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Al Presidente della Provincia di Bologna

Signora Beatrice Draghetti

e p. c.

Al Presidente della Regione Emilia-Romagna,

Vasco Errani

Al Sindaco di Bologna,

Sergio Cofferati

All’Assessore alla Pianificazione Territoriale e Trasporti della Provincia di Bologna

Giacomo Venturi

Gentilissima Presidente,

apprendiamo con sconcerto dai giornali della decisione di rimuovere dal suo incarico di Direttore del Settore Pianificazione Territoriale e Trasporti della Provincia di Bologna l’arch. Piero Cavalcoli senza alcuna motivazione.

I firmatari di questa lettera, nella loro qualità di docenti universitari di discipline territoriali, di ricercatori, professionisti e operatori in questi campi, considerano una tale decisione preoccupante e intempestiva da numerosi punti di vista.

Innanzitutto, per l’alta qualità professionale da tutti apprezzata dell’arch. Cavalcoli, per l’impegno profuso in tanti anni di direzione nella costruzione di un ufficio del piano probabilmente fra i meglio attrezzati e strutturati in ambito europeo, e per l’opera di paziente progettazione, con l’amministrazione tutta, di un modello di governo del territorio metropolitano innovativo, multilivello e al passo con le complesse sfide attuali e future.

In secondo luogo, perché ritengono incomprensibile che una amministrazione di centro-sinistra – di fronte alle sfide che oggi la pianificazione territoriale deve affrontare nella ricerca di un difficile equilibrio fra competitività e qualità territoriale, fra esigenze di valorizzazione della progettualità privata e tutela dell’interesse collettivo – decida, con motivazioni francamente oscure, di privarsi della competenza e della autorevolezza di un tecnico di prim’ordine che proprio della ricerca di quel difficile equilibrio ha fatto l’obiettivo del suo percorso personale non solo di civil servant, ma anche di docente, animatore culturale ed intellettuale critico.

Gli obiettivi di una pianificazione metropolitana moderna appaiono molteplici e di difficile conciliazione e le soluzioni che nel nostro paese sono state recentemente proposte appaiono spesso francamente inadeguate. Al contrario, la Provincia di Bologna, con il PTCP recentemente approvato, si è avviata in una direzione insieme possibile, desiderabile e innovativa, oggi alla prova di una coerente realizzazione. Il provvedimento in questione sembra compromettere seriamente questa prospettiva, disperdendo il patrimonio umano, culturale e disciplinare pazientemente costruito.

Per non interrompere un processo virtuoso e per evitare di lanciare un messaggio contraddittorio alla comunità dei tecnici e dei ricercatori, ma anche dei cittadini, si chiede di voler ripensare questa decisione.

Roberto Camagni, professore ordinario di Economia urbana, Politecnico di Milano. Presidente della European Regional Science Association

Maria Cristina Gibelli, professore associato di Politiche urbane e territoriali, Politecnico di Milano

Gastone Ave, professore associato di Pianificazione territoriale, Università di Ferrara

Mauro Baioni, urbanista, dottorando in Politiche territoriali e progetto locale, Università degli studi Roma Tre.

Marcello Balbo, professore ordinario di Urbanistica, IUAV Venezia

Angela Barbanente, professore associato di Pianificazione Territoriale, Politecnico di Bari

Piergiorgio Bellagamba, professore ordinario di Urbanistica, Facoltà di Architettura di Ascoli Piceno, UNICAM

Attilio Belli, professore ordinario di Urbanistica e presidente del corso di laurea in Urbanistica e Scienze della PTe A, università "Federico II" di Napoli

Gianni Beltrame, professore associato di Urbanistica, Politecnico di Milano

Paola Bonora, presidente del Corso di Laurea in Scienze Geografiche, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Bologna

Dino Borri, professore ordinario di Ingegneria del territorio, Politecnico di Bari, presidente dell'Associazione Italiana di Scienze Regionali

Aurelio Bruzzo, professore straordinario di Politica economica, Università di Ferrara

Francesca Calace, ricercatrice di Urbanistica , Politecnico di Bari

Antonio Calafati, professore associato di Economia urbana, Università Politecnica delle Marche. Segretario dell’Associazione Italiana di Scienze Regionali

Teresa Cannarozzo, direttore del Dipartimento Città e Territorio, Università di Palermo

Roberta Capello, professore straordinario di Economia regionale, Politecnico di Milano

Giancarlo Capitani, professore associato di Nuove tecnologie per i sistemi urbani e territoriali, Politecnico di Milano

Bruno Carapella, Senior Partner RSO, Responsabile P. A. - esperto di strategie ed organizzazione della Pubblica Amministrazione

Arnaldo “Bibo” Cecchini, professore straordinario di Tecniche urbanistiche, Presidente del Corso di Studi di Pianificazione Territoriale, Urbanistica e Ambientale, Università di Sassari

Gustavo Cecchini, professore associato di Pianificazione del territorio, Facoltà di Ingegneria, Università di Palermo

Carlo Cellamare, professore associato di Ingegneria del Territorio presso la Facoltà di Ingegneria, Università degli Studi di Roma "La Sapienza"

Giancarlo Consonni, professore ordinario di Urbanistica, Politecnico di Milano

Fausto Curti, professore straordinario di Valutazione e gestione dei progetti, Politecnico di Milano

Moreno Daini, dirigente del Settore “Programmazione, Tutela e Gestione del Territorio” del Comune di Imola (Bo)

Alessandro Dal Piaz, professore di Progettazione urbanistica nell'Università Federico II di Napoli

Vezio De Lucia, urbanista Umberto De Martino, professore ordinario di Urbanistica, Università degli Studi di Roma - "La Sapienza"

Valeria Erba, professore ordinario di Urbanistica, Politecnico di Milano David Fanfani, ricercatore, DUPT/Facoltà di Architettura di Firenze

Stefano Fatarella, funzionario urbanista, Direzione centrale pianificazione territoriale, energia, mobilità, infrastrutture di trasporto, Servizio pianificazione territoriale sub-regionale, Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia

Antonio Font, professore ordinario di Urbanistica, Universitat Politécnica de Catalunya, Barcelona

Francesco Forte, professore ordinario di Urbanistica, Università degli Studi di Napoli Federico II

Gianfranco Franz, direttore Master in Programmazione di Ambienti Urbani Sostenibili, Università degli Studi di Ferrara

Roberto Gambino, professore ordinario di Urbanistica, Politecnico di Torino

Roberto Giannì, Coordinatore del Dipartimento Urbanistica, Comune di Napoli

Francesco Indovina, professore ordinario di Analisi delle strutture urbane e territoriali, IUAV Venezia. Direttore di Archivio di Studi Urbani e Regionali

Manfredi Leone, ricercatore di Architettura del Paesaggio, Università di Palermo

Giancarlo Leoni, professore a contratto, Politecnico di Milano (sede di Mantova). Dirigente Area Gestione del Territorio ed Infrastrutture della Provincia di Mantova.

Roberto Lo Giudice, libero professionista, presidente della Sezione INU di Basilicata

Alberto Magnaghi, professore ordinario, presidente del Corso di laurea in Urbanistica e Pianificazione Territoriale e Ambientale dell'Università di Firenze

Fabrizio Mangoni, professore associato di Urbanistica, Università degli Studi Federico II di Napoli

Anna Marson, professore associato di Politiche territoriali e ambientali e direttrice del Corso di laurea specialistica in Pianificazione della città e del territorio, IUAV Venezia

Flavia Martinelli, professore ordinario di Analisi dei sistemi territoriali, Università degli Studi "Mediterranea" di Reggio Calabria

Lodovico Meneghetti, professore ordinario di Urbanistica al Politecnico di Milano, a riposo. Condirettore dell'Archivio di urbanistica e architettura Piero Bottoni (Apb), Politecnico di Milano

Sauro Moglie, direttore Area Urbanistica e Ambiente Comune di Ancona. Presidente INU Marche

Corinna Morandi, professore associato di Urbanistica, Politecnico di Milano

Maurizio Morandi, professore straordinario di Urbanistica, Università di Firenze

Anna Moretti, professore associato di Pianificazione Territoriale, Politecnico di Milano

Federico Oliva, professore ordinario di Urbanistica al Politecnico di Milano e Presidente del Corso di Laurea di Pianificazione

Gabriele Paolinelli, professore a contratto di Architettura del paesaggio, Università di Firenze

Stefano Pezzoli, Istituto Beni Culturali Regione Emilia-Romagna, Servizio Beni Architettonici Ambientali

Daniele Pini, professore associato di Urbanistica, Facoltà di Architettura di Ferrara

Laura Pogliani, ricercatrice di Urbanistica, Politecnico di Milano

Daniela Poli, ricercatrice Dupt - università di Firenze

Paolo Rigamonti, urbanista

Bernardo Rossi-Doria, professore ordinario, presidente del CCS in Pianificazione Territoriale Urbanistica e Ambientale, Università di Palermo

Edoardo Salzano, professore ordinario di Urbanistica (FR), IUAV Venezia

Michelangelo Savino, professore associato di tecnica Urbanistica, Facoltà di Ingegneria di Messina

Agata Spaziante, professore ordinario di Urbanistica, Politecnico di Torino

Roberta Strappini, professore associato di Urbanistica, Coordinatore del Master di II livello, "Urbanistica nell'Amministrazione Pubblica- UrBam- "La Sapienza"

Graziella Tonon, professore associato di Urbanistica, Politecnico di Milano

Ferdinando Trapani, ricercatore in Urbanistica, Facoltà di Architettura, Università di Palermo

Paolo Urbani, professore ordinario di Diritto Amministrativo, Università di Roma3

Michele Zanelli, responsabile Servizio Riqualificazione Urbana, Regione Emilia-Romagna

31 maggio 2005

successive adesioni pervenute:

Tiziano Lugli, architetto

Marina Arena, Ricercatore SSD in Tecnica Urbanistica, Facoltà di Architettura, Università degli Studi "Mediterranea" di Reggio Calabria

Dario Predonzan, Funzionario Regione Friuli Venezia Giulia

Francesco Lo Piccolo, Università di Palermo

Matelda Reho, professore ordinario, direttore del dipartimento di pianificazione- Università IUAV di Venezia

Flavia Rinaldi, Responsabile dell'Area Tecnico manutentiva, Urbanistica e Ambiente del Comune di Remanzacco (UD)

Loredana Seassaro, prof. associato in Tecnica e Pianificazione urbanistica, Università di Genova

Andrea Rumor, urbanista

Massimo Tozzi Fontana, Istituto Beni Culturali della Regione Emilia-Romagna, Servizio beni architettonici e ambientali

Tomaso Pompili, professore associato di Economia applicata, Università degli Studi di Milano - Bicocca

Enrico Ciciotti, professore ordinario di Politica economica, Preside della Facoltà di economia, Università Cattolica di Piacenza

Carlo Donolo, professore ordinario di Sociologia economica, Università La Sapienza di Roma

Carlos LlopTorné, professore Titolare del Dipartimento di Urbanistica e Ordinamento Territoriale della Università Politecnica di Catalogna

Ugo Baldini, urbanista

Oscar Mancini, segretario generale CGIL Vicenza

Fortunato Pagano, avvocato

Paolo Baldeschi, professore straordinario di Pianificazione territoriale, Università di Firenze

Luciano Vecchi, urbanista, funzionario della Regione Emilia Romagna

Giuseppe C. Vitale, responsabile Servizio Pianificazione del territorioUmberto De Martino, professore di Pianificazione e Gestione delle Aree Metropolitane, direttore del Master "Urbam - L'urbanistica nell'amministrazione pubblica", Università "La Sapienza" di Roma

Arch. Donatella Venti, Dirigente Area Assetto del territorioProvincia di Terni

ing Marco Pompilio, urbanista professionista, Pavia

Sull'argomento, l'eddytoriale n. 72, e la lettera dell'assessore Venturi e della presidente Braghetti

1. Spopolamento e abbandono di servizi

Il quadro generale dei fenomeni che investono le città italiane tracciato da Vittorio Emiliani trova nel caso di Roma il luogo di massima intensità.

Le ragioni di questo fenomeno non risiedono tanto nella dimensione demografica -Roma, come noto, è la concentrazione urbana più grande in Italia-, quanto piuttosto nell’intensità dei processi di terziarizzazione che nella capitale hanno avuto una crescita molto più elevata che altrove. Il terziario diffuso, la grande distribuzione commerciale, l’aumento dell’offerta ricettiva turistica e la crescita della domanda abitativa da parte di categorie particolari come studenti e immigrati hanno portato ad un preoccupante spopolamento

La popolazione non solo è scesa nel cuore antico della città a livelli di allarme, ma ha vuotato i quartieri storici della città, e cioè le zona ricompresa all’interno dell’anello ferroviario. Da un decennio, poi, scende vistosamente anche la popolazione della fascia urbana compresa tra l’anello ferroviario e il grande raccordo anulare: quella che era la “periferia” ha evidentemente mutato i suoi destini.

Questo enorme spopolamento (nel decennio 1991-2001 sono sparite da questa area oltre 200.000 cittadini) in parte ha trovato luogo nella periferia in formazione, e cioè quella esterna al Gra, mentre la maggior parte di essi (180.000) sono andati a vivere nei comuni dell’area metropolitana.

E’ evidente che i fenomeni di terziarizzazione lasciati senza guida pubblica hanno portato ad un inedito abbandono residenziale mentre migliaia di ettari di territorio agricolo scompaiono per realizzare una immensa “villettopoli”.

La dotazione dei servizi che serviva per soddisfare i bisogni della città consolidata in molti casi è da anni abbandonata, preda di vandalismo e va in rovina, mentre nei comuni della cintura si torna ai doppi turni scolastici. Un’enorme politica dello spreco che premia esclusivamente la rendita fondiaria.

2. Il cuore antico della città

La popolazione che vive ancora all’interno del perimetro delle mura aureliane e di Borgo è di 120.000 abitanti. Dal 1951 il decremento è stato del 204%: nel 1951 abitavano nel centro oltre 370.000 cittadini. Il fenomeno ha avuto la maggiore intensità fino al 1971: da allora si assiste ad un progressiva emorragia appena temperata da recenti reintroduzioni di residenza (tab. 1).

Il centro antico accoglie, come noto, le funzioni del Parlamento della presidenza del Consiglio, della Presidenza della Repubblica, e cioè delle massime istituzioni rappresentative dello Stato. Oltre a queste, hanno trovato collocazione le sedi degli istituti di credito. Nell’insieme centinaia di migliaia di lavoratori lavorano quotidianamente nel centro di Roma.

Accanto a questa funzione direzionale, in particolare nell’ultimo decennio si è consolidata l’offerta ricettiva turistica. Se a Roma nel 2002 l’offerta complessiva era di circa 94.000 posti letti, nel solo centro storico esistono 41.000 posti letto: se a questi si aggiungono quelli localizzati nelle aree di Prati, Parioli e Aurelio, e cioè nella prima corona periferica si raggiunge la percentuale del 70% del numero totale dell’offerta (tab.2).

Di fronte a questi numeri è’ del tutto evidente il motivo dello spopolamento. Evidenti sono anche le conseguenze quotidiane che gli abitanti devono sopportare: degrado, rumore, occupazione di ogni luogo da parte di un’offerta di ristorazione sempre più aggressiva e volgare.

In questo senso il divieto della vendita di bevande in contenitori di vetro è un provvedimento in parte inutile, ma del tutto inefficace a combattere il male. Di fronte all’intensità dei fenomeni che abbiamo descritto è solo con un’alta visione d’insieme che si può riportare la vita del centro a livelli civili.

Un piano d’insieme formato da provvedimento d’urgenza che riduca il dilagare di “tavolino selvaggio” ad esempio. Ma che abbia l’ambizione di disegnare obiettivi di medio e lungo periodo incardinati sull’indispensabile svuotamento di funzioni pubbliche che occupano immobili che potrebbero invece essere restituiti alla residenza; la pedonalizzazione dell’intero centro e la ragionevole soluzione della sosta dei residenti; l’attuazione del grande progetto del Parco dei Fori romani colpevolmente abbandonato da un decennio; la realizzazione del progetto Lungotevere ideato da Italo Insolera.

Vediamo invece con preoccupazione che si continuano ad assecondare le tendenze del mercato: ulteriore aumento della ricettività turistica (il caso di via Giulia è emblematico) e aumento sconsiderato dell’offerta di parcheggi a partire dagli sciagurati progetti del Pincio e dei Lungotevere.

3. I quartieri della periferia storica

Se confrontiamo in questo caso la popolazione residente con quella del 1951, si riscontra un sostanziale equilibrio: siamo tornati ai circa 950.000 abitanti del primo dopoguerra. In realtà se si confronta il dato del 2001 con il picco del 1971 (circa 1.400.000) si comprende come il declino demografico sia stato sempre più intenso (tab.3).

Anche in questo caso sono state inizialmente le funzioni dello Stato a innescare la terziarizzazione: il polo giudiziari di Prati, quello universitario della Sapienza e tanti altri ancora.

Il fatto che continua l’introduzione di funzioni terziarie pregiate (si pensi all’Università Ostiense) non potrà non produrre un ulteriore abbassamento del numero dei residenti nel prossimo periodo.

4. La vecchia periferia

Il dato più inaspettato è comunque rappresentato dal declino demografico misurabile nell’ultimo decennio della periferia speculativa di Roma, quella sorta a partire dagli anni 60 e 70, compresa tra l’anello ferroviario e il grande raccordo anulare.

Se nel 1991 i residenti erano ancora 1.141.000 ora siamo di fronte a 1.033.000. Questo dato evidenzia che una parte del patrimonio abitativo è stato abbandonato sia per terziarizzazione diffusa sia perché una sua parte viene utilizzata per alloggiare cittadini dei paesi poveri o anche studenti.

Ma è il dato complessivo a preoccupare: nel decennio 1991-2001 l’Istat ha calcolato che sono stati 177.000 mila i romani ad abbandonare la città: in realtà dalla fascia compresa all’interno del grande raccordo anulare l’abbandono ha riguardato oltre 200.000 abitanti che in parte si sono trasferiti nell’area metropolitana e in parte nella periferia esterna al Gra (tab. 4).

5. La periferia della conurbazione

Questa estesa periferia presenta ormai evidenti fenomeni di conurbazione con i comuni della fascia metropolitana. Tale fenomeno era già parzialmente evidente, ma si è sicuramente incrementato per alcune scelte già effettuate. La realizzazione della nuova Fiera di Roma a Ponte Galeria rappresenterà la saldatura con Fiumicino. I nuovi quartieri della fascia nord della città stanno evidenziando la saldatura con il sistema urbano del lago di Bracciano. A est i grandi insediamenti commerciali e residenziali formano un unicum con Giudonia e Tivoli. A est il tumultuoso sviluppo commerciale e residenziale dell’asse Appia costituisce la saldatura con i Castelli romani.

6. La villettopoli metropolitna

la fascia della prima e seconda cintura metropolitana subisce maggiormente gli effetti dello svuotamento della città di Roma. Non solo sono stati complessivamente 117.000 gli abitanti che hanno incrementato la popolazione residente della provincia, ma se si guarda ad alcune localizzazioni si è di fronte a valori incrementali impressionanti. L’area della tiberina (servita dalla linea FM1) cresce nel decennio del 15%; l’area del lago di Bracciano del 27%; L’area della Flaminia del 22%; il litorale del 17%. Sono valori che dimostrano un impressionante fenomeno di consumo di suolo, poiché la domanda si orienta verso densità basse: è la grande villettopoli paventata da Antonio Cederna (tab. 5).

7. La scomparsa dell’agro romano

L'altra caratteristica che fa di Roma un caso esemplare nel panorama italiano à che da un decennio è stato programmaticamente abbandonato l’uso degli strumenti urbanistici di governo del territorio. Si procede con la politica del caso per caso, dell’uso dell’accordo di programma come strumento di scardinamento del piano regolatore.

E quando il piano urbanistico viene praticato si sceglie la strada di un consumo di suolo tanto elevato quanto ingiustificato di fronte ai dati che abbiamo fin qui fornito.

Italia Nostra ha fatto negli anni scorsi una battaglia rigorosa contro il consumo di suolo previsto dal nuovo Prg di Roma. A fronte infatti di una città che ha perduto circa 180.000 abitanti nel decennio 1991-2001, il piano prevede infatti l’urbanizzazione di oltre 15.000 ettari oggi destinati ad agricoltura (per avere un ordine di misura si pensi che l’area racchiusa all’interno delle mura Aureliane misura 1.400 ettari). La grande maggioranza dei 15.000 ettari sono localizzati nelle parti più pregiate dell’agro romano, lasciandone lacerti circondati da edificazione e da altri usi urbani.

In buona sostanza la polita dello spreco e la deregulation stanno cancellando se non ci saranno interventi urgenti, quello che è stato il grande patrimonio di natura e storia descritto da tanti letterati, artisti, poeti e uomini di cultura.

La cronaca de l’Unità, edizione di Roma, 15 giugno 2005

Muore la città "vecchia", che si svuota dei suoi abitanti, mentre tonnellate di cemento si riversano in periferia, in quella che un tempo era la campagna romana.

«La grande villettopoli paventata da Antonio Cederna è diventata una realtà. La diffusione residenziale, potentemente favorita dal terzo condono, ha consumato oltre 10mila ettari di terreni agricoli», ha denunciato ieri Paolo Berdini, nel corso del convegno organizzato dal Comitato per la Bellezza, presieduto da Vittorio Emiliani, e dall'associazione Polis. Un dibattito vivace, svoltosi alla Biblioteca della Camera, sul tema delle trasformazioni in atto nella città e nelle periferie, al quale hanno partecipato eminenti studiosi e decine di comitati di quartiere. E dal quale è emerso un quadro allarmante, innanzitutto sullo spopolamento della Capitale. «Nel complesso, tra '91 e il 2001, sono stati 204mila gli abitanti della zona all'interno del Gra che si sono allontanati, trasferendosi nell'area metropolitana e nelle periferie più estreme», afferma Berdini. A svuotarsi non è stato solo il centro storico. Persino nella vecchia periferia romana, quella nata negli anni '60 e '70, gli abitanti sono diminuiti del 9,4 percento. Intanto i rioni più belli della città sono assediati da uffici, centri commerciali, pub e fast-food, da strutture ricettive. Restano i palazzi delle massime istituzioni dello Stato e quelli delle banche, resta il viavai di centinaia di migliaia di lavoratori. E i residenti devono fare i conti con il degrado, il rumore l'invasione di «un'offerta di ristorazione sempre più aggressiva e volgare». Per dare conto del calo demografico, Berdini cita i dati sull'offerta turistica: a Roma nel 2002 era nel complesso di 94mila posti letto, il 70% dei quali nel centro storico. Come intervenire, allora? «I provvedimenti di divieto di accesso carrabile nelle ore serali o della vendita di bevande in contenitori di vetro sono strumenti del tutto inefficaci ad affrontare il problema. Serve un piano d'insieme - sostiene Berdini - anche con provvedimenti d'emergenza, ad esempio per contrastare il tavolino selvaggio. È indispensabile lo svuotamento di funzioni pubbliche e il riuso residenziale degli immobili oggi occupati, la pedonalizzazione dell'intero centro e la soluzione della sosta dei residenti». E poi ci sono i grandi progetti da attuare, come quello «del Parco dei Fori, colpevolmente abbandonato da un decennio». «Invece si continuano ad assecondare le tendenze del mercato», conclude amaro l'architetto, che se la prende anche con il Nuovo Prg, il quale «prevede l'urbanizzazione di oltre 15mila ettari oggi destinati all'agricoltura».

SCAVARE, su questo verbo sindaco e costruttori sono sicuramente d’accordo: «dobbiamo scavare», dice Veltroni ai costruttori romani riuniti per l’assemblea annuale dell’Acer, ieri all’Auditorium. Certo, per realizzare le nuove linee metropolitane. Ma anche, «scavare per portare le auto sotto terra», spiega Veltroni, forte di quello che ormai è più di un auspicio: i poteri speciali sul traffico, che comprendono, appunto, anche facilitazioni per la realizzazione di nuovi parcheggi. La richiesta ieri avanzata dalla Regione al governo è chiara. E così le prospettive che si aprono, non solo per il traffico ma anche per imprese e costruttori romani, che ieri hanno riproposto come un tormentone la domanda: «Roma può crescere ancora?». Il presente dice che il Pil del Lazio cresce più di quello del paese (4,6% contro l’1,2%) e che il settore delle costruzioni cresce di più degli altri (4,7% la crescita del valore aggiunto nel 2004), costituendo il 58% dell’industria provinciale. Quanto al futuro, da parte dei costruttori è pressing sul governo perché stanzi risorse per infrastrutture e grandi opere - ma anche per l’emergenza abitativa. Con l’amministrazione locale, invece, si gioca, un’altra partita: la costruzione di nuove case, quelle che fruttano sul mercato, e quelle da destinare all’emergenza abitativa.

Una partita che il nuovo piano regolatore ha già chiuso dentro a previsioni certe: 61 milioni metri cubi di nuove edificazioni, a fronte di 87mila ettari di verde tutelato. Ma l’Acer chiede di riaprirla, prima di tutto - spiega il presidente Silvano Susi - «per far fronte all’emergenza abitativa», con alloggi da mettere in vendita «ma anche in affitto». L’associazione romana, che pure indica nella «manutenzione» delle periferie la nuova frontiera, chiede di reperire nuove aree per la 167, e di destinare l’1% delle aree comunali ad opere di edilizia per i nuovi poveri: 1.260 ettari che i costruttori tradurrebbero in 30-35mila alloggi. Proposta contraria a quanto già ribadito nella delibera sull’emergenza abitativa («le previsioni del piano regolatore non si toccano») e depositata tra le 11mila osservazioni avanzate al nuovo prg, di cui Susi chiede contemporaneamente la rapida adozione, la modifica e l’anticipazione. Per cominciare a costruire e «riqualificare» le periferie, prima ancora che il prg venga adottato, attraverso l’approvazione di piani integrati urbani, sul modello degli articoli 11, decentrandone anche se possibile l’attuazione nei municipi. E torniamo ai poteri speciali.

I costruttori appoggiano in pieno la battaglia, riaperta da Comune e Regione, tanto sul versante dei finanziamenti a Roma capitale, quanto su quello dei poteri speciali, non solo in materia di traffico, però. Ovviamente, il governo dell’urbanistica, attualmente troppo spostato sulla Regione, è materia che preme ai costruttori, che hanno alle spalle 7 anni di attesa per l’approvazione dei cosiddetti articoli 11 per realizzare infrastrutture e case nelle periferie. E su questa materia, la giunta Marrazzo ha già annunciato che è pronta a procedere a semplificazioni e deleghe, come ha ripetuto anche ieri il nuovo presidente della Regione, promettendo un’approvazione del prg in 100 giorni. Però, ieri, il presidente dell’Acer ha aperto un altro fronte, quello delle deleghe in materia ambientale, che ha già trovato la contrarietà di Legambiente.

«La Regione non deve delegare l’ambiente»

MA QUALE DELEGA in materia ambientale? Legambiente attacca i costruttori romani, che chiedono alla Regione di semplificare e delegare al Comune anche in tema di tutela ambientale. «Ma così si passa dal gigantismo della Regione al gigantismo del Comune!», sbottano a Legambiente. Bene, i poteri speciali per il traffico, bene anche la semplificazione e le deleghe in materia di urbanistica, che servono a ridurre i tempi di approvazioni e l’eccesso di burocrazia. Ma l’ambiente non si tocca. «È una competenza cruciale delle Regioni, farebbe saltare quell'equilibrio tra poteri locali e poteri regionali che è alla base della stessa proposta di redistribuzione delle deleghe», avverte il presidente dell’associazione Lorenzo Parlati. D’altra parte, il tema delle deleghe in materia ambientale non è mai stato messo all’ordine del giorno della Regione, che continuerà a mantenere la valutazione di impatto ambientale. Unica eccezione, i parcheggi che serviranno a tagliare le gambe alla doppia fila e al traffico, la cui valutazione di impatto ambientale, con il trasferimento di poteri, spetterà al Comune.

Oltre alle deleghe non piacciono a Legambiente nemmeno le «anticipazioni» rispetto al piano. I costruttori premono perché nell’attesa che il piano venga adottato, si proceda all’approvazione di nuovi piani di interventi integrati - riqualificazioni, infrastrutture e case realizzate con il concorso di soldi pubblici e privati. «Ma così - osserva Legambiente - il Prg rischia di diventare un simulacro».

E poi, ovviamente, non piace alla associazione ambientalista la proposta di affrontare l’emergenza abitativa rubando altro verde alla città. «L’un per cento del suolo comunale significa sette volte villa Pamphili. Non cadiamo nella trappola di contrapporre il bisogno della casa alla tutela dell’agro romano», avverte Mauro Veronesi di Legambiente. Andare avanti a colpi di nuove aree verdi da destinare all’edilizia economica popolare è, dicono, inattuale e inattuabile: «A Roma 8mila stanze ogni anno vanno in deperimento, perché i costruttori non si dedicano al recupero della città che già c’è?». D’altra parte, fa notare Mauro Veronesi, lo stesso presidente dell’Acer ha parlato di «manutenzione» come nuova frontera dell’edilizia, e di «densificazione», costruire dove è già costruito.

L’altra partita che rischia di giocarsi sul verde è quella delle compensazioni. Il Comune per riscattare nuovi parchi ha promesso di cedere aree decentrate rese edificabili. «Perché in futuro non individuare zone già in parte edificate come aree di compensazione?», propone Legambiente, che infine lancia un allarme, condiviso in questo caso anche dai costruttori, per le ex aree abusive, che «devono essere circoscritte in modo rigoroso».

Ma. Ge

Berdini: I quartieri più belli assediati

da fast food e tavolino selvaggio

Muore la città "vecchia", che si svuota dei suoi abitanti, mentre tonnellate di cemento si riversano in periferia, in quella che un tempo era la campagna romana.

«La grande villettopoli paventata da Antonio Cederna è diventata una realtà. La diffusione residenziale, potentemente favorita dal terzo condono, ha consumato oltre 10mila ettari di terreni agricoli», ha denunciato ieri Paolo Berdini, nel corso del convegno organizzato dal Comitato per la Bellezza, presieduto da Vittorio Emiliani, e dall'associazione Polis. Un dibattito vivace, svoltosi alla Biblioteca della Camera, sul tema delle trasformazioni in atto nella città e nelle periferie, al quale hanno partecipato eminenti studiosi e decine di comitati di quartiere. E dal quale è emerso un quadro allarmante, innanzitutto sullo spopolamento della Capitale. «Nel complesso, tra '91 e il 2001, sono stati 204mila gli abitanti della zona all'interno del Gra che si sono allontanati, trasferendosi nell'area metropolitana e nelle periferie più estreme», afferma Berdini. A svuotarsi non è stato solo il centro storico. Persino nella vecchia periferia romana, quella nata negli anni '60 e '70, gli abitanti sono diminuiti del 9,4percento. Intanto i rioni più belli della città sono assediati da uffici, centri commerciali, pub e fast-food, da strutture ricettive. Restano i palazzi delle massime istituzioni dello Stato e quelli delle banche, resta il viavai di centinaia di migliaia di lavoratori. E i residenti devono fare i conti con il degrado, il rumore l'invasione di «un'offerta di ristorazione sempre più aggressiva e volgare». Per dare conto del calo demografico, Berdini cita i dati sull'offerta turistica: a Roma nel 2002 era nel complesso di 94mila posti letto, il 70% dei quali nel centro storico. Come intervenire, allora? «I provvedimenti di divieto di accesso carrabile nelle ore serali o della vendita di bevande in contenitori di vetro sono strumenti del tutto inefficaci ad affrontare il problema. Serve un piano d'insieme - sostiene Berdini - anche con provvedimenti d'emergenza, ad esempio per contrastare il tavolino selvaggio. È indispensabile lo svuotamento di funzioni pubbliche e il riuso residenziale degli immobili oggi occupati, la pedonalizzazione dell'intero centro e la soluzione della sosta dei residenti». E poi ci sono i grandi progetti da attuare, come quello «del Parco dei Fori, colpevolmente abbandonato da un decennio». «Invece si continuano ad assecondare le tendenze del mercato», conclude amaro l'architetto, che se la prende anche con il Nuovo Prg, il quale «prevede l'urbanizzazione di oltre 15mila ettari

di Marco Damilano

Una nuova Fiera affacciata sull'aeroporto. Un polo tecnologico all'avanguardia. Quartieri residenziali attrezzati di verde, centri commerciali e impianti sportivi. E poi 300 chilometri di binari. Interi palazzi da abbattere e riedificare. Ottantasette mila ettari di verde, contro gli attuali 82 mila. È il grande sogno di Walter Veltroni: passare alla storia come il sindaco del Piano regolatore che ha cambiato il volto di Roma. È, anche, il grande affare di inizio secolo. Una pioggia di miliardi. Tra i 15 e i 20 miliardi di euro in 15 anni (230-40 mila miliardi di vecchie lire). Una torta gigantesca che taglia trasversalmente forze politiche e imprenditori. Subito dopo il fischio di inizio della lunga partita che da qui al 2004 porterà all'approvazione definitiva del Piano (con la firma del presidente della Repubblica), due settimane fa in giunta si sono scatenati appetiti e polemiche. Si capisce: l'ultimo piano regolatore, firmato da Luigi Piccinato, risale al 1962, esattamente quarant'anni fa. Non fu neppure discusso dal consiglio comunale: la proposta del gruppo tecnico costituito dal sindaco dell'epoca, il democristiano Salvatore Rebecchini, fu adottata dal commissario prefettizio e promulgata con legge nel '65. Per trovare un piano approvato dall'aula Giulio Cesare bisogna risalire a 100 anni fa, al 1909, al sindaco Ernesto Nathan. A seguire il lungo cammino del Piano c'è un tandem composto da un vecchio urbanista e un giovane politico. L'urbanista è il bolognese Giuseppe Campos Venuti, negli anni Settanta assessore al comune di Bologna, punto di riferimento di generazioni di tecnici della progettazione delle città, il papà del piano. Il politico è il giovane assessore al Territorio Roberto Morassut, diessino, pupillo di Veltroni, incaricato di gestire politicamente l'approvazione del Piano. Una scommessa da brivido. Nel suo ufficio a due passi dal Circo Massimo, nelle stanze in cui negli anni Ottanta un assessore democristiano usava mettere a tutto volume un disco di musica classica al momento di chiedere la tangente per disturbare eventuali registrazioni, Morassut dispiega la pianta della Capitale del futuro: "La vecchia Roma centralista si reggeva sull'equazione burocrazia più mattone. Una città fondata sugli impiegati: i ministeri offrivano il lavoro, i palazzinari la casa. Tutto questo non esiste più. La nostra idea strategica si chiama centralità. Nuovi progetti urbanistici che puntano a creare tanti centri in periferia. È una sfida che facciamo all'imprenditoria locale: alzate il livello, costruite infrastrutture, una città in cui sia facile muoversi e ci sia una maggiore qualità sociale". No ai quartieri dormitorio, sì a quartieri verdi dove si possa abitare, dunque. In più, c'è una gigantesca operazione di ristrutturazione edilizia che passa per l'abbattimento e la ricostruzione della cosiddetta "città compatta", fondata sul cemento armato: Tuscolano, Prenestino, Casilino, Tiburtino. "Non è più la rendita che guida, ma l'amministrazione che guida", aggiunge Morassut. "Un'idea dirigista", attacca il consigliere comunale Claudio Santini, uomo di punta di Forza Italia nella commissione urbanistica del Campidoglio. "In questo modo i Ds diventano i grandi regolatori del traffico di affari di Roma. Mettono le mani sulla città, per usare una citazione cinefila cara al sindaco". Certo, il Piano ha risvegliato dal torpore gli imprenditori romani. E non solo. A ogni centralità, a ogni nuovo quartiere, a ogni schizzo sulla mappa corrisponde una corposa rete di interessi. C'è il gruppo Caltagirone che si sta spostando rapidamente dal mattone al ferro. Della vecchia attività edilizia resta nel Piano il quartiere di Tor Pagnotta, la cui cubatura cala da quattro milioni e mezzo di metri cubi a un milione e mezzo. In compenso, però, il gruppo è impegnato con la società Vianini nella zona di Tor Vergata e nella rete della metropolitana. In più, partecipa con le Ferrovie dello Stato nella società Grandi Stazioni alla costruzione della nuova stazione Tiburtina, che con l'alta velocità dovrebbe diventare la più importante della capitale, e alla gestione di Roma Termini, dove dovrebbe nascere un mega-parcheggio sopraelevato. Un feeling con la giunta Veltroni che, dicono i maligni, sarebbe all'origine dell'arrivo alla direzione de "Il Messaggero" di Paolo Gambescia, amico del sindaco. Ci sono poi nuovi imprenditori, aggressivi, decisi a non farsi scappare l'occasione: il gruppo Lanaro dei fratelli Toti (di Pierluigi si è parlato come possibile nuovo presidente della Roma, al posto di Franco Sensi) si è aggiudicato la nuova Fiera a Ponte Galeria, un milione e mezzo di metri cubi, progettato dall'architetto Masino Valle, che comprende le strutture fieristiche, gli alberghi e un parco fluviale sul Tevere, oltre alla Bufalotta. Questo quartiere in zona nord è stato al centro di alterne vicende alla fine dei ruggenti anni Ottanta, quando fu acquistato da un fantomatico mister Bond australiano, poi fallito. Adesso si presenta come una potenziale Milano due in salsa romana, ed è stata ribattezzata con enfasi "la porta di Roma". Il progetto, disegnato in modo avvenieristico, prevede boulevard e campi sportivi. Ci sono poi i milanesi del gruppo Pirelli-Telecom di Marco Tronchetti Provera. Proprietari del terreno Romanina, la zona dove negli anni Ottanta si era progettato di costruire il nuovo stadio da 100 mila posti. E dove ora il Comune sogna la nascita di un polo di ricerca, con lo spostamento del centro studi Donato Menichella di Bankitalia, del Centro nazionale ricerche, dell'Enea e dell'agenzia aerospaziale. In un'altra zona di proprietà Pirelli, il quartiere Acilia, vicino Ostia, il Comune proverà a trasferire, d'accordo con l'Università Roma Tre, alcune strutture per gli studenti. Ci sono poi le proprietà dello Stato e degli enti pubblici. Il quartiere di Pietralata, dove dovrebbero traslocare un pugno di ministeri (Agricoltura, Ambiente), l'Istat e la provincia di Roma, l'Ostiense dove si sposteranno gli uffici del Comune (il cosiddetto Campidoglio 2), le tre università. C'è infine, naturalmente, il Vaticano. Che dispone di proprietà diffuse sul territorio, a macchia di leopardo. Appartengono soprattutto a Propaganda Fidae, sotto la responsabilità del cardinale Crescenzio Sepe, già uomo-chiave del Giubileo, una vecchia conoscenza degli amministratori romani. Il problema più spinoso si chiama Cesano: zona extraterritoriale, ricolma di antenne nocive per la salute degli abitanti, già al centro di un clamoroso braccio di ferro con lo Stato italiano. Senza troppi clamori, Veltroni sta spingendo per trovare una soluzione alternativa alle antenne: un patto con il Vaticano per eliminare il problema. Accordo difficile. Un ginepraio di interessi in cui non è facile districarsi. E infatti, a piano appena presentato, è cominciata la bagarre. Il primo scontro è interno alla maggioranza: tra Veltroni che vuole accelerare e una parte della Margherita (i popolari del vicesindaco Enrico Gasbarra) che frena. Ma anche all'interno di An si confrontano anime diverse: grazie a una leggina regionale approvata dal centro-sinistra, la competenza sul via libera al Piano doveva passare a partire da quest'anno alla provincia (governata da un uomo di An Silvano Moffa). Ma la regione Lazio, cioè Francesco Storace, ha fatto finta di niente e non intende mollare. In gioco c'è la possibilità di condizionare il Comune alla vigilia della prossima campagna elettorale. E anche la candidatura a sindaco del centro-destra, che potrebbe essere contesa proprio da Moffa e Storace. E Forza Italia? Nel giro dei costruttori, gente poco ideologica e molto attenta al pratico, si riconosce che la giunta Veltroni ha rimesso in moto l'occupazione e "l'indotto". Così, all'opposizione, non resta che strepitare contro "la mancanza di trasparenza" del Comune che non fa conoscere i dettagli del Piano. Ma la vera differenza potrebbe farla Palazzo Chigi. Silvio Berlusconi promise un anno fa un finanziamento straordinario di 13 mila miliardi di lire per Roma se avesse vinto il suo candidato Antonio Tajani. Ora Veltroni lo incalza. Se convince anche il Cavaliere può davvero cambiare Roma.

SRoggio Sardegna: Preoccupazioni per Las Vegas

C’è preoccupazione in Sardegna, e credo in tutto il Mezzogiorno, per la proposta di concedere per una novantina d’anni le spiagge (che significa venderle). La finanza acrobatica e spericolata del ministro Tremonti che ha impoverito quasi tutti gli italiani, alligna; e rischia di colpire in modo irreversibile i beni più preziosi del Paese.

La proposta , formalizzata in Parlamento e ribattezzata legge Las Vegas, punta proprio a questi paesaggi di cui è o dovrebbe essere garantito senza ambiguità l’uso pubblico. E che se fossero venduti sarebbero inevitabilmente destinati alla trasformazione secondo le prevedibili attese degli acquirenti. Casinò e accessori sul mare per cominciare (sob!) e il seguito è facile immaginarlo: tutto facilitato da accordi di programma, solita mossa per battere le resistenze locali.

Eppure non sorprende l’idea di liquidare il patrimonio ambientale del Sud per consentirne il rilancio. Al governo del Sud e delle isole non gli importa granché ( la Sardegna poi – un milione e mezzo di abitanti – non rappresenta molto sul piano elettorale )

L’attenzione ai problemi delle aree disagiate del Mezzogiorno, ancora bellissime in grandi parti, è nominale: ognuno si arrangi come può è la risposta. Ecco il principio alla base del federalismo sopraffattore di Bossi e Tremonti. Per il Sud non c’è un euro e casomai i finanziamenti serviranno per alimentare la costosa illusione del ponte sullo stretto di Messina.

L’idea della maggioranza berlusconiana è tanto più grave dopo l’esito delle elezioni regionali e i programmi dei nuovi governi locali niente affatto in linea con questa idea. A ben guardare neppure fantasiosa, come si vorrebbe far credere, del tutto contraria al senso comune, come si capisce dalle reazioni di esponenti di spicco del centrodestra. Colpisce soprattutto la sua carica diseducativa, contrastante con la necessità di fare crescere la consapevolezza sulla tutela dei beni comuni.

Berlusconi sa bene che alcune regioni – tra queste la Sardegna – hanno deciso di difendere senza equivoci il paesaggio costiero e anzitutto le aree che confinano con il mare. E per questo la trovata appare – in Sardegna e credo dappertutto – gravemente inopportuna sul piano politico e molto sconveniente sul piano economico.

Ma c’è di più. Le politiche di governo del territorio, secondo la maggioranza che sostiene il presidente della Regione Autonoma della Sardegna Soru (e anche secondo il presidente della Puglia Vendola), non solo sono orientate a impedire che le grandi ricchezze ambientali come sono le parti più prossime al mare vengono alienate e trasformate. Il progetto del governo regionale sardo è quello di accrescere il patrimonio pubblico proprio per metterlo al sicuro, sottrarlo al mercato contingente, come si fa con le cose belle e rare che potranno servire alle generazioni future (eccolo un esempio di solidarietà ecologica-generazionale che da senso all’idea vaga e poca praticata della sostenibilità ambientale. Ecco l’unico modo di pensare ai prossimi flussi turistici che, basta leggere qualche sondaggio, di casinò o cose simili in riva al mare non ne vogliono vedere!).

E ancora: ecco il rischio di fare del federalismo una dissennata esaltazione del liberismo che rompe vincoli e punta a frantumare i pochi scudi di cui il Mezzogiorno dispone; e che induce a buttare tutto, opere d’arte e paesaggi, nel grande bazar della competizione globale. Partendo con grandi proclami sull’autonomia del sud e mirando nei fatti ad una progressiva riduzione di quell’autonomia. Ma al sud hanno capito e anche nella splendida Gallura dove la tentazione di vendere le coste è stata forte, non sono tutti avventori billionaire e hanno votato contro il centrodestra in tutte le elezioni recenti.

In fondo, una postilla di Eddyburg

Gentili signori, Gentili Signore,

ci rivolgiamo a Voi, firmatari della lettera che ci è giunta, indirizzata anche al Sindaco di Bologna e al Presidente della Giunta regionale Emilia Romagna, per rassicurarVi sulle intenzioni e sugli obiettivi del percorso di riorganizzazione che l’Ente ha adottato anche nel settore della pianificazione territoriale e per confutare alcune affermazioni della Vostra missiva.

Non vi è da parte della Provincia di Bologna nessun mutamento di strategia e nessun calo di attenzione per i temi di una pianificazione territoriale equilibrata e sostenibile, che offra opportunità al sistema socio-economico e garantisca un elevato tasso di tutela ambientale e qualità dello sviluppo, costruita attraverso un percorso articolato che punta sulla collaborazione istituzionale, il confronto sociale ed una larga condivisione delle decisioni assunte.

Così la Provincia ha lavorato sino ad oggi e così intende continuare per arrivare ad un’applicazione coerente del PTCP, nella formazione degli strumenti urbanistici locali.

Se oggi la gran parte dei comuni (40 su 60 totali) partecipa ad un processo di pianificazione associata, in stretto rapporto con gli uffici della Provincia e con la partecipazione diretta della stessa, attraverso le competenze dei suoi tecnici, la messa a disposizione di risorse e servizi; se attraverso gli Accordi territoriali per i poli produttivi sovracomunali abbiamo iniziato a spezzare il circolo molto poco virtuoso che lega la crescita urbanistica alle necessità finanziarie dei comuni, introducendo meccanismi di perequazione economica e territoriale; se il Comune di Bologna ha sottoscritto l’accordo per un percorso partecipato di revisione del suo PSC approvato nella scorsa legislatura senza l’accordo della Provincia; se abbiamo predisposto, e siamo pronti a sottoscrivere, un Accordo procedimentale con il Governo sul Passante autostradale Nord, i cui caratteri innovativi sia dell’opera, sia per le implicazioni fortemente volute con il Servizio Ferroviario Metropolitano ed il sistema della mobilità sostenibile sono da tutti riconosciuti - è proprio perché della coerenza e del rigore nell’applicazione degli indirizzi definiti in questo complesso e impegnativo percorso di cui l’Arch. Cavalcoli è stato animatore e protagonista insieme ad altri abbiamo fatto un punto di principio, strategico nel nostro programma di mandato

L’avvicendamento dell’Architetto Cavalcoli alla direzione del servizio pianificazione non è quindi frutto del giudizio sul suo operato che anzi valutiamo di grande qualità al punto che vogliamo continuare ad avvalerci della sua collaborazione proprio per far crescere in modo più diffuso quella innovativa cultura dell’urbanistica e della programmazione territoriale di cui abbiamo bisogno per dare più qualità al nostro sviluppo né della volontà di smantellare una struttura di primo piano: infatti gran parte dei tecnici cresciuti in questa esperienza - resteranno al loro posto, assumeranno incarichi di maggiore importanza o porteranno le competenze acquisite al servizio degli enti locali chiamati ad applicare gli indirizzi del Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale.

Stiamo procedendo ad una riorganizzazione complessiva della Provincia, nuovi sono il Direttore Generale, il Segretario generale e molti altri dirigenti, per dare maggiore efficienza ed efficacia alla nostra azione di governo, proprio perché vogliamo mantenere ed accrescere quei livelli di eccellenza e di qualità che in questi anni abbiamo saputo affermare.

Perché tutto ciò possa esplicarsi occorre fare squadra, consentire a chi si è formato in questi anni di cimentarsi ai massimi livelli.

Il PTCP della Provincia di Bologna ha diversi padri, ed oggi per affermarsi compiutamente ha bisogno di molti amici e collaboratori consapevoli.

Con questo percorso che abbiamo intrapreso vogliamo determinare queste condizioni.

Quindi nessuna assenza di motivazioni, nessuna manovra oscura, ed anzi dispiace che senza conoscere la natura esatta e complessa del processo avviato e tuttora in corso, si sia disposti ad emettere giudizi invece che partecipare, con occhio critico ma sereno, ad un lavoro intenso ed impegnativo perché le buone premesse del PTCP si possano tradurre in una concreta e coerente azione di governo in questo mandato.

Cordialmente.

L'assessore alla Pianificazione Territoriale e ai Trasporti Giacomo Venturi

La Presidente della Provincia di Bologna Beatrice Draghetti

P.S. Si chiede cortesemente di inoltrare la presente risposta a tutti i firmatari della lettera in oggetto e/o a tutti coloro ai quali la stessa è stata inviata. grazie

Postilla

Poiché Eddyburg ha ospitato la lettera, ed è stato il primo a informare sull’evento cui la lettera si riferisce, una postilla alla replica molto tempestiva della Presidente e dell’Assessore è opportuna.

Osservo in primo luogo che – fermo il diritto dell’amministratore di spostare un dirigente – un minimo di correttezza culturale e amministrativa vorrebbe che ci fosse una motivazione esplicita. Lo spoil system rende quasi superflua la motivazione quando cambia il segno politico dell’amministrazione. Non sembra che questo cambiamento ci sia stato nel caso specifico: DS e Margherita prima, DS e Margherita dopo.

Osservo in secondo luogo che l’allontanamento di Cavalcoli è stato preceduto da una politica del personale e del bilancio che ha notevolmente impoverito le risorse dell’ufficio. Questi sono dati oggettivi, cui non voglio aggiungere le altre informazioni di cui non è documentabile la verità, ma che vanno tutte nella medesima direzione.

Il prestigio che l’ufficio della pianificazione territoriale godeva (e che è testimoniato dalle adesioni alla lettera, che i promotori continuano a inviarmi) è tale da sollecitare la maggiore attenzione agli ulteriori avvenimenti, a via Zamboni e, soprattutto, sul territorio della provincia bolognese: soprattutto su quelle aree extraurbane, che il PTCP tutelava, con analisi, scelte e politiche di rara intelligenza, e a proposito delle quali, nelle stesse settimane in cui si apriva l’offensiva verso l’ufficio di Cavalcoli, si sono lette, sulla stampa locale, strane proposte di “urbanistica creativa”.

Cremona: l’autostrada Cremona - Mantova in ...23 anni! E ci si ferma subito: all’ “osteria” di Tornata

L’Europa conferma, intanto, che nessun corridoio europeo passerà dalla Lombardia.

di Ezio Corradi*

Annunciato a fine marzo nel bel mezzo della campagna elettorale per il rinnovo del Consiglio Regionale della Lombardia del 3 e 4 aprile 2005, in questi giorni è apparso sul sito www.ilspa.it il bando di gara per la concessione di costruzione e gestione dell’autostrada regionale “Integrazione del sistema transpadano Direttrice Cremona-Mantova”. Un progetto dal valore di 755-770 milioni di Euro (Iva esclusa, naturalmente): in termini di vecchie lire circa 2.000 miliardi!

Ma, nonostante le speranze cremonesi si tratterà di una autostrada monca e lunga da costruire: 23 anni e addirittura in 3 fasi.

L’autostrada Cremona-Mantova lunga 70 km sarà così completata alla media record di 3,5 km-anno. Meglio la performance della Salerno-Reggio Calabria dove in 7 anni sono stati costruiti 49 km di nuova autostrada (dati citati da Guglielmo Epifani Segretario Generale della CGIL nella trasmissione “Ballarò” del 3 maggio 2005).

E’ così che appare subito l’ autostrada Cremona-Tornata.

Si, avete letto bene: dopo i roboanti annunci dei nostri politici regionali, provinciali e gestori delle autostrade, che da Cremona a Mantova sarebbe passato un tratto dell’itinerario autostradale da Barcellona a Kiev, fatto passare come Corridoio 5, ci si ferma subito alla prima osteria: a quella di Tornata.

Va ricordato che è stata sufficiente una lettera indirizzata dai cittadini dei Comitati cremonesi e mantovani contro le autostrade al Parlamento europeo e al Presidente dell’UE Prodi per ricevere dalla Commissione Trasporti Europea e per conto della stessa Presidenza dell’Unione Europea (Prodi e Loyola de Palacio) ben due risposte identiche: nessun corridoio europeo passerà dalla Lombardia e la conferma che la politica dei trasporti dell’Unione Europea preferisce mezzi di trasporto meno inquinanti come le ferrovie e le autostrade del mare.

Così la Cremona-Tornata, importante tassello della “fase 1” del reticolo autostradale transpadano (del tutto sconosciuto ai trattati di politica dei trasporti e mai previsto da alcun Piano Generale o Regionale dei Trasporti) dovrà essere realizzata entro tre anni dall’affidamento della concessione autostradale assieme alle tratte mantovane, distinte nelle “sottofasi 1A, 1B, 1C e 1D” che vanno dalla variante ex SS 62 nel Comune di Virgilio, all’asse interurbano di Mantova e da qui alla variante della exSS10 nei territori di Curtatone e Castelucchio.

E il resto del tracciato autostradale? Verrà realizzato a rate (se ci sarà traffico): la “fase 2” da Tornata a Castellucchio dovrà essere realizzata entro 15 anni dall’entrata in esercizio della “fase 1”. La “fase 3” dal casello di Castellucchio alla variante della ex SS 62 in Comune di Virgilio dovrà essere realizzata entro 20 anni dall’entrata in esercizio della prima “fase 1”. La Cremona-Mantova sarà un esempio di autostrada transgenerazionale: talmente lunga da fare nel tempo, che verrà tramandata da padre in figlio!

E l’Europa e la frontiera dell’Est trampolino di lancio per la Cina? Beh, non si può avere tutto e subito! Per ora le forze politiche e sociali che hanno sponsorizzato l’autostrada quale indispensabile infrastruttura per lanciare lo sviluppo e agganciare rapidamente l’Europa e i traffici dell’Est, devono accontentarsi di avviare una programmazione ultraventennale per i loro investimenti. In tempi di economia globalizzata e di scenari in rapida trasformazione, i nostri imprenditori dovranno attendere 23 anni per vedere realizzata la loro aspirazione e prepararsi a lasciare in eredità ai loro successori anche un testamento con precisi ordini di servizio “a futura memoria” per spiegare “il perché e il che farne” di questa infrastruttura voluta dal pensatoio del Partito Trasversale Cremonese delle Grandi Opere.

Sì il pensatoio che vuole la bretella autostradale da Castelvetro a Cavatigozzi comprensiva di un nuovo ponte sul Po e di un ponte sul Canale navigabile, che vuole le autostrade Tirreno-Brennero e Brescia-Bergamo-Milano, due centrali turbogas a Cremona e a Spinadesco, poli logistici che sconvolgono la viabilità come a Soresina, nuovi poli industriali lontani dalle ferrovie come a Cicognolo, Cappella Cantone, San Giovanni in Croce, nuove discariche, depuratori per liquidi pericolosi, ecc., ecc.. Il tutto alla modica cifra di oltre 8.000 miliardi di vecchie lire di investimenti: i soliti bruscolini!

Nemmeno la pianificazione economica sovietica è mai riuscita a tanto. Con tutti i difetti, e furono davvero tanti, nell’ ex URSS la pianificazione almeno era “solo” quinquennale!

Evidentemente il passaggio dalla politica dello statalismo all’economia del libero mercato non vale ancora per i nuovi politici: i diessini-expci che gestivano il potere nelle province di Cremona e Mantova e nella Società Autostrade Centro Padane quando, negli anni 2002-2003, venne presentato il progetto dell’ ”Autostrada Cremona-Mantova tratto lombardo del Corridoio 5” prontamente proposto non appena presentata la “Legge per le autostrade regionali” dal Governo di centrodestra della Regione Lombardia.

Ma il bando di gara presenta alcune gustose chicche: in caso di assenza di partecipanti alla gara l’amministrazione regionale lombarda si riserva la facoltà di procedere all’aggiudicazione della concessione anche in presenza della offerta del solo promotore, cioè della Società Cento Padane.

Altro elemento rilevante è che il bando del quale se ne è parlato a fine marzo 2005 prevede la presentazione delle domande di partecipazione entro le ore 12 del 7 giugno 2005: un termine che sinceramente ci sembra troppo breve per una gara europea. Infine l’elemento che suscita più di una ilare perplessità è la durata della concessione che “avrà una durata massima di 64 anni”: una durata battuta solo dal ponte di Messina per il quale era prevista una concessione lunga 100 anni!

Si vuole forse precostituire la perennità della gestione della Società Centro Padane per la A21 Brescia-Cremona-Piacenza e delle bretelle autostradali Castelvetro-Cavatigozzi e Cremona-Mantova?

Con queste premesse, la ripresa economica e il rilancio economico della nostra provincia più che guardare al prossimo futuro, diventano più che mai futuribili, lanciate come sono su una prospettiva di lungo corso che guarda “ambiziosamente” addirittura al traguardo del primo quarto del nuovo secolo, verso il 2025! L’unica certezza è che la realizzazione di questi progetti porteranno alla devastazione dell’ambiente, alla distruzione di floride aziende industriali e imprese agricole oltre che la prospettiva che Il Grana Padano e gli altri prodotti della nostra terra siano arricchiti di nuove polveri e di PM10: possibile che nessuno abbia nulla da dire di fronte a questi scempi?

* Ezio Corradi - Ambiente Territorio Società - Coordinamento - Comitati contro le autostrade e le centrali turbogas

Nota: qui il sito di notizie locali il Vascello; qui il contributo di Eddyburg al tema dell'autostrada ACME (f.b.)

Caro Augias, il 25 maggio sono scaduti i termini per l'appalto del ponte sullo Stretto di Messina. Si sono presentate due ditte, le italiane Impregilo e Astaldi, nemmeno queste con troppo entusiasmo. L'amministratore delegato di Astaldi, ha dichiarato: «L'ipotesi che Astaldi e Impregilo presentassero un'offerta comune per il ponte, scaturiva da comuni considerazioni di buonsenso riguardo la rischiosità del progetto ampiamente dimostrata dall'abbandono della maggior parte delle imprese e banche straniere».

Pochi giorni prima, l'amministratore delegato della Strabag (unica cordata internazionale ancora interessata all'opera) così commentava il ritiro: «Troppo alto il rischio che avremmo dovuto affrontare dal punto di vista legale, geologico e tecnico-finanziario».

In definitiva sono venuti fuori tutti i dubbi e le perplessità da sempre avanzate da chi si oppone alla costruzione di questa opera inutile e devastante. Che il dissenso nei confronti del ponte sia ormai trasversale lo dimostra il documento inviato al ministro Lunardi dalla maggioranza del consiglieri comunali di Messina (3 An, 1 Fi, 5 Udc, 1 Gruppo Misto, 1 Udeur, 5 Margherita, 3 Lista civica, 3 Ds) in cui si chiede di fermare la gara, avallando le conclusioni dell'apposita Commissione consiliare: «Evitare la costruzione di una infrastruttura i cui elevatissimi costi (sociali ed ambientali, oltre che economici e finanziari) non possano essere bilanciati da sufficienti benefici a vantaggio dell'utenza».

Le chiedo: non sarebbe meglio pensare prima a opere sicuramente più utili per i siciliani?

Sergio Conti Nibali

Messina, serconti@glauco. it

I risultatidella gara internazionale d'appalto per la costruzione del controverso ponte sono così desolanti che se la questione non avesse ormai assunto un connotato "politico", se non fossero entrati in gara, quella vera, interessi troppo forti per essere contrastati, un ripensamento s'imporrebbe. Nonostante i dirigenti della società del «ponte» abbiano fatto il giro del mondo, nessuna società straniera ha voluto partecipare per le ragioni ben riassunte in quelle inquietanti parole: rischi troppo alti dal punto di vista legale, geologico e finanziario. Dovrebbe bastare a chiunque avesse sufficiente discernimento o libertà d'azione.

Credo d'aver colto un invito a soprassedere anche nell'espressione impiegata di recente dal presidente di Confindustria Montezemolo quando, a proposito di infrastrutture per il Sud, ha detto: «Niente opere faraoniche, pensiamo alle cose concrete»; Pasquale Pistorio, uno dei più sagaci imprenditori siciliani, ha rincarato: «E' come pensare a champagne e caviale quando non si hanno nemmeno i soldi per il pane. Il ponte non ha alcun senso».

Nonostante questo, il progetto va avanti e all'insensatezza complessiva della cosa il presidente del Consiglio ha voluto aggiungere una sua nota buffonesca. Tra le ragioni in favore del ponte ha incluso: «se uno di Reggio Calabria ha per caso un grande amore a Messina ci potrà andare anche alle quattro del mattino senza aspettare i traghetti». Nel frattempo, il tratto dell'autostrada Messina-Palermo inaugurato nel dicembre scorso dal neoministro Miccichè (enfatici i servizi sui Tg), è stato chiuso perché l'asfalto steso frettolosamente non ha retto al passaggio del terzo Tir.

A seguito del rinnovo dell'Amministrazione comunale bolognese e di quella della Provincia, la sezione di Bologna dell'Associazione ITALIA NOSTRA ritiene opportuno inviare alle Autorità in indirizzo il documento che segue, sintesi delle posizioni dell'Associazione nei confronti del Piano Strutturale del Comune di Bologna.

Il documento riprende anche alcuni contenuti di precedenti interventi che si ritemgono essere tuttora di attualità.

ITALIA NOSTRA si augura che un nuovo spirito di apertura e di disponibilità alla collaborazione venga a caratterizzare le relazioni fra il tessuto associativo e culturale e gli organi politico-amministrativi cui competono le importanti decisioni riguardanti il futuro della città e del territorio provinciale delle quali gli atti della pianificazione territoriale ed urbanistica rappresentano tanta parte.

Le note che seguono entrano solo a titolo esemplificativo nel dettaglio delle proposte attualmente in discussione -né potrebbero fare diversamente data anche la vastità dei materiali messi a disposizione nella fase di presentazione del P.S.C.- ma sono da intendere come un contributo critico positivo alla definizione delle linee generali e degli orientamenti fondamentali delle azioni di politica urbanistica, coerentemente con le finalità strategiche dell'attuale fase di pianificazione.

Per maggiore chiarezza espositiva il presente parere è articolato per punti che intendono sottolineare gli aspetti del P.S.C. che a parere dell'Associazione sembrano di maggiore criticità.

La sezione di Bologna di Italia Nostra si riserva comunque di intervenire in seguito in modo più preciso nel merito degli argomenti che vengono qui trattati in maniera necessariamente generale.

1. La dimensione territoriale dell'azione di pianificazione

Il P.S.C. risente delle carenze che derivano da un'elaborazione sia analitica che progettuale essenzialmente limitata al solo Comune di Bologna; una limitazione che esclude quindi gran parte dell'area alla cui scala si manifestano i fenomeni insediativi e di trasformazione territoriale della fase attuale del processo di urbanizzazione.

E' convinzione di Italia Nostra che nessuna vera ed efficace politica di tutela del patrimonio storico e paesistico esistente e di creazione di nuova bellezza per la nostra città e per il territorio -che sono gli obiettivi di fondo della nostra Associazione- sia possibile al di fuori di una pianificazione urbanistica che affronti in modo organico ed alla scala adeguata il complesso dei problemi in giuoco: non ci può essere una buona salvaguardia del centro storico senza una buona periferia, così come non ci può essere una buona periferia senza una oculata tutela del paesaggio agricolo e naturale e del patrimonio storico sparso che la circonda od è presente nelle sue frange più lontane.

La dimensione delle problematiche urbane bolognesi ormai da molti decenni è tale che la sola pianificazione urbanistica comunale non è più in grado di affrontarne la reale natura: è nostra convinzione che occorrano un quadro complessivo di riferimento a livello sovracomunale e strumenti di coordinamento politico-amministrativo che superino le ristrettezze dei singoli ambiti territoriali comunali coinvolti nei processi urbani del nostro tempo (si pensi, per esempio, alle problematiche delle infrastrutture per la mobilità privata e per i trasporti pubblici od a quelle della creazione e della localizzazione di centri commerciali e direzionali, di poli della Sanità o per l'Università e la Ricerca, o di infrastrutture per gli spettacoli di massa, della tutela del territorio agricolo di pianura o collinare o degli ambiti fluviali, della previsione di parchi territoriali ecc.).

L’attuale divaricazione fra le pianificazioni del Comune di Bologna, dei Comuni contermini e della Provincia sembra rendere problematica la ripresa di una efficace iniziativa di pianificazione sovracomunale; riteniamo invece che sia ancora questa la strada da seguire se non ci si vuole rassegnare ad un futuro all’insegna della frammentaria casualità di scelte urbanistiche condizionate dagli esiti di impari contrattazioni fra le parti pubbliche e controparti private sempre più forti.

2. Una "idea" generale di città alla base di una strumentazione attuativa articolata.

E' opinione di ITALIA NOSTRA che occorra, in sintesi, una "idea" di città alla scala alla quale i fenomeni urbani si manifestano oggi e forme di governo territoriale adeguate in grado di concretizzarla attraverso una strumentazione articolata ma coerente.

E' principalmente sotto questo punto di vista (anche se non solo) che -a parere della nostra Associazione- l'azione dell'amministrazione comunale bolognese si è mostrata carente nel corso almeno degli ultimi due-tre decenni, sostanzialmente cancellando le esperienze degli anni '60 e '70 del '900 che fecero di Bologna uno dei principali punti di riferimento politico-culturali del dibattito urbanistico europeo.

Alle già discutibili scelte del P.R.G. del 1985 volte principalmente a colmare con nuove urbanizzazioni le aree ancora "vuote" della periferia cittadina o quelle

che si sarebbero rese disponibili a causa dell'obsolescenza naturale od appositamente provocata di vecchi impianti annonari, industriali e ferroviari (non a caso questo tipo di logica di riempimento dei vuoti venne definita con involontario umorismo "urbanistica interstiziale"), ha poi fatto seguito, nella totale mancanza di qualsiasi visione sovracomunale dello sviluppo, una prassi attuativa all'insegna del caso per caso, dell'inseguimento di questa o quella emergenza, di questa o quella iniziativa proposta nell'interesse dei relativi proponenti: tutto ciò aggravato dagli sconsiderati "premi di cubatura" generosamente elargiti e quasi sempre al di fuori di ogni idea strategica sul futuro della città, delle esigenze prioritarie dei quartieri nei quali le nuove trasformazioni venivano ad inserirsi, e, troppo spesso, addirittura in assenza di ogni possibilità di pubbliche discussioni e verifiche.

Si è così verificato il susseguirsi di iniziative episodiche e di scelte avvenute in carenza di una effettiva discussione pubblica che le precedesse: si pensi alle vicende dei progetti per la Stazione, a quelle delle Officine dell'Istituto Ortopedico Rizzoli passate in un sol colpo da luogo di punta della ricerca medica mondiale ad area lottizzabile a scopi speculativi privati, alla fallimentare e sconclusionata realizzazione del CAB, all'addensamento eccessivo di volumi e di funzioni generatrici di grandi volumi di traffico a ridosso dei viali di circonvallazione (aree ex Morassutti e Buton), od in altre zone della periferia cittadina (via della Repubblica, Stalingrado, aree ex ICO e Panigal), fino alle ancora nebulose decisioni circa l'area dell'ex Mercato Ortofrutticolo alla Bolognina e ad altre aree ancora.

Si pensi, ancora, alla diffusione casuale di grandi infrastrutture civili ed economiche dentro e fuori dai confini del territorio del capoluogo

Molte di queste vicende sono purtroppo già giunte a conclusione; per alcune è invece ancora possibile rimediare ai guasti che si prospettano qualora si concludano secondo le premesse enunciate.

Tutto questo mentre sono proseguite (e proseguono tuttora stando almeno agli esiti delle prime proposte per i nuovi P.S.C.) ntense politiche espansive dei Comuni della cintura volte soprattutto ad assorbire popolazione in uscita dal capoluogo.

Le discussioni sul P.S.C. di Bologna, sul Piano Territoriale della Provincia e sui nuovi Piani urbanistici dei Comuni minori, in presenza di nuove compagini dirigenti a livello amministrativo possono ora essere occasioni utili da utilizzare per una forte inversione di rotta rispetto ad un andamento che si è caratterizzato troppo a lungo negativamente con una sostanziale continuità politico-culturale fra le ultime amministrazioni comunali del capoluogo pur derivanti da differenti maggioranze politiche.

3. La tutela del patrimonio storico artistico

E’ naturale che, in un quadro di sostanziale mancanza di chiare linee di governo dei problemi urbani nel loro complesso, il centro storico della città abbia subito nel corso degli ultimi decenni un progressivo processo incontrollato di trasformazione che si è manifestato soprattutto nella crescente terziarizzazione dell'uso del patrimonio edilizio, nell'evoluzione della struttura commerciale verso i consumi più lussuosi, nel calo delle famiglie che lo abitano in permanenza con la costante espulsione verso l'esterno delle famiglie a basso reddito, con la riduzione del numero e della varietà dei negozi di prima necessità a servizio dei residenti, con la graduale scomparsa delle botteghe degli artigiani: ci troviamo così di fronte ad un centro storico sempre meno popolato da abitanti permanenti e che rimane però un grande e potente attrattore di popolazione diurna; le modalità della sua fruizione sono sempre più condizionate dalla crescita sproporzionata dei prezzi di vendita e d'affitto degli alloggi e dei locali commerciali.

La stessa grande e positiva presenza di una ingente massa di popolazione studentesca richiamata dall'Università, in mancanza di adeguate politiche abitative mirate, è diventata sempre più un fattore di squilibrio del mercato della casa agendo in senso negativo sulle possibilità di mantenere all'interno del centro urbano antico una diversità sociale capace di garantirne anche una vitale stratificazione commerciale e funzionale.

Si tratta, certamente, di problematiche complesse e di tendenze non sempre controllabili al solo livello delle politiche locali; è certo però che da circa due decenni sembra essere caduta ogni tensione volta a contrastare attraverso politiche urbanistiche ed edilizie mirate gli andamenti tendenziali indotti dalle sole leggi del mercato immobiliare.

E' opinione di Italia Nostra che occorra invece una forte ripresa di iniziativa per ristabilire un "progetto" complessivo per la città: un progetto capace di dare coerenza e continuità alle soluzioni dei problemi specifici, a cominciare da quelli della tutela e della valorizzazione del patrimonio di risorse storico-artistiche, architettoniche ed ambientali di cui la nostra città ed il nostro territorio sono ancora così ricchi (ed il fatto di averlo conservato in misura così rilevante è certamente un merito storico delle politiche locali condotte a Bologna nel corso degli ultimi cinquant’anni) senza però trascurare i limiti da porre alle modalità del loro uso.

Riteniamo che sia proprio anche a causa della mancanza di una "idea" complessiva di città e -al suo interno- del valore e del ruolo del suo centro antico, che proprio qui si rilevino diversi aspetti di forte degrado della qualità ambientale (inquinamenti dell'aria e da rumore dovuti all'eccesso di traffico motorizzato privato e di mezzi pubblici; sosta caotica e pervasiva di auto, moto e biciclette che spesso invadono addirittura portici e marciapiedi) e di caduta di attenzione da parte degli organi preposti nei confronti della qualità degli interventi edilizi e di arredo. Si possono citare molti episodi accaduti in questi ultimi anni che testimoniano di questa situazione preoccupante: dallo sventramento Benetton alle "gocce" dell'Infobox di via Rizzoli, dalla disordinata proliferazione di antenne e sovrastrutture tecnologiche per ascensori ed impianti di condizionamento un po' su tutti i tetti alla copertura di cortili antichi come quello minacciato dai progetti per Palazzo Pepoli, dalla statua di Padre Pio a Porta Saragozza alla grossolana risistemazione del giardinetto di Piazza Minghetti, alle minacce di ulteriori scomparse di esercizi commerciali storici a causa di affitti eccessivi e di mancanza di vincoli efficaci.

Lo stato di degrado in cui versano molti dei percorsi porticati che costituiscono uno degli elementi fondamentali dell'architettura urbana antica, testimoniano di una preoccupante e diffusa mancanza di attenzione e di decadimento di quel vitale rapporto pubblico-privato su cui si è basata storicamente l'invenzione e la diffusione dei portici stessi.

Pavimentazioni malridotte e spesso sconnesse al limite della pericolosità per chi cammina, scarsità di illuminazione notturna, invasione di spazi pedonali da parte di biciclette, motorini e auto in sosta, sono aspetti evidenti di questo stato di degrado.

Occorre avviare una nuova politica di incentivi per i privati e di controllo pubblico per provvedere alla riqualificazione di queste fondamentali strutture cittadine, ricordando sempre che la manutenzione ordinaria del patrimonio costituisce lo strumento principale delle politiche di tutela anche per evitare di dovere ricorrere poi a più complesse e costose operazioni di restauro.

4. I Viali di circonvallazione: l'importanza e la qualità urbana delle aree di cerniera fra centro storico e prima periferia.

ITALIA NOSTRA ritiene che un'attenzione particolare vada riservata al sistema dei viali di circonvallazione e delle aree contermini: le soluzioni che verranno date ai problemi che gravano su queste parti della città ed il modo con cui se ne utilizzeranno le potenzialità saranno fondamentali nell'orientare gli andamenti futuri di molti dei problemi del centro urbano antico, della fascia della prima periferia storica e delle relazioni fra le diverse parti dell'insieme cittadino.

L'anello dei Viali, realizzato sul sedime delle ultime mura medievali secondo il modello d'intervento in voga fra la fine del XIX secolo e l'inizio del XX, costituisce ancora oggi uno degli elementi urbanistici d'insieme più caratteristici ed importanti della città sia dal punto di vista morfologico che da quello del funzionamento della vita urbana; come tale rappresenta però anche uno dei suoi più evidenti punti di crisi e di degrado.

I Viali che erano stati pensati come una sorta di grande passeggiata tutt'intorno alla città e come anello di congiunzione fra il nucleo urbano antico e le crescite moderne all'esterno del suo perimetro storico, richiedono oggi un ripensamento globale: le funzioni alle quali dovevano rispondere sono profondamente mutate; la striscia alberata centrale che tuttora suddivide le due carreggiate non può più essere sede di passeggiate e resta come una sorta di impraticato ed impraticabile spartitraffico, mentre sulle carreggiate il traffico stesso si svolge con sempre maggiori difficoltà in una assurda mescolanza fra traffico privato e trasporto pubblico costretto a risentire delle condizioni di congestione di quello privato, nonostante la realizzazione in alcuni tratti di corsie riservate.

Le condizioni di abitabilità delle zone che fiancheggiano il sistema dei Viali (una volta e fino a non moltissimi anni orsono fra le più pregiate) risentono pesantemente dei rumori e della pessima qualità dell'aria che vi si respira a causa dell'eccesso di traffico.

La caduta in disuso di molte delle funzioni pubbliche che si erano andate attestando sui Viali, ha creato, ed ancora creerà in futuro preziose occasioni di riqualificazione dell'intero sistema con ripercussioni importanti sul resto della città.

Fino ad oggi ad ogni occasione di intervento si è data risposta come se si trattasse di un problema isolato da soddisfare pensandosoprattutto a massimizzare il profitto immobiliare dei proprietari delle aree interessate; questo ha portato a concentrare volumi e funzioni che anziché contribuire a risolvere i problemi in essere, sono causa di ulteriori appesantimenti della situazione complessiva.

Nonostante gli errori già compiuti i Viali rappresentano ancora una grande occasione complessiva di ripensamento di una parte importantissima della città per le occasioni di intervento che ancora si presentano lungo l'insieme del loro tracciato; il ripensamento delle funzioni di traffico che i Viali possono continuare ad assolvere deve andare di pari passo con un progetto complessivo di riqualificazione del sedime dei Viali e delle zone circostanti che tornino a farne un'area di vero decoro urbano con la prevalenza del verde.

ITALIA NOSTRA ritiene che questo sia uno dei temi urbanistici più importanti da affrontare nel prossimo futuro, per il quale sia da mettere in campo il massimo sforzo progettuale.

5. La tutela del patrimonio paesistico-ambientale e il sistema del "verde"

Bologna ed il suo hinterland hanno bisogno di una rinnovata attenzione nei confronti del residuo patrimonio paesistico ed ambientale sempre più assediato da iniziative incontrollate di proliferazione edilizia. La salvaguardia stessa della collina basata sul Piano del 1969 e sulla politica di creazione di un grande sistema di parchi pubblici perseguita nel decennio successivo, si trova ad essere messa in dubbio da iniziative per ora ancora isolate (si pensi alla soluzione che ha avuto l'annosa vicenda delle aree dell'ex Accademia di Agricoltura od a quella preconizzata per quella delle ex Officine dello IOR) ma certamente significative di una tendenza preoccupante a ripensare negativamente la volontà di mantenere la collina di Bologna come grande area agricola-naturale libera dalle iniziative della speculazione edilizia. Anche i Parchi della collina costituiti negli anni '70 ed attualmente, almeno in parte, in stato di deplorevole abbandono, devono tornare ad essere intesi come elementi importanti per la qualità della vita della città e dei suoi abitanti

Gli stessi grandi cunei agricoli di pianura che penetrano ancora in profondità nel cuore dell'area urbana ed hanno impedito fino ad ora la saldatura completa delle diverse direttrici dell'espansione periferica, sono stati in questi ultimi decenni manomessi ed aggrediti in molte parti da iniziative edilizie casuali sorte al di fuori di qualsiasi disegno di pianificazione generale; i corsi dei fiumi e dei canali artificiali che erano stati indicati fin dalla pianificazione degli anni '60 e '70 come importanti occasioni per creare un sistema di parchi lineari capaci di collegare collina, città e pianura, si trovano in gran parte in deplorevoli situazioni di degrado e di abbandono: basti per tutti l'esempio di quel che è successo del progetto di restauro e di riqualificazione del Canale Navile.

Gli accurati studi relativi al sistema ambientale, alle sue esigenze e potenzialità compiuti in preparazione del P.S.C. di Bologna possono costituire una buona base di partenza per ridefinire gli orientamenti di una pianificazione urbanistica che, diversamente dalle indicazioni del P.S.C., tenga conto di questo patrimonio come di una risorsa da utilizzare in positivo e da non erodere ulteriormente così come invece ci si ripromette di fare attraverso le deplorevoli conclamate "manovre perequative" alle quali molte delle aree ancora agricole sembrano essere minacciosamente assoggettate.

6. Traffico e trasporto pubblico

Le questioni del traffico locale e nazionale e del trasporto pubblico e della relativa creazione di nuove infrastrutture, hanno polarizzato per lungo tempo la discussione intorno ai nuovi strumenti di pianificazione provinciale e comunale.

Anche in questo caso la mancata integrazione della visione pianificatoria bolognese ad una scala più ampia di ragionamento ha contribuito ad impedire fino ad ora -fatta eccezione per il progetto e le prime realizzazioni relative al Servizio Ferroviario Metropolitano (SFM, che però soffre ancora di notevoli disfunzioni di esercizio e della decrepitezza e del degrado del materiale rotabile)- che si mettessero a punto ipotesi di intervento adeguate per un sistema integrato di trasporto pubblico e privato, un sistema in cui un ruolo fondamentale è da assegnare alla rete dei trasporti pubblici in sede propria integrata ad una serie di parcheggi scambiatori lontani dal centro storico cittadino, sola alternativa reale alla congestione ed alle molteplici conseguenze ambientali negative dell'invadenza del traffico motorizzato privato e della pressione esercitata soprattutto sul patrimonio edilizio storico del centro da mezzi di trasporto pubblico di superficie eccessivamente ingombranti ed inquinanti.

Bologna ha così finito per trovarsi in una gravissima situazione di ritardo rispetto alle esigenze ed a quanto fatto negli ultimi quindici-vent'anni in moltissime città anche di piccola e media dimensione negli altri paesi europei.

Anche le timide ipotesi prospettate con il PRG del 1985 sono cadute nel vuoto, prima, e nel baratro, poi, delle polemiche politiche sui progetti della metropolitana. Ci si augura che sia ora possibile un confronto più aperto, concreto e costruttivo su questi complessi temi nell'interesse della città.

Senza scendere nel dettaglio e nel merito di giudizi tecnici circa i tracciati e le soluzioni tecnologiche da adottare, ITALIA NOSTRA sottolinea l'esigenza di dotare finalmente Bologna e la sua area metropolitana di una rete di trasporto pubblico in sede propria capace di costituire una alternativa reale a gran parte degli spostamenti che attualmente si avvalgono di mezzi di spostamento individuali per mancanza di alternative comode, dignitose ed efficienti.

I cittadini bolognesi si sono già da molti anni espressi a favore di una sostanziale diminuzione del traffico motorizzato privato in un ormai lontano referendum i cui esiti vennero presto accantonati e dimenticati dal Comune; è ora tempo di uscire dalla paralisi che per troppo tempo ha paralizzato le decisioni pubbliche in questo campo.

Occorre quindi riprendere una politica fermamente orientata alla diminuzione del traffico privato; una politica che non sia demagogicamente realizzata con soli slogan o divieti che poi si rivelerebbero politicamente impraticabili, ma che agisca attraverso un accorto dosaggio di disincentivi e di messa a disposizione di efficaci alternative all'uso dell'auto privata: la scelta del mezzo con cui spostarsi non è infatti una questione ideologica: ciascuno sceglie sulla base delle opportunità che gli vengono offerte, dei costi e dei benefici delle diverse alternative, della velocità e della comodità dei diversi mezzi a disposizione.

ITALIA NOSTRA, che ha contribuito insieme agli abitanti della zona e ad altre Associazioni alla non approvazione dell'infausto progetto di un parcheggio sotterraneo negli orti di Via Orfeo, si augura che in futuro le misure di attenuazione dell'impatto del traffico automobilistico privato soprattutto all'interno del centro antico della città, tengano conto della necessità di non alterare episodi significativi del tessuto urbano storico e di non provocare fenomeni indotti che procurerebbero più danni di quelli ai quali si vorrebbe porre rimedio come sarebbe stato invece nel caso della realizzazione di quel parcheggio.

Riguardo infine alla proposta del Comune e della Provincia per il raddoppio autostradale che dovrebbe risolvere le attuali difficoltà del sistema tangenziale spostando quote di traffico di attraversamento dell'area bolognese su di un nuovo tracciato che verrebbe ad interessare grande parte dell'area di pianura del territorio provinciale, ITALIA NOSTRA chiede che vengano studiate alternative che producano conseguenze meno distruttive degli equilibri ambientali, insediativi e paesistici rispetto a quelle preconizzate con la soluzione individuata. Non è con un pezzo di autostrada in più che si risolvono i problemi dovuti all'eccesso di trasporti su gomma: aggiungere nuove strade vuol dire semplicemente richiamare ancora più auto e tir.

Non ci sono alternative reali alle difficoltà del nostro sistema autostradale che non passino per lo spostamento di importanti quote di traffico merci dalla gomma alla ferrovia, come si sta già facendo in altri paesi europei (Svizzera ed Austria in primis) e quote di spostamenti delle persone dal mezzo di trasporto privato a quello pubblico. Una nuova autostrada come quella ipotizzata da Comune e Provincia sposterebbe soltanto di qualche chilometro il problema per poi rivelarsi di nuovo insufficiente dopo pochi decenni, alterando invece definitivamente in modo negativo l'organizzazione funzionale, agricola e paesistica di gran parte del territorio provinciale.

Pur in attesa di non molto probabili (per ora) ma inevitabili inversioni di rotta delle politiche nazionali dei trasporti ed avviando rapidamente soluzioni alternative per il trasporto pubblico, occorre compiere un grande sforzo tecnico-progettuale per porre rimedio alle attuali situazioni di difficoltà mettendo in campo capacità amministrative, culturali e progettuali paragonabili a quelle che portarono sul finire degli anni '50 ed all'inizio degli anni '60 alla realizzazione del sistema tangenziale, un sistema che si ritiene possa essere ancora migliorato e potenziato attraverso interventi di razionalizzazione fisica e di modernizzazione delle modalità di gestione del traffico.

7. Le modalità attuative

L'impianto del PSC è negativamente condizionato dalla scelta di procedere secondo le modalità di attuazione dell'urbanistica contrattata oggi in voga, che tanti danni sta producendo nelle nostre città, Bologna compresa.

Chiamare ora in modo apparentemente più accattivante "manovra perequativa" (dizione che sembra furbescamente alludere a qualche sorta di giustizia distributiva di vantaggi e di svantaggi) questa prassi liquidatoria di ogni politica di pianificazione principalmente finalizzata al pubblico interesse, non cambia il risultato che si minaccia di ottenere: che è quello di subordinare le scelte attuative concrete principalmente agli interessi economici di chi partecipa ai giuochi della contrattazione.

Quanto accaduto e sta accadendo da una quindicina d'anni a questa parte anche a Bologna lo dimostra ampiamente e non è di alcuna consolazione constatare che la legislazione regionale e quella nazionale tendono ad evolvere sempre più in questo senso: di fatto, prendendo ad esempio quanto sta oggi accadendo in Emilia Romagna, molti dei maggiori disastri urbanistici si stanno producendo e vengono proposti sotto le etichette dei Piani di Ricupero o di Riqualificazione, degli Accordi di Programma ecc., strumenti e modi di attuazione, anche questi, che vengono propagandati come benefici strumenti di superamento delle concezioni "vincolistiche" della pianificazione "vecchia maniera".

Condizionare ad imprecisate "manovre perequative" il mantenimento dell'inedificabilità di parti dei cunei di territorio agricolo residui all'interno dell'espansione periferica della città che si ritiene debbano invece restare non costruiti al di fuori del condizionamento di qualsiasi interesse particolare (si vedano ad esempio -ma non si tratta delle sole- le aree comprese fra l'Autostrada per Ferrara e l'urbanizzazione a ridosso della via di Corticella), significa condannarle invece ad un processo incontrollato di prevalente edificazione, completando così errori già fatti con il PRG del 1985 in altre parti del territorio comunale.

Ci sono "vuoti di urbanizzazione" che rappresentano valori da preservare in quanto tali; sulle aree di questi vuoti va piuttosto esercitata una preveggente politica patrimoniale pubblica di lungo termine, la sola, come ormai dimostrato da oltre un secolo di storia della pianificazione urbanistica europea, che possa garantire nel tempo la prevalenza dell'interesse pubblico nelle scelte relative alla crescita ed alle trasformazioni urbane, come d'altronde fece con successo il Comune di Bologna negli anni '70, durante i quali la manovra sul patrimonio costituì un importante strumento al servizio del successo delle azioni di pianificazione urbanistica nel centro antico della città come sulla collina e nel più ampio territorio dell'area metropolitana.

Il Piano Strutturale oggi in formazione non deve costituire il quadro entro il quale tutto diventa possibile sulla base dell'esito di impari trattative pubblico-privato, ma deve fissare con chiarezza l'ossatura delle scelte fondamentali a lungo termine dell'organizzazione urbana e territoriale; soltanto in subordine a queste vanno considerati i margini di flessibilità da lasciare alle contrattazioni con i privati.

Ponte di Messina, smontato pezzo per pezzo

Perseverare diabolicum. Eppure, nessuno li ferma. Quando il prestigio, lo sviluppo e gli affari si saldano il nodo diventa inestricabile. Dalla Laguna allo Stretto. Da l’Unità del 25 maggio 2005

Scadono oggi i termini per la presentazione delle offerte relative alla gara del General Contractor cui spetteranno progettazione esecutiva e poi realizzazione del Ponte sullo Stretto, il manufatto più discusso e discutibile d'Italia. Il condizionale è d'obbligo perché sin qui abbiamo assistito al fuggi fuggi di grandi imprese o cordate di imprese. Motivo? «Il rischio legale, geologico e tecnico-finanziario è troppo alto», ha motivato per la grande cordata franco-italo-spagnola il rappresentante del colosso austriaco Strabag Ag che fungeva da capofila. In sostanza, la sola cordata rimasta in gara (ma quale gara? con chi?) è capeggiata dalla italiana Impregilo-Astaldi, che a sua volta ha perso per strada la francese Vinci e la spagnola Necso. In effetti, il progetto continua a destare le più ampie riserve. Sul piano dei costi, dei tempi, del rischio sismico, degli scenari del traffico poco realistici (e col cabotaggio al decollo). Ma è sull'ombra lunga della malavita organizzata che ci si è soffermati nei giorni scorsi. Secondo Stefano Lenzi del Wwf, «manovre pesanti saranno possibili sfruttando i provvedimenti derivati dalla Legge Obiettivo e le norme istitutive del General Contractor». Nella tavola rotonda tenuta a Messina il 14 scorso, si sono ricordate le fruttuose intese trovate in passato da 'Ndrangheta e Cosa Nostra, su Gioia Tauro come sulla Salerno-Reggio Calabria. Secondo il numero speciale della rivista Limes, «Come mafia comanda», le organizzazioni criminali gestiscono in Italia affari per 100 miliardi di euro, dei quali 6,5 miliardi derivati dall'infiltrazione nelle imprese e negli appalti. Per il Wwf - che ha presentato un suo dossier - le risorse del crimine organizzato sono enormi e i percorsi agevoli dopo l'allentamento delle maglie antimafia operato con la Legge Obiettivo. Per il professor Enzo Sciarrone dell'Università di Torino, sono ad alto rischio mafioso la struttura del Ponte, il «ciclo del cemento», le infrastrutture di accesso e di collegamento e quelle di servizio, l'intermediazione degli espropri (c'è un vaglio DIA su 9.300 imprese, siciliane e calabresi). Per Giovanni Colussi, società Nomos, il 40% delle opere previste potrebbe alimentare circuiti criminali con introiti per 2,4 miliardi di euro. Cosa preoccupa soprattutto? La «piena libertà di affidare a terzi anche la totalità dei lavori» (Legge Obiettivo), con una miriade di sub-affidamenti fuori controllo per l'Antimafia. La possibilità per istituti bancari e investitori istituzionali di entrare e uscire dalle società di progetto «in qualsiasi momento». La facoltà di finanziare l'opera «con qualsiasi mezzo», anche con obbligazioni «garantite dal soggetto aggiudicatore», cioè dallo Stato, senza rischi per i privati. Il medesimo Stato si accollerebbe pure gli aumenti dei costi superiori al 10%. Una denuncia gravissima viene dalla Fillea-Cgil : l'affidamento di sei macro-lotti dell'Autostrada Salerno-Reggio Calabria ai General Contractors sta quintuplicando i costi, mentre i sub-affidamenti fanno registrare ribassi dei prezzi tali (anche -45%) da mettere in serio pericolo qualità e sicurezza dei lavori. La parcellizzazione delle sub-assegnazioni ha poi reso «irriconoscibili» le imprese da parte di chi deve effettuare i controlli di legge e dei sindacati stessi. Come è possibile opporsi alle infiltrazioni? Insomma, un intreccio perverso, dagli effetti negativi a catena. Lo stesso vice-presidente esecutivo della Astaldi, concorrente ormai solitaria, ha sottolineato la «rischiosità del progetto». Grande Opera o Cimitero Monumentale della Legalità?

Illustre signor ministro, il Suo dicastero, si dice, ha appena fatto una sensazionale scoperta: Roma non è, come credevamo, una città ricchissima di palazzi monumentali. Anzi, di palazzi degni di questo nome ce n´è uno, e uno solo: palazzo Barberini. L’unico, Lei sottolinea, degno di accogliere sale di rappresentanza del Suo ministero, naturalmente collegate al Circolo ufficiali. Questa scoperta (dovuta forse alla Sua intelligence?) smentisce l’opinione comune, secondo la quale nessuna città d’Europa, anzi del mondo, è ricca quanto Roma di edifici storici nobilissimi, di palazzi aristocratici o cardinalizi. Smentisce anche il Suo collega di governo onorevole Giulio Tremonti, che da anni va ripetendo che lo Stato possiede, a Roma più che altrove, troppi edifici storici, e che sarebbe bene venderne un bel po’ ai privati. È invece ormai acclarato che in nessun luogo mai, se non nell’unico e solo palazzo di Roma, palazzo Barberini, possono aver sede ricevimenti e cerimonie del Suo ministero. Tutt’intorno, una città di catapecchie, favelas che gareggiano con quelle di altre latitudini, di altri continenti. In questa situazione da terzo o quarto mondo, la Sua insistenza per appropriarsi di palazzo Barberini non più abusivamente, bensì "a titolo perpetuo e gratuito" appare pienamente giustificata; giustificato è il Suo rifiuto di ogni compromesso col ministero dei Beni culturali. Infondate invece le assurde pretese di chi stranamente ritiene che anche Roma, come le altre capitali europee, debba avere una grande galleria d’arte antica, e pretestuosamente ricorda che nel 1949 palazzo Barberini fu comprato dallo Stato a questo scopo esclusivo, e che almeno dal 1965 il Circolo ufficiali vi ha sede senza titolo legale. I più scatenati partigiani della Galleria nazionale d’arte antica osano persino richiamarLa al rispetto del protocollo d’intesa fra il Suo dicastero e quello dei Beni culturali, secondo cui l’intero palazzo va al museo: ma Lei ci ha giustamente ricordato che il governo di allora (1997) era notoriamente ostile alle Forze armate, e che, di conseguenza, quell’accordo (firmato da noti estremisti come Andreatta e Veltroni) non vale più. Per non dire di un altro pericoloso estremista, Alberto Ronchey, che da ministro dei Beni culturali del governo Ciampi notificò al Circolo ufficiali un decreto di sfratto esecutivo (1993), ma fu sconfitto dai Suoi prodi predecessori.

Le confesso che da alcune settimane non vado a Roma. Quanto dev’essere cambiata, ultimamente! Io non ricordo favelas né catapecchie, bensì una città gloriosa di splendidi palazzi, ricchissima di edifici di proprietà pubblica, molti dei quali sottoutilizzati. Ho anzi sempre dato ragione all’on. Tremonti quando sottolineava l’immensità di questo patrimonio immobiliare, anche se non sono d’accordo con lui che il miglior modo di utilizzarlo sia di cederlo ai privati in quattro e quattr’otto. Mi rattristava un po’, è vero, ogni volta che andavo nella nostra città capitale, dover constatare che, se vogliamo cercarvi una grande pinacoteca, dobbiamo ancora andare in Vaticano, come se a Porta Pia non fosse accaduto proprio nulla; mi rattristava andare a palazzo Barberini e vederne le meravigliose collezioni, ma sapendo che solo il 20% di esse può esservi esposto, perché il Circolo ufficiali occupa il resto. Mi turbava, anche, il diffuso pettegolezzo secondo cui la parte di palazzo Barberini occupata dal Circolo viene usata ben poco per cerimonie di rappresentanza della Difesa, ma è regolarmente data in affitto per ricevimenti privati (nozze, compleanni, prime comunioni). Mi infastidiva, come contribuente, il pensiero che decine di milioni di euro siano stati già spesi dallo Stato per spostare il Circolo ufficiali e destinare a museo il palazzo, e che le resistenze del Circolo ne ritardino sine die l’apertura al pubblico.

Insomma, signor ministro, la Roma di cui Lei ci parla, la Roma di catapecchie con un unico palazzo degno del Suo dicastero, è molto diversa dalla Roma di cui io ho esperienza e memoria. Può soccorrermi, Signor Ministro? Può aiutarmi a risolvere questo dubbio angoscioso? Quale è la Roma vera, la mia o la Sua?

Il documento del direttivo nazionale

Il “passante nord” a Bologna è un’opera costosa, inutile e dannosa perché non può che produrre altro inquinamento. Italia Nostra invita il Ministero per i Trasporti, la Regione Emilia-Romagna, la Provincia, il Comune di Bologna, e la Società Autostrade a recedere dal progetto e ad adottare soluzioni che producano meno danni ambientali, razionalizzando la sede del sistema tangenziale attuale.

La nuova autostrada prevista nel Piano Territoriale Provinciale di Bologna avrebbe infatti pesanti conseguenze ambientali negative e causerebbe irreversibili alterazioni del paesaggio agrario della pianura bolognese. Sarebbe un grave errore pensare di risolvere il difficoltoso funzionamento della tangenziale con un'altra autostrada che finirebbe per richiamare nuovo traffico e per diffondere su un'area più vasta gli effetti dell’inquinamento, oltre che indurre ulteriori forme di disordinata urbanizzazione.

Italia Nostra ritiene che la soluzione vada cercata nello spostamento di quote di traffico delle merci dalla strada alla ferrovia ed al trasporto marittimo e nell'attivazione di servizi di trasporto pubblico in grado di favorire lo spostamento delle persone nell'area metropolitana bolognese.

Il documento della Sezione Emilia-Romagna di Italia Nostra

Il Consiglio Regionale dell'Emilia-Romagna di ITALIA NOSTRA esprime la propria forte preoccupazione per il progetto di una nuova autostrada a nord di Bologna contenuto nei documenti del Piano Territoriale della Provincia e del Piano Strutturale del capoluogo.

Questa ipotesi è entrata a far parte delle previsioni del Piano della Provincia soltanto all'ultimo momento del suo lungo iter di formazione, quasi fosse una variabile indipendente rispetto all'insieme delle altre valutazioni che riguardano l'assetto territoriale-insediativo e il sistema delle tutele ambientali che erano state poste fino ad allora all'attenzione dei Comuni e degli altri partecipanti al dibattito.

Questo frettoloso inserimento di una infrastruttura viaria di tale portata e gravida di così pesanti conseguenze, è testimone di un incomprensibile scollamento fra la considerazione delle problematiche relative ai movimenti delle persone e delle merci e quelle concernenti il quadro ambientale complessivo, la qualità della vita e le prospettive insediative ed economiche di tanta parte del territorio della Provincia.

Al sollievo per lo scampato pericolo seguito alla caduta del progetto autostradale di un tunnel sotto la collina, segue quindi la sorpresa per un progetto che sotto molti punti di vista appare addirittura ancor più negativo di quello.

La nuova autostrada verrebbe a modificare profondamente ed in modo negativo l'assetto ambientale e paesistico di grande parte della pianura a nord di Bologna inserendovi chilometri e chilometri di manufatti estranei alla natura dei materiali agricoli, idraulici e naturali che la caratterizzano e la disegnano in modo preciso; causandovi rotture di continuità spaziale che ne altererebbero le modalità di fruizione e causerebbero il frazionamento casuale di comparti ed aziende agricole unitarie; introducendovi spinte disordinate all'urbanizzazione; causando quindi forme irreversibili di degrado di un paesaggio nel quale, nonostante le ingenti trasformazioni degli ultimi quarant'anni, è ancora ben leggibile la stratificazione dei segni della plurisecolare opera di adeguamento di un territorio che è stato gradualmente sottratto al dominio disordinato delle acque per farne il luogo di forme di produzione agricola ed agro-industriale fra le più avanzate del nostro Paese: un paesaggio che conservando ancora viva la testimonianza degli elementi fondamentali della sua organizzazione idraulica, insediativa e produttiva rappresenta nel suo insieme uno straordinario monumento alla storia della nostra civiltà.

Il progetto del "passante nord" fa tornare purtroppo alla mente la pratica degli sventramenti dei centri storici per facilitarvi il traffico automobilistico ancora in voga negli anni ''50 del secolo scorso; vi si ritrova lo stesso disinteresse e la medesima sottovalutazione dei contesti storici ed ambientali sui quali si decideva di incidere assecondando una malintesa ideologia del progresso e della modernità; stupisce quindi veder rispuntare una maniera di progettare che sembra aver dimenticato che proprio Bologna, a partire dal 1960, seppe annullare le ipotesi di sventramento nel centro antico della città contenute nel Piano Regolatore del 1955 inaugurando una operosa stagione di pianificazione urbanistica aperta alle esigenze di un moderno e civile sviluppo economico e sociale e, nel contempo, rispettosa dei valori storici, architettonici e paesistici che cosituiscono il patrimonio specifico inalienabile e irriproducibile della città e del territorio della Provincia.

Riguardo poi ai problemi che con la proposta del passante di pianura si intende risolvere, riteniamo sia lecito nutrire forti dubbi sul fatto che il mezzo scelto sia adeguato al raggiungimento del fine.

Non è infatti con un pezzo di autostrada in più che si potrà dare una risposta efficace ai problemi attuali del sistema tangenziale bolognese. E' ormai noto che le realizzazioni di nuove strade ed autostrade a servizio di itinerari gia sovraccarichi senza che si provveda nel contempo a mettere in campo soluzioni modali alternative, finiscono per richiamare ancora nuovo traffico e sono quindi destinate nel giro di poco tempo a diventare esse stesse insufficienti: la cattiva soluzione proposta sembra così nascere da una analisi non sufficientemente approfondita dei problemi in essere e delle loro cause effettive.

Se il sistema tangenziale bolognese è oberato da un eccesso di traffico delle merci e da un eccesso di spostamenti di persone interni all'area metropolitana a mezzo di auto private, le cause, a parere di ITALIA NOSTRA, vanno individuate da un lato nella politica nazionale per il trasporto delle merci che continua a privilegiare il trasporto su strada rispetto a quello su ferro e via mare, dall'altro nel ritardo pluridecennale degli enti locali bolognesi nel creare un sistema competitivo di trasporto pubblico in sede propria per i movimenti delle persone nei percorsi casa-lavoro (con l'eccezione lodevole ma insufficiente del Servizio Ferroviario Metropolitano che risente tuttora di una disdicevole arretratezza dei mezzi di trasporto utilizzati e di una ancora scarsa affidabilità in termini di regolarità e puntualità del servizio); una parte delle code sul sistema tangenziale esterno nelle ore di punta è poi dovuto alla insufficiente ricettività delle strade radiali verso le quali defluisce il traffico della tangenziale, insufficienza dovuta al mancato completamento degli svincoli o alla sezione troppo stretta delle radiali stesse.

Se questi, a parere di ITALIA NOSTRA, sono in sintesi i veri problemi che si trovano alla base delle attuali difficoltà del sistema viario tangenziale bolognese, il progetto proposto dalla Provincia e dal Comune di Bologna sembra piuttosto rispecchiare il vecchio vizio di curare i sintomi e non le cause dei mali che si dichiara di voler eliminare.

Anziché provare a risolverli, il progetto del passante nord evitando di affrontare le cause dei problemi ipotizza di spostarne verso nord parte degli effetti, ponendo così le basi per un aggravamento delle une e degli altri insieme alla messa in essere di una serie di irreversibili conseguenze negative dal punto di vista paesistico ed ambientale per tutto il territorio della pianura ed aprendo la strada a caotiche spinte speculative.

ITALIA NOSTRA, mentre sollecita gli Enti Locali bolognesi e la Regione Emilia- Romagna a farsi protagonisti di una grande battaglia nazionale per una nuova politica dei trasporti basata sul rilancio del trasporto ferroviario e marittimo delle merci e sullo sviluppo dei trasporti locali in sede propria per i movimenti delle persone nelle grandi città, chiede che vengano studiate possibili alternative alla soluzione proposta con il passante autostradale nord a cominciare da una seria valutazione della possibilità di provvedere ad una razionalizzazione della gestione del traffico e ad una riorganizzazione del sistema tangenziale in essere che potrebbero evitare di ricorrere al nuovo devastante tracciato del "passante nord", azioni che dovranno essere accompagnate dalla predisposizione di misure efficaci di mitigazione dell'impatto ambientale per le zone circostanti e per le popolazioni che vi abitano.

Con questo spirito ITALIA NOSTRA si farà promotrice nelle prossime settimane di un incontro che consenta di mettere pubblicamente a confronto idee e proposte alternative, nell'intento di favorire la ricerca di soluzioni che nel rispetto delle qualità paesistiche, storiche ed ambientali del territorio della Provincia di Bologna, diano risposte soddisfacenti alle esigenze di mobilità della popolazione e di movimentazione delle merci.

ITALIA NOSTRA si augura che il Comune di Bologna e la Provincia manifestino a questo proposito la massima disponibilità al confronto ed evitino di chiudere la discussione prima di incominciarla facendo trovare tutti di fronte al fatto compiuto di decisioni affrettate delle quali ci si dovrà poi pentire.

La convocazione oggi di una udienza conoscitiva da parte della Commissione Ambiente della Regione Emilia-Romagna, lascia pensare e sperare che questo confronto sia ancora possibile e possa quindi influire sulle scelte che verranno prese.

Se questo avverrà crediamo che le popolazioni e le forze culturali interessate al miglior esito di questa vicenda sapranno riconoscerne il merito a chi avrà saputo consentire un libero e costruttivo dibattito.

L'articolo descrive dettagliatamente la sconcertante vicenda del nuovo piano regolatore di Palermo voluto da Leoluca Orlando e redatto con la consulenza di Pierluigi Cervellati. L'articolo inizia delineando il quadro politico degli anni 2000-2002 caratterizzati dall'affermazione del centro-destra in Italia, in Sicilia e a Palermo. Il testo è così articolato: 1. Elementi al contorno; 2. Il "piano Cervellati"; 2.1. L'iter di formazione del piano; 3. L'approvazione regionale: il contro-piano.

Qui sotto il link al testo integrale

In un’aula - antica e conservata - della facoltà di ingegneria un gruppetto riflessivo di studenti si è domandato se esiste un una filosofia delle costruzioni.

Esiste, dicevano, la filosofia del diritto, c’è una filosofia della scienza ed esiste, certo, anche una filosofia del costruire: ma non viene insegnata. Eppure un’azione così importante e complessa come progettare e costruire deve essere sostenuta da una filosofia e da un’etica. Sennò si vive in un aldilà, opaco, senza memoria e senza passato.

Finita la discussione che ha lasciato quasi tutti con idee più numerose ma più confuse, ho attraversato la città, Cagliari, per tornare a casa e sono passato dall’ordine del ragionamento al disordine della realtà.

Un’infinità di esempi dolorosi mi si presentavano lungo strada. Filosofia ed etica da queste parti hanno fatto un capitombolo… Guardavo i quartieri e riflettevo che non c’è stata né un’etica e neppure una filosofia che hanno sostenuto la crescita di Cagliari, orribilmente ingrandita dal dopoguerra ad oggi, priva, appunto, di una dottrina del costruire. Cresciuta con la violenza della necessità, perché servivano tetti sotto i quali rifugiare la gente che si inurbava dai paesi dell’isola. Perciò, nonostante la bellezza della posizione naturale, Cagliari è diventata una città brutta cresciuta nel disordine, come un tumore. La necessità, solo la brutale necessità per sessant’anni, ha guidato la nascita di quartieri nuovi e soffocanti. Era necessario costruire case e basta. Non c’era il tempo di fare filosofia.

Questa è la città oggi.

E il resto dell’isola?

Nelle campagne, nelle coste e sui monti non c’era la folla che premeva per avere un tetto, casomai era il contrario e la gente fuggiva dai paesi. Però c’era altro che spingeva verso la distruzione, qualcosa di forte quanto la necessità.

Oggi, si sa, l’isola è un inferno affaristico e come ogni inferno ha i suoi diavoli. E per colpa dei diavoli l’isola ha perso la memoria ed è diventata roba di dozzina, roba volgare. Tutto è mutato in peggio, tutto avvilito, il paesaggio, i colori. E siamo solo un milione e mezza in un enorme spazio.

Costruire, qualcuno ha scritto, significa collaborare con la terra.

Collaborare con la terra...

Ma quale collaborazione con la terra e con le acque c’è stata da queste parti? Qua abbiamo fatto e costruito contro la terra e contro le acque, contro natura. E la brutalità continua.

Dal cielo le cose, alle volte, si vedono con più chiarezza.

In una bella giornata trasparente, volando sopra le due grandi isole, anche il viaggiatore più distratto nota che la Corsica, vista dall’oblò, è quasi illesa, intatta mentre la nostra isola è dappertutto imbrattata, sfregiata da cemento, porti, agglomerati insensati sull’acqua e sui monti. Nelle giornate più terse si riconoscono anche i particolari più raccapriccianti. Altro che filosofia.

E il fascino del passato è divenuto solo una carta falsa, buona per bari e biscazzieri che raccontano un’isola che non esiste da un pezzo.

I nostri paesi.

I nostri paesi erano perfettamente in natura e “collaboravano” con la terra. Lentamente, da sé, sono riusciti nell’intento, dolorosamente contraddittorio, di svuotarsi degli abitanti e di moltiplicare le case. Paesi fantasma. Case brutte, estranee al paesaggio, estranee a chi le abita e crede di avere una casa solo perché ha eretto muri, case mai finite, ciascuna secondo un gusto che ha rotto con la tradizione e fa il verso ai modelli peggiori: costruite contro il paesaggio e contro il territorio. Tutto in uno sconsiderato caos alcolico, ovunque, in ogni luogo.

Avremmo dovuto non costruire ma ricostruire, considerare il passato modificandolo, inseguire il senso del costruire sotto le pietre e sotto i mattoni vecchi. Avremmo dovuto semplicemente imitare noi stessi e cambiare poco, oppure pochissimo. Avremmo dovuto tenere i piedi saldi sul passato e conservare, conservare. La filosofia l’avremmo trovata nelle nostre pietre se avessimo guardato in terra. Iniziare da quello che c’era.

Invece abbiamo creato un paesaggio nuovo e desolato, falsificato la nostra geografia umana. E anche per questo siamo un popolo melanconico e tragico: ci siamo sradicati da soli, ma soprattutto abbiamo perso definitivamente la memoria e non ricordiamo più chi siamo.

E pensare che una filosofia del costruire esisteva nell’isola, una filosofia povera, ma una filosofia. I paesi erano in equilibrio con la terra, erano costruiti con i materiali della terra su cui sorgevano e perciò assomigliavano alla terra, ne riproducevano i colori e perfino l’odore.

Il granito dove il granito era a portata di mano, il mattone di fango dove c’era la paglia e l’argilla, il tufo bianco, pietre splendenti, la trachite bruna, tegole e canne, muri di selce: materia riconoscibile e non estranea. Nulla… tutto scomparso.

Non era un grande sapere ma era un modo di costruire “naturale”, la nostra rappresentazione del mondo intorno. Noi l’avremmo dovuto ricomporre. E, invece, la trasmissione delle memorie si è sgretolata.

Che cosa abbia fatto a pezzi tutto questo non è chiaro.

Ignoranza e povertà, forse, hanno cancellato quello che avevamo il dovere di conservare. Una forma di succube inferiorità davanti a tutto ciò che arrivava dal mondo esterno. La non comprensione del patrimonio povero ma insostituibile. La pressione troppo forte del mondo “civilizzato”.

Quel gruppo di studenti d’ingegneria continuerà a riflettere e comprenderà, speriamo, la responsabilità di chi deve costruire in Natura, l’importanza del “non fare” e capirà che per non fare occorre forza e conoscenza di cosa ci portiamo dentro.

Non fare è un comandamento. E quando si agisce bisogna che l’azione, preceduta da un’idea, sia minima, oppure – ma questo è un compito riservato al genio – grande ma in collaborazione con la terra la quale è inanimata, certo, ma possiede una logica che, se la si offende, genera disastri. Sennò saremo noi i responsabili della creazione di un regno dei morti in terra.



Ecco i libri di Giorgio Todde

L'immagine è tratta da: yves.barnoux.free.fr/ sarde/litterature.htm

Dalla finanza creativa, alla finanza distruttiva. Distruttiva dell´ambiente, della natura, del paesaggio e quindi anche del turismo, ultima risorsa del povero Belpaese. Si sentiva la mancanza di un tocco di fantasia, di originalità, diciamo pure di spregiudicatezza e improvvisazione nell´azione di governo.

Ed ecco che il ritorno di Giulio Tremonti a palazzo Chigi, l´ex ministro dei condoni e dell´una semper, riporta il Berlusconi-bis alla realtà, alla concretezza dei progetti, alla fattibilità delle grandi e piccole opere che il centrodestra ha già realizzato sull´intero territorio nazionale, a dispetto dell´incredulità popolare e dello scetticismo della Corte dei Conti.

Ed ecco che il ritorno di Giulio Tremonti a palazzo Chigi, l´ex ministro dei condoni e dell´una semper, riporta il Berlusconi-bis alla realtà, alla concretezza dei progetti, alla fattibilità delle grandi e piccole opere che il centrodestra ha già realizzato sull´intero territorio nazionale, a dispetto dell´incredulità popolare e dello scetticismo della Corte dei Conti.

Con l´autorevolezza che gli deriva dal risanamento del bilancio pubblico e dal rilancio dell´economia, per cui appena qualche mese fa venne dimissionato dalla sua stessa maggioranza, ora il neo-vicepresidente del Consiglio si ripresenta come il salvatore del Sud, il profeta del Mezzogiorno derelitto e abbandonato. Altro che "asse del Nord", altro che rapporti privilegiati con Bossi e con la Lega. Il "mezzo ministro", come lo ha elegantemente appellato nei giorni scorsi il suo collega Roberto Maroni, sfodera subito un Piano straordinario per il Riscatto meridionale, senza alcun riferimento – beninteso - al sequestro sociale operato negli ultimi anni dal centrodestra e tantomeno all´occupazione militare della criminalità organizzata.

Vendiamo le spiagge, annuncia euforico Tremonti, laddove al posto degli arenili e degli stabilimenti bisognerebbe intendere più correttamente l´argenteria di famiglia o addirittura le mutande. Ma sì, vendiamoci anche le "gabine", come direbbe il leader dei cieloduristi, con tutti gli ombrelloni e le sedie a sdraio. Vendiamoci le vocali e le consonanti. La storia e la cultura. L´ambiente e il paesaggio. Diamo tutto ai privati in concessione centenaria, comprese magari le frequenze televisive che già non sono assegnate a Mediaset, così perfino i "terroni" potranno diventare ricchi come Berluscon de Berlusconi. Questo è il nuovo "vento del Sud".

Nel giorno in cui si celebra l´anniversario della Resistenza, la Costituzione e l´unità nazionale, il nostro vice-premier smentisce in un colpo solo tutte le divisioni e le polemiche, ripartendo dal fondo dello Stivale. Berlusconi non partecipa alla manifestazione di Milano? E lui, in compenso, si schiera sul fronte meridionale. Il turismo di massa sta arrivando dalla Cina e dall´India? E allora, iniziamo la stagione dei "grandi saldi": mettiamo in vendita l´acqua di mare, come voleva fare Totò con il Colosseo; costruiamo castelli di sabbia e affittiamo pure il solleone, per coprire i "buchi" prodotti dalla politica del Superministro dell´Economia.

Mancano i soldi per riparare le strade, per l´ordinaria manutenzione, per la pulizia urbana e per tutto il resto? Poco male. Bisogna costruire "aeroporti a quattro piste", come vaneggia testualmente il sottocapo del governo, per attirare "charter" di turisti cinesi e indiani, riempire alberghi e pensioni, invadere ristoranti e bar. La soluzione è semplice: basta emettere un bel pacchetto di "bond", modello Parmalat o modello Argentina, spiaggia-bond, spaghetti-bond o pizza-bond e il gioco (di prestigio) è fatto.

Di fronte alle ultime esternazioni di Tremonti, l´ironia può essere una magra consolazione, un piccolo conforto. Non si riesce a prenderlo sul serio. Veramente non si sa più se ridere o piangere. Ma purtroppo la realtà di questo governo-balneare – sarà proprio il caso di chiamarlo così d´ora in poi - supera ogni fantasia. I "nuovi barbari" sono alle porte. Ma,

3.Il consumo in Sardegna: tra gioco d’azzardo e sperimentazione di regole

Ho solo delineato i percorsi, ma sui risultati rinvio al materiale che troverete nella cartella, e soprattutto al volume di prossima pubblicazione.

Da questa ricerca che cosa possiamo ricavare in termini generali? Ovvero come interpretare il fatto che in Sardegna dilatazione del consumo e turismo vanno di pari passo e che la trasformazione della distribuzione ed i cambiamenti del sistema turistico sono strettamente legati a un bisogno che va oltre il semplice accesso al bene-merce-territorio, bisogno peraltro che attraversa l’Italia e l’Europa (per limitarci al nostro continente). Infatti, la domanda di consumo (nel quale colloco anche il tempo/spazio del turismo) cresce nella misura in cui cresce il piacere, la curiosità, il semplice stare in questi luoghi. Uno stare mai da soli, almeno fisicamente, perché per rispondere alle domande del piacere e della curiosità deve essere condiviso socialmente. Ciò non significa che il consumo sia per così dire democratico, anzi ‘costruisce’ barriere invalicabili e rispetta rigidamente le differenze sociali e le singole capacità economiche di accesso. Uno stare che non è mai un vuoto (vacuo) ma che deve essere pieno di attività continuamente rinnovate e il più possibile spettacolari. C’è qualcosa di nuovo in questo? Se pensiamo all’arte no. Andy Warhol ha certamente anticipato questo fenomeno dilagante del consumo (per intenderci, i barattoli di minestre Campbells assunti a espressione artistica), ma se pensiamo alla vita sociale certamente sì. Non c’è uno spazio/tempo (endiadi) per il consumo, ma tutti gli spazi/tempo del singolo individuo e dei gruppi di riferimento (quindi della città e del territorio tout court) sono beni da consumare.

Tutto il resto (gli altri aspetti della vita sociale) si deve ricavare delle nicchie, nicchie consentite purché stiano sempre dentro la sfera del consumo, tranne qualche eccezione naturalmente: come ad esempio ciò che attiene alle azioni di volontariato o, nella vita individuale, alla sfera emotivo-sentimentale. Inoltre, l’opera di consumo riesce nella misura in cui le politiche di attrazione sono efficaci. Politiche nelle quali i protagonisti sono il mondo imprenditoriale, i consumatori, ai quali si sono aggiunti più recentemente le amministrazioni locali, le quali, a loro volta, hanno mutuato le regole del mercato e le hanno applicate alla politica. Gli strumenti delle deroghe e l’assenza di pianificazione sono, per l’appunto, la faccia pubblica della provvisorietà e dell’instabilità tipiche del consumo.

Che cosa accade in questi spazi/tempo del consumo? Dal vasto orizzonte di comportamenti da noi rilevato sono emersi due elementi:

1) il consumo ha bisogno di essere supportato da forti segni simbolici e comunicativi; 2) il consumo ha già ipotecato una bella fetta di futuro.

1) Primo elemento. I segni simbolici e comunicativi inducono e alimentano le domande (che ormai vanno oltre il consumo del tempo libero dal lavoro e la vacanza) di svago e di cultura - intesa però anch’essa come svago. Ecco che comprendiamo perché la presentazione di un libro può disporre di un numeroso pubblico, attratto più dalla presenza del suo autore (naturalmente se famoso) che dal contenuto dell’opera. Avvenimento questo che può collocarsi indifferentemente in un centro commerciale o in un luogo turistico (purché noto e alla moda). Lo stesso dicasi per i concerti e le mostre, allestite lungo i percorsi del consumo e che si possono tranquillamente confondere con le insegne pubblicitarie, non solo se il consumatore è disattento ma anche perché le modalità comunicative sono le stesse.

Specularmene, nei luoghi tradizionali della cultura si (in)segue il modello del centro commerciale. Naturalmente per avere successo sono necessarie alcune pre-condizioni: a) l’unicità del bene esposto ‘da consumare almeno visivamente’, sia essa di natura storica, culturale o ambientale; b) la capacità comunicativa (dal tradizionale depliant al sito Internet); c) e, non da ultimo, la firma/griffe che garantisce il successo: si pensi a Marco Golin che da Treviso è passato a Brescia e a Torino, trasferendo insieme alla sua persona risorse finanziarie, capacità attrattive oltre che i contratti per l’esposizione delle opere (con tutti gli effetti negativi per l’intera città di Treviso che su questa griffe aveva organizzato e costruito grandi aspettative).

Badate bene, quest’ultima pre-condizione sta ‘condizionando’ tutto il resto. Se una spiaggia non decolla, ecco che si chiama la griffe, l’ultima in ordine di tempo è quella di Massimiliano Fuksas per una parte di costa del sud-Sardegna. Se poi si vuole fare un viale nella città catalana, che cosa si fa? Si chiama naturalmente Busquetz, con la speranza di replicare il successo di Barcellona nella città-cugina.

La griffe, anch’essa, risponde ai criteri e alle regole del consumo, deve essere spettacolare e, possibilmente, rinviare un’immagine di successo magicamente garantito. Altrimenti non si capirebbe perché mai un’amministrazione (magari neanche troppo ricca) investa ingenti finanziamenti per ‘catturare’ la firma di un architetto o di un artista, purché noti, di cui non sono in discussione le qualità, ma semmai le capacità taumaturgiche di far decollare un’area depressa, una città in crisi, e così via.

2) Secondo elemento. Nel prossimo futuro, almeno se non intervengono fatti imprevisti, questi luoghi assumeranno sempre di più la veste complessa - sociale ed architettonica - della città. Si pensi semplicemente al fatto che intere generazioni considerano i centri del consumo la città tout court, dove si fanno le feste dei compleanni, ci sono i baby parking, la piazza del passeggio e certamente anche dell’innamoramento, e così via. Insomma il fatto che soprattutto i più giovani, proprio quelli che hanno maturato scarsa esperienza di altri tipi di città, considerino questi centri del consumo dei luoghi urbani, passandoci buona parte della loro vita, impone seri interrogativi sul futuro loro e delle città storicamente date.

D’altronde queste nuove forme urbane stanno adattando le loro architetture, oltre i nomi, alle città storiche (ad es. Serravalle Scrivia che dista da Alessandria circa 44 Km). Certo in Sardegna siamo fermi ancora al modello architettonico introverso di Gruen (grandi scatole cubiche), ma la domanda di qualità architettonica di questi centri sta crescendo anche nella nostra isola. Analogo ragionamento può essere applicato ad alcuni luoghi di fruizione turistica: pieni sociali, sul principio della città (senza però l’ingombro della differenziazione sociale) per alcuni mesi all’anno; vuoti sociali nei restanti mesi. Pieni sociali che soffrono di schizofrenia: massima protezione della privacy (luoghi blindati per eccellenza), massima esposizione pubblica e oggetto del desiderio per quanti vedono in questi luoghi (e i suoi abitanti) un modello da imitare.

Ha un fondamento questo percorso riflessivo? Se sì, siamo in ritardo nel porci degli interrogativi, quali “Che cosa significa città oggi?”; “ Quali sono le differenze tra l’individuo consumatore e il cittadino?”, “Come si possono innescare processi democratici, partecipativi e di controllo in queste forme urbane create dal e per il consumo?”. E ancora, “In questo nuova forma urbana ci possono essere coesione sociale e modalità redistributive di ricchezza?”. Certamente per coesione sociale e redistribuzione non possiamo intendere la raccolta di viveri per le famiglie povere che ogni centro commerciale che ‘si rispetti’ colloca vicino alle porte scorrevoli, e neppure i balli o le feste di beneficenza organizzate in estate dai Vip.

Ovverosia, la città che si sta prospettando è ancora il luogo (nel senso aristotelico) dove il genere umano (libero anche dal consumo) esprime nel contempo la capacità di governare e di essere governati? Come si può capire non mi sto riferendo a ciò che attiene ai diritti dei consumatori e alle forme associative sorte ad hoc. Bensì mi riferisco al fatto che la sfera dei diritti e dei doveri, le sedi di rappresentanza istituzionali, insomma la città come polis, hanno fondato l’idea stessa di cittadinanza, dove il mercato è sì un luogo fondante della città, ma di per sé non sufficiente per fare di un insediamento una città (come ci ha ben detto Max Weber). Ma oggi è il mercato a fare la città, tanto è vero che la città storica insegue anch’essa, per sopravvivere o per competere, il modello degli shopping center e dei luoghi del turismo più rappresentativi.

Insomma, quali sono gli spazi della democrazia in una città proiettata prevalentemente sul mercato e sul consumo? Credo che a questo interrogativo non si possa più sfuggire.

La ricerca si colloca in Sardegna e quindi non posso eludere la domanda “Il governo regionale si sta attrezzando per rispondere alle ‘tentazioni’ del consumo?” (dei luoghi, dei beni, della cultura).

Se pensiamo ai tre interventi del governo sardo riguardanti il decreto salva-coste, l’istituzione del Conservatore delle coste della Sardegna e il blocco dei grandi insediamenti commerciali, sembrerebbe che ci sia uno sforzo di sperimentazione in tal senso e il tentativo di uscire da una lunga fase di ‘gioco d’azzardo’.

Non voglio entrare nel merito di questi decreti (non è questa la sede), anche se dichiaro di condividerne la filosofia tutelante di fondo. Ma ciò non mi esime dal porre alcune domande (domande che mi sarebbe piaciuto fare in questa sede all’assessore regionale all’urbanistica, anche se devo dire che l’assenza delle istituzioni non è dipesa da noi).

Ossia, rispetto a questi decreti, a partire dal decreto salva-coste, quale impianto giuridico ed economico in materia urbanistica si vuole costruire? Per quale scenario di sviluppo? Con quali attori sociali?

Non bastano i vincoli. Sono necessarie proposte concrete e differenziate per i diversi territori da realizzare in tempi rapidi. Ed ancor di più è necessario costruire il consenso. La regione non è un’azienda da gestire e la democrazia non è un ingombro. È un processo faticoso ma necessario, non ultimo perché senza il consenso ogni intervento, persino quello più illuminante, sarebbe privo di efficacia: basti pensare alla pluri-decennale vicenda dei parchi mai nati, nonostante precise norme istitutive. Il territorio va governato con la politica, in assenza di questa sono gli interessi forti a decretarne il mutamento. Non vorrei apparire ingenua. So bene che in materia di territorio gli interessi ci sono sempre, e non mi scandalizza il fatto che i portatori di questi interessi facciano di tutto per difenderli. Il punto è, la prevalenza di alcuni interessi – ad esempio quelli che hanno comportato la proliferazione degli insediamenti turistici e la diffusione del fenomeno delle seconde e terze case - ha portato benefici alla Sardegna e non solo ai singoli e pochi protagonisti? Non mi colloco tra quanti ritengono di dover demonizzare il turismo. È un settore molto importante della nostra economia, ma il livello di maturità raggiunto dal turismo (nonostante i troppi spontaneismi che continuano ad esserci) ci consente di valutare criticamente ciò che fin qui si è realizzato. Anche la pausa (così deve essere intesa) dei decreti può servire per riflettere insieme senza posizioni preconcette.

Ad esempio, il polo di Olbia costituisce una punta avanzata dal punto di vista demografico - si sostiene anche sotto il profilo economico -, ma vi domando “Il modello di turismo esistente in quest’area – considerato una punta di eccellenza per i tipi di insediamento e perché catalizza l’attenzione internazionale -, siamo sicuri che vada bene?

Sotto il profilo del paesaggio, abbiamo insediamenti turistici (seppur d’élite) che vivono pochi mesi all’anno e che però come consumo del territorio gravano tutto l’anno. Non a caso si sta chiedendo da più parti che vengano considerati (e perciò trasformati in) ‘aree urbane’ a tutti gli effetti.

Sotto il profilo sociale, disoccupazione diffusa, occupazione precaria e poco qualificata sono i risultati di questo modello.

Sotto il profilo urbanistico, frammentazione e dispersione caratterizzano la città di Olbia, senza però neppure l’ordine storicamente sedimentato della città di lunga durata.

A tutto ciò va aggiunto il fatto che questo modello di turismo è stato pedissequamente imitato in altre parti della Sardegna, con meno risorse finanziarie, con meno qualità e probabilmente con maggiore frenesia di ottenere rapidamente dei benefici dalla trasformazione del territorio costiero in insediamenti turistici.

Insomma il turismo che si è affermato, ha sì messo in vetrina la Sardegna, ma non l’ha fatta uscire dalla marginalità.

Altro elemento, il turismo, come qualunque bene di consumo, è sottoposto alla provvisorietà della moda e dell’effimero, è sufficiente un cambiamento dei gusti – senza scomodare uno tsunami – perché un intero sistema crolli. Da questo punto di vista, quegli scrittori che ‘demonizzano’ il turismo (non farei distinzioni tra mare e terra) hanno molte ragioni ad indicare altre vie. Purché queste non siano rivolte all’indietro. Non siano per l’appunto nostalgiche.

Per concludere, a partire dai risultati della ricerca sui consumi faccio le seguenti considerazioni:

a) la Sardegna non può sottrarsi ai processi globali che hanno fatto diventare il consumo la dimensione per eccellenza, ma la sua condizione di insularità consente di poter governare questo processo con regole di contenimento: ad esempio limitando l’estensione della grande distribuzione (ingiustificata sul piano dei numeri demografici) e individuando le soluzioni (anche finanziarie) per far uscire dalla crisi la piccola impresa commerciale. Questa a sua volta deve modificare il suo ‘atteggiamento individualistico’.

b) Il turismo è diventato un settore troppo importante per tenerlo in una condizione di deregulation. Con la costruzione di regole chiare e condivise, nonché di controlli, possiamo indurre cambiamenti culturali nei comportamenti dei turisti, orientandoli verso tipi di consumo sostenibile e responsabile. Ma ciò significa che anche gli operatori turistici, chi detta le regole del governo e le categorie produttive devono maturare scelte che vadano in questa direzione. Il che si traduce in dialogo tra le parti e costruzione di un disegno complessivo dello sviluppo della Sardegna, utilizzando anzitutto gli strumenti della ricerca, disegno che non può comprendere solo il turismo. Mi riferisco ancora alle categorie produttive dell’artigianato, agricoltura e pastorizia e, non da ultimo, dei comparti industriali che in Sardegna ancora ci sono. Ricordo che nella pratica sociale la pianificazione per parti separate e funzionali è stata superata da tempo, ma questo superamento concettuale non ha ancora coinvolto l’economia e la politica.

c) La spettacolarizzazione delle città e del territorio è un fenomeno che in Sardegna ha avuto successo in poche porzioni di territorio (penso alle iniziative poste in essere dalla città di Cagliari e di Alghero, o alla Costa Smeralda). Questo processo consente di attrarre visitatori/consumatori e flussi finanziari. Ogni piccolo comune sta cercando di entrare nell’orbita di questo successo, moltiplicando le iniziative in tal senso, anche se non possono che essere piccole e deboli (penso alla proliferazione delle sagre di qualunque tipo). In questo modo si concentra l’attenzione, per usare un linguaggio figurato, sull’involucro e si trascura il contenuto. Si costruisce la scena e ci si dimentica degli attori sociali e della loro vita quotidiana, a partire dalle condizioni di lavoro, sempre più precarie e senza regole. Credo che questo processo vada quantomeno invertito. C’è uno stato di sofferenza sociale troppo spesso rimosso o rinchiuso nelle scarse e inefficaci politiche degli assessorati ai servizi sociali - dalla disoccupazione alla crisi abitativa, fino alla povertà estrema -.

Se la Sardegna vuole conservare la condizione di ‘vetrina’ che almeno tutti gli oggetti siano luccicanti, e non solo quelli esposti in prima fila.

II fascino di Amsterdam è la sua autenticita. Città medievale che fiorì nel XVII secolo, l'eta dell'oro dell'Olanda, Amsterdam è stata edificata nel corso dei secoli dai suoi residenti. Non c'è dubbio che i suoi cana1i colpissero chi visitava 1a città, ma non erano stati concepiti o costruiti come un'attrazione turistica. La combinazione tra 1a moderna vita quotidiana e 1a bel1a e ricca cornice in cui essa si svo1ge incanta i visitatori - specia1mente gli americani come me, per i qua1i 1'idea di centro è stata per decenni sinonimo di decadimento e pericolo.

Amsterdam non è un museo, ma è sicuro che, per quanto lentamente, il carattere del centro storico sta cambiando. L'equilibrio precario tra visitatori e residenti, tra spazi abitativi, spazi lavorativi e spazi destinati al divertimento si sta spostando a favore di questi ultimi. Sempre più spesso il tono lo danno i visitatori, i cui bisogni determinano il tipo di destinazione e di utilizzazione dello spazio pubblico, e quindi le decisioni politiche, poichè il divertimento è cresciuto così tanto da diventare l'attività numero uno del centro città. A stare all'Ufficio del turismo di Amsterdam, nel 2000, nell'intero conglomerato, sono stati spesi per il divertimento circa 3.200 milioni di euro, di cui più della metà nel centro storico.

Nell'economia turistica i visitatori passeggiano incantati da un negozietto all'altro, mentre i residenti constatano che i servizi sono sempre più a senso unico. Turisti che si fanno trasportare lungo le vie adiacenti ai canali in ottocenteschi calessi a cavallo (dotati di pannoloni creati ad hoc per evitare che il cavallo faccia i suoi bisogni per strada) osservano altri turisti navigare in pedalò sui canali. Al posto del pescivendolo troviamo l'antiquario, al posto del ciabattino una boutique di vestiti, un istituto di bellezza là dove un tempo c'era un droghiere. Con la trasformazione dei quartieri popolari in zone signorili, le attivita più semplici, più deboli sul piano commerciale, non sono più in grado di pagare gli affitti elevatissimi. Nella caccia all'anima autentica di Amsterdam, i luoghi e gli oggetti di uso comune vengono venduti come fossero attrazioni: la casa galleggiante nei pressi della mia abitazione è diventata un Museo della casa galleggiante («Visitate l'interno di una casa galleggiante!»). E oltre alle case galleggianti, oggi , a solcare i canali, c'è pure una gondola veneziana.

Un esempio perfetto di questa situazione lo forniscono le vie laterali che mettono in comunicazione i canali tra di loro. Si tratta davvero di un'area ricca di fascino, dove in una strana mescolanza di negozi ultimo grido e vecchio stile si trovano parrucchieri, boutiques, alimentari e ogni genere di commercio specializzato, dal fioraio, alIa libreria che vende libri di viaggio, al fruttivendolo carissimo, noto nella zona per «vendere a peso d'oro la frutta e la verdu- ra». Negli anni la zona si è fatta sempre più chic, ma questa mescolanza esiste ancora. Attualmente le Nine Streets iniziano a patire del loro proprio successo, e sono minacciate da incrementi nei prezzi degli affitti che vanno dal 100 al 300%. I negozianti e la municipalità temono che i proprietari dei negozietti che rendono questa zona così speciale non potranno più permettersi affitti così alti e che le vie adiacenti ai canali seguiranno l'esempio dei grandi assi commerciali dove possono permettersi gli affitti solo i negozi che fanno parte di una catena.

Negli ultimi dieci o quindici anni la municipalità ha impiegato molto denaro e molti sforzi per migliorare l'aspetto della città, in particolare la qualità estetica dello spazio pubblico. Dam Platz è stata ripavimentata due volte. Gli Amsterdammertjes, i caratteristici paletti volti a impedire alle automobili di parcheggiare lungo i marciapiedi stanno scomparendo dai canali; le strade sono state rifatte in mattoncini rosso scuro, i marciapiedi in pietra naturale, e i lampioni sono la copia di quelli che c'erano in passato. La Musemplein, un tempo la più corta strada carrozzabile olandese, è stata trasformata, in superficie, in un parco su cui si affacciano i grandi musei della città, e, sottoterra, in un parcheggio e in un supermercato. Si tratta di un processo estremamente ambiguo. Da un lato la città è resa più attraente, non solo per i visitatori ma anche per i residenti. Senza i suoi dieci milioni circa di visitatori all'anno, Amsterdam, città con meno di un milione di abitanti. non avrebbe affatto quella vasta e cosmopolita scelta di ristoranti, negozi e cultura che ne fanno una metropoli dalle dimensioni di un villaggio. E’ di questo avviso anche il panettiere all'angolo della strada dove abito: «Non potrei affatto vivere qui senza i turisti che comprano per ricordo un pacchetto di tipici stroopwafels 0 di Jodenkoeken. Chi abita in questa zona ama l'idea che vi sia un vecchio panificio all'angolo, ma solo come idea: il pane se lo comprano al supermercato». Sono gli euro che spendono i visitatori a far girare gli affari in città, quanto meno nelle aree più suggestive; sono solo i turisti a finanziare lo scenario in cui i residenti vanno e vengono quotidianamente. In The Tourist City, il politologo americano Dennis Judd e l'urbanista Susan Feinstein osservano che le attrazioni turistiche hanno in comune un aspetto curioso con le produzioni teatrali: il turismo, come il teatro, trasforma quello che attira il turista in un oggetto. «Coloro che occupano lo spazio riservato al turismo, che ci lavorino o che ci abitino, come disse Disney, "fanno parte del cast", fanno ambiente e colore locale. [...].Poichè l'esperienza del turista è artefatta, la messa in scena dell'autenticità sostituisce quanto è genuino».

Sulla cresta dell'onda della prosperità, della città come marchio di fabbrica e della ricerca spasmodica di divertimento e nuove esperienze, Amsterdam si sta trasformando in una città per bighelloni. E’ facile individuare i residenti - sono quelli che camminano a zig zag sul marciapiede nel tentativo di superare i bighelloni, o suonano i campanelli delle loro biciclette per avvertire il turista straniero dell'esistenza di quel fenomeno tipicamente olandese che è la pista ciclabile.

Questo processo di esteticizzazione, di museificazione dello spazio pubblico urbano, genera un ambiente che è progettato per piacere. Così facendo, si minaccia l'autenticità che è esattamente quello che distingue una città da un parco a tema. La vita quotidiana è trasformata in una merce volta a soddisfare il desiderio dei visitatori di godere dell'esperienza più autentica possibile e di poterla raccontare una volta rientrati a rasa. II sociologo spagnolo Manuel Castells scrive: «Sempre più gente risiede nei villaggi urbani che circondano la città, mentre il centro si trasforma in un'attrazione per turisti e consumatori. Quell'unica rosa che distingue una città da un'altra. per esempio le Ramblas a Barcellona e i canali ad Amsterdam, diventa oggetto di emulazione reciproca. Come risultato, i centri città acquisiscono gradualmente le caratteristiche di parchi a tema. I residenti cercano nuovi posti di incontro perchè il tradizionale spazio pubblico nel centro città è il più delle volte eroso dal turismo di massa».

L'esempio principe in Europa è ovviamente Venezia. Si paria di introdurre un biglietto d'ingresso giornaliero per visitare questo storico parco a tema, la Venice Card, e di creare strade a senso unico per il traffico pedonale. E’ sempre più difficile trovare lavoro in un settore che non sia il settore turistico. Negli anni ottanta, Firenze aveva persino preso in considerazione l'idea di trasferire tutte quelle noiose funzioni quotidiane, uffici e amministrazioni, in periferia, e di abbandonare il centro ai turisti. Una scelta, ovviamente, che sarebbe stata pessima per il turismo, poichè sono proprio le faccende quotidiane che danno un tocco di autenticità alIa città. Come trattare un'area urbana che è utilizzata come un parco a tema, ma che è ancora, innegabilmente, uno spazio pubblico?

In quanto regni del divertimento i centri storici delle città sono fisicamente sempre più separati dalle loro periferie. Molte città olandesi, da Groningen a nord fino a Maastricht a sud, utilizzano speciali materiali di pregio per pavimentare le strade, per l'arredo urbano, per l'illuminazione e persino per decorare i segnali stradali. E ovviamente la monocultura del "divertimento" porta spesso al teppismo, così non appena si "entra" in una certa zona vi sono cartelli che avvertono della presenza di telecamere a circuito chiuso. II divertimento ha il suo prezzo, sia in termini di perdita di innocenza che in termini di perdita della privacy.

La relazione che abbiamo con lo spazio pubblico è cambiata; è diventata più fluttuante e più distante. Più ci troviamo in ambienti controllati, meno confortevole troviamo lo spazio pubblico. Questa tendenza è da tempo evidente negli Stati Uniti, dove l'atteggiamento di molta gente nei confronti dello spazio pubblico è di paura e di incondizionata diffidenza. Ciò accade là dove proliferano gli spazi artificiali di divertimento, non solo i parchi d'attrazione ma anche le strade artificiali. Jon Jerde. il gyru dei mall. per esempio. è il padre del progetto City Walk agli Universal Studios di Los Angeles: negozi, teatro di strada, panchine, ristoranti, il tutto in una strada quasi-autentica dotata di sistemi di sorveglianza. Un parco d'attrazione ispirato al tema «La strada».

Per i suoi amministratori, Amsterdam può imparare ancora molto da Disney e dall'Efteling. E’ così che la pensa Hans van Driem, direttore di Turismo e attivita ricreative in Olanda, l'ente di promozione turistica dell'Olanda. Amsterdam è fuori controllo proprio a causa del successo di cui gode. La città sta cambiando, ma chi la dirige resta indietro, e la municipalità non ama ricevere consigli. Qualunque parco dei divertimenti farebbe un lavoro migliore di quello che sta facendo chi amministra la città. «Se intendete usare un centro storico del xv o xvi secolo come un parco di divertimenti, è necessario farlo correttamente come un concetto tematico in cui la gente lavora, vive e trascorre il proprio tempo libero. In pratica un centro storico e un parco come Disneyland Parigi o come l'Efteling, il più grande parco a tema olandese - con la differenza che non è altrettanto pulito! Come prodotto turistico Amsterdam sta perdendo piede. Disney ha inventato il parco a tema perchè gli Stati Uniti non avevano nessun centro storico. Noi. in Olanda, li abbiamo, ma non li sfruttiamo correttamente».

E’ questo quello che vogliamo? Una città progettata e gestita come una versione tematica e caricaturale di se stessa? In cui il prodotto finale è un'autenticità confezionata addirittura più intelligentemente del reale, e senza alcun inconveniente scomodo. II rovescio della medaglia del nostro desiderio di autenticità è che esso crea la sua propria artificialità.

Trovo allarmante l'idea che tutto ciò che mi circonda sia stato esaminato e valutato per il suo valore commerciale, e venga quindi presentato in una formula vendibile. Non voglio che ogni cosa che vivo sia un'esperienza preconfezionata - se non altro perchè non voglio stare continuamente in guardia e dovermi chiedere senza sosta come, quando e da chi sono manipolata in quanto consumatore potenziale. Non voglio sapere che sono pedinata da un astuto imprenditore o da un'impresa pubblica locale sempre alla ricerca di vendermi qualcosa, anche se l'intenzione non è esplicita; nel suo affascinante libro L'era dell'accesso l'economista americano Jeremy Rifkin esprime la paura che in quest'era di ipercapitalismo e di mercificazione degli stili di vita, l'esperienza umana sopravviverà solo come merce di scambio. «Le vecchie istituzioni che si fondavano sulle relazioni di proprietà, sugli scambi commerciali e sulI'accumulazione materiale sono state lentamente sradicate per far posto ad un'era in cui la cultura diventa la risorsa commerciale più importante, il tempo e l'attenzione diventano il bene più ambito, e la vita privata di ciascuno il mercato finale».

E’ soprattutto grazie al divertimento e all'economia del tempo libero, che molte città sono state salvate dai sentimenti antiurbani degli anni sessanta e settanta. Non ci si meravigli che le città si siano servite del divertimento come di uno strumento di marketing per attirare visitatori e residenti e per far affari. Ma adesso questa tendenza ha raggiunto un livello insostenibile e rappresenta una minaccia, la minaccia, cioè, che ogni luogo finisca per offrire le stesse case e per assomigliare sempre di più agli altri. Possiamo già prevedere la reazione: ci sono stato, ho fatto questo e quello, ho comprato la t-shirt.

Le agenzie di marketing stanno facendo ottimi affari nel produrre loghi e slogan che mettano in evidenza le differenze. Più quanto ci circonda diventa uno scenario teatrale manipolato e confezionato, più esso ci risulta indifferente. Più si moltiplicano le attrazioni, minore è il nostro coinvolgimento. Per Amsterdam, come avviene in

molti centri turistici popolari, il successo è anche una minaccia. Temo che verrà presto il momento in cui i residenti del centro storico saranno felici di vedere una cacca di cane, o un' automobile in sosta vietata. La città è sulla buona strada per perdere quella sua qualità di quotidianità, di ovvietà, di inconsapevolezza - quella "naturalezza" speciale che mi ha indotto a diventare cittadina olandese onoraria. Amsterdam per me non è una merce, ma prima di tutto, e soprattutto, una vibrante città.

Quando Dostojewski diceva che “la bellezza salverà il mondo” si riferiva all’aspirazione alla bellezza dato che poi aggiungeva che essa è un enigma ed il Creatore parla per enigmi. Alla stessa stregua per quanto riguarda la bellezza di natura la poetessa americana Emily Dickinson in pochi versi illuminanti affermava: “La bellezza non ha causa: esiste. Inseguila e sparisce. Non inseguirla e rimane”.

I due grandi scrittori sottolineavano la velleità del tentativo di definire la “bellezza” e la sua precarietà dato l’instabile equilibrio tra l’oggettivo ed il soggettivo. Infatti questo termine più che denotare un concetto si riferisce ad una costellazione di concetti. E tuttavia ogni epoca ed ogni cultura ha sempre tentato di definirne una.

Quanto sia articolata e complessa la questione appare chiaro quando tutto questo si applica alla città perchè in questo caso si intreccia con il potere. La città è sempre stata il luogo fisico dei poteri fin dalla sua nascita e ciascuno di questi ha sempre cercato di imporre una sua bellezza come segno della sua presenza e della sua potenza. Come in tutti i campi anche in quello estetico la cultura dominante cerca di far valere una sua visione ed un suo gusto e tanto più il potere è autocratico e gerarchico tanto più si hanno concezioni rigide e assolutiste. Per le antiche città guerriere bella era anche la guerra e belli i monumenti che celebravano le gesta degli eroi e le vittorie.

La grande teoria del Bello, dove tutto veniva definito in base a rapporti geometrico matematici, derivata dalla cultura greco romana militarista tesa alla ricerca di un ideale assoluto, ha dominato la cultura ufficiale occidentale per circa duemila anni portando in sé un germe di necrofilia e staticità.

Nel Rinascimento questa ricerca del bello ideale diventò la finalità stessa del governo della città e ne decretò al tempo stesso la grandezza, da cui l’ importanza data ai grandi artisti in quel periodo. Da allora in vario modo il concetto di decoro urbano ha risentito di questa tradizione.

In epoca moderna, nel tentativo di sganciare il bello dal potere borghese, si è cercato di minarne i principi. Funzionalismo e razionalismo non hanno forse messo in discussione la prospettiva centrale e la simmetria? Questo tentativo teso a trovare una bellezza più “democratica” non sempre ha funzionato. Anzi, a parte i movimenti del primo razionalismo, ha prodotto semplificazioni e riduzionismi massificanti, in particolare dove regimi totalitari hanno sfruttato la rottura con la tradizione e l’aspirazione al futuro per produrre forme oppressive, banali e ossessive.

Oggi il libero mercato, dove il potere del denaro in sé finisce per prevalere sui valori umanistici, ha provocato dei veri disastri in assenza di regole. Questa “deregulation” ha prodotto l’arbitrio di poteri, visibili e invisibili, senza etica e senza estetica, dominati dalla brama di apparire ed asserviti ad una tecnologia che è diventata essa stessa un potere autocratico. Così il concetto di bellezza si è confuso con quello di spettacolarizzazione di quest’ultima che nel contempo ha ingigantito le sue possibilità. La globalizzazione e lo sviluppo dei media hanno determinato la omologazione estetica verso il basso di tutte le aree urbane di recente formazione.

Questo si nota in particolare a Milano, città degli affari e dell’economia rampante. Dopo aver subito uno sviluppo caotico negli anni 60 e 70, che ha generato il problema delle periferie degradate e da riqualificare, negli ultimi anni invece di rispondere alle esigenze di qualità ed identità, concetti che si sposano anche con la tradizione, il contesto territoriale e la valorizzazione del luogo, ha voluto seguire, con i progetti delle grandi opere, la internazionalizzazione di questa bellezza dell’apparire. Ciò contrasta con una estetica dei veri bisogni dell’abitare e crea nuovi problemi anziché risolvere i vecchi, soprattutto quelli legati al traffico, produce anche nuovi stimoli ma senza creare le occasioni per soddisfarli. Si genera così una città schizogena dove si perde la capacità di identificarsi con un luogo e di sentirlo amico, così tesi alla ricerca di nuovi spettacoli si finisce per perdere il senso del proprio vivere quotidiano. È anche per questo motivo che Milano continua a perdere abitanti, soprattutto giovani.

La scelta di spingere in senso verticistico la costruzione dei nuovi edifici per le aree della ex Fiera, di Garibaldi-Repubblica e per le nuove sedi regionali e comunali è generata da questo spirito che è dominatorio e colonialistico. Tra l’altro si reclutano con concorsi a preselezione, chiusi così alle nuove leve, famosi studi di architetti stranieri (come se l’Italia fosse terra di sottosviluppo culturale) per garantirsi l’approvazione mediatica ed un consenso acritico.

Quando il sindaco Albertini si vanta e scrive a proposito del concorso dell’ex Fiera, vinto dal gruppo Hadid, Isozaki e Libeskind che ha intitolato, guarda caso, il suo progetto “Turris Babel”, che finalmente Milano è ritornata ai bei tempi dei Giò Ponti, del boom economico quando si credeva nello sviluppo e nel futuro, gli si potrebbe rispondere con quanto era emerso in un dibattito del 1954 intitolato “Il problema dei grattacieli di Milano”.

Cinquant’anni fa, proprio mentre si costruiva il grattacielo Pirelli e si ultimava la Torre Velasca, il Collegio degli Ingegneri di Milano oganizzava un convegno con i grandi costruttori e progettisti dell’epoca (i Clerici, i Cecchi, i Gadola...) per uno scambio di opinioni su quella “moda” delle costruzioni in altezza. Nessuno dei relatori risultò acriticamente favorevole anche se ne ammetteva la possibilità tecnologica. In particolare il prof. Chiodi affermava: “A New York la fungaia di grattacieli è sorta in un primo tempo per difetto di regolamentazione, per un eccesso di libertà costruttiva e per condizioni particolarissime. La punta di Manhattan è il centro degli affari costretto e circondato da due bracci di mare ... Oggi però anche a New York si lamentano delle conseguenze di questi eccessi edilizi. A Milano le condizioni non sono le stesse: Milano non ha quelle dimensioni ed è una città di pianura. Le necessità tipiche di New York non sussistono”. Come si può notare anche cinquant’anni fa le considerazioni che le persone di buon senso facevano circa la smania di costruire grattacieli a Milano erano improntate alla critica di voler stravolgere la identità milanese per copiare una realtà newyorkese che aveva senso solo là. Perché dunque oggi l’amministrazione milanese insiste su questa strada per di più senza un piano direttore e in modo episodico e dilettantistico? Oltre alla evidente volontà di accontentare potenti gruppi economici, come si diceva, c’è anche l’insensibilità estetica, o meglio una cattiva educazione estetica che confonde bellezza con grandezza e questo è sempre accaduto in tutte le epoche da parte di un potere che vuole imporre la sua ingombrante presenza anche alle generazioni future che si troveranno a dover gestire queste scelte. Si sa che ai tempi dell’antica Roma ogni città della provincia cercava di imitare la capitale dell’impero, con il circo, le terme, gli archi trionfali ed il foro così da sovrapporsi alla cultura ed alle usanze locali.

Ma la bellezza e l’interesse appartengono a quelle città che hanno mantenuto la loro identità legata al territorio ed alla vita che da lì si sviluppa. Infatti, come in psicologia tutti sanno che non si può essere se stessi se non si parte dalle proprie origini, così anche per quanto riguarda le città e l’estetica non si ha piena maturazione se non si prescinde dall’invidia del potere e non si accede al rispetto per la propria specificità.

Riprendendo poi in considerazione il progetto vincitore per l’area ex Fiera, firmato dalle star internazionali citate, appare evidente la sfida tecnologica e l’esibizionismo propagandistico soprattutto nell’edificio “storto”: che oggi sia possibile anche sfidare, in apparenza, le leggi della statica non è una novità, del resto nei parchi dei divertimenti abbiamo esempi anche più clamorosi, ma oggi di questi segni “forti” siamo saturi e forse era meglio limitarsi tanto più che questo rende ancora più evidente il carattere commerciale e pubblicitario di questi edifici, con poi tutti i problemi urbanistici, legati principalmente alla congestione, che renderanno ancora più in vivibile la nostra città.

Da quasi dodici anni il comune di Roma è impegnato nella formazione del nuovo piano regolatore. Adottato nel marzo 2003, è ancora lontano dalla definitiva approvazione. L’esperienza si colloca in uno spazio politico e culturale ambiguo: non a caso, “pianificar facendo” è l’ossimoro utilizzato per definire l’urbanistica romana degli ultimi anni. La prima osservazione dell’articolo di De Lucia riguarda l’assenza di ogni riferimento all’area metropolitana. Il nuovo piano regolatore è rigidamente chiuso dentro il confine comunale. Eppure, Roma è l’unico polo attrattore del territorio provinciale, l’imbuto verso il quale convergono la maggior parte dei flussi pendolari e delle merci. È costante da decenni la perdita di abitanti (la popolazione attuale è inferiore a quella di trent’anni fa), mentre continua a crescere il numero dei posti di lavoro, con conseguente abnorme sviluppo della pendolarità. La critica principale al piano riguarda però il consumo del suolo. Ormai da anni la capitale non è più un’isola nella campagna, ma una vasta agglomerazione saldata ai comuni limitrofi e dilatata a macchia d’olio in ogni direzione. Il consumo del suolo è avvenuto, e prosegue, con ritmo accelerato. Il mitico paesaggio della campagna romana sopravvive solo per disarticolati brandelli. Il nuovo piano doveva essere l’occasione, osserva De Lucia, per un’analisi critica del rovinoso modello di sviluppo e per porvi rimedio. Il perimetro della città attuale doveva essere assunto come invalicabile. Così non è stato. Nel 2011, anno assunto come riferimento per l’attuazione del piano, si prevedono circa 15 mila ettari di nuova urbanizzazione (si consideri che il territorio comunale di Napoli misura meno di 12 mila ettari), senza che sia documentato il bisogno di tanto spazio. Un’altra critica importante al piano riguarda la forma urbis. Il vecchio piano regolatore del 1962, per tante ragioni indifendibile, era però fondato su una spettacolare idea di città: accanto alla Roma storica, nei settori della periferia orientale doveva prendere corpo la città moderna, destinata a ospitare i ministeri e le altre attività terziarie, riservando il centro alla residenza e alle più pregiate funzioni di rappresentanza istituzionale. Quest’idea è stata accantonata nel corso degli anni, il nuovo piano è privo di ogni indirizzo e non trova di meglio che prevedere una ventina di cosiddette nuove centralità, dove dovrebbero concentrarsi la direzionalità grande e piccola, pubblica e privata, i servizi e le attività commerciali. Disposte a corona, le nuove centralità rafforzeranno il carattere eternamente centripeto di Roma. Del tutto abbandonato dal nuovo piano è anche il progetto Fori, accuratamente descritto da De Lucia, che non era solo una straordinaria operazione di archeologia urbana, ma il punto di partenza per un radicale rinnovamento dell’urbanistica romana, ponendo la storia al centro dell’immagine della città. L’articolo ricorda infine l’azione condotta da Italia nostra e da altri per evitare che le previsioni del vecchio piano regolatore fossero considerate diritti acquisiti, con conseguenze disastrose per la città.

ROMA - «È un progetto bugiardo». È la nuova accusa della procura di Roma che avvia la seconda inchiesta sul ponte sullo Stretto di Messina. L’aggiunto Italo Ormanni, che indaga da mesi su affari in odor di mafia, adesso raccoglie i dubbi di Legambiente sull’impatto nel territorio. Tre indagati: il professor Alberto Fantini, referente del gruppo istruttore della commissione speciale istituita presso il ministero dell’Ambiente per la valutazione dell’impatto ambientale, l’architetto Franco Luccichenti e il professore Giuseppe Mandaglio. L’ipotesi è falso in atto pubblico e abuso d’ufficio.

Nel febbraio dello scorso anno alcuni dirigenti di Legambiente hanno presentato un esposto in procura nel quale denunciavano come lo studio presentato dalla società Stretto di Messina fosse «assolutamente carente e privo dei requisiti minimi documentali previsti dalla legge per consentire una completa valutazione dello stesso». In particolare, la costruzione del ponte provocherebbe danni alle aree faunistiche dei laghetti di Ganzirri e della riserva di Capo Peloro e altererebbe l’ecosistema. Si tratta di milioni di metri cubi di cemento e acciaio per un opera lunga 3.666 metri e alta 382.

I tre membri della commissione speciale del ministero dell’Ambiente finiti sotto inchiesta hanno scritto la proposta di parere favorevole per la realizzazione del ponte. Secondo l’associazione ambientalista i commissari avrebbero approvato il progetto in tempi ristretti e senza segnalare carenze e difetti della documentazione prodotta dalla società Stretto di Messina.

Presto verrà scelto il general contractor, ovvero l’impresa che si accollerà i lavori distribuendo poi i subappalti. In lizza per la valutazione da parte della Società Ponte sullo Stretto sono rimasti in tre: Impregilo, Astaldi e un consorzio austriaco-canadese, Strabag-Vinci.

«Bisogna sospendere le procedure di gara fino a quando l’inchiesta giudiziaria non farà luce su responsabilità e coinvolgimenti oltre che sulle irregolarità nell’approvazione del progetto», dice il presidente nazionale di Legambiente, Roberto Della Seta. «Le gare vanno sospese per un motivo molto semplice - aggiunge - non si possono affidare oltre 4 miliardi di euro di denaro pubblico per un progetto preliminare sul quale pende un’inchiesta di questa rilevanza. È bene ricordare, infatti, che il termine di presentazione delle offerte da parte dei tre concorrenti scade il 20 aprile ed entro giugno è prevista la scelta del general contractor sulla base del progetto preliminare messo sotto inchiesta dalla procura di Roma».

Due mesi fa cinque ordini di arresto per fermare le mani della mafia sullo Stretto. Anche i clan d’oltreoceano sarebbero pronti a investire sul grande affare. Il primo provvedimento infatti è stato notificato in un penitenziario di Montreal al boss italo-canadese Vito Rizzuto, da sempre legato alle famiglie siciliane di narcotrafficanti Cuntrera e Caruana, l’artefice di un patto con la ‘ndangheta per il controllo delle due sponde.

Perde sempre più colpi il Ponte sullo Stretto. Dopo anni di battaglie ambientaliste, campeggi da una parte e dall'altra della «grande opera» del governo Berlusconi e il no deciso, fin dal primo giorno, del comune di Villa San Giovanni, sul versante calabrese, ora arriva la bocciatura anche del comune di Messina e di un viceministro dell'Ambiente. La commissione «sulla sostenibilità ambientale e sociale» istituita dal comune di Messina, maggioranza di centrodestra anche se attualmente è commissariato, ha votato quasi all'unanimità (un solo voto contrario e un astenuto su 15 componenti) una relazione che dice no al Ponte. Un voto molto significativo, vuoi per le dimensioni della città siciliana rispetto alla dirimpettaia Villa San Giovanni, vuoi perché a pronunciarsi contro ufficialmente è per la prima volta anche il centrodestra. A Villa, infatti, a guidare l'opposizione al Ponte è il centrosinistra, capeggiato dal sindaco della Margherita Rocco Cassone. Già qualche settimana fa alla manifestazione convocata da Legambiente, Wwf e Italia nostra aveva dato la sua adesione, oltre a un vasto cartello di associazioni e comitati, Cgil e Coldiretti, l'assessore regionale ai Trasporti Fabio Granata, di An. Un segno di come gli equilibri si stiano spostando e la grande opera si allontani sempre di più. «Gli argomenti avanzati dalle associazioni ambientaliste sono stati senzaltro convincenti», sostiene Anna Giordano del Wwf, che parla del voto come del «primo pilastro democratico gettato sullo Stretto, al posto di quelli di cemento che invece vorrebbe gettare il nostro governo». Secondo l'esponente ambientalista «i messinesi si sono accorti che il Ponte costerebbe molto allo stato: tra i 5 e i 6 miliardi se si considerano anche le compensazioni ambientali e territoriali necessarie». Ma anche che non ci sarebbe alcun vantaggio dal punto di vista occupazionale e l'ambiente non ne gioverebbe. Anzi, «la realizzazione del Ponte farebbe perdere 400 posti di lavoro stabili oggi presenti nel settore dei trasporti marittimi» e «distruggerebbe uno dei paesaggi più incantevoli del nostro paese e una delle aree chiave dell'ecoregione mediterranea». Inoltre «sono stati trascurati completamente gli aspetti urbanistici e i vincoli ambientali, i cantieri sottrarrebbero alla zona rivierasca otto milioni di metri cubi di terra senza che sia stata prevista alcuna opera di riqualificazione urbana di Reggio Calabria e Messina. La morfologia ne verrà stravolta, anche per la presenza dei giganteschi piloni».

La relazione conclusiva della Commissione presieduta dal diessino Gaetano Giunta, che ha lavorato per sei mesi analizzando le ripercussioni su «economia e trasporti, ambiente, comunità e salute, e cultura», smonta anche le argomentazioni del ministro dei Trasporti Lunardi, per il quale l'opera servirebbe per collegare la Sicilia all'Europa. Il pessimo stato delle infrastrutture siciliane, vale a dire «i segmenti stradali e ferroviari Palermo-Messina e Catania-Messina», toglie ogni alibi al progetto, e fa dire alla commissione che «il corridoio Palermo-Berlino assume i contorni di una confezione di propaganda per l'opera. L'inquadramento proposto appare oggettivamente velleitario e solo sulla carta».

Altro che Europa, dunque. Ne sembra essere convinto anche il viceministro all'Ambiente Francesco Nucara, repubblicano e reggino di origine, che proprio ieri ha sostenuto che costruire il Ponte senza prima adeguare le infrastrutture calabresi e siciliane sarebbe come «girare con la cravatta senza la camicia». Ovviamente, il vice di Matteoli non ha bocciato l'idea in sé, ma ha spiegato che «la ferrovia Palermo-Messina è del 1908» e dunque «prima è necessario dotare la Sicilia e la Calabria di infrastrutture di base». Poi ha ammesso come esista anche un problema finanziario, perché «le risorse sono quelle che sono», ci sono «debiti pregressi da pagare» e «i parametri di Maastricht da rispettare».

Contro il Ponte si è schierato anche un siciliano illustre come il sub Enzo Majorca, per il quale esso «distruggerebbe, oltre all'ambiente, anche il patrimonio storico-culturale, le suggestioni che da sempre animano l'area tra Scilla e Cariddi».

L’urbanistica liberista è stata alimentata -al pari di altri segmenti del pensiero neoconservatore- di un forte impianto ideologico. Il principale di questi attributi è consistito nell’attribuire al piano urbanistico i vizi di rigidità e di scarsa aderenza al mercato. Solo l’iniziativa privata poteva avere gli strumenti per rendere realizzabili interventi altrimenti destinati al fallimento proprio per il vizio d’origine, e cioè quello di derivare da una matrice pubblicistica. Il caso che illustriamo dimostra finalmente che il re è nudo e che il castello di bugie su cui era costruita l’urbanistica contrattata si è dimostrato soltanto il modo più efficace per abolire qualsiasi discussione nella società e far trionfare la proprietà fondiaria.

“Laurentino 38” è uno dei quartieri di edilizia pubblica più grandi di Roma. Progettato all’inizia degli anni ’80 da un grande architetto come Pietro Barucci, esso è articolato su una serie di percorsi pedonali che attraversano per nove volte la sottostante strada carrabile che attraversa l’intero quartiere: sono i cosiddetti “nove ponti”, strutture che contengono spazi per negozi e uffici pubblici e privati, per raggiungere quella qualità e integrazione urbana che è alla base del pensiero urbanistico moderno.

Già sulla stessa volontà di ipotizzare un qualsiasi uso differente degli spazi pubblici si è concentrata la prima offensiva ideologica. Obiettivo principale della riqualificazione era “superare la logica parcellizzata costruita dall’impianto originario per insule cui fa riferimento l’elemento centrale del ponte; creare una dimensione urbana unitaria che consenta il formarsi di una vita sociale ed economica”. Proprio così, è scritto nel documento del comune di Roma.

Il secondo capitolo dell’offensiva neoliberista ha sfruttato al meglio lo stato di degrado in cui versano tre ponti. Essendo stati occupati da senza casa o da centri sociali, versano in uno stato di totale assenza di manutenzione. L’abilità è stata quella di dichiararli origine di ogni male e chiederne conseguentemente la demolizione, mentre necessitavano soltanto di una visione pubblica, di recupero sociale e fisico. E infatti, coloro che si opponevano alla demolizione argomentando che era sufficiente recuperarli e inserirvi funzioni pregiate, come uffici pubblici o servizi sociali, furono dipinti come esponenti dell’urbanistica pubblicistica ormai inutile. L’unica salvezza sarebbe stata quella di affidarsi ai privati. I tre ponti verranno demoliti, ma –per rientrare delle spese- al loro posto verranno costruiti (da privati) 50.000 metri cubi di nuove attività prevalentemente commerciali e per uffici.

Il bello lo scopriamo oggi. Il sito dell’Assessorato romano delle Periferie afferma che al fine di riqualificare il quartiere, in questi nuovi edifici troveranno posto le seguenti funzioni: la scuola infermieri gestita dal vicino ospedale S. Eugenio che già occupa uno dei ponti e i cui “locali attualmente in dotazione sono molto ridotti e avrebbe bisogno di espandersi”; un posto di Polizia e infine un Ufficio postale. Era proprio quello che proponevano coloro che si opponevano alle demolizioni! Riempire di alcune funzioni pubbliche i ponti degradati: la riqualificazione sarebbe venuta di conseguenza.

Oggi si tocca con mano quale sia stato il ruolo ingannevole dell’offensiva ideologica: mascherare dietro parole d’ordine vuote quanto accattivanti (la lotta al degrado e la liberazione delle forze private) una speculazione edilizia vecchia maniera in cui a pagare sarà l’intero quartiere Laurentino. La vicenda è dunque paradigmatica del fallimento delle teorie neoliberiste della privatizzazione delle città: speriamo soltanto che gli attori di questa vicenda abbiano almeno l’onestà intellettuale di riconoscere il fallimento e aiutare al ritorno ad una visione pubblica delle città.

Primi articoli pubblicati su NOVARA OGGI dedicati alla realizzazione del parco acquatico, che stando alle dichiarazioni della proprietà. dovrebbe aprire addirittura nella stagione 2005.

Nutriamo fortissimi dubbi, a meno che non si voglia presentare al pubblico una struttura ancora fortemente deficitaria, con tutti i rischi che ne conseguono in termini di immagine e soddisfazione del cliente.

NOVARA OGGI

articolo a cura di Sabrina Maio

VICOLUNGO - A metà dell’opera il parco acquatico ‘Ondaland’ di Vicolungo, primo atto del parco divertimenti a tema da 260 mila metri quadrati che sarà pronto per il 2008. I lavori sono iniziati solamente lo scorso mese di ottobre, ma l’apertura al pubblico è già prevista per la stagione estiva 2005. Pochi i mesi di lavoro necessari, dato che la maggior parte delle attrazioni sono pre-costituite e vengono assemblate sul posto, dunque di veloce realizzazione. «Sperimenteremo per due stagioni il parco acquatico – spiega Ennio Coda, presidente della TLT, società che opera nell’ambito della realizzazione e gestione del settore dei parchi a tema e del turismo, che si occupa dell’intero progetto e dell’attuale realizzazione del primo lotto del nuovo parco di Vicolungo – nel frattempo metteremo in piedi dei progetti ex novo con le attrazioni più all’avanguardia come il cinema a quattro dimensioni con schermo a 360 gradi, con tutti gli effetti del movimento, dove sembrerà di essere parte della proiezione, attrazioni varie e tutto ciò che nei prossimi anni sarà inventato per la tematizzazione del parco che sarà completato, per lotti, nel 2008».

Tornando a ‘Ondaland’, per voce di Coda si apprende che il costo stimato dell’opera si aggira tra i 20 e i 25 milioni di euro, che darà lavoro nei mesi estivi in cui sarà aperto al pubblico mediamente ad 80 persone e che alcune figure professionali, come quelle dei bagnini, saranno ricercate esclusivamente all’interno della provincia di Novara. In base a studi effettuati dalla società risulta che l’utenza potenziale rappresenta circa 1/3 della popolazione italiana, che stimata in circa 55 milioni, vale a dire poco meno di 20 milioni di persone che potrebbero recarsi in questa porzione di territorio novarese. In quanto alla scelta di investire in questa zona, anche per la società di Coda, così come lo è stato per la Neinver che a Vicolungo ha costruito l’outlet, è stato determinante il fatto della strategicità della sua ubicazione geografica, crocevia tra l’autostrada A26 Voltri-Gravellona e la A4 Milano-Torino, vicina a Milano, Torino, Genova, e agli aeroporti di Malpensa e Caselle.

NOVARA OGGI

Articolo a cura di Sabrina Maio

VICOLUNGO - Il parco acquatico è un luogo di svago e divertimento, paragonabile ad un grande luna-park, dove però tutte le attrazioni hanno come principale componente l’acqua. Grandi piscine con le onde, scivoli su acqua con percorsi più o meno tortuosi, percorsi di navigazione su gommoni, trampolini per tuffi, piscine con idromassaggio, giochi d’acqua per bambini, fontane e zone di animazione acquatica, il tutto contornato da aree verdi e punti ristoro. Il progetto del parco acquatico di Vicolungo si estende su una superficie di circa 150 mila metri quadrati (compresi i parcheggi) e prevede un fabbricato d’ingresso di circa 1700 mq dove troveranno posto uffici, casse automatiche, infermerie per soccorso di primo intervento, boutique, un bar, spogliatoi, servizi igienici, docce con acqua calda, cabine ed armadietti custoditi. Una struttura coperta di 800 mq sarà invece attrezzata per un ristorante self service, mentre una seconda di 2000 mq per la ristorazione vera e propria, ma ci saranno anche due chioschi bar adibiti a piccola ristorazione, gelateria, frulleria e yogurteria. Per le ore notturne è invece prevista una tensostruttura adibita a discoteca che sarà attivata, però, a partire dalla seconda stagione. E poi una serie di attrazioni acquatiche d’ultima generazione: una piscina da oltre 2000 mq dove, ogni 30 minuti preannunciate dal suono di una sirena, si alzeranno onde alte fino ad un metro e mezzo, una vasca a più curve della stessa dimensione dove arriveranno ben 12 tipi di scivoli differenti, con pendenze che vanno dall’8 al 20%, e che prevedono velocità e strumenti diversi per la discesa. Spazio anche per i più pigri con solarium, zona ‘acquadance’, corso d’acqua a movimento lento, dove ci si può lasciare trasportare dalla corrente seduti su una ciambella gonfiabile, una laguna di circa 1800 mq destinata ai bambini, con scivoli adatti all’età e spazi relax per i genitori che li accompagneranno. Un occhio di riguardo nei confronti dei disabili, per i quali sono stati studiati sistemi per il facile accesso alle strutture e all’acqua.

Nota: qui il sito Parksmania, con anche gli altri articoli sul caso; di seguito, per vedere meglio, il file PDF scaricabile con la mappa riportata sopra (f.b.)

Come cambierà la tutela e la gestione dei beni culturali in Italia? Lo sapremo presto. Per sette mesi una commissione, nominata dal Ministro Urbani nel dicembre 2001 e presieduta da Gaetano Trotta, ha lavorato a un nuovo progetto, consegnato lo scorso luglio ma non ancora reso pubblico. È un progetto come tanti, destinato ai patrii archivi? Si direbbe di no, dato che nel frattempo una legge-delega (nr. 137 del 6 luglio) ha dato al Governo amplissima facoltà di legiferare su «riassetto e codificazione in materia di beni culturali», in particolare mediante «la codificazione delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali» (art. 10). La legge prescrive di «aggiornare gli strumenti di individuazione, conservazione e protezione dei beni culturali» ricorrendo a fondazioni e accordi fra Stato, Regioni e privati, il tutto «senza determinare ulteriori restrizioni alla proprietà privata». Due più due fa quattro: la legge delega consente al governo di modificare anche radicalmente le leggi di tutela, il ministro ha già in mano un testo pronto, che il governo può, se crede, adottare con procedura abbreviata senza andare in aula, ma passando solo attraverso le Commissioni parlamentari.

Attenzione alle date. Il 15 giugno veniva convertito in legge, con qualche correzione, il decreto sulla dismissione del patrimonio artistico e storico di proprietà pubblica in funzione della «Patrimonio Spa», della «Infrastrutture Spa» e delle cartolarizzazioni escogitate da Tremonti. Lo stesso 15 giugno il capo dello Stato scriveva al presidente del Consiglio una preoccupata lettera che era e resta l’unico richiamo al destino del nostro patrimonio culturale dettato da alto senso istituzionale e non da improvvisazioni avventate. All’allarme di Ciampi, Berlusconi ha risposto (28 giugno) che «la nuova normativa postula il mantenimento di tutte le garanzie previste dalla legislazione vigente», e ha escluso ogni intervento normativo di correzione o chiarimento.

Questo richiamo alle regole non convince nessuno. Prima di tutto, la «legislazione vigente» prima del 15 giugno vietava l’alienazione del patrimonio artistico di proprietà pubblica, e la legge Tremonti la rende invece possibile, con la debole garanzia di una previa intesa fra ministro dell’Economia e ministro dei Beni Culturali. Ma c’è di più: che senso ha richiamarsi alla «legislazione vigente» il 28 giugno, quando già era all’opera una commissione incaricata per l’appunto di riscrivere le leggi di tutela? E se era già pronta la legge del 6 luglio con la delega al governo a rivedere l’intera materia? Come mai Berlusconi scriveva a Ciampi richiamandosi alla «legislazione vigente» negli stessi giorni in cui il suo governo era al lavoro per modificarla ?

La tutela del patrimonio culturale in Italia ha una storia istituzionale e civile che viene da lontano (dagli Stati pre-unitari), ed è anzi la più antica e gloriosa del mondo. Da sempre il suo punto essenziale è il nesso forte di musei e monumenti col territorio in cui sono incardinati: e proprio al prodigioso continuum fra città, paesaggio, musei si deve l’unicità del caso Italia, il suo massimo fattore di attrattività e competitività. Ma l’altissimo tasso di conservazione del patrimonio nel nostro Paese non sarebbe stato possibile senza la lunga tradizione delle leggi di tutela. Fu da quella cultura istituzionale e civile che nacquero le leggi di tutela dell’Italia unita, fino alla legge 1089 del 1939, le cui norme sono state recepite nel Testo Unico dei Beni Culturali (1999). Per quanto adottata in epoca fascista, quella legge fu il punto di riferimento al momento di scrivere la Costituzione della Repubblica, e ne ispirò uno dei principi fondamentali, l’art. 9: «La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». La Corte Costituzionale ha intanto chiarito (sentenza 151/1986) che l’art. 9 sancisce la «primarietà del valore estetico-culturale», che non può essere «subordinato ad altri valori, ivi compresi quelli economici», e pertanto dev’essere «capace di influire profondamente sull’ordine economico-sociale». Precisamente il contrario della ratio politica e giuridica della legge sulla «Patrimonio Spa» con quel che segue; una legge che capovolge uno dei principi fondamentali della nostra Costituzione per trasformare i beni culturali in una mera riserva di risorse economiche.

Dopo la spinta a privatizzare la gestione dei musei (Finanziaria 2002) e la legge sulla «Patrimonio Spa», dobbiamo dunque aspettarci fra poco una nuova legge di tutela. Che senso ha, infatti, la delega a codificare in materia di beni culturali a tre anni dalla redazione di un Testo Unico, se non c’è il progetto di modificarlo in modo radicale? Non è questo un tema che meriterebbe, nel Parlamento e nel Paese, un’amplissima discussione? L’appuntamento con una nuova legge di tutela è importantissimo: si coglierà l’occasione per correggere le storture delle leggi precedenti, in particolare di quella sulla «Patrimonio Spa»? O se ne approfitterà per allargare le maglie della tutela, per introdurre una più o meno selvaggia deregulation, per semplificare vendite e dismissioni, per cedere spazio ai privati senza garanzie istituzionali? Intanto, in veloce sequenza, la Gazzetta Ufficiale del 6 agosto ha cominciato a pubblicare elenchi di beni pubblici che potrebbero essere dismessi; intanto i nostri vicini di casa ci giudicano. Per citare un solo esempio, il 22 agosto la Süddeutsche Zeitung ha commentato quegli elenchi con un articolo intitolato, in italiano, «Vendesi Italia», sottotitolo: «Il catalogo è questo: uno Stato vende la propria cultura». Ne riporto solo la conclusione: «Chi non si accontentasse di quello che viene ora offerto non ha che da pazientare, si sa come vanno queste cose: prima viene la paccottiglia, poi l’argenteria di casa, e i gioielli arrivano in fondo. Altri cataloghi seguiranno prima della fine dell’anno; in essi i tesori artistici e storici in svendita verranno elencati e prezzati al centesimo. Chiaramente, l’Italia sta per privatizzare il proprio passato e la propria bellezza. Berlusconi passa per un fautore della modernizzazione, ma queste misure non hanno nulla di moderno, ricordano al massimo qualche burocrazia di corte settecentesca. I moderni, al contrario, hanno capito da gran tempo che cultura e bellezza sono parte essenziale delle infrastrutture di un Paese».

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