CAGLIARI. La legge salvacoste è salva. Con una velocità imprevista, infatti, ieri la Corte Costituzionale ha apposto il sigillo di legittimità su uno dei caposaldi del programma di governo della giunta guidata da Renato Soru. La Consulta ha respinto il ricorso con cui il governo aveva impugnato le norme sulla tutela del territorio costiero, ma anche dell’entroterra, visto che la legge regionale conteneva anche un no secco all’eolico selvaggio, secondo una linea più volte ribadita dalla maggioranza di centrosinistra. Maggioranza che oggi, quando la notizia sarà diventata di dominio pubblico, avrà mille e una ragione per brindare al riconoscimento del diritto della Regione a tutelare in maniera rigorosa il proprio territorio, troppe volte devastato da una programmazione edificatoria a dir poco discutibile. Avranno modo di festeggiare anche tutti coloro - non solo le associazioni ambientaliste - che si sono battuti contro la proliferazione indiscriminata, e senza regole certe, degli impianti di energia eolica.
La decisione della Consulta è di ieri sera e dunque non si conoscono i motivi che hanno indotto i giudici costituzionali a dare ragione all’esecutivo regionale e torto al governo Berlusconi che ormai si è preso l’abitudine di ricorrere contro le leggi più significative varate dal consiglio regionale sardo. Le argomentazioni del governo - che contestava all’amministrazione regionale il potere di disciplinare la materia, urbanistica e in particolare di opporsi alla realizzazione di impianti di energia eolica - non hanno colto nel segno, e questo lo capiremo meglio nel momento in cui saranno rese note le motivazioni del verdetto emesso sulla base della relazione del giudice istruttore Ugo De Siervo.
Non c’è dubbio che questa sentenza è una vittoria di Renato Soru e dell’intera maggioranza che lo sostiene. Allo stesso tempo, rappresenta uno schiaffo alle convinzioni dei partiti d’opposizione che, in più di un’occasione, si erano detti certi che la legge salvacoste sarebbe stata ignominiosamente cassata dalla Consulta. Hanno anche visto giusto, il Wwf e il presidente nazionale di Italia Nostra, Carlo Ripa di Meana, i quali, in un’assemblea organizzata l’altro ieri a Cagliari, avevano gioito nel prendere atto che «per la prima volta, in un procedimento nel quale si esamina un ricorso del governo nazionale contro una Regione, sono stati ammessi alla discussione anche degli enti privati».
Questa apertura era stata interpretata dalle associazioni ambientaliste come un segnale positivo che poteva autorizzare anche la speranza del rigetto del ricorso governativo, presentato a suo tempo in seguito all’asfissiante pressing di numerose amministrazioni comunali di centrodestra che giudicavano inique e contrarie allo sviluppo del turismo in Sardegna quelle norme di tutela.
Serravalle SCRIVIA - Il termometro segna - 1, l´orologio le 9.45. Il casello di Serravalle si infila veloce arrivando da Genova, ma da Milano le auto si snodano fino al curvone della rampa. Robetta: sabato mattina qui c´era già il caos, a mezzogiorno i chilometri di coda sulla A7 erano più di dieci. Non è più il primo giorno di saldi all´Outlet di Serravalle, ma tutti accelerano verso il parcheggio, dove una cinquantina di camper (prevalentemente piemontesi le targhe, sembrano essere una costante di tutti i weekend) svettano bianchi nella nebbiolina e alcune centinaia di auto si piazzano qua e là con gli occupanti pronti a catapultarsi fuori, non appena spento il motore: presto, che c´è già coda. È vero, davanti a "Dolce e Gabbana", nella "piazza" centrale, si assiepano in una sessantina, una ventina aspettano pazienti che si apra la porta di "Prada", altrettanti - di età decisamente più bassa - sono in attesa di catapultarsi dentro "Calvin Klein Jeans". Prima si arriva meno si aspetta: qui si entra pochi per volta, quando il volto corrucciato della security di guardia ti fa un cenno. Dieci in punto, si apre la seconda battuta, pardon giornata di caccia al saldo. Annarita e Gloria, da "Marzotto Factory Store", primo negozio sul percorso, sono ancora frastornate dal primo, clamoroso sabato di saldi: «Lavoro qui da cinque anni, mai vista una cosa così. L´affluenza è stata incredibile» dice una. E la collega: «Cos´hanno comprato? Tutto, direi. Soprattutto camicie da uomo, una marea. Di più non le so dire perché non sono riuscita nemmeno ad alzare gli occhi».
«Mammina siamo appena arrivati sì, adesso facciamo il giro... va bene, un bacio mammina!» Diana viene da Torino, chiude in fretta il cellulare, gli amici la incalzano: «Dài, dobbiamo comprare un sacco di roba!». Ma l´affare c´è davvero? Prezzi in vetrina: lupetto di cashmere che in tre mosse (prezzo originale, cartellino outlet, saldo) passa da 218 a 131 e infine a 92 euro; maglione in pile bianco griffato che con lo stesso meccanismo scivola da 91 a 54,50 e infine a 32,70 euro. Ammesso che si trovi la misura e s´incontri il gusto sì, l´affare è certo. Da "Brioni", capi d´alta sartoria, una giacca in cashmere riesce a scivolare da 1350 a 405 euro. «Ieri? Non ce la facevamo più da sole, abbiamo dovuto chiamare i colleghi...» ridono le vendeuses. Da "Borrelli Camicie" Laura mette le mani nei capelli: «Cavallette. Erano come le cavallette. Non sono nemmeno riuscita ad andare a mangiare, me ne sono resa conto alle nove meno cinque. Ho venduto cose che mai al mondo... Oggi, al confronto, è un lusso».
È mezzogiorno. Luigi Battuello, direttore del Serravalle Outlet, indica fuori dalla finestra del suo ufficio: «Vede là fuori? Quello spazio oltre la statale? Tutto pieno di auto. I tremila posti qui, gli altri duemila a lato, tutto pieno. Poi hanno cominciato a riempire ovunque, lungo le strade... tra un paio d´ore mi sa che sarà lo stesso. D´altro canto, il primo giorno di saldi è così, ma il problema sono gli accessi dall´autostrada: chi arriva da Milano deve fare lo stop, lasciare la precedenza alle auto in arrivo da Genova, e l´autostrada si blocca. Mi rendo conto che il casello era dimensionato per altre necessità, forse è il caso che si faccia qualche intervento». Quarantacinquemila persone sabato, circa 35 mila ieri, anche se più diluite nella giornata, fanno ottantamila in un weekend: annaspa la viabilità autostradale, ma all´Outlet e dintorni - un migliaio di posti di lavoro diretti, oltre duecento nell´indotto, progetti di nuovi centri commerciali già attivi in zona - i saldi sono la punta di diamante di un afflusso costantemente alto. «Ma per quale ragione dovevo comprarmi le scarpe prima dei saldi? Costano la metà, adesso» dice la signora bionda dall´accento milanese al telefonino. A dir la verità, a Serravalle lo sconto-dello-sconto, almeno per i clienti affezionati invitati via lettera o mail, era cominciato già con l´anno vecchio, con i pre-saldi. «Certo che sono venuti, e in tanti - sospira l´elegante signora alla cassa di "Loro Piana" - Non pensavamo di vedere ancora così tanti nostri clienti... cos´è successo sabato? Lo vede com´è ridotto il negozio?». Eh già, sono ben sguarniti, gli scaffali. Le cavallette griffate sono già sciamate via.
Nota: è forse di cattivo gusto (imperdonabile, davanti a tante griffes!) notare pur gentilmente, che "l'avevamo detto", e poi "l'avevamo anche ripetuto"? (f.b.)
MARACALAGONIS. ‹‹Finalmente, una notizia positiva per la legalità e speriamo di non dover attendere ancora a lungo per vedere una fetta di demanio marittimo restituito alla collettività››. Con queste parole l’associazione ambientalista Gruppo di intervento giuridico, ha salutato l’ordinanza di sgombero emessa qualche giorno fa dall’assessorato regionale agli Enti locali. Il provvedimento riguarda diverse ville ad una decina di metri dalla battigia, nella spiaggia di Cannesisa a Torre delle stelle. A questo punto è sempre più probabile l’arrivo delle ruspe della Regione per abbattere i muri fuorilegge. La decisione della Regione prende spunto dalle precedenti ingiunzioni, notificate tra il 23 marzo e il due aprile di quest’anno, con cui il Servizio centrale demanio e patrimonio aveva già imposto lo sgombero di diverse aree occupate abusivamente. Secondo i tempi previsti, i proprietari avrebbero quindi dovuto liberare gli spazi entro i primi di maggio, ma nessuno dei nove abusivi ha rispettato l’ordinanza giunta dagli uffici di viale Trieste. Da qui la contromossa della Regione, che "sta ponendo in essere tutti gli atti conseguenti ai suddetti provvedimenti amministrativi - si legge in una nota dell’associazione - per attivare la procedura di sgombero coattivo". A giorni, gli ufficiali giudiziari incaricati dalla Regione potrebbero bussare alle porte degli abusivi e apporre i sigilli, scortati dagli agenti delle forze dell’ordine. Una volta esaurita questa fase, bisognerà decidere sul futuro degli immobili sequestrati, ma è molto probabile che nei prossimi mesi, insieme ai turisti, sulla spiaggia di Cannesisa facciano la loro comparsa anche le ruspe. Un’ipotesi avvallata anche dall’entità degli abusi riscontrati: negli ultimi anni, migliaia di metri quadrati di aree demaniali sono state occupate da recinzioni in muratura, giardini privati e costruzioni. In barba alle più elementari disposizioni di legge, che parlano chiaro: la zona interessata rientra nella fascia dei trecento metri dalla battigia, e di conseguenza è tutelata dal vincolo paesaggistico ed è soggetta alla conservazione integrale. Il provvedimento di sgombero coattivo è solo l’ultimo capitolo di una vicenda cominciata nel maggio del 2003, quando il Gruppo di intervento giuridico e gli Amici della terra presentarono un primo esposto alla procura della Repubblica e informarono degli abusi edilizi anche gli uffici comunali di via Nazionale e la Capitaneria di porto. Dopo qualche settimana, il primo sopralluogo, coordinato dai funzionari dell’Agenzia del demanio, non fece altro che confermare la denuncia presentata dalle due associazioni.
Il Sole 24 Ore, nell’indagine sulla qualità della vita nelle città italiane relativa al 2004, colloca Bologna al primo posto della classifica. Le aree di valutazione che le garantiscono questo posizionamento sono principalmente il tenore della vita, la qualità del lavoro, dei servizi e del tempo libero. Si tratta cioè di quelle componenti qualitative che formano l’immagine della città, nel pensiero comune degli italiani. E sempre il Sole 24 Ore informa anche che la città felsinea è al penultimo posto per ciò che attiene la “criminalità”. Dato – anche questo – tutt’altro che inatteso, se non fosse per l’emerge, negli ultimi tempi, di una presenza insistente nelle cronache nazionali, delle azioni che si stanno mettendo in campo nella città governata da Sergio Cofferati, per contrastare “l’illegalità”.
L’impressionante copertura mediatica a documentazione delle attività per riportare la legalità a Bologna costituisce così un piccolo paradosso, se si prendono per buone le classifiche del prestigioso quotidiano di Confindustria. Da un lato i blitz nelle “banlieue” dei baraccati abusivi diventa una caso nazionale che invade i media come successe per le sanguinose faide di Scampia. Dall’altra l’immaginario collettivo di una nazione, corroborato dalle indagini statistiche, che vede Bologna campionessa della qualità della vita.
Sembra cioè che esista una città “percepita” e una, per così dire, “reale”. Quest’ultima, pur nelle mille difficoltà della sua metropolizzazione, è ancora, in fondo, il “benchmark” per le città medio piccole italiane ed europee. La città “percepita”, quella vissuta e camminata quotidianamente, dove le classifiche contano poco se sei tra i 40 mila studenti fuori sede che scuciono (magari in nero) fino a 500 euro per una stanza, quella sembra essere la palestra più interessante, cui dedicare attenzione e applicare il metro della legalità. Qualche numero può così aiutare a decifrare la percezione, perché è difficile ignorare, per esempio, che a fronte dei suoi 90 mila studenti universitari, la città offra soltanto 2 mila posti letto in strutture per il “diritto allo studio”, e che i restanti fuori sede debbano arrangiarsi col libero, ed insostenibile, mercato dei fitti.
Ma dall'altro lato c'è la Bologna del 65% di residenti con almeno una casa in proprietà, tendenzialmente anziani (col 26% di ultra sessantacinquenni Bologna è tra le città con più anziani del Paese), che sopportano costi e inflazione da primato nazionale: a giugno 2005, in città, l'indice dei prezzi al consumo segnava +5% per la componente legata ai costi per l'abitazione e l'energia. Così il sistema abitativo diventa un cane che si morde la coda, in una escalation di costi che erode la capacità di spesa tanto degli inquilini quanto dei proprietari.
Poi in una città con elevati tassi di ricambio sociale, in cui oltre il 60% dei residenti non è di origine bolognese e l'incidenza degli stranieri residenti è ormai vicina al 7%, diventa complicato mantenere in equilibrio il sistema delle regole, quando sono legate intimamente alla capacità dei cittadini di considerare Bologna la "propria casa" - da accudire, mantenere, "lucidare" - e non un luogo temporaneo di consumo e produzione.
D'altra parte però anche il governo urbano, a volte, non aiuta a questo fine. Si prenda ad esempio la programmazione delle attività commerciali, che sembra aver seguito lo spontaneismo più che la razionalità: alcune zone diventano così plaghe vuote di residenti e piene di uffici, che a notte sono territori di spaccio e degrado; o straordinari addensamenti di locali notturni fracassoni o pieni di vita - dipende dal lato in cui li si guarda - incompatibili comunque con la vita delle famiglie che vi abitano sopra o a fianco; e ancora fiumane di auto che assediano marciapiedi, passi carrai e corsie preferenziali.
Il caos prodotto dall'evasione diffusa delle (piccole?) norme che regolano i comportamenti di una collettività complessa come quella bolognese, finiscono così, inevitabilmente, per contribuire a percepire e praticare una città incivile e sregolata. A questo disordine comportamentale, forse, bisogna riferirsi per intendere a pieno la questione della legalità.
Che poi ad evadere le regole siano cittadini distratti, locali fracassoni, proprietari immobiliari senza troppi scrupoli, irriducibili dell'automobile, baraccati o spacciatori, poco importa. Il problema della legalità - in quanto principio fondativo della vita comune - non deve, per sua natura, proporre distinzioni di sorta. Bisogna però fare molta attenzione a non ostacolare la vita comune, e negare la città in quanto tale, per colpire l'illegalità. Sarebbe questo un danno peggiore di quello commesso dagli evasori.
Alla fine, hanno deciso tutto i gatti di Libeskind. «Abitavo a Milano, qui è nata mia figlia Rachel - racconta l´architetto polacco, tedesco e poi americano di adozione - e i miei gatti volevano sempre andare al parco». Da qui (anche) nasce l´idea del parco del megaprogetto CityLife, cordata che riunisce i tre gruppi assicurativi Generali, Ras e Progestim, più gli spagnoli della Lar e l´impresa di costruzioni Lamaro Appalti: il verde non «come collante ma al centro di tutto», continua Libeskind.
Alla presentazione del progetto che trasformerà il vecchio recinto espositivo della Fiera, l´architetto si fa un po´ prendere la mano dall´entusiasmo. Milano è «il paradigma del Bello», è il luogo del «bel tempo, malgrado qualche giornata grigia». Magari. La presenza del poker d´assi di CityLife è la vera novità di giornata: Libeskind, Arata Isozaki, Zaha Hadid e Pier Paolo Maggiora descrivendo il loro approccio al progetto raccontano la loro estetica di architetti. Emergono alcuni temi, come la multiculturalità che riunisce un italiano, un europeo americanizzato, un asiatico e una mediorientale, e l´idea che siamo di fronte al primo, vero progetto del ventunesimo secolo.
Sarà così? Di fronte alle obiezioni dei residenti, spiega l´assessore allo Sviluppo del territorio Gianni Verga, «le osservazioni sono state accolte, una trattativa è impossibile: non rientra nella mia cultura istituzionale. Per la prima volta a Milano un progetto è approvato prima della dismissione di un´area, non decenni dopo o mezzo secolo dopo come per Garibaldi-Repubblica».
Dopo il sì della giunta, che non ritiene di dover passare dal consiglio comunale, i cantieri dovrebbero essere aperti il 31 marzo 2006. Durata dei lavori, nove anni. Con le modifiche al piano originario, la giunta Albertini impegna la prossima a ristrutturare il Vigorelli per farne una struttura sportiva multifunzionale, grazie anche a 11 milioni di oneri di urbanizzazione versati da CityLife. Gli oppositori del progetto dicono che proprio l´inclusione del verde urbano di piazza Vigorelli, piazza VI Febbraio e piazza Giulio Cesare aumenti surrettiziamente gli standard del verde.
CityLife ribatte che, con 131.000 metri quadrati, il parco della Fiera sarà il terzo in città dopo Sempione (470.000) e Giardini Pubblici (160.000) e non è schiacciato dai grattacieli, incluse le tre famose torri dei tre architetti venuti da lontano: «Tanto Milano non si può permettere un Central Park», osserva Ugo Debernardi, presidente di CityLife. Il progetto è qualificato anche da due musei. Il primo e quello del Design, per il quale il presidente della Triennale, Davide Rampello, si augura «che ci sia consegnato un po´ prima del previsto 2014». Il secondo è il Palazzo delle Scintille, il più grande centro culturale per bambini d´Europa, improntato all´educazione non formale, vale a dire non scolastica, con mostre, laboratori, una scuola per l´infanzia e un nido. Anche se purtroppo, non tanto i bambini ma addirittura gli under 18, a Milano, sono appena il 15 per cento della popolazione.
La vecchia Fiera diventerà un nuovo centro della città, secondo i promotori. In questa cittadella autosufficiente di uffici, residenze, negozi, ristoranti, cinema, bar, sportelli bancari e postali, nuovo commissariato di polizia e nuova caserma della compagnia Magenta dei carabinieri, verranno ad abitare 4.500 persone e altrettanti la frequenteranno per lavoro.
La viabilità circostante il vecchio recinto fieristico sarà rivista, il traffico su via Gattamelata mandato in un tunnel sotterraneo, quando si troveranno i soldi lo stesso sarà fatto in viale Duilio. E poi rotonde, sensi unici, traffico canalizzato in corsie, una delle aree pedonali più grandi d´Europa e parcheggi sotterranei, 8.650, divisi fra residenti (3.648), uffici e commercio (2.775) e pubblici (2.227). Il cantiere da 366.000 metri quadrati sarà di 16.000 metri più grande di quello del Canary Wharf a Londra, dunque si cercherà di minimizzare - questa almeno è la promessa - il via vai di camion e l´impatto acustico, anche con un ampio riutilizzo dei materiali provenienti dalle demolizioni.
Gli abitanti: ma noi ricorreremo al Tar
Rolando Mastrodonato, presidente dell´associazione Vivi e progetta un´altra Milano, voi siete contrari al progetto di CityLife. Perché?
«Si costruisce in modo eccessivo, così come sarà eccessivo il flusso di auto. Ci sono gli interramenti per un paio di strade ma poi si torna in superficie, il traffico intorno alla Fiera impazzirà. Il parco è di 90.000 metri quadrati, aumenta alle cifre di cui parla CityLife solo tirando dentro le piazze VI Febbraio, Vigorelli e Giulio Cesare. Sarà un verde condominiale, fra palazzi da 27 piani e gli altri grattacieli, non accessibile per i cittadini. Una cittadella fortificata».
Parlate di un ricorso al Tar. Lo avete presentato?
«La giunta ha deciso venerdì, ci sono 60 giorni di tempo per il ricorso. Lo presenteremo perché la giunta non ha tenuto in alcun conto le osservazioni di associazioni e cittadini ed è venuta meno alle sue funzioni di controllo e indirizzo, permettendo volumetrie abnormi, incompatibili con l´ambiente. Inoltre il progetto deve passare dal consiglio comunale, sebbene la giunta sostenga il contrario».
L´assessore Verga sostiene, al contrario, che molte osservazioni sono state accolte.
«Non è così. L´assessore si ricordi che sono anche i nostri soldi di contribuenti a pagare i suoi progetti. Questa trasformazione è una pessima eredità per qualunque amministrazione futura, sia di destra o di sinistra. La prossima giunta dovrà modificarlo perché non è sostenibile. Ferrante è d´accordo con noi, alla Moratti abbiamo chiesto un incontro. Chiediamo che si apra una trattativa con noi».
Nota: qui la modesta opinione del sottoscritto su un altro progetto recente di uno degli architetti, Pierpaolo Maggiora (f.b.)
Una bella notizia per gli amici di Eddyburg. La Sardegna completa il progetto di piano paesistico e avvia la fase della concertazione con gli enti locali. Non so se si possa dire che è un’eccezione che conferma la regola di un brutto andazzo: perché di buone notizie non ce ne sono poi tante per chi attraverso queste pagine osserva le scelte della politica sui temi del governo del territorio.
Per la Sardegna, a lungo senza piano paesistico e in balia delle pulsioni del centrodestra fino all’anno scorso, è l’indizio che una brutta fase è già alle spalle e che domani è un altro giorno, come direbbe Rossella O’Hara. Il presidente Soru ( accompagnato dai due assessori competenti) ha presentato ieri il lavoro svolto- che materializza il pensiero espresso tante volte - ringraziando tutti quelli che hanno consentito di arrivare a questo punto: soprattutto l’ufficio di piano costituito da dipendenti regionali e stagisti giovanissimi e il comitato scientifico che ha seguito con attenzione tutto il processo.
E’ davvero un’altra storia ( lo sa ben chi ha visto la prima puntata, conclusa nel ’93, quando i piani li portò a termine un ufficio che si occupava di miniere con l’aiuto consulenti anonimi). Una processo che ha alla base il metodo delle informazioni davvero condivise. Il lavoro è già in rete nel sito della Regione, e nessuno detiene in via esclusiva documenti riservati da fotocopiare per favore agli amici. Non serve più di tanto - riflettiamo - neppure la mediazione degli organi di informazione. Tutti possono già in questa fase accedere agevolmente agli atti senza fare domanda a nessuno. E formarsi un’opinione.
Il linguaggio del piano è facile: emerge subito l’opera di spiazzamento per chi volesse leggere i documenti con la cultura di un’altra stagione politica quando prevaleva il rito delle distribuzione bilanciata/patteggiata dei volumi. Quando i piani - specie quelli comunali- erano le trascrizioni più o meno fedeli delle volontà delle imprese di fare, qui o lì, in genere nei luoghi più belli e accessibili ciò che chiedeva il mercato.
Quando alcuni principi buoni - ce n’erano anche nell’ultima legge e nei vecchi strumenti - venivano travolti per i contenuti nelle stesse norme della legge che dovevano fare eccezione per alcuni importanti imprenditori dell’ edilizia ( attenzione: imprenditori edili che realizzano case da vendere, non operatori turistici che investono in attrezzature ricettive, magari di qualità!)
L’idea è proprio un’altra e l’insieme delle regole contraddice ogni discrezionalità: tutti uguali di fronte alla necessità di entrare nella globalizzazione del mercato turistico “con la schiena dritta”, ha detto ieri l’assessore all’urbanistica Gian Valerio Sanna.
Il paesaggio- valore costituzionale- è al centro di ogni riflessione e le trasformazioni eventuali presumibilmente poche. I luoghi che non hanno subito modifiche, per fortuna sono tanti, saranno conservati (tranquilli, non servono le foto ricordo, per documentare lo stato com’era - ha detto Soru -; il piano vuole dare la certezza di ritrovarla intatta quella spiaggia, quella scogliera). Sono previsti progetti estesi di riordino urbanistico (perché ci sono molte brutte sparse cose da rimediare) e l’idea di fondo è quella di valorizzare e potenziare gli insediamenti esistenti - quelli veri abitati tutto l’anno - che sono in grado di dare ospitalità molto meglio dei villaggi-vacanze.
Il progetto è accompagnato dal disegno di nuova legge urbanistica indispensabile per dare coerenza al procedimento tecnico-amministrativo, per rispondere alla riforma del Titolo V della Costituzione e al necessario metodo della copianificazione. Quindi è utile una lettura comparata dei due provvedimenti per capire le intenzioni.
Si apre ora la fase complicata della discussione che, sembra di capire, sarà molto pubblica: sono previste una ventina di istruttorie in tutto il territorio regionale che Soru stesso -si dice- presiederà, immaginiamo con grande pazienza. Non sarà infatti un percorso facile perché c’è da attendersi- già ce ne sono- reazioni molteplici a previsioni che faranno cadere, mi pare, ipotesi di intervento molto contrastate.
Solo le reazioni nei prossimi giorni, il bagaglio delle osservazioni, luogo per luogo, potrà dirci il grado di consenso che si realizzerà attorno al progetto da parte dei sardi e di tutti quelli che dovunque stiano - ad esempio in Val di Susa - sono interessati al programma di tutela della Sardegna. Per questo non dovrà essere un confronto limitato ai soli comuni costieri. Per questo le correzioni, integrazioni ecc. a cui il progetto è aperto - è normale che ne servano - dovranno essere introdotte nell’interesse collettivo
CAGLIARI. Tutela assoluta delle zone costiere che si sono salvate dal cemento, riqualificazione delle aree degredate, riconversione dei villaggi di seconde case in alberghi, recupero del ruolo dei centri urbani e misure drastiche contro l’aumento delle abitazioni in campagna. Sono i principali contenuti del Piano paesaggistico regionale approvato ieri dalla giunta Soru: ora, prima dell’adozione definitiva, scatta la fase istruttoria, della durata complessiva di tre mesi, con la consultazione dei Comuni. Primo si anche alla riforma della legge urbanistica. La giunta ha approvato «in via preliminare» anche la nuova normativa generale sul «governo del territorio». Dopo la fase di consultazione, il provvedimento andrà al Consiglio regionale per il varo definitivo. Mentre il Piano paesaggistico, conclusa la fase istruttoria con i Comuni, andrà al Consiglio solo per un parere della commissione Urbanistica e sarà poi adottato dalla stessa giunta. Ieri in giunta i relatori del Piano sono stati gli assessori all’Urbanistica Gian Valerio Sanna (principale protagonista) e al Paesaggio Elisabetta Pilia.
Per ora si parte con la fascia costiera. Come si può vedere nella cartina allegata (che indica i 27 ambiti costieri in cui è stata divisa l’isola), il Piano paesaggistico, rispettando il criterio di procedere per «aree omogenee», non riguarda tutta la Sardegna: la parte delle zone interne sarà elaborata dallo stesso gruppo di lavoro. Alcune norme generali introdotto nel Piano «costiero », tuttavia, entreranno in vigore in tutta l’isola: ad esempio la disciplina sulle zone agricole.
I quattro livelli di vincoli di salvaguardia. All’interno dei 27 ambiti territoriali in cui è stata divisa la fascia costiera, sono stati introdotti i vincoli: il livello 4 di «integrità, unicità e irripetibilità» (tutela integrale) ed eventuali recupero di insediamenti nel rispetto storico-culturale; il livello 3 di «forte identità ambientale e insediativa »; il livello 2 di «modesta identità ambientale» e in «assenza di profili di pregio »; il livello 1 di «identità compromesse o del tutto cancellate ». Gli obiettivi sono quelli della «conservazione» nelle aree di pregio, di «trasformazione » e «recupero» nelle altre, secondo diverse gradualità. Prima applicazione del decreto Urbani. E oltre. Il Piano paesaggistico disciplina la tutela dei beni ambientali e degli altri beni pubblici secondo le direttive del decreto legislativo del 22 gennaio 2004 (coste, dune, aree rocciose, grotte, monumenti naturali, zone umide, fiumi, alberi monumentali, aree gravate da usi civici). La giunta ha inoltre ricompreso le aree sottoposte dalla Regione a vincolo idrogeologico e quelle dei parchi nazionali e regionali.
Tutela assoluta nella fascia costiera. Il Piano esclude la possibilità di realizzare interventi nelle aree non edificate ad esclusione di pochi interventi pubblici privi di impatto ambientale. E sono vietate nuove strade extraurbane con più di due corsie, insediamenti industriali o della grande distribuzione commerciale, campeggi, campi da golf e aree attrezzate per camper.
Disciplina transitoria solo per aree urbane. Sino all’adeguamento dei Piani comunali alle previsioni del Piano paesaggistico, nei territori costieri è consentita l’attività edilizia nelle zone omogenee A e B dei centri abitati e delle frazioni indicate come tali nelle cartografie, nelle zone C immediatamente contigue alle zone B di completamento e intercluse tra le stesse zone B e altri piani attuativi in tutto o in parte realizzati. Nelle zone C, D, F e G possono essere realizzati gli interventi previsti nel Puc e con convenzione efficace alla data del 10 agosto 2004 (decreto salvacoste) purché alla stessa data le opere di urbanizzazione siano state legittimamente avviate, si sia determinato un mutamento irreversibile dello stato dei luoghi e per le zone F (turistiche) siano stati rispettati i parametri restrittivi dello stesso decreto.
Escluse le vecchie concessioni. Nel testo originario andato all’esame della giunta era previsto che per i piani attuativi vigenti alla data di entrata in vigore del Piano paesaggistico, ci fosse questa normativa: nel caso di concessioni «già rilasciate» i lavori devono terminare entro tre anni (con decadenza delle volumetrie non realizzate); le volumetrie possono essere spostate in altre aree (con premio di cubatura) per tutelare meglio l’ambiente. Ma queste possibilità sono state escluse e quindi stralciate. Contro queste previsioni si era subito schierato lo stesso presidente Soru, che aveva visto il rischio di recuperare vecchie lottizzazioni che erano state bocciate dal decreto e poi dalla legge salvacoste. Alcuni assessori avevano però denunciato un altro rischio, sottolineato dal parere dei giuristi: il rischio di ricorsi presso il Tar nell’ipotesi che non siano tutelati i «diritti acquisiti» dei titolari delle concessioni.
I piani attuativi a regia regionale. Gli interventi ammissibili saranno co-pianificati da Regione, Provincia e Comune verso «obiettivi di qualità paesaggistica basati su valenze storico-culturali e ambientali ». Dove è possibile intervenire, si possono prevedere «trasformazioni finalizzate alla realizzazioni di residenze, servizi e ricettività solo se contigui ai centri abitati, risanamento e riqualificazione urbanistica e architettonica degli insediamenti turistici esistenti, riuso a scopi turistici di edifici, nuovi insediamenti alberghieri solo se di qualità elevata in aree «già antropizzate», infrastrutture per migliorare la fruibilità dei litorali.
Norme rigide nelle zone agricole. Sino all’adeguamento dei Puc al Piano paesaggistico, i Comuni non potranno rilasciare nuove concessioni residenziali né aprire nuove strade. Per le future concessioni, le prescrizioni sono rigide: il lotto minimo per le residenze è di 10 ettari (per colture intensive) o di 20 ettari (per colture estensive). Per il rilascio, dovranno essere seguite procedure di verifica dell’equilibrio tra residenze e contesto ambientale e del piano aziendale di conduzione del fondo. L’obiettivo - indicato proprio da Soru - è far sì che le residenze in campagna servano a chi in campagna produce. Norme di particolare tutela sono state elaborate anche per tutelare gli stazzi, le diverse architetture rurali, i muretti a secco, gli alberi monumentali (ne sono stati indicati cento), gli uliveti con almeno trent’anni di vita, eccetera. E non potranno essere asfaltate né ricoperte di cemento le vecchie e le nuove strade di penetrazione agraria.
Rilanciare il ruolo dei centri abitati. Sia per le città sia per i paesi si prevede un recupero delle periferie, dal punto di vista architettonico e da quello sociale. In sostanza, per migliorare la qualità della vita non dovrà essere necessario - questa è la filosofia - «emigrare » nelle zone agricole vicino alle zone urbane.
Le direttive per gli insediamenti turistici. Nell’adeguare i Puc, i Comuni dovranno non solo riqualificare gli aspetti urbanistici e architettonici, ma anche prevedere nuova potenzialità turistica mettendo in relazione i centri urbani, i paesi, gli insediamenti sparsi e i grandi complessi minerari. Bisognerà «riprogettare lo spazio pubblico», favorire la trasformazione delle «seconde case » in «alberghi diffusi» con aumento di volumetria (20%) per i servizi. Premio di cubatura per un massimo del 100% per favorire il trasferimento dalle zone costiere più pregiate verso centri residenziali preesistenti.
Campeggi e camper lontano dal mare. Non solo le aree attrezzate per i camper, ma anche i campeggi - secondo il Piano paesaggistico - devono essere «preferibilmente ubicati al di fuori dei territori costieri». I Comuni dovranno «individuare localizzazioni alternative per il loro trasferimento». Insediamenti produttivi e commerciali. Norme rigidissime (anche per i cartelli pubblicitari) nelle zone pregiate. Per gli insediamenti produttivi bisognerà puntare al loro trasferimento nelle aree attrezzate e prevedere nei centri urbani e nelle periferie degradate l’insediamento di attività artigianali compatibili con l’attività residenziali e con le tipologie preesistenti.
I casi particolari di La Maddalena e Carloforte. L’istruttoria pubblica si svolgerà nei 27 ambiti costieri. Una riunione specifica sarà riservata alle isole minori e in particolare alle situazioni dell’arcipelago maddalenino e di San Pietro. Per le quali, tuttavia, non sono previste nel Piano normative preferenziali.
Negli ultimi dieci anni non era mai successo che venissero vietate, quasi in contemporanea, due manifestazioni politiche sicuramente non contrapposte nei contenuti tra di loro. Ecco di cosa si tratta:
- Per Sabato 10 dicembre, alle ore 16, il Coordinamento "Bologna città aperta - Open Your Mind" ha promosso "Cannabis Parade 2005", una manifestazione antiproibizionista alla sua terza edizione (il periodo in cui si è svolta negli altri anni è sempre stato tra il 5 e il 12 di Dicembre). Il cartello dei promotori riunisce Livello 57, TPO, Link, CaCuBo, Sub Cave Scandellara, Covo e Sottotetto. Si tratta di un appuntamento per ribadire il No alla Legge Fini sulle Droghe che apre la strada alla punibilità penale dei consumatori e per tornare a porre la questione degli spazi di aggregazione sociale e culturale in città. La manifestazione prevede una prima parte con un piccolo corteo da Piazza San Francesco a Piazza Maggiore e ritorno e una seconda parte con appuntamento in via Rizzoli alle 22 da dove partiranno bus navetta per gli spazi aderenti all'iniziativa dove, nel corso, della notte sono previsti una serie di eventi al chiuso.
- Per Sabato 10 dicembre, alle ore 16, in Piazza Nettuno, il Coordinamento "Facciamo Breccia" (composto da Antagonismogay, M.I.T. Movimento Identità Transgender, Arcilesbica, Sexy Shock, Comunicattive, XM24, Unione Atei Agnostici Razionalisti, Rete di Bologna contro la legge 40) ha organizzato un sit-in dal titolo "Zona devaticanizzata", in occasione della giornata internazionale per i diritti umani, per riaffermare il diritto all'autodeterminazione sui propri corpi come diritto umano inalienabile, e per ribadire la laicità dello Stato Italiano rispetto soprattutto ad una serie di tematiche come PACS (coppie di fatto), legge 194 sull'Interruzione Volontaria di Gravidanza, legge 40 e Procreazione Medicalmente Assistita, utilizzo delle risorse pubbliche e rapporto tra istituzioni politiche e istituzioni religiose. Sono previsti banchetti con materiale informativo.
Nella giornata di ieri la Questura ha comunicato agli organizzatori e alle organizzatrici il divieto dei due appuntamenti:
- il primo per ragioni d'ordine pubblico derivate dallo svolgimento del Motor Show e dalla particolare giornata dedicata allo shopping natalizio;
- il secondo per ragioni d'ordine pubblico, in quanto la Questura non sarebbe in grado di tutelare l'incolumità dei presenti al sit-in di Piazza Nettuno, zona che potrebbe essere coinvolta in incidenti causati dai partecipanti alla prima manifestazione non autorizzata (sic!).
Si tratta di due provvedimenti gravissimi che mettono a repentaglio uno dei diritti principali previsti dalla Costituzione: il diritto a manifestare le proprie idee. E tutto questo per tutelare gli interessi del Motor Show (che non pochi disagi sta provocando ai cittadini di Bologna, per via degli alti tassi di inquinamento acustico e del traffico intenso che produce tutti i giorni enormi ingorghi e blocca intere zone della città) e della lobby dei commercianti che ha già avuto il "regalo" dello spegnimento di Sirio il sabato e nel periodo natalizio.
FINO A DOVE SI VUOLE ARRIVARE? Il restringimento degli spazi di democrazia in questa città sta diventando un problema serissimo che non può preoccupare solo le persone che, di volta in volta, cadono sotto la mannaia repressiva. Bologna, nell'ultimo anno e mezzo, è diventata la città italiana con il maggior numero di procedimenti e azioni penali per episodi di lotta politica e sociale. L'ultimo in ordine di tempo, il rinvio a giudizio contro 12 attivisti del Bologna Social Forum e del movimento per il corteo del 18 gennaio 2003 contro Forza Nuova. La cosa curiosa è che nella stessa settimana in cui è stato notificato il provvedimento, i fascisti di Forza Nuova hanno potuto scorazzare indisturbati con la loro "ronda petroniana" per il quartiere di Corticella, aggredendo un immigrato sotto gli occhi della polizia.
Sono ancora fresche le manganellate finite sulle teste di studenti e militanti della sinistra radicale, davanti al Comune lo scorso 24 ottobre per impedire l'accesso alla sala del Consiglio Comunale (corollario di quelle cariche poliziesche, 34 denunce).
E' di questi giorni la notizia delle decine di multe (da 1033 euro l'una) a un gruppo di una ventina di ambulanti senegalesi (con il permesso di soggiorno e la licenza da ambulanti), che un tempo facevano parte del "mercatino multietnico" e che, oggi, non possono più svolgere il loro lavoro in città. Tutti questi episodi sono i frutti e le conseguenze amare del tormentone "legge & ordine" che attanaglia da mesi Bologna.
E, sicuramente, non siamo arrivati alla fine della spirale. Quello che sta avvenendo in questi giorni in Valle Susa ci dovrebbe far riflettere? Quando dovranno partire i cantieri del Passante Nord nel territorio della pianura bolognese cosa ci aspetterà?
Una recentissima ricerca internazionale di FutureBrand - che raccoglie le opinioni degli operatori, degli esperti e dei fruitori del turismo planetario - ci dice che, per richiamo turistico, il Marchio Italia è ancora primo nel mondo per due segmenti: l'arte e la storia. Mentre sta ormai fra il 10° e il 15° posto per la natura ed è scivolato al di sotto del 15° per le spiagge. È lampante quindi che laddove (natura e spiagge) si è molto distrutto, cementificato e asfaltato, l'Italia è diventata assai meno attraente e dove invece, nonostante tutto, si è conservata la «materia prima », essa ha mantenuto una sua seduzione di massa. Merito del settore pubblico, dello Stato e dei suoi tanto bistrattati tecnici in primo luogo. Non certamente della grande massa dei privati.E però il ministro Rocco Buttiglione si ostina a perseguire, nella gestione dei beni culturali, un «modello misto pubblico-privato» attraverso «ragionevoli liberalizzazioni», per esempio attraverso lo strumento delle Fondazioni. L'onorevole ministro, mentalmente, continua a scindere - come faceva, in modo sciagurato, il TitoloV della Costituzione voluto dal centrosinistra, a maggioranza - la valorizzazione dalla tutela. Come se la conservazione accurata del patrimonio storico-artistico e di quello paesistico-ambientale, strettamente integrati, fosse cosa diversa dalla sua valorizzazione e quest'ultima toccasse essenzialmente ai privati realizzarla.
Del resto, lo si è toccato con mano alla Scala: appena i soci privati ci hanno messo qualche euro, hanno preteso di dettare loro la linea culturale e gestionale, mentre il nuovo soprintendente Stephan Lissner già reclama per il massimo teatro italiano il ritorno all'ente pubblico, sia pure nel quadro di una logica imprenditoriale. Quindi, bisogna stare attentissimi a non indebolire sia la presenza pubblica sia il ruolo tecnico-scientifico dei Soprintendenti. Che invece il predecessore di Buttiglione ha snervato e frustrato come mai era avvenuto, probabilmente pensando di privatizzare i Musei più importanti, quelli che, secondo certuni, possono «rendere», dare profitti. Poco informato l'allora ministro Giuliano Urbani il quale non sapeva che ilGrand Louvre, con l'imponente apparato di servizi commerciali messo in piedi, ricava da quelle «entrate proprie» meno del 20% del totale (il restante 80 sono denari pubblici).Né sapeva che le «entrate proprie» del Metropolitan Museum non raggiungono il 50% della parte attiva. Il resto, anche lì, è denaro pubblico, o sono donazioni.
Dal ministero retto ora da Buttiglione arriva qualche notizia (era ora!) non negativa: è stata evitata alle monete antiche una riduzione della tutela; si è rimesso nel cassetto quel silenzio-assenso dopo 120 giorni nella vendita di beni culturali pubblici che tante proteste (il ministero li chiama «equivoci ») aveva suscitato da parte delle associazioni e delle opposizioni. Tuttavia lo stato generale del ministero rimane dei più gravi e grandissimo il disagio dei suoi operatori.
Il disastro dei beni culturali e ambientali provocato dalla gestione Urbani si riassume del resto in poche cifre: su 66 soprintendenze territoriali, ben 27, cioè il 41 per cento, risultano vacanti, mentre 5 sono a contratto esterno. L'idea che circola è quella di continuare a non fare concorsi veri, rigorosi, proseguendo nella pratica dequalificante delle promozioni interne, dopo corsi di formazione assai modesti, ed inserendo, magari, gli esterni nei ruoli del ministero. Giustamente, nella recente Giornata di protesta sui beni culturali (organizzata dal Comitato per la Bellezza e dalla «Bianchi Bandinelli»), Irene Berlingò, responsabile dell'Assotecnici, ha denunciato come si tenda sempre più a creare Soprintendenze uniche e quindi a «regionalizzare», di fatto, la rete della tutela. Il modello?La Regione Sicilia. Dove però ne stanno succedendo di tutti i colori, con scambi di ruoli che ignorano ogni competenza acquisita negli studi e sul campo: funzionari amministrativi al Museo Archeologico Eoliano, un archeologo, invece, alla Biblioteca di Catania, un architetto, per contro, all'Archeologico di Palermo, il più antico museo dell'Isola, e un altro al Museo Storico- artistico Bellomo di Siracusa. Qui la politica è entrata con le scarpe e tutto nella gestione e nella tutela dei beni culturali, e i risultati, disastrosi, sono sotto gli occhi di tutti. Se questo è il modello, povero patrimonio culturale della Nazione. Del resto, al vertice del Ministero romano, un dirigente storico delle Biblioteche come Francesco Sicilia è stato dirottato al Paesaggio e a capo delle 17 direzioni regionali sopravvivono un solo storico dell'arte e un isolato archeologo.Due specie in estinzione. Gli altri sono architetti o amministrativi. Anche qui, naturalmente, molti risultano i reggenti, ben 6 su 17. Ma l'intera dirigenza dei Beni culturali sta al di sopra, mediamente, dei 50 anni. Senza concorsi seri, si va vero l'estinzione, comunque ad un sicuro declassamento. Contanti saluti alla «materia prima» Arte&Storia che fa ancora grande il Marchio Italia nel mondo. Un suicidio anche sul piano strettamente economico.
Ma questa irresponsabile classe di governo che pure porta in allegria il Paese alla «devolution » (70 miliardi di euro di costo), al vertice dei Beni culturali ha pensato bene di aumentare fino a 47 i direttori generali centrali che con Spadolini era 3 e con Veltroni eMelandri 7-8. La situazione è pure nera, nerissima anzi, all'Ambiente dove più che il ministro Altero Matteoli comanda, in realtà, il capo di gabinetto Paolo Togni il quale cumula almeno 5 incarichi. Sempre nella Giornata di Protesta sui Beni culturali e ambientali, il segretario generale aggiunto delWwf, Gaetano Benedetto, ha dipinto questo affresco a tinte fosche: l'attuale maggioranza di governo o non applica le direttive Ue o le attua «in salsa italiana». La pianificazione di area vasta non esiste più. Il Piano nazionale dei trasporti (governo Amato) è stato buttato via. Siamo sotto infrazione europea, oltre che per il Ponte sullo Stretto, anche per la legge sulle acque, con la direttivaUe in materia inapplicata. La legge delega per l'ambiente (ormai incombente), passata alle Camere soltanto per un veloce parere, farà disastri a raffica. Sui rifiuti abbiamo abbassato la soglia delle salvaguardie in modo decisamente pericoloso. Per l'energia il governo ha chiesto nuove centrali a tutto spiano (promosse col decreto Marzano), ma non ha ancora detto di quanta energia abbia bisogno il Paese.
Quindi, non essendoci obiettivi, non esiste una politica per il risparmio energetico, né per le fonti rinnovabili alternative. L'Enel punta al carbone e si riparla di nucleare. «Siamo dunque in rotta di collisione col protocollo di Kyoto», ha sottolineato Benedetto. Il quale ha aggiunto altre pennellate in nero: i tagli ai fondi per i Parchi sono stati continui e pesanti; le nomine alla guida dei medesimi sono state di basso profilo e rigorosamente politiche, anzi partitiche. Infine, le associazioni ambientaliste riconosciute dal ministero sono balzate da 28 a 57. Miracoli dell'ambientalismo? No, del clientelismo politico. Da dove ripartire? Dall'articolo 9 della Costituzione (finché c'è) e dalle direttive dell'Unione Europea in materia ambientale. Per ricostruire Testi Unici, leggi, prassi di governo, dirigenze tecniche, autonome e preparate, al
Adriano Agostini, Giacomo Piran, Un grande centro servizi alle porte di Dolo, La Nuova Venezia, 30 settembre 2005
DOLO. Si torna a parlare di Veneto City, il grande polo del terziario avanzato che dovrebbe sorgere ad Arino. Nei prossimi giorni l'ingegner Luigi Endrizzi - rappresentante dei privati promotori di uno dei più ambiziosi interventi urbanistici previsti in regione - si incontrerà con i tutti consiglieri comunali per illustrare il piano.
Nei giorni scorsi, inoltre, si è tenuto un incontro, cui hanno partecipato i responsabili del Comune di Dolo, di Pianiga, della Regione, della Provincia e dei soggetti promotori, per verificare le procedure prima di dare il via alla conferenza dei servizi necessaria a far partire l'opera. La zona interessata dalla costruzione sarà di circa 640 mila metri quadrati, per la maggior parte nel territorio di Dolo. Una prima bozza di progetto prevedeva la possibilità di edificarvi circa un milione di metri cubi. La cordata di privati a suo tempo puntava alla realizzazione di un grande insediamento terziario, con uffici (si parla della possibilità di trasferirvi parte delle funzioni della Regione), centro congressi, area fiere (si pensa soprattutto ad expo del tessile, dell'elettronica, della meccanica, dell'arredamento e del calzaturiero), un centro moda. E poi, tutto attorno, negozi di media dimensione, parcheggi pubblici su 188 mila metri quadrati e 91 mila metri di aree privare a destinazione varia. Insomma, quello che andrebbe a nascere a due passi dal casello autostradale di Arino, in posizione baricentrica fra Padova e Venezia, sarebbe un centro capace di modificare la struttura direzionale e commerciale di un'area molto vasta, con ricadute possibili (si pensi agli uffici regionali) un po' in tutto il Veneto. Un intervento troppo ambizioso?
Gli imprenditori che il 17 luglio 2002 si sono riuniti a Padova (via Venezia) nella società Arinum srl ci credono. Tale società, a quel tempo controllata dalla Lefim srl (stessa sede, nata il 9 febbraio 2001), ha portato avanti con convinzione la sfida, affidandosi al progettista Luigi Endrizzi. Bisogna capire ora come il progetto si è modificato e adattato alle esigenze del territorio.
La variante urbanistica, come si ricorderà, era pronta per l'approvazione già a marzo, alla vigilia delle ultime elezioni comunali di Dolo. Poi l'allora sindaco Bertolin preferì bloccare tutto e rinviare l'approvazione a dopo le elezioni, provocando una spaccatura con il vicesindaco Ascari. Durante la campagna elettorale maggioranza e opposizione si sono dimostrate concordi nel sostenere - fra le altre cose - che il progetto andava ponderato, facendo attenzione soprattutto all'impatto sulla viabilità e sul territorio circostante. Ora l'amministrazione ha deciso di incaricare un professionista di fornire un parere «pro veritate» riguardante tutta la questione giuridica. «L'intento - spiega il sindaco Antonio Gaspari - è di operare nella massima chiarezza possibile. Questa è una grossa occasione non solo per Dolo, ma anche per tutta la regione. Però le cose devono andare fatte con la massima trasparenza e senza deturpare il territorio». Tutta la questione verte sulle cosiddette opere complementari. «Voglio - spiega Gaspari - la massima collaborazione da parte di tutti i consiglieri, maggioranza e minoranza, perché partecipino alla realizzazione di questa grossa opportunità. La zona sarà un centro attrattivo per il terziario avanzato che tutti ci invidieranno». Il primo cittadino smorza poi le voci su fatto che Veneto City possa uccidere il commercio di Dolo: «I commercianti possono stare tranquilli - sostiene - non verrà creato nessun centro commerciale né supermercato». Tra le possibili istituzioni che dovrebbero trovare posto nel plesso, ci potrebbero essere anche alcune facoltà delle Università di Venezia e Padova.
Renzo Mazzaro, «Costruiremo una città in mezzo alla campagna», La Nuova Venezia, 19 novembre 2005
DOLO. La fotografia che piace di più all’ingegner Endrizzi, è un cane da caccia, un pointer per la precisione, lanciato come un treno verso un bersaglio sconosciuto e fulminato dal teleobiettivo con le quattro zampe sollevate da terra, raggruppate sotto la pancia, in un concentrato di potenza che sta per esplodere. Endrizzi va a caccia. Di terreni, non solo di quaglie o di pernici rosse, come il suo amico Bepi Stefanel.
Vanno a tirare alla pernice rossa nella Mancha con il re Juan Carlos, poi Bepi invita sua maestà in Italia a tirare all’anatra nella tenuta di Dragojesolo. «E’ successo anche poche settimane fa e nessuno ne ha parlato» dice Endrizzi. Meno male. Almeno stavolta i disinformati hanno evitato di dire, come è già accaduto, che il re di Spagna viene a caccia abusivamente in Italia perché è senza tesserino regionale, mentre basta quello vallivo. Provinciali, ci facciamo sempre riconoscere.
Endrizzi ha fiuto per i terreni, come i cani da caccia che alleva. «Avevo per le mani l’area giusta» dice. Ma guarda che combinazione. Cosa si può obiettare a uno così fortunato?
L’area. In quest’area di 550.000 metri quadrati, di cui metà sono già suoi e l’altra metà in fase di accaparramento, tra l’autostrada A4, la linea ferroviaria Padova-Venezia, la stazione fs di Dolo-Mirano e l’innesto del Passante, l’ingegner Luigi Endrizzi, ovvero l’uomo che costruì Padova Est (do you remember Ikea?), ha immaginato una città nuova di zecca e l’ha battezzata «Veneto City». Due milioni di metri cubi, 10.000 posti di lavoro. Dal nulla.
I soci. Il sogno ha contagiato il suo amico di trasferte venatorie Giuseppe Stefanel, imprenditore trevigiano che tra una schioppettata e l’altra ha messo su un impero mondiale dell’abbigliamento. «Credo molto a questo progetto» conferma Stefanel. Un altro trevigiano che mette i soldi è Fabio Biasuzzi, anch’egli appassionato di animali, i cavalli stavolta, ma più noto perché si occupa di cave. In società c’è anche Olindo Andrighetti, imprenditore di Piove di Sacco, nome importante nel commercio internazionale dei legnami, con la figlia Nicoletta. E altri investitori di cui riferiamo a parte.
I capannoni. Nell’area dove sorgerà «Veneto City» per il momento ci sono solo campi, alberi, fossi, strade di raccordo interno, case sparse, aziende agricole. Difficile immaginare una città, anche se qui basta distrarsi un attimo perché cresca un capannone. Nel 2000 la campagna è stata sventrata da una rotonda con una strada di collegamento al casello di Dolo dell’A4: in tre anni il Comune di Pianiga ha venduto le aree. Venduto non rende l’idea. Le ha bruciate. Adesso c’è un capannone attaccato all’altro, una teoria di scatoloni immensi, gli ultimi con la scritta «Affittasi». Il cemento avanza, è il turno di Dolo.
Benemerito. «Mi umiliava fare capannoni» dice l’ingegner Endrizzi, nel nuovo ufficio di Vigonza, guardando le foto dei suoi pointer al galoppo. E’ un benemerito. Anche se ci voleva poco. «Stiamo lavorando con l’università di Venezia e quella di Padova, abbiamo studi di socio-economia alle spalle, vogliamo progettisti di grande qualità, nomi di fama internazionale». Norman Foster e Renzo Piano, dice. Ma senza impegno, perché non c’è ancora l’accordo. «Verranno qui a vedere di che cosa è capace l’architettura ai massimi livelli.
Ci misuriamo con Tokyo, con Hong Kong, non con Trebaseleghe». Alla faccia dello scatto di reni. Speriamo di non doverci misurarci anche con Padova Est.
Il progetto. Adoperiamo le parole dell’ideatore: «Il progetto prevede un centro servizi polifunzionale, ideale baricentro della regione, che sarà la vetrina di tutto il meglio di ciò che si produce nel Veneto ma anche luogo di progettazione di ciò che si produrrà nei prossimi anni»: «un museo della produzione industriale, meta di scolaresche»; «un centro di produzione tridimensionale Aimax che non esiste in Italia»; «strutture di didattica per l’imprenditoria»; «possibilità di acquisire i master, senza andare in America, perché noi vogliamo fare le cose qui»; «sedi di rappresentanza di tutte le istituzioni, dalla Regione fino alle organizzazioni di categoria».
Insomma: «Il Veneto non ha mai saputo realizzare un centro servizi di dimensioni internazionali. Noi pensiamo a competere con Parigi».
Le strutture. «Veneto City» sorgerà su 560.000 metri quadrati, con uno sviluppo di 2 milioni di metri cubi. Ci lavoreranno 10.000 persone, tra occupati diretti e indotto. La maggior parte sarà addetta ai centri di ricerca che occuperanno il 50% della superfice costruita. La città è pensata «sotto forma di alcune torri che si sviluppano in altezza, per lasciare spazio al verde». Non vorremmo fare sfoggio di erudizione peregrina, ma un certo Le Corbusier ci aveva già pensato negli anni ’30: siamo fermi da allora? Attorno al centro servizi, definito il «pianeta centrale», ruoteranno una serie di «satelliti»: si va dagli alberghi, ai negozi, agli impianti per il tempo libero.
Tapis roulant. La determinazione arriva a prevedere lo spostamento della stazione fs di Dolo-Mirano (appena inaugurata) di qualche chilometro in direzione Padova, per farla combaciare con il centro servizi. Una passerella aerea coperta, che Endrizzi mostra in avveniristico disegno al computer («ma niente immagini per il momento») porterà i passeggeri al centro servizi, con un tapis roulant per risparmiare la fatica dei bagagli.
Torre telematica. Alta 150 metri, con immancabile ristorante panoramico all’ultimo piano, concentrerà le strutture per il controllo di tutto il traffico stradale della regioni, incluso quello autostradale. Dal che si profila una probabile partecipazione societaria, decisamente negata invece da Lino Brentan, a.d. della Venezia Padova spa.
Tempo libero. E’ previsto un parco di diversi ettari, solo pedonale. Un «market palace», piastra coperta di piccoli negozi «unica al mondo». E poi cinema, un teatro, piscine, strutture per fitness, megacentro per convegni.
Alberghi. Il «satellite ricettivo» avrà un capacità di 1000 stanze, dalle 3 stelle in su, per graduare l’offerta a seconda della tasca. Disponibilità che nessuno, secondo Endrizzi, è in grado di assicurare oggi in Italia. Chi è del posto può già prepararsi: gli alberghi sorgeranno dietro la pescheria «Gianni & Mirca» di Arino, di fronte all’azienda agricola di Gastone Signori. Invece le stalle, l’essicatoio e gli impianti dell’azienda, incluse le abitazioni, dovrebbero sparire. Sempre se Endrizzi si sbriga, perché a Gastone Signori sta vendendo la mosca al naso: gli hanno fatto un’offerta l’anno scorso, ma non hanno stretto. «I figli non sono più d’accordo vendere, la moglie s’arrabbia perché la casa non è a posto - dice Gastone, un tipo simpatico, grande e grosso, che viene da Piazzola sul Brenta -. Io capisco tutto, ma devono fare i lavori o no? Quando cambio idea, la cambio davvero, eh!».
Paolo Possamai, Una colata di cemento sacrificando Marghera, La Nuova Venezia, 25 novembre 2005
L’affaire Veneto City dichiara nel nome stesso che la questione non riguarda Dolo e comuni limitrofi.
L’operazione Veneto City, lucidamente indagata nell’inchiesta di Renzo Mazzaro per il nostro giornale, chiama in causa i destini dell’area centrale del Veneto. Sarebbe riduttivo, pilatesco, truffaldino se la classe politica e, più in generale, il ceto dirigente veneto delegassero al Comune di Dolo la decisione se urbanizzare 560 mila metri quadrati di terreno. Volendo assumere un termine di paragone, a Verona, alle porte della città antica, è programmato il recupero dell’ex mercato ortofrutticolo, destinandone l’area di 59 mila metri quadrati a nuova city per la finanza veneta. Una cittadella dove dovrebbero a regime lavorare all’incirca tremila persone, dipendenti del gruppo Unicredit, del Banco popolare di Verona, della Cattolica assicurazioni, di altre istituzioni creditizie. L’investimento, promosso da Fondazione Cariverona, Cattolica e Banco popolare è stimato in circa 200 milioni di euro e richiederà almeno 5 anni di tempo quanto all’esecuzione dei lavori.
A Dolo è in gioco un intervento che si sviluppa su un territorio dieci volte più grande di quello di Verona, con una richiesta di edificare 2 milioni di metri cubi. A questo punto, introduciamo subito una domanda semplice semplice, una fra le altre dei tanti quesiti irrisolti: ma se sarà consentito il placet ai privati imprenditori mobilitati per l’urbanizzazione delle campagne di Dolo, che ne sarà del recupero della zona industriale di Marghera? Il polo industriale di Marghera è largamente dismesso, il governatore veneto Giancarlo Galan preme affinché le imprese chimiche cessino ogni attività entro il 2015. Misurando il tempo secondo i cicli di investimento e di ammortamento delle aziende, vale a dire che Galan vuole che la chimica se ne vada da Porto Marghera domani.
Tralasciando un’analisi puntuale sulla opportunità che l’Italia abbandoni il presidio sulla chimica, rimane da capire quali nuove attività economiche potranno effettivamente abitare a Marghera. E qui intendiamo enfatizzare la relazione con Veneto City. Se a Dolo sarà concentrata un’enorme mole di attività direzionali, di industrie innovative, di servizi avanzati, di alberghi, che futuro potrà mai avere Marghera? Se Dolo catalizzerà un imponente volume di investimenti, quanti denari resteranno in circolazione per il recupero delle aree dismesse a Marghera e per l’invenzione di un nuovo destino per la più grande e degradata zona industriale del Nordest?
Sono questioni che giriamo a chi ha responsabilità politica. Le giriamo al presidente della Provincia di Venezia, Davide Zoggia, depositario con le recenti riforme di considerevoli poteri in materia di pianificazione urbanistica. Le giriamo al governatore Galan, che mantiene un ruolo incisivo nella pianificazione territoriale e, più in generale, nella programmazione dello sviluppo economico del Veneto. Le giriamo al sindaco Massimo Cacciari, che fra le altre sfide è chiamato a misurarsi con il futuro possibile di Marghera. Galan, Zoggia e Cacciari esemplarmente incarnano la figura dell’amministratore che deve perseguire il «bene comune», che deve badare all’interesse collettivo. Ebbene, a Zoggia e a Galan chiediamo se il «bene comune» consista nell’assecondare il disegno speculativo di Stefanel, Biasuzzi, Endrizzi, che sono i promotori di Veneto City. Chiediamo a Cacciari, a Galan e a Zoggia come sta assieme il loro annuncio di voler dare un futuro a Marghera e l’operazione di Dolo. Chiediamo a Galan, inoltre, se è vero che Veneto City potrebbe ospitare un polo rilevante di uffici della Regione, perché Dolo sarebbe baricentrica e facilmente raggiungibile dall’intero territorio regionale. Se tale ipotesi fosse veritiera, ci permettiamo di osservare che sarebbe un formidabile volàno, uno straordinario vantaggio competitivo riconosciuto a tavolino ai promotori di Veneto City.
Chiediamo, infine, a Zoggia come possa far rientrare ex post nel suo neonato Piano territoriale provinciale di coordinamento l’urbanizzazione di un’area di 560 mila metri quadrati. Ma Zoggia, annunciando il Ptcp, non aveva detto che era tempo di cessare la cementificazione del territorio? E Zoggia, Cacciari e Galan non sanno forse che il Veneto è già pieno zeppo di capannoni con la scritta «affittasi» o «vendesi» per la semplice ragione che il modello produttivo classico è superato e, abbandonata gran parte della filiera manifatturiera, per cui servono spazi molto meno abbondanti del passato?
A Cacciari, da ultimo, giriamo l’accusa rivolta all’amministrazione comunale di Venezia da Adriana Marinese, primario imprenditore edile-immobiliare, che contesta alla burocrazia di Ca’ Farsetti totale immobilismo, di non dare risposte a programmi di intervento nella prima zona industriale di Marghera, valutati a spanne 500 milioni di euro.
L’immobilismo del burocrate veneziano può divenire l’alibi per chi volesse dare la precedenza a Veneto City.
Maurizio Franceschi, Un «buco nero» sul territorio, La Nuova Venezia, 30 novembre 2005
Il titolo di «città» è una cosa seria. I comuni se ne possono fregiare solo se esso viene loro conferito da uno specifico decreto del capo dello Stato. Gli agglomerati tinta pastello, accozzaglia di vetro plastica, che sorgono lungo le nostre autostrade spesso si fregiano invece del titolo di «city». Come balza all’occhio, è cosa ben diversa.
Un po’ di portici, qualche piazza ben lastricata e grandi parcheggi non bastano infatti a ricreare la storia e la complessità di una vera città. Questi iper-mega-super centri che integrano il commercio all’intrattenimento e ai più disparati servizi alla persona vorrebbero essere città, ma non possono, e quindi diventano «city». Sempre più grandi e accattivanti le «city» alimentano l’unico consumo che non conosce flessioni: quello del territorio. Le zone, commerciali, del tempo libero e del terziario si succedono oggi in modo caotico, lasciando tra di essi solo miseri brandelli di territorio, assediati e dall’aspetto grigio e indefinibile. Eppure continuano a riprodursi senza soste e senza apparente logica.
Kenneth Boulding, economista-ecologista, già negli anni ’60, sosteneva: «per credere che sia possibile realizzare una crescita infinita in una biosfera finita bisognerebbe essere o un pazzo o un economista». In questo caso si tratta di pazzi che, attraverso riuscite speculazioni immobiliari, comunque si riempiono le tasche con fior di soldoni. Le «city» sono diventate sempre più grandi e ingorde, sovvertendo l’ordinata rete gerarchica tra i centri urbani tracciata dalla storia e dai commerci e sconvolgendo la programmazione urbanistica ed infrastrutturale elaborata su ritmi decennali (il Piano Territoriale Regionale di Coordinamento vigente è stato approvato nel 1992) troppo lenti per contrastarli. Veri e propri «buchi neri» che attraggono a sé, insieme alle persone, attività centrali inizialmente nate per essere collocate nel cuore delle città con l’effetto, ben noto, di desertificazione e impoverimento dei nostri centri urbani. L’ultima «city» in progetto rivela, nel nome e nelle dimensioni, le sua ambizioni di grande «capitale» di questa «blob» artificiale che, in pochi anni, ha invasola pianura padana.
«Veneto city» dovrebbe occupare 560 mila metri quadri, nel Comune di Dolo, tra l’autostrada A4, la linea ferroviaria Padova-Venezia, e l’innesto del Passante. Due milioni di metri cubi di cemento, magari «firmato» da qualche grande architetto, dove troveranno posto una piastra coperta di piccoli negozi, cinema, teatro, piscine, strutture per fitness, megacentro per convegni ecc. ecc. Tutte cose sbandierate e promozionate come «innovative» e «mai viste» e che invece sanno già di stantio e sbiadito. In questo caso di «eccezionale» infatti c’è solo la dimensione dell’area: almeno dieci volte più grande di quelle, pur mastodontiche, cui siamo già abituati. Si tratta di dimensioni destinate a moltiplicare in modo esponenziale i costi che conosciamo bene in termini di perdita di qualità del paesaggio, di difficoltà logistiche e infrastrutturali, di incremento della mobilità e dell’inquinamento. A questi si devono poi aggiungere i soldi, presi dalle tasche dei cittadini, e utilizzati per operazioni di riqualificazione, animazione e rivitalizzazione delle città (quelle vere), ma soprattutto la fine di tanti bei progetti (anche questi costosi) che riguardano la riconversione di Porto Marghera e dei siti industriali dimessi. Tutte iniziative che verrebbero messe fuori gioco in un battibaleno dalla realizzazione di un gigantesco magnete, posto al centro della tanto discussa «area metropolitana» destinato ad attrarre, insieme a masse di «consumatori», anche tutti i servizi «rari» localizzati e localizzabili della zona.
Per questo spero che chi ha il dovere di governare il territorio, e soprattutto Province e Comuni, abbia ben chiaro che uno dei grandi compiti dell’urbanistica nei prossimi anni sarà quella di contrastare l’espansione impetuosa di questa e di tutte le altre «city», di progettare accuratamente lo sviluppo necessario in una logica di spazio «restituito» più che «consumato» e di difendere e mantenere, per quanto possibile, i caratteri naturali residui del paesaggio e della vita urbana. Questi sì beni preziosi e soprattutto insostituibili.
Maurizio Franceschi è segretario provinciale Confesercenti
«Se il ponte di Messina è concepito solo come un ponte, una cattedrale nel deserto, senza grandi infrastrutture, collegamenti e reti stradali, siamo contrari. Se, invece, è inserito in una strategia di sviluppo complessivo è un'altra cosa». Con queste parole, pronunciate a Taormina (Messina) poco prima di partecipare a un convegno di Confindustria Sicilia, il segretario dei Ds Piero Fassino ha dato un sostanziale via libera alla mega-opera contestata dagli ecologisti e dalle sinistre di entrambe le sponde dello Stretto. Quando Fassino è salito sul ponte mancavano meno di due ore alla chiusura dei seggi per le comunali di Messina, il capoluogo a 50 chilometri da Taormina. Lì tutto il centrosinistra è schierato contro il ponte mentre le destre sono a favore: Silvio Berlusconi è intervenuto personalmente nella campagna elettorale messinese per promettere 15 mila nuovi posti di lavoro, turismo compreso, se si realizzerà il grande appalto.
Le recenti esternazioni che propongono la realizzazione di un campo da golf nel parco di Bagnoli sono soltanto l’ultima di una serie di preoccupanti esternazioni che denotano - a dir poco - un misto di improvvisazione, leggerezza e autolesionismo di una parte della classe dirigente di questa città. Provo a spiegare perché. Il progetto di riconversione dell’area ex siderurgica di Bagnoli è stata l’iniziativa di punta della manovra urbanistica delle amministrazioni di centro sinistra dell’ultimo decennio. Bagnoli è stata presentata come il simbolo del riscatto, del rinascimento della città.
Qual è il succo della proposta urbanistica? Un grande parco pubblico nell’area una volta occupata da acciaieria e altiforni; un parco che insieme alla spiaggia ricostituita deve rappresentare il riscatto del quartiere di Bagnoli, che ha patito cento anni di inquinamento e costituisce, al tempo stesso, una grande attrezzatura ambientale per l’intera area metropolitana. Un parco intorno al quale realizzare un nuovo insediamento, a bassa intensità edilizia, fatto di alberghi, case e moderne attività produttive. Parco e spiaggia miglioreranno la qualità della vita degli abitanti e faranno crescere il valore immobiliare delle nuove costruzioni. I guadagni procurati dalla vendita a prezzi di mercato di case, alberghi e volumi per la produzione - così valorizzati - possono compensare - ci ha detto il Comune fin dall’inizio - i costi per la realizzazione di parco, spiaggia e altre attrezzature pubbliche. Ricordo che Bassolino sindaco definì a suo tempo - con una felice espressione - questo equilibrio economico virtuoso come economia della bellezza. La gestione di questo complesso e ambizioso processo è stato affidato a una società appositamente costituita, la Bagnolifutura spa. Un prestigioso istituito come il Cresme e una rinomata società come Rothschild hanno successivamente confermato questa ipotesi, senza che nessuno li abbia fino a ora smentiti, per quanto mi risulta: il bilancio economico-finanziario del piano urbanistico attuativo di Bagnoli, come approvato dal consiglio comunale, può essere vantaggioso per i potenziali investitori e quindi pienamente realizzabile, anche in questo periodo di crisi della finanza pubblica.
Chi ha vissuto quel periodo, anche dall’esterno, ma con passione civile e politica, con le lunghe discussioni in consiglio comunale e nei quartieri, non può non ricordare con quanta attenzione e serietà sono state ponderate innumerevoli soluzioni alternative, compresa quella del campo da golf, prima di assumere la decisione finale, ritenuta meglio corrispondente all’interesse generale. Chi oggi vuole mettere in discussione quella decisione è forse in possesso di valutazioni economico-finanziarie che contraddicono gli autorevoli studi che ho ricordato, tanto da privare il quartiere di Bagnoli e l’intera città di quel risarcimento ambientale che il parco pubblico rappresenta? Oppure, come a me pare, si esprime con preoccupante improvvisazione? In questi anni abbiamo imparato che la realizzazione di Bagnoli avviene sotto i riflettori di tutta Italia e forse del mondo intero. Questo è un bene, non fosse altro perché attira molti investitori che sono indispensabili. Ma essere al centro di questa attenzione ci carica anche di responsabilità, perché chi valuta l’opportunità di investire nella nostra città teme soprattutto l’instabilità, la volatilità direi, delle decisioni politico - amministrative. Ecco perché questo continuo mettere in discussione, senza validi motivi, le decisioni appena assunte è un atteggiamento irresponsabile che sfiora l’autolesionismo. Crea sfiducia negli investitori, indebolisce l’azione di Bagnolifutura spa, già messa a dura prova dall’atteggiamento di strisciante e spesso palese ostilità del governo. In democrazia c’è un tempo della discussione - a cui tutti devono partecipare con serietà e possibilmente con passione - e c’è un tempo per realizzare le decisioni democraticamente assunte. Una società che non è capace di rispettare questa regola elementare è una società litigiosa e senza prospettive di progresso. Napoli sta correndo il rischio di cadere in questo terribile errore.
Alcuni documenti sul PRG di Napoli e sui rischi che già si paventavano all'approvazione
Sulla vicenda del piano di Bagnoli anche l'appello del marzo 2004
Ancora una volta si propone di utilizzare l’emergenza per favorire operazioni immobiliari, contro gli interessi collettivi. A Napoli, con il pretesto della candidatura a ospitare la Coppa America, c’è chi propone di modificare il piano urbanistico di Bagnoli, da tempo approvato dal consiglio comunale, grazie al quale è possibile restituire ai napoletani - in sostituzione dello stabilimento Italsider in abbandono da oltre dieci anni - una magnifica spiaggia e un grande parco pubblico. Questa soluzione fu assunta dopo un appassionato dibattito, che coinvolse l’intera città, e dopo aver respinto uno scellerato disegno di speculazione fondiaria, ispirato al modello di Montecarlo.
I sottoscritti, allarmati dalle notizie che circolano in proposito, chiedono al Sindaco di Napoli al Presidente della Regione Campania di impegnarsi a non avallare interventi che mettano in discussione le scelte già democraticamente assunte. In particolare, i sottoscritti chiedono:
- di non consentire il ricorso a strumenti impropri (accordi di programma e simili), funzionali allo stravolgimento delle regole e delle responsabilità istituzionali;
- di non ammettere alcuna ipotesi di conservazione della piattaforma industriale di 20 ettari e dei molti fabbricati che intasano la fascia costiera - di cui va invece confermata la demolizione - per riconfigurare la linea di costa e restituire una spiaggia di un chilometro e mezzo ai cittadini;
- di evitare che, per sistemare alberghi e case di lusso in riva al mare, si possa rinunciare al grande e compatto parco costiero che – insieme alla spiaggia - è la vera grande risorsa per lo sviluppo della nuova Bagnoli;
- di respingere, insomma, il miraggio della “grande occasione” che potrebbe causare a Napoli incalcolabili danni ambientali e un arretramento della coscienza civile e morale.
Napoli, 19 giugno 2003
Edo Ronchi; Salvatore Settis; Alda Croce; Desideria Pasolini dall'Onda, presidente Italia Nostra; Gaia Pallottino, segretario Italia Nostra; Vittorio Emiliani, presidente comitato per la bellezza; Bernardo Rossi Doria, urbanista; Pier Luigi Cervellati urbanista; Vezio De Lucia, urbanista; Edoardo Salzano, urbanista; Aldo Masullo, professore emerito di filosofia morale “Federico II”; Piero Craveri, preside della Facoltà di L ettere del Suor Orsola Benincasa; Guido Donatone, presidente Italia Nostra Napoli; Aldo De Chiara, magistrato; Luigi Scano, segretario Associazione POLIS; Marco Parini, consigliere nazionale Italia Nostra; Francesco Canestrini, consigliere nazionale Italia Nostra; Paolo Ferloni, consigliere nazionale Italia Nostra; Menuccia Fontana, consigliere nazionale Italia Nostra; Mirella Belvisi consigliere nazionale Italia Nostra; Maurizio Sebastiani; Gaetano Palumbo; Sandra Pinto; Maria Antonietta Di Bene; Antonio Verlato,; Elvira D'Amicone (direttore egittologo Museo Egizio Torino); Maria Rosaria Iacono, Italia Nostra; Graziella Beni, urbanista; Mauro Baioni, urbanista; Claudio Bertolini, urbanista,; Pier Giorgio Lucco Borlera, architetto; Teresa Cannarozzo, urbanista; Giovanni Caudo, urbanista; Antonio di Gennaro, agronomo; Carlo Iannello, fondazione per la tutela del paesaggio; Dario Franchini, urbanista; Tommaso Giura Longo, architetto; Marco Guerzoni, urbanista; Massimo Ferrini, ingegnere; Raffaele Radicioni, urbanista; Rodolfo Sabelli, architetto; Dusana Valecich, urbanista; Maria Rosa Vittadini, architetto; Maurizio Sebastiani; Gaetano Palumbo; Sandra Pinto; Maria Antonietta Di Bene; Antonio Verlato
Il fatto nell’articolo di Craveri
Il piano nel sito del Comune di Napoli (Casa della città):
http://www.comune.napoli.it/urbanistica/Notiziario/html/pue_bagnoli/doc_puebagn/relazione_puebagnoli/immagini_rel_puebagn/album_pue.htm
Napoli è un grande cantiere. Si scava in piazza Municipio, in piazza della Borsa, in piazza Nicola Amore, si scaverà in piazza Garibaldi e altrove. Vede la luce una rete di metropolitana che dovrebbe condurre la città simbolo di un traffico paralizzante verso un futuro diverso, fatto di meno macchine e di più spazi pedonali. Una metropolitana vuol dire anche stazioni: perché limitarsi a soluzioni puramente ingegneristiche e non trasformare questi luoghi in oggetti architettonici di pregio, con sistemazioni urbane di qualità e che invoglino a usare sempre di più il mezzo pubblico su ferro eliminando il profilo dimesso, punitivo che spesso comunicano tunnel, scale mobili e piattaforme? Perché non arricchire di valori estetici un grande servizio pubblico, coniugando funzionalità e cordialità? Sono state queste le domande che, più si andava avanti con la pianificazione della rete di trasporti, ci si è posti negli uffici dell’amministrazione comunale. Ed è così che sono nate le stazioni dell’arte che sono il perno di un’esposizione allestita in un padiglione della Mostra d’Oltremare. La rassegna si intitola Al futuro. Architetture e infrastrutture per lo sviluppo a Napoli e in Campania, è promossa da Regione e Comune ed è curata dalla Fondazione Annali dell’Architettura, da Benedetto Gravagnuolo, Alberto Ferlenga e Fiammetta Adriani (il catalogo è un allegato del numero di ottobre di Casabella).
La buona architettura non può prescindere mai da una buona urbanistica, si è spesso detto, e si è talvolta praticato (a Bilbao, per esempio). E in effetti immaginare la trama profonda di una pianificazione avviata nel 1994 con la prima giunta di Antonio Bassolino, assessore Vezio De Lucia, è indispensabile per capire il senso di questi progetti, commissionati dal Comune (responsabile del piano dei trasporti è Elena Camerlingo) e affidati ad architetti italiani e stranieri (da Gae Aulenti a Michele Capobianco, da Alessandro Mendini a Domenico Orlacchio, fino ad Alvaro Siza e Dominique Perrault). Occorre innanzitutto guardare cosa corre sotto terra (un reticolo che, a progetto ultimato, prevede quasi 90 chilometri di binari, 98 stazioni, 18 nodi di interscambio) per afferrare il valore di architetture che lasciano un segno in contesti difficili (Materdei o Salvator Rosa) oppure si innestano su scenari già spettacolari, come piazza Dante o il Museo Nazionale. Ovunque sbuchino, le stazioni hanno anche il compito di offrire spazi pubblici, luoghi di incontro e di socialità in quartieri che ne soffrono l’assenza. A Monte Sant’Angelo, ai bordi del Rione Traiano, storica periferia disagiata, sorgerà non una stazione dell’arte, ma una vera stazione d’arte: una grande struttura d’acciaio a forma di bocca, realizzata dallo scultore Anish Kapoor. La rete metropolitana si incarica dunque anche di ricucire il tessuto della città, dal centro alle periferie, quelle dell’abusivismo di Pianura e quelle degli insediamenti pubblici di Scampìa, allargandosi poi a tutto il territorio provinciale e quindi dilatandosi verso quello regionale. Sono tutti elementi di una "cura del ferro" senza la quale le stazioni non avrebbero avuto il significato che hanno.
La mostra si concentra però esclusivamente sulle architetture, affiancando a quelle della metropolitana, altre stazioni, a cominciare da quella della Tav, firmata da Zaha Hadid, la cui ultimazione è prevista per il 2008. L’architetta anglo-irachena sigla anche la nuova stazione marittima di Salerno, mentre a David Chipperfield è affidato il palazzo di Giustizia della stessa città: entrambi questi progetti sono esposti, mentre tuttora prosegue il dibattito sul piano regolatore della città, opera di Oriol Bohigas, un piano ispirato a principi di spinta deregulation, eppure accettato con tante riserve dalla stessa amministrazione comunale, che avrebbe voluto consentire molte operazioni giudicate di pura valorizzazione immobiliare.
Fra gli altri progetti esposti anche alcuni non legati a infrastrutture, come quello di Renzo Piano per il Cis di Nola (in corso di realizzazione) e quello di Vittorio Gregotti per il Centro Nazionale di Protezione Civile che dovrebbe sorgere a Scampìa (ma per questo insediamento non ci sono previsioni). Figurano poi il restauro del Tempio Duomo al Rione Terra di Pozzuoli (opera di Marco Dezzi Bardeschi), o gli allestimenti del Madre, il Museo d’arte a Donnaregina (Alvaro Siza) e del Pan, il Palazzo delle Arti in via dei Mille (Di Stefano, Defez, Guida). Un singolare effetto, poi verificabile dal vivo, producono i plastici di strutture presenti nella Mostra d’Oltremare - la Piscina olimpionica, l’Arena Flegrea e l’immensa Fontana dell’Esedra - che furono opera della migliore architettura napoletana dei primi anni Quaranta (Carlo Cocchia, Giulio De Luca e Luigi Piccinato) e che sono stati sottoposti a un prezioso restauro, coordinato da Marisa Zuccaro (De Luca ha progettato il recupero della "sua" Arena).
Le cinque stazioni dell’arte sono state realizzate fra il 2001 e il 2003 e sono state esposte alla Biennale di Venezia. Alcune di esse, a via Salvator Rosa, a Materdei e in via Cilea, si sono trasformate in contenitori d’arte contemporanea, sotto la regia di Achille Bonito Oliva, e ora ospitano opere, fra gli altri, di Renato Barisani, Enzo Cucchi, Sergio Fermariello, Nino Longobardi, Mimmo Paladino, Gianni Pisani, Mimmo Rotella ed Ernesto Tatafiore.
Al Museo Nazionale ha lavorato Gae Aulenti, riempiendo gli spazi con sculture e calchi provenienti dalla collezione archeologica. Assolutamente innovativa è in genere la collaborazione con la Soprintendenza archeologica. Le opere pubbliche, e in particolare gli scavi per le metropolitane, hanno sempre vissuto l’indagine sui reperti antichi come un fastidioso ostacolo. Nel caso napoletano le due competenze si sono intrecciate ed hanno prodotto fondamentali conoscenze storiche sulle dimensioni della città greco-romana, per esempio in piazza Municipio, dove il progetto di Alvaro Siza produrrà, scrive Benedetto Gravagnuolo, un «irripetibile connubio tra antichità e contemporaneità».
Chiude il catalogo l’assai discusso progetto di Auditorium a Ravello, firmato da Oscar Niemeyer, ma poi portato a termine dagli uffici del Comune amalfitano. L’intervento ha diviso architetti e urbanisti ed è stato duramente contestato da alcune associazioni ambientaliste (altre lo hanno difeso), che hanno ottenuto dal Tar il suo annullamento, perché in contrasto con il piano paesistico della Costiera. Poi il Consiglio di Stato, per un vizio di procedura, ha dato il via libera al progetto. L’Auditorium figura nel catalogo, ma non nella mostra. «Non ci sono arrivati i disegni», è la spiegazione ufficiale.
Che cos'è il piano dei trasporti di Napoli
Un articolato dibattito internazionale e nazionale sui meccanismi che presiedono l’adozione delle politiche pubbliche per il territorio reclama una partecipazione della società civile nell’elaborazione dei processi decisionali maggiore rispetto a quella prevista e consentita dalle politiche urbanistiche di tipo tradizionale. Si auspica in altre parole la ricerca di forme di elaborazione politica bottom up attraverso pratiche negoziali e di contrattazione, da integrare con quelle top down criticate come scarsamente partecipative e fortemente centraliste e dirigiste.
Ma se questa letteratura si fa portatrice di istanze volte a legittimare nella configurazione e nel governo degli spazi e dei luoghi gli interessi di coloro che vi risiedono (la comunità, lo sviluppo locale etc.), sembra tuttavia sottovalutare la funzione sociale e collettiva del territorio urbano nella sua componente eminentemente naturale. Una funzione che non può essere soddisfatta attraverso la sommatoria di interessi compositi anche se legittimi e rilevanti. Le esigenze che tale carattere implica – per esempio non si può negoziare su alcuni interventi di tipo ambientale - ha in qualche modo sotteso ed ispirato l’intera tradizione urbanistica europea fin dalle sue origini. E, d’altra parte, l’esigenza di un funzionamento corretto e non distruttivo dei meccanismi che regolano la città come realtà ecosistemica complessa è implicita nella materia urbanistica, e ciò è vero anche prima dell’affermazione dei movimenti e delle associazioni ambientaliste così come le conosciamo oggi.
Il sorgere di una serie di atteggiamenti critici nei confronti delle politiche urbanistiche di tipo tradizionale, d’altra parte, nasce in gran parte dalle forme che esse hanno assunto nelle principali città italiane nel corso degli ultimi decenni. Vezio De Lucia ha a questo proposito introdotto la definizione di urbanistica sostenibile ed urbanistica non sostenibile, intendendo con la prima espressione il controllo pubblico delle trasformazioni territoriali attraverso la pianificazione ordinaria, e con la seconda, invece, la pratica diffusamente accettata in alcune amministrazione comunali – Milano e Roma ad esempio - di adattare o modificare il piano a seconda delle istanze e dei progetti privati attraverso norme in deroga. Il contributo che l’analisi storica può fornire a questo dibattito è quello di inidividuare quando e come le politiche urbanistiche hanno garantito i meccanismi di riproducibilità delle risorse naturali producendo ricadute positive su un’intera realtà urbana.
Nonostante il ruolo marginale che le tematiche ambientali hanno svolto in Italia all’interno della pratica urbanistica almeno fino ai primi anni ottanta - anche quando gli urbanisti italiani hanno frequentato scuole ed autori stranieri maggiormente sensibili ad esse, hanno assunto prevalentemente aspetti diversi da quelli ecologici - non sono mancati esempi che risalgono agli anni sessanta e settanta che mostrano una attenzione da parte della cultura urbanistica alla qualità del territorio, sebbene limitata ad alcuni elementi: i centri storici, le adiacenze dei centri storici, le colline e il paesaggio agrario. A tale proposito basti qui ricordare: le battaglie culturali e politiche in difesa per impedire gli sventramenti dei centri storici, la pianificazione del centro storico di Siena e delle sue pendici naturali ad opera di Ranuccio Bandinelli e Luigi Piccinato; la difesa delle colline di Firenze e Bologna con i piani, rispettivamente, di Edoardo Detti, urbanista e assessore, e di Giuseppe Campos Venuti; il piano regolatore di Assisi di Giovanni Astengo; il piano per il centro storico di Bologna di Pier Luigi Cervellati. A ciò si aggiungano il piano di recupero del centro storico di Matera, il piano comprensoriale di Venezia, il progetto Fori a Roma.
Ma la di là del ruolo e dell’importanza che la tutela ambientale ha assunto nell’ambito di piani e di progetti, occorre capire in che misura le politiche urbanistiche hanno prodotto effetti concreti positivi sul piano ambientale e cioè in termini di riduzione del consumo del suolo, di miglioramento della qualità dell’aria e dell’acqua, di interruzione di processi abusivi di uso delle risorse e di salvaguardia del verde. Certo nessuno è in grado oggi di mostrare che cosa sarebbe accaduto al nostro territorio se anche i vincoli e le norme definiti dalle politiche pubbliche fossero stati rimossi. Non esistono dati calcolati sulla base di indicatori precisi per valutare la loro ricaduta reale. E’ possibile, tuttavia, individuare attraverso una disamina più approssimativa alcuni effetti concreti di tutela ambientale di lungo periodo che tuttora sopravvivono. A tale proposito il caso di Napoli si è venuto configurando come caso di successo e come tale è ritenuto da una parte autorevole della letteratura territorialista italiana.
In controtendenza con i casi di altre grandi città italiane, Napoli vede l’approvazione nel luglio del 2004 di un piano regolatore che lungi dall’ispirarsi ad un principio di espansione regolata della città, si fonda invece sulla tutela dell’integrità fisica del territorio. Il piano rappresenta l’esito finale di un processo più lungo e complesso che prende avvio nei decenni precedenti dall’adozione di un modello di pianificazione fondato su una concezione della città che attribuiva una grande importanza al carattere produttivo della natura ed alla sua intima e profonda attività sinergica con la società. E, d’altra parte, a Napoli la questione ambientale si era venuta configurando fin dagli anni settanta in una maniera più drammatica rispetto ad altre città italiane per l’alto livello di inquinamento atmosferico e marino, per la scarsa quantità di aree verdi, per la quasi totale copertura e cementificazione del territorio comunale, per i frequenti fenomeni di dissesto idrogeologico etc. In quest’area la questione ambientale si era venuta ponendo come una questione di sviluppo equilibrato tra attività umane e risorse naturali.
Articolata in momenti diversi la fase storica che ha condotto all’adozione del piano regolatore si riconnette all’elaborazione del “piano delle periferie” (1978-1980) che trovava attuazione durante i primi anni della ricostruzione seguita al terremoto del novembre del 1980. La continuità che caratterizza il percorso che dalla fine degli anni settanta giunge fino ad oggi è essenzialmente una continuità di gruppo: molti sono i protagonisti dei precedenti interventi ancora presenti nel pool degli urbanisti che prestano la loro opera per il Comune. Nel corso degli anni ottanta furono dunque ricostruiti e riqualificati più di 13.000 alloggi situati in dieci comuni dell’hinterland napoletano secondo una serie di intervento volti a fornire una soluzione non solo al problema della casa in senso stretto, ma ad una più generale esigenza di miglioramento delle condizioni abitative e della qualità della vita. L’operazione urbanistica consisteva sia nella ristrutturazione dei centri storici e nel mantenimento delle comunità preesistenti nei luoghi di nascita, che nell’istituzione di parchi, asili e scuole.
Ma se durante la seconda metà degli anni ottanta si assisteva ad un restringimento degli spazi politici che avevano consentito la realizzazione del piano delle periferie, essi si riaprivano durante i primi anni del decennio successivo. I valori ed i principi che avevao ispirato il piano delle periferie e la sua attuazione vengono ripresi e rafforzati in una modello di intervento urbanistico che trovava la sua compiuta espressione negli Indirizzi di pianificazione redatti nel 1993 dall’allora assessore all’Urbanistica Vezio De Lucia nella fase iniziale della prima giunta diretta dal sindaco Antonio Bassolino. Nel loro complesso gli Indirizzi predisponevano una riorganizzazione ecologica della città che si proponeva di affrontare non solamente il problema della riabilitazione e della riqualificazione urbana, ma anche più in generale, quello della qualità dell’ambiente e dell’integrità fisica del territorio: l’inquinamento dell’aria, dell’acqua, dei suoli, la gestione delle risorse, il trattamento dei rifiuti, il controllo del dissesto idrogeologico.
Gli Indirizzi trovavano nel corso degli anni successivi due concrete realizzazioni con l’adozione della Variante di Salvaguardia e della Variante alla zona nord-occidentale (o variante per Bagnoli) al piano regolatore del 1972. Per ciò che riguarda gli aspetti più propriamente ambientali ambedue le politiche predisponevano l’adozione di provvedimenti volti da una parte a ridurre il consumo del suolo e la cementificazione del territorio comunale, e dall’altra a favorire la mobilità interna per abbassare il tasso di motorizzazione e l’uso del trasporto urbano.
La vera innovazione consisteva nel vincolare sine die i residui del territorio rimasti inedificati: 4000 ettari di aree agricole, incolte a naturali. Per la prima volta nella storia dell’urbanistica italiana si progettava di migliorare le qualità abitative senza ricorrere a progetti di accrescimento e di espansione della parte edificata della città. Nel vincolare queste aree si prevedeva la costituzione di una serie di parchi. Tra i principali si ricordi qui l’istituzione del parco metropolitano delle colline di Napoli che copre un’area di 2.215 ettari e costituisce il 20% del territorio cittadino. Le finalità dell’istituzione del parco non sono solo volte a preservare i valori ambientali, naturalistici e paesaggistici di queste zone, ma anche a garantire un regolare funzionamento dei meccanismi ecologici per l’intera area metropolitana. Nell’ambito di una concezione di riabilitazione della città diretta a garantire le condizioni di sostenibilità urbana senza accrescere le parti costruite rientra anche quanto predisposto per le sue zone più antiche.
Per il centro storico infatti non si sono previsti sventramenti e spostamenti della popolazione, bensì una serie di interventi (anche immediati qualora i privati lo avessero voluto) di restauro volti a recuperare e conservare le sue parti sia materiali che sociali, e cioè abitazioni, monumenti, spazi pubblici, tradizioni commerciali ed artigianali. Nell’area deindustrializzata di Bagnoli nella zona nord-occidentale, inoltre, ex sede di uno dei principali complessi siderurgici italiani, il territorio viene vincolato alla istituzione di due parchi che corrispondono a circa i due terzi del territorio interessato dalla variante ed alla restituzione alla fascia di territorio bagnata dal mare delle sue condizioni normali di balneabilità.
Per ciò che riguarda, invece, gli interventi sulla mobilità nel 1997 fu adottato il Piano comunale dei trasporti come era previsto e predisposto dalla Variante di Salvaguardia volto a incrementare un sistema di trasporti su ferro basato su 5 interscanbi ad uno formato da 18 luoghi di interscambio e 16 nodi intermodali tra strade e ferro. Già negli Indirizzi di pianificazione i problemi della mobilità a Napoli sono concepiti come un problema fondamentalmente urbanistico. Lo sono nella misura in cui riguardano le insufficienze strutturali relative alla dotazione delle reti di trasporto pubblico con particolare riguardo a quelle su ferro. E’ stato infatti calcolato che nel corso degli anni novanta il 70% dell’inquinamento atmosferico in ambito urbano era provocato dal traffico veicolare.
I caratteri specifici delle politiche pubbliche per la città adottate a Napoli dalla fine degli anni settanta ad oggi derivano dalla presenza di una combinazione di fattori che ha consentito il configurarsi di un contesto favorevole all’adozione di interventi per il territorio che si possono definire sostenibili: l’esistenza di un gruppo di professionisti legati a quel pezzo della cultura nazionale che fin dagli anni sessanta si era andata opponendo ad una concezione della crescita urbana ad oltranza, un movimento di lotta per la casa che fondava le proprie istanze sulla qualità della vità e del territorio, la nascita nell’ambito del dibattito culturale e politico nazionale di una “questione ambientale” a Napoli, l’apertura di spazi politici all’interno dei quali trovare sostegno nella realizzazione di un controllo pubblico delle trasformazioni territoriali.
Barbanente Angela, Sviluppo locale, nuova programmazione e pianificazione territoriale, in corso di stampa per “Meridiana. Rivista di storia e scienze sociali”, n.50, 2004;
De Lucia Vezio, Urbanistica e ambientalism, in “I frutti di demetra. Bollettino di storia e ambiente, n.1, 2004;
De Lucia Vezio, Urbanistica sostenibile e non sostenibile. Un confronto tra città, in “Meridiana. Rivista di storia e scienze sociali”, n.42, 2001, pp.45-52;
Corona Gabriella, La sostenibilità urbana a Napoli. Caratteri strutturali e dinamiche storiche, in “Meridiana. Rivista di storia e scienze sociali”, n.42, 2001, pp.45-52;
Dispoto Giovanni, Il parco metropolitano delle colline di Napoli, in “I frutti di demetra. Bollettino di storia e ambiente”, n.3, 2004, pp.59-62;
Sullo P.(a cura di), La democrazia possibile. Il Cantiere del Nuovo Municipio e le nuove forme di partecipazione da Porto Alegre al Vecchio Continente, Intra Moenia, Napoli 2002;
Salzano Edoardo, Fondamenti di Urbanistica, Editori Laterza, Roma-Bari, 1998.
Quello che è stato bloccato dalla partecipazione popolare vorrebbero reintrodurlo. Vorrebbe reintrodurlo un assessore regionale dei diesse. Il soggetto? La possibilità di edificare migliaia e migliaia di metri cubi. La possibilità, per la rendita immobiliare, per gli speculatori di continuare ad inventarsi case, supermercati, interi quartieri. A Roma, nelle zone periferiche di Roma. I giornali in questi giorni, soprattutto nelle pagine locali, sono pieni di titoli e notizie sulle difficoltà che su questo tema stanno incontrando le maggioranze dell’Unione che governano la capitale, la sua Provincia e il Lazio. Qualcuno ha anche scritto che Rifondazione sarebbe stata ad un passo dal ritirare i propri assessori.
Comunque sia, Rifondazione ha deciso di puntare i piedi. Ed ecco perché. Tutto comincia nel 2002, con l’avvio dell’iter legislativo sul nuovo piano regolatore di Roma. Rifondazione, assieme ad altri pezzi della sinistra ma soprattutto assieme ai movimenti e alle organizzazioni di base, riesce ad imporre che quel documento sia discusso davvero nella città e dalla città. Ed è un metodo che paga. Perché la partecipazione delle persone e delle associazioni riesce a modificare il progetto di crescita della città. Per capire: viene cancellato dal piano regolatore quel meccanismo che si chiama della «compensazione».
Due parole per spiegarlo, anche se il termine tecnico già fa intuire di che si tratta. Esistono casi - e in una città come Roma ne esistono innumerevoli - nei quali una zona viene vincolata: a verde, a servizi, eccetera. I proprietari di quei terreni «vincolati» potrebbero però vantare dei diritti a costruire. Ad edificare. Si ricorre così - meglio: si ricorreva - alla «compensazione »: i titolari delle zone in questione rinunciano alle loro pretese, in cambio della possibilità di costruire altrove.
Una pratica che ha permesso di governare l’emergenza urbanistica, che ha anche permesso di garantire una crescita della qualità abitativa ma che certo non può essere il metodo del futuro. Proprio per questo, la discusssione partecipata del piano regolatore ha imposto lo stop alla logica della «compensazione ». Si disse che da allora in poi a quello scambio non si sarebbe più fatto ricorso. Qualora fosse stato necessario si sarebbero utilizzati i normali strumenti previsti dalle leggi, a cominciare dall’esproprio. Fu questo l’impegno preso da tutte le forze della coalizione. Si fissò un tetto (e non piccolo): sessanta milioni di metri cubi. Oltre quella cifra, non si sarebbe più potuto edificare nulla nella capitale: nè una casa, nè un hotel, nè un garage.
Qualcuno - nella città di Caltagirone - la prese a male. E non si rassegnò. E si arriva così a qualche settimana fa. Quando l’assessore all’urbanistica, e vice presidente della giunta regionale, Massimo Pompili, diessino, annuncia in una conferenza stampa, che sarà reintrodotto il metodo della «compensazione ». Quello scambio, insomma, che offre ai palazzinari la possibilità di continuare a costruire. Il tutto, viene presentato dentro un pacchetto di norme che un po’ pomposamente viene chiamato «poteri speciali per Roma ». Ma che in realtà si occupa quasi solo di urbanistica, di leggi urbanistiche. E dentro questo progetto, fatto precedere da un lungo ragionamento sulla necessità di velocizzare le procedure per la discussione e l’applicazione dei piani regolatori, ecco quello che ormai tutti conoscono come il «famigerato articolo 3». Nè più, nè meno che ciò che la consultazione popolare era riuscito a cacciare: la possibilità per i costruttori di accedere alla «compensazione». Attenzione anche alla scelta dei tempi. Il Comune proprio in queste settimane sta discutendo delle «controdeduzioni» - come si chiamano - delle varie critiche e controproposte al piano regolatore della città (lo prevede l’iter per la definitiva approvazione). E un progetto come quello del vice di Marrazzo ha subito riaperto il cuore alla speranza di chi vuole continuare ad edificare. Perché quell’articolo si tradurrebbe concretamente nella possibilità di costruire altri milioni di metri cubi.
Il tutto, lo si diceva, presentato in conferenza stampa. Senza che Pompili ne avesse informato i partiti alleati. Sicuramente non Rifondazione. Da qui, i toni duri, aspri dei giorni scorsi. Che comunque, un risultato l’hanno raggiunto. Chi sa delle vicende amministrative di Roma e dintorni dice che gli stessi diessini sono alla ricerca di una via d’uscita e che comunque quel testo non sarà presentato così alla giunta regionale.
Ma resta lo «strappo». «E sia chiaro - dice Patrizia Sentinelli, capogruppo di Rifondazione in Campidoglio - ci possiamo anche trovare d’accordo sulla necessità di snellire le procedure. Ma altra storia è quell’articolo 3. Quello riaprirebbe la corsa alla stagione dell’urbanistica “contrattata” che negli anni scorsi ha favorito solo le speculazioni edilizie e le rendite finanziarie». Che è esattamente lo stesso obiettivo che, su più larga scala, si è proposta la destra al governo del paese, con l’altrettanto famigerata legge Lupi. E vanno fermate l’una e l’altra.
s. b.
Nell’articolo si afferma, riportando un’opinione corrente, che i proprietari vincolati “potrebbero però vantare dei diritti a costruire” se il precedente PRG glielo avesse consentito. E’ una balla, diffusa dai redattori e dai propagandisti del PRG. Qualunque giurista serio (o solo informato) sa che non è vero. A meno che non siano stati rilasciati atti abilitativi (concessioni edilizie o simili) nessuna previsione di edificabilità prevista da un piano regolatore generale, e perfino da un piaino di lottizzazione già convenzionato, comporta oneri per il comune in caso che, motivatamente, la modifichi con un piano successivo. Proprio in occasione del PRG di Roma feci una piccola ricerca, che autorevoli giuristi hano convalidato e che nessuno ha contestato: eccola qui.
Qui il documento che ha aperto le critiche (e le correzioni) al PRG di Roma. E qui altri documenti sul recente PRG di Roma
L'imponente manifestazione di mercoledì in val Susa per dire no alla Tav non ha impressionato la presidente della regione Mercedes Bresso. «Il progetto dell'alta velocità c'è, è quello e potrà essere modificato sulla base dei sondaggi. Ma il progetto va avanti, non è in discussione».
Presidente, i settantamila di mercoledì chiedevano ascolto.
Mah, avrei dei dubbi su questo. Dicendo no a priori è difficile dialogare. Se invece si dice: lavoriamo a migliorare il progetto, a minimizzare gli impatti locali e a valorizzare al massimo risorse che possono essere messe a disposizione della valle per un progetto di rinaturalizzazione, allora possiamo discutere.
I cittadini e gli amministratori della valle mettono in discussione l'utilità dell'opera.
Mi scusi, ma non tocca agli abitanti della val Susa metterla in discussione. L'Unione europea, lo stato italiano, lo stato francese, la regione Piemonte la pensano diversamente. Se il tema è che hanno deciso loro che l'opera è inutile, mi spiace ma tocca ad altri decidere. Mettiamo pure che abbiamo torto, comunque tocca a chi risponde a territori più vasti, ad esigenze economiche più vaste prendere decisioni. L'economia va sempre più avanti sulla logistica. Si producono servizi, cioè modificazioni di beni che arrivano dall'estremo oriente, dall'India, dall'Africa, confezionamenti, montaggi. Inoltre il Mediterraneo è lì, dalla Cina, dall'Africa, dall'India si verrà sempre di più attraverso il Mediterraneo: il porto di Genova, Barcellona, Marsiglia, Trieste. Il corridoio 5 è il grande asse di ridistribuzione delle merci al di sotto delle Alpi. Uno può dire che non gliene frega niente, però l'analisi che fa l'Europa, che facciamo noi, è diversa. Se non sono d'accordo, non tocca comunque a loro decidere, e neppure al primo che passa per la valle che non conosce il progetto e che in valle ci va solo per protestare.
Ma perché non prendere in considerazione l'alternativa proposta dalla valle, di riaggiustamento della linea storica?
Quello è in realtà un progetto complementare. La linea esistente è già in rimodernamento. Il traforo del Frejus ha 135 anni ed è in corso di rimodellazione per allargarlo, con cautela, naturalmente, in modo da consentire il passaggio dei treni con tir montati o rimorchi. Sono interventi necessari perché la Torino-Lyon sarà realizzata fra 10-15 anni. Se si parla di fare tunnel di base e poi andare al quadruplicamento in asse, allora si parla di un altro progetto che è già stato valutato e bocciato. A me sembra difficile allo stato attuale della progettazione tornare indietro. Abbiamo già il preliminare approvato e si sta facendo il definitivo: il tracciato è già stato deciso. In opere di questo genere, tornare indietro significa sì buttare soldi pubblici. Quando uno parla da lontano, senza mai aver guardato una carta, studiato la valle - perché quelli sono andati giusto a fare la manifestazione e hanno cominciato a parlare prima della manifestazione - può dire qualunque cosa. Io ho sempre detto agli amministratori della valle che sarebbe stato meglio sedersi sul serio attorno ai tavoli, cioè trattare. Perché meno si tratta e si dice no e basta, più le cose vanno avanti senza di te.
Però la valle è compatta nel suo no alla Tav.
Non mi pare proprio ci sia un fronte compatto. Gli amministratori sono ostaggio di quelli che, essendo contro, li tengono sotto tiro, non fisico ma morale. L'ultimo sondaggio di Repubblica realizzato in valle dà il 51% a favore della Tav, malgrado la disinformazione totale. Perché ormai è impossibile andare in valle a fare informazione. Lo apro domani il centro informazione in val Susa se non me lo vanno a bruciare. Adesso lo apriremo a porta Nuova, dove comunque la gente della valle potrà andare ad informarsi. In Piemonte la media di favorevoli è il 70%. Siamo dunque in presenza di una minoranza robusta e rumorosa. Come sempre le minoranze fanno questo. Se tutti ti dicono che morirai, diventi contro. Il problema è che non morirà nessuno lì, nessuno è mai morto di un treno. I lavori avverranno in sicurezza. L'Arpa ci dice che dove passa il tunnel di base non c'è amianto e le quantità possibili di uranio sono irrisorie e di nessun pericolo. E l'Arpa è più affidabile di chi da lontano parla a vanvera di queste cose.
I finanziamenti europei ci sono o no?
Sì, ci sono finanziamenti europei per fare i progetti e che, assieme a quelli dei due stati, servono tra l'altro per la galleria di Venaus. Quando sarà approvato il progetto ci sarà il finanziamento per il tratto internazionale, che ancora deve essere deciso ma che può essere tra il 20 e il 50% dei costi definitivi di quella tratta.
A giorni potrebbero partire i lavori del tunnel di Venaus. Sindaci, cittadini e comitati hanno già detto che non lasceranno che i lavori comincino.
La sua posizione?
La cosa è già decisa. Venaus è appaltata. L'azienda sta aspettando di fare i lavori, si stanno pagando le penali. Non c'è nulla da decidere, c'è solo da fare. L'unica cosa che si potrà fare è quella di sospendere eventualmente i lavori nel periodo olimpico per evitare tensioni.
È in corso la redazione del Piano paesaggistico regionale (PPR) della Sardegna. Al piano è affidato, tra l’altro, la definizione di una disciplina delle aree costiere, tutelate provvisoriamente con una legge di salvaguardia che impedisce le trasformazioni per una fascia di 2mila metri di profondità. Tra le strutture che collaborano alla redazione del piano è stato costituito un Comitato scientifico. Ecco (dai miei frettolosi appunti) alcune delle parole che il Presidente della Regione autonoma ha pronunciato nell’introdurre i lavori del Comitato. il 27 aprile 2005.
Abbiamo deciso di redigere il piano all’interno delle nostre strutture, utilizzando tutte le risorse umane e organizzative di cui la Regione dispone, anziché affidarci a studi professionali esterni. Abbiamo costituito il comitato scientifico, con tutte le competenze che ci sono apparse necessarie (e che siamo pronti a integrare, se lo si riterrà opportuno), sia per avere il supporto scientifico necessario, sia perché ci aiuti a crescere.
Che cosa vorremmo ottenere con il PPR? Innanzitutto vorremmo difendere la natura, il territorio e le sue risorse, la Sardegna; la “valorizzazione” non ci interessa affatto. Vorremmo partire dalle coste, perché sono le più a rischio. Vorremmo che le coste della Sardegna esistessero ancora fra 100 anni. Vorremmo che ci fossero pezzi del territorio vergine che ci sopravvivano. Vorremmo che fosse mantenuta la diversità, perché è un valore. Vorremmo che tutto quello che è proprio della nostra Isola, tutto quello che costituisce la sua identità sia conservato. Non siamo interessati a standard europei. Siamo interessati invece alla conservazione di tutti i segni, anche quelli deboli, che testimoniano la nostra storia e la nostra natura: i muretti a secco, i terrazzamenti, gli alberi, i percorsi - tutto quello che rappresenta il nostro paesaggio. Così come siamo interessati a esaltare la flora e la fauna della nostra Isola. Siamo interessati a un turismo che sappia utilizzare un paesaggio di questo tipo: non siamo interessati al turismo come elemento del mercato mondiale.
Perché vogliamo questo? Intanto perché pensiamo che va fatto, ma anche perchè pensiamo che sia giusto dal punto di vista economico. La Sardegna non vuole competere con quel turismo che è uguale in ogni parte del mondo (in Indonesia come nelle Maldive, nei Carabi come nelle Isole del Pacifico), ma vede la sua particolare specifica natura come una risorsa unica al mondo perché diversa da tutte la altre.
Dopo gli interventi dei membri della Giunta regionale e di quelli del Comitato scientifico Renato Soru è intervenuto di nuovo a proposito del documento “Linee guida per il Piano paesaggistico regionale invitando i membri del comitato a esprimere pareri ed emendamenti e affermando tra l’altro:
Bisogna che siano chiari i principi che sono alla base delle Linee guida. Il primo principio è: non tocchiamo nulla di ciò che è venuto bene. Poi ripuliamo e correggiamo quello che non va bene. Rendiamoci conto degli effetti degli interventi sbagliati: abbiamo costruito nuovi villaggi e abbiamo svuotato i paesi che c’erano: abbiamo costruito villaggi fantasmi, e abbiamo resi fantasmi i villaggi vivi. Dobbiamo sapere che facciamo un investimento per il futuro. Dovremo calcolare gli effetti economici della conservazione e della ripulitura. Oggi si costruisce importando da fuori componenti ed elementi, il moltiplicatore dell’attività edilizia si è drasticamente abbassato. Lo aumenteremo di nuovo se sapremo riutilizzare le tecniche tradizionali, i materiali tradizionali, i saperi tradizionali per conservare e ripulire. Dobbiamo essere capaci di far comprendere che tipo di Sardegna abbiamo in mente.
Si veda anche: Il Presidente Soru parla ai sindaci della costa
Il ministero contro se stesso. Lo Stato che rinuncia a difendersi. E che abbandona al loro destino i vincoli che aveva emesso per meglio tutelare un patrimonio naturale, ma anche storico e archeologico come il promontorio del Conero, nelle Marche, rischiando pure di dover pagare un sacco di soldi. È il paradossale esito di una vicenda che si trascina da un paio di anni e che, salvo sussulti dell’ultim’ora, dovrebbe concludersi oggi, quando scade il termine entro il quale l’Avvocatura dello Stato potrà costituirsi in giudizio presso il Consiglio di Stato contro alcuni Comuni e un gruppo di costruttori, un’associazione industriale e diversi ordini professionali i quali vorrebbero annullare il vincolo posto dalla Soprintendenza marchigiana. Vincolo che arrivò dopo un prezioso lavoro di salvaguardia: comprendeva un’estensione molto vasta, e questa venne considerata un’anomalia, ma non lo era, perché rispettava una consuetudine antica quanto il ministero e risalente a Giovanni Spadolini, il quale prese un provvedimento che copriva quasi per intero il lago di Bolsena. Il termine sta per scadere, ma dai vertici dei Beni culturali non giunge nessun segnale. Anzi ne arrivano in direzione contraria: non è un mistero, infatti, che diversi uffici centrali del Ministero hanno manifestato più volte la propria opposizione a quel vincolo, ribadita persino in una serie di lettere all’Avvocatura dello Stato.
La vicenda ha inizio nel settembre del 2003 quando le Soprintendenze (oltre quella regionale, anche quelle territoriali) raccolsero in un unico provvedimento la grande quantità di vincoli che da tempo tutelavano il Conero. Un vincolo paesaggistico esisteva già, ma ad avviso dei soprintendenti, non dava sufficienti garanzie per proteggere il promontorio dagli appetiti edificatori. Infatti quel genere di salvaguardia, centrato sugli aspetti naturalistici, era stato fortemente indebolito dal fatto che a custodirli fossero stati chiamati i Comuni, cioè gli enti locali che erogano le concessioni edilizie e che più sono oggetto delle lusinghe di chi costruisce (gran confusione ha poi creato il nuovo Codice promosso da Urbani). Inoltre, questo il ragionamento delle Soprintendenze, il Conero è un territorio di pregio per mille motivi. È vero che si tratta dell’unica emergenza montuosa (572 metri) in un territorio tutto pianeggiante, la lunga striscia di costa che va dal Gargano a Trieste. Ma è anche vero che questa posizione a picco sul mare ne ha fatto nei secoli luogo di avvistamento, una specie di faro in mezzo alle onde, dove dall’antichità sono sorti templi e poi chiese, eremi e monasteri. Nel verde della macchia mediterranea si trova, per esempio, la chiesa romanica di Santa Maria di Portonovo. Gli scavi hanno portato alla luce una necropoli usata fin dal mille a. C.. E l’importanza storica di tutto il sito è documentata dalla raffigurazione del Conero sulla Colonna Traiana a Roma e in un affresco nel Duomo di Siena.
Il Conero si è salvato dagli assalti speculativi degli anni Sessanta e Settanta. Nel 1987 è stato istituito un parco regionale, che ha contribuito a proteggerlo, anche se negli anni successivi si è cominciata a sentire la pressione di quella "città diffusa" che si espandeva lungo la pianura a ridosso dell’Adriatico.
Dopo il 2000 si scatena l’assalto. I Comuni che abbracciano il promontorio - Ancona, in primo luogo, e poi Sirolo e Numana - hanno preso a concedere licenze edilizie, faticosamente contrastate dalle varie Soprintendenze che si facevano scudo del solo vincolo paesaggistico. Nel settembre 2003, appunto, si è deciso di alzare una barriera protettiva più resistente: un vincolo in base alla legge 1089 del 1939, che tutelava il Conero in quanto bene di valore storico, artistico e archeologico. Ma al solo annuncio del provvedimento si è scatenata l’offensiva dei Comuni (Ancona, Sirolo, Numana e Porto Recanati) e delle associazioni dei costruttori, che insieme hanno presentato ricorso al Tar. Dopo una serie di giudizi, in un primo momento favorevoli alla Soprintendenza (a fianco della quale si erano schierate Italia Nostra e un’associazione anconetana), il Tar delle Marche ha dato ragione ai quattro Comuni e ai costruttori, ma non nel merito, bensì per un cavillo procedurale: difetto di notifica.
Ora la parola spetta al Consiglio di Stato, il quale si trova a decidere senza che il ministero per i Beni culturali faccia valere le proprie ragioni, anzi mostrando chiaramente che del problema di quei vincoli non vuol proprio saperne. L’attuale direttore regionale, Mario Lolli Ghetti, ha avanzato una proposta: difendiamoci in giudizio e, se vinciamo, dichiariamoci disponibili a rivedere il vincolo. L’idea è stata trasmessa al Ministero, che però non l’ha girata all’Avvocatura e non ha neanche risposto a chi l’aveva formulata. Italia Nostra spera in un ripensamento del ministro Rocco Buttiglione, che pure ha espresso tutta la sua contrarietà ai tagli che la Finanziaria prevede per il patrimonio storico-artistico. Altrimenti, addio vincolo. E non solo: i costruttori, vedendo l’arrendevolezza dello Stato, hanno anche chiesto un risarcimento danni per i mancati guadagni provocati dal vincolo. Se vinceranno, costruiranno e poi passeranno pure a incassare.
L’«ermo colle» dell' Infinito, tanto caro a Giacomo Leopardi, non sarà più protetto dal vincolo della Soprintendenza? È possibile, anzi probabile. Il ricorso, abbastanza anomalo, alla Presidenza della Repubblica di una signora recanatese - che vorrebbe costruire un albergo nei pressi - ha purtroppo avuto un avallo, per irregolarità formali, dalla IV Sezione del Consiglio di Stato, in sede consulente. Parere favorevole alla eliminazione del vincolo, che rischia di giovare pure ad altri ricorsi marchigiani: per esempio, a quelli inoltrati da quattro Comuni su cinque del Parco del Conero (e cioè Ancona, Sirolo, Numana e Porto Recanati).
Un vincolo che era stato formalizzato nell'aprile 2004 per ragioni non soltanto paesistiche, ma anche storico-monumentali. La VI Sezione del Consiglio di Stato (Sezione giudicante), presso la quale pendono i ricorsi dei quattro Comuni nonché quelli soliti degli Ordini dei geometri, degli ingegneri, dei geologi, e via elencando, potrebbe essere influenzata, in senso negativo, da quell'avallo della IV Sezione. Un grimaldello. Ma, si obietterà, il promontorio del Conero non è già protetto da un Parco? Sì, ma, coi tempi bui sopravvenuti grazie al governo Berlusconi, si tratta ormai di un mini-ombrello. Negli ultimi anni la tutela naturalistica è stata molto indebolita dalle sub-deleghe delle Regioni ai Comuni in materia paesaggistica (così i peggiori sono indotti a fare come gli pare) e dal Codice Urbani il quale prevedeva l'insediamento di apposite commissioni paesistiche sin qui mai insediate (dovevano funzionare dal maggio scorso). Quindi, se un Comune vuoi "valorizzare" il Parco del Conero con alberghi e palazzine, lo può fare. A meno che non intervenga un altro tipo di vincolo. Quello, per l'appunto, di carattere storico-monumentale apposto con queste motivazioni: il Conero è stato scalo dorico, approdo di coloni provenienti da Siracusa, era sovrastato dal tempio di Venere, è luogo sacro a più religioni con le chiese millenarie di San Ciriaco e di Santa Maria di Portonuovo, con gli eremi, col cosiddetto "campo degli Ebrei" (la comunità anconetana è ancora importante), con scavi significativi come quello della Tomba della Regina. Insomma, oltre alle ragioni paesaggistiche, vi sono sacrosanti motivi di natura storica, archeologica, culturale, religiosa per salvaguardare l'intero promontorio, davvero unico nell'Adriatico.
Ma già il Tar delle Marche ha bocciato questo vincolo su richiesta di Comuni, privati e associazioni professionali. "Italia Nostra" regionale, allora, ha fatto ricorso al Consiglio di Stato. Ma, intanto, le costruzioni si stanno diffondendo sul Conero. E nessuno può fermarle se il Consiglio di Stato non ripristina i vincoli bocciati dal Tar. Il direttore regionale del Ministero, architetto Mario Lolli Ghetti, si era detto disposto a riesaminare i vincoli stessi, ma da posizioni di forza, cioè difendendo l'operato dell'Amministrazione. Purtroppo la sua proposta si è subito arenata nelle sabbie mobili di un Ministero sempre più impantanato e latitante. Essa non è stata neppure trasmessa all'Avvocatura di Stato, né ha ricevuto una qualche risposta. Del resto, alle ultime udienze della causa, la.stessa Avvocatura di Stato non si è neppure costituita, spingendo i ricorrenti (privati e Comuni) ad osare di più, cioè a chiedere pure il risarcimento danni per non aver potuto cementificare il Conero. O meglio, per averlo potuto cementificare... con qualche ritardo. Sull'intera materia la stessa Commissione regionale marchigiana per i Beni e le Attività culturali (Stato-Regione) ha espresso, non a caso, una allarmata valutazione.
Il ministro Rocco Buttiglione ha detto più volte di non voler accettare la scure della Finanziaria sulla cultura, sulla tutela e sullo spettacolo. Lo aspettiamo alla prova dei fatti. Anche questi del Colle dell'Infinito e del Conero sono fatti. Altro che se lo sono.
Per l'occasione, rileggetevi la bella poesia di Leopardi
Una città grande come Novara, è questa la popolazione che nellacapitale è interessata dall’emergenza abitativa. Il dato si ricava dalla delibera «sulle politiche abitative e sull’emergenza abitativa nell’area comunale romana» approvata prima dell’estate dal Consiglio comunale di Roma. La delibera è un documento politicamente rilevante: indica le strategie dell’amministrazione per rispondere all’emergenza abitativa e ne analizza anche le ragioni. Quali sono le cause dell’emergenza abitativa? Diverse, secondo il documento: «il mancato funzionamento della legislazione nazionale sugli affitti, l’ingresso consistente di nuovi poveri (immigrazione), la diminuzione generale del reddito delle famiglie…, la crescita esponenziale dei valori immobiliari e conseguentemente degli affitti, la progressiva scomparsa delle case degli enti previdenziali destinati all’affitto».
Per l’edilizia romana sono stati anni importanti: 7.288 abitazioni completate tra il 1998 e il 2002, una media di 1.500 alloggi l’anno (dati dell’ufficio statistica del Comune). Il settore delle costruzioni è cresciuto del 4,1% nel 2001, del 2,5% nel 2003 e del 4,7% nel 2004, quest’ultimo dato è quasi quattro volte quello del prodotto interno lordo (dati regionali Ance). Dal 1999 al 2003 si è registrata una crescita costante in tutti i comparti produttivi: edilizia abitativa, non residenziale, opere pubbliche. Anni di vera e propria espansione del settore. Il mercato delle costruzioni ha funzionato bene, tanto da sostenere l’economia della capitale, che si è diversificata ma che trova ancora le sue fonti di finanziamento principali nel settore tradizionalmente forte della città: quello immobiliare.
Ha funzionato il mercato dell’affitto, i canoni sono aumentati mediamente del 91% (media nazionale del 49%, nelle grandi città dell’85%). Ha funzionato il mercato della compravendita che ha registrato incrementi mai visti. La diminuzione del costo dei mutui ha favorito l’accesso al credito ma la crescita dei prezzi degli immobili, oltre il 100% in soli sette anni, ha comportato l’aumento dell’indebitamento delle famiglie. Una rincorsa alla proprietà che a Roma nel decennio 1991-2001 ha visto aumentare del 10% le famiglie con casa in proprietà (da 596.849 a 656.599, dati Istat 2001).
Eppure, in quegli stessi anni cresceva un fabbisogno abitativo rimasto insoddisfatto, e oggi è emergenza sociale. Secondo alcuni un paradosso, normale legge di mercato secondo altri, sta di fatto che oggi a Roma ci sono circa 100 mila persone interessate, seppure in modo diverso, dall’emergenza abitativa. Sono aumentati i proprietari di case ma anche, in misura consistente, le famiglie che vivono in coabitazione, 21 mila, mentre le famiglie senzatetto sono 3.078 (dati dell’ufficio statistica del Comune).
Si è prodotta una polarizzazione: da un lato la rincorsa alla proprietà, dall’altro l’insostenibilità del canone di affitto. A Roma, nel 2004, il canone medio per un alloggio di 75 mq era di 1.075 euro (per una famiglia con due stipendi da impiegato significa oltre il 50% del reddito). Molte famiglie non ce la fanno e per risparmiare si spostano nei Comuni dell’intorno (nel decennio 1991-2001 i residenti della capitale sono diminuiti di 187.104, con un calo del 6,8%, quelli della provincia sono aumentati di 126.461 - dati Istat). Comuni come Ardea e Guidonia hanno registrato tassi di crescita che superano il 40%. La periferia residenziale della capitale si sposta ben oltre il limes. A confermare questa dinamica è lo stesso Comune di Roma che ha preferito comprare alloggi per l’affitto sociale nei comuni di Lavinio, di Anzio, di Pomezia. Il Comune, come i privati, per risparmiare compra casa in provincia.
Nelle analisi della delibera manca una riflessione sul funzionamento (o sul malfunzionamento) del mercato edilizio a Roma, sull’efficacia delle scelte urbanistiche e sulle conseguenze scaturite dall’affermazione delle sole regole di mercato. Quest’ultimo soddisfa la domanda prevalente, che è quella della casa in proprietà, e scarta non solo i fabbisogni delle fasce sociali più deboli ma, sempre più, anche quelli della classe media e di tutti quei soggetti che articolano la domanda abitativa (persone/famiglia, precari, giovani coppie...). Nel conto delle cause bisogna mettere l’arretramento delle politiche pubbliche sul versante dell’offerta che, per una città governata da dodici anni da giunte di centro-sinistra, è un dato significativo. È anche vero che il dato nazionale per il periodo 1984-2004 ha registrato una contrazione degli alloggi pubblici da circa 34 mila a 1.900 (dati Cresme-Anci).
Se questo è il quadro, non si tratta di emergenza ma di un vero e proprio «male» al quale è urgente porre rimedio. In che modo? Nella delibera si dispiegano diversi interventi e si prefigura una strategia che dovrebbe consentire, nel medio periodo, di approntare soluzioni per circa 13 mila famiglie. Gli obiettivi dell’amministrazione sembrano essere: l’acquisizione di immobili dal mercato ma a valori scontati; l’utilizzo di incentivi, economici e/o urbanistici, in modo da regolare l’intervento privato e favorire l’immissione di alloggi in affitto a canone concordato. A questi si aggiungono gli interventi di sostegno alle famiglie con redditi medio-bassi (buoni casa, sgravi Ici, buoni di assistenza).
Resta da affrontare la questione di fondo: la disponibilità di immobili pubblici da immettere sul mercato per realizzare case a basso costo. La risposta all’emergenza casa non può infatti risolversi nel solo sostegno economico: è necessario aprire una stagione nuova di politiche urbanistiche per la casa. Per fare questo è necessario disporre del suolo. Ma oggi il Comune ha già un patrimonio di aree comunali rilevante, circa 4.300 ha, acquisito con la legge 167 del 1962 tra primo e secondo Peep. Si potrebbe utilizzare il suolo che oggi risulta inutilizzato o spesso sprecato per farlo incrociare con la differenziazione della domanda di fabbisogno abitativo.
I vantaggi di poter disporre di aree pubbliche sono notevoli. È possibile avviare la costruzione di alloggi senza dover indebitare il Comune; non c’è bisogno di coinvolgere i privati per realizzare forme di compensazione; le aree sono situate in contesti già urbanizzati. Ci sono poi vantaggi sociali: lo spostamento di fasce deboli, come gli anziani, avverrebbe all’interno di un contesto già consolidato favorendo il benessere e la qualità della vita.
Una simulazione condotta in tre quartieri di edilizia pubblica (Serpentara, Valmelaina, Torsapienza) dal Dipartimento di Studi Urbani dell’Università di Roma Tre ha evidenziato una disponibilità immediata di suolo per 128 mila mq. Nessuna di queste aree è oggi utilizzata per soddisfare gli standard. Si tratta di un vero e proprio spreco di suolo. Su queste aree si possono realizzare tra 600 e 900 nuovi alloggi.
Dovendo ammortizzare solo i costi di costruzione, che per un alloggio di circa 60 mq si aggirano intorno ai 40 mila euro (il costo è depurato dall’incidenza del costo dell’area), si ottiene un canone mensile di 331 euro per quindici anni o di 284 per venti anni (calcolo effettuato su un mutuo ordinario offerto da un istituto bancario nazionale al tasso fisso del 5,72%). Mancano i dati esatti delle aree utilizzabili negli altri quartieri e quindi del numero di alloggi: una stima di massima ne calcola circa 5.000.
Si potrebbero avviare da subito interventi pilota nei quali sperimentare forme di gestione che coinvolgano organizzazioni del terzo settore e no profit. Nei paesi ad economia di mercato questi soggetti sono presenti in modo consistente nella produzione di beni pubblici, mentre da noi sono quasi del tutto assenti. Interventi in questa direzione sarebbero importanti dal punto di vista quantitativo ma ancora di più da quello qualitativo. Segnerebbero una vera svolta nelle politiche urbanistiche della città liberando nuove risorse ed opportunità e orienterebbero ancora di più l’attenzione verso la città esistente. Si raccoglierebbe la sfida di ripensare un territorio che si è fatto metropoli senza passare per la città.
È quello che sta già avvenendo in altri paesi europei, dove il recupero dei grandi quartieri pubblici degli anni ’60 e ’70 è oggi l’occasione per una nuova politica pubblica della casa. Un progetto di ristrutturazione urbanistica dei quartieri pubblici che prevede la localizzazione di nuove funzioni e l’inserimento di nuovi soggetti in risposta alle nuove domande di abitare. Crediamo che Roma sia la città dove questo tipo di interventi può conseguire i risultati migliori, occorre solo che la politica assuma questo scenario di lavoro come prioritario
Il governo italiano non ha presentato una valutazione di impatto ambientale buona per superare i requisiti imposti dalle normative europee. E' più che un atto d'accusa quello della Commissione europea, che ieri, rendendo pubblico il proprio responso sulle procedure seguite dall'Italia per il Ponte sullo Stretto di Messina, ha annunciato di aver inviato a Roma una lettera di messa in mora, primo passo del procedimento di infrazione comunitario. Quel che manca, accusa la Commissione, è proprio uno studio approfondito sull'impatto del ponte più lungo del mondo sul flusso degli uccelli migratori e sui disturbi che l'opera arreca alle aree di riposo presenti in Sicilia e Calabria. In termini comunitari mancano le valutazioni sulle Iba, important bird area, 150 e 153, come previsto dall'articolo 4 della direttiva 79/409/Cee, meglio conosciuta come Habitat, quella che vigila sul «deterioramento degli habitat e sulle perturbazioni dannose per gli uccelli». Difficilmente salterà il ponte, ma almeno il governo sarà obbligato a studiare gli effetti, non solo di immagine, di quel che sta facendo. E dovrà renderne conto a Bruxelles. La direttiva in questione prevede infatti la possibilità di deroga anche per le opere che hanno un impatto importante sull'ambiente, una deroga che scatta però solo qualora l'infrastruttura si dimostri di grande interesse per la collettività. Cosa che, peraltro, parecchi mettono in dubbio.
«Confermo l'invio di una lettera di messa in mora al governo italiano - ha dichiarato ieri Barbara Helfferich, portavoce del commissario all'ambiente Stavros Dimas - perché l'Italia non ha effettuato uno studio dell'impatto ambientale dell'opera che soddisfa i requisiti della Commissione». Adesso il governo ha due mesi di tempo per fornire le informazioni mancanti, se non arrivano scatta il secondo passo nel procedimento di infrazione: l'avviso motivato. Se Roma continuerà a tacere, o a non soddisfare i criteri comunitari, allora la Commissione chiederà l'intervento della Corte di Giustizia del Lussemburgo. «Non possiamo bloccare fisicamente i lavori - prosegue la portavoce - ma il governo dovrà fornirci le informazioni necessarie e qualora l'impatto ambientale sarà negativo dovrà valutare se esiste un'alternativa o chiedere la deroga».
Per quel che riguarda i fondi il discorso è tanto complesso quanto cruciale per il governo, visto che Bruxelles potrebbe coprire con prestiti facilitati fino al 20% dell'opera. La portavoce di Dimas ricorda che «la Commissione non finanzia qualcosa che è contrario alle leggi comunitarie». «Anche se la direzione generale trasporti dovesse dare l'ok ai fondi - continua Helfferich - noi come Dg Ambiente abbiamo qualcosa da dire e possiamo bocciare. Ma non va dimenticata la possibilità della deroga». Per accedere alla deroga è necessario dimostrare un supremo interesse collettivo ma bisogna anche proporre una «compensazione», ossia «l'Italia deve designare altre zone protette che siano della medesima importanza di quelle colpite». Le aree per cui manca la valutazione di impatto ambientale sono quelle dei Monti Peloritani, di Capo Peloro e dei Laghi di Ganzirri in Sicilia e della Costa Viola e della Dorsale di Curcuraci in Calabria. In totale la lingua d'asfalto e cavi che vuole unire l'isola al continente disturba ben 312 specie di uccelli nel loro cammino stagionale dall'Africa verso l'Europa centro-settentrionale.
Il governo per ora rimane sulle sue: «La procedura di infrazione è stata annunciata ma non è ancora arrivata. Se arriverà leggeremo le motivazioni e risponderemo. La decisione politica del governo comunque rimane quella di realizzare il ponte sullo Stretto di Messina», afferma il ministro dell'Ambiente Matteoli.
Verdi e Wwf cantano invece vittoria. «Da sempre sosteniamo - dice Monica Frassoni capogruppo verde all'Eurocamera - che il Ponte oltre ad essere un'opera inutile sotto il profilo trasportistico e dannoso sotto quello ambientale, presenta più di un profilo di illegalità: siamo contenti di vedere che anche la Commissione si sta muovendo in tal senso». «Se la procedura si concludesse con il deferimento alla Corte di giustizia europea - dice Gaetano Benedetto segretario del Wwf - l'Italia sarebbe obbligata a mettere in un cassetto l'attuale progetto, e rielaborare una proposta radicalmente diversa». Ermete Realacci, parlamentare della Margerita, spera infine in un «ripensamento» del governo.
Il Ponte sullo stretto si farà? Dipende dal governo Prodi, se, come tutti noi ci auguriamo, nel 2006, l’Unione vince le elezioni e manda a casa il peggior governo della storia della repubblica. A Berlusconi, dell’inutilità del ponte, dei guasti che può provocare sull’ambiente, dello spreco di denaro che potrebbe essere utilizzato utilmente e anche dell’efficacia dell’opera, non importa più di tanto. Il Cavaliere vuole mettere la prima pietra per guadagnare un po’ di voti e poi, pensando di essere novello Faraone, legare il suo nome al ponte più lungo del mondo. Ma non è detto che gli vada bene perché la strada del Ponte è lastricata di ostacoli che si chiamano: partecipazione popolare alle primarie dell’Unione con conseguente obbligo di ascolto dei cittadini da parte di Prodi e dei partiti della coalizione; programma di governo che non prevede la grande opera di Lunardi e Berlusconi e, nell’immediato, anomalie dell’appalto. Ed è di queste ultime che voglio parlare, anomalie che dovrebbero costituire un impedimento al proseguimento del cammino della grande opera.
La gara l’ha vinta Impregilo, già società Fiat-Romiti, che è passata di mano e che nel recente passato ha avuto guai finanziari e con la magistratura. Tanto è vero che Piergiorgio Romiti ha passato la mano ad Alberto Lina, manager proveniente da Finmeccanica, e la Gemina dei Romiti è socia di minoranza. Inoltre, la procura di Monza ha aperto un fascicolo per falso in bilancio a carico degli amministratori del gruppo. Oggi, soci di maggioranza sono Rocca, Bonomi, Gavio e Benetton con le loro società, mentre i Romiti con Gemina hanno l’11,8 per cento del pacchetto azionario. Del raggruppamento di imprese che ha vinto l’appalto, oltre la capofila Impregilo, fanno parte Sacyr Sa, Società Italiana Condotte, Cooperativa Cmc (cooperative rosse), Gavio e altri.
Le anomalie dell’appalto sono almeno tre: il ribasso d’asta del 12,33 per cento praticato da Impregilo che tradotto in cifre vuol dire 500 milioni di euro e cioè 1000 miliardi di vecchie lire: una enormità su una base d’asta di circa 4 miliardi di euro; le clausole contrattuali che prevedono il pagamento di penali, pare della stessa entità dell’appalto qualora un governo diverso dovesse decidere di non costruire il ponte; la defezione dei grandi gruppi esteri che di fronte ad un’opera di tali dimensioni che costituisce anche una sfida tecnologica, in un mercato globalizzato, hanno scelto di non partecipare. Sono anomalie di tale rilevanza da avere indotto la Astaldi, seconda classificata, di riservarsi azioni anche legali, dopo avere valutato bene tutti gli aspetti del problema e le procedure adottate.
«Un ribasso incredibile», l’ha definito il capo della Astaldi, Vittorio Di Paola, il quale ha aggiunto che «non potranno fare a meno di fare delle verifiche». D’altronde, la prima verifica l’ha fatta il mercato, dal momento che Impregilo ha perduto in borsa il 5,2 per cento e «alcuni investitori esteri - ha fatto sapere l’Agenzia Radiocor - stanno vendendo le azioni a piene mani, perché temono che Impregilo non riesca a finanziare l’operazione di realizzazione del ponte con un margine di guadagno adeguato». A meno che non si ripercorra la vecchia strada dei ribassi d’asta impossibili compensati da modifiche progettuali in corso d’opera, varianti, perizie modificative e suppletive. Così come è avvenuto per l’alta velocità che partita con un costo previsto di 10mila miliardi di lire al momento della firma dei primi impegni, è arrivata al costo degli attuali 50 miliardi di euro e cioè 100 mila miliardi di vecchie lire.
Intervistato dal Corriere Economia, il professor Marco Ponti, ordinario di Economia dei trasporti al Politecnico di Milano, ha sottolineato che le imprese estere hanno disertato la gara perché «non avrebbero ricevuto le garanzie implicite offerte alle cordate italiane», quali ad esempio «che i traghetti non scendano sotto certe tariffe, oppure che sotto un certo volume di traffico sul Ponte, sia lo Stato a pagare». Ponti ha aggiunto: «Questo è un project financing finto perché manca una vera ripartizione dei rischi e alla fine è sempre lo Stato che deve far fronte ad eventuali problemi». Parole dure come pietre di uno dei più grandi esperti del paese che in definitiva parla di un appalto truccato e alle quali non risulta che né Impregilo né la società Stretto di Messina, committente dell’appalto, abbiano replicato.
Infine, è importante registrare alcune prese di posizione politiche dei partiti dell’Unione oltre che del Wwf. «Sappiamo tutti che i soldi dei cittadini andrebbero investiti per le vere priorità del Mezzogiorno», ha dichiarato Sergio Gentile, responsabile ambiente Ds, «che sono la rete ferroviaria, stradale e autostradale, la portualità, l’aeroportualità, le reti idriche ed acquedottistiche». Per cui «quest’opera è assolutamente insostenibile sotto il profilo dei costi economici e dei danni ambientali».
E le penali previste dal contratto? «Il pagamento di penali anche ingenti sarebbe comunque più conveniente - replicano dal Wwf - perché non si dovrebbe far fronte alle perdite che la gestione del ponte provocherà a danno di tutti i contribuenti». Questa volta, pare che associazioni, partiti dell’Unione e cittadini siano d’accordo nel considerare il Ponte un’opera inutile e dannosa: un monumento allo spreco e alle manie “faraoniche” del presidente del Consiglio e del suo ministro dei Lavori pubblici, gravato da mostruosi conflitti d’interesse. Qualche tempo fa, quando esplose la rivolta per l’acqua a Palermo e ad Agrigento scrissi un articolo contro il Ponte che l’Unità pubblicò con questo titolo: “Meglio il Pozzo del Ponte”. Credo che potrebbe diventare lo slogan della prossima campagna elettorale.
Per una città i giochi olimpici rappresentano una grande opportunità per presentare un'immagine nuova e per ridisegnare l'assetto urbano, portando grandi effetti nel riassetto del territorio, sulle infrastrutture e sull’economia. La candidatura di Milano ai Giochi del 2016 è l’occasione per inserire nuovi progetti di riqualificazione urbana all’ampia rassegna di quelli attualmente già in essere. La candidatura è un primo importante passo che deve far riflettere sulle opportunità ed i rischi che una eventuale vittoria comporterebbe: una breve analisi è d’obbligo.
Tra le prime vi sono le positive implicazioni economiche quali gli enormi investimenti che si ripercuotono sul PIL e sul tasso di disoccupazione, gli aumenti di visitatori nel settore del turismo, il miglioramento generale delle infrastrutture, la maggiore credibilità per una buona organizzazione e, non ultimo, i contributi elargiti dall’Unione Europea per interventi di sviluppo e miglioramento in vari settori. Effetti secondari si hanno anche grazie alle sostanziose risorse delle sponsorizzazioni, dei diritti televisivi e dei ricavi dei biglietti che, unitamente all’aumento dei consumi, aumentano considerevolmente il giro d’affari complessivo su scala nazionale.
Per meglio comprendere l’entità del fenomeno si possono citare alcuni esempi: le Olimpiadi di Sydney hanno contribuito al PIL australiano per 6,5 miliardi di dollari e creeranno 100.000 posti di lavoro nei dodici anni successivi, con un aumento dei turisti del 10% nel 2000 e con stime riguardanti le visite aggiuntive fino al 2006 di 1,5 milioni. Barcellona ha visto ridurre il suo tasso di disoccupazione dal 18,4% al 9,6% ed è diventata la terza città più visitata d’Europa.
Tali risultati sono stati ottenuti grazie ad una preventiva pianificazione degli interventi da attuare assieme ad una precisa programmazione delle azioni da intraprendere.
La storia dei Giochi è costellata da esperienze positive per città che, come Barcellona, Sydney, Los Angeles e Albertville, si sono fatte trovare preparate all’opportunità, ma anche negative quando questa preparazione è mancata: Atlanta sotto l’aspetto territoriale e dei trasporti oppure Montreal, Lillehammer, Calgary e Grenoble per aver mancato gli effetti economici positivi.
Dagli esempi del passato emerge quindi che le grandi trasformazioni funzionano solo quando supportate da una pianificazione strategica, cioè quando vengono impostati a priori gli obiettivi che si vogliono raggiungere, da attuare tramite il coinvolgimento di attori pubblici e privati. Le implicazioni dipendono direttamente dalla struttura del sistema economico che le supporla: saranno positive e rilevanti solo se il sistema è buono. La durata degli effetti del ciclo di vita delle Olimpiadi è stimato in 15 anni, che partono dal momento della candidatura fino alla valutazione ex-post degli effetti stabilizzati. Una riflessione è dunque d’obbligo: Milano in quale delle due categorie potrebbe ricadere? Per capire l’effetto sulla capitale lombarda è di aiuto analizzare quanto è accaduto in un caso di successo di una città con caratteristiche simili. È possibile delineare un parallelo con Barcellona per le caratteristiche che connotano le due città: l’importanza per le rispettive economie nazionali, le dimensioni (entrambe hanno circa 3 milioni di abitanti), il passato di città industriale, i complessi processi di riqualificazione urbana che le interessano, la necessità di definire un nuovo ruolo e conseguentemente una nuova immagine rappresentativa del cambiamento. Barcellona può quindi essere per Milano un valido esempio da seguire, presentando valevoli spunti per trasformare i Giochi in un momento determinante per il compimento del rilancio della città.
L’ esperienza di Barcellona 1992 rappresenta l’emblema positivo di un’occasione di definizione di nuova immagine e di marketing territoriale sfruttata al meglio ed un caso esemplare di riqualificazione urbana gestita perfettamente. Il progetto di riqualificazione urbana attuato in occasione dei Giochi è stato inserito in un progetto più generale che era già stato avviato e la nuova immagine della città perfetta a rappresentarla. Il risultato è stato far divenire Barcellona una vera icona del rinnovamento, città immagine della cultura e dell’ arte, e una tra le capitali europee più visitate dai turisti. Gli investimenti per le Olimpiadi sono stati destinati per il 60% in infrastrutture, per il 10% in costruzioni ed installazioni sportive, per il 12% in alberghi e per il 15% in abitazioni e uffici: si è quindi privilegiato l’ aumento del capitale urbano, cioè dell’intervento strutturale e non momentaneo.
Milano oggi, come lo era Barcellona, è coinvolta in un generale clima di rigenerazione con molteplici progetti di riqualificazione urbana che interessano diverse ed estese aree. I grandi progetti di Garibaldi-Repubblica, la zona della vecchia Fiera e di quella nuova di Rho-Pero, Porta Vittoria, i Navigli, Rogoredo-Montecity, ma anche la dismissione e ristrutturazione delle vecchie grandi aree industriali quali Bicocca, Bovisa, le aree Falck e Marelli, Maciachini, i progetti riguardanti i grandi parchi stanno cambiando il volto della città. Nel giro di una decina di anni, quando il progetto di ristrutturazione della vecchia Fiera sarà completato, Milano sarà una città diversa e nuova.
Come si possono inserire in questo contesto i progetti che verrebbero attuati? Perché il risultato finale risulti coerente i nuovi progetti, strutture ed infrastrutture andrebbero correlati e l’insieme dei progetti visti come un unico processo. Si può iniziare con il delineare quello che potrebbe essere realisticamente il punto di partenza: nel 2016 i grandi progetti ad oggi pianificati avranno aggiunto circa 8 milioni di metri quadrati di aree riqualificate, nuovi parchi, il potenziamento delle linee di metropolitana ed il completamento del passante ferroviario.
Cosa mancherà ancora alla nuova Milano? Quali sono le strutture collegate ai Giochi che dovrebbe avere? E quali le infrastrutture correlate di cui dovrebbe dotarsi? Quali servizi dovrebbe essere in grado di fornire? Le principali strutture richieste dal CIO sono il villaggio olimpico e della stampa, il centro per le comunicazioni e le numerose varie strutture sportive. Non secondari sono adeguati trasporti pubblici a livello locale ma anche regionale e nazionale, oltre ad un idoneo sistema ricettivo. Devono poi essere disponibili aree per il tempo libero: parchi, musei, spazi espositivi, centri commerciali.
Ma quali sono i punti di debolezza che potrebbero trasformare Milano 2016 in una occasione persa? Pur rimanendo la più importante città italiana in ambito economico e una delle principali metropoli europee, Milano ha perso competitività rispetto a molte altre città europee e soprattutto rispetto a quelle che sembrano essere le sue più dirette concorrenti: Lione, Monaco di Baviera, la stessa Barcellona. Mentre queste città si rinnovavano e apparivano in veste nuova, Milano non ha ancora realizzato i cambiamenti necessari per competere: investimenti in innovazione tecnologica, grandi progetti, valorizzazione della cultura e dell’arte. I punti di debolezza più palesi si riscontrano ancora oggi nella carenza infrastrutturale nei sistemi di mobilità e trasporto: strade, autostrade, ferrovie, aeroporti, logistica, viabilità urbana. Per la sfida olimpica Milano deve ancora allenarsi: se per gli atleti vale ancora la famosa frase del barone francese Pierre Fredi de Coubertin per cui “l’importante non è vincere, ma partecipare”, per le città la sconfitta ha oggi un costo troppo elevato.