” insiti in giudizi così troppo particolareggiati e aprioristici e sia per inserire ogni valutazione di merito in un ambito meglio differenziato, quale è, appunto, quello del tessuto urbano nel quale l’edificio stesso si inserisce onde raggiungere risultati operativi più coerenti per morfologia e tipologia.

Eppure se la cultura italiana della conservazione urbana, anche in tempi recenti, non si è mai posta questo problema nei modi così come sono stati espressi dal nuovo PRG di Roma qualche motivo dovrà pur esserci ed è assai strano che nessuno nell’Ufficio di Piano non se ne fosse chiesta la ragione e non avesse riflettuto sul perché.

A giudicare dagli elaborati prodotti al riguardo e da tutto ciò che in merito è stato scritto dagli Autori, nonché da quanto conseguentemente prevedono le NTA, si rimane a dir poco disorientati per la sommarietà di un metodo che ha dato (e non poteva che essere altrimenti per la debolezza degli assunti di partenza) risultati così poco lusinghieri, come testimoniano gli stessi indirizzi normativi contenuti negli articoli del Capo 2° sopra richiamati del tutto privi di qualsiasi significativa rilevanza regolamentare nei confronti della certezza della norma e quindi della certezza del diritto, per operare con coerenza nel rispetto di chiare e precise prescrizioni operative; e ciò senza discutere la fondatezza concettuale e l’assunto storico-critico di tali principi la cui unica razionalità, alla luce dei risultati conseguiti, consiste propio nella loro diffusa irrazionalità di fondo.

A cosa serve individuare, come indicano gli elaborati grafici e le NTA al Capo 2° Titolo III, i diversi tipi di tessuto della città storica quando poi questi vengono definiti e descritti con modi così analoghi, generici e ordinatori tali da costituire una sorta di assemblaggio frutto di descrizioni ripetitive foriere talvolta di suggerimenti operativi spesso contraddittori e così poveri di contenuto e tanto intercambiabili da essere facilmente equivocati o peggio elusi.

La stessa definizione che viene data dei diversi tessuti è costantemente vaga e onnicomprensiva ed è tale da rendere quasi nulla la stessa credibilità scientifica e culturale dei suoi assunti, senza contare le difficoltà interpretative che conseguono dalla lettura delle norme e che possono dar luogo ad infinite controversie.

A cosa è servito, infatti, suddividere la città, con una grossolanità senza pari, in ambiti territorialmente così arbitrari, sommari e schematici individuandovi supposte quanto improbabili differenziazioni, improvvidi caratteri distintivi e ipotetici assetti tipomorfologici, quando poi le NTA, per ogni tessuto così tassanomicamente sezionato, comportano interventi quasi del tutto indifferenziati, praticamente intercambiabili, sovrapponibili quando non inutilmente ripetitivi? Da dove deriva una siffatta metodologia così narrativamente descrittiva ritenuta avanzata e innovativa se rende inutile, esemplificativa e superficiale una normativa che ben altre e più accorte attenzioni avrebbe dovuto riservare alla città storica? Che senso ha, ad esempio, per tutti gli articoli che vanno dal 21 al 29, tentare con le NTA di elencare arbitrariamente quali sono le presunte peculiarità proprie delle singole zone ricercandole nella cronologia e nella morfologia ritenute sintomatiche per definire le varie individualità edilizie, giustificando in tal modo ciò che non può mai essere distinguibile sul piano degli interventi conservativi ne’ storicamente ne’ architettonicamente, quando bastava articolare meglio ciò che è già così chiaramente e attentamente espresso dall’attuale cultura storico-critica del restauro, i cui principi sono ben noti da decenni agli studiosi del settore?

Perché, infine, tanta superficialità nel teorizzare pedagogicamente ipotetiche differenziazioni tra i diversi tessuti e al loro interno tra i diversi edifici, per non accennare a quelle divisioni risibili tra morfologie e tipologie, invocando, a giustificazione di tali assunti, Studi autorevoli che in materia sono stati seriamente svolti con ben altra dottrina e competenza anche se qualche lettore superficiale ne rivendica oggi continuità non dovute?

Concludendo, ma ci sarebbe ancora molto da dire se si entrasse nell’esame dettagliato delle indicazioni del Piano e nel particolare contenuto di ogni sua singola norma, occorre ribadire che la tanto declamata novità presentata come “originale” per aver proposto il congelamento della metodologia tradizionale per lotti o per edifici, rimandandola ad una fase successiva d’approfondimento diretto, a tutto vantaggio del prioritario riconoscimento dei caratteri d’omogeneità dei “tessuti” e degli “spazi” storicamente significativi, non aiuta a sottolineare il pur alto livello di innovazione culturale e disciplinare che tale PRG possiede in gran parte, ad esempio, sia per le stesse aree della città storica che per le serie attenzioni poste per la città consolidata e per la città da ristrutturare. Forse si è trattato di un eccesso di entusiasmo e di zelo per analisi fine a se stesse e che hanno creato più problemi di quanto in realtà volessero eliminare. Le NTA soffrono infatti di questa impostazione velleitaria e fanno l’impossibile per rendere articolato e credibile ciò che è di impossibile articolazione operativa e di difficile credibilità concettuale.

Tuttavia , anche ciò che viene criticato come improprio non deve mai essere considerato inutile. Il Piano Regolatore di Roma è un episodio troppo rilevante e troppo significativo nelle storia della Roma contemporanea e costituirà certamente un punto di riferimento essenziale per l’avanzamento della stessa cultura urbanistica e per la prassi disciplinare dei nuovi Piani in Italia. Altre critiche e diverse opinioni matureranno e si confronteranno traendo spunto dai contenuti espressi dal nuovo strumento urbanistico della Capitale. Molti altri problemi verranno alla luce; essenziale è però riconoscere l’ufficio che gli “errori” comunque esercitano in ambito tecnico e scientifico per il conseguimento di nuovi saperi e per il raggiungimento di nuove frontiere. Vale forse la pena di ricordare a tale proposito che Hegel affermava che l’“errore” è la molla dello svolgimento della vita e del progresso e che là dove manca la dialettica, l’opposizione o la lotta, “la Storia mostra bianche le sue pagine”. E ciò viene ricordato senza alcuna ironia.

Roma, marzo 2002

GLI ABACHI E LE GUIDE DEL PRG PER GLI INTERVENTI DI CONSERVAZIONE

La rivista ha già posto l’accento sulla cd novità di questo nuovo PRG di Roma sia per la dimensione data alla conservazione, che superando il limite del riferimento esclusivo al centrostorico così come tradizionalmente inteso lo estende a tutto il sistema territoriale urbano ed extraurbano della Città anche al di fuori della cinta delle mura aureliane, e sia per la ritenuta originalità degli assunti metodologici del nuovo Piano. Questi ultimi risiederebbero nel superamento della normativa di conservazione per lotti o per edifici che viene rimandata ad una fase successiva d’approfondimento diretto, a tutto vantaggio della priorità del primario riconoscimento dei caratteri individui d’omogeneità dei “tessuti” e degli “spazi” cronologicamente significativi, necessaria cornice di riferimento urbano e morfologico per ogni intervento di dettaglio in campo edilizio.

A parte la condivisione per il primo assunto, dato che da tempo il superamento di tale impostazione culturale è regola pressoché generale da alcuni decenni e non ha oggi più nulla d’originale, allo stato, desta qualche perplessità se non profondi dubbi proprio la metodologia operativa adottata per tessuti, così come è stata presentata nella relazione d’accompagno e regolamentata con le NTA. Non si comprende, infatti, a cosa possano servire analisi descrittive talvolta così acriticamente classificatorie, di taglio sommariamente urbanistico non mirate a cogliere la specificità degli aspetti architettonici perché redatte a scale troppo generalizzanti per la verifica degli aspetti qualitativi, pur con l’intesa, come sopra ricordato, che tali aspetti verranno demandati, nel dettaglio, a fasi successive di approfondimento operativo, anch’esse però non sufficientemente chiarite dal PRG.

Non si comprende, in definitiva, quale potrà essere il nesso di continuità tra i diversi livelli di analisi e l'effettivo momento in cui scatteranno le valutazioni operative di Piano sia della prima fase sia della seconda, e quale correlazione ci potrà essere tra di esse stante i diversi tempi e le controverse conoscenze che condizioneranno le due fasi operative.

Al riguardo, tuttavia, occorre essere molto cauti nell’esprimere un inappellabile giudizio di critica dato che i documenti cui si fa riferimento debbono pur superare la verifica della loro effettiva applicazione ed interpretazione. Ciò pur tuttavia non elimina alcuni interrogativi su come l’Amministrazione comunale intenderà perseguire, in fase attuativa, gli obiettivi della conservazione, anche se occorre dare ampio credito ai Consulenti che hanno operato come coordinatori sia degli studi sia delle proposte di Piano, essendo particolarmente esperti della materia e certamente ben consapevoli di come occorrerà procedere in tale campo. Si farebbe indubbiamente loro torto immaginando che abbiano trascurato o non si siano accorti di come sia stato elaborato il Piano per la città storica, ma sta di fatto che esso attualmente risulta abbastanza indeterminato nelle NTA e privo talvolta di attendibilità culturale in alcune analisi specifiche che avrebbero dovuto avere come fine il massimo perseguimento della più rigorosa conservazione dei caratteri storico-qualitativi del territorio. Incrociando le analisi con la relazione d’accompagno del Piano e con le NTA non si evince una linea certa e coerente di azione, pertanto non è possibile garantire pareri certi, criticamente fondati, effettivamente riconoscibili come originali e innovativi, essendo estremamente tortuoso e complesso il disegno strategico, progettuale e normativo d’insieme.

Colpisce negativamente, pertanto, l’enfasi e la costante sottolineatura che si è posta sull’ originalità e sull’ innovazionemetodologica che esprimono l’insieme degli studi prodotti in questi ultimi sei anni, come se essi costituissero una scelta epifanica nella cultura della conservazione delle città storiche italiane. Stupisce tale affermazione perché tanta novità da una parte non è altro che quella che normalmente è già contenuta da qualche anno in molti strumenti urbanistici (non è certamente Roma che oggi scopre questo nuovo modo di procedere e ciò è bene ricordarlo perché tutto il compiacimento che sorregge la convinzione di essere per la prima volta all’avanguardia in Italia nel campo della metodologia della conservazione per l’estensione della tutela dal “centro” alla “città” storica lascia, francamente, alquanto indifferenti) e d’altra parte è priva, concettualmente e tecnicamente, di alcune fondamentali certezze operative quando si affronta il problema dei tessuti, per non parlare degli equivoci interpretativi che possono scaturire da parte degli operatori dall’interpretazione scorretta, anche in malafede, degli abachi e delle guide.

E’ bene, comunque, riflettere con maggiore attenzione su quanto di più preciso e specifico verrà prodotto in materia in sede di gestione operativa del Piano e si dovrà aspettare l’intero compimento dell’operazione storico-critica in programma, prima di poter giudicare con compiutezza di pensiero l’intero disegno operativo che è alla base degli studi di Piano. Per ora è possibile solo formulare alcune semplici osservazioni sulla base delle conoscenze disponibili con gli elaborati e con le NTA del PRG.

Per cominciare, ci sono due ordini di perplessità che nascono dalla lettura del Piano, uno di carattere metodologico e l’altro di carattere operativo.

Partiamo da quest’ultimo. La mole degli elaborati redatti per la città storica, comprese le analisi, è certamente considerevole. Trattasi indubbiamente di uno studio molto approfondito sull’evoluzione urbanistica del territorio romano, molto ambizioso per gli obiettivi che vuole raggiungere e che certamente, per debito di conoscenza, andava eseguito mancando finora all’Amministrazione capitolina uno studio siffatto. Tale studio può rappresentare quello che in altre metropoli europee è già da tempo una realtà. Esso pertanto dovrebbe costituire la base, continuamente aggiornata, per un futuro Centro di Documentazione sull’evoluzione urbanistica della capitale dato che, occorre ribadirlo, non sembra molto pertinente per le conoscenze necessarie su cui basare la pianificazione di dettaglio della città storica. Non si vede, infatti, quale potrà essere il nesso logico tra alcune narrazioni storiche, talvolta genericamente acritiche, e l’operatività normativa che ne dovrebbe conseguire per coerenza e logica derivazione in termini di restauro, risanamento, riqualificazione o trasformazione degli spazi, dei tessuti e degli edifici di valore storico. L’insieme degli studi prodotti, tuttavia, malgrado tali perplessità non è da ignorare costituendo di per sé già un corpus documentario assai significante per la conoscenza della storia urbana di Roma. Tutto ciò è estremamente importante e apprezzabile e non va considerato concluso con l’adozione del PRG dato che occorre continuare ad aggiornarlo, correggerlo, perfezionarlo e integrarlo nel tempo. Tali elaborati, comunque, sembrano nascere più da una struttura culturale adusa a coltivare l’interesse documentario e museale della città in connessione con la sua specifica identità territoriale, piuttosto che da una struttura operativa disciplinarmente preordinata alla progettazione degli interventi di PRG. Tali studi, infatti, sono in parte assai poco significanti per la formulazione di giudizi specifici su cui fondare le modalità operative d’intervento e di ciò è testimone anche la generica normativa di riferimento per “tessuti”.

E’ fondamentale capire, in ordine agli interventi ammissibili e alle relative richieste di autorizzazione che avanzeranno a cassetto i proprietari dei singoli alloggi, come i documenti di Piano e le NTA potranno effettivamente contribuire alla comprensione corretta di come applicare in pratica i principi della conservazione, edificio per edificio, alloggio per alloggio. L’insieme degli studi è in troppe indagini così discorsivo da sembrare poco interessato a chiarire le vere finalità progettuali di tali ricerche ed è vago quando deve specificare esattamente le necessarie connessioni con le previste scelte di Piano.

Le planimetrie di analisi e di riferimento per la città storica alimentano in proposito tali dubbi, non ravvisando in esse una qualche effettiva e diretta operatività in campo propositivo. La stessa cartografia non aiuta e appare del tutto ininfluente per la definizione degli interventi conservativi in quanto i vari tematismi sono sinteticamente rappresentati ed espressi in scale 1:25.000 o 1:10.000; scale queste che per la loro dimensione rendono improbabile qualsiasi definizione specifica o valutazione critica sulle finalità degli interventi attuativi. Interventi che certamente a scale di maggior dettaglio avrebbero meglio e più utilmente puntualizzato gli obiettivi da raggiungere. Non è un caso se analoghi studi sono già effettuati da tempo in altre città, in scale più adeguate (1:1.000 o 1:2.000).

Roma, con le analisi redatte in merito, se lo avesse voluto, avrebbe potuto scendere con maggiore incisività nello specifico per definire regole di tessuto più precise.

Altra meraviglia, infine, desta la critica, francamente sterile quanto ingenerosa e contraddittoria, che la relazione d’accompagno esprime sull’inutilità dell’apposizione di vincoli diretti su singoli edifici! Se questa è la terza grande “novità” di quest’ innovativo progetto culturale, occorre aspettare con interesse cosa esso, in pratica, possa esprimere di nuovo o di meglio per la tutela dell’edilizia storica della città. Si afferma, infatti, che non si deve più intervenire a priori, sulla base di metodiche normative riferite solo a singoli edifici, caso per caso, ma che tali metodiche, sia quelle conoscitive sia quelle propositive, debbano essere affidate all’interpretazione guidata dell’operatore, al momento della richiesta dell’intervento. Il fine è probabilmente corretto volendosi con ciò garantire una descrizione analitica più precisa dell’organismo architettonico per una più minuta valutazione degli interventi ammissibili. Forse tutto ciò potrebbe anche essere condivisibile nelle finalità ma diventa estremamente pericoloso quando tale cautela viene guidata e supportata da abachi e guide di carattere genericamente descrittivo, generalizzanti, entro i quali far convergere ogni giudizio operativo.

Roma, aprile 2002

PROBLEMI DI METODO E DIFFICOLTA’ INTERPRETATIVE PER IL RESTAURO URBANO NEL NUOVO PRG

La prevista utilizzazione di abachi e guide al fine di indirizzare più correttamente gli interventi attuativi riferiti caso per caso a singoli edifici o alloggi è una procedura del tutto nuova e non vi sono altri riscontri nei Piani allo studio in altre città per cui è auspicabile che tale “dottrina” non proliferi. Essa si basa su un preliminare elaborato urbanistico finalizzato a definire valori normativi o di massima di natura metaprogettuale a livello di “tessuti” o di “spazi”, rimandando ad una successiva indagine, di carattere edilizio, la scelte più idonee a livello architettonico.

Francamente non si riesce a capire quale sia l’obiettivo che si vuole raggiungere con tale procedimento perché se è pur vero che le indagini tradizionalmente svolte per la conservazione in campo urbanistico sui singoli edifici, tramite l’applicazione di giudizi di valore espressi caso per caso, possono essere carenti nell’informazione essendo l’esame limitato alla sola morfologia senza alcuna possibilità a priori di verifica tipologica o storica dell’intero organismo, è pur vero che il semplice rinvio in una seconda fase a forme d’analisi più dettagliate di conoscenza, preordinate allo scopo mediante astratti schemi riferiti ad abachi e guide, è dubbio che possa essere concettualmente accettabile a livello culturale e che possa dare buoni risultati operativi.

Abachi e guide indirizzano lo studio storico-critico con formule schematizzanti ed astratte del tutto indifferenti all’individualità del singolo organismo edilizio che viene così ricondotto forzosamente entro classi di riferimento incerte e generiche prefissate anticipatamente, riconducendo fideisticamente ogni manufatto ad un suo ipotetico schema archetipo.

Questo metodo è una prassi, ben nota da tempo, imputabile ad una certa cultura architettonica romana che crede di poter stabilire a priori cosa è bene fare per intervenire sugli organismi antichi grazie al conforto di una deleteria manualistica generalizzante di stampo positivistico o, peggio, deterministico nata alla fine degli anni ‘70. Siffatto pret a porter progettuale si basa su generici suggerimenti tecnico-descrittivi che dovrebbero garantire, secondo gli autori, interventi corretti e certi su ogni singolo manufatto, ignorando che le loro diversità di tipo, di crescita, di assetto, di forma, di storia e di struttura non possono mai essere fatte rientrare entro le griglie di tipi edilizi troppo rigidamente prefissati. Tale programma può essere gravemente fuorviante se assume le caratteristiche incontrollate e generiche del fai da te interpretabile acriticamente. Questi “Bignami” della storia edilizia e del cosa occorra sapere per ben costruire costituiscono un formulario esemplificativo la cui velleità, nello stabilire famiglie di “tipi” per classi di edifici, omologa il restauro al più basso livello del sapere scientifico. Essi generalizzano e schematizzano la complessa stratificazione e la specifica individualità che il tempo ha suggellato in ogni architettura sia calpestando la storia che non è mai riconducibile a classi, generi, tipi, abachi, ecc., e sia mortificando la conoscenza storico-critica che deve sempre poter guidare ogni intervento progettuale. La specificità di ogni organismo è unica, irripetibile e diversa da edificio a edificio, anche se questi fossero affini per caratteri tipomorfologici, diverse essendo le loro singole storie, mai condizionate a priori da sviluppi di stampo evoluzionistico come gli abachi e le guide vorrebbero meccanicamente far credere.

L’unico elemento incontrovertibile che affiora dagli studi, così come sono stati impostati, è quello che stabilisce in un primo momento indirizzi normativi più “ordinatori” che “prescrittivi” ed, in un secondo momento, quelli più “cogenti” risultanti dalle successive indagini sul campo calibrate sulla specificità dei singoli edifici, eseguite dagli operatori e preguidate da schemi e tavole sinottiche di riferimento aventi valore orientativo e valutati solo con il controllo a posteriori dell’Amministrazione che si esprimerebbe sulla fattibilità o meno dell’intervento previsto sulla base di non meglio chiariti riferimenti regolamentari troppo fugacemente indicati nelle NTA.

Per ora il Comune si è limitato a fornire lo strumento generale, necessario per l’applicazione di questi ulteriori criteri analitici, attraverso l’individuazione di microzone urbane la cui supposta omogeneità di tessuto o di spazi è tutta da dimostrare se non la si riconduce, come già detto, all’individualità delle singole architetture. Anche quest’assunto, per quanto è dato di capire dalle analisi, rappresenta, tuttavia, un’ulteriore semplificazione estremamente fuorviante.

In sostanza questi studi, che possono essere anche interessanti, come già riconosciuto, per l’approfondimento delle conoscenze urbanistiche del territorio e che costituiscono tutt’al più una lodevole premessa indicativa per orientare gli operatori nel proporre modi d’intervento omogenei e coerenti, non sembrano però garantire il necessario supporto prescrittivo che dovrebbe presiedere ad ogni operazione di recupero nel delicato passaggio dall’inquadramento generale alla specificità progettuale riferita ad ogni singolo manufatto.

Da questi dubbi sorge allora spontanea la domanda sull’utilità di tali studi propedeutici visto che le loro finalità sono così sfuggenti o comunque così estremamente labili e generiche; dubbi più che leciti dopo le grandi attenzioni che l’Ufficio di Piano ha posto per così lunghi anni alla costruzione di indagini specifiche sulla città storica.

Il complesso di queste indagini è, infatti, solo marginalmente e indirettamente utile per gli approfondimenti richiesti dagli interventi di conservazione. Tali interventi e le relative norme non dovrebbero derivare da studi condotti su microzone urbane individuate per la loro presunta peculiarità a livello urbanistico ma, piuttosto, avrebbero dovuto nascere da un approfondito esame storico-critico sufficientemente analitico, condotto su ogni singolo edificio, senza l’ausilio di siffatti pedagogici sussidiari contenenti astraenti riferimenti privi di qualunque plausibile raccordo con i caratteri di individualità delle singole storie edilizie.

Quello che soprattutto non si comprende di quest’ambigua metodologia è l’esito futuro che l’intervento potrà assumere stante l’attuale vago riferimento che le norme tecniche di attuazione pongono all’intera operazione. Queste potevano essere costruite in modo meno narrativo e redatte con maggiore chiarezza nell’interesse della certezza del “cosa fare” e del corretto “saper fare”.

E’ stato più volte ricordato che questi studi denotano una qualche attenzione per le conoscenze espositive di carattere urbanistico generale e assai meno per quelle analitiche di carattere storico-critico. Ciò viene sottolineato senza ombra di dubbio anche da alcuni documenti dell’Amministrazione capitolina (giugno ’99) quando si segnala come fatto positivo il definitivo superamento delle vetero indagini dirette solo sui singoli edifici, a tutto vantaggio di studi innovativamente volti ad indagare gli spazi ed i tessuti storici. Prendiamo, ad esempio, il caso di Piazza Navona, di Piazza di Spagna o di Piazza Farnese; tali luoghi sono sia spazi urbani sia contesti di tessuti sincronici non disomogenei morfologicamente, anche se spesso eterogenei tipologicamente. Tali spazi e tali tessuti non essendo tra di loro coevi non sono mai stati a priori determinati figurativamente da un prefissato e unitario impianto urbanistico. Tale impianto invece si è sviluppato nel tempo, rimodellando il già esistente in modo lessicalmente coerente, assecondando l’evoluzione tipologica e morfologica delle singole architetture, in forma sincronica secondo le esigenze d’uso e di espressione delle varie epoche. Il risultato è stato che le loro morfologie hanno connotato totalmente l’ambiente delle tre piazze anche con non trascurabili violenze alla logica dei tessuti (es. Palazzo Farnese, Chiesa di S. Maria in Agone, ecc.) pur nelle singolarità delle diverse caratterizzazioni estetiche, storiche o morfo-tipologiche. Si richiama tutto ciò solo per ricordare che, in definitiva, sono le architetture i soggetti principali che conformano nella città storica gli spazi urbanistici e che danno a questi ultimi specifica riconoscibilità d’insieme e non i soli tessuti. Non è lo spazio urbanistico che sottolinea l’identità singolare delle architetture storiche nel loro variegato e autonomo aggregarsi per tessuti o per spazi, anche se questi ne compongono la scena primaria di riferimento urbano. Se è così bisognava, allora, far convergere più specificatamente l’attenzione degli studi di Piano sui caratteri qualitativi dei singoli organismi architettonici perché solo questi ultimi avrebbero potuto dare sufficienti garanzie d’identità e di coerenza, se pur a priori, per il controllo urbanistico degli aspetti figurativi degli spazi e dei tessuti. In sostanza andava capovolta l’impostazione concettuale che ha presieduto agli studi sulla città storica; sarebbe stato meglio partire prima dagli edifici per poter più chiaramente ragionare poi sui criteri di intervento per il rispetto dell’omogeneità formale dei tessuti. Le analisi sarebbero state certamente più complesse e forse più rischiose in termini di veridicità ed avrebbero anche richiesto conoscenze molto più approfondite sulla storia edilizia romana ma a tutto ciò avrebbe posto rimedio una normativa meglio articolata e più mirata agli obiettivi da perseguire con il Piano. Gli esempi al riguardo non mancano in altri Comuni e i Consulenti sono eccellenti conoscitori di tali problematiche.

Come faranno le regole normative di riferimento a stabilire, con coerenza ed equilibrio, i gradi di flessibilità che potrebbero essere ammessi tramite il filtro delle guide e degli abachi, quando questi tendono per loro natura a irrigidire la conoscenza classificando la storia edilizia astrattamente, con il deleterio risultato di trasformare una non minoritaria parte degli operatori, così poco allenata alla ricerca storico-culturale, in subalterni interpreti di schemi di base o in ripetitori passivi di una manualistica troppo rigidamente pragmatica che nata per orientare le conoscenze preliminari può divenire il passe-partout di qualsiasi progetto asetticamente “tecnico”, assicurando a tali operatori la falsa certezza di possedere quel sapere che solo una laurea specialistica e studi ben più attenti possono fornire.

Può darsi, alla luce dell’applicazione futura, che tale metodologia possa considerarsi anche opportuna, ma ciò lo potrà essere solo se gli operatori riusciranno a superare la fragilità critica della lettura per tessuti e per spazi per affrontare più razionalmente la conoscenza degli organismi edilizi sulla base di più significativi paradigmi di riferimento storico-qualitativi, definiti caso per caso omogeneamente, anche se tali analisi possano essere comprensive di potenziali errori di stima, sempre però controllabili a posteriori con una adeguata normativa. Sarebbe stato molto meglio quindi predisporre un Piano redatto diversamente, con più chiare linee d’intervento, per poter indirizzare prima e verificare poi la giustezza delle proposte degli operatori anziché demandare subito la supposta certezza degli interventi ad una sorta di “breviario della conservazione” grazie al quale si possono solo dare risposte ai problemi sollevati da quell’incultura connessa all’incapacità professionale di tecnici troppo spesso dequalificati anche per una colpevole insufficiente formazione universitaria.

La manualistica del fai da te è, infatti, nel settore della conservazione, deleteria. Le guide e gli abachi, così come suggeriti, ma anche gli studi approntati per il PRG, non raggiungono quasi mai gradi di consapevolezza critica e culturale tali da poter garantire un sufficiente risultato di qualità per gli interventi di restauro e di risanamento conservativo. Essi, occorre ripeterlo, sono troppo schematici, astraenti nei tipi e sommari nelle proposte. Come si comporteranno gli Uffici quando dovranno, per casi analoghi, verificare la coerenza e la conformità di diversi studi e progetti ai principi del Piano?

Per finire, si parla spesso nella relazione al PRG anche di esempi a proposito degli abachi e delle guide. Questi possono essere accettati come strumenti esemplificativi se vengono posti in un’antologia di studi volti a fornire un semplice inquadramento su argomenti genericamente esposti, ma non vanno più bene quando l’esempio vuol essere il riferimento operativo speculare per tutti gli altri casi analoghi, ammesso che tale ipotesi possa considerarsi realistica, il ché non lo è. L’esempio è esempio solo di se stesso e non può essere trattato alla stregua di un generico salvacondotto collettivo per la totalità di edifici similari. Per la serietà delle indagini storico-critiche tutto ciò è un palese controsenso e per il PRG di Roma un mezzo passo indietro nelle aspettative che vi avevano riposto non pochi urbanisti che si attendevano per la città storica di Roma nuovi più incisivi capisaldi culturali, se non altro per ridare slancio ad una metodologia che con R. Pane, L. Piccinato e G. Astengo è stata anticipatrice indiscussa dentro e fuori l’Italia dei più rigorosi metodi di restauro urbano.

Roma, maggio 2002

UN CONCORSO INTERNAZIONALE DI IDEE PER IL QUARTIERE DI SAN LORENZO A ROMA

La “Costruttori Romani Riuniti Grandi Opere SpA”, che raccoglie 250 imprese edilizie, nell’ambito delle iniziative indicate dall’ACER, ha lodevolmente promosso un Concorso di Progettazione Internazionale allo scopo di individuare per il Quartiere di San Lorenzo quali potrebbero essere le trasformazioni possibili per assicurare un qualificato rinnovo urbano ad una delle zone più delicate e significative della Capitale.

Tale apprezzabile iniziativa ha riscosso l’interesse di 55 partecipanti rappresentativi oltre che dell’Italia anche di molti Paesi Europei ed Extraeuropei i cui risultati sono stati pubblicati nel marzo 2001 dall’Editore Gangemi.

Concorsi siffatti, soprattutto quando hanno una forte incidenza urbanistica sull’intera città, sono da stimolare e da incentivare dato che la cultura urbanistica non può fare a meno di confrontarsi ed interrogarsi incessantemente sui grandi temi urbani legati alla riqualificazione e trasformazione di aree urbane così importanti per centralità funzioni rare e degrado come è nel caso del quartiere di San Lorenzo.

Encomiabile dunque appare l’iniziativa tesa a scandagliare, da parte degli Imprenditori, quali possano essere le soluzioni più interessanti per attivare o promuovere programmi complessi o per suggerire all’Amministrazione Capitolina iniziative da intraprendere nell’interesse congiunto del Pubblico e del Privato.

Tali Concorsi, tuttavia, se non inquadrati entro un bando estremamente articolato, finalizzato al raggiungimento di precisi risultati operativi sulla base di linee guida orientative assolutamente chiare, producono problematiche più interessanti per la cultura architettonica che per gli operatori.

Nel caso in questione i progetti presentati, salvo pochissimi casi, contengono una serie di proposte volte più a soddisfare un indefinito interesse per la ricerca di soluzioni originali fine a se stesse che un reale interesse per la risoluzione dei problemi del quartiere, il ché non collima con gli interessi del Concorso vista anche la figura imprenditoriale di chi lo aveva bandito.

Quasi tutti i Concorrenti hanno espresso idee urbanisticamente interessanti, talvolta originali seppure difficilmente perseguibili e tali comunque da stimolare confronti dai quali non può che avvantaggiarsene il dibattito culturale ma che spesso allontana le proposte, anche le più serie, da una ricaduta progettuale concretamente fattibile. Forse, sarebbe stato il caso, per concorsi di area vasta come questo e di così ricca complessità, di segnalare ai Concorrenti, più di quanto non sia stato fatto, gli indirizzi e gli obiettivi parametrici e quantitativi da rispettare o quanto meno da perseguire anche migliorandoli. Troppo spesso i partecipanti hanno seguito propri autonomi percorsi culturali che per professionalità, formazione, storie e orientamenti i più diversi lasciano molto a desiderare circa gli esiti auspicati. Forse ciò lo si poteva in parte attenuare se fosse stato loro meglio indicato quale doveva essere il tipo di risposta che ci si attendeva pur nella libertà della ricerca progettuale. Lo studio della “forma urbana” non può essere separato dai modi con i quali il progetto lo si può realizzare! Il problema che non appare affrontato riguarda infatti le modalità operative atte a garantire una pur minima ma convincente credibilità economico-finanziaria alle trasformazioni proposte. A risultato concorsuale ormai concluso sarebbe interessante capire quale utilità ne abbiano ricavato gli Imprenditori promotori dell’iniziativa. Di fronte alle pur interessanti proposte fornite dal ristretto gruppo dei vincitori nascono però alcuni interrogativi che vale la pena di esprimere per riflettere sia sulla validità di un approccio concorsuale siffatto e sia come si debba procedere per sciogliere i nodi che attualmente in Italia ancora frenano interventi di così ampio respiro.

Ad esempio, è o no il caso di gestire l’intera operazione attraverso lo strumento della perequazione urbanistica? Infatti, due sono le domande che nascono dalle proposte di trasformazione ipotizzate dal Concorso. Esiste un Promotore Immobiliare capace di intraprendere una riqualificazione urbana così ampia in un lasso di tempo ragionevolmente breve certo che il risultato gli darà un ritorno economico maggiore di quello che già si potrebbe ottenere con le normali offerte del mercato immobiliare della zona? Inoltre è certo per le frammentate proprietà immobiliari (ed escludendo per brevità quelle degli Enti Pubblici gestite da amministrazioni tra loro diverse), così pesantemente coinvolte dalle proposte del Concorso, che tutto ciò sarebbe un ritorno, a operazione conclusa, economicamente significativo e tale da valorizzare sostanzialmente il loro patrimonio così da indurle ad aderire all’iniziativa senza creare resistenze o contenziosi di sorta?

Non c’è alcuna garanzia, neanche normativa o regolamentare che le riqualificazioni urbanistiche proposte possano rispecchiare positivamente la domanda di qualità urbana della zona dato che essa non comporta automaticamente certezza di qualità architettonica degli spazi e degli edifici previsti; ed anche questo incide sul ritorno economico, soprattutto se l’attuazione unitariamente programmata si interrompe e si realizza solo una parte del progetto, cosa non infrequente visti i tempi lunghi che implica un’operazione urbana di tale portata. E’ certo comunque che una siffatta operazione non la si può affrontare o pensare di realizzare con l’esproprio e con i conseguenti piani attuativi più o meno definiti da comparti omogenei. Non è neppure praticabile l’idea di acquisire le proprietà immobiliari interessate all’operazione pagandole al prezzo di mercato. La terza via, quella forse più praticabile oggi, ma è tutta da dimostrare, è quella della cosiddetta “perequazione urbanistica” anche se qualcuno la ritiene praticabile per le nuove espansioni e non per le trasformazioni. Con la perequazione, grazie ad un predefinito indice di edificabilità, sufficientemente flessibile, uguale per tutta l’area interessata alla trasformazione urbanistica, i proprietari rinunciando ad edificare sul proprio lotto rimangono possessori di un credito di mq equivalente al bene da cedere e da utilizzare in area più o meno contigua cedendo nel contempo al Comune a costo agricolo o simbolico le aree residue non oltre edificabili essendo stato raggiunto l’indice predefinito dal Comune.

La rendita fondiaria stabilita con i nuovi parametri renderebbe il proprietario indifferente di fronte alle scelte di piano (ricevendo tutti lo stesso vantaggio senza sperequazioni volumetriche) al netto però delle destinazioni d’uso che possano far variare anche di molto le rendite immobiliari a seconda della loro importanza e rarità.

L’alternativa alla perequazione urbanistica integralmente applicata potrebbe essere l’uso tradizionale delle regole dello “zoning”, limitato a parti ben definite della zona con indici, parametri e destinazioni d’uso prefissate e soggette ai meccanismi propri dell’esproprio o delle normative relative ai cosiddetti “piani complessi”. Così facendo le aree riservate alla perequazione urbanistica fungerebbero da volano di compensazione fondiaria a tutto vantaggio di quei proprietari non totalmente avvantaggiati dalle proposte progettuali. Senza tali indirizzi è quasi impossibile progettare! Se ai concorrenti fosse stata data una tale guida, certamente orientativa ma più precisa di quella espressa nel bando, avrebbero forse previsto con maggiore organicità le soluzioni urbanistiche e financo quelle metarchitettoniche avendo di fronte scenari economici e gestionali con i quali meglio confrontare le proprie scelte progettuali.

Nel caso in esame, infatti, è mancato ai concorrenti quel necessario bagaglio di conoscenze realistiche se pure orientative sul tipo di classificazione dei suoli, di fatto e di diritto, sugli indici da rispettare e sulle destinazioni d’uso richieste unitamente al quadro normativo e regolamentare da seguire in linea di principio. La mancanza di indici edificatori inficia l’intero risultato del Concorso proprio perché paralizza le potenzialità della cosiddetta perequazione urbanistica (pari edificabilità ai proprietari aventi gli immobili nelle stesse condizioni di fatto e di diritto) a tutto esclusivo vantaggio di una interessante esercitazione urbanistica ma dal valore esclusivamente culturale. Dato che con indici elevati l’operazione è sempre appetibile dai proprietari con lo svantaggio, però, di avere meno aree pubbliche e viceversa con indici bassi di avere una migliore qualità di servizi e una minore edificabilità privata, occorreva almeno segnalare nel bando quali erano gli indici edificatori minimi e massimi suggeriti. Si sarebbero legate così le intenzioni imprenditoriali con le scelte progettuali sia di natura morfologica che tipologica oltre che di impianto fondativo.

Quando si interviene con proposte così forti e radicali di ristrutturazione di intere porzioni urbane occorre conoscere bene e dettagliatamente quale obiettivo immobiliare si vuol e si può raggiungere affinché le rendite dei proprietari e l’interesse della città trovino, unitamente a quelli degli operatori, una comune e giusta linea di compensazione senza penalizzazioni per entrambi e con valori coerenti commisurati alle attese che la riqualificazione urbana comporta in termini di maggiori rendite immobiliari.

Non sarebbe stato male consegnare ai progettisti, per meglio inquadrarli nel problema economico, anche una serie di bozze di convenzione-tipo per comparti omogenei per regolamentare modi e forme di intervento pubblico-privato. Si ha l’impressione che con tali assenze il Concorso contribuisca, dati i risultati conseguiti, ad inserire un’altra pagina culturale sulle ricerche urbane svincolata dalla realtà e inadatta a rispondere progettualmente per superare i conflitti che potrebbero nascere da una ristrutturazione urbanistica così vasta. Forse è ora che i concorsi di urbanistica, per evitare le velleità proposte da troppi concorrenti, abbiano anche il conforto di esperti in discipline di economia urbana e che i promotori inquadrino con maggiore determinazione gli obiettivi da perseguire.

Tali osservazioni non tolgono nulla, comunque, alla lodevole iniziativa assunta dai Costruttori Romani Riuniti Grandi Opere SpA ai quali va riconosciuto l’indubbio merito di aver fornito alla città una significativa occasione di riflessione culturale sul futuro di una delle sue aree urbane più vitali e socialmente significative. Sta a loro, ora, riflettere sulle soluzioni più interessanti proposte dai Concorrenti e valutare concretamente le effettive potenzialità dei progetti per un’operazione urbana certamente non procrastinabile, tenendo anche conto della necessità di sensibilizzare le Istituzioni perché si provveda ad una regolamentazione giuridico-normativa di stampo europeo altrimenti mentre a Vienna, Parigi, Londra e Berlino si sono e si stanno attuando ristrutturazioni importanti da noi tutto continuerà a rimanere preda del caso per caso.

Roma, settembre 2002

SI PUÒ REGOLAMENTARE LA QUALITÀ?Le responsabilità del Comitato per la qualità urbana ed edilizia di Roma Capitale

Il Consiglio Comunale di Roma abrogò alla fine del settembre del ’94 l’art. 5 del Regolamento Generale Edilizio e riformulò anche gli artt. 6, 7, 8, 9 e 10 disciplinando in modo del tutto nuovo i compiti, la composizione, le competenze e il funzionamento della Commissione Consultiva edilizia. Successivamente il Consiglio Comunale nel gennaio ’97 ritornò sull’argomento modificando l’art. 6 e abrogando gli artt. 7, 8, 9 e 10 del Reg. Gen. Ed. In tale occasione approvò il “Regolamento Speciale della Commissione Consultiva Edilizia” di Roma, volto soprattutto a snellire l’ iter procedurale dell’approvazione delle nuove categorie di progetti di spettanza della Commissione. Recentemente il Comune di Roma ha ritenuto di dover meglio caratterizzare le competenze di detta Commissione attribuendole anche “funzioni di indirizzo e di guida per orientare le trasformazioni urbanistiche e gli interventi edilizi sia per quanto riguarda la qualità architettonica ed edilizia della progettazione, sia per gli aspetti funzionali e formali delle opere di urbanizzazione ed edilizie ed il loro inserimento nel contesto urbano ed ambientale”. Per tali motivo le funzioni finora attribuite alla Commissione Edilizia sono state attribuite dal “Comitato per la qualità urbana ed edilizia di Roma Capitale” (Legge Reg. Lazio 59/95) che ha anche approvato il relativo Regolamento Speciale per disciplinarne le attribuzioni. Conseguentemente il Consiglio Comunale di Roma nel 2002 ne ha deliberato la sua istituzione modificando l’art. 6 che ne regolava il funzionamento. Sarà quindi compito dell’istituito Comitato dotarsi quanto prima di un proprio regolamento interno per lo svolgimento dei suoi lavori.

Positivo ed apprezzabile appare pertanto l’intento oggi perseguito con tale delibera comunale dato che da oggi sarà possibile contare su di un Comitato di Esperti che oltre a svolgere le precedenti mansioni consultive di natura quantitativa circa la rispondenza o meno dei progetti alle prescrizioni degli strumenti urbanistici dovrà anche assolvere al compito, certamente non facile ma irrinunciabile oltre che doveroso, di esprimere pareri sulla qualità effettivamente espressa dai progetti presentati. Al riguardo l’art. 4 relativo alle funzioni di detto Comitato così recita:

“1. Il Comitato per la qualità urbana ed edilizia elabora, ( omissis) criteri e linee guida per la qualità urbanistica, architettonica ed edilizia della progettazione coerentemente con gli indirizzi e gli elaborati del P.R.G. in corso di adozione, nonché per gli aspetti funzionali e formali delle opere edilizie e per il loro inserimento nel contesto urbano ed ambientale.

2. I criteri e le linee guida, che possono essere contenute in appositi vademecum, sono approvati dall’Amministrazione comunale che ne dovrà garantire l’osservanza sia per la predisposizione dei progetti urbanistici ed edilizi che per la loro istruttoria da parte degli Uffici stessi.”

Come si può facilmente notare la funzione primaria, il prestigio e la rilevanza culturale di tale Comitato, per non costituire un duplicato della vecchia Comm. Ed., saranno caratterizzati soprattutto da come verranno autorevolmente elaborati “i criteri e linee guide” per l’esame qualitativo dei progetti. A tale proposito è però opportuno formulare qualche riflessione in merito, soprattutto per meglio inquadrare per cosa si debba intendere per qualità, urbana od edilizia, onde evitare genericità astraenti o regole aprioristiche pseudopratiche o troppo manualistiche, dato che qualsiasi qualità, per definizione, non è mai riconducibile a norme prescrittive e meno che mai può discendere da regolamenti quantitativi, anche se predisposti con le migliori intenzioni e redatti nel massimo rispetto per qualsiasi espressone realmente architettonica. Riflettere su questo punto è necessario anche perché alcuni elaborati gestionali (CD2) del nuovo P.R.G. adottato dal Comune, in particolare sia la cd carta per la qualità (G1) sia soprattutto l’equivoca guida per la qualità degli interventi (G2), pur apparentemente redatti per consentire una corretta grammatica architettonica sottendono equivocamente chiari riferimenti pseudoqualitativi del tutto fuorvianti. Si legga a proposito quanto è stato già scritto sul n° 10 di questa rivista circa i suggerimenti manualistici e generalizzanti previsti dal nuovo P.R.G. per la città storica!

Deve essere comunque ben chiaro che un regolamento che punti a controllare la qualità dei progetti garantendo modi e criteri adeguati per un miglior assetto architettonico ed urbanistico della città è degno della massima attenzione e merita l’apprezzamento di quanti da decenni lottano contro la superficialità di molti professionisti, l’indifferenza di alcuni funzionari e la cecità di certe Commissioni. Un regolamento quindi s’impone, proprio a garanzia di un corretto controllo formale del linguaggio architettonico ma occorre evitare che tale impegno tenda a trasformarsi surrettiziamente in una pseudoguida o in un generico manuale del buon costruire, come sembra invece richiamare l’art. 4 sopra ricordato quando segnala al Comitato l’obbligo nel redigere il regolamanto interno di tener conto degli indirizzi e degli elaborati del P.R.G. e che è possibile predisporre un vademecum per dettare i criteri e le linee guida da far rispettare. C’è da augurarsi che tale regolamento malgrado i riferimenti al P.R.G. sia espressione di un’alta volontà culturale che miri a garantire l’attuazione corretta ed autonoma di validi principi culturali con l’intento, indiretto ma correttamente ineccepibile, di spingere il progettista a curare al massimo soprattutto la qualità linguistica dell’immagine architettonica.

Tale proposito sottende necessariamente una volontà d’azione di natura generale rivelando così la propria natura di volontà astraente che può farle assumere anche connotati ininfluenti e negativi, quasi quelli di un non volere, proprio perché è impossibile culturalmente disciplinare la creatività architettonica in astratto. Si può pensare solo in concreto, esaminando la realtà di ogni singolo progetto e non suggerendo a priori abachi, vademecum o linee guida, tutti binari supposti generatori di sicura qualità, come propone impropriamente il Comune e il P.R.G. assumendo per l’occasione un’improvvida e non dovuta veste di precettore, del tutto fuori luogo.

C’è in sostanza il pericolo assai reale che le determinazioni qualitative di un regolamento così congegnato, si traducano in schematismi applicativi generici ed astratti, cioè irreali, proprio perché nessun pre-giudizio è lecito formulare fuori dal vero giudizio sul singolo caso concreto dato che non è possibile predeterminare in astratto il corrispettivo qualitativo di ogni singolo progetto. Il pericolo infatti è l’ineffettuabilità di un siffatto regolamento che rischia di essere addirittura fuorviante per ogni seria progettazione malgrado l’assunto positivo che potrebbe promuoverlo. Del resto se è difficile che i progettisti possano rispondere punto per punto ai requisiti stabiliti da un sistema di regole così enfaticamente preordinate al controllo della qualità, è altrettanto vero che anche se un edificio si trovasse nelle condizioni previste dalla norma non è detto che essa sia da ritenere, per qualità intrinseca, nei fatti ammissibile e portatrice di qualità. Infatti, anche in tal caso, la norma in apparenza concreta assumerebbe il carattere dell’irrealtà poiché le autonome scelte architettoniche, peculiari in ogni progetto, non possono mai essere ne’ classificate ne’ previste da una norma generale. Il caso singolo, in architettura, è sempre una sorpresa, qualcosa che viene riconosciuto come valido o meno solo quando si esplicita soprattutto nello spazio. La norma qualitativa invece essendo di per se indifferenziata e per sua natura astraente oscilla tra i valori d’indirizzo e quelli di controllo non assumendo appieno mai i valori ne’ dell’uno ne’ dell’altro.

È responsabilità dei progettisti, quelli seri lo fanno, non adeguarsi mai ai regolamenti supinamente ma sempre eticamente, individualizzandoli culturalmente per rispondere solo alla proprio coscienza morale e professionale.

L’utilità, da tutti riconosciuta, di porre mano finalmente a norme regolamentari in tema di qualità edilizia ed urbana dovrà pertanto coinvolgere il Comitato affinché esse non siano astrattamente prescrittive essendo ciò impossibile dato che si attua solo l’atto singolo progettuale ma che siano invece tali da far ricadere il progetto nella gamma di quelle opportunità di correttezza formale che sole possono guidare l’atto singolo progettuale a buon fine dato che l’atto singolo è sempre caso singolo di quanto la norma ha di generico.

Caro Pirani,

quando anche lei ha ritenuto di intervenire sulla questione ‘Auditorium di Ravello’ ho pensato: “Guarda un po’ dove arriva il potere di quella lobby; scomodano persino Pirani, che siamo abituati a considerare serio e dettagliatamente informato”.

Ma adesso lei ritorna sull’argomento, facendosi portavoce delle dichiarazioni del sindaco; ho dovuto pensare che lei ci creda. E ripensando ad altri suoi scritti nei quali – con giustezza, a mio parere – se la prendeva con il conservatorismo assoluto che domina alcune posizioni della realtà ambientalista italiana, ho capito che questa è l’unica affinità tra le sue posizioni e quelle espresse dagli argomenti della lobby suddetta.

E allora elenco ancora una volta gli argomenti e contrario, già da me esposti. Nella penisola sorrentino amalfitana vige un PUT (Piano urbanistico territoriale) che ha individuato precise linee di sviluppo e di compatibilità con le condizioni storiche e geomorfologiche locali. In particolare, ha indicato che strutture di carattere fortemente attrattivo, come l’auditorium in questione, vanno ubicate altrove, in posizione baricentrica rispetto alle utenze e senza generare flussi di movimentazione che la struttura urbanistica degli antichi centri non può reggere. Perciò, quando l’ineffabile sindaco di Ravello sostiene che se avesse approvato la realizzazione di un centro sociale di 409 posti tutto sarebbe stato in regola, si può agevolmente rispondere ‘ni’, sia perché nessun centro sociale di funzione locale avrebbe ragionevolmente potuto raggiungere tale dimensione, sia perché invece una tale struttura avrebbe effettivamente potuto trovare posto ‘legale’ nel luogo prescelto (poco importa, ai fini paesistici, che oggi tale area sia un roveto-immondezzaio, perché la storia del nostro paesaggio dimostra che ogni area preservata è comunque un patrimonio suscettibile di riqualificazione, mentre un’area abusivamente occupata è comunque una disgrazia non più rimediabile).

Nessun lavoro preliminare di studio ambientale è stato condotto da Niemeyer né da altri; con ciò intendo non qualche velleitario schizzo accompagnato da una composizione ‘poetica’, ma un serio e dimostrativo studio prospettico-ambientale che dimostrasse il vantaggio paesistico dell’inserimento proposto. Ciò è in conflitto con tutta la nostra cultura; se Niemeyer è abituato a progettare nel deserto, ciò potrà anche essere, ma a Brasilia, non in Costiera. In questione sono dunque tre punti: 1 – La mancanza di uno studio a livello regionale che dimostri l’opportunità funzionale dell’auditorium a Ravello, quando Napoli non ne ha ancora uno, ed ha appena rischiato di perdere la propria orchestra sinfonica, scaricata dalla RAI. 2 – La mancanza dei presupposti urbanistici di compatibilità col PUT, che consentano di collocare una tale struttura a Ravello, già intasata dal traffico e insuscettibile di vedere ulteriormente incrementati i propri flussi turistici, così com’è invece nei propositi dell’amministrazione e di alcuni privati. 3 – La incompatibilità del progetto di Niemeyer, o di chi per esso, con la struttura del luogo, sia perché risolve con uno sbalzo di alcuni metri la contraddizione con l’area di sedime, che non lo consentirebbe, sia perché propone ancora una volta il gioco della ‘pura forma’, quale evasione dalla difficoltà e problematicità contingente della progettazione, rinnegando valori ed istanze che si sono venuti affermando con sempre maggiore evidenza nella teoria e nella prassi della moderna cultura architettonica. O non è così?

Giulio Pane, Professore di Storia dell’ArchitetturaDipartimento di Storia dell’Architettura e Restauro Facoltà di Architettura - Napoli

Vedi anche la lettera a Eddyburg di LodoMeneghetti

Caro Eddy,

il mio sconcerto per gli articoli di Pirani su "la Repubblica" in accanita difesa del progetto ritenuto opera di Niemeyer (col secondo articolo che si conclude con una lunga citazione del sindaco, quasi che il timbro dell'autorità possa fare definitiva giustizia delle posizioni contrarie a un'operazione illegale) non è stato poi così traumatico. Pirani, da me ammirato soprattutto per gli interventi in pertinace difesa del servizio sanitario nazionale, della scuola pubblica, ecc.ecc., altre volte ha lasciato trapelare la sua nervosa intolleranza verso un presunto radicalismo verde che impedirebbe l'attuazione di certe opere necessarie per lo "sviluppo" (si ride) del paese. Come se il disastro territoriale e paesaggistico gli fosse sconosciuto, o non esistesse appunto grazie all'azione del radicalismo verde i cui risultati vedrebbe lui solo; mentre noi rimpiangiamo che non ci sia stato da nessuna parte, verdi o rossi o azzurri che fossero, effettivo radicalismo nella difesa del Bel Paese, ormai Malpaese (Valentini, con insistenza, sempre su "la Repubblica").

Come sai, su Ravello ho scritto ampiamente, anche discutendo con De Seta. Non è il caso di riprendere argomentazioni da lì, salvo un'autocitazione che corrobora i principi dichiarati alla fine del tuo editoriale 42 / 2 maggio (risarcire le ferite, disegnare con delicatezza un progetto di ricupero del paesaggio, un progetto di restauro): "la miglior soluzione è quella di un'architettura che sia capace di non ergersi, che scelga invece un lavoro di cura, risanamento del corpo malato, di ricostruzione della perduta giovanile bellezza con nuova bellezza senile" (21.1.04). Un principio generale, questo, da applicare in tutti quei pochi luoghi non ancora del tutto massacrati dove premono i mostri per realizzare le loro mostruose dimore. Attenzione, ora. Pirani, a sostegno della propria posizione e dell'attacco a Italia Nostra, rivanga l'occasione persa da Venezia di potersi dotare di opere di Wright e di Le Corbusier. A parte che da una lettera al giornale di Franca Serni, già collaboratrice di Carlo Scarpa, il progetto del maestro americano parrebbe in anticipo di un paio d'anni sulla fondazione di Italia Nostra, la questione allora si poneva in maniera diversa; Pirani non centra il bersaglio. Per limitarmi al caso del Masieri Memorial: mi ricordo che non emerse alcuna questione di legalità. Si trattava di inserire l'edificio di modeste dimensioni in un piccolo tratto della cortina sul canale, quella cortina che mette in mostra architetture di cinque o sei secoli tenute insieme, incatenate direi, appunto dalla forza della continuità, inoltre rafforzata e definitivamente unificata dalla straordinaria e specchiante partecipazione della strada d'acqua. Le istituzioni locali (e no?), il comune soprattutto, bocciarono il progetto (meraviglioso, wrightiano che più non si poteva, se così posso dire, cioè pieno di attenzione alla "natura", alla storia e ai sentimenti) adottando un loro punto di vista meramente estetico, cieco verso un'''architettura moderna" considerata come un generico offensivo apparato lesivo di un presunto, inesistente stile del canale. Insomma, per noi il Memorial si doveva costruire e allora sì, veramente, Venezia avrebbe avuto un dono come i molti ricevuti nei secoli lungo il canale. Nessuna analogia fra il Niemeyer di Ravello e il Wright di Venezia.

Infine, mi sai ricordare almeno un caso importante di rovinoso intervento in Italia per il quale Pirani abbia speso la sua autorità di bravo giornalista?

Condivido totalmente il tuo editoriale, salvo osservare che il confronto con lo sfondamento dovuto a Via della Conciliazione non è forse il meglio calzante, è anche altro a cui oggi voglio dedicare un po' di attenzione: il quotidiano a cui fai, come molti di noi, riferimento, non ha pubblicato le lettere critiche dell'atteggiamento piraniano. Brutta cosa, ma, l'ho capito da tempo, "normale" purtroppo. Ne ho avuto prova quando scrissi ad Augias circa il referendum sull'articolo 18, criticando la sua propaganda per il no all'estensione proprio mentre un bellissimo articolo di Luciano Gallino accanto alla sua rubrica dimostrava l'utilità sociale e, direi, morale del sì. Tu pubblicasti il mio pezzo notando la mancanza di risposta. Penso che i giornalisti non accettino critiche, nemmeno da persone che, riguardo a un dato tema in causa, posseggono credenziali di primo ordine. C'è poi il modo di Scalfari su "Venerdì": quando, talvolta, pubblica una lettera "contro", lo fa per poter dissertare agevolmente in una risposta scritta con l'abilità che gli è propria.

Circa "la Repubblica" dovrei andare oltre e dire del cambiamento sia nei contenuti sia nella grafica, quest'ultima ormai davvero impostata secondo la presunta opportunità, oggigiorno, di tempestare il "cliente" con figure a colori e no in gran parte inutili, contraltate da articoli sempre più brevi, salvo i pochi nelle pagine deputate alla cultura (talvolta poco interessanti o, addirittura, "barbine". Quanto ai contenuti politici, sociali, sindacali e così via forse me ne occuperò in futuro. Per oggi ti chiedo: ti sei accorto del radicale mutamento in ordine alla questione israelo-palestinese? Ultimo atto "culturale" l'intervista di ieri, 6 maggio, allo storico Benny Morris (di Susanna Nirestein), a suo dire "sempre uomo di sinistra" che però sarebbe "secondo" rispetto a un "primo" meno anti-palestinese. Infatti, cosa potrebbe proporre d'altro oltre al "giusto" muro, ai "legittimi" omicidi mirati, all'esclusivo scarico di responsabilità su Arafat? Sono lontani i tempi in cui leggevamo gli equilibrati, sinceri articoli di Sandro Viola; ti sei accorto di quando "l'hanno fatto fuori" perché gli israeliani lo avevano accusato, ingiustamente, di stare dall'altra parte? Poi l'hanno riciclato attraverso varie prove d'incarichi, ripartendo da Mosca per ritornare solo recentemente, e raramente, sul tema per il quale era stato maestro, sempre bravo ma attentissimo a non sgarrare? Pensa a come si potrebbero far leggere a Pirani le lettere inviate a te, la mia compresa.

Ciao, caro. Lodo

Non so proprio come rispondere all'ultima domanda. Ma sono certo che qualche giornalista di Repubblica capita ogni tanto su queste pagine. Del resto, bisogna avere un po' di comprensione verso i giornalisti, che ogni giorno devono scegliere tra mille cose. Se poi uno è un po' fazioso, come Pirani (e come del resto noi stessi)...

Ti ringrazio molto per i risultati che fornisci, e me e ai frequentatori di Eddyburg , delle attentissime letture che fai di Repubblica . Che su questo giornale appaiano cose che non condividiamo è comunque utile: ci ricorda che è bene non affezionarsi troppo a una sola testata, ma ooccorre confrontarne, sempre che si possa, più d'una. E' una tesi che credo che Scalfari condividerebbe.

© 2025 Eddyburg