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Che la ripresa sia in atto lo testimoniano i cantieri, le gru, il traffico. Che Milano scalpiti per dare un colpo d'acceleratore allo sviluppo trova espressione in un intenso susseguirsi di proposte e annunci. Che, insomma, si respiri un'aria di cambiamento segna un indubbio vissuto di dinamicità da considerare con attenzione e favore. Procede invece a passo lento l'elaborazione di un disegno generale della città, che dica come i milanesi immaginano e vogliono la loro città di qui ad almeno vent'anni. Il governo della cosa pubblica ha lasciato alle spalle una mentalità vecchia, che pretendeva di pianificare tutto sino alla possibile mortificazione di slanci e sforzi creativi, ma non è ancora riuscita a trovare un modo trasparente e adeguato di darsi obiettivi, linee, regole, attori da coinvolgere. Che sia una strategia atta ad assecondare la crescita purchessia o un procedere senza malizia, dettato solo da carenze culturali, è questione aperta, su cui peraltro giustamente si anima il dibattito politico. Resta il fatto che manca il quadro normativo e progettuale complessivo entro cui collocare gli interventi singoli e la riqualificazione di aree definite.

Il progetto «Porta Nuova» presentato ieri è esemplare. Supera particolarismi e velleità trascorse, riunisce e integra in un «unicum» le annose questioni di Garibaldi- Repubblica, Varesine, Isola. Ma Comune e Regione debbono ancora dire come intendono inserire questo vasto e qualificato insediamento nella parte di città esistente e come collegarlo con i progetti pure importanti e ambiziosi in corso di messa a punto e realizzazione nelle altre zone, di modo che Milano sia riconoscibile nel tessuto connettivo che è un impasto di privato e di pubblico, fatto di socialità, servizi, mobilità, relazioni umane, spazi di aggregazione, pluralità e varietà identitarie, non solo di grattacieli.

Si sa che è in corso l'elaborazione del «piano territoriale» generale della città, che l'assessore all'Urbanistica punta a far diventare il documento legge entro il 2008. Sarebbe prova di una effettiva vivacità democratica se linee portanti e strumenti di attuazione venissero al più presto portati al vaglio dell'opinione pubblica e dei luoghi istituzionali in cui svolgere il confronto. È doveroso capire dove la città sta andando quanto a strutture e a qualità dell'esistenza. Così sarà possibile verificare il consenso sul trend attuale e, qualora fossero necessari riequilibri, introdurre correttivi. Dalla politica ci si aspetta governance e bene comune oltre a cantieri.

Quei giganti di cemento senza regole e strategie

di Sebastiano Brandolini

A Milano, di edifici alti attualmente ce ne sono una ventina, perlopiù di scarsa qualità e costruiti negli anni 60. Potrebbero nascerne quasi altrettanti nei prossimi cinque anni, anche in parti della città finora considerate esterne rispetto alla pressione immobiliare che solitamente ne giustifica l’alto investimento. Dopo l’11 settembre 2001, per qualche anno qualcuno pensò che il grattacielo fosse in via d’estinzione.

Ma tra uomo e grattacielo si è nel secolo scorso formato un sodalizio commerciale, tanto che oggi è difficile che una città possa dirsi tale se ne è senza. Resta comunque aperta per Milano la questione di dove e secondo quale logica costruirne; la geografia della città potrebbe infatti cambiare in modo inaspettato.

In una città congestionata dal traffico privato, l’insediamento dei grattacieli dovrebbe essere regolamentato in base alla disponibilità del trasporto pubblico su ferro. Così, perlomeno, avviene in diverse città europee, tra le quali Londra, dove pur non essendoci un’opposizione morale all’edificio alto, vige la regola secondo cui per poter realizzare un grattacielo non devono esserci parcheggi privati nei pressi, perché l’accessibilità va soddisfatta per intero dal trasporto pubblico. Di fatto questa norma non scritta implica che i grattacieli possano insediarsi solamente in certe zone dei centri cittadini.

Le cose non sono altrettanto chiare e definite nel caso di Milano. Se prendiamo tre grattacieli dalle forme ardite oggi in fase di progettazione (oggetto, tra l’altro, di una mostra allo Spazio FMG di via Bergognone), uno all’Isola, uno a Rozzano, e uno in piazza Caneva, soltanto il primo potrebbe assolvere i requisiti della super-accessibilità. L’area tra Garibaldi e Centrale – dove si trova l’Isola – è oggi l’unico hub trasportistico di Milano, con due stazioni ferroviarie, il passante e due linee di metrò; Stefano Boeri ha progettato una torre topiaria, in cui il verde ostruisce quasi tutte le vedute dalle finestre, una pseudo-foresta verticale; pale eoliche in copertura intercetteranno il poco vento che soffia sulla pianura padana. A Rozzano, un grattacielo inclinato alto oltre quaranta piani progettato dai 5+1AA godrà dell’estensione della MM2 (in cantiere), ma per quanto riguarda la visibilità si affiderà soprattutto al traffico della Tangenziale ovest. E Milano Fiori diventerà una vera edge city, al limite del Parco Agricolo Sud, l’unica vera zona di salvaguardia rimasta. La terza torre, per mano di Archea, è in piazza Caneva, è alta ventisette piani ed è residenziale come la zona Sempione dove si trova; lontana dalla MM, le sue facciate inclinate sono rivestite di un materiale ceramico luccicante rivestito di una patina metallica, mentre i piani sono interamente avvolti da logge.

La prevista realizzazione delle tre torri che occuperanno il cuore della vecchia Fiera, giustamente dipenderà dalla creazione di una nuova stazione della metropolitana, oggetto della convenzione recentemente stipulata da Citylife con il Comune di Milano. Altre torri che dovrebbero prossimamente popolare lo skyline milanese si trovano a Sesto San Giovanni, lungo via Melchiorre Gioia, sull’area Garibaldi, a Rho-Pero, forse a Lambrate. Sono troppi i grandi progetti realizzati o in via di realizzazione a Milano, che in passato hanno sottovalutato o continuano a sottovalutare l’importanza vitale del trasporto pubblico su ferro per il proprio successo immobiliare: tra questi, la Bicocca, il Portello, Santa Giulia. Lo scollamento spazio-temporale tra forma della città e trasporto resta a tutt’oggi una delle grandi questioni irrisolte dell’identità metropolitana milanese, dove regnano le non-regole dell’improvvisazione. Quando una città non si dota di qualcosa che assomigli a un piano, diventa estremamente difficile indirizzare le scelte degli operatori immobiliari. Le leggi urbanistiche regionali, che si fondano sulla prassi della negoziazione, non incoraggiano la definizione di un quadro strategico di riferimento.

È da questa insoddisfacente situazione normativa e amministrativa, che nasce l’ultima generazione di torri o grattacieli, comunque le si voglia chiamare. Queste sono l’espressione di volatili occasioni immobiliari e simboliche, piuttosto che frutto di ragionamenti infrastrutturali e strategici riferite alla città. Eppure governano la geografia e la visibilità del futuro milanese. Chi viaggia per il mondo, riconosce subito lo stile veloce di questi simboli verticali che vogliono innanzitutto far parlare di sé ed essere à la page, perché emulano, in scala ridotta e a macchia, le boom-town di Shanghai e Dubai, dove migliaia di torri si contendono lo skyline a perdita d’occhio, annullandosi a vicenda.

Nove grattacieli sopra il Pirellone

di Stefano Rossi

Milano cresce in altezza, stavolta non solo in progetti da tenere in un cassetto. E così, in un colpo solo, il record detenuto per mezzo secolo dal Grattacielo Pirelli di Giò Ponti, 127 metri, è destinato a crollare ben nove volte nel giro dei prossimi sette-otto anni, a partire dalla conclusione dei lavori, prevista nel 2010, del Pirellone bis, la nuova sede della regione Lombardia in via Melchiorre Gioia, alta 160 metri. Una mostra intitolata «Nuove verticali a Milano», allo spazio Fmg per l’architettura in via Bergognone, presenta ora quattro delle altre torri che modificheranno il paesaggio urbano. La più imponente (200 metri ma potrebbe arrivare a 212), è la Torre Landmark di Rozzano, masterplan di 5+1AA e Metrogramma (architetti Alfonso Femia e Gianluca Peluffo), uffici pensati con attenzione agli aspetti energetici e ambientali. "Solo" 108 metri, invece, conta uno dei due grattacieli residenziali del Bosco Verticale di Stefano Boeri (il gemello piccolo è di 78 metri). Progettati all’Isola per Hines, prevedono 900 alberi (550 di qua e 350 di là) che in altezza si dispongono di piano in piano, contribuendo all’assorbimento di polveri sottili e biossido di carbonio. Pale eoliche e pannelli fotovoltaici forniranno energia alternativa. Sarà, infine, di 94 metri la Torre delle Arti (case, negozi, un ristorante) dello studio Archea Associati, che sorgerà su via Principe Eugenio sugli ex uffici Montedison. Anch’essa ispirata al risparmio energetico, avrà scanalature rivestite in oro a 24 carati per brillare anche al crepuscolo.

Tutte opere ancora da realizzare, ma già decise tutte assieme. E ora che la corsa all’altezza è ripartita, l’asticella del traguardo è ormai sui 200 metri, e il primato se lo prenderà uno dei tre colossi di Citylife, quello firmato da Isozaki (218 metri), mentre lì accanto i grattacieli di Hadid e Libeskind si fermeranno rispettivamente a 185 e 170. Senza contare, appena fuori dal territorio comunale, le torri di 200 metri sulla "Rambla" progettata da Renzo Piano per l’ex area Falk.

La frenesia verticale ha del resto colpito tutto il mondo, in una rincorsa continua. L’edificio più alto del pianeta, il Taipei 101 (508 metri), sarà superato nel 2011 dalla Freedom Tower di Ground Zero a New York, fermo alla quota simbolica di 541 metri o 1776 piedi, come la data della Dichiarazione di indipendenza. Ma dal 2009 la Burj Dubai metterà tutti d’accordo: la sua altezza è tenuta segreta ma si dice sarà fra i 700 e i 950 metri. Tuttavia il caso Milano è finito sui giornali stranieri per l’ampiezza della trasformazione urbanistica in corso. Qualche giorno fa se ne è occupato il Wall Street Journal, spiegandola col fatto che la percentuale di uffici rispetto alle proprietà immobiliari, in Italia, sarebbe la metà della media Ue.

L'origine recente del disastro della Milano neoliberista è descritta e criticata qui e qui. Ma si vedano anche altri numerosi scritti nella cartella dedicata a Milano ; in particolare quelli di Sergio Brenna, Lodo Meneghetti, Vezio De Lucia, e altri che hanno saputo vedere..

PRIMA domanda: deve far paura, l´enorme risveglio urbanistico che, dopo quarant´anni di inattività, partendo da Garibaldi ha cominciato a cambiare uno spicchio di Milano e nel giro di un anno, secondo i piani del Comune e degli sviluppatori, si moltiplicherà per quattro o per cinque, dando il via a una quindicina di grandi interventi? La risposta ragionevole è sì, perché i progetti complessi sono sempre pieni di incognite, e se non sono gestiti bene le incognite finiscono inesorabilmente per diventare guai.

Seconda domanda: la paura ragionevole deve paralizzare quella fetta di città che oggi la subisce dopo essersi opposta al cemento, ai progetti, ai guadagni che la riedificazione di zone vuote di città promette e ai pericoli che probabilmente nasconde? La risposta ovvia è no, ma il problema è come riuscirci.

Perché una previsione è certa: non basteranno più i comitati dei residenti, che senza loro colpa ragionano come le minoranze alle assemblee dei condomini (io che sto al primo piano non voglio pagare l´ascensore di chi sta all´attico, io che in casa mia sono padrone quanto te detesto il colore che hai scelto per la facciata), e dai quali non sarebbe neppure giusto pretendere che guardino a interessi più ampi del cortile. Così come non c´è troppo da aspettarsi dai giovani antagonisti ideologici delle trasformazioni urbanistiche, il cui simpatico portavoce con la cresta da post-punk mohicano, alla presentazione del progetto Porta Nuova alla Fondazione Catella, l´altro giorno, pensava di insultare gli investitori di Hines chiamandoli "imprenditori avidi di guadagno". E non si è offeso proprio nessuno. La partita, che riguarda oggi un quartiere e domani mezza città, è davvero troppo grossa per lasciarla in mano a ragazzi e volontari di caseggiato. L´opposizione politica, se c´è, batta un colpo. E richiami la maggioranza politica a fare il suo mestiere di rappresentare gli interessi di tutti (tra l´altro prendendo sul serio l´amministratore delegato di Hines Italia che, da manager cresciuto all´estero, ha correttamente definito il Comune "controparte", mentre l´assessore allo sviluppo del territorio faceva un po´ di confusione autoproclamandosi improbabile "regista" dell´operazione miliardaria).

Che cosa, esattamente, sta portando a casa la città, al tavolo delle trattative condotte a nome di tutta la collettività con i costruttori? Nel caso Isola, almeno sul capitolo del verde pubblico (ma ce ne sarebbero stati altri) ha lasciato soli a vedersela con Hines i comitati, che per la verità qualcosa hanno ottenuto: basta vedere le differenze tra il primo progetto approvato dal Comune e l´ultimo ratificato, assai meno devastante.

Nel caso di Citylife alla vecchia Fiera, invece, non sta succedendo neppure quello: lì i costruttori sono meno inclini agli incontri "di base" e il Comune fa cortesemente sponda alla loro scelta tagliando fuori dalle discussioni associazioni e residenti. Nei prossimi impegni in agenda, l´Amministrazione quale copione intende seguire? E qual è il piano dei servizi, dai trasporti alla cultura, dal commercio al divertimento, dalle scuole alle farmacie, che dovrà ricucire vecchio e nuovo, immaginando dalla sintesi dei due una metropoli vivibile?

È ora, si direbbe, di mettere le carte in tavola e discutere apertamente svantaggi, vantaggi e compensi (pubblicamente contrattati e legali) ottenibili dalle trasformazioni urbane. Se si vogliono dissipare insieme i fantasmi molto milanesi delle contrattazioni sottobanco degli anni Novanta e i pregiudizi estetico-ideologici di chi crede che gli architetti contemporanei sono tutti dei vandali, e sarebbe meglio non costruire mai nulla di nuovo. (Che poi un aperto rappresentante di questa visione conservatrice culturalmente legittima sia l´assessore Sgarbi - salvo farsi da parte ogni volta che Moratti firma con le convinzioni opposte – incuriosisce, ma è un´altra storia).

Ho molto apprezzato la disponibilità al confronto manifestata anche in questa occasione da Riccardo Conti e da Claudio Martini (“Il Tirreno” di venerdì 25 e di domenica 27 maggio), e soprattutto il tono dei loro interventi, qua e là comprensibilmente piccato (le critiche non piacciono a nessuno), ma pur sempre pacato e costruttivo.

La scintilla era stato un mio commento pubblicato la domenica precedente: spunto, a mo’ di emblema, un nuovo residence in costruzione sulla spiaggia di Talamone (45 appartamentini), ad appena 140 metri dal mare, e l’accesa discussione che ne era nata con “un importante uomo politico toscano” - Conti, appunto - che io avevo celato dietro un sipario di riservatezza, ma che si è sportivamente auto-svelato su queste pagine; domanda di fondo, che cosa faccia la Regione per evitare ferite edilizie e urbanistiche e come sia possibile limitare e mitigare quelle inferte in passato ma in via di realizzazione oggi.

Del resto, il problema c’è se architetti e amministratori hanno lavorato mesi e mesi per stendere un piano del territorio (il famoso Pit) che dettasse norme più stringenti, prevedendo addirittura la possibilità (articoli 36 e 37) di rivedere la congruità alle nuove regole di progetti depositati o in itinere.

Su molte delle cose dette dal presidente della Regione e dal suo assessore all’urbanistica, concordo pienamente. Ha ragioni da vendere Martini quando afferma, per esempio, che sarebbe sbagliato risolvere la questione dicendo sempre e solo “no” a tutto: l’immobilismo genera degrado. E come dargli torto quando ricorda che costruire poco non basta, ma che occorre farlo bene, secondo standard di qualità alti?

È nel vero anche Conti quando ricorda che la Regione si sta impegnando al massimo in campo urbanistico e che sta producendo uno sforzo legislativo senza precedenti. Da entrambi accolgo poi con soddisfazione l’invito a una grande alleanza tra amministratori, tecnici, mondo della cultura e dell’informazione a tutela del paesaggio: quando con il “Tirreno” denunciamo brutture, o diamo voce alle proteste dei cittadini, o stimoliamo l’amministrazione (forse con argomenti poco tecnici e molto tranchant, com’è nella natura stessa del nostro mestiere, ma sinceri) pensiamo di andare proprio in quella direzione. Però...

Però ci sono alcune cose che vorremmo riproporre ancora, con spirito niente affatto demolitorio. Non è esatto, per esempio, che dieci-venti anni fa nessuno osteggiasse piani e progetti per i quali invece si protesta oggi con sindaci e assessori che li hanno ereditati e che stanno correndo ai ripari con nuovi strumenti urbanistici.

No, la protesta c’era eccome, ma rappresentava la proverbiale “vox clamantis in deserto” perché non c’erano allora né coscienza ambientale diffusa, né amministratori disposti ad ascoltare, né le sensibilità di oggi. Basta parlare con i funzionari di un qualsiasi Comune toscano per averne conferme illuminanti.

In quanto ai comitati di protesta che sorgono qua e là, è sbagliato temerli o demonizzarli. Se si invoca un’alleanza bisogna sapere che l’opinione pubblica è fatta anche di “no” decisi. Certo, la Regione non può governare realtà complesse e variegate dicendo solo “no” come molti comitati vorrebbero, ma è opportuno ascoltarli perché segnalano comunque situazioni di sofferenza.

E poi. È vero che in ogni borgo della Toscana c’è un qualche “lascito plausibile” (come lo chiama Conti) con il quale misurarsi. Rolando Di Vincenzo, assessore all’Urbanistica del Comune di Orbetello, ha rifatto la storia (complessa e contrastata, fatta di promozioni e bocciature) di quello di Talamone (“Il Tirreno” di giovedì) e avrà sicuramente ragione e tutte le carte in regola, e sarà pure legittimo - per carità - che sorga a 140 metri dal mare. Ma la Talamone del 2007 non è quella degli anni Sessanta e nemmeno quella del 1995, e se non si può fare niente per armonizzare 7500 metri cubi (per un residence i 4500 dell’inizio non potevano bastare) con le mutate condizioni locali ci deve essere - insisto - qualcosa che non va nella stessa normativa e negli strumenti di controllo.

Certo, ora c’è ben poco da fare. Una volta rilasciata, una concessione edilizia è pressoché intoccabile, qualche sindaco che ci ha provato è stato smentito prontamente dal Tar e talvolta costretto anche a pagare fior di danni. Ma Conti, Martini, credete davvero che tale indiscutibile dato di fatto basti a placare lo sconcerto se non l’indignazione di un toscano, di un inglese, di un tedesco che passi per Castelfalfi o Talamone, Capalbio o Castagneto Carducci, Monticchiello o l’Abetone?

Eppure è proprio questo il problema sul quale misurarsi oggi. Alberto Asor Rosa aveva provocatoriamente proposto, per esempio, l’istituzione di un fondo nazionale o regionale che servisse a risarcire coloro ai quali venisse bloccato un progetto approvato ma in palese contrasto con le attuali sensibilità in materia di ambiente, paesaggio, inquinamento.

Non so dire se l’idea sia giusta o bislacca, ma certo qualcosa ci si deve inventare perché le amministrazioni comunali si muniscano di regolamenti urbanistici più rigorosi per imporre non certo il blocco, ma almeno la modifica di costruzioni offensive per la storia, la cultura, le tradizioni locali.

Qui si sottolinea solo un’esigenza, non si indica una soluzione tecnica alla quale dovrebbero pensare giuristi e architetti. E si insiste anche per via di un particolare. Il Pit regionale consta di 857 pagine, e forse ce ne sono altrettante di norme accessorie, lettura impegnativa anche per il più ferrato degli avvocati.

Conoscendo tempi e usi della nostra burocrazia, e di quella urbanistica in particolare, occorreranno anni prima che ogni dettaglio sia stato sviscerato e applicato, e ogni tranello aggirato, e ogni scappatoia chiusa. Nel frattempo, che cosa accadrà? E se tra dieci anni dovessimo ritrovarci qui a piangere impotenti su qualche “lascito plausibile”? Forza, pensiamoci ora.

Postilla

Paolo Baldeschi e Alberto Magnaghi avevano proposto l’estensione alla costa di una norma di salvaguardia già prevista dal PIT per le aree collinari e montane ( è qui), ma Conti l’ha violentemente respinta. Del resto, se si teorizza che il “mercato” deve entrare nei processi di piano, non come fenomeno da governare, ma come protagonista, alla pari della mano pubblica (lo afferma spesso Massimo Morisi, ispiratore del PIT ed estensore delle sue più limpide pagine), e se si vede il territorio solo come contenitore di potenzialità di sviluppo (economico, naturalmente), allora è chiaro che la tutela è solo come una fastiidiosa richiesta di chi non capisce nulla.

Testo elaborato per il Seminario "Area metropolitana milanese: criticità sociali e alternative possibili per una nuova dimensione civile", tenutosi a Milano il 5 maggio 2007 per iniziativa della Federazione milanese del Partito della rifondazione comunista.

La ricerca procede per domande. Così ho pensato di articolare l'argomentazione a partire da domande, sperando che la mia curiosità scientifica incontri la vostra e che le risposte, in questa sorta di autointervista, siano all’altezza dei quesiti.

Il termine metropoli è di origine greca. Che differenza corre fra la metropoli antica e quella contemporanea?

Prima dell'età contemporanea sussisteva un limite: una soglia dimensionale percepita come misura necessaria, prima ancora che fosse imposta dalla realtà.

Nella Grecia antica l'espressione metropoli significa letteralmente «madre di città». A promuovere la nascita di nuovi organismi urbani è appunto il concetto di limite: una soglia dimensionale volta essenzialmente a conservare i rapporti comunitari, ovvero la ragione costitutiva dell'organismo urbano: ciò che Aristotele chiama «amicizia» come «scelta deliberata di vita comune» [1], condizione per «una vita pienamente realizzata e indipendente» [2]. Ippodamo da Mileto fissa la dimensione ideale a 10.000 cittadini, mentre per Platone il limite da non superare è ancora più basso: 5.040, un numero ritenuto «abbastanza grande per mettere la Città in condizione di difendersi dai suoi vicini o di aiutarli in caso di bisogno ma abbastanza ristretto perché potessero conoscersi tra loro e scegliere con cognizione di causa i magistrati» [3].

Una logica non diversa è seguita dalla libera associazione delle città-stato etrusche che Carlo Cattaneo definisce «vivajo di città» [4].

Non mancano, è pur vero, in età antica come in quella moderna, realtà che, nel segno della potenza, inseguono l’accrescimento dell'aggregato urbano. Giovanni Botero nel suo Delle cause della grandezza e magnificenza delle città (1588) non può non fare riferimento al caso di Roma. I Romani, egli sostiene, «stimando che la potenza (senza la quale una città non si può lungamente mantenere) consiste in gran parte nella moltitudine della gente, fecero ogni cosa per aggrandire, e per appopolar la patria loro» [5]. I fatti diedero loro ragione, dice Botero: è la maggiore grandezza demografica a consentire a Roma di riprendersi dopo pesanti sconfitte in battaglia. Ma lo stesso autore della Ragion di stato, richiamati anche altri casi di notevole accrescimento delle «communanze d’uomini», arriva alla conclusione che esiste un momento in cui la crescita si arresta [6]

Spaziando su un ampio quadro storico, Botero passa in rassegna i fattori che concorrono alla crescita delle città: l’autorità; la forza; il piacere offerto dalla bellezza del sito e dall’arte, a cominciare da quella del costruire; la «commodità» e la salubrità; la «virtù nutritiva» della campagna; la facile accessibilità e il ruolo cardinale negli scambi commerciali; l’estensione del dominio politico; la religione; la possibilità di «poter più comodamente e allegramente attender a gli studi»; la presenza delle istituzioni di governo e dell’«amministrazione della giustizia»; l’esistenza di un’industria florida; la «franchezza dalle gabelle»; e, infine, l’essere luogo di «residenza della nobiltà» e ancor più del principe. Un elenco assai esteso e apparentemente senza gerarchia da cui il consigliere di Carlo Borromeo trae però una sintesi: decisivi nell'accrescimento delle città sono, a suo dire, «la virtù attrattiva» (data da quella che oggi chiameremmo la qualità del vivere) e la disponibilità di «nutrimento e sostegno» ottenuta «o dal contado […] o da paesi altrui» [7]: una valutazione che oggi verrebbe collocata sotto il criterio della sostenibilità.

Ed è appunto qui che la contemporaneità segna una rottura. Come il modo di produzione capitalistico di cui è espressione e da cui è inscindibile, la metropoli contemporanea nasce all’insegna del superamento di ciò che precedentemente vincolava e limitava gli organismi urbani, compresi quei fattori che potevano portare a drastici ridimensionamenti, quando non alla morte della città. La metropoli è un organismo più resistente perché si alimenta delle differenze producendone di nuove [8], a cominciare dalle diversificate opportunità di investimento e di valorizzazione del capitale. Opportunità che, quando non possono essere fornite dal territorio su cui la città ha storicamente esercitato la sua influenza, vengono reperite altrove estendendo vieppiù le trame relazionali, visibili e invisibili.

Nei rapporti fra contesti ciò si traduce in nuovi legami di dominanza e dipendenza, mentre il riprodursi e l'estendersi delle disparità investe inevitabilmente la topografia sociale, ovvero la dislocazione spaziale dei ceti che compongono la società.

Quando prende avvio la vicenda della metropoli contemporanea?

Nel caso milanese i primi semi sono gettati già a metà seicento quando la campagna a nord della linea dei fontanili inizia a fare concorrenza alla città, bloccata dal dominio delle corporazioni. Fra sette e ottocento, quando ormai il capitalismo si afferma come modo di produzione dominante, quei semi cominciano a dare frutti consistenti, anche se inizialmente poco vistosi: il diffondersi capillare di un lavoro a domicilio nella tessitura per produzioni destinate al mercato; il sorgere di filande per la lavorazione della seta in ogni villaggio e infine la comparsa delle prime industrie concentrate lungo i corsi d'acqua (a cominciare dalle filature del cotone, integrate in seguito dalle tessiture; con sviluppi analoghi, anche se minori, in altri comparti tessili) [9].

La prima differenza a essere messa a frutto in modo nuovo è dunque quella fra città e campagna. Da statici, i rapporti fra le due realtà si fanno dinamici: un susseguirsi di azione e reazione in una nuova divisione del lavoro e con inedite assunzioni di ruolo sia da parte della campagna della piccola affittanza che da parte della città: processi destinati a cambiare i caratteri di entrambe.

Si tratta pur sempre della somma di città e campagna. Dove sta la novità?

Come la pila voltiana produce energia elettrica da due metalli (per es., rame e zinco) mediante l'aggiunta di un conduttore umido, così la metropoli contemporanea non è riducibile alla semplice sommatoria di città e campagna: è una realtà nuova che nasce dalla messa a frutto della diversità di potenziale dei due contesti, a cominciare dai diversi costi di riproduzione della forza lavoro. In questo caso il “conduttore umido” è, ça va sans dire, il mercato.

Le rivoluzioni nei trasporti e nella velocità fanno ovviamente la loro parte nel favorire l'intensificarsi e l’estendersi delle nuove relazioni.

Da allora quali sviluppi ha conosciuto il nuovo organismo?

La necessità di nutrirsi di differenze ha portato ad ampliare il raggio di azione e di influenza dei fulcri metropolitani. Lo sviluppo si è fatto travolgente arrivando a configurare il mondo intero come un reticolo gerarchico di metropoli fra loro in competizione.

Che conseguenze sui modi di concepire l’abitare e di configurare l’habitat?

Nella metropoli matura la mobilità dei fattori della produzione e le relazioni asimmetriche regolate dal mercato finiscono per avere la prevalenza sui legami verticali: le relazioni terra-cielo (il legame religioso) e il radicamento alla terra, che fino ad allora avevano contrassegnato il modo di abitare e di trasformare il mondo.

Se i vincoli regolatori indicati da Botero sono saltati, che ne è delle idee di organicità e di equilibrio?

Riferito agli aggregati insediativi, il termine organico può bene indicare i caratteri degli insediamenti – città, borghi, villaggi – strutturati e dimensionati su relazioni comunitarie. Dante Alighieri nel Convivio indica quattro livelli di organizzazione del convivere tra loro necessariamente concatenati: la famiglia, la vicinanza (la contrada, il quartiere), la città e lo stato [10]. La triade casa, quartiere, città è lo schema ordinatore della convivenza civile negli aggregati urbani in Europa fino a quando la metropoli matura non mette in discussione il principio organico con il disgregarsi delle relazioni storiche e le inedite manifestazioni fisiche che la caratterizzano (conurbazioni e slabbramenti degli abitati). Fino ad allora le relazioni comunitarie e l'identità condivisa si sono strutturate secondo due livelli integrati: il quartiere (o sestiere) e la città. È da questa duplice struttura relazionale che la città cristiana ha preso corpo e forma.

Che ne è dell'equilibrio a scala territoriale?

Su questo è interessante seguire Carlo Cattaneo. Il grande studioso coglie nel segno quando, per il caso italiano, mette l'accento sull’«intima unione [della città] col suo territorio» [11]. È meno convincente quando attribuisce a tale unione la prerogativa di «persona politica» [12] e di « stato elementare, permanente e indissolubile» [13] facendone il riferimento cardinale del suo progetto politico federale.

Eppure – si obbietterà – il Cattaneo è uno dei pochi che, ai suoi tempi, sa interpretare aspetti rilevanti delle radicali trasformazioni di cui è spettatore. È vero; ma l'autore della Città come principio ideale non vede, o ignora volutamente, come già ai suoi tempi le nuove relazioni economiche e territoriali abbiano l'effetto di scardinare un assetto consolidato da secoli, se non da millenni: un sovvertimento dei quadri relazionali che rende già allora impraticabile il suo progetto di una nazione costruita dal basso, attraverso un mosaico «equabile» di «stati elementari» [14]. Già nei primi decenni dell’ottocento, oltre al già richiamato cambiamento di segno dei rapporti città campagna, a travolgere gli equilibri precapitalistici interviene l'instaurarsi di un nuovo rapporto gerarchico fra le città.

Solitamente quando si dice metropoli si intende “grande città” e comunque raramente il termine viene usato in riferimento a un periodo antecedente al novecento. Ciò che lei e Graziella Tonon sostenete nei vostri scritti esce da tale uso comune del termine metropoli…

È questione di intendersi sulle definizioni, evitando soprattutto di cadere nelle trappole che si nascondono nelle ambiguità terminologiche.

L’assunzione di un metro quantitativo – in particolare la crescita dell'edificato – ha portato più di uno studioso a identificare nel secondo dopoguerra del novecento il periodo in cui in Italia fa la sua comparsa la metropoli [15]. Si tratta di un errore non meno grossolano di quello che colloca la rivoluzione industriale in Italia a partire dal periodo giolittiano.

Identificare la metropoli contemporanea con la “grande città” o con la cosiddetta “megalopoli” facendo riferimento ai soli aspetti fisici e funzionali– il gigantismo, le conurbazioni, la selezione delle funzioni – oscura il tratto distintivo del nuovo organismo: i suoi caratteri relazionali. Per capirci: ci possono essere città relativamente piccole che pure si pongono precocemente come fulcri di relazioni metropolitane estese (è il caso di Milano), e città di dimensioni assai maggiori la cui trama di relazioni metropolitane è al confronto più debole. In più di un caso il gigantismo urbano nasce dalla debolezza dell’hinterland. E questo accade non solo nel cosiddetto “terzo mondo”.

In che rapporto stanno allora città e metropoli?

Considerare città e metropoli come sinonimi finisce per avvalorare un uso improprio del termine città. Poco male se ciò non concorresse a rimuovere un problema cruciale. E cioè che la metropoli contemporanea tende a porsi contro la città. Nel senso che tende a un superamento della città per quanto concerne non solo i tratti fisico-funzionali ma anche le sue stesse ragioni costitutive. I processi molecolari alla base del fenomeno metropolitano tendono infatti a mettere in discussione il carattere peculiare dell'organismo urbano: il suo essere – per usare parole di Giandomenico Romagnosi, il maestro di Carlo Cattaneo – «una vera persona morale, avente una cert’anima con un certo corpo, mossa da particolari circostanze di un dato tempo, di un dato luogo, e con determinate esterne relazioni» [16].

Va anche detto, a scanso di equivoci, che non si tratta di un processo inevitabile: il carattere di «persona morale» degli aggregati insediativi può essere fatto rivivere mettendo in atto forti contromisure di rilancio dell’urbanità, come da diversi anni le municipalità più accorte stanno facendo in Europa.

Allo stesso tempo si parla molto di “città contemporanea”, di “città diffusa”…

Mai come negli ultimi decenni la parola città è stata usata in modo improprio. Non si è però potuto fare a meno di affiancarla con un aggettivo, come appunto nell'espressione "città diffusa", o in quella più recente di "città infinita"; locuzioni dove, a ben guardare, l’aggettivo nega il sostantivo. Siamo di fronte a una delle tante operazione di edulcorazione a cui ci ha abituato il mondo d’oggi e che servono a mascherare la realtà.

Che cosa si nasconde in questo caso?

L'assenza di qualità urbana. In tanta ricchezza individuale è venuta avanti una nuova povertà sociale sia nei caratteri architettonici dei luoghi sia nei quadri relazionali.

Cosa possiamo intendere per qualità urbana degli insediamenti e delle relazioni?

Facendoci anche qui aiutare dal Romagnosi, possiamo definire tale qualità come «spirito di socialità civile» [17] che si fa tangibile tanto nella civitas (il corpo sociale) quanto nell' urbs (la città fisica). Uno spirito che, perché venga mantenuto, richiede di essere continuamente rinnovato.

Perché è utile attivare uno sguardo di lungo periodo sulle vicende della città e della metropoli?

La prospettiva di lungo periodo può aiutare a capire meglio tratti persistenti della società, dell'ethos e delle mentalità, come anche il permanere di alcune linee di forza che agiscono nelle trasformazioni di cui siamo spettatori.

Per rimanere al contesto lombardo, c'è una relazione fra la dimensione relativamente piccola di una città come Milano – per non dire delle altre città lombarde – e il percorso compiuto dalla Lombardia fino ad agganciare le regioni più industrializzate. Tale percorso si distingue per un elevato grado di ruralità della forza lavoro industriale mantenuto su un lungo arco storico. Nella fascia intermedia della regione la popolazione della campagna più densamente popolata d'Europa è stata mobilitata su scala vastissima da una molteplicità di soggetti imprenditoriali che hanno accollato i costi di formazione dell'armatura industriale all'ambiente rurale.

La traiettoria seguita, certamente lunga e tortuosa, si è rivelata appropriata alle sfavorevoli condizioni di partenza (scarsa disponibilità di materie prime e di fonti energetiche; grave ritardo sul terreno tecnologico; debolezza finanziaria e imprenditoriale, aggravata dalla propensione redditiera del ceto possidente). Ruotando parassitariamente attorno alla famiglia-azienda della piccola affittanza dell’altopiano, si è dapprima potuto dare vita a un esteso basamento produttivo nel campo tessile (seta e cotone in primo luogo); quindi, quando grandi e medie industrie si sono addensate nelle immediate periferie urbane, è ancora l'altopiano – ormai non più definibile come semplice “campagna” – a dare un apporto decisivo con la sua vasta riserva di forza lavoro.

Si possono a questo punto elencare le peculiarità della metropoli milanese sul lungo periodo:

- il consolidarsi nei membri della famiglia-azienda rurale di un’idea dell'abitare come radicamento e orgogliosa indipendenza. È una conseguenza del fatto che l'habitat rurale dell'altopiano ha potuto essere percepito come centrale rispetto a molteplici opportunità di lavoro, almeno per tutto il percorso che va dalla condizione contadino-industriale a quella industriale-contadina, a quella decisamente industriale (con sbocchi significativi anche verso il lavoro indipendente),

- il relativo contenimento delle migrazioni interne e dell’urbanesimo. È un carattere legato al radicamento di cui si diceva: senza di esso, vista la forte concentrazione di attività industriali, l'inurbamento sarebbe stato assai maggiore;

- il precoce e intenso sviluppo del pendolarismo imperniato sull’area centrale della metropoli. Si tratta di un fenomeno che non ha l'eguale per ampiezza non solo in Italia ma nemmeno in Europa;

- il freno posto alla rendita immobiliare per una lunga fase. È un effetto dei tre caratteri prima richiamati. Una tale limitazione è andata a tutto vantaggio di uno sviluppo produttivo ad alta intensità di lavoro [18]: un modello che a lungo andare mostrerà tutti i suoi limiti;

- la complessità dell’apparato produttivo e delle relazioni. A questo si lega un tratto identitario di Milano-città venuto in particolare evidenza negli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso: il suo carattere aperto e sincretico, la sua capacità di assimilare e metabolizzare.

C’è infine una peculiarità del quadro regionale: sia pure con il prevalere del contesto milanese, processi di tipo metropolitano hanno interessato anche i poli urbani di corona (Varese, Como, Lecco, Bergamo e Brescia). Da cui il configurarsi di un sistema originale di metropoli a grappolo[19].

Molti insistono sul policentrismo lombardo. È una definizione adeguata a definire i caratteri insediativi della regione?

L’elevatissimo addensamento di popolazione e attività della fascia intermedia rende la realtà lombarda più complessa di quanto non dica la formula che vuole la regione come un sistema policentrico. Se storicamente la fitta presenza di città e di borghi assume le caratteristiche di un reticolo policentrico, non si può ignorare che questa trama è a sua volta 'annegata' in un sistema insediativo precocemente diffusivo, cresciuto poi a dismisura con l'espansione travolgente del dopoguerra.

Il boom del trasporto su gomma e l'estendersi massiccio della rete stradale hanno favorito un processo espansivo/diffusivo che è andato ad aggiungersi e spesso a travolgere la già fitta struttura insediativa rurale. A partire dai primi anni settanta del novecento, l'espulsione di oltre mezzo milione di abitanti da Milano (a cui si sono aggiunti quelli fuoriusciti dalle piccole e medie città) ha favorito oltremodo questa tendenza, alimentando un sprawl di vastissime proporzioni che non sembra affatto essersi placato.

Se questo è a grandi linee il quadro, il riferimento al "policentrismo" appare più l’esplicitazione di un’intenzione progettuale: un obiettivo condivisibile in linea di principio, ma che, se portato avanti senza fare i conti con processi ormai consolidati, rischia di essere sterile, come ogni fuoriuscita dalla realtà. Con lo slogan del "policentrismo" proposto ad ogni piè sospinto, in verità, si 'cacciano sotto il tappeto' gli effetti devastanti dello sprawl: il fatto che si è venuta costituendo un’immensa periferia metropolitana, sia pure mitigata dal resistere in parte della trama policentrica storica.

Fra i sedimenti di questo modello insediativo e strutturale ce ne sono anche di natura politica?

Spicca, su tutti, il permanere, lungo lo sviluppo della metropoli, di una relativa ‘invisibilità’ di consistenti componenti operaie: prima le forze lavorative polverizzate nei villaggi e nelle cascine; poi, con il decollo della città industriale, gli operai pendolari [20]; infine quel vasto comparto di lavoratori che nella situazione attuale subisce tutti gli effetti di un'atomizzazione e di una precarietà che ricordano, per certi aspetti, quelli della lunga fase di decollo. Una condizione che, ben diversamente dal modello delle banlieu parigine, favorisce lo stemperarsi dei conflitti sindacali e sociali. Poco male o addirittura bene (a seconda dei punti di vista), se una tale condizione non impedisse a un’importante componente della società di autorappresentarsi e di vedere riconosciuto il suo apporto alla produzione di ricchezza.

Che caratteri presenta la “periferia metropolitana” nel contesto milanese?

Nell’ultimo mezzo secolo è rilevabile un legame strutturale fra due periferizzazioni: quella della residenza e quella dei posti di lavori nel secondario. L’una appare funzionale all'altra: il decentramento di popolazione ha determinato un'offerta di forza lavoro a cui la piccola industria e l’artigianato hanno potuto agevolmente attingere (con l’effetto di un sistema di rapporti casa-lavoro in larghissima misura affidati al mezzo di trasporto privato). Un circolo vizioso in cui il "piccolo è bello" mostra tutti i suoi limiti nel contesto internazionale.

A ciò si aggiunge l'alto costo individuale e sociale di un modello insediativo e relazionale dove gli elementi negativi superano, e di molto, quelli positivi di un tempo.

Un cenno merita infine il decentramento per poli che ha caratterizzato il terziario: un fenomeno insediativo i cui difetti maggiori stanno nell'essere affidato pressoché esclusivamente al mezzo di trasporto privato, con pesanti conseguenze sulla congestione del traffico che una accorta programmazione avrebbe potuto evitare.

Facciamo un passo indietro. Come si è reso possibile per Milano il passaggio alla condizione di città industriale?

Per spiegare il «grande scatto» che si determina fra la fine dell'ottocento e il primo decennio del novecento, più di uno storico ha messo l'accento sugli importanti elementi di rottura: il costituirsi della banca mista; l'affermarsi nella siderurgia della produzione a ciclo continuo e integrato; la disponibilità di una nuova fonte energetica, l'idroelettrica, che per la prima volta non vede l'Italia svantaggiata; l'ingresso nelle produzioni nuove (elettromeccanica e automobilistica); il raggiungimento di nuove economie di scala ecc. Se l'importanza di questi fattori è tale da avallare la tesi che «[...] i primi anni del nuovo secolo [furono] una vera e propria fase di “rivoluzione”» [21], ciò non deve impedire di vedere le due rivoluzioni che l'hanno preceduta e che sono rilevabili non solo e tanto attraverso misurazioni macroeconomiche, ma anche tenendo conto di diversi altri processi, a partire da quelli molecolari, e da quelli non meno decisivi sul terreno delle infrastrutture e delle strutture commerciali e finanziarie. Si possono richiamare brevemente (in parte li abbiamo già visti):

1. la penetrazione del mercato anche nei più isolati casolari (Carlo Cattaneo);

2. la capacità del capitale di dar vita a mercati del lavoro anche sotto il permanere formale di un lavoro indipendente;

3. il mutamento dei comportamenti demografici della famiglia-azienda della piccola affittanza, portata a riprodurre in abbondanza forza lavoro per il mercato;

4. il radicarsi di una cultura industriale e il costituirsi di vivai imprenditoriali e di propensioni all'investimento nell'industria;

5. l’apporto fornito dall'infrastrutturazione territoriale, in particolare da una rete di trasporti su ferro notevole sia a scala regionale (una fitta rete di ferrovie e tramvie) sia a livello internazionale [22];

6. infine tutto ciò che, con i trasporti, ha concorso a fare di Milano una piazza di mercato e un centro finanziario di primaria importanza, quantomeno in Italia.

Della prima rivoluzione – la formazione di una fitta intelaiatura produttiva nelle campagne – si è già detto. Quanto alla seconda – il superamento dell’impossibilità di far attecchire in città le attività industriali – un apporto rilevante è venuto da un incentivo fiscale: l'esenzione del circondario esterno dai dazi sui beni di consumo. È infatti il determinarsi della condizione che Carlo Cattaneo ha definito di «porto franco» [23] a favorire il concentrarsi, a stretto contatto con la città storica, di opifici, magazzini e popolazione (una compagine umana composita, alimentata sia dai ceti deboli espulsi a ondate successive dal cuore della città sia da masse crescenti delle famiglie di giornalieri e braccianti provenienti dalle campagne della Bassa irrigua, altra grande riserva di forza lavoro).

Come si ridisegna il quadro insediativo con il «grande scatto»?

Le maggiori concentrazioni industriali si appoggiano per lo più al sistema policentrico delle città a cui fa capo la rete ferroviaria principale. In pochi altri casi – Legnano, Sesto San Giovanni, Saronno ecc. – è l'industria stessa a precedere la formazione di insediamenti urbani, cambiando radicalmente il quadro di vita di borghi o villaggi agricoli. Il sistema ferroviario rimane comunque il supporto obbligato per le successive espansioni del metalmeccanico e del chimico, fino a che il mezzo privato su gomma e le spinte al decentramento non sono intervenuti a cambiare in senso diffusivo le opportunità localizzative.

A un certo punto la riserva di forza lavoro delle campagne della provincia e della regione non basta più. Quando si verifica il coinvolgimento massiccio di altri territori?

Già tra le due guerre si ha un primo ricorso a immigrazioni dal Veneto e dal Meridione. Ma, com'è noto, sono gli anni del miracolo economico (1956-62) a segnare una vera e propria rottura degli argini con le immigrazioni che hanno per origine privilegiata il Meridione. A rompersi è ovviamente anche il delicato equilibrio che aveva consentito a Milano di rimanere una città relativamente piccola rispetto alla notevole quantità di energie umane e materiali che utilizzava e metteva in moto.

Se il boom delle produzioni dei beni di consumo di massa (auto, elettrodomestici ecc.) ha portato a una sostanziale riconferma dell'armatura industriale formata dalla prima industrializzazione “pesante” (sia pure con nuove ramificazioni), la maggiore novità nel quadro insediativo è data dal riprodursi della periferia metropolitana: una urbanizzazione quasi totale delle campagne a nord di Milano, con tracimazioni verso le altre direzioni.

Il processo è stato esaltato da due fatti: 1) la nuova immigrazione si è configurata come trasferimento stabile di interi nuclei famigliari; 2) gli immigrati attivi non hanno occupato solo nuovi posti lavoro ma hanno innescato una vasta funzione sostitutiva delle forze di lavoro già presenti nella produzione.

Nel giro di meno di un decennio, dalla metà degli anni settanta alla metà del decennio successivo, la città industriale conosce un collasso verticale. Come si spiega un fenomeno di tale portata che nessuno ha saputo prevedere?

La ragione di fondo è semplice: nel giro di pochi lustri si sono annullate le differenze nei costi di riproduzione della forza lavoro che avevano costituito il motore della metropoli. A produrre tale annullamento l’innalzamento dei valori della rendita fondiaria anche nell’hinterland, esito del dilagare della colata di cemento e della infrastrutturazione stradale capillare.

Allo stesso tempo il balzo in avanti della rendita ha messo drasticamente in discussione la localizzazione urbana di molti complessi industriali (peraltro ormai scarsamente competitivi), con un vasto processo di chiusura o di decentramento di molte unità produttive nelle aree periferiche della metropoli e al di fuori di esse. Ne sono venute sintesi geografiche nuove con il persistere di alcune teste di ponte direzionali e finanziarie nella città e il dispiegarsi di molti cicli produttivi (auto, elettronica, chimica ecc.) su scala mondiale.

Negli ultimi decenni il decentramento a lungo raggio (in particolare verso i paesi dell’Est-Europa) ha investito diversi altri comparti, in una logica che vede quelle regioni occupare il posto un tempo riservato alle campagne della regione: un coinvolgimento di natura prettamente metropolitana.

Tutto questo non ha però portato affatto alla sparizione della produzione industriale dalla Lombardia. Si è al contrario verificato il proliferare di unità produttive polverizzate a cui lo sprawl insediativo ha fornito un humus ideale.

Torniamo a Milano. Attraverso quali trasformazioni è passato l'organismo urbano lungo la fase di avvio e sviluppo delle metropoli contemporanea?

Semplificando si possono individuare cinque fasi:

1.l’ascesa della città borghese. È l'epoca che Carlo Cattaneo ha chiamato della «magnificenza civile» [24]. La scelta della borghesia di eleggere il contesto urbano a teatro in cui legittimare anche sul piano culturale la propria egemonia fa del bene alla città. In questo Milano è al passo dei migliori processi riqualificazione urbana che interessano l'Europa;

2.la formazione della città duale. Con la crescita della città industriale si delinea una chiara distinzione, insieme funzionale e sociale, fra la città interna alle mura spagnole e il circondario esterno. La borghesia a questo punto sogna un modello insediativo e relazionale in cui «La grande industria fa sentire alla città i suoi benefici effetti, ma non è localizzata nella città stessa» [25]. Nel contempo vive la realtà del circondario come una minaccia alla sicurezza e appronta progetti urbanistici per rompere quello che considera un assedio.

La “città duale” è però anche il terreno di crescita di una dialettica politica inedita fra le componenti sociali e ciò contribuisce a fare di Milano un laboratorio politico della moderna democrazia nel nostro Paese;

3.l’affermarsi della città corporativa. È il risultato del perseguimento di una rigida struttura piramidale nella società e nella topografia sociale: una gerarchia classista che trova il suo culmine nel fascismo, i cui interventi di ingegneria sociale, realizzati attraverso pesanti operazioni sul corpo urbano, lasciano il segno;

4.il passaggio dal completamento del disegno corporativo alla dissoluzione della città industriale. Gli elementi distintivi di questa fase si possono schematicamente così riassumere: l'inasprirsi e poi il ridursi progressivo della dialettica sociale; l'avvio di un gigantesco esodo di popolazione; infine, la perdita di identità urbana, mal nascosta dal fiorire di vacui slogan (la "Milano da bere", MiTo ecc.);

5.la fase attuale, dominata dallo strapotere immobiliarista e che vede Milano in ritardo sul terreno del rinascimento urbano. C’è un divario abissale fra quello che si fa a Milano e i migliori esempi di rilancio della qualità urbana che da tempo interessano importanti città europee (Barcellona, Parigi, Madrid ecc.). Né i progetti in cantiere si dimostrano all’altezza di questo delicato passaggio storico.

Per concludere: quali problemi travagliano la metropoli milanese e quali proposte si possono avanzare per un miglioramento delle condizioni di vita?

La metropoli matura sembra la puntuale dimostrazione di quanto, già nei primi anni trenta del novecento, Robert Musil aveva intravisto: «c’è un aumento di potenza che sbocca in un progressivo aumento d’impotenza […]» [26].

Il contesto milanese è particolarmente segnato da patologie sia sul fronte della sostenibilità ecologica sia su quello della sostenibilità sociale. Ne indico tre, su cui rilevanti paiono le responsabilità della pubblica amministrazione (a tutti i livelli):

1.l’elevato consumo di suolo. Il carattere strutturale dello sprawl appare ulteriormente sancito dal fatto che la maggior parte delle amministrazioni locali ha nel consumo di suolo una fonte di finanziamento che consente di far quadrare i bilanci (disastrati anche da sprechi e inefficienze). Si è stabilito un nefasto meccanismo fiscale che rende gli enti locali cointeressati alla distruzione del paesaggio. È un legame che va tagliato, uscendo dalle dichiarazioni di principio di cui sono pieni i documenti di pianificazione territoriale a tutti i livelli;

2.la dissipazione di energie legate allo sprawl e a inefficienze nel sistema della mobilità, con pesanti conseguenze in termini di costi sociali e di competitività del sistema economico. A dispetto della prospettiva che, un secolo fa, con la conquista delle otto ore sembrava a portata di mano, non siamo diventati più ricchi, se per ricchezza intendiamo il tempo a disposizione per coltivarci. Ci ha pensato la metropoli contemporanea, con il suo assetto spaziale e relazionale, a occupare una parte crescente delle ore assegnate sulla carta al loisir. Abitare è diventato un lavoro: le economie di scala delle grandi concentrazioni di attività in logiche extra e anti-urbane – commercio, divertimento, lavoro – sono pagate dall' homo metropolitanus in termini di tempo. Lo stesso vale per l'altra faccia della medaglia: la dispersione della residenza. Si è istituito un baratto tacito e obbligato: io ti do delle opportunità - sconti sui prezzi dei beni di consumo e della casa - e tu, per goderne, ci metti il bene più prezioso di cui disponi: il tempo. Il prezzo, manco a dirlo, è pagato in modo inversamente proporzionale al reddito.

Che fare? Le scelte urbanistiche devono porre un alt alla dispersione. Allo stesso tempo vanno compiuti interventi incisivi volti a ridurre la mobilità obbligata e comunque il tempo bruciato dall'inefficienza della macchina metropolitana;

3.crisi della qualità urbana dei luoghi e delle relazioni sociali e il parallelo esplodere dei problemi della sicurezza. Il prezzo più alto è la rinuncia alla città. A pagarlo, in prospettiva, sono tutti i ceti sociali. Per una massa crescente di persone abitare equivale ormai a usufruire di una rete trasportistica che connette contenitori di funzioni. Il tra - lo spazio fra i contenitori - quando non è occupato dalla rete o custodito da quel che rimane dell'agricoltura è terra di nessuno. Ancora mezzo secolo fa il mondo umanizzato era fatto di luoghi e di paesaggi concepiti per accogliere la vita individuale e sociale: teatri che avevano il carattere di interni a cielo aperto. Questa condizione è ora progressivamente erosa. E, per mitigare l'inospitalità dei contesti metropolitani, si predispongono dei simil-luoghi e delle simil-città: quel che basta per dare una parvenza di libertà alla simil-vita.

Contro questo processo urge il rilancio dell’ urbis coltura (oltre che dell'agri coltura). L'esistenza della città è particolarmente minacciata da fenomeni di segmentazione e ghettizzazione sociale che conoscono una nuova virulenza. È la strada su cui tragicamente si sono incamminate le "città" del Sud-America: la disgregazione delle gated communities, ormai vere e proprie isole armate. Occorre che ci opponiamo con tutte le forze al realizzarsi di una simile prospettiva.

[1] Aristotele, Politica, III, 9, 1280 b, in Aristotele, Opere, vol. IX,Politica, Trattato sull’economia, Laterza, Roma-Bari 1991, p 88.

[2] Ivi, III, 9, 1281 a, Aristotele, Politica cit., pp. 88-89.

[3] G. Glotz, La Cité grecque, Michel, Paris 1928, trad. it. La città greca, Einaudi, Torino 1955, p. 39.

[4] C. Cattaneo, Notizie naturali e civili su la Lombardia, Milano 1844, ora anche in Id., Notizie naturali e civili su la Lombardia - La città considerata come principio ideale delle istorie italiane, a cura di F. Livorsi e R. Ghiringhelli, introduzione di M. Talamona, presentazione di E. A. Albertoni, Mondadori, Milano 2001 (a cui nel séguito si riferiscono le citazioni), p. 65.

[5] G. Botero, Delle cause della grandezza e magnificenza delle città, Roma 1588, ora in Id., Della ragion di Stato - Delle cause della grandezza delle città, a cura di C. Morandi, Cappelli, Bologna, p. 375.

[6] «Non si creda alcuno [...] ch’una città vada senza fine crescendo. Egli è in vero cosa degna di considerazione, onde nasca che le città giunte a certo segno di grandezza, e di potenza, non passino oltre; ma, o si fermino in quel segno, o ritornino indietro». Ivi, p. 376.

[7] Botero, Delle cause cit., passim.

[8] Cfr. G. Consonni, G. Tonon, La fabbrica delle differenze. Note su genesi e sviluppo della metropoli contemporanea, in «Q.D. Quaderni del Dipartimento di Progettazione dell’architettura», a. III, n. 3, settembre 1985, pp. 11-14.

[9] Un quadro sintetico di questi processi è tracciato in G. Consonni, G. Tonon, La terra degli ossimori. Caratteri del territorio e del paesaggio della Lombardia contemporanea, in Aa. Vv., Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Lombardia, a cura di D. Bigazzi e M. Meriggi, Einaudi, Torino 2001, pp. 51-187. Cfr., inoltre, Id., Alle origini della metropoli contemporanea, in Aa. Vv., Lombardia. Il territorio, l’ambiente, il paesaggio, vol. IV, Electa, Milano 1984, pp. 89-164.

[10] «a la [vita felice] nullo per sé è sufficiente a venire sanza l’aiutorio d’alcuno, con ciò sia cosa che l’uomo abbisogna di molte cose, a le quali uno solo satisfare non può. E però dice lo Filosofo [Aristotele] che l’uomo naturalmente è compagnevole animale. E sì come un uomo a sua sufficienza richiede compagnia dimestica di famiglia, così una casa a sua sufficienza richiede una vicinanza [quartiere o sestiere]: altrimenti molti difetti sosterebbe che sarebbero impedimento di felicitade. E però che una vicinanza [a] sé non può in tutto satisfare, conviene a satisfacimento di quella essere la cittade. Ancora la cittade richiede a le sue arti e a le sue difensioni vicenda avere e fratellanza con le circonvicine cittadi; e però fu fatto lo regno». Dante Alighieri, Convivio [1304-1307] IV, IV.

[11] C. Cattaneo, La città considerata come principio ideale delle istorie italiane, in «Il Crepuscolo», a. IX, nei fasc.: 42, 17 ottobre 1858, pp. 657-659; 44, 31 ottobre 1858, pp. 689-693; 50, 12 dicembre1858, pp. 785-790; 52, 26 dicembre 1858, pp. 817-821, ora anche in Id., Notizie naturali cit., p. 239.

[12] Ivi, p. 198.

[13] Ibidem.

[14] È un paradosso che, con Graziella Tonon, ho già messo in rilievo in riferimento agli scritti del Cattaneo sulla Lombardia. Vedi Consonni, Tonon, La terra degli ossimori cit. (in part. il capitolo Lo squilibrio microfisico ovvero l’ingannevole equilibrio della Lombardia cattaneana, pp. 72-92). Cfr. inoltre il mio La città di Carlo Cattaneo, in «Contemporanea. Rivista di storia dell’Ottocento e del Novecento», a. VI, n. 2, aprile 2003, pp. 383-387.

[15] Si tratta di una opinione divenuta “senso comune” in un largo settore della pubblicistica prodotta da architetti e urbanisti italiani in questo dopoguerra, parallelamente alla “scoperta” della dimensione intercomunale della pianificazione. Nel convegno sul tema La nuova dimensione della città. La città regione, tenutosi a Stresa il 19-21 gennaio 1962 (Ilses, Milano 1962), Carlo Aymonino, ad esempio, sostenne che in Italia tra le due guerre «[...] la dimensione della città era ben lontana dall'assumere proporzioni metropolitane [...]» (Da una sintesi dell'intervento ad opera di Giancarlo De Carlo, ivi, pag. l82); ma di citazioni analoghe di potrebbe riempire un volume.

[16] G. Romagnosi, Della ragione civile delle acque nella rurale economia […] , in Id., Della condotta delle acque e della ragione civile delle acque. Trattati di Giandomenico Romagnosi riordinati da Alessandro De Giorgi, vol. V, Perelli e Mariani, Milano 1842-1843, p. 1200.

[17] Ivi, p. 1201.

[18] Cfr. G. Consonni, G. Tonon, Casa e lavoro nell’area milanese. Dalla fine dell’Ottocento al fascismo, in «Classe», a. IX, n. 14, ottobre 1977, pp. 165-259 e Id., Milano: classe e metropoli tra due economie di guerra, in Annali della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Anno Ventesimo, 1979-1980, Feltrinelli, Milano 1981, pp. 405-510.

[19] Cfr. Id., La terra degli ossimori cit., in part. le pp. 162-171.

[20] Rinvio al mio Dalla città alla metropoli. La classe invisibile, in Aa. Vv., Milano operaia dall’800 a oggi, a cura di M. Antonioli, M. Bergamaschi, L. Ganapini, Cariplo-Laterza, Milano 1993, vol. I, pp. 19-36.

[21]L. Cafagna, La formazione di una “base industriale” fra il 1896 e il 1914, in Aa. Vv., La formazione dell'Italia industriale, a cura di A. Caracciolo, Laterza, Bari, 1977 (1969), p. 124

[22] Il capoluogo lombardo può assurgere a un ruolo di caposaldo logistico dei flussi commerciali fra l’Italia e il Centro Europa grazie alle scelte operate sui trafori ferroviari: dapprima quello del Gottardo (1882), scelto in alternativa ai tracciati per il Lucomagno e per lo Spluga, e poi quello del Sempione (1906) che, scelto, a sua volta, in alternativa al Monte Bianco, privilegia ulteriormente Milano rispetto a Torino negli scambi con la Francia.

[23]C. Cattaneo, Sui dazi suburbani di Milano. Lettera (III), ne «Il Diritto», 7 settembre 1863, ora anche in Id, Scritti sulla Lombardia, a cura di G. Anceschi e G. Armani, Ceschina, Milano 1971, vol. I, p. 440.

[24] C. Cattaneo, Sul progetto d’una piazza pel Duomo di Milano, ne «Il Politecnico», a. I, fasc. III, marzo 1839, ora in Id., Scrittisulla Lombardia cit., vol. II, p. 653.

[25] G. Colombo, Milano industriale, in Mediolanum, Vallardi, Milano, 1881, vol. III, p. 51. Cfr. V. Hunecke, Cultura liberale e industrialismo nell'Italia dell'Ottocento, in “Studi Storici”, a. XVIII, n. 4, ottobre-dicembre 1977, pp. 23-32. Cfr. Consonni, Tonon, La terra degli ossimori cit., in part. le pp. 118-127

[26] R. Musil , Der Mann ohne Eigenschaften, vol. I, Rowohlt Verlag, Berlin 1933, trad. it.: L’uomo senza qualità, vol. I, Einaudi, Torino 1982 (1a ed. 1957), p. 147.

Premiano la rendita al di là di ogni aspettativa

Mauro Moretti, amministratore delegato di Ferrovie dello Stato, nelle dichiarazioni alla stampa (Sole/24 ore, 21.3.07; Repubblica/Affari e finanza, 26.3.07) seguite all’accordo con il Comune di Milano sulle prospettive di riutilizzo edificatorio degli scali ferroviari in dismissione (circa 1.500.000 metri quadri) stima che i proventi dell’operazione vadano dai 600 agli 800 milioni di euro. “Non è possibile indicare la cifra esatta – egli sostiene – perché dipenderà dai parametri minimi e massimi di edificabilità che saranno assegnati a ciascuna area”.

Tuttavia, nel luglio 2005 i rispettivi predecessori al vertice di FS e del Comune, Elio Catania e Gabriele Albertini, in un protocollo d’intesa antesignano dell’attuale accordo, dichiaravano che avrebbero applicato a quelle aree il modello utilizzato per il riuso dell’area dell’ex Fiera di Milano: bene, se c’è qualcosa che quel modello ci ha chiaramente insegnato è che non si possono utilizzare le aspettative di reddito dei proprietari fondiari per determinare le volumetrie edificabili nel riuso delle aree in dismissione.

Nel riutilizzo dell’ex Fiera (circa 250.000 mq), la Fondazione proprietaria dell’area, per sua stessa dichiarazione, puntava a realizzare 250 milioni di euro, ciò che, ai prezzi usuali con cui veniva remunerata la rendita fondiaria a Milano (300 euro/mc ossia 900 euro al mq edificabile), richiedeva l’edificabilità di circa 800-900 mila mc, cioè una quantità circa doppia di quella ammessa dall’indice attribuito dal Comune alle altre aree in dismissione (0,65 mq/mq).

Infatti, la Variante che il Comune ha graziosamente concesso a Fondazione Fiera (notoriamente monopolizzata nei suoi vertici dalle nomine di osservanza ciellina fatte dalla Regione) ha attribuito, senza nessun criterio ragionevolmente giustificabile, un indice di edificabilità quasi doppio (1,15 mq/mq) di quello di tutte le altre proprietà fondiarie in riuso.

La cosa più stupefacente è che quando, nell’offerta pubblica di vendita condotta da Fondazione Fiera, gli aspiranti acquirenti hanno offerto più del doppio (523 Milioni di euro) di quanto la proprietà fondiaria dichiarava di aspettarsi, il Comune ha ritenuto che quell’assurda ed ingiustificata quantità edificatoria fosse comunque un diritto ormai acquisito dalla proprietà, la quale si è tenuta ben stretto il surplus realizzato a scapito della qualità insediativa dell’ambito urbano.

Si possono dimezzare gli indici

Vi è, tuttavia, un insegnamento positivo da trarre da questa brutta vicenda, caratterizzata dall’atteggiamento di sudditanza del Comune verso Fondazione Fiera e l’organizzazione che la dirige (non così i cittadini, che continuano a difendere da sé i propri diritti con i ricorsi amministrativi in atto) ed è che essa costituisce la prova provata che nelle trasformazioni urbane di grande dimensione e lungo periodo i grandi investitori finanziari sono disposti a remunerare la rendita fondiaria circa il doppio che negli interventi a breve e di più modesta dimensione (probabilmente non credendo affatto ai ventilati allarmi di sgonfiamento della cosiddetta bolla speculativa immobiliare).

Stando così le cose, l’aspettativa di FS di realizzare circa 700 milioni di Euro dalla cessione ai promotori immobiliari di circa 1 milione di mq di scali ferroviari in dismissione, sulla base di una remunerazione di circa 600 euro/mc (pari a 1.800 euro al mq edificabile), potrà essere soddisfatta con un indice edificatorio non superiore a 0,50 mq/mq. pari a non più di 1.500.000 mc. di edificazione (e non gli oltre 3,500.000 mc che deriverebbero dall’uso ingiustificato dell’indice 1,15 mq/mq).

Si tratta certo di discutere dove localizzarli, quanto concentrarli più opportunamente e quali rapporti promuovere tra funzioni, tipologie edilizie e spazi pubblici: compito che non può che spettare alla pubblica decisione e non al promotore immobiliare, alla ricerca di una facile ed effimera immagine-spettacolo, come è accaduto nel caso dell’area ex Fiera.

Chi sono i veri egoisti nella Chinatown story

Basti pensare alla notizia, apparsa ripetutamente nelle cronache milanesi di questi giorni, che per far fronte agli episodi di turbativa dell’ordine pubblico verificatisi nelle scorse settimane nella zona di via Paolo Sarpi dove si concentrano gran parte delle attività di commercio all’ingrosso gestite da operatori cinesi, la Sindaca di Milano, Letizia Moratti,e il Presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni, propongono di trasferirle nell’hinterland all’ex Alfa Romeo di Arese, in totale difformità dall’Accordo di programma tra Regione, Provincia e comunità locali, che ne prevede la reindustrializzazione con produzioni legate alla mobilità sostenibile.

Le giuste e comprensibili resistenze avanzate dai rappresentanti delle comunità locali all’improvvisato cambio di programma sono state bollate da Regione e Comune di Milano come espressione di egoismo localistico ed incapacità di farsi carico di problemi generali.

Il Comune di Milano, però, si dimentica di dire che nel Protocollo d’intesa con FS del 20 marzo scorso per il riutilizzo degli scali ferroviari in dismissione rientra anche lo scalo Farini, di circa 500.000 metri quadri, vicinissimo a Paolo Sarpi, per il quale si indicano solo ipotesi di massima valorizzazione immobiliare con case ed uffici. Né il Comune né FS hanno pensato minimamente alla rilocalizzazione del commercio all’ingrosso di via Paolo Sarpi, puntando solo alla massima valorizzazione immobiliare

Chi sono, dunque, i veri egoisti ? Non sarebbe opportuno, invece, prevedere una STU (Società di Trasformazione Urbana) tra Comune, FS e commercianti cinesi che gestisca la vendita degli immobili usati impropriamente in via Paolo Sarpi e il reinvestimento in nuove e più adeguate edificazioni sulle aree ex scalo Farini, trovando le opportune leve finanziarie che facilitino il buon esito dell’operazione ed evitino ogni rischio speculativo ?

Senza un piano urbano e metropolitano che dia senso generale e di medio-lungo periodo alle scelte localizzative che si vanno operando è inevitabile che a prevalere nell’uso della città sia la speculazione immobiliare a breve, di cui il Comune finisce per essere succube, anziché svolgere un ruolo anticongiunturale e di tutela degli interessi collettivi.

Postilla

Non solo regalano ai privati un valore economico che è frutto della collettività, non solo affidano loro la progettazione della città, non solo aiutano gli industriali a spostare risorse della produzione (salari e profitti, innovazione, ricerca) alla rendita parassitaria, ma non sanno neppure fare bene i conti. Naturalmente, sbagliano a danno della collettività che rappresentano.

Copiate, riproducete, citate l'articolo all'unica condizione di citare l'autore e la fonte: scrivete che è tratto dal sito eddyburg.it

Una nota di Fabrizio Bottini, da Megachip

Che la “questione sicurezza”, soprattutto quella immaginaria o comunque percepita, venga sbandierata in modo strumentale, nessun dubbio. Nella sua declinazione urbana, si accompagna in modo classico e quasi automatico a vari processi, più o meno legati alla speculazione edilizia e/o a un’idea generale di città espressa dai ceti dominanti.

È abbastanza noto come fra i vari motivi degli sventramenti ottocenteschi ci fosse la possibilità per la polizia di spostarsi rapidamente (per l’attacco o la ritirata) lungo i larghi boulevards. E anche quando il nemico è più subdolo come il colera di Napoli nell’Italia postunitaria, le campagne giornalistiche, le decisioni politiche, le conseguenti trasformazioni urbanistiche, portano sempre lo stesso marchio: la sicurezza (dalla malattia, dal crimine, dal degrado variamente inteso) usata come leva per imporre in punta di ruspa un’idea di città.

Passano gli anni, alle cariche a cavallo e alle ruspe si sostituiscono – a volte - altre cose, ma la sostanza sembra non cambiare di molto. Nel caso specifico del “problema Chinatown” a Milano, al centro di tutto c’è proprio l’idea di città, o meglio di metropoli, espressa storicamente dalla destra, e non necessariamente da quella politicamente targata così. Che si riassume in una forma piuttosto rozza di segregazione e speculazione, dove ognuno deve stare al suo posto: i quartieri terziari, la cosiddetta downtown, anche se non ha (ancora) i grattacieli; una fascia di quartieri ad alto valore immobiliare, magari con i divertimentifici alla happy hour e assimilati; poi la periferia in attesa di prossima promozione e valorizzazione, e ancora più fuori la città diffusa, parcheggio di tutto quanto non trova posto (ovvero non si vuole) nel proprio orticello.

La zona cosiddetta “Chinatown” è invece piuttosto eversiva rispetto a questo modello. È una di quelle zone che sarebbero piaciute alla studiosa americana di fatti urbani Jane Jacobs, scomparsa quest’inverno dopo mezzo secolo di lotte e libri famosi, tutti attorno ad un unico tema: la città come organismo complesso, ovvero non fatto di compartimenti stagni. La Jacobs contestava già negli anni Cinquanta le devastanti prospettive con cui osannati (allora e oggi) grandi architetti si volevano sostituire alla storia e alla società, dicendo solo: ma guardate! Guardate come funziona davvero un quartiere vitale, dove si abita, si lavora, si gioca, ci si incontra, si passeggia per strada e ci si conosce. Macché: il grande stratega degli spazi, e con lui il politico/amministratore che lo sostiene, di solito ha un proprio modello in testa.

Che nel caso del “quartiere cinese” non ci vuole molta immaginazione a prefigurarsi: basta passeggiare ad esempio verso la zona di Corso Como, non lontana, dove un’arteria storica su cui si affacciano dei cortili è stata totalmente prosciugata, e “valorizzata”. La questione quindi non è di composizione etnica, e neppure di generica efficienza urbanistica, ma di eliminare una pericolosa sacca di città vera e vitale, dove appunto si fanno tutte le cose della vita. A volte si potrebbero far meglio, ma non sta qui il punto. Un collega urbanista, Luca Tamini, ha fatto uno studio piuttosto interessante su quella zona, concludendo come ha dichiarato in una intervista al Giorno che qui sta nascosta “un’alternativa all’odierno quadrilatero di Montenapoleone”. Una ipotesi intelligente e lungimirante, che però forse non fa i conti col modello della Grande Milano accennato sopra: dove finirà tutto il resto, tutto quello che non ci azzecca con stilisti, modelle, mogli degli evasori e compagnia bella?

La risposta tecnica è già emersa: le attività all’ingrosso deportate in un polo specializzato nell’area metropolitana. Sempre per citare gli americani, che ahimè sono sempre più avanti di noi anche nelle porcherie, c’è un acronimo significativo: LULU. Che sta per Locally Unwanted Land Use, un uso dello spazio che non si vuole, e che va “altrove”, di solito dove lo si può imporre. In punta di ruspa, come negli antichi sventramenti, e magari anche con l’intervento della forza pubblica. E la cosa vale per tutte le altre attività unwanted, compresa ad esempio la residenza non ricca. Insomma, quanto ha ragione Filippo Azimonti, a dire che la sicurezza c’entra come i cavoli a merenda! Salvo, che come scusa per l’operazione di sgombero strisciante su larga scala. Nome in codice: LULU.

Nota: sul tema del "quartiere cinese" di Milano, vari articoli sia su Eddyburg Città Oggi / Milano, che su Mall Spazi del Consumo. Un "contributo" particolare quello di Franco Mancuso

Filippo Azimonti, Ma non è un problema di sicurezza, la Repubblica/Milano, 20 maggio 2007



Perché la comunità cinese di Milano è finita nel «patto sulla sicurezza» firmato venerdì dal sindaco Letizia Moratti e dal viceministro dell´Interno Marco Minniti? Si direbbe per la rivolta di Chinatown, per quelle bandiere della Repubblica popolare sventolate su un quartiere presidiato per la protesta contro il pugno di ferro usato dai vigili contro i traffici che vi si svolgono quotidianamente. Che l´amministrazione, evidentemente, interpreta come un attentato alla sicurezza della città. Declinando l´allarme del ministro Amato sul pericolo rappresentato dalle comunità ad etnia unica rispetto all´orizzonte multietnico che si impone per rendere efficaci le politiche di integrazione, in una salsa ambrosiana francamente imbarazzante.

Perché i cinesi in via Paolo Sarpi ci sono dal 1920: la più antica comunità d´immigrazione nella storia italiana; perché i cinesi la loro Chinatown se la sono comprata mattone per mattone dagli italiani che gradivano il pagamento in nero e in contanti di case ed officine; perché i cinesi non aggrediscono le vecchiette per strada. E allora è perché i cinesi bloccano il traffico con le loro mercanzie, fanno concorrenza sleale agli italiani (che Milano però l´hanno abbandonata da tempo); o forse perché denunciano il razzismo strisciante dei loro vicini di casa e cominciano a contestare i loro – i nostri – amministratori. E così che la protesta, l´orgoglio etnico, la capacità imprenditoriale si trasforma in un problema di sicurezza? Che si affronta come se la comunità cinese fosse quella Rom: allontaniamoli dalla città, non facciamoli più vedere, cacciamoli ad Arese, e facciamoli pure pagare, perché i cinesi, al contrario dei sinti, i soldi li hanno. Li hanno, ma sanno anche usarli.

Essendo loro degli imprenditori con alle spalle 4mila anni di affari e commerci, ci hanno già pensato da soli. E infatti stanno colonizzando altre aree della città con gli stessi metodi, sul filo della legalità, sperimentati con successo in Paolo Sarpi: viale Padova, viale Monza via Mac Mahon, Affori. Che hanno scelto in base a prospettive di investimento, logistiche, piani di sviluppo che ci sono ignoti ma che difficilmente baratteranno con un´area industriale dismessa offerta per di più a caro prezzo da una qualsiasi amministrazione. Perché loro navigano nel mercato, spregiudicatamente; l´amministrazione nel pregiudizio.

Chinatown non è il folklore multietnico della romana Piazza Vittorio. Non avrà un´orchestra di successo, ma coltiva affari di successo. E con gli affari, lavoro nero, immigrazione clandestina, ricatti e sfruttamento su un modello non troppo lontano da quello del caporalato edile della Bergamasca. Hanno imparato da noi come si fa impresa, aggirano come noi le leggi dello Stato, accumulano come noi fondi neri, sfruttano come noi la manodopera immigrata. E non per questo vengono sanzionati, ma per i furgoni in seconda fila. Uno strano criterio di legalità. E di sanzione.

E allora bisognerebbe dire la verità: che Chinatown è un luogo dell´investimento estero in Italia, quello che ci piace se è targato Olanda (ma non ci piace neanche quello perché minaccia l´"italianità" e poi loro sono protestanti) ma molto meno se si fa in maglietta spingendo 100 kg di borse molto probabilmente contraffatte bloccando il traffico in una strada che non è più italiana da almeno 20 anni. L´illusione è normalizzare la situazione dimenticando che quella che era una comunità di "profughi" dalla Cina comunista oggi ha riallacciato i rapporti con la madrepatria. Che non è la Romania ma la terza potenza mondiale. Che potrebbe dispiacersi apprendendo che i suoi cittadini vengono trattati come delinquenti. E a chi non è sordo l´ha già fatto capire.

Al polo fieristico di Rho Pero, un seminario su “L’emergere delle nuove città dalla trasformazione delle aree industriali dismesse” ha inaugurato il 22 maggio Expo Italia Real Estate, la principale fiera italiana dedicata allo sviluppo immobiliare; in programma, interventi di Federico Oliva, Roberto D’Agostino, Lanfranco Sen, Joan Busquets, William Kistler e una tavola rotonda (“le Città a confronto”) cui partecipano una fitta schiera di sindaci (Milano, Roma, Venezia, Bari, Barcellona, Lione, Francoforte, Toronto,..) e il Presidente della Provincia di Milano. Conclude il Presidente della Regione Lombardia, mentre il saluto di apertura spetta al Presidente della Camera dei Deputati, Fausto Bertinotti.

La Rete dei Comitati Milanesi sottoscrive nei giorni precedenti all’evento un appello, rivolto al Presidente della Camera, dove denuncia in maniera circostanziata la rovinosa cementificazione in atto a Milano. Ma partecipare al seminario costa caro: 200 euro. E, come sempre nelle iniziative ufficiali milanesi, la partecipazione della società civile è rigidamente bandita.

In una mattina assolata, il Presidente della Camera prima di recarsi in Fiera decide, “per ragioni non personali, ma perché il compito delle istituzioni è anche di mettersi in ascolto delle popolazioni”, di incontrare la Rete dei Comitati nel giardino di via Confalonieri: uno spazio di verde pubblico di prossimità molto frequentato dagli abitanti dello storico quartiere Isola. Sono già in corso gli scavi per la costruzione dell’ennesimo parcheggio sotterraneo; il primo atto della realizzazione del Piano Integrato di Intervento Isola Lunetta progettato da Stefano Boeri su incarico del gruppo Hines Italia: un progetto che, malgrado i rendering seduttivi e la retorica partecipativa, ha ricevuto critiche severe dai cittadini e dalle loro associazioni (Fig. 1 e 2)

Sullo sfondo si staglia la Stecca degli Artigiani, già per metà demolita dopo il blitz salvifico della polizia contro gli spacciatori di cui si sono occupate le cronache milanesi delle ultime settimane, evidenziandone in particolare la tempistica molto favorevole all’avvio dei cantieri (Fig. 3).

Nel definire le strategie di riuso delle aree dismesse, occorre un progetto pubblico per la città che valorizzi la partecipazione delle popolazioni, i veri “esperti per esperienza”, sottolinea il Presidente della Camera: un progetto che salvaguardi le identità locali e ponga al centro il tema della inclusione sociale.

Questi temi sono stati probabilmente anche al centro degli interventi di molti sindaci di città europee invitati alla tavola rotonda in Fiera. Ma dopo l’ormai rituale evento internazionale, in Fiera si attendono i fatti: nuovi finanziatori per le formidabili opportunità di sviluppo del mercato immobiliare che le amministrazioni locali, grazie alla deregulation urbanistica in atto nel nostro paese, stanno mettendo a disposizione a piene mani.

Le parole del Presidente della Camera suonano come una generoso auspicio al quale si spera facciano seguito molto presto decisioni fattive da parte del governo in carica: in particolare, la rapida approvazione di una legge urbanistica che ricostituisca un quadro di regole ancorate al bene comune e ad una corretta applicazione del principio di sussidiarietà, e la istituzione delle Città Metropolitane.

Ma a quell’auspicio si contrappone a tutt’oggi, soprattutto a Milano e in Lombardia, una visione miope e municipalistica dell’azione pubblica che sta determinando una inesorabile e inarrestabile corsa alla cementificazione di risorse territoriali preziose e irriproducibili.

Nota: per chi vuole saperne di più sul declino di Milano, si consiglia un bel libro sull’imbarbarimento, anche urbanistico, dell’ ex capitale morale: Luigi Offeddu, Ferruccio Sansa, Milano da morire, Milano, Rizzoli, 2007; di seguito un articolo con la cronaca della visita di Bertinotti e poi scaricabile il Comunicato dei Comitati (m.c.g.)

Stefano Rossi, Bertinotti fra gli abitanti dell’Isola: “la politica deve ascoltare la gente”, la Repubblica cronaca milanese, 23 maggio 2007

Il presidente della Camera può stare seduto a un tavolo in mezzo a un giardinetto alle nove e mezza di mattina, a parlare con la gente senza formalità. Un quadretto da democrazia scandinava divenuto realtà ieri all´Isola, dove Fausto Bertinotti ha incontrato i cittadini a fianco della Stecca semidistrutta. Ha ascoltato molto e preso parecchi appunti con la sua Mont Blanc, prima di dire la sua. I rappresentanti dei comitati, dai quali era partito l´invito, hanno illustrato il loro cahiers de doléances: l´Isola, la trasformazione del recinto urbano della Fiera, un senso di scollamento fra cittadinanza e istituzioni per cui cento comitati milanesi in lotta denunciano l´insufficienza della politica.

Bertinotti ha affrontato il tema appena l´altroieri e la sua diagnosi non è diversa da quella dei cento milanesi che lo circondano in via Confalonieri. La politica non sa dare risposte alle necessità della gente, aveva detto a Roma. All´Isola esordisce così: «Il compito di chi rappresenta le istituzioni è ascoltare la popolazione». Non entra nel merito delle singole questioni urbanistiche, però ha un ricordo di Milano: «Ho visto mia madre allegra come non mai quando ci portarono l´acqua corrente nella nostra casa di ringhiera in periferia». E dunque, «non ho personale nostalgia per la città di ieri».

Nulla da dire nemmeno sulla necessità di fare spazio agli operatori privati («il loro ruolo è rilevante»), tuttavia la «crisi di identità» di Milano è certa e trova la sua causa («me lo dicono persone certo non di sinistra»), nella scomparsa della classe operaia. Questo malessere si riflette nell´aspetto di questa come di altre città: «È fallita l´urbanistica contrattata con la politica. E la progettazione ambiziosa e coraggiosa degli anni Sessanta ha subito grossi smacchi, costruendo quartieri nei quali gli abitanti, al posto del paradiso, hanno trovato un brutto purgatorio».

Dopo «troppi anni di prevaricazione del mercato sulla politica», il modello di sviluppo deve cambiare nel segno della «coesione e inclusione sociale» e del contributo di «comunità scientifiche allargate». Composte di esperti, certo, ma dati i precedenti poco incoraggianti, anche di persone «con l´esperienza di vivere» nel loro quartiere. «Non sono un assolutista - è la conclusione di Bertinotti - la qualità del vivere sia non il solo ma uno dei parametri. Fatemi vedere come vivono i bambini, se possono giocare insieme il progetto è buono».

Il presidente se ne va dal giardinetto appena finito dalla Hines. Intorno si vedono i cantieri della Hines, con la quale dieci associazioni su undici e gli otto artigiani della Stecca hanno trovato un accordo per trasferirsi in zona. Hines ha modificato il progetto e presentato al consiglio di Zona il piano per il verde: «Non si può dire che non dialoghiamo con il quartiere, qualche irriducibile ci sarà sempre». All´Expo Italia Real Estate della Fiera a Pero-Rho, dove Bertinotti dice le stesse cose, l´assessore all´Urbanistica Masseroli risponde così: «Sviluppo condiviso con la cittadinanza? È quanto stiamo facendo».

Comunicato dei Comitati

Per trovare il Po, quello vivo, con le lanche e i pescatori, le anguille, gli storioni e l´acqua che si stendeva fuori dall´alveo fra dune e salici, bisogna guardare in alto, sugli alberi. Qui a Luzzara, in riva al fiume, gli «Amici del Po» hanno appeso su pioppi e ontani decine di quadri naif, con i cani e cacciatori di Barilon, lo storione di Ivonne Melli, le barche di Luigi Bagnoli.

Un museo all´aperto per ricordare il fiume che non esiste più. Anche dentro gli argini maestri sono arrivate le ruspe che hanno spianato le dune, ed ora ci sono i pioppi messi in riga come soldati, i campi di granoturco e di soia ed anche i filari di vite. Il Po, quello vivo, è stato rubato. «Divieto di accesso», annuncia un cartello sull´argine. «Autorizzazione Aipo 589/003 Regione Lombardia. Esclusi i concessionari».

Provi a entrare comunque. C´è un bosco fra i campi di granturco. In mezzo al bosco, una lanca con anatre che volano e pesci che saltano. «Acque private. Pesca riservata. Attenti al cane e al padrone»... Nella palazzina dell´Arni (Agenzia regionale navigazione interna) c´è una mappa recente, del 1970. «Trentasette anni fa - dice Edgardo Azzi, che sul Po ha scritto cinque libri - qui di fronte a Boretto c´era ancora la lanca. I pesci ci andavano a depositare le uova, i pescatori a raccogliere branzini e carpe. La lanca era un ramo del Po che girava dietro l´isola Umberto I°. Quando c´era la piena, l´acqua usciva dalla lanca e copriva anche le dune. Ma da molti anni l´acqua del fiume non riesce più a salire nella golena perché questa è diventata troppo alta». Bisogna partire da qui, dalla golena chiamata anche «Mai finita» perché era tanto grande da sembrare infinita, per capire come e perché il Po è stato rubato. Si vedono ancora, in riva all´alveo centrale, i sassi dei «pennelli», le opere costruite prima durante il fascismo poi fino agli anni ‘60, per regolare la corrente e permettere la navigazione fluviale. Quando il Po è in magra, sovrastano l´acqua di due o tre metri. «Ma bastava una piccola piena - dice l´ingegnere Ivano Galvani, direttore dell´Arni - per superare i sassi dei pennelli. L´acqua poteva così entrare in golena, portando la vita. Dava forza agli acquitrini e si depurava naturalmente, depositando sabbia e limo». L´acqua non entra più in golena perché, sopra i pennelli, ora ci sono almeno quattro metri di terra, portata da fiume. Quelli che avevano la concessione per le golene non avevano certo interesse a rimuovere questa terra. E così i concessionari di paludi e dune - un paesaggio bellissimo, ma poco redditizio - in pochi anni si sono ritrovati proprietari terrieri. «Io sostengo da anni - dice Ivano Galvani - che per il Po serve un piano regolatore che permetta di ripristinare le golene. Dopo la piena, il fiume, tornando nell´alveo, potrebbe rimettere circolo parte del materiale che aveva portato. L´alveo di magra, in questi trent´anni, causa le escavazioni di sabbia si è abbassato di almeno quattro metri. Il Po non può diventare un canale, in caso di piena si vendicherebbe. Ho fatto anche un´altra proposta: i concessionari dei pioppeti, dopo il taglio, dovrebbero togliere parte del terreno abbassandolo di tre metri. Il materiale potrebbe essere venduto al posto della sabbia presa dall´alveo. Non ho mai ricevuto risposte».

La plancia di comando del grande fiume è a Parma, nella sede dell´ex Magistrato del Po. Qui ci sono l´Autorità di bacino e l´Aipo, l´azienda interregionale (Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna e Veneto) per il fiume Po. «Il nostro compito - dice Franco Cerchia, ingegnere che dirige il servizio di piena - è esprimere pareri idraulici, verificando se l´opera o la concessione richieste siano compatibili con la vita del fiume. Per i pioppeti, ad esempio, c´è un commissione nazionale fin dagli anni´60, ci sono le commissioni provinciali. Stabiliamo che i pioppi debbono essere piantati 6 metri uno dall´altro, perché in caso di piena non provochino intasamenti di materiali. Certo, l´abbassamento del fiume ha messo in maggiore sicurezza le golene e dopo i pioppi sono state chieste concessioni per le colture basse, come il mais e l´erba medica. In caso di piena verrebbero sradicate senza creare danni. Abbiamo detto no a piante come i meli, perché richiedono antiparassitari inquinanti, e vigneti che, sradicati dal fiume, ostruirebbero le arcate dei ponti». Ma basta andare sull´argine di Gualtieri per vedere, dentro le golene, lunghissimi filari di viti per il lambrusco. Più a valle, a Gaiba, Calto, Stienta ci sono poi chilometri di frutteti. Da Torino al delta - questi i dati Aipo - nel Po ci sono 72.290 ettari di golene. Il 17,4% sono golene chiuse (protette da argini interni, oltre che da quello maestro) e queste sono tutte private. È ormai privato anche il 70% dell´intera area golenale. Quasi impossibile conoscere il numero delle concessioni. Solo nel parmense, negli ultimi 16 anni, sono state esaminate 800 pratiche. Non costa molto, «comprare il Po» e i furbi possono farla franca fra leggi e autorità che cambiano continuamente. Un tempo, a controllare tutto, c´erano il Genio civile (per gli affluenti) e il Magistrato del Po. Dopo la nascita delle Regioni, sono nati i Servizi tecnici di bacino (Stb) che hanno preso il posto del Genio. Questi autorizzavano le concessioni e l´Intendenza di finanza incassava il denaro. Da quattro anni tutto è cambiato nuovamente. Sciolta l´Intendenza anche l´incarico di stabilire i canoni è stato affidato ai Servizi di bacino. Il parere tecnico sulle concessioni del Po è rimasto invece all´Aipo. «L´Intendenza - dice Raffaella Basenghi, ingegnere che dirige l´Stb di Reggio Emilia - ci ha messo anni, a consegnarci le pratiche, nemmeno fossero oro. E quando le abbiamo aperte, abbiamo trovato lasorpresa: tante erano vuote. Nome, cognome e indirizzo del concessionario e basta. Sopra c´era scritto: «canone extracontrattuale», con relativo importo, proprio perché il contratto non era più agli atti. Stiamo cercando di mettere ordine, ma è dura. C´è chi non paga da anni, chi ha venduto, chi è morto. Certo, non è che parli di cifre esose: un ettaro di pioppeto costava al concessionario 76.500 lire nel 1993 e 100.124 lire nel 1996. Cercheremo di recuperare i crediti e già oggi, per ogni pratica nuova o rinnovata, mettiamo ogni dato nel computer. Ma siamo solo agli inizi».

Nelle golene asciutte, le radici dei pioppi non arrivano più alla falda. Hanno bisogno di irrigazione, in quella che fino a pochi anni era una palude. Se l´acqua sollevata dalle idrovore non arriva, i pioppi si abbattono al suolo, come soldati sfiniti.

«Almeno il 40% di spazi ai privati». «Nessuna spartizione. E comunque la quota di edificazione non può andare oltre il 33% delle aree». Prime schermaglie tra costruttori e Comune sul futuro dei 12 immobili militari appena passati al Demanio, che li darà in concessione a palazzo d’Accursio o privati. E lo scontro si allarga subito all’altra grande operazione immobiliare in vista nel futuro di Bologna, quella all’ex Mercato Fioravanti: «Un’impresa che partecipasse al bando del Comune andrebbe in perdita» attacca il direttore del Collegio costruttori Carmine Preziosi. In concreto: «A fronte di un investimento di 55-60 milioni si rischia una perdita di 5 milioni, non recuperabili nè attraverso la vendita né attraverso la locazione», spiega Preziosi. Insomma «le imprese stanno valutando se presentarsi solo per senso del dovere». O se non presentarsi del tutto. Sulle aree militari poi l’impegno non sarebbe da meno: lo stesso Comune stima che per recuperare la sola Staveco occorreranno oltre 40 milioni.

Il doppio affondo dei costruttori segue un unico filo conduttore, e prende spunto dalle aree fino a due settimane fa di proprietà del ministero della Difesa a Bologna: ben 600 mila metri quadri, ricchi di verde, anche in zone di assoluto pregio ai bordi della collina. Tra queste gioielli come la Staveco e la caserma S.Mamolo, ex convento francescano, e poi l’enorme appezzamento dei Prati di Caprara che la giunta ha già detto di voler trasformare nel secondo grande polo del verde cittadino dopo i giardini Margherita. Quanto alla Staveco, l’assessore all’Urbanistica Virginio Merola ha subito messo in chiaro: lì «niente villette» ma scuole o impianti sportivi come chiesto dal quartiere S.Stefano. E in generale, la destinazione a uso pubblico sarà prevalente.

Subito realtà importanti come ateneo, procura e questura si sono fatte avanti rivendicando l’esigenza di nuovi spazi. È questo il quadro in cui nasce il vivace scambio di battute tra Merola e Preziosi, ieri ai microfoni di Radio Città del Capo. Un confronto che poi Preziosi ha voluto allargare anche al delicatissimo comparto dell’ex mercato. «Il problema è quello dell’equilibrio tra costi e ricavi, sulle aree ex militari vedo solo proposte con un forte consenso sociale ma sbilanciate sui costi», ragiona Preziosi riferendosi sia all’impostazione data dal Comune, sia alle richieste arrivate da diversi enti.

Il ragionamento è chiaro: impossibile attuare interventi così consistenti senza fondi privati. Ma è altrettanto impossibile che un privato possa farsi avanti senza un guadagno, «la differenza tra costi e ricavi deve essere almeno del 30%», spiega Preziosi. Ecco allora che il Collegio invita l’assessore a essere «molto realista» e a riconoscere come «imprescindibile» la destinazione residenziale. Con tanto di indicazione su come suddividere la riqualificazione delle 12 aree: con un 60% di uso pubblico e un 40% a gestione privata. Merola chiude subito la porta, «impossibile stabilire ora delle percentuali, ci vogliono sei mesi per gli studi di fattibilità, qui si mettono le mani avanti prima del tempo», detta alla vigilia del primo incontro tecnico sul tema, oggi a Roma. E comunque «il coinvolgimento dei privati non lo vediamo solo nella costruzione di alloggi, possono realizzare anche parchi o altre strutture». Unica concessione, quella sui Prati di Caprara: qui ai potrebbe seguire il “modello” del Parco dei Cedri, «realizzato permettendo l’edificazione di alloggi ai suoi margini».

Preziosi insiste. «Il 33% ci può anche andare bene, purché si faccia un ragionamento complessivo sulle 12 aree, se i Prati di Caprara saranno verde al 100% da qualche altra parte i privati dovranno avere anche più del 40%». Un’impostazione che Merola respinge al mittente. «Mai detto che pensiamo di fare a meno dei privati - sbotta - ma devono lavorare attenendosi a quello che dice il Comune, come è sempre stato». Intanto l’assessore annuncia che presto il Comune chiederà allo Stato anche la caserma dei carabinieri di viale Panzacchi, collocata tra le due aree da riqualificare di Staveco e S.Mamolo: «Così potremmo creare un unico grande complesso di accesso alla collina».

Eddyburg aveva scritto per Carta...

Duecentomila anziani in condizione di fragilità economica o sociale. Quarantamila di loro ormai non sono più, in parte o del tutto, autosufficienti. Più di quattromila minori stranieri non accompagnati censiti tra il 2004 e il 2006. Decine di migliaia di persone che vivono sotto l’incubo dell’emergenza abitativa: tredicimila quelli accolti in residence o strutture del Comune, 4.290 in villaggi rom attrezzati, 42.500 destinatari di un sostegno all’abitare. E centinaia di migliaia di immigrati, di cui 230 mila solo quelli regolarmente residenti nel Comune di Roma. Numeri di una grande città, che «come e più di altre aree metropolitane» si trova «ad affrontare problematiche sociali che si manifestano spesso in modalità e dimensioni particolari», racconta il sindaco Veltroni nella sua lettera ai ministri. Inviata a nove ministri per proporre, a partire da Roma, un «patto sulle questioni sociali simile a quello concordato, sui temi della legalità, con il Ministro dell’Interno». A suggerirla le emergenze del paese riflesse nei problemi quotidiani di una città in cui i servizi del Comune raggiungono 150 mila anziani, ma che conta 577.973 abitanti sopra ai 65 anni e almeno 200 mila in condizioni di fragilità. Affetti da alzheimer o da forme di demenza - circa 22 mila -, in condizioni di precarietà abitativa - 3 mila, secondo le stime del Comune, sono sotto sfratto o convivono forzatamente con altri familiari -, circa 30 mila vivono con una pensione minima. Mentre 36 mila sono i minori che hanno bisogno di sostegno e che sono stati raggiunti in qualche modo dal Comune.

A Roma in dieci anni sono state emesse 40 mila sentenze di sfratto per morosità. Un numero che dà l’idea di quanti non riescono a pagare l’affitto. Molti di loro però non hanno accesso alla graduatoria per le case popolari che conta tra i 31 mila in attesa 2.787 già sfrattati e 3.379 con sfratto esecutivo, tutti con un reddito inferiore ai 20 mila euro. Solo nel 2005, le richieste di esecuzione di sfratto sono state più di 10 mila e gli sfratti eseguiti con la forza pubblica 2.872.

Numeri che Caritas e Comunità di Sant’Egidio conoscono bene. E per questo appoggiano la proposta del «patto sociale» che piace anche alla sinistra radicale. «Ora spetta al governo rispondere adeguatamente a questa sollecitazione», plaude a Veltroni anche il segretario cittadino del Prc, Smeriglio.

Postilla

Durerà un po' più dello spazio d'un mattino le denuncia/proposta del Sindaco di Roma e candidato alla leadership dell'Ulivo? Speriamo di si. E speriamo magari che qualcuno si ricordi del modo e delle ragioni per cui furono smantellati gli strumenti costiituiti quando al welfare state nella città e nel territorio ci si credeva, quando il ruolo dello stato (della Repubblica, Res Publica) era ritenuto essenziale e centrale per risolvere i problemi che il mercato continuava ad aggravare, quando si formò (certo faticosamente, certo incompletamente, certo drammaticamente, tra scioperi generali e iniziative legislative a sinistra e bombe a destra) quel complessso di strumenti per la costruzione di alloggi nuovi depurati dalla rendita (il Peep), per il recupero guidato del patrimonio abitativo esistente, per il controllo dell'offerta privata con l'equo canone. Strumenti che avvicinavano alla realtà il principio della "casa come servizio sociale" o, come meglio diremmo oggi, come diritto comune che a tutti deve essere garantito.

Non ha probabilmente senso oggi riproporre quegli strumenti. Ma certo ha senso riproporre i principi che erano alla loro base: principi che l'egemonia del neoliberismo ha incrinato dove non ha potuto distruggere. E ha senso domandarsi quanto siano compatibili con quei principi le politiche di favore alla rendita immobiliare che la stragrande maggiorabza delle città italiane stanno allegramente praticando . A cominciare - non possiamo tacerlo - dalla Capitale.

L’incubo del mattone senza regole

di Maurizio Bono,

Sarà che dopo quarant’anni il risveglio è brusco, ma sembra un incubo il modo in cui Milano, la grande città europea più incapace dalla fine del dopoguerra di mettere all’ordine del giorno il proprio rinnovamento urbano, adesso rischia di trasformarsi in un unico sfrenato cantiere. La proposta della società proprietaria dell’ippodromo di San Siro di lottizzare piste, trotto e scuderie, nella sua disarmante franchezza ha un pregio: non tira neppure in ballo (per adesso) il fascino dei grattacieli e della crescita metropolitana nel terzo millennio, si limita a fare quattro conti. L’ippica e le scommesse non vanno più bene come una volta? Pazienza, si cambia ramo. E se vuoi vendere 155 ettari di verde in piena città a chi offre di più, scartata la tentazione proibita delle coltivazioni di oppio, non ci vuole un genio per pensare al mercato del mattone. A questo punto, però, a qualunque latitudine abitata gli amministratori pubblici porrebbero un problema. E sarebbe bello poter essere certi che presto succederà anche da noi.

Gli argomenti per scartare anche la sola ipotesi (anziché buttare lì un "vedremo" che non può che far crescere le preoccupazioni) sono tanti e seri. Il primo è quello generale - ma vero - che a Milano il verde manca più dello spazio per costruire nuove case, e che è da folli distruggere il poco che c’è prima di aver risanato tutte le aree dismesse, le zone ancora piene di macerie, gli angoli da bonificare dal pattume delle vecchie industrie. Dove, in ogni caso (perfino nei più discussi tra i tanti cantieri già aperti, Varesine, Garibaldi, Fiera, Isola, Montecity...) il rapporto tra cubature di cemento e nuovo verde messo a disposizione della collettività resta il criterio universalmente accettato in occidente per stabilire la qualità di un progetto.

Ma prima ancora, e senza limitarsi al valore senza prezzo del verde, un freno alla tumultuosa ed entusiasta conversione dell’intera Milano in una gigantesca area di residenze e uffici dovrebbe venire dalla consapevolezza che una città non è fatta solo di condomini e palazzi.

Il cahier des doleances su tutto ciò di cui Milano ha urbanisticamente bisogno e che non ha, è così noto che potrebbe sottoscriverlo tanto i partecipanti alla fiaccolata del sindaco che i centri sociali: parchi, piscine, impianti sportivi, piste ciclabili, ma anche case popolari a basso prezzo per evitare lo scandalo dei subaffitti capestro ai poveracci, case per gli studenti in modo da attirarli in quella che si vorrebbe capitale dell’innovazione. E magari spazi adatti ai commerci all’ingrosso (dei carrellini cinesi ci si è già scordati?), un ortomercato gestibile (ci si è già scordati anche degli arresti?), zone nuove accettabili per il divertimento e un risanamento radicale, con la riduzione della concentrazione spontanea dei locali, in quelle super congestionate dei navigli e del centro dove la notte nessun dorme.

Cosa c’entra tutto ciò con i grandi cantieri della trasformazione urbana? Pochissimo, e il problema è proprio questo. Perché man mano che le fabbriche dei grattacieli prendono l’abbrivio e ad esse si aggiungono addirittura idee assurde come lottizzare i galoppatoi, è sempre più evidente che agli interessi-guida (in sé spesso legittimi) di speculatori e sviluppatori immobiliari non fa da contrasto nessuna capacità dell’amministrazione pubblica di ottenere in cambio di meditate e ragionevoli autorizzazioni ciò che alla città serve davvero. Fino al paradosso di ricevere dagli immobiliaristi, naturalmente a scomputo degli oneri, scintillanti musei griffati, auditorium ed eleganti show room che diventano fonte di imbarazzo per assessori che non sanno che farne, non avendo comunque in bilancio neppure i fondi per tenerli aperti. Ma si sa, fare i difficili coi buoni affari è antipatico, tagliare molti nastri è un piacere.

Torna a rischio il verde di San Siro

diGiuseppina Piano

Un grande parco e dei palazzi residenziali al posto di scuderie e ippodromo. La Snai, la proprietaria di tutta l’area ippica di San Siro, torna alla carica con il suo progetto di sempre: traslocare corse del trotto e cavalli e vendere un milione di metri quadrati, che messi dove sono valgono oro. Un progetto mai andato in porto, perché il Comune non ha mai concesso la variante al piano regolatore che darebbe via libera all’edificazione di case. La Snai ci riprova. E da Palazzo Marino l’assessore all’Urbanistica Carlo Masseroli apre alla trattativa: «Pronti a discutere. Ma con un punto fermo: qualsiasi operazione deve avere un preminente interesse pubblico».

Non un sì. Ma neppure un no. E basta parlarne che dall’Unione la risposta è la trincea: «Mobilitazione» contro la «ripresa di forti pressioni speculative sulle aree», promettono subito i Verdi con Enrico Fedrighini. Che al sindaco e alla giunta manda a dire: «Hanno uno strumento semplice per mettere a tacere qualunque illazione: porre un vincolo urbanistico sull’intera area». «Non sappiamo se ci sarà un nuovo Piano regolatore che possa permetterci l’intervento. Se dovesse avvenire saremo pronti a trasferirci», riapre intanto il pressing sul Comune la Snai con il presidente Maurizio Ughi. In Comune in realtà il progetto proposto per quel milione di metri quadrati non è ancora arrivato, e l’assessore Masseroli avverte che «quello è un polmone verde fondamentale su cui bisognerà ragionare con grande attenzione». La trattativa per arrivare a un futuro diverso però si può fare.

Ma che cosa vorrebbe Snai? Tenersi solo un terzo del milione e mezzo di metri quadrati che ha oggi a San Siro, tenersi l’ippodromo del galoppo che è vincolato come monumento storico e che dunque non si potrà mai abbattere. E vendere il resto: l’ippodromo del trotto a fianco del Meazza, le scuderie, le piste di allenamento. La società ippica ha già dato un’opzione di cinque anni sull’acquisto alla società immobiliare Varo, la stessa che come advisor adesso tratterà con il Comune per ottenere il necessario via libera urbanistico a un’operazione che potrebbe valere oltre 300 milioni di euro. Per farci cosa? Già nel 2005 la società fece elaborare un progetto di riqualificazione dell’area all’architetto Stefano Boeri. Prevedeva di creare un grande parco al posto dell’Ippodromo del trotto ma anche delle abitazioni lungo il perimetro, un albergo e altri servizi di supporto al Meazza e agli appassionati di calcio (ristoranti e bar, negozi di merchandising). Il progetto, adesso, sarà rivisto ma resterà la sostanza: parco e verde, case, servizi per lo stadio.

Lo scoglio invalicabile da superare è il piano regolatore che prevede lì verde e attività sportive. Ma il piano regolatore, se il Comune volesse, si può cambiare. C’è da convincere Palazzo Marino, dunque. E lì non c’è solo l’assessore Masseroli che vuole andare a vedere le carte. Anche il collega Giovanni Terzi, assessore allo Sport, guarda con cauto interesse a un progetto che potrebbe influire sulla sempre rimandata vendita del Meazza a Milan e Inter: «Stiamo ragionando sul futuro dell’area e sulla cessione dello stadio. Valuteremo anche questa proposta».

Premessa: cronaca dell’incontro

Il documento che presentiamo è stato discusso l’11 maggio scorso, nell’ambito di un interessante incontro sul Piano d’inquadramento territoriale della Toscana. Si è trattato di un confronto tra un gruppo di docenti della Corso di laurea in Urbanistica e pianificazione territoriale e ambientale di Firenze, che aveva preparato un documento critico sul PIT, e l’assessore Riccardo Conti, accompagnato da funzionari ed esperti della Regione.

L’incontro è iniziato con un intervento di Alberto Magnaghi, che ha ampiamente illustrato il documento preparato - a conclusione di un’attività seminariale che aveva visto partecipare numerosi docenti della facoltà - da lui stesso e da Paolo Baldeschi (il documento è scaricabile utilizzando il link in calce). Nel documento erano espresse numerose critiche al PIT e alcune proposte alternative, sulle quali ci si aspettava una puntuale replica degli interlocutori regionali. Questi (Marco Gamberini, riccardo Baracco e Massimo Morisi) si sono limitati a ribadire le tesi e gli argomenti del PIT evitando di entrare nel merito delle proposte avanzate nel documento Magnaghi-Baldeschi. Le critiche al PIT sono state ribadite e accentuate negli interventi di altri docenti (Pardi Pizziolo, Sgrelli, Ventura).

Il dibattito veniva a questo punto riassunto da Paolo Baldeschi, il quale presentava un documento nel quale, a partire dalla critica sulla tutela dei beni paesaggistici, si propone di rendere operativi ed immediatamente efficaci alcuni articoli della Disciplina del PIT riguardanti le invarianti strutturali “patrimonio collinare” e “patrimonio costiero”. Si tratta dei territori più interessati dalle ‘aspettative e le conseguenti iniziative di valorizzazione finanziaria nel mercato immobiliare’, aspettative che il PIT si propone di disincentivare mediante una revisione degli strumenti urbanistici, rinviando però l’efficacia di questa espressa intenzione a un tempo indeterminato.

Intervenendo con molta durezza l’assessore Conti, pur dichiarandosi aperto al confronto per una revisione a lungo termine delle posizioni, delle scelte e delle procedure espresse nel PIT, ha ribadito con forza la validità dell’impostazione del PIT. Ha tratteggiato la linea politica regionale come caratterizzata da una forte regia pubblica (diversamente che in Lombardia, in Toscana si rivendica un primato della politica sull'impresa), una forte differenziazione dei ruoli (la regione usa la leva finanziaria-programmatoria, i comuni decidono l'uso del territorio), la scelta di una collaborazione invece che di un riscontro di conformità. Nessun ripensamento quindi, nessuna disponibilità a correggere il PIT, nessuna intenzione di porre limiti certi (condizioni, tutele, statuti) alle pratiche di concertazione istituzionale.

In particolare, Conti ha affermato che il PIT non può né vuole delimitare alcun ambito e quindi eventuali norme di salvaguardia sono impossibili (se non per i “beni paesistici” già perimetrati da atti amministrativi pregressi). Rovesciando il senso di una importante acquisizione culturale in merito alla tutela ha proposto di sostituire il termine “invariante strutturale” con l’espressione “capacità o potenzialità dei suoli” (sic). Infine, ha suscitato lo stupore degli urbanisti presenti affermando che in nessuna parte di Europa le trasformazioni territoriali sono il risultato di piani di area vasta, ma ovunque decidono i piani, comunali dimostrando di ignorare che in tutt’Europa (per non parlare delle esperienze degli anni Quaranta del secolo scorso, si sta individuando da oltre un decennio nella pianificazione sovracomunale uno strumento essenziale per la lotta al consumo di suolo e il controllo della diffusione urbana. Ultimo caso: il nuovo Schema directeur de la région Ile-de-France, che perimetra rigorosamente le aree rurali, rendendo efficace (opposable alla pianificazione comunale comunale) la direttiva“pérenniser l’espace agricole” (si veda l’articolo di Maria Cristina Gibelli per eddyburg)

UNA PROPOSTA PER RENDERE IMMEDIATAMENTE OPERATIVE ALCUNE NORME DEL PIT RELATIVE ALLA TUTELA DEL PAESAGGIO

La proposta che qui viene avanzata è integrativa di quella già formulata dal Corso di laurea in Pianificazione urbanistica territoriale e ambientale e dal Corso di laurea in Progettazione e pianificazione della città e del territorio con il titolo “Note sul Piano di Indirizzo Territoriale della Regione Toscana”. Mentre quest’ultima proposta ha un carattere strutturale e richiede un processo dialogico che porti alla revisione contestuale di parti del PIT e della LR 1/2005, il presente documento ne anticipa alcuni contenuti in forma di salvaguardia. E’ ovvio che, data la forma negativa delle prescrizioni di salvaguardia, esse dovranno essere superate in un arco ragionevole di tempo da disposizioni di tipo positivo nell’ambito del processo di revisione cui si è fatto cenno.

La proposta mira a rendere operativi ed immediatamente efficaci alcuni articoli della Disciplina del PIT riguardanti le invarianti strutturali “patrimonio collinare” (art.20 e sg.) e “patrimonio costiero” (art. 26 e sg.). Si tratta dei territori più interessati dalle ‘aspettative e le conseguenti iniziative di valorizzazione finanziaria nel mercato immobiliare’, aspettative che il PIT si propone di disincentivare mediante una revisione degli strumenti urbanistici (si veda: Disciplina del PIT, art. 21 comma 2, art. 27, comma 4)

Lo Statuto territoriale del PIT ha formulato una serie di prescrizioni volte alla tutela di tali invarianti strutturali, prescrizioni che tuttavia postulano (salvo pochissime eccezioni) un adeguamento degli strumenti urbanistici di Province e Comuni. Alcune di queste prescrizioni sono integrate o riformulate come “obiettivi di qualità” nelle schede del PIT riferite agli “ambiti paesaggistici” e tuttavia anche in questo caso gli obiettivi sono espressi come direttive o indirizzi agli enti locali con la formula “gli strumenti di pianificazione territoriale assicurano il perseguimento dei seguenti obiettivi .... ”, senza alcuna efficacia immediatamente cogente. Il rischio, ma si potrebbe dire la certezza, è che, una volta portato a termine il complesso iter di adeguamento degli strumenti urbanistici, buona parte del patrimonio territoriale che si vuole tutelare attraverso il piano paesaggistico sarà irrimediabilmente compromesso. Anzi, lo stesso piano paesaggistico può dare un’accelerazione alle operazioni speculative per i suoi effetti di tutela procrastinata.

La necessità e opportunità di rendere immediatamente operative alcune norme contenute nel PIT, in modo tale che esse assumano una funzione di salvaguardia rispetto alle previsioni degli strumenti urbanistici vigenti è supportata da solide ragioni sia di natura sostanziale sia di natura normativa.

Si è già accennato alle questioni di merito e, d’altra parte, è sufficiente prendere atto delle numerose “iniziative di valorizzazione immobiliare” in corso, per lo più costituite da lottizzazioni a villette destinate a seconde e terze case e comunque non rispondenti ad alcun fabbisogno abitativo solvibile. Le ragioni per cui i Comuni sono a parole virtuosi nei Piani Strutturali e nei fatti promotori o acquiescenti alla speculazione edilizia nei Regolamenti Urbanistici sono state ampiamente analizzate e qui sono date per acquisite. E’ tuttavia opportuno sottolineare che i Comuni hanno una debole capacità di resistenza rispetto ad un blocco di interessi che vede coinvolti capitali finanziari, imprese ed operatori edili, proprietari fondiari e come, in tali circostanze, assuma un’importanza vitale la “protezione” di un supporto normativo e pianificatorio meno sensibile alle pressioni locali.

Da un punto di vista giuridico norme di “salvaguardia” di immediata efficacia sono previste dal Codice dei beni culturali e del paesaggio e pertanto giustificate dal fatto che lo Statuto territoriale del PIT ha valore di Piano paesaggistico, contenendo l’individuazione delle invarianti strutturali e la formulazione delle prescrizioni correlate.

Si ricorda a tale proposito che ‘le disposizioni del Piano paesaggistico possono avere efficacia sia immediatamente precettiva e direttamente operativa che efficacia di direttive necessitanti[1], per trovare applicazione, della mediazione di uno strumento di pianificazione sottordinato[2]. Si veda a questo proposito l’art. 3 dell’Intesa tra il Ministero per i beni e le attività culturali e la Regione Toscana siglata il 23 gennaio 2007[3] . Particolarmente significativo in questo senso (cioè relativamente alla possibile immediata efficacia precettiva di punti cruciali della disciplina del PIT), l’art. 48, comma 4d della LR 1/2005 che recita: ‘Ai fini di cui al comma 3, il piano di indirizzo territoriale stabilisce: (....)

d) le misure di salvaguardia immediatamente efficaci, pena di nullità, di qualsiasi atto con esse contrastanti, sino all’adeguamento degli strumenti della pianificazione territoriale e degli atti di governo del territorio di comuni e province allo statuto del territorio.

Le norme di immediato valore precettivo

Riportiamo dalla Disciplina del PIT le norme di cui si propone un’immediata efficacia.

Articolo 20 – Il patrimonio “collinare” della Toscana quale terza invariante strutturale dello Statuto.

Definizione tematica.

2. Il lemma “patrimonio collinare” - di cui al paragrafo 6.3.3 (con riferimento al primo obiettivo conseguente ivi contemplato) del Documento di Piano - designa ogni ambito o contesto territoriale - quale che ne sia la specifica struttura e articolazione orografica (collinare, montana, di pianura prospiciente alla collina ovvero di valle) - con una configurazione paesaggistica, rurale o naturale o a vario grado di antropizzazione o con testimonianze storiche o artistiche o con insediamenti che nerendono riconoscibile il valore identitario per la comunità regionale nella sua evoluzione sociale o anche per il valore culturale che esso assume per la nazione e per la comunità internazionale.

Articolo 21 – Il patrimonio “collinare” della Toscana come agenda di applicazione dello statuto. Direttive ai fini della conservazione attiva del suo valore.

7. Nelle aree di cui all’art. 20 sono comunque da evitare le tipologie insediative riferibili alle lottizzazioni a scopo edificatorio destinate alla residenza urbana.

8. Nelle more degli adempimenti comunali recanti l’adozione di una disciplina diretta ad impedire usi impropri o contrari al valore identitario di cui al comma 2 dell’art. 20, sono da consentire, fatte salve ulteriori limitazioni stabilite dagli strumenti della pianificazione territoriale o dagli atti del governo del territorio, solo interventi di manutenzione, restauro e risanamento conservativo, nonché di ristrutturazione edilizia senza cambiamento di destinazione d’uso (ns corsivo).

Articolo 27 – Il patrimonio “costiero” della Toscana come agenda di applicazione dello statuto. Direttive ai fini della conservazione attiva del suo valore.

2. Il lemma “patrimonio costiero” - di cui al suddetto paragrafo 6.3.3 (sottoparagrafo 2) del Documento di Piano - designa il valore paesaggistico e funzionale del territorio - urbano ed extraurbano - che dipende dal mare e dalle relazioni organiche che con esso intrattengono le comunità e le attività umane insediate sul litorale toscano e nelle sue città, insieme alle testimonianze storico-culturali e alle specifiche funzioni portuali, ricettive e infrastrutturali che quelle comunità e quelle attività identificano e qualificano nell’insieme del territorio regionale sia per il passato sia per il futuro.

3. Sono da evitare nuovi interventi insediativi ed edificatorî su territori litoranei a fini residenziali e di ricettività turistica, se non in ottemperanza alla direttiva anticipata nel sottoparagrafo 2 del paragrafo 6.3.3 del Documento di Piano. (ns corsivo).

In sintesi, per ciò che riguarda il patrimonio collinare la disciplina del PIT prevede che nel tempo occorrente affinché gli strumenti urbanistici si adeguino alle sue direttive di tutela paesaggistica, siano permesse solo operazioni relative all’edilizia esistente (escludendo peraltro la ristrutturazione urbanistica). Si propone perciò di integrare l’agenda con una uguale disposizione riguardante il patrimonio costiero, tenendo conto delle analogie esistenti fra le due invarianti strutturali rispetto agli interventi di “valorizzazione immobiliare” e, conseguentemente, della necessità di simmetriche misure di salvaguardia.

Conclusioni

Rendere immediatamente efficaci le disposizioni precedentemente indicate non comporta alcuna modifica di poteri e competenze, né richiede varianti al PIT adottato se non per un comma che ripeta nell’art. 27, relativamente al patrimonio costiero, quanto già previsto dal comma 8 dell’art. 21 per il patrimonio collinare. Per rendere operative le norme di salvaguardia di colline e coste tuttavia è operazione essenziale e sostanziale definirne con precisione gli ambiti di applicazione, cioè quali siano i confini delpatrimonio collinare e dei territori litoranei. Si tratta di un compito che può essere svolto dagli organismi competenti della Regione (con l’eventuale collaborazione di istituti universitari) in un arco di tempo relativamente breve e tale da assicurare con la necessaria tempestività la tutela paesaggistica delle parti di territorio più soggette a pressioni speculative.

Allegato

Documento par 6.3.3 punto 2

Mutatis mutandis, anche per le coste la Regione adotta un indirizzo preciso. Che si può sintetizzare come segue: salvo che per i porti, …non si urbanizza a mare. Contestualmente, la Regione intende superare il “piano della portualità turistica” così come oggi configurato, e privilegiare una portualità in cui l’offerta turistico-diportistica adotti una nuova selettività: sia sul piano della qualità che della quantità degli interventi modificativi. Una selettività, in particolare, che sia comunque ancorata alla filiera cantieristica e manutentiva della industria nautica toscana e alle sue dislocazioni territoriali. Così, come per il patrimonio “collinare” e rurale della Toscana, anche per le coste la Regione ritiene necessario interrompere il proliferare di attività meramente orientate alla valorizzazione immobiliare e alla conseguente speculazione di breve periodo. Vogliamo privilegiare - invece - chiari e innovativi disegni imprenditoriali, capaci di far sistema con un’offerta turistica organizzata e integrata nella chiave di servizi plurimodali e coordinati. E che, al centro della sua attrattività, abbia un paesaggio costiero integro e pienamente riconoscibile nella varietà dei suoi fattori estetici, storici e funzionali. E’ a tali condizioni che la stessa offerta turistica costiera può ben avvalersi della liberalizzazione degli ormeggi. Mentre, più in generale - e sempre nel rispetto dei suddetti indirizzi -sono da incoraggiare le potenzialità attrattive connesse allo sviluppo di un armonioso waterfront che investa l’insieme del patrimonio costiero toscano e, mediante attente progettualità coordinate di conservazione attiva e di neoqualificazione funzionale, colleghi il fascino delle città e dei borghi di toscani, la suggestione dei porti, nelle loro infrastrutture demaniali così come nelle loro passeggiate a mare, entro una trama unitaria ove centri urbani ed entroterra costiero acquisiscano una nuova vitalità nell’abitare e nell’intraprendere18.

Ma la tutela e la valorizzazione del patrimonio costiero toscano ha anche il volto di una grande e specifica politica pubblica che persegue l’innovazione profonda del patrimonio territoriale della nostra Regione e delle sue potenzialità competitive e attrattive. Si tratta di quella “piattaforma logistica costiera” che occupa uno spazio cruciale nell’agenda del Piano regionale di sviluppo19 e nelle strategie regionali di sostegno alla dinamicità del sistema economico toscano, ma anche italiano e comunitario. E che riveste una posizione eminente nell’agenda delle opzioni strategiche di questo Piano20 e in quel “Quadro strategico regionale” con cui la Toscana ha contribuito alla definizione del Quadro nazionale ove si situano le principali linee di investimento europeo. E’ un disegno infrastrutturale decisivo che conferisce alla Toscana una posizione cruciale nel sistema nazionale della mobilità e nella progettualità nazionale ed europea in materia di reti portuali e logistiche, e di connessioni ferroviarie e viarie tra le sponde del Mediterraneo e i grandi snodi del trasporto internazionale. Perché investe anche la stessa collocazione funzionale della Toscana nella distribuzione internazionale dell’offerta organizzata di mobilità e di logistica per persone, merci e informazioni. E tutto ciò, proprio a far leva sulla sua costa e sulla capacità delle sue città marine e del loro entroterra di far sistema: sia tra sé che con l’insieme del territorio toscano. Ma proprio per questo consideriamo la piattaforma logistica costiera qualcosa “di più” di una pur grande politica infrastrutturale. E la riteniamo, ai fini di questo Piano, essa stessa una parte saliente dei nostri metaobiettivi.

[1] Articolo 142, comma 2, articolo 145, commi 3, 4 e 5, del "Codice dei beni culturali e del paesaggio".

[2] Scano L., “La tutela dei “beni paesaggistici” nel “Codice” e nei provvedimenti legislativi e pianificatori della Regione Toscana”

[3]Intesa tra il Ministero per i beni e le attività culturali e la Regione Toscana del 23 gennaio 2007

Articolo 3

1. La disciplina paesaggistica regionale, ai differenti livelli di pianificazione territoriale, si estrinseca nelle prescrizioni di tutela dei beni paesaggistici e negli indirizzi per la valorizzazione e gestione dei paesaggi della Toscana. Essa si esprime attraverso le prescrizioni in attuazione del Codice ed attraverso azioni mirate alla tutela, alla conoscenza, alla divulgazione e alla didattica sul paesaggio, nonché, ove necessario, volte a indirizzare le trasformazioni del territorio verso obiettivi di qualità.

3.La valorizzazione del paesaggio è perseguita in modo specifico attraverso misure di riqualificazione delle aree rurali e urbane in condizioni di degrado ambientale, funzionale e relativo alla qualità edilizia.

4. L’elaborazione della pianificazione paesaggistica si adegua al dettato dell’art. 135 e si articola nelle fasi indicate dall’art. 143.

5.Tutti i soggetti istituzionali hanno il compito di tutelare il sistema dei beni paesaggistici al fine di garantirne la conservazione dei valori. Gli statuti degli strumenti di pianificazione provinciali e comunali dettano una specifica disciplina relativa ai beni paesaggistici, integrativa della disciplina paesaggistica contenuta nel piano di indirizzo territoriale regionale.

Diventano patrimonio dello Stato 201 ex caserme per un valore di 1 miliardo di euro. Lo prevede il primo decreto per il trasferimento di immobili siglato da Agenzia del Demanio e ministero della Difesa. Il provvedimento e' in corso di registrazione alla Corte dei Conti e sara' successivamente pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale.

Il decreto, che rientra nelle disposizioni previste dalla Finanziaria 2007, e' il primo di quattro che sanciscono il passaggio di immobili dagli usi militari al patrimonio disponibile dello Stato.

L' operazione di trasferimento degli immobili ex Difesa si concludera' entro luglio 2008, quando l' ultimo decreto completera' l' individuazione dei beni da trasferire all' Agenzia del Demanio, per un valore complessivo di 4 miliardi di euro. I 201 immobili, oggetto di questo primo decreto, saranno consegnati all' Agenzia del Demanio entro il 30 giugno 2007.

E' prevista per luglio 2007 una seconda lista di beni per il valore di 1 miliardo di euro con consegna entro fine 2007. Con identiche modalita' verranno poi consegnati, entro il 2008, beni immobili per un valore di altri 2 miliardi di euro.

L' Agenzia del Demanio avviera' sui beni ex Difesa progetti di valorizzazione e di eventuale dismissione, condividendo con i Comuni interessati iniziative in linea con i fabbisogni del contesto urbano e sociale nel quale gli immobili sono inseriti. Spesso situati nel centro delle principali citta' italiane, sottolinea l'Agenzia del Demanio, questi beni (caserme, arsenali, poligoni, terreni) rappresentano un' opportunita' di sviluppo e di innovazione nella gestione del patrimonio immobiliare pubblico e nella pianificazione degli assetti territoriali.

In un'intervista al settimanale 'Economy' il direttore dell'Agenzia del Demanio, Elisabetta Spitz, sottolinea come in alcuni casi, la dismissione dei beni di proprieta' della Difesa possa ''cambiare il volto delle citta''.

Spitz cita l'esempio di Piacenza, dove ''il 50% del territorio e' interessato da beni militari che ora potranno lasciare il posto a iniziative pubbliche, come ospedali, centri di ricerca e teatri''.

Per la valorizzazione del patrimonio ex militare, il direttore del Demanio spiega che ''stiamo aprendo tavoli permanenti di confronto con l'Anci, la Conferenza Stato-regioni e con tutti i singoli comuni interessati, per valutare i loro fabbisogni e definire insieme un piano di riconversione.

Spitz precisa poi che la proprieta' del bene restera' allo Stato: ai privati verra' ceduta la loro gestione. L'ente locale, spiega, ''stabilisce la destinazione d'uso e l'Agenzia redige i bandi di gara per i privati''.

Riprendiamo dal sito sosPatrimonio la nota, diramata dal sito Demanio Real Estate. Il piano presentato dall'Agenzia del Demanio è pubblicato qui

Postilla

Nell’utilizzare questa possibilità i governanti dei comuni dimostreranno le loro reali volontà e capacità, e il modo in cui intendono il termini “valorizzazione”.

Se vorranno guadagnare qualche soldo svendendo ingenti beni comuni, tratteranno col miglior offerente promettendo, in cambio di molti euro, destinazioni d’uso lucrose per i nuovi possessori. Se faranno così, rimarranno senza risposta ingenti fabbisogni sociali, i quali diventeranno l’occasione per occupare nuove porzioni di terreno extraurbano.

Se invece vorranno utilizzare questi immobili pubblici per soddisfare le necessità di attrezzature pubbliche e d’uso pubblico, di verde, di edilizia sociale, evitando così di urbanizzare nuove aree rurali, allora cercheranno il consenso dei cittadini sulla base di progetti urbanistici basati un rigoroso calcolo dei fabbisogni insoddisfatti.

Saremo grati ai nostri collaboratori e lettori se ci informeranno di ciò che accade in giro per le città italiane.

Nelle intenzioni dell’Amministrazione vi era probabilmente la volontà, dopo le recenti polemiche, di utilizzare il convegno quale autorevole tribuna a difesa ed a giustificazione delle scelte operate con l’ultima Variante urbanistica, che – attraverso meccanismi perequativi – ha notevolmente aumentato le potenzialità edificatorie del Piano Regolatore Generale, compromettendo gravemente le previsioni di un organico sistema del verde urbano suggerite dal piano Piccinato degli anni Cinquanta e dai più recenti studi di Giovanni Abrami e Roberto Gambino. Se queste erano le intenzioni, non vi è dubbio che le relazioni ed il dibattito che hanno caratterizzato il convegno hanno fornito argomentazioni ed indicazioni del tutto opposte.

In primo luogo tutti i relatori hanno convenuto sul fatto che il diritto all’edificazione non è connaturato alla proprietà dei suoli bensì deriva da una concessione pubblica. Il che smentisce la tesi secondo cui la nuova edificazione connessa alla Variante di PRG approvata a Padova sarebbe stata una soluzione obbligata, imposta dalla prossima scadenza dei vincoli urbanistici posti a tutela del verde: una tesi adombrata da molti interventi pubblici dei nostri amministratori, non ultima la risposta fornita dal Sindaco in Consiglio Comunale ad una interrogazione della consigliera Giuliana Beltrame ( «… in Italia per la Costituzione al diritto di proprietà delle aree corrisponde anche un diritto ad edificarle» ed ancora «… l’ipotesi di cui stiamo parlando sarebbe un’ipotesi che contraddice alcuni principi fondamentali e cioè il diritto a costruire nelle aree di proprietà, diritto che possiamo regolamentare ma non proibire» - dal resoconto stenografico dell’intervento).

In secondo luogo – come ben hanno illustrato soprattutto le eccellenti relazioni di Andreas Kipar e di Carlo Alberto Barbieri – la perequazione non può essere considerata il fine della pianificazione urbanistica, bensì un semplice strumento: uno tra i possibili strumenti, da applicarsi al sistema insediativo e non a tutto il territorio, per l’attuazione di un chiaro e condiviso progetto di città pubblica e di infrastrutture ecologiche. Gli esempi più significativi citati dalle relazioni (il parco Nord di Milano, la cintura verde di Francoforte, il Thyssenkrupp Quartier di Essen, i sistemi del verde di Ravenna, Jesi, Vercelli, …) vanno tutti in questa direzione. Prioritario è sempre il disegno urbano, ed in particolare il disegno della rete ecologica a scala urbana e territoriale, ed è in funzione di questo disegno che – situazione per situazione – può tornare utile un accordo perequativo con i privati. Un accordo che in generale prevede la salvaguardia integrale degli spazi a più elevata valenza ambientale ed il trasferimento dei “diritti edificatori” concessi in altro ambito urbano (preferibilmente in aree dismesse, ove effettuare interventi di recupero edilizio ed urbanistico). Non solo. Secondo Barbieri sarebbe altresì opportuno stabilire, con una apposita riforma legislativa, che – per analogia con i limiti posti ai vincoli espropriativi dalle sentenze della Corte Costituzionale – anche i diritti edificatori concessi ai privati, essendo funzionali alla costruzione della “città pubblica”, avessero un preciso termine temporale, prevedendone la decadenza in caso di inerzia del proprietario.

E’ questa una visione decisamente antitetica rispetto a quella sin qui sostenuta dai nostri amministratori (con singolare unanimità di voti in Consiglio Comunale, fatta eccezione per i consiglieri di Rifondazione e dei Verdi), che con l’ultima Variante hanno semplicemente trasformato oltre 4.700.000 mq di aree già destinate a verde pubblico in aree di perequazione urbanistica, delegando ai privati la progettazione dei nuovi insediamenti, senza prevedere alcun meccanismo di trasferimento e delocalizzazione delle volumetrie (dalle aree più sensibili, dal punto di vista ambientale ed ai fini di un disegno strategico di trasformazione urbana, ad aree di recupero e riqualificazione urbana) e consentendone la frammentazione in lotti di superficie eccessivamente limitata (20.000 mq). E’ vero che i privati per utilizzare la nuova edificabilità loro concessa debbono cedere al Comune una consistente quota delle aree di proprietà, ma il risultato complessivo – come stiamo verificando in questi giorni – è uno spezzatino di aree verdi, forse quantitativamente significativo per le statistiche sugli standard, ma quasi sempre del tutto insignificante da un punto di vista qualitativo ed ecosistemico, oltre che ingestibile – per evidenti ragioni economiche – da parte del Comune. Un meccanismo di perequazione diffusa ed indiscriminata che – in virtù dei bassi indici edificatori – favorirà una ulteriore crescita a macchia d’olio della città e la realizzazione di villette e “residence nel parco”, ovvero di un’edilizia di lusso di elevato valore commerciale che è proprio quella di cui non si sente bisogno a Padova, dove l’unica reale emergenza abitativa è espressa dalle famiglie a basso reddito e dagli immigrati.

Ha affermato giustamente, a conclusione del suo intervento, Carlo Alberto Barbieri che la perequazione è un’arma a doppio taglio, destinata a generare il fallimento di ogni politica urbana se il Comune non si pone come soggetto attivo, come protagonista diretto della progettazione e della gestione delle trasformazioni urbane, non limitando la propria funzione a quella di certificatore delle iniziative private.

Nel chiedere che venga reso pubblico il testo dei diversi interventi, ci auguriamo che l’Amministrazione sappia far tesoro delle indicazioni emerse dal convegno non solo per la costruzione del nuovo PAT, ma anche per un’inversione di tendenza nella gestione quotidiana delle politiche urbanistiche.

L'antefatto in Perequazione a Padova, su Carta ed eddyburg

L’Italia produce annualmente oltre 46 milioni di tonnellate di cemento. Sono circa 800 kg pro capite (nel 2005 erano 831 kg a testa nel Nord, 792 nel Centro, 747 nel Sud e 746 delle Isole), il doppio della Germania.

La regione del Nord che, in proporzione agli abitanti, ne produce di più è il Friuli Venezia Giulia, con 1.247 kg pro capite (quasi 1.500.000 tonnellate in totale).

C’è poi un imprenditore veneto del settore estrattivo e dei materiali da costruzione, tale Grigolin, che vuol produrre anche cemento. Già proprietario di alcune cave in Friuli Venezia Giulia, pensa bene di impiantare qui un nuovo cementificio. Dove? A Torviscosa, dentro il grande complesso industriale dell’ex Snia Viscosa (ora “Caffaro”), oggi parzialmente inutilizzato. La capacità produttiva del nuovo impianto sarebbe, a regime, di 1.200.000 tonnellate all’anno, quasi raddoppiando quindi la produzione attuale in regione.

Il progetto dev’essere sottoposto preventivamente a VIA (valutazione di impatto ambientale), di competenza della Regione. Una procedura che prevede la consultazione dei Comuni circostanti il sito dello stabilimento, vari pareri tecnici (ARPA, Azienda Sanitaria, vari uffici regionali, ecc.) e le osservazioni dei cittadini. Segue un parere della Commissione VIA, presieduta dall’assessore all’ambiente (Moretton) e composta da vari funzionari regionali, un rappresentante dell’ARPA, due docenti universitari e due rappresentanti di associazioni ambientaliste. In base a questo parere, una delibera della Giunta regionale conclude il tutto.

Emergono subito, nell’istruttoria tecnica del Servizio VIA regionale, seri problemi ambientali. A Torviscosa i dati delle centraline per il monitoraggio della qualità dell’aria mostrano infatti una situazione critica, che peggiorerà – verosimilmente – con il contributo della nuova centrale elettrica a ciclo combinato “Edison” (entrata in funzione nel dicembre 2006 e sita anch’essa nel comprensorio ex Snia Viscosa), da 800 MW di potenza.

Preoccupano soprattutto le polveri fini PM10, che già negli anni scorsi a Torviscosa hanno superato spesso il limite giornaliero di 50 microgrammi per metro cubo: nel 2010 entreranno in vigore nuovi limiti e la media annuale non dovrà superare i 20 microgrammi (oggi è di 40), un valore che – pur senza centrale “Edison” e senza cementificio – è stato superato negli anni scorsi. Il cementificio aggiungerebbe a sua volta emissioni rilevanti di polveri e 1.800 tonnellate annue di ossidi di azoto (più della centrale “Edison”), che a loro volta danno origine a polveri “secondarie”.

Ci sono poi problemi per la movimentazione delle materie prime (calcare, soprattutto) e del cemento prodotto. Il progetto di Grigolin prevede l’utilizzo anche della via d’acqua e della ferrovia, ma il canale Banduzzi che dovrebbe servire per l’attracco delle chiatte, è sotto sequestro perchè fortemente inquinato da mercurio (eredità della storica attività chimica della Snia Viscosa) e non è chiaro quando e da chi potrà essere bonificato. Anche l’effettivo utilizzo della ferrovia è incerto. Risultato: a regime 356 autocarri – con le relative ulteriori emissioni inquinanti - si riverserebbero ogni giorno sulla rete viaria, la quale è già “in sofferenza” per i volumi di traffico attuali e per la presenza di alcune strettoie (in particolare l’attraversamento dell’abitato di Porpetto).

Dulcis in fundo, il processo produttivo comporta anche l’emissione di grandi quantità di anidride carbonica (CO2), il principale dei “gas serra”: a regime oltre 825 mila tonnellate all’anno (per ciascuno dei 50 anni di vita utile prevista dell’impianto), cioè più del 7 per cento della CO2 emessa nel 2000 nell’intero Friuli Venezia Giulia, il 28 per cento di quella emessa dal settore industriale.

Non male davvero, nel momento in cui i cambiamenti climatici sono il principale problema ambientale e la diminuzione – non l’aumento! - delle emissioni di CO2 è (o dovrebbe essere), la priorità n. 1 per tutti.

Conclusione del Servizio VIA regionale: giudizio negativo sull’impatto ambientale del progetto.

Negativi anche i pareri dell’Azienda Sanitaria, della Provincia di Udine e dei Comuni interpellati, salvo Torviscosa e S. Giorgio di Nogaro (quest’ultimo forse per solidarietà: nella sua zona industriale a ridosso della laguna è in progetto una grande vetreria, con impatti ambientali analoghi a quelli del cementificio Grigolin).

Si arriva così alla seduta della Commissione VIA, convocata per il 7 febbraio scorso, che viene però annullata per mancanza del numero legale (assenti Moretton, l’ARPA, i docenti universitari e alcuni funzionari regionali).

La seduta viene riconvocata il 28 febbraio, ma nel frattempo è cambiato l’orientamento del Servizio VIA. L’iniziale giudizio negativo sul progetto è infatti scomparso, ma nessuno chiarisce perchè.

La Commissione esprime così un giudizio positivo sull’impatto ambientale del progetto, sia pure accompagnato da “prescrizioni”. Favorevoli tutti i presenti, tranne gli ambientalisti, Fabio Gemiti del WWF e Dario Gasparo del CAI, che protestano vibratamente per il colpo di mano.

Pare che al recente congresso regionale dei DS il presidente Illy, rivendicando i meriti della propria Giunta nell’attirare nuovi investimenti industriali in Friuli Venezia Giulia, abbia citato anche il cementificio di Torviscosa tra i successi conseguiti. Il che probabilmente spiega come mai la VIA regionale si sia conclusa nel modo sopra descritto.

Del resto, il progetto di Grigolin menziona esplicitamente la realizzazione di grandi opere ed infrastrutture (per esempio la TAV), che necessitano di tanto cemento e si sa quanto Illy tenga a tutto ciò. Per lo “sviluppo”, naturalmente.

Chissà come saranno contenti i cittadini della bassa friulana, che hanno votato centrosinistra alle ultime elezioni regionali….

Cose che succedono quando si affida un ente pubblico alle mani dei referenti di Confindustria.

Qui alla postilla.

Corriere della Sera, ed. Roma, 3 maggio 2007

«Troppa ostilità verso i Verdi» Bonelli contro il Pd regionale

di Alessandro Capponi

La vicenda di Colle della Strega s'è risolta - articolo 11 di Laurentino 38 approvato con una memoria di Giunta che impegna Marrazzo a trovare una delocalizzazione per i settantamila metri cubi previsti in quell'area che sarà inserita nell'ampliamento del Parco dell'Appia Antica - ma l'«insofferenza» rimane. I Verdi, per voce di Angelo Bonelli, capogruppo alla Camera ed ex assessore all'Ambiente del Lazio, adesso dicono chiaramente che «Marrazzo e la sua Giunta devono recuperare il ruolo di sintesi che avevano all'inizio, noi Verdi siamo stati sempre responsabili ma non possono chiederci di modificare il nostro dna, di rinunciare alla nostra identità». Manda messaggi a Marrazzo, al nascente Partito democratico, a quelle forze di governo regionale che hanno i numeri per governare «solo grazie al trasformismo politico, ai tanti che dal centrodestra sono passati di qua». In sintesi: in regione, «c'è un problema politico serio».

Bonelli, cosa c'è che non va nella coalizione che sostiene Marrazzo?

«L'impressione è che quello che possiamo ormai chiamare Partito democratico abbia come strategia la marginalizzazione della coscienza critica ambientalista. Anche se, ufficialemente, il Pd si dice ambientalista...Nei fatti, però, come nel caso di Colle della Strega, sembra il contrario. Anche se arrivasse al 28 per cento dei voti, l'altro 22 come lo ottiene?

Ecco, il Partito democratico farebbe bene ad avere un atteggiamento meno egemonico e più attento».

C'è un presidente a garanzia della sintesi della coalizione, no?

«Questo Marrazzo e la sua Giunta l'hanno fatto all'inizio, adesso devono recuperare quello spirito, appunto: quel ruolo di sintesi. Non si può chiedere ai Verdi di rinunciare a tutto, anche perché sui temi e sui valori che noi difendiamo altre forze politico si mettono continuamente di traverso...».

Bonelli: quali forze? A quali provvedimenti si oppongono?

«Solo per fare un esempio: la Margherita sulla legge per difendersi dall'Elettrosmog. Anzi, registriamo l'ostilità, diciamo così, di ampie aree del Partito democratico. Si tratta di provvedimenti ambientali che sono lì, in giacenza, in commissione. Per non parlare dell'allargamento del Parco dell'Appia Antica, che è stata una vicenda inaccettabile e quasi incomprensibile. Per non parlare dei riufiuti, tema del quale ci limiteremo a dire che l'interesse economico è molto forte. Ecco, il punto è che noi Verdi non abbiamo poltrone o posti o interessi da difendere: noi difendiamo solo valori, non ci chiedano di rinnegarli, perché noi ci consideriamo sì i migliori alleati di Marrazzo e l'abbiamo dimostrato con un atteggiamento responsabile, però...».

Però siete pronti a uscire dalla Giunta?

«Sono formule, quelle minacciose, che non ci appartengono. Noi diciamo una cosa più semplice: se sarà rispettata la nostra identità, faremo ancora molta strada con questa coalizione..In Regione è possibile fare a meno di noi e Rc solo grazie al trasformismo politico di tanti che dal centrodestra sono passati di qua»

Corriere della Sera, ed. Roma, 4 maggio 2007

Milana ai Verdi: «I vostri no fanno crescere il cemento»

di Alessandro Capponi

«I Verdi dei Municipi, quelli al Comune e quelli alla Regione dicono tre cose diverse sullo stesso argomento. E ovviamente i Verdi del Lazio dicono anche cose diverse dai Verdi della Toscana. Il loro ambientalismo serve a fare favori agli amici ma poi moltiplica le cubature in giro per la città. Scaricano sulla coalizione l'impossibilità di fare sintesi delle loro diverse posizioni, e la paralizzano. Ma su questioni come l'urbanistica, Marrazzo deve tenere la barra a dritta». Il segretario romano della Margherita, Riccardo Milana, torna sull'intervista al capogruppo dei Verdi alla Camera, Angelo Bonelli, pubblicata ieri dal Corriere. Dl e Verdi si sono ritrovati distanti sulla vicenda di Colle della Strega, e da quella, ieri, Bonelli è partito per criticare l'atteggiamento «che mira all'egemonia del Pd, della Margherita che blocca alcuni provvedimenti ambientalisti».

Alleati, dunque, almeno ufficialmente, perché a sentirli parlare non si direbbe.

Milana, Bonelli ha parlato espressamente della Margherita, dice che bloccate alcuni provvedimenti ambientalisti.

«Oltre che fuori luogo, le sue dichiarazioni mi sono sembrate incomprensibili. Su Colle della Strega, per cominciare: la Regione, ieri, ha di fatto votato l'edificazione di quei settantamila metri cubi; poi, sempre la Regione, ha votato un atto di indirizzo politico con il quale si impegna Marrazzo a delocalizzarli. Sapete cosa significa? Che quei metri cubi diventeranno duecentomila, in un'altra zona. Evidentemente, c'era qualche amico dei Verdi che non gradiva quelle edificazioni, e così adesso, in nome di questa politica pseudoambientalista, lo spazio per i costruttori sarà triplicato in un altro quartiere. È stato così anche in passato: invece di costruire un milione di metri cubi a Tor Marancia, ne costruiremo tre e mezzo altro. E questo sarebbe il loro ambientalismo?».

Veniamo a ciò che diceva Bonelli: la Margherita alla Regione lascia in giacenza la legge contro l'elettrosmog.

«Non mi risulta, ma siamo disponibili a parlarne. Il punto, però, è che discutere con i Verdi non è semplice: nei Municipi dicono una cosa, al Comune un'altra, in Regione un'altra ancora. Il problema è che sono preda di spinte localistiche, di amici e comitati ora di un quartiere ora di un altro: e così non hanno una linea comune. Ma in politica non bisogna salvare il proprio orticello...».

In verità, Milana, Bonelli sostiene che è il Partito democratico a puntare all'egemonia, a voler marginalizzare i Verdi e le altre forze non espressione del riformismo.

«I Verdi non fanno bene né a loro stessi, né al centrosinistra, né alla città né alla Regione: sono attenti agli amici invece che agli interessi generali. E siccome il Pd è il partito del fare, dell'agire, non rimanda questioni per decenni, allora, guardandola da questo punto di vista, è normale che i Verdi siano preoccupati».

Ma è vero o no che in ambito regionale i Verdi rischiano di essere marginalizzati?

«No, è falso. Anzi, su questioni importanti come l'urbanistica, invito Marrazzo e l'assessore Pompili a tenere la barra a dritta».

Vuol dire: non ascoltare le spinte ambientaliste?

«Ma quale ambientalismo è quello che triplica le cubature ad ogni delocalizzazione? Un ambientalismo che sta consegnando pezzi di città alla speculazione, questo è. Noi ci atteniamo a ciò che è scritto, preferiamo fare settantamila metri cubi a Colle della Strega piuttosto che duecentomila chissà dove. Ma una cosa è certa: quando sarà individuata l'area dove costruire, arriverà un altro comitato di quartiere dei Verdi che chiederà di spostare tutto un'altra volta. Ecco, voglio dirlo chiaramente: basta con questo finto ambientalismo, i Verdi siano una forza coerente, si sporchino le mani, e siano, come noi, attenti agli interessi generali e non a quelli degli amici...».

Postilla

Il breve botta e risposta tra gli onorevoli Bonelli e Milana sopra riportato evidenzia meglio di tanti ragionamenti il baratro in cui è caduta l’urbanistica (si fa per dire) romana. L’argomentazione con cui Milana risponde alle sacrosante esigenze di tutela del territorio e dell’ambiente di Bonelli, è infatti inoppugnabile. “Delocalizzare settantamila metri cubi a Colle della Strega significa che diventeranno duecentomila in altre zone”.

E’ vero, lo stiamo inutilmente denunciando da anni, la “compensazione urbanistica” è un istituto che incrementa la dissipazione del territorio. Triplica le cubature da realizzare perché avviene sulla base di una sotterranea trattativa rigorosamente privata. Il fatto scandaloso è che si vuol far credere che siano le ragioni della tutela a provocare la devastazione del territorio. E’ chi resiste agli energumeni del cemento a causare scempi!

Come si è arrivati a questa vergognoso ribaltamento della realtà è presto detto: l’urbanistica romana ha stabilito che esistono “diritti edificatori” a prescindere dalle leggi e di una prassi pluridecennale. Qualsiasi previsione di piano, anche la più immotivata e arbitraria come quella di Colle della Strega diventa un “diritto” da trasferire nel caso che non venga realizzata.

E proprio il caso di Colle della Strega è la più scandalosa denuncia a carico dell’involuzione culturale dell’urbanistica capitolina. Lo straordinario comitato di quartiere ha infatti dimostrato con atti inoppugnabili che la previsione edificatoria introdotta con uno dei tanti strumenti dell’urbanistica contrattata -formalizzata ovviamente attraverso accordo di programma- ricadeva su aree vincolate ai sensi della tutela paesistica.

Anche gli azzecacarbugli sanno che le previsioni edificatorie su aree vincolate non danno luogo ad alcun diritto. Ma a Roma vige un’altra legge e quelle previsioni illegittime diventano tre volte più grandi. E’ il sacco urbanistico.(P.B.)

Le parole e le cose, si sa, possono divorziare. Perciò nell’immemore Macondo di Cent’anni di solitudine Aureliano Buendia «con uno stecco segnò ogni cosa col suo nome: tavolo, sedia, orologio, porta, muro, letto, casseruola, vacca, capra, porco, gallina, manioca, banano». Perciò il protagonista dei recentissimi Viaggi nello scriptorium di Paul Auster (Einaudi) vive in una stanza dove «sul comodino c’è scritto COMODINO, sulla lampada c’è la parola LAMPADA, sul muro c’è una striscia di nastro con scritto MURO».

Più facile ancora è la perdita di memoria se si tratta di concetti, di termini astratti. Per esempio, i principi della Costituzione. Prima al mondo, la nostra Costituzione pose la tutela dei beni culturali e del paesaggio fra i principi fondamentali dello Stato: culmine e compimento di una secolare cultura italiana della conservazione che nelle leggi del 1939 aveva trovato organica espressione. Perciò l’art. 9 («La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione») è connesso allo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica, e più in generale al «pieno sviluppo della persona umana» (art. 3). Ma, come a Macondo, qualche colonnello di Palazzo Chigi lo ha dimenticato. In un dilettantesco "Albero del Programma per l’attuazione del Programma di Governo" visibile nel sito della Presidenza del Consiglio, "Valorizzare il nostro patrimonio di beni culturali e paesistici" è indicato fra le priorità di una "rinascita culturale come strategia per la crescita". D’accordo, ma come? Semplice, risponde l’Albero: "Consolidare l’organizzazione statale della tutela", "Incrementare la capacità operativa delle Soprintendenze" e persino "Rafforzare i poteri e l’autorevolezza dei Soprintendenti", ma contemporaneamente "Estendere le funzioni di tutela ai governi territoriali, lasciando allo Stato le funzioni di alta garanzia generale". Insomma: le Soprintendenze si potenziano e si consolidano togliendo loro tutto quello che fanno (la tutela) per affidarlo a comuni, province, regioni. Che questa ipotesi sia anticostituzionale, l’estensore dell’Albero non giunge a sospettare. Qualcuno ci spiegherà, c’è da scommetterlo, che si è trattato di un infortunio, tanto più che questa concezione della tutela è l’opposto di quella sostenuta dal ministro dei Beni culturali Francesco Rutelli, in particolare con riferimento al paesaggio.

Sarà un infortunio, sarà un colonnello che inciampa nelle parole. Ma è nel sito di Palazzo Chigi, e questo è un dato politico che obbliga a interrogarsi sul perché di tanta sciatteria. Il cerchiobottismo "tutto allo Stato, tutto alle regioni" rispecchia infatti un problema assai serio, quello del ruolo rispettivo di Stato, regioni ed enti locali rispetto al patrimonio culturale. La riforma del Titolo V della Costituzione (2001) tentò una soluzione salomonica, attribuendo in via esclusiva allo Stato la tutela dei beni culturali, la valorizzazione alle regioni «salvo che per la determinazione dei principi fondamentali», riservata allo Stato (art. 116). Poiché le migliori pratiche internazionali e il giudizio degli esperti impongono di concepire come un continuum tutela, gestione e valorizzazione dei beni culturali, la rigida distinzione fra tutela e valorizzazione, che produce il frazionamento dell’azione amministrativa e la dispersione delle responsabilità, ha ben poco senso (lo mostrano i continui conflitti di competenza Stato-regioni davanti alla Corte Costituzionale); tanto più che la stessa parola "valorizzazione" è assai ambigua, e può essere interpretata in senso meramente economico. Il Codice dei Beni culturali, in particolare con la revisione del 2006 (governo Berlusconi), si è sforzato di metter ordine in questo ginepraio, specificando che la valorizzazione va intesa solo «al fine di promuovere lo sviluppo della cultura» (art. 6), dunque non autorizza svendite: inutile sforzo, se il comma 259 della Finanziaria 2007 (governo Prodi) reintroduce l’idea della «valorizzazione a fini economici» del patrimonio culturale.

Crescono intanto le pressioni delle regioni che (contro la Costituzione) rivendicano per sé le funzioni di tutela: così la Lombardia, con delibera dello scorso 4 aprile, così il Veneto (due delibere del 2006), così il Piemonte e l’Emilia-Romagna, così qualche anno fa la Toscana. La motivazione della Lombardia è esplicita: «per ricondurre a unità tutela, valorizzazione e gestione dei beni culturali». Si riconosce in tal modo che scindere tutela e valorizzazione è pernicioso, ma si individua nella regione, e non nello Stato, il luogo della ricomposizione: senza notare che in tal modo si arriverebbe a venti diverse concezioni della tutela, una per ogni regione, violando l’esigenza di unitarietà nazionale inscritta nella Costituzione.

E’ dunque evidente che la valorizzazione è la porta di servizio attraverso la quale le regioni intendono impossessarsi della tutela, capovolgendo nei fatti l’art. 9 della Costituzione. Per poi magari sub-delegarla ai Comuni, con le conseguenze che già si vedono dappertutto sul martoriato paesaggio italiano (Monticchiello insegni). Perciò è necessario prestare più attenzione a tutti i meccanismi di "valorizzazione", per esempio le Fondazioni in via di costituzione. Per citare un esempio, in quella per Aquileia, area archeologica di proprietà statale, la bozza di statuto prevede, contro l’art. 112 del Codice dei beni culturali, la presenza paritetica di Stato, regione Friuli, provincia e comune; il presidente della Fondazione è designato d’intesa fra regione e comune, il direttore è nominato dalla regione e per giunta il "Comitato rappresentativo" ha solo rappresentanti di comune, provincia e regione, e il Soprintendente può intervenire alle riunioni solo su invito. Insomma, la Fondazione è il cavallo di Troia per passare dallo Stato alla regione (in cambio di 160.000 euro l’anno) un’area di enorme importanza come quella di Aquileia. L’esatto contrario di quanto stabilito in un’importante sentenza della Corte Costituzionale (26/2004), secondo cui la valorizzazione deve far capo all’ente proprietario del bene (nell’area di Aquileia, lo Stato).

La materia della valorizzazione è stata profondamente innovata dal Codice nella revisione del 2006, dando assai maggior risalto alle esigenze della tutela e prevedendo meccanismi di azione concertata Stato-regioni, che nell’esempio appena citato appaiono disattesi. Ma all’appuntamento con le regioni la struttura ministeriale si presenta impreparata e debole, come è evidente dall’esempio delle Fondazioni (Egizio di Torino, Aquileia). Essa è ancora calibrata su funzioni, esperienze e competenze anteriori all’introduzione della "valorizzazione" come principio giuridico (magari pessimo, ma ineludibile perché inserito nella Costituzione). Direzioni generali, soprintendenze regionali e di settore sono "tagliate" sulle cose oggetto della tutela, dall’archeologia agli archivi; mentre per affrontare con decisione i temi della valorizzazione occorre un approccio necessariamente "trasversale", non commissioni consultive bensì una struttura centrale dedicata che possa affrontare con decisione e con visione unitaria il tema della cooperazione con le regioni e gli enti locali, dovunque e in qualsiasi forma esso si presenti. La (blanda) riorganizzazione del Ministero in corso potrebbe essere l’occasione buona.

Il colonnello di Palazzo Chigi a cui si deve l’"Albero del Programma di Governo" ha dato, è vero, un colpo al cerchio e uno alla botte. Ma la sua contraddittoria ambiguità riflette quella del governo, incerto e ondivago sul fronte "caldo" del federalismo. Ma quale sarà la vera azione di governo? Si vorranno fortificare le soprintendenze e la tutela come ripete il ministro Rutelli e come dice una parte dell’Albero? O si vorrà smantellare la macchina statale della tutela e cedere tutto alle regioni, come dice un’altra parte dello stesso Albero seguendo Lombardia, Piemonte e Veneto? E in tal caso, basterà dimenticarsi dell’art. 9 della Costituzione, o si avrà l’onestà (etica e politica) di proporne la cancellazione? Insomma: Palazzo Chigi è a Roma o a Macondo?

Qualcosa si muove. Nell’Italia del cemento e dell’asfalto c’è chi comincia ad aprire gli occhi sul saccheggio del paesaggio, lo considera una vera e propria emergenza nazionale e corre ai ripari.

Ci prova il ministro Rutelli, dichiarando guerra agli ecomostri e intanto facendo muovere la magistratura che mette i sigilli ai cantieri di di Monticchiello. Ma anche rivitalizzando quell’organo in apnea che era il Consiglio superiore dei beni culturali e paesaggistici ed affidandone la presidenza a Salvatore Settis, direttore della Scuola Normale di Pisa, professore ordinario di Storia dell’arte e dell’archeologia classica, un Don Chisciotte della bellezza che da anni, a suon di denunce e in compagnia di poche altre voci, combatte contro i “vandali”.

Professore, finalmente il Consiglio si è messo in moto...

«Il Consiglio superiore era completamente atrofizzato. Negli ultimi cinque-sei anni si era riunito quattro o cinque volte, con un tasso di una riunione l’anno. Il ministro Rutelli ci tiene molto a che funzioni e ha voluto rivitalizzarlo: c’è voluto più tempo del previsto, ma l’importante è che sia avvenuto. Il Consiglio si è già riunito due volte, pronunciandosi su una bozza di riforma del ministero, e ha in calendario da qui a dicembre una decina di riunioni».

Cosa si aspetta da questo lavoro?

«Di dare buoni consigli al ministro».

Ci spieghi. Nell’ambito delle competenze del Consiglio ci sono anche i rapporti con le Sovrintendenze?

«No, il Consiglio superiore non è un organo che decide. Qualcuno mi ha chiesto come mai abbiamo deciso di mandare in prestito l’Annunciazione a Tokyo... E negli ultimi mesi ho ricevuto almeno 200 richieste, compresa quella di una signora che mi chiedeva perché non ci occupassimo della magnolia che stavano abbattendo nel cortile sotto la sua casa. Vorrei fosse chiaro che il nostro è un organo consultivo che si pronuncia solo sui temi su cui il ministro decide di interrogarci».

Rutelli vi ha chiesto aiuto anche per quanto riguarda l’emergenza paesaggio?

«Per il momento non c’è nulla all’esame del Consiglio. C’è invece un’altra partita aperta. Il ministro ha appena istituito una commissione, ancora presieduta da me, per i ritocchi al codice dei beni culturali. E nell’insediarla ci ha dato come compito primario quello di rivedere con attenzione la parte che riguarda il paesaggio: il mandato è quello di alzare le garanzie di protezione del paesaggio, combinando tutte le istanze possibili, dello Stato e delle Regioni, delle Province e dei Comuni».

Insieme al presidente Napolitano e al ministro Rutelli, è tra i destinatari di un appello del “Comitato per la bellezza” che fa un quadro drammatico dell’emergenza paesaggio in Italia. Lei cosa ne pensa?

«In questo il mio giudizio coincide con quello del ministro Rutelli. L’emergenza paesaggio esiste. C’è un vuoto di normativa, e quella che c’è è stata interpretata in modo non rigoroso. Di fatto lo Stato ha ceduto troppo alle Regioni le quali, in genere, hanno fatto poco o nulla. Una cosa però l’hanno fatta, hanno delegato ai Comuni. Subdelegare ai Comuni ha, a mio avviso, conseguenze negative. I Comuni piccoli, che sono la grande maggioranza e amministrano di fatto una parte enorme del territorio nazionale, non possono avere delle competenze locali di paesaggistica. Non si può pretendere, tanto per citare sempre il famoso caso di Monticchiello - come se fosse l’unico, ma ce ne sono di molto piu gravi - che il comune di Pienza abbia un paesaggista. Non dico che Pienza non debba dire la sua sul territorio del Comune, sarebbe ridicolo. Però occorre che il Comune faccia la sua parte, la Provincia la sua, la Regione e lo Stato la loro. È chiaro che questi ruoli, nel loro rapporto reciproco, non sono ancora ben definiti e lo devono essere, a livello di normativa e di prassi. Credo però che le “buone pratiche” si potrebbero istituire anche con la normativa che c’è, in attesa di migliorarla».

Ma intanto il saccheggio continua...

«Ho raccontato al ministro una mia esperienza recente. Ero a Berna, ad un convegno internazionale della Società nazionale svizzera per la protezione del patrimonio culturale. C’erano tutti i paesi confinanti e di italiani c’ero io. Mi avevano chiesto di fare una sessione plenaria e ho parlato delle normative italiane. Nella discussione che è seguita mi sono state rivolte una ventina di domande e almeno la metà erano di questo tono: “Ma cosa state facendo, perché rovinate l’Italia e proprio le zone più belle?”. Ognuno citava il posto che conosceva meglio, molti la Toscana, molti l’Umbria, altri Sicilia e Veneto. Quindi che ci sia l’emergenza paesaggio lo sanno tutti. A volte siamo noi che chiudiamo gli occhi perché non vogliamo vederla».

Quando si parla di emergenza paesaggio ci si riferisce quasi sempre a scenari naturali. E le città? Non subiscono gli stessi sfregi?

«È una preoccupazione che trovo molto giusta e che invece è stata respinta al margine. Una delle persone più intelligenti che mai si siano occupate di queste tematiche in Italia è Giovanni Urbani, direttore dell’Istituto centrale per il restauro, scomparso nel 1995. Questi problemi lui li aveva visti con grande anticipo. Per misteriose ragioni, diceva Urbani, noi ci siamo convinti che in Italia esista un oggetto che si chiama paesaggio, un altro che si chiama ambiente ed un altro ancora che si chiama governo del territorio. Ma queste tre cose sono una sola. Invece abbiamo creato degli ingorghi burocratici, una situazione in cui il territorio è di competenza degli enti locali e manca una visione complessiva. In questa disgregazione a rimetterci sono precisamente il paesaggio, l’ambiente, la città. Non c’è dubbio che il tema del paesaggio includa il drammatico problema delle periferie, delle orripilanti periferie che l’Italia ha saputo costruire distruggendo mille anni della propria storia, per non dire tremila, nel secondo dopoguerra. Questo però è un problema che non si risolve con una politica di vincoli, non limitandosi a dire quell’edificio non si tocca o lì non si costruisce. I vincoli ci vogliono ma serve soprattutto la capacità di progettare che non abbiamo. E per costruirla ci vuole un grande sforzo».

Da dove si comincia?

«Faccio una piccola riflessione, banale, elementare, che però tutte le volte suscita, nell’ambito di conferenze o altro, il più grande stupore. Perché nelle scuole italiane un po’ di storia dell’arte per il rotto della cuffia si fa, ma di paesaggio non si parla mai? C’è una ragione per cui dobbiamo far finta che non sia un tema? Chi l’ha detto? E come mai, visto che questa cosa è sotto gli occhi di tutti, nessun ministro, in nessuna riforma, ha nemmeno progettato che nei programmi di storia dell’arte ci sia spazio per il paesaggio? Questo è un deficit culturale che stiamo pagando e che i nostri figli e nipoti pagheranno ancora di più. Perché avranno un’Italia meno bella di quella che abbiamo visto noi».

Cosa risponde a chi sostiene che il paesaggio, soprattutto in Toscana, è frutto dell’azione dell’uomo, che i casali li hanno costruiti i contadini?

«Io non risponderei nulla, è giusto, chi può obbiettare qualcosa?».

E se i contadini di oggi invece del fienile vogliono fare il capannone di lamiera?

«Il capannone di lamiera non lo possono fare perché nella tradizione toscana non c’è. A Siena, ma in tutte le città comunali italiane, ci sono norme che limitano l’arbitrio del privato sin dal Medioevo. Ci sono state sempre ed in certe città ancora valgono. A Modena è ancora valida nei regolamenti comunali una norma secondo cui nulla può essere più alto della Ghirlandina. In tutto il territorio comunale, anche nei punti da cui la Ghirlandina non si vede. La tradizione italiana è quella. Non è vero che in passato ognuno costruiva quello che voleva e che oggi c’è qualche personaggio molto cattivo che per misteriose ragioni vuole imporre vincoli. Se l’Italia è diventata quel paradiso del paesaggio, dell’equilibrio uomo-natura, tutti sanno che è proprio per questa ragione. Perché lo sviluppo del paesaggio è stato armonico e governato.

Mentre ora noi vogliamo che non lo sia più, fingendo che lo sia. L’altro punto, non meno importante, è che una volta, in un momento che si può collocare tra le due guerre mondiali, c’era una cultura generale che inglobava tutto e che le vecchie generazioni ancora hanno. In realtà era altamente improbabile che una costruzione, anche abusiva, fatta da un contadino analfabeta, non fosse bella».

Gli archeologi della Soprintendenza al Ministro Rutelli: "salviamo la campagna romana"

Francesco Erbani – la Repubblica, 24 aprile 2007

Un appello a Francesco Rutelli perché sia tutelato il paesaggio dell´agro romano. In una lunga lettera al ministro dei Beni culturali, un centinaio di funzionari della Soprintendenza archeologica della capitale chiede che sia salvaguardato il patrimonio storico illustrato da schiere di vedutisti e celebrato da Goethe, Stendhal e Chateaubriand. Quel paesaggio, che racchiude ricchissime testimonianze antiche, è ora oggetto di «appetiti speculativi», scrivono archeologi come Rita Paris, che dirige Palazzo Massimo e tutta l´Appia antica, Maria Antonietta Tomei, che ha la responsabilità del Museo delle Terme, Matilde De Angelis e Alessandra Capodiferro, che guidano Palazzo Altemps, Livia Irene Iacopi, cui spetta la tutela dei Fori e del Palatino, e Roberto Egidi, che cura il Suburbio. Nell´appello, sottoscritto anche da architetti e assistenti di scavo, si sostiene che la campagna intorno a Roma «appare oggi quasi completamente cancellata nei suoi originari caratteri, deturpata e svilita da un´urbanizzazione incontrollata e sparsa a macchia d´olio».

Il nuovo Piano regolatore della città, scrivono i funzionari della Soprintendenza, poteva essere un´occasione per porre rimedio a questo consumo di suolo pregiato. E invece esso «riduce ulteriormente l´agro romano e porta la superficie urbanizzata da 41 mila a 56 mila ettari circa». A Rutelli si chiede di intervenire «per rafforzare la competenza dello Stato per la tutela del paesaggio e in particolare del paesaggio archeologico, rendendo obbligatorio e vincolante il parere delle Soprintendenze».

Un allarme sulla sorte della campagna romana (un territorio vastissimo: il Comune di Roma è grande 129 mila ettari) viene anche da un convegno di Italia Nostra dedicato ad Antonio Cederna. L´associazione chiede che si crei «un fondo nazionale per l´acquisizione al demanio indisponibile delle aree della campagna romana a rischio». Al convegno è intervenuto Walter Veltroni, che ha difeso l´operato della sua giunta. «Roma», ha detto il sindaco, «è una città che cresce ma non stravolge se stessa. In questi anni la capitale si è trasformata da città semi-morta dei ministeri a città viva. Tutto questo investendo sul bello, sul ritorno dell´architettura contemporanea e insieme mantenendo l´intensità che le deriva dalla sua storia».

Pincio, Veltroni al contrattacco "Il parcheggio verrà realizzato"

Carlo Alberto Bucci - la Repubblica, ed. Roma, 24 aprile 2007

In nome di Antonio Cederna, non un dibattito accademico a dieci anni dalla morte del grande ambientalista che combatté contro il sacco di Roma. Ma - ieri, ai musei Capitolini - uno confronto schietto, uno scontro aperto, tra "Italia nostra" e il sindaco Walter Veltroni. Il parcheggio del Pincio e il Museo del giocattolo a villa Ada, i punti caldi del contendere. Con la cronaca della lotta dei cittadini di Colle della Strega per fermare il via alla cementificazione che irrompe nella sala Pietro da Cortona. E con, come corollario al dibattito, le richieste del Comune al governo di finanziare il proseguimento della Metro C sulla Cassia e fino al Gra; e l´appello, per voce di Oreste Rutigliano, vicepresidente dell´associazione ambientalista fondata nel 1955 da Cederna e altri, di creare un fondo nazionale per salvare torri, ponti, casali in rovina dell´Agro romano.

«Seguire l´insegnamento di Antonio Cederna vuol dire anche essere scomodi» ha rivendicato Annalisa Cipriani aprendo i lavori della giornata su La legge per Roma Capitale, l´articolo 1, organizzata da "Italia nostra". Che, nel presentare il documento d´intenti in cui si punta a rivitalizzare la legge del 1990, ha ribadito il suo «no» sul Pincio, a causa delle «alterazioni che sicuramente quel sito storico subirà per i lavori del parcheggio sotterraneo». Immediata la replica di Veltroni, secondo relatore del convegno, che, dopo aver tratteggiato il profilo di Cederna «ambientalista moderno perché capace di coniugare tutela e crescita economica», ha bollato come «conservatrici» le richieste di stop al progetto sul Pincio. «È l´operazione più importante della storia urbanistica di Roma perché consentirà di togliere le auto dal Tridente e da Villa Borghese. Certe posizioni conservatrici - ha sottolineato - finiscono per condurre la città al degrado e io le contesterò». Decisa anche la difesa di Veltroni dell´ipotesi di un museo nelle «scuderie abbandonate di Villa Ada», dalle critiche di chi «vorrebbe restasse tutto così» (ma secondo Adriana Spera, capogruppo di Prc in Campidoglio, «il primo progetto si limitava giustamente a recuperare le scuderie mentre quello attuale prevede la grave costruzione di nuove cubature nella villa storica»).

La richiesta del sindaco al governo «di finanziare la Metro C sotto la Cassia» (un costo, in 10 anni, di 1230 milioni, 4 dei quali messi dal Comune), ha trovato d´accordo il deputato diessino Walter Tocci: «Ci si deve pensare assolutamente, fin dalla prossima Finanziaria». Più scettico il viceministro all´Economia, Vincenzo Visco («i fondi sono pochi, le richieste tante, il problema è decidere le priorità ...»), interessato soprattutto alle potenzialità delle dismesse caserme romane: «Castro Pretorio potrebbe diventare il campus della Sapienza».

Infine, Colle della Strega. Lo sciopero della fame dei residenti è stato applaudito da "Italia nostra". E in serata è arrivato l´appello dei Verdi. La senatrice Loredana De Petris e il portavoce alla Camera Angelo Bonelli hanno chiesto di stralciare l´edificazione dell´area verde dal piano di recupero urbano del Laurentino, oggi in approvazione alla Regione.

Non sarà più la città della Torre perché di torri ce ne saranno almeno quattro. E neppure la città del campanile pendente: tra un mese, nel quartiere di Ospedaletto, inizieranno i lavori per costruirne un altro ex novo, alto 57 metri e 60 centimetri, proprio come il capolavoro di Piazza dei Miracoli. Non avrà campane, questo clone postmoderno, e il baricentro sarà regolare e bilanciato. Eppure sarà «virtualmente storto» e grazie a un gioco architettonico di luci ed ombre l'osservatore lo vedrà pendere in un mix di realtà virtuale e miraggio metropolitano. Le altre due torri, da 45 metri ciascuna e senza alcuna analogia con il campanile del Bonanno, sorgeranno nel quartiere di Pisanova.

Insomma, tra meno di un lustro e con un investimento di 180 milioni di euro, Pisa cambierà look. I cantieri stanno per aprire e il costruttore siciliano Andrea Bulgarella parla di una rivoluzione. «Costruiremo appartamenti e torri in due quartieri — dice — e lo faremo con grandissima qualità come gli antichi costruttori. Abbiamo cercato i migliori progettisti al mondo. Ringrazio sindaco e comune per avermi dato questa possibilità».

La «Torre pendente 2» è stata firmata da Dante Oscar Benini, 60 anni, allievo di Carlo Scarpa, tra i più importanti architetti al mondo. Sorgerà a cinque chilometri a sud est da Piazza dei Miracoli e sarà il fulcro di Piazza del terzo Millennio.

«I primi due piani della torre saranno raggiungibili con una grande rampa a piani inclinati — spiega Benini — dove cittadini e turisti potranno passeggiare. Poi un ascensore porterà chiunque lo vuole sulla terrazza panoramica. E da qui sarà possibile vedere Piazza dei Miracoli e il campanile del Bonanno. Allegoria e realtà unite in un solo sguardo».

Secondo il progetto da 70 milioni di euro la nuova piazza dovrà assumere una connotazione commerciale. Nel nome dell'ecologia, però. «Per i due edifici da otto piani che saranno costruiti insieme alla torre, abbiamo scelto cementi fotocatalitici capaci di assorbire l'ossido di carbonio degli scarichi delle auto per trasformarlo in ossigeno — continua Benini —. Le facciate ottimizzeranno l'energia e in qualche modo produrranno caldo d'inverno e freddo d'estate. In tutti gli edifici saranno installate pompe di calore ecologiche che non emetteranno emissioni nocive».

Il tutto sarà coperto da una sorta di tendone di cristallo di cinquemila metri quadrati dalla doppia funzione: riparare le persone dalla pioggia e raccogliere l'acqua piovana in appositi pozzi per poi essere riutilizzata per gli scarichi sanitarie l'irrigazione del giardino.

Eppure, nonostante gli accorgimenti ecologici, c'è chi lancia accuse di scempio e di presunzione urbanistica. «Forse qualcuno ha avuto qualche colpo di sole e invece di Pisa ha creduto di trovarsi a San Gimignano o a Bologna dove le torri abbondano — ironizza Gioacchino Chiarini, preside di facoltà all'università di Siena e direttore del Laboratorio sul paesaggio del Centro Warburg Italia —. Progetti di questo tipo servono solo a distruggere l'identità di una città. Pisa e il campanile pendente vivono da secoli in osmosi, sono l'essenza della città. Sarebbe come costruire a Siena un'altra Piazza del Campo, oppure un altro Ponte Vecchio a Firenze. Se non fosse vero sembrerebbe una barzelletta». Preoccupato Fabio Roggiolani, consigliere regionale e leader dei Verdi toscani: «Quando ho visto il progetto mi è venuta in mente la Torre di Babele che sfida il divino. Come si fa solo a ipotizzare una somiglianza allegorica con Piazza dei Miracoli? Non solo è un capolavoro ma, lo dico da laico, è anche un simbolo religioso».

Il sindaco di Pisa, Paolo Fontanelli: «Piazza del Terzo Millennio è un progetto di grande qualità. Un'area artigianale e produttiva, come è quella di Ospedaletto, può allargare la dimensione e puntare anche ai servizi e all'attrazione».

Io ve l'avevo detto qualche settimana fa. S.O.S. da Milano, venite a salvarci. E voi: niente. Se volete ve lo dico in cinese!

Uno. Può seriamente Milano candidarsi all'Expo, scintillante vetrina del mondo, se non sa dove mettere 15 mila cinesi? Nel dubbio, raccoglie soldi con le multe ai cinesi.

Due. Il problema, a quanto pare, è spostare i cinesi che si ostinano ad avere i magazzini in una zona a ridosso del centro. La deportazione dei cinesi. Bisogna trovare un'area per l'ingrosso dei cinesi: qualcuno a Milano ha già gli occhi a forma di dollaro, e non è cinese per niente.

Tre. Generosamente il comune di Milano si offrirebbe di fornire l'area, ovviamente con «un introito alle casse dell'amministrazione». In cinese si legge così: ti rompo i coglioni finché non mi dai dei soldi.

Quattro. La città non è nuova alle deportazioni di massa. Dal centro alle periferie quando si è terziarizzato il centro. Poi il quartiere Garibaldi ha cacciato i poveri e si è fatto fighetto: una finta Parigi come può immaginarsela un cumenda milanese. La stessa pulizia etnica su base di reddito è prevista all'Isola, quartiere popolare che sarà grattacielizzato. Favelas e baraccopoli sono in aumento.

Cinque. Interessante risvolto mediatico: appena i cinesi si sono incazzati per una multa, i giornali si sono riempiti di Dragoni, Triadi, affari loschi, mafia cinese e spaventosi reati. Non so in Cina, non so a casa Moratti, ma a casa mia (Milano) questo si chiama criminalizzare.

Sei. I cinesi hanno valorizzato una zona che cadeva a pezzi pagando tanto e facendo lievitare i valori immobiliari. Ora non servono più: il metroquadro decinesizzato varrebbe il doppio.

Sette. Nonostante Milano sia saldamente in mano alla peggior destra da quattordici anni, per veder sventolare una bandiera rossa abbiamo dovuto aspettare qualche bottegaio cinese.

Allora, venite a salvarci o no? (e non dai cinesi).

Nota: qualche altro dato, su questo stesso problema, dal Sole 24 Ore, e le " origini storiche" della questione

Con questo slogan beffardo si è scelto d'inaugurare lo scorso 31 marzo uno dei più grandi shopping center d'Italia. Una nuova cattedrale del consumo innalzata per ospitare 220 negozi, un cinema multisala, vari punti ristoro delle più famose catene multinazionali, un ipermercato e 7.000 parcheggi.

Nel disegno urbanistico concepito dall'amministrazione Veltroni esso dovrebbe svolgere una funzione di centralità metropolitana finalizzata alla riqualificazione della periferia, analogamente a quanto accadrebbe o starebbe per accadere in decine di aree disseminate nell'hinterland cittadino. Nel caso specifico la riqualificazione passa attraverso il consumo di 136.000 metri quadri di suolo sottratto al proprio contesto storico-culturale ed alla biodiversità, nonché attraverso la polarizzazione quotidiana di circa 40.000 persone, che si sposteranno lungo direttrici di traffico sprovviste di adeguato trasporto pubblico su ferro, quindi quasi esclusivamente sull'automobile.

Che cosa ci sia di ri-qualificante rispetto alla condizione precedente non è dato saperlo, ma tale è la mistificazione lessicale con cui il Comune di Roma conferisce pubblico decoro a scelte urbanistiche rispondenti solo a mere speculazioni private. Evidentemente in questi anni chi ha amministrato la città deve aver capito che il marketing pubblicitario applicato alla comunicazione politica può condizionare a lungo le opinioni ed il consenso della cittadinanza. E allora mediante un'instancabile opera di persuasione appoggiata dalle grandi testate giornalistiche della Capitale (di destra e di sinistra), si è creata un'immagine istituzionale idilliaca e buonista in cui concetti antitetici come crescita e solidarietà vanno a braccetto, dove la cultura è dispensata dai grandi eventi benedetti dalla Camera di Commercio, dove si approva un piano regolatore che si dice tuteli l'ambiente, mentre 15.000 ettari di territorio comunale vengono ricoperti di cemento. Un laboratorio politico ove si formano coalizioni vincenti che annoverano tra le loro fila ex fascisti fuoriusciti da An e Forza Italia (riuniti nella lista "moderati per Veltroni") insieme a tutto il centro sinistra fino a Rifondazione Comunista e ai movimentisti della lista Arcobaleno.

Un idillio che comincia a mostrare le sue falle man mano che, pezzo dopo pezzo, si porta a compimento l'espansione della città. Città il cui dissenso è stato finora confinato in sacche marginali prive di risonanza mediatica e di rappresentanza politica, costituite da associazioni e comitati di cittadini che resistono per difendere gli spazi verdi ad uso pubblico dalla cementificazione. Dove le periferie si dilatano consolidandosi come "non luoghi" i cui conflitti, privi di attenzioni istituzionali e giornalistiche, sfociano in vandalismo piromane e per dirla con Joseph Rickwert (urbanista polacco), in "violenza non mirata, generica, contro la noia della condizione suburbana".

Quali strade dunque portano a Roma Est? Se lo cominciano a chiedere schernite le decine di migliaia di cittadini andati a resiedere nei quartieri sorti accanto alle "centralità periferiche" dei mega store e rimasti intrappolati a causa dell'invasione automobilistica destinata a perpetuarsi ogni fine settimana. Coloro che stanno tempestando di mail le redazioni dei giornali, i quali li hanno prima sedotti con le pubblicità immobiliari, invitanti all'acquisto in complessi periferici "immersi nel verde", e poi abbandonati con la mancata realizzazione delle opere minime di urbanizzazione e mobilità da parte degli editori e finanziatori degli stessi (come prevede l'ubanistica contrattata tra Comune e costruttori).

Se lo è chiesto addirittura il sindacato dei vigili urbani che ha denunciato pubblicamente di esser stato costretto ad un lavoro improbo, sorvolando per un giorno intero con gli elicotteri il collasso automobilistico in cui si è trovato un intero quadrante urbano. Perfino il Consiglio del municipio ove ricade l'opera (l'ottavo) si è rammentato, ancorché una settimana prima dell'inaugurazione, di chiedere alla Giunta Comunale un rinvio dell'evento fino alla realizzazione di una dozzina di opere stradali (previste per un migliore e massiccio utilizzo dell'automobile) ancora non iniziate. La Giunta ha rassicurato che quei rimedi previsti dal piano regolatore e giustamente invocati dal consiglio municipale sarebbero stati in parte operativi per la data stabilita.

Così non è stato, ma si dovrà pur riconoscere alla classe politica capitolina di essersi dimostrata coerentemente inadeguata tanto nell'elaborazione, quanto nella realizzazione pratica delle proprie ricette.

Nota: qui il sito ufficiale dello shopping center Roma Est (f.b.)

Il progetto del parcheggio sotto al colle del Pincio solleva diversi motivi di dissenso: basterebbe uno solo di essi per motivare la bocciatura.

Ecco i principali dati: 719 posti auto, 70% in vendita, 20% in affitto, 10% a rotazione d’uso, 7 piani interrati.

Da un punto di vista urbanistico generale occorre tenere presente che ogni investimento – pubblico o privato – in una determinata area urbana comporta un aumento della appetibilità dell’area stessa rispetto alle altre aree urbane. Il centro storico ha, come è noto, la massima appetibilità e non si vede la necessità di accrescerla, visto che gli effetti negativi ( aumento incontrollabile dei valori fondiari, espulsione di abitanti ed attività consone con la struttura urbana antica, condizioni di vita al limite della sopportabilità) sono unanimamente lamentati, senza che sorga la minima preoccupazione di come eliminarli o ridurli.

Il Pincio e la piazza del Popolo costituiscono un esempio di architettura urbana compiuta, unitariae di eccezionale valore: il solo intervento possibile è quello del restauro. E’ ridicolo pensare che l’intervento “sotterraneo” non comporti modificazioni all’esterno, e comunque occorre anche smettere di pensare che sottoterra si può fare tutto quello che si vuole.

Riguardo l’utilità per l’eliminazione della sosta in superficie, l’intervento non risolverà il problema, ma condurrà ad un intensificazione del traffico privato verso il centro storico. Infatti i 500 posti macchina destinati alla vendita saranno acquistati dagli operatori economici che possono fare a meno di portare l’auto in centro (commercianti, professionisti, ecc.) più che dai residenti, visto l’elevato prezzo che verrà fissato: a piazza Cavour un posto macchina ha raggiunto 100.000 euro, e sarebbe interessante sapere chi sono stati gli acquirenti. Inoltre non c’è (o non stato reso noto) un qualsivoglia studio sul traffico nel centro storico, in particolare per quanto riguarda l’origine-destinazione dei flussi privati, che sono in larga misura insopprimibili allo stato attuale delle cose. Infine, anche nella ipotesi, assolutamente irrealistica, che siano i residenti ad occupare i posti macchina come pertinenze della loro abitazione, si risponderebbe al 2-3 % della domanda.di posti macchina dell’intero centro storico.

La decisione assunta è priva di fondatezza giuridica: non vi è piano urbanistico che motivi la scelta, contradditoria rispetto alle finalità indicate dal piano del 1962 e dal piano 2003: quella della salvaguardia del centro storico. I piani possono essere modificati, integrati ecc., ma si deve operare nella stessa ottica dei piani stessi, e, pertanto, è necessario ontrollare gli effetti delle variazioni nel quadro urbano generale. Da questo punto di vista, la città non è venuta a conoscenza di nessuna verifica, e la pretesa pedonalizzazione del tridente è ancora di là da venire, così che, in definitiva, la decisione sembra calata dall’alto, senza nessuna motivazione di carattere o interesse generale, in ossequio forse allo sciagurato connubio che accompagna la tutela con la valorizzazione.

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