Caro Direttore, da un anno la Toscana è all´attenzione di intellettuali, opinionisti, mass media. Tema: la difesa del paesaggio e di un ambiente considerati da tutti unici per la loro bellezza. Ciò è positivo, dà forza al territorio toscano e agli strumenti per la sua tutela e valorizzazione. Ma in troppi presentano la Toscana come terra di scempi, devastazioni, ecomostri. Siamo divenuti il problema paesaggistico del Paese? Quando lo racconto in Europa o nel mondo la gente sorride, incredula. Sì, Monticchiello è un errore urbanistico che oggi non si ripeterebbe. Ciò detto è assurdo scagliarsi contro un´intera esperienza di governo del territorio.
Di che Toscana si parla? Ricordo ad Asor Rosa, Erbani e Prosperi che la Toscana è stata la prima a respingere i condoni di Berlusconi, impedendo ai furbi di sanare tanti abusi, poi abbattuti. Da noi i volumi costruiti sono fra i più bassi in Italia (1,8 metri cubi per abitante contro i 3,4 del Veneto, i 3,0 della Lombardia, il 2,3 della media nazionale: dati 2004, e stabili dal 2000). Qui c´è la più alta superficie di aree protette, di foreste e aree marine (presto un´altra nascerà nell´Arcipelago), il 50% del nostro territorio è boschivo (dato in costante crescita), solo il 10% è urbanizzato.
Siamo la regione con più siti Unesco e premi ambientali, dalle bandiere blu (15 su 96) a quelle arancioni (32 su 119), fino al massimo di vele blu di Legambiente. La Toscana guida la rete europea contro gli Ogm, a tutela della biodiversità e del paesaggio. Recuperiamo borghi e palazzi storici, ville rinascimentali, teatri del ´700, pratiche e mestieri tradizionali, sempre con prevalenti risorse locali. E´ cresciuto un appeal internazionale fondato sull´eredità storica e su una moderna idea di sviluppo di qualità. Per questo abbiamo 41 milioni di turisti (il 7% in più dell´anno scorso).
Prosperi ha scritto allarmato per il Padule di Fucecchio. Se ci avesse telefonato avrebbe appreso della soluzione varata da regione, enti locali e ministero dell´ambiente: un nuovo impianto di depurazione nell´area del bacino imbrifero che garantirà 2,5 milioni di metri cubi di acqua pulita all´anno, la sistemazione del ciclo idrico e la realizzazione di bacini di accumulo. In ogni stagione il Padule avrà acqua sufficiente. Siamo la prima Regione che ha adottato con Rutelli il Codice del paesaggio e la nostra politica urbanistica è per gli specialisti fra le più avanzate e rigorose d´Italia, specie col nuovo Pit.
Insisto: di che Toscana si parla? Il bollettino di guerra diramato dai cento comitati esprime un´idea antagonista non a noi, ma alla storia, alla verità ed agli interessi della Toscana. Un solo esempio. Completare l´autostrada tirrenica è una necessità economica e di mobilità. Chiedetelo ai lavoratori del Porto di Livorno o del polo siderurgico di Piombino, oltreché ai distretti artigianali e rurali della costa! Si può fare col minimo impatto ambientale, con il consenso del 90% degli enti locali (una Val di Susa al contrario!) e a costo zero per lo Stato.
Ma fa più chic sparare contro e censire i comitati, quelli che Asor Rosa ora coordina e che dicono no a tutto: quelli contro le moschee, contro la geotermia, l´eolico, il solare; contro un´alta velocità in via di completamento. Eppure puntiamo entro il 2020 a produrre il 50% dell´energia da fonti rinnovabili; a ridurre del 15% i rifiuti prodotti e portare la raccolta differenziata al 55% così da diminuire gli inceneritori e chiudere tutte le discariche. Potenzieremo le ferrovie, tutte, per trasportare in treno mezzo milione di persone al giorno (oggi sono 200mila), riducendo traffico e smog. Chiedo ad Asor Rosa: questo è un programma di sviluppo di qualità o un manifesto cementificatore?
A me interessa un´alleanza, vera, tra istituzioni, università, mass media e comitati per arricchire la pratica dello sviluppo sostenibile. Spero interessi tutti. Leggo di una vertenza Toscana. Se punta ad una sintesi alta di dinamismo e qualità vertenza diventerà alleanza. Se invece si vuole colpire la cultura di governo - regionale e locale - che ha portato la Toscana fin qui, ovviamente, così non ci sto.
Non abbiamo visto segni di congiura ai danni del governo della Regione Toscana. Abbiamo visto un disagio profondo, in molte persone che amano la Toscana e ammirano la sua storia, dovuto al contrasto tra due elementi.
Da un lato, il patrimonio di saggio governo del territorio che la Toscana esprime. Martini ha ragione quando ne celebra i fasti, e a nessuno che abbia un minimo di sale in zucca sfugge il fatto che, in merito alla tutela del paesaggio e alla buona urbanistica, la Toscana è una delle regioni italiane all’avanguardia. Non è merito solo dei gruppi dirigenti attuali, affonda le sue radici in storie antiche, ma è merito anche di chi quella storia ha saputo proseguire. Ed è proprio questa convinzione e questa stima che accresce le attese. Si vorrebbe che la Toscana fosse ancora all’avanguardia e insegnasse, con il suo esempio, al resto dell’Italia.
Ma dall’altro lato, molti episodi recenti testimoniano che oggi la politica urbanistica della Toscana è molto cambiata. Non è più un esempio positivo, corre il rischio di diventare il modello di un’Italia che non assume più la tutela delle sue risorse culturali e paesaggistiche come una “invariante strutturale”, ma come una ricchezza il cui impiego di può contrattare con chi è interessato alla “valorizzazione immobiliare” per ottenere così uno “sviluppo economico” insostenibile. Uno sviluppo economico del quale l’accrescimento e l’appropriazione privata della rendita immobiliare costituisce una componente di rilievo, nel quale realizzare una “marina” o un porto turistico vale più che conservare un pezzo di costa intatto, in cui un villaggio turistico vale di più di un paesaggio intatto da secoli.
Molti episodi di questo privilegio del “mercato” sulla “tutela” (del primato della ricchezza immediata per pochi sul patrimonio di tutti) sono stati segnalati, sulla stampa, nelle assemblee e su questo sito. In eddyburg abbiamo dimostrato come questi episodi si accrescano per effetto di una politica del territorio sbagliata. Ricordiamo gli articoli di Luigi Scano, gli eddytoriali dedicati a questo tema, e da ultimo l’articolo di Paolo Baldeschi che denuncia una Monticchiello in fieri . Abbiamo sostenuto che la Regione sbaglia, quando rinuncia alla sua responsabilità di governo del territorio, e di esercizio penetrante e “autoritativo” della tutela, e delega invece ai comuni responsabilità che questi non sono in grado di assumere, oggi ancora meno di ieri. E che sbaglia quando viola il Codice dei beni culturali e del paesaggio e interpreta illegittimamente i suoi precetti, in nome dell’ideologia di un autonomismo municipale fuorviante e in contrasto con l’equilibrio costituzionale.
E abbiamo anche criticato (non da soli, ma in compagnia di esperti di grande competenza e di associazioni e movimenti popolari rilevanti) la scelta sbagliata di completare l’autostrada tirrenica invece di utilizzate altre soluzioni più economiche e soprattutto meno devastanti per il territorio. Le cose a questo proposito non stanno come le racconta Martini. Concludere il tracciato stradale tirrenico con il proseguimento dell’autostrada è forse una necessità economica per la SAT, non per il territorio e neppure per la mobilità dei lavoratori.
Ciò che dispiace è che il Presidente della Toscana non comprenda che quelle che vengono mosse alla politica territoriale della sua regione sono critiche di merito, alle quali piacerebbe che motivatamente si rispondesse con argomenti, e non con anatemi o pettegolezzi, e neppure alludendo a improbabili complotti. Anche noi concludiamo questa postilla con la frase di Martini: se invece si volesse colpire la cultura di governo - regionale e locale - che ha portato la Toscana fin qui, ovviamente, così non ci sto. A condizione che con il “fin qui” ci si riferisca a tempi, logiche e pratiche anteriori a quelle che hanno prodotto i fatti fin qui denunciati.
Le "Valentiniadi" sono appena finite. Lasciando per tutta l´estate un colonnato di vetroresina issato sui resti del tempio di Venere e una folla di manichini variopinti intorno e addosso all´immacolata Ara Pacis. Ma lasciando anche uno strascico di polemiche - accese, come il rosso dello stilista giunto al 45esimo anno di attività - sull´impiego dei beni archeologici per una cerimonia di compleanno. Contrastate dall´opinione di chi esalta il valore artistico dell´evento organizzato sul modello della festa barocca e, comunque, assolutamente effimero.
S´indigna l´archeologo Andriano La Regina: «È un modo sciatto e incolto di gestire i nostri monumenti. Non ho nulla contro le feste ma penso che le colonne trasparenti sarebbero state benissimo in un quartiere povero di opere d´arte. Non su un monumento che ogni giorno viene visitato da migliaia di persone. Dobbiamo avere più rispetto per chi fa chilometri e chilometri per venire ad ammirare l´archeologia romana. E non umiliarla con interventi incongrui che ne alterano la forma e il contenuto».
Di tutt´altra idea il professor Andrea Carandini: «A Roma la dimensione della festa c´è sempre stata. L´importante è che l´apparto effimero sia tolto in tempi ragionevoli». L´archeologo che scava sul Palatino non crede «alla sacralità dei monumenti». Piuttosto ritiene che interventi come quello dello scenografo Dante Ferretti «attirino l´attenzione su un edificio di straordinaria importanza. Come studioso non sono molto interessato all´evento Valentino. Ma l´Italia deve promuovere i suoi uomini. E, in quest´epoca di spettacolo, non si può non passare attraverso il rito della festa».
Sulla stessa lunghezza d´onda il soprintendente Angelo Bottini, che ha dato l´ok all´utilizzo del tempio. «È un evento eccezionale, irripetibile e che non va banalizzato con altre operazioni del genere», sostiene l´archeologo mettendo un freno ad altri spettacoli pirotecnici, «allestiti comunque senza rischi per i monumenti», tra i Fori. E il suo no all´incontro di boxe del mese scorso? «Quello sì che comportava una banalizzazione per il Colosseo e per l´Arco di Costantino».
C´è un precedente all´operazione "Nascita della Bellezza" (grazie alla quale, ha spiegato il ministero Beni culturali, Valentino ha donato 200mila euro per il restauro del tempio di Venere) ed è la retrospettiva del 2004 di Armani alle terme di Diocleziano. «Ma quello è uno spazio congruo, vuoto, dedicato alle mostre, e tale era l´esposizione dello stilista milanese» sottolinea La Regina, allora soprintendente. «Nessuna differenza - ribatte Carandini - ed è stato La Regina il primo a concedere il Colosseo per la musica, perché ora si meraviglia?».
E la mostra con 300 capi storici aperta fino al 28 ottobre all´Ara Pacis? Tuona La Regina: «Ma come si può sottrarre per tutti questi mesi l´ara di Augusto alla visione corretta del monumento da parte dei visitatori? Abiti bellissimi, certo, ma esponeteli in una sede adatta!». Che nel museo progettato da Richard Meier non manca. «Se mi chiedessero di esporre all´Ara Pacis io non invaderei lo spazio dell´opera antica», interviene Mimmo Paladino, autore del grande mosaico presente nell´edificio inaugurato nel 2006. «C´è il piazzale e c´è un bellissimo museo di sotto: perché interrompere la contemplazione dell´Ara da parte del pubblico con un segno invadente?».
Milano, la città immobile
Claudio Mezzanzanica
Milano è il più grande cantiere edile europeo. E lo rimarrà per molti anni, almeno per sei o sette se agli investimenti attuali non si aggiungeranno anche quelli per l'Expo 2015 cui punta la giunta Moratti. Ma anche senza considerare l'Expò, i cantieri che sono già in progetto, sono destinati a mutare profondamente la struttura della città. Tutto parte dalla ristrutturazione delle gigantesche aree industriali che hanno caratterizzato il paesaggio urbano. Nonostante Palazzo Marino propagandi i cantieri come grandi novità avveniristiche, in realtà Milano è solo l'ultima grande città europea ad affrontare la riqualificazione delle aree dismesse. Basta pensare all'area Garibaldi, oppure alla ex Richard Ginori lungo i Navigli, oggi quasi completamente ristrutturata. Londra, per fare un esempio, ha ristrutturato i docks, i vecchi magazzini sulle rive del Tamigi, almeno vent'anni prima e così ha fatto Parigi con le aree Renault.
Tre i progetti chiave dentro i confini della città: ex-Fiera dove Citylife vuole costruire tre enormi grattacieli, Garibaldi-Repubblica, dove l'americana Hines sta costruendo la cosidetta «Città della moda», e Santa Giulia a Rogoredo, dove il gruppo Zunino nell'ex area Montedison prevede un investimento di quasi tre miliardi di euro: seicento abitazioni di lusso, un albergo, un centro congressi con ottomila posti, una via del lusso, un insediamento della Rinascente. Di contorno, circa 1500 appartamenti per un mercato immobiliare più alla portata dei comuni cittadini. Senza considerare la ristrutturazione della ex area Falck a Sesto San Giovanni, alla porte di Milano, altro mega-progetto Zunino. E non bisogna dimenticare altre decine di interventi meno grandiosi ma altrettanto significativi che stanno aggiungendo migliaia di metri cubi allo spazio urbano.
Quasi tutti i progetti sono figli di una ambigua commistione di pubblico e privato. In totale mancanza di un piano e di una visione globale della città e dei bisogni dei cittadini, il pubblico si limita e rendere i terreni disponibili e economicamente appetibili per operazioni immobiliari finanziarie senza nessun processo democratico. I cittadini si vedono sommersi da tonnellate di cemento senza possibilità di farsi sentire. A volte l'operazione, almeno dal punto di vista economico immobiliare riesce piuttosto bene, come a santa Giulia, a volte non sembra funzionare come all'Ex Fiera, o incontra la resistenza della cittadinanza come nel quartiere Isola.
Ex-Fiera, tre caravelle senza vento in poppa
Giorgio Salvetti
La città sta crescendo, ma i progetti non sono sempre all'altezza. Prendiamo i grattacieli. Tre, giganteschi, sono stati progettati per svettare sulla ex area della Fiera di Milano (siamo in pieno centro città), dove opera Citylife, cordata composta dal gruppo Ligresti, Generali, Ras, Lamaro e Lar. Dopo il trasferimento nei nuovi padiglioni di Rho-Pero, la Fondazione Fiera ha venduto a Citylife i vecchi terreni (circa 255.000 mq) per 523 milioni di euro. Un ottimo affare. Un investimento da due miliardi di euro finanziato da un gruppo di banche coordinate dalla tedesca Eurohypo che comprende Mediobanca, Popolare Milano, Bipop Carire (Capitalia), Banco di Sicilia (Capitalia), Calyon, Banca Intesa, Banca di Roma e Mcc. Le banche hanno finanziato l'80% dell'acquisto dei terreni (circa 420 milioni di euro), la costruzione degli immobili (1,67 miliardi), oltre a 200 milioni di Iva. Fiore all'occhiello del progetto, le cosiddette «Tre caravelle», tre grattacieli giganti alti rispettivamente 215, 185 e 170 metri progettati dagli architetti Daniel Libeskind (quello di ground zero) Arata Isozaki, Zaha Hadid e Pier Paolo Maggiora. Un progetto gigantesco e avveniristico che ora invece rischia di essere già vecchio e forse non più redditizio come sembrava.
L'intera area è destinata ad ospitare uffici e oltre mille appartamenti (in zona mediamente una casa costa 5-6 mila euro al metro quadro). Una vera e propria cittadella nella cinta della vecchia Fiera, per un totale di circa 15 mila utenti. I lavori dovrebbero terminare entro il 2014 ma non sono ancora cominciati. Il rispetto dei tempi è determinante per rientrare dalle spese e mantenere gli impegni con le banche. Palazzi tanto alti costano molto e i costruttori ora temono di rimetterci.
Contro il gigantesco progetto si batte l'associazione «Vivi e progetta un'altra Milano» (www.quartierefiera.org). In questi anni di lotta ha fatto ricorso al Tar, ha raccolto migliaia di firme ma ha ottenuto pochissimo ascolto dalle istituzioni. Per i cittadini dell'associazione si tratta di una pura operazione finanziaria e immobiliare che punta su uffici e appartamenti di lusso in una zona che invece ha bisogno di servizi, edilizia sociale e per i giovani (Citylife ha solo l'impegno di ristrutturare l'ex velodromo Vigorelli e di realizzare un Museo del design e del bambino). L'intero progetto è stato deciso da pochissimi e calato dall'alto. Per i cittadini, ma anche per molti architetti e urbanisti, la costruzione di grattacieli enormi in un'area ristrettissima non rispetta l'equilibrio e il recupero di uno storico quartiere di Milano. Inoltre, la cittadella rischia di attirare un insostenibile flusso di traffico. L'ingresso nord di Milano già ora è il più intasato con 600 mila ingressi al giorno. Il nuovo progetto prevede solo la costruzione di una strada interrata di un paio di chilometri che è destinata ad attirare ulteriore traffico e portarlo direttamente nella città.
Anche in questo caso, per capire che cosa è avvenuto dal 1994 ad oggi, bisogna indagare l'ambiguo rapporto tra pubblico e privato che ha dato il via libera all'operazione. Il vizio di fondo sta nella concessione da parte di Palazzo Marino di una volumetria doppia in un'area ristretta. Ma proprio grazie a questo Fiera Milano ha potuto vendere i suoi terreni a peso d'oro. Con il trasferimento a Rho-Pero, l'Ente Fiera, che pure era stato abbondantemente sostenuto dai finanziamenti pubblici, è stato privatizzato. Si è trasformato in fondazione di diritto privata che controlla Fiera Spa, società scorporata che affitta e gestisce i padiglioni della nuova fiera. La Fondazione dunque si è trasformata in una sorta di agente immobiliare privato che gestisce palazzi e terreni. La concessione di volumetria è solo l'ultimo favore ai privati. Per rispettare gli standard abitativi il Comune ha anche «venduto» ai costruttori privati i metri quadri mancanti (circa 106 mila) al bassissimo prezzo di 242 euro al metro quadro (l'associazione «Vivi e progetta un'altra Milano» denuncia un ammanco per l'erario di circa 140 mila euro). E per finire è in progetto la costruzione di un'apposita fermata della metropolitana proprio in mezzo alle «tre caravelle», in buona parte a carico dei cittadini. Si verrebbe a trovare in un'area già servita e comunque non sarebbe pronta prima di 10-15 anni.
Nonostante le promesse dei progettisti e dell'ex sindaco Albertini che sognava un «Central park milanese» al posto della Fiera, solo un terzo dell'area sarà destinato al verde, incastrato tra un palazzo e l'altro. A metà giugno proprio intorno alla questione del verde, l'affare ex Fiera ha mostrato le prime grosse crepe. Grazie ad una permuta tra un parcheggio di proprietà del Comune e un'area di Fondazione Fiera (è sempre lei a gestire i giochi) destinata a rimanere inutilizzata, Palazzo Marino ha potuto disporre di altri 75 mila mq da destinare ad area verde e ha colto l'occasione per recitare la parte. Dopo anni di totale mancanza di indirizzi, ha riconvocato i progettisti per ritoccare il progetto. I cittadini ora chiedono di rivedere tutto: «Spalmare le volumetrie», ricollocare le aree verdi e soprattutto discutere finalmente del progetto in consiglio comunale. Ma dietro la «questione area verde» si nasconde una crisi ben più profonda. I lavori di costruzione sarebbero dovuti partire nel 2006 e invece è tutto fermo. «Il progetto è stato criticato dagli analisti economici - sostiene Rolando Mastrodonato, presidente di «Vivi e progetta un'altra Milano» - sconsigliano di investire nell'ex Fiera. Insomma c'è il rischio che quei grattacieli, qualora fossero costruiti, restino vuoti e che gli spazi rimangano invenduti».
In Citylife sembra essersi determinata una spaccatura tra finanziarie (Generali e Ras) e costruttori (Ligresti), i quali sanno che costruire palazzi tanto alti costa molto e temono di non riuscire a rispettare i tempi e far quadrare i conti. L'attuale presidente di Citylife Ugo Debernardi (Generali) è dimissionario e con ogni probabilità verrà sostituito da un rappresentate dei costruttori. «Sono nei guai - è convinto Rolando Mastrodonato - il progetto ex fiera è l'esempio della politica del caso per caso che è il segno di questi anni a Milano. Ovvero nessuna visione d'insieme della città da parte della politica, nessun intervento globale da parte del Comune. Ogni speculazione è stata trattata come caso singolo guardando esclusivamente agli interessi dei privati e con totale mancanza di democrazia. Ora che il bluff ex Fiera è piuttosto evidente anche per i privati c'è da sperare che la linea intransigente voluta dalle finanziarie venga rivista e che si possa aprire lo spazio per una vera trattativa».
«Collusione pubblico-privato a spese della città»
Sara Farolfi
«Un gioco a tre pasticciato e irreversibile, dove i due attori che dovrebbero pensare alla collettività capitolano invece alla logica del migliore offerente». Roberto Camagni è professore di Economia urbana al Politecnico di Milano. Un economista dunque. «Rendita per me non è una parolaccia - chiarisce infatti subito - Ma reddito categorico del fattore produttivo terra». Eppure, c'è un «peccato originale» nel progetto di riqualificazione dei terreni dell'ex Fiera. «La rendita conta a Milano - dice - anche quella di enti che dovrebbero avere come obiettivo la creazione di valore pubblico». Il risultato? «Quell'area diventerà invivibile». E questo è il prodotto di ciò che Camagni definisce il «dramma milanese». «La politica che rinuncia ad avere un piano, procedendo piuttosto per singoli progetti, separati e derivanti dalle proposte del privato».
Partiamo dal «gioco a tre» tra Comune, Fondazione Fiera, e Citylife. Si parla di una «collaborazione pubblico - privato»...
Non vedo collaborazione tra pubblico e privato, ma quasi una collusione a spese della città. Il Comune ha fatto la gara, e tra i tre migliori progetti ha scelto quello del migliore offerente e non quello urbanisticamente migliore, dimenticandosi della sua funzione di custode della qualità urbana, come anche del fatto che la Fondazione Fiera, proprietaria dell'area e oggi istituzione di diritto privato, deriva dalla trasformazione di un ente morale che originariamente ricevette quei terreni a prezzi simbolici per le sue funzioni pubbliche. E' il developer privato a subire la speculazione edilizia del proprietario.
La vera controparte insomma è la Fondazione e non Citylife?
C'è stato un generale accordo tra Comune, Regione e Fiera, e io credo che la collettività dovrebbe chiedere conto di come verranno spesi quei 523 milioni di euro incassati dalla Fondazione come risultato di una valorizzazione tutta privatistica. Senza considerare la questione dei premi volumetrici che il Comune ha attribuito all'area, il doppio rispetto alla media delle trasformazioni recenti, e grazie ai quali la Fondazione ha potuto realizzare il suo sostanzioso gruzzolo. Si carica la città di un peso rilevantissimo per un progetto, tutto uffici e residenze, che nulla ha di vantaggioso per la collettività.
E quanto al rapporto tra Comune e developer?
Pensiamo agli oneri di urbanizzazione, e ai contributi di costruzione, che sono la contropartita pubblica dei vantaggi privati delle trasformazioni: a Milano, ma anche in Italia, si usa imporre oneri ridicoli. Basti pensare che a Milano questi oneri rappresentano soltanto il 10% del valore del costruito sui grandi progetti integrati di intervento, meno della metà di quanto si fa, ad esempio, in una città come Monaco di Baviera.
Anche dal punto di vista della gestione urbanistica, protestano i residenti, il progetto ha molte crepe...
Nei paesi normali, i grandi progetti urbani sono accompagnati da progetti sulla mobilità pubblica. Si cerca cioè di rafforzare il sistema di accessibilità pubblica e lo si fa pagare, almeno parzialmente, sotto forma di oneri negoziati sui progetti stessi, che ne usufruiscono. A Milano, invece, nulla. Lo stesso bando di concorso, per tornare all'ex Fiera, era nato così, e questa è responsabilità dell'urbanistica milanese.
Alternative ce n'erano...
E' sufficiente guardare al modello tedesco, che è il più vicino al nostro. A Monaco è stata la pubblica amministrazione a comprare l'area della Fiera, l'ha edificata e ne ha venduto il 45% al privato, con l'imposizione però di una quota tra il 30 e il 40% delle volumetrie residenziali, di edilizia sovvenzionata. Per il resto, il 22% è stato destinato a verde e il restante 33% a servizi, infrastrutture, scuole, musei e così via.
Non c'è una mistificazione quando si parla di negoziazione pubblico - privato?
Il modello negoziale mi trova d'accordo, a due precise condizioni però. Che il controllo resti in mano pubblica per la valutazione complessiva di coerenza con un progetto urbanistico generale, e che la negoziazione sia vera, trasparente e con risultati visibili. Attualmente c'è un'asimmetria tra pubblico e privato. E responsabili sono anche alcuni provvedimenti legislativi, come la legge regionale lombarda 12/2005 e il progetto di legge Lupi di riforma della legge urbanistica nazionale.
Del resto, il mercato immobiliare non mostra segni di cedimento...
Per un insieme di ragioni, nel decennio dal 1996 al 2006 i prezzi del costruito sono aumentati dell'85% in termini reali e a costi di costruzione costanti, con un margine di profitto che è aumentato in maniera incredibile. C'è una domanda che rivolgo spesso ai miei studenti, «come mai tutte le città all'estero diventano sempre più belle e le nostre sempre più brutte?». In Italia, il pubblico non porta a casa ciò che potrebbe.
La proposta è una vera e propria variante per Bagnoli. Porta la firma di 13 sigle. Tra le prime l´Acen diretta da Ambrogio Prezioso, il Gruppo giovani costruttori, guidato da Alfredo Letizia, la Borsa immobiliare di Napoli, la Camera di Commercio. «Il piano regolatore non è un monolite intangibile, ma deve essere strumento capace di offrire sviluppo sociale ed economico» ha detto Prezioso al sindaco Rosa Russo Iervolino, che ha presenziato a tutta l´assemblea dei costruttori. Occasione, anche, per inaugurare la nuova, ultrachic, sede dell´Acen, al primo piano di Palazzo Partanna. Ospite anche il presidente nazionale dell´Ance, Palo Buzzetti. «A Napoli - ha detto - c´è carenza di infrastrutture, indispensabili per lo sviluppo».
«Il piano regolatore non è un dogma», è stata la conciliante risposta del sindaco. Feeling a tutto vapore tra Comune e costruttori, dopo il litigio con il numero uno degli industriali, Gianni Lettieri. «Questa categoria non è mai stata sull´Aventino - ha notato il sindaco -, ma ha avuto sempre un rapporto propositivo e anche critico, ma costruttivo con l´amministrazione. Qui c´è gran voglia di lavorare e l´Acen è una forza viva della città che svolge il proprio ruolo».
Il progetto per cui si chiede la variante è Creanapoli, ipotesi di trasformazione urbana di un´area di circa 20 ettari in viale Giochi del Mediterraneo, con un boulevard attrezzato, terrazza sul mare, nuovo laboratorio creativo per la città, in vista del Forum delle Culture del 2013. «La candidatura di Napoli avanzata dal governo italiano come sede ospitante - ha detto il sindaco - è un fatto importante. Barcellona, grazie a questo evento, ha mobilitato oltre mille miliardi di euro, cambiando il volto di parte della città». Creanapoli prevede aree verdi, libere, attraversabili, un grande "tetto-giardino", piste ciclabili, servizi urbani, parcheggi, residenze, ricavate e protette dai tessuti degli spazi pubblici. Un disegno "modello Valencia" firmato Calatrava. Qui hanno lavorato l´architetto Cherubino Gambardella e l´esperto di marketing territoriale, Raffaele Cercola, presidente della Mostra d´Oltremare.
Prezioso ha sollecitato l´amministrazione a riprendere il Piano delle cave, «anche per contribuire a risolvere l´emergenza rifiuti». Napoli, città «deteriorata e compromessa» da criminalità e rifiuti, ma anche «ricca di risorse e positività». Con «rammarico e sofferenza», Prezioso ha lanciato un affondo: troppi ostacoli «bloccano ancora lo sviluppo». Comune e i privati collaborano in maniera positiva, «attivando anche progetti in project financing, su iniziative che per dimensioni risultano in testa alla graduatoria nazionale». Gli imprenditori, però, sono costretti «a fare i conti con tempi sempre incerti, costi di bonifica, oneri di urbanizzazione e contributi», che il più delle volte rendono impraticabili gli investimenti. Iervolino non ha negato i problemi, tuttavia, «la nostra città non ha bisogno di sterili dibattiti e ulteriori divisioni. Compito della sua classe dirigente, delle forze politiche, sociali ed economiche, è quello di portare il confronto sul terreno del fare, magari dividersi sulle proposte, ma poi trovare una sintesi». «Per l´area Est - ha proseguito il presidente dell´Acen - i progetti sono in controtendenza perché prevedono investimenti privati, creando nuova occupazione, sviluppo della competitività, e miglioramento della qualità della vita». Rallentarli o, addirittura, bloccarli «è delittuoso». Tra i punti, anche la bonifica dei suoli inquinati, che «va affrontata e risolta con il ricorso a nuove e moderne tecnologie». La Iervolino sarà oggi a Roma. Un carnet pieno di impegni: firma dell´accordo per la rimozione della colmata di Bagnoli per realizzare la Darsena di levante, il punto sui finanziamenti per il teatro San Carlo, e ricognizione sulle risorse per il metrò.
postilla:
Corsi e ricorsi
È il richiamo della foresta. Finora Napoli, dove la qualità della vita urbana è infima (e non solo per la tragedia dei rifiuti), poteva vantare un solo primato, quello di essere l’unica grande città italiana dotata di un rigoroso piano regolatore recentemente approvato, e rigorosamente gestito. Non poteva durare, il capoluogo della Campania si allinea adesso alla mala urbanistica di Milano, di Roma, di quasi tutte le altre grandi città italiane strozzate dalla rendita fondiaria, di cui eddyburg dà tempestivamente notizia. Stiamo tornando ai bei tempi di una volta, quelli di Neonapoli, del Regno del possibile, quelli travolti dalle indagini della magistratura, i tempi in cui erano i costruttori a dettare l’agenda della politica. Come nei bei tempi andati, il sindaco dichiara insensatamente che il piano regolatore non è un dogma. L’ultimo tentativo di stravolgere il piano di Bagnoli fu nel 2003 quando Napoli era candidata a ospitare la coppa America, poi fortunatamente approdata a Valencia. Allora un nutrito e qualificato gruppo di intellettuali, urbanisti, ambientalisti (fra i quali Piero Craveri, l’ex ministro Edo Ronchi, il direttore della Normale di Pisa Salvatore Settis, Desideria Pasolini presidente di Italia nostra, Vittorio Emiliani presidente del Comitato per la bellezza, e tanti altri) sottoscrissero un severo appello al sindaco di Napoli e al presidente della Campania affinché si opponessero “ai tentativi in atto di modificare il piano urbanistico di Bagnoli, grazie al quale è possibile restituire ai napoletani una magnifica spiaggia e un grande parco pubblico”. E chiesero di respingere “il miraggio della grande occasione” che avrebbe determinato “incalcolabili danni ambientali e un arretramento della coscienza civile e morale”. Serve un altro intervento del genere.
Vezio De Lucia
Lo sprawl fa share: in tutti e due i sensi. Il primo, più allarmante e letterale, è che i confini amministrativi di Scatolonia, dell’insediamento diffuso selvaggio, si allargano a ogni minuto che passa, e si prendono uno “share” crescente della vita di ognuno: di spazio, di tempo, di respiro. Il secondo, declinando il verbo “ to share” nel senso pubblicitario-mediatico più in voga oggi, è la possibile buona notizia: anche parlare di sprawl può attirare l’interesse della gente, di tanta gente. Della maggior parte dei politici pare ancora di no, ma della gente che poi li dovrebbe eleggere sicuramente.
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Naturalmente, per iniziare a comunicare bisogna porsi il problema, e non sperare (come ahimè si fa quasi sempre) che basti la forza del messaggio a travolgere gli animi. Lo diceva anche McLuhan, che il messaggio è il mezzo, no? E lo diceva un paio di generazioni fa. Non sarebbe magari ora di pensarci?
Le folle attirate nella tiepida serata estiva di sabato 16 giugno alla sala comunale di Bressana Bottarone (PV), a qualche centinaio di metri dagli argini del Po, e a pochi centimetri da una parallela folla di zanzare, forse erano anche incuriosite dalla presenza di nomi noti, come il giornalista della Stampa Giorgio Boatti, o ancor più il meteorologo televisivo Luca Mercalli. E aiutava molto, anche, l’incombere da queste parti di una collezione di mostruosità da catalogo: poli logistici come se piovesse, centri commerciali, e a legare il tutto (all’ubiquo ed esiziale asse Lisbona-Kiev, of course) l’ultimo capolavoro della Broni-Mortara, vera e propria fabbrica di sprawl secondo i più classici meccanismi.
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Però, sia gli aspetti di – sacrosanta - protesta locale, sia quelli più sottili della logica “e adesso un bell’applauso”, hanno lasciato gran parte dello spazio al convitato di pietra: il consumo di suolo vivo sotto i nostri piedi, sostituito rapidamente e sconsideratamente da goffi quanto inutili scatoloni e asfaltature, fin quando come ha osservato a un certo punto Mercalli “Ci troveremo con tanti capannoni. Vuoti. E la pancia pure”.
E la pancia pure. Perché in Italia, come ci mostrano spietate le immagini satellitari dell’Agenzia Europea per l’Ambiente proiettate sullo schermo, si costruisce nelle aree piane più “facili”, ovvero quelle che molti millenni di storia avevano addomesticato attraverso l’agricoltura ad una presenza umana, trasformandole in un sistema di suoli fra i più fertili e produttivi del pianeta. Ora invece il sistema delle sue città gonfiato ed esploso nell’insediamento diffuso, via via abbandona e divora le radici da cui è nato, trovando di che alimentarsi sempre più lontano, e con forme che ricordano molto da vicino la rapina: come possono altrimenti arrivare sulle nostre tavole cestini di frutta a prezzi competitivi, trasportati in aereo per migliaia di chilometri bruciando tonnellate di petrolio?
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Che fare, quando il petrolio sarà finito, e saranno anche esauriti i suoli coltivabili attorno alle città, sostituiti da parcheggi, centri commerciali, e “ quartieri immersi nel verde a cinque minuti d’auto da ..”?
Qui, davanti all’ovvio, ma non abbastanza ovvio da convincere gran parte dei grandi decisori, scatta l’applauso in stile televisivo della gremita sala comunale di Bressana Bottarone. A dimostrare, in modo imperfetto e magari contraddittorio, per carità, che per raccontare verità scomode non è assolutamente obbligatorio essere involuti, farfuglianti, tribunizi, tanto si ha ragione comunque.
Impariamo almeno che la comunicazione è essenziale, da Berlusconi. Come si diceva a proposito di un'altra cosa: non si butta via niente.
Nota: per i lettori meno affezionati di questo sito, si avverte che articoli sui temi dell'insediamento diffuso, del consumo di suolo ecc., sono sparsi fra tutte le cartelle, ma in particolare si concentrano in Mall/Spazi della Dispersione, e in Eddyburg/Il Consumo di suolo (f.b.)
Il sindaco di Roma, in barba al piano regolatore, ha permesso l’edificazione selvaggia della città. Affari d’oro per i palazzinari. Aveva promesso case a poveri e disoccupati, ha invece favorito la costruzione di 20 milioni di metri cubi di edilizia privata. E i dati ufficiosi parlano di 60 milioni. A beneficiarne, i soliti noti tra cui la Lamaro appalti
Roma - Mattone su mattone, casa per casa. Il sindaco di Roma, Walter Veltroni, il suo potere l’ha cementato anche così: in barba al tanto pubblicizzato Piano Regolatore Generale, approvato nel 2003 ma mai entrato in funzione, ha permesso l’edificazione selvaggia della Città Eterna ricorrendo a escamotage urbanistici - come varianti e compensazioni edificatorie - che altrove (ad esempio Salerno) sono state foriere di guai per sindaci, assessori, consulenti, imprenditori.
I dati ufficiali, sbandierati con orgoglio dal responsabile capitolino all’Urbanistica, Roberto Morassut, parlano di «20 milioni di metri cubi di edilizia privata attivati in questi anni». Quelli ufficiosi triplicano invece la cifra cristallizzandola oltre i 60 con molti dei programmi edilizi ancora da concludere. Una cifra impressionante. Senza precedenti. Finanziariamente sconvolgente se si pensa che a calcolare per difetto il valore sul mercato immobiliare della colata di cemento sin qui realizzata (in base ai numeri dati da Morassut) si arriva a circa 18 miliardi di euro, una cifra a livello di una manovra finanziaria. A beneficiare di questo business i soliti 4-5 grossi gruppi imprenditoriali, tra cui spicca la «Lamaro Appalti» dei fratelli Toti, nota al grande pubblico romano per la realizzazione del Globe Theatre di Villa Borghese, della Nuova Fiera di Roma, della chiesa «a tre vele» dell’architetto Richard Meier. Nessuna notizia dei progetti solidali di edilizia economica e commerciale, ovverosia dell’idea molto veltroniana di assicurare un tetto a poveri, bisognosi, disoccupati. S’è preferita l’edilizia privata, rende di più.
Per capire come funziona il «Sistema» occorre tornare al 2003, a quando cioè il nuovo Prg vede la luce dopo quarant’anni d’attesa. In Comune sono fuochi d’artificio, conferenze stampa, lenzuolate sui giornali, applausi. Poi passano le settimane, i mesi. Nessuno s’interroga sul perché la macchina non parte, e quando qualcuno solleva il problema Veltroni se la prende con Storace che, a suo dire, fa ostruzionismo con il «Piano di sviluppo regionale». Quando alle regionali 2005 Storace perde con Marrazzo, il sindaco annuncia che «grazie al nuovo clima di collaborazione tra Comune e Regione lo strumento urbanistico sarebbe stato applicato entro l’anno». Siamo al secondo semestre 2007 e il Prg ancora non trova applicazione mancando i piani paesaggistici di tutti i Comuni, Roma inclusa.
Nella Capitale, intanto, si costruisce a più non posso ricorrendo a «varianti» e «modifiche» al Prg col risultato che qualcuno, anche a sinistra, inizia a storcere il naso. Per smarcarsi dalle polemiche il Campidoglio s’inventa la «Variante delle Certezze», una sorta di norma-quadro del settore urbanistico per dare certezze e punti fermi agli investitori. Il risultato è disarmante perché i palazzi crescono come funghi al di fuori, e talvolta addirittura contro, il «nuovo» Prg. Tra i tanti, un caso che grida vendetta è quello della compensazione di Monti della Caccia in un’area sottoposta a vincolo paesaggistico e archeologico, collocata dal Piano in «zona N», dunque da destinarsi a verde pubblico e impianti sportivi.
Per continuare a costruire nell’impasse del Prg il sindaco ha detto sì, ma a due condizioni. Che ricorra l’«emergenza abitativa» e che si dia seguito alla «compensazione edificatoria» per risarcire chi è stato scippato di un terreno ricaduto in zone non edificabili come oasi, parchi etc. Nel primo caso soprattutto - si dice - tutti i complessi costruiti grazie alle varianti devono prevedere un tot di appartamenti a «canone concordato» per otto anni da destinare al Comune, che poi penserà a chi dare la casa. Un’operazione di facciata che non risolve il problema, perché la percentuale immobiliare prevista è minima (appena il 3 per cento delle case costruite) e perché alla scadenza del contratto il poveraccio torna in mezzo alla strada. Oltre a questo metteteci che contemporaneamente il Campidoglio consente e tollera che un esterno, tipo l’associazione dei no global-disobbedienti «Action», possa gestire a proprio piacimento il mercato degli appartamenti pubblici che di volta in volta si liberano in città, di fatto infischiandosene di chi in graduatoria era avanti avendo più titoli.
La non adozione del Prg, e il ricorso selvaggio a varianti d’ogni genere, ad oggi ha prodotto effetti indecenti sulla vita della Capitale anche perché Veltroni ha dato il via ai nuovi insediamenti al di fuori dei limiti imposti dal Piano Generale del Commercio e da quello del Traffico: soprattutto per quanto riguarda i nuovi centri della grande distribuzione, si doveva tener conto della loro localizzazione territoriale e delle infrastrutture necessarie (svincoli, grandi parcheggi di scambio) a garantire una adeguata viabilità. Non c’è bisogno di fare esempi, il Sindaco (e il cittadino romano) sa bene di cosa stiamo parlando.
Chi frequenta eddyburg conosce bene le critiche che oggi il giornale berlusconiano rivolge alla politica urbanistica romana dell’ultimo decennio: esse sono state puntualmente avanzate e documentate su queste pagine. Il Giornale ovviamente, dato il suo carattere partigiano, non accenna al fatto che il torto di Veltroni (e di Rutelli che lo ha preceduto) è di aver applicato a Roma i metodi e le attenzioni che sono stati proposti, predicati e praticati dalla destra a Milano e in Lombardia, e che la medesima destra ha tentato di applicare all’Italia con la cosiddetta Legge Lupi. Almeno a Roma non si è arrivati a casi così scandalosi come quelli raggiunti in Lombardia, con la "borsa del cemento" di Milano o con le squallide iniziative sostenute da leggi ad personam alla Cascinazza di Monza.
La speranza è che le critiche si siano fatte strada nella intelligenza del probabile futuro leader del Partito democratico, e che nel suo nuovo probabile ruolo si affidi a consiglieri migliori di quelli che lo hanno assistito a Roma.
Il Coordinamento dei Comitati che si oppongono all’autostrada Broni-Mortara rilancia la mobilitazione con una nuova raccolta di firme per chiedere l’annullamento dell’iter autorizzativi dell’opera. Il dito è puntato nuovamente contro la Giunta Formigoni e Infrastrutture Lombarde spa. Il motivo è chiaro: il 7 febbraio scorso la Conferenza dei Servizi ha votato all’unanimità un odg per subordinare la predisposizione del progetto definitivo all’esito positivo della Valutazione Ambientale Strategica (VAS), in grado di stimare la sostenibilità complessiva dell’intervento, con l’auspicio di un confronto ampio e partecipato tra istituzioni, attori e comunità locali sul progetto.
Un esito non scontato vista l’irresistibile marcia dei promotori dell’autostrada – società SA.Brom spa, 85% gruppo Gavio leader autostradale e 15% Milano Serravalle, e l’imponente schieramento a sostegno (Regione, Unione industriali, Camera di Commercio, Amministrazione provinciale, Compagnia delle Opere). Tutti a favore dei 69 km del nastro di asfalto che dovrebbe collegare il Pavese - dopo avere affettato la Lomellina, riserve naturali e risaie comprese - con il Corridoio 5 Barcellona-Kiev!
In prima fila l’assessore regionale alla famiglia e alla solidarietà sociale Abelli, con “delega all’autostrada” secondo i Comitati.
Nonostante la macroscopica anomalia di una VAS chiesta per il progetto definitivo e ignorata prima della presentazione (come indicato dalla normativa europea) l’attesa sulle scelte della Regione era grande. Invece nella deliberazione di Giunta del 4 maggio, assunte le determinazioni della Conferenza dei Servizi e definito il corridoio di salvaguardia di 75 metri per lato, dando mandato ai 24 comuni coinvolti nel progetto di recepirlo nei propri strumenti urbanistici, della VAS non c’è traccia. Il solo richiamo è per Infrastrutture Lombarde spa, soggetto “concedente” dell’autostrada regionale Broni-Pavia-Mortara e presentatrice del progetto preliminare, che farà una “valutazione sintetica dell’impatto ambientale, ispirandosi alle specifiche direttive in materia di VAS”. Per i Comitati è una beffa, l.ultima scorrettezza sulla quale chiedono ai sindaci di intervenire nei confronti di Provincia e Regione per fermare “la cancellazione di parole e impegni”.
Per info e adesioni il sito dei Comitati
Nota: su questo sito altre informazioni sul progetto autostradale Fabbrica di Sprawl dal fantasioso tracciato lungo le traiettorie dei corridoi elettorali (f.b.)
ROMA - Dopo l'allarme per il Val di Noto, in parte rientrato anche grazie alla mobilitazione generale seguita all'appello dello scrittore Andrea Camilleri, un nuovo fronte 'trivellazioni' rischia di aprirsi in Toscana, nel Chianti e nella Val d'Orcia. La regione infatti, ha concesso, il 26 aprile scorso, tre permessi per effettuare "esplorazioni" e "autorizzazioni di ricerca" in tre aree del Sud della Toscana alla Heritage Petroleum plc, società con sede a Monaco specializzata nella ricerca e nell'estrazione di idrocarburi gassosi di tipo cmm (metano rilasciato dai filoni di carbone durante la sua estrazione) e cbm (metano prelevato da filoni di carbone che non devono o non saranno estratti).
In serata, la Regione Toscana ha fatto marcia indietro. L'assessore all'ambiente Marino Artusa ha dichiarato che proporrà una delibera di Giunta per bloccare i permessi.
La scelta della Regione Toscana ha suscitato la viva protesta del sottosegretario alle Politiche Agricole, Stefano Boco: "E' una follia ricercare l'oro nero sotto terra, quando l'unico grande tesoro sono il lavoro degli uomini, la bellezza paesaggistica, i valori naturali. Sarebbe un errore da pagare caro", ha detto Boco, che si è augurato che "sia possibile da parte delle autorità regionali rivedere i permessi".
Durissimo anche il commento di Legambiente: "Incredibile la decisione di autorizzare le trivellazioni. E' davvero assurdo - ha detto il presidente nazionale Roberto Della Seta - Non avremmo mai creduto che la regione Toscana sarebbe arrivata a prendere una decisione del genere. E se non fosse stata pubblicata sul bollettino ufficiale, stenteremmo a crederci". "Mi sembra una scelta assolutamente incomprensibile, non lungimirante", commenta il presidente della commissione Ambiente della Camera Ermete Realacci.
"Non ne so niente, mi hanno solo detto che è successo" ma entro breve "verificheremo", assicura il ministro dei Beni Culturali, Francesco Rutelli.
Cone rivelato dall'agenzia Dire, le autorizzazioni riguardano un'area complessiva di 1.553 Km quadrati, di cui una parte classificata patrimonio dell'umanità dall'Unesco, proprio come il Val di Noto, e che tocca rinomate località come San Gimignano, la Valle del Chianti, Monticchiello e la provincia di Siena.
I tre permessi prevedono la possibilità di esplorare alcuni dei paesaggi più belli d'Italia senza la necessità di una valutazione di impatto ambientale (Via) nonchè il permesso successivo di trivellare e scavare per estrarre idrocarburi, in quel caso previa riserva di Via.
I permessi sono stati concessi per un periodo iniziale di 6 anni (i canoni annui per le licenze sono solo di 5 euro per km quadrato) e stabiliscono che possano passare anche 5 anni prima che sia richiesto alla società il permesso di trivellare.
I decreti regionali suddividono le zone di competenza. Il permesso "Cinghiano" (564 km quadrati) riguarda le località di Arcidosso, Roccalbenga, Castel del Piano, Civitella-Paganico, Roccastrada e Cinigiano in provincia di Grosseto, nonchè Buonconvento, Murlo, Monticiano, San Giovanni d'Asso e Montalcino. Mentre il permesso denominato "Siena" (478 km quadrati) investe Siena e zone famose del Chianti come San Gimignano, Asciano, Murlo, Castellina in Chianti e Colle Val d'Elsa.
Il terzo permesso riguarda infine un'area di 511 km quadrati e comprende per intero o in parte i territori comunali di Volterra, Pomarance, Montecatini, Val di Cecina e Castelnuovo Val di Cecina nella provincia di Pisa, Casole d'Elsa, Radicondoli e Chiusino nella provincia di Siena.
La diffusione della notizia coglie tuttavia impreparati molti dei comuni che, secondo il provvedimento, sarebbero coinvolti dalle trivellazioni: "Noi stiamo facendo un lavoro sullo sviluppo sostenibile, non credo che il nostro territorio sia coinvolto in queste autorizzazioni", spiegano all'ufficio stampa del comune di Castellina in Chianti.
Il sindaco di Montalcino Maurizio Buffi spiega: "Noi ci sentiamo piuttosto tranquilli, perché le zone interessate sono confinanti con il nostro comune, però noi non verremo coinvolti. Come credo che non lo saranno alcuni dei comuni e dei territori dichiarati Patrimonio dell'Umanità dall'Unesco".
La notizia non sembra sia stata smentita: i decreti di autorizzazione regionale ci sono stati. Invece, sembra che siano state ritirate le autorizzazioni inizialmente concesse. C’è però qualcosa che comunque colpisce.
Colpisce che qualcuno abbia potuto pensare di chiedere di trivellare tra la Maremma, il Chianti e la Val d’Orcia. Vuol dire che la Regione Toscana, e per l’estensione l’Italia, sono ritenuti all’estero una nazione che ai propri prestigiosi paesaggi non tiene affatto.
Colpisce che qualcuno, nello staff politico e in quello tecnico della Regione Toscana, abbia potuto concedere l’autorizzazione.
Colpisce che i comuni possano ritenersi tranquilli perché le trivelle oggi (e domani le torri di estrazione) non ricadono nel territorio del loro comune ma solo in quelli confinanti.
Questo evento preoccupa perciò non tanto per il danno emergente (esistono sufficienti anticorpi contro una prospettiva così bestiale), ma per la cultura del territorio che rivelano. È la stessa che induce a rendere edificabili aree solo per ripianare i deficit dei bilanci comunali. È la stessa che induce ad approvare qualsiasi previsione di opera che incrementi lo “sviluppo del territorio”. È lla stessa che induce a chdere ogni municipio in se stesso rinunciando a ogni responsabilità di area vasta. È la stessa, infine, che sollecita a privilegiare, nel governo del territorio, il “mercato” rispetto a qualunque altra dimensione.
Luciano Muhlbauer, Sicurezza, quando gli argini cedono, il manifesto, 20 giugno 2007
La sicurezza non è né di destra, né di sinistra, tuona sempre più ossessivo il ritornello. E così il tema forte delle destre italiane ed europee trova adepti anche dalle parti del centrosinistra. Quanto la questione sia seria lo dimostrano la rapida diffusione di quei Patti per la Sicurezza tra Ministero degli Interni e grandi Comuni, nati sull'onda delle campagne demagogiche di lady Moratti, oppure la velocità con la quale il sindaco diessino di Roma ha anticipato le destre, imitando lo squallido gioco della caccia allo zingaro, tanto in voga nella pianura padana.
Un osservatore indipendente potrebbe cogliere un paradosso in tutto questo. Cioè, mentre tutti i numeri confermano che non vi è nessuna esplosione di reati, mezzo mondo grida invece all'emergenza criminalità, specie se micro. Ma qui non stiamo parlando di scienza o di filosofia, bensì di politica e, da questo punto di vista, il paradosso è forse meno incomprensibile.
Viviamo in società urbane profondamente segnate da decenni di privatizzazioni, di deregolamentazioni e di riduzione del welfare e delle tutele pubbliche. Sono saltati sistemi relazionali e identità collettive, le disuguaglianze sociali sono aumentate e la cosiddetta globalizzazione ha spostato i luoghi decisionali in posti inafferrabili e inaccessibili. Oggi, un abitante di una città come Milano vive una solitudine tremenda e le istituzioni e la politica appaiono sempre più ininfluenti rispetto alle sue condizioni di vita.
Tutto questo le destre l'hanno compreso benissimo e a questo cittadino moderno, esposto a precarietà e incertezze di ogni genere, offrono una risposta semplice ed efficace: il tuo nemico è quello della porta accanto, soprattutto se diverso da te. E così, chi non riesce ad accedere alla casa popolare se la prende con il marocchino a cui è stato assegnato un alloggio e non con quella politica che ha deciso di non costruirne più, la vecchietta costretta a lunghe file nell'Asl si arrabbia con il senegalese davanti a lei e non con quei governi regionali che pensano soltanto alla sanità privata e il residente del quartiere popolare attribuisce la responsabilità di ogni degrado al rom di turno e non ai lunghi anni di abbandono delle amministrazioni comunali.
Insomma, una moderna guerra tra poveri, innescata da una campagna securitaria che fornisce nemici abbordabili e identificabili e che si sintonizza con le paure e le ansie dei singoli. In Lombardia, dove il fenomeno è più esplicito, proprio in questi giorni stanno cedendo pericolosamente gli argini della politica. Prima il Presidente della Provincia di Milano, il diessino Penati, inizia a parlare come un leghista e, poi, nel Consiglio comunale milanese un'inedita e indecente alleanza tra destre, Ulivo e Verdi approva una mozione che invoca sgomberi e «numero chiuso» per i rom.
Beninteso, la battaglia contro il securitarismo non si vincerà mai semplicemente resistendogli, ma, in ultima analisi, soltanto ricostruendo una politica alternativa che intervenga con decisione sulla nuova questione sociale, ricostruendo dunque consenso, rappresentanza e credibilità. Tuttavia, questa considerazione non può diventare un alibi per guardare nel frattempo dall'altra parte, cercando di eludere il problema, o peggio ancora per rincorrere le destre sul loro terreno.
È certamente scomodo e difficile stare fuori dal coro che tenta di farsi senso comune, ma qui non si tratta semplicemente di qualche videocamera di sorveglianza o qualche poliziotto in più. No, si tratta della battaglia per l'egemonia culturale, di cui il securitarismo è componente fondamentale, che le destre agitano in tutto l'occidente. Ecco perché gli argini non possono cedere, almeno a sinistra del Partito democratico.
* Consigliere Regionale Prc della Lombardia
Manuela Cartosio, Il nomade PD punta a destra, il manifesto, 20 giugno 2007
A Milano e in Lombardia l'Unione non esiste più. Si sta rapidamente sciogliendo per l'effetto combinato di due fattori: da una parte, le dimensioni inattese di un'attesa sconfitta alle elezioni amministrative; dall'altra, la gestazione del Pd. Fregandosene altamente del forte astensionismo di sinistra, l'Ulivo ha interpretato il responso delle urne esclusivamente come una domanda di destra. Per soddisfarla si è messo a parlare e ad agire come la destra su due terreni caldi: la sicurezza (zingari fuori dalla balle) e il federalismo fiscale (i soldi dei lombardi devono restare in Lombardia). Risultato: al Comune di Milano e in Regione, dove il centro sinistra è all'opposizione, l'Unione vota in ordine sparso su campi rom e federalismo fiscale. Alla Provincia di Milano, governata dal centro sinistra, la linea antirom imboccata dal presidente Penati (Ds) mette nell'angolo Rifondazione che, costretta a mandar giù l'amaro boccone, chiede una «verifica politica».
Il fatto simbolicamente più eclatante, per ora, è avvenuto lunedì a Palazzo Marino. La consigliera diessina Carmela Rozza ha presentato una mozione che chiede lo sgombero «immediato» dei campi nomadi abusivi e sollecita il «numero chiuso» per i rom. Mozione bipartisan approvata dal centro destra e dall'Ulivo. Solo Rifondazione, Pdci, Milly Moratti (Lista Ferrante) e Basilio Rizzo (Lista Fo) non l'hanno votata. Non è chiaro cosa s'intenda per «numero chiuso» e con quale «criterio» vada calcolato. Basta dire che «Veltroni a Roma l'ha già adottato» e il gioco è fatto. Gira una cifra: al massimo 2.500, contro i 6 mila rom «censiti» all'ingrosso a Milano. Tutta gente che il centro destra, che governa la città da 15 anni, avrebbe già volentieri cacciato, senza aspettare la mozione di una diessina. Non lo può fare: gli sgomberi non risolvono il problema, lo spostano. La mozione ulivista, quindi, è puro marketing politico, esibizione di muscoli per dimostare che il centro sinistra non è buonista. Ma l'originale è più convicente della copia, vecchia massima puntualmente confermata lunedì nell'aula di Palazzo Marino. Gli abitanti di Chiaravalle, angustiati da cinque campi rom, venuti a sostenere la consigliera Rozza (ex sindacalista del Sunia) hanno riservato gli appluasi più caldi alla Lega e ad An. Un vero capolavoro, commenta Vladimiro Merlin (Prc), «il tentativo maldestro di far concorrenza alla destra sul suo terreno è finito in un autogol». Beffa finale: la mozione Rozza è passata con gli emendamenti peggiorativi della destra.
Il (futuro) Pd a Palazzo Marino si è messo nel solco tracciato da Filippo Penati. Il presidente della Provincia la settimana scorsa ha chiesto al governo «di Roma» di ripristinare il visto d'ingresso per romeni e bulgari (poi i bulgari li ha persi per strada, essendo i rom quelli da bloccare). Ha ripetutamente ipotizzato «maggioranze a geometria variabile». Come Sarkozy, ha individuato nel Sessantotto le scaturigini del buonismo e della non osservanza delle regole. Come Cofferati, del Pci ha rimpianto le cose peggiori: il culto dell'ordine e dell'autorità. Tutto questo parlare si è condensato in una delibera della giunta provinciale che destina 1 milione di euro al Patto per la sicurezza di Milano (serviranno a pagare gli straodinari ai poliziotti). Gli assessori di Rifondazione l'hanno approvata «credendo» che contestualmente una cifra analoga sarebbe andata per «l'inclusione sociale». Ne è nato uno scontro in pubblico e al calor bianco. Ieri Rifondazione ha dovuto cedere. Aspetta Penati in consiglio quando si voterà l'assestamento di bilancio. Per rimpiazzare i voti del Prc a Penati non basterebbero i voti della Lega e dell'Udc. L'alleanza variabile dovrebbe estendersi a Forza Italia. Formigoni glielo ha già chiesto e Penati si è ben guardato dal mandarlo a quel paese.
Così stando le cose sembra un'inezia (ma non lo è) il voto di ieri al Pirellone. Sulla proposta di legge iperleghista sul federalismo fiscale - roba che la Corte costituzionale butterebbe direttamente nella spazzatura - l'Ulivo si è graziosamente astenuto. Pur d'approvare qualcosa con la destra ha fatto a pezzi l'ordine del giorno concordato dall'Unione. Prc e Pdci hanno bocciato sia la legge che l'odg.
Cinzia Gubbini, «Anche noi rom vogliamo parlare basta decidere sulle nostre teste», il manifesto, 20 giugno 2007
Il comitato «Rom e sinti insieme» chiede partecipazione. E intanto si muove: «I nostri avvocati stanno valutando la possibilità di impugnare il patto di Milano»
Hanno già messo in campo i loro avvocati. L'obiettivo è valutare la possibilità di impugnare in tribunale, o davanti un organismo di giustizia internazionale, il patto per la legalità e la sicurezza siglato dal comune di Milano - per ora l'unico operante in Italia. «Riteniamo ci siano le premesse per considerare quel patto una discriminazione razziale», spiega Carlo Berini dell'associazione Sucar Drom («Bella strada» in lingua sinta). L'associazione fa parte del comitato «Rom e sinti insieme», un agglomerato di realtà che da anni lavorano con le minoranze rom e sinte in Italia. E' una novità importante - perché è difficile mettere in piedi coordinamenti nazionali di rom e sinti, e questo regge bene - ma anche interessante per l'analisi da cui muove. «Riteniamo che il sistema operato finora nei confronti di rom e sinti sia fallito perché si è sempre basato sul concetto di integrazione delle minoranze nella maggioranza numerica. Il modello che noi proponiamo è quello dell'interazione», dice Berini. A chi alza gli scudi contro i muri valoriali che anche le comunità rom frappongono con il mondo dei «gagè» ( i «non rom») risponde: «Certo che anche i rom devono cambiare, le società che non si muovono sono quelle destinate a morire. D'altro canto va considerato che se i rom e i sinti continuano a esistere dopo secoli di persecuzione, forse sono disposti al cambiamento più di quello che si pensa».
Ieri tre rappresentanti del comitato hanno tenuto una conferenza stampa a Roma proprio davanti Palazzo Chigi. All'interno si svolgeva un convegno sul razzismo e la discriminazione organizzato dall'Unar, l'ufficio contro il razzismo del ministero delle Pari Opportunità. Solo a pochi metri, in Largo Goldoni, nel pomeriggio Forza nuova raccoglieva firme per lo spostamento dei campi nomadi fuori dalla città. Eva Rizzin - ricercatrice universitaria e esponente del Comitato Rom e sinti insieme - ha puntato tutto sulla partecipazione: «Non siamo e non vogliamo essere minoranza senza voce. La verità è che da anni i rom e i sinti in Italia subiscono discriminazioni in tutti i campi, non soltanto in quello abitativo, e la loro partecipazione politica e sociale non è mai stata incentivata». Il comitato, intanto, sta pensando alla possibilità di organizzare una manifestazione nazionale (sarebbe la prima volta) e un convegno internazionale. Per quanto riguarda il patti di «solidarietà e sicurezza», come quello firmato anche a Roma, l'associazione RomAzione ha già inviato una lettera agli organismi internazionali, per metterne in luce gli aspetti più preoccupanti sotto il profilo della discriminazione razziale. «anche noi siamo per la legalità, pensiamo che se qualcuno commette un reato debba pagare, è ovvio - spiega Eva Rizzin - ma qui il problema è un altro: si ritiene che se un membro di una famiglia rom commette un reato, allora è tutta la famiglia a dover pagare e, ad esempio, ade essere cacciata da un campo». «Accadrebbe mai una cosa del genere per una famiglia italiana che vive in una casa popolare?», è la provocazione di Berini. «Allora è questo che stiamo dicendo: perché per le famiglie rom e sinte deve esistere un trattamento diverso? Questo tipo di "regolamenti" sono già stati sperimentata in diversi campi rom, e non hanno portato a nulla. La soluzione? Noi non la conosciamo. Ma pensiamo che può essere trovata solo ragionando insieme, con la partecipazione dei rom e dei sinti».
Come già emerso platealmente nel caso di “Chinatown”, a Milano (e in generale nelle città italiane) il tema dell’urbanistica come idea generale di città sembra totalmente evaporato dalla coscienza e consapevolezza della pubblica amministrazione, sostituito vuoi da reazioni scomposte caso per caso, vuoi da “soluzioni” contestuali che perdono poi completamente di vista il contesto più ampio di sistema entro il quale dovrebbero collocarsi.
Ed esplode ora la questione dei Rom: vera esplosione “politica”, inserita nella sciagurata e autoreferenziale strategia dell’ormai a quanto pare ex centrosinistra all’inseguimento di fantomatici ceti medi produttivi del nord. Di fatto a fare invece inconsapevolmente concorrenza alla Lega e ai neofascisti sul medesimo terreno del disprezzo per la diversità, della diffidenza programmatica, del “padroni a casa nostra”.
E pure, anche il tema dei Rom è sostanzialmente e squisitamente urbanistico: almeno fin quando non sconfina in questioni di ordine sociale, comunque collegate. Ma l’ex urbanistica del disprezzo scivola ormai verso il disprezzo tout court , e poi verso il “disprezzo di sinistra”. C’è qualcosa, che l’urbanistica può fare a questo proposito? Vengono alla mente, le normali norme tecniche delle città americane soprattutto del West (ma anche a New York c’è un caso recente) con la dovizia di regole per i trailer parks , o il recente dibattito britannico enfatizzato dalla presenza dei nomadi sulle aree destinate alle Olimpiadi del 2012 nell’area di Stratford.
L’importante è parlare di qualcosa d’altro, diverso dall’orribile, inaccettabile, “numero chiuso” proposto dalla signora Carmela Rozza, eletta nelle liste DS al Comune di Milano, e con una carriera sindacale nel settore della casa. Brr! (f.b.)
1. I primi cinque capitoli della prima parte del “Documento” costituiscono indubbiamente una delle più cospicue elaborazioni prodotte in Italia al fine di contestare radicalmente, in sede teoretica, la prassi e ancor più la cultura della pianificazione territoriale e urbanistica consolidata, negandone non specifiche forme e modalità applicative, ma gli stessi presupposti concettuali, con ciò aggredendo assunti la cui valenza è ben più ampia di quella attinente il governo del territorio.
Non poche delle posizioni affermate, infatti, mettono in discussione, o francamente contestano, elementi informatori generali dell’ordinamento costituzionale e giuridico italiano.
La più spettacolare di tali affermazioni è senza dubbio quella per cui nel “continuo confronto tra ragioni”, al quale dovrebbe sostanzialmente ridursi l’attività di governo del territorio, “lo stato [inteso come il complesso dei soggetti istituzionali] ha una voce autorevole, ma pur sempre una voce tra le voci”. Forse non siamo all’estinzione dello stato di leniniana memoria, ma certo siamo a una delle più spinte concezioni di “stato minimo” mai avanzate dall’”anarchismo reazionario”, o “liberismo libertario”, costituente uno storico, robusto e rigoglioso filone della destra nordamericana (più ancora che, aggregatamente, anglosassone).
Ma essa trova una coerente assonanza nella critica del “modello italiano — e, in generale, [del] modello continentale — [...] proprio degli stili amministrativi legati alla tradizione giuridica del diritto romano e inclini a considerare la coppia formata dai concetti legge e contratto come una coppia dicotomica”, e nella propensione per il “modello britannico [...] proprio degli stili amministrativi legati alla tradizione giuridica anglosassone e inclini a considerare la coppia legge e contratto come un continuum in cui i due concetti, legge e contratto, tendono a sfumare l’uno nell’altro e sono riconoscibili nella loro individualità solo agli estremi del continuum”.
2. Nel complesso, l’intera elaborazione risponde a una concezione integralmente (si sarebbe tentati di dire integralisticamente) “mercatistica” della società e dei rapporti intersoggettivi.
Non deve ingannare, in proposito, il ricorso dell’espressione “valori d’uso” (degli immobili). A prescindere da ogni pregressa difficoltà teoretica di definizione dei “valori d’uso”, è reso evidente dal contesto dei ragionamenti svolti che in realtà ci si riferisce ai “valori di scambio”. E infatti l’assillo con il quale tutta l’elaborazione si confronta, e che infine ritiene di risolvere, consiste nella duplice (e potenzialmente contraddittoria) necessità di fornire agli operatori immobiliari “certezze che garantiscano gli investimenti” e flessibilità per “adeguare le norme [e conseguentemente i programmi di investimento] ai possibili mutamenti del mercato”.
Nel tessuto di questa dialettica di interessi (che talvolta si trasfigurano terminologicamente in “diritti”) compiutamente facenti capo ai proprietari e agli operatori immobiliari, può tutt’al più insinuarsi, pare, qualche domanda non “mercatistica”, alla quale (la si denomini o meno, a questo punto un po’ pomposamente, “interesse generale”) competerebbe ai soggetti pubblici istituzionali tendere a dare (magari parziale, parzialissima) risposta, attraverso la “negoziazione”, con i proprietari e gli operatori immobiliari, delle caratteristiche e dei requisiti delle trasformazioni territoriali da progettare e attuare.
Insomma: ai soggetti pubblici istituzionali si affida il compito di usare il potere “politico” di cui dispongono per soddisfare, nella misura in cui non intacchino sensibilmente gli interessi dei soggetti capaci di esprimersi sul “mercato”, le domande, “residuali”, si deve supporre, invece incapaci di esprimersi nei termini che il “mercato” riconosce.
2. Eppure, già all’economia liberale classica non era affatto estranea la consapevolezza dell’esistenza di beni non “mercatizzabili”, in quanto “beni collettivi indivisibili”, o in quanto “beni esistenziali” (i beni che non hanno valore perché sono valori), o in quanto non sostituibili (ovvero fungibili), o non riproducibili (tipicamente, le cosiddette “risorse esauribili”, e i cosiddetti “beni posizionali”). Ciò perché relativamente a tali beni il “valore di scambio”, cioè il prezzo, non è un indice di valutazione appropriato, non potendo formarsi secondo i meccanismi riconosciuti propri, per l’appunto, del “mercato”.
Sulla base di tale consapevolezza si era riconosciuto, nell’ambito del pensiero liberale, rientrare nell’”ambito necessario” delle determinazioni politiche esprimere giudizi di valore su quei beni che il “mercato” non è in grado di valutare soddisfacentemente, e quindi di regolarne, con riferimento ai propri codici, la produzione (per quanto possibile) e la distribuzione/fruizione.
E si era riconosciuto che configurare in siffatti termini l’”ambito necessario” delle determinazioni politiche, escludendone debordamenti intromissori nell’ambito del “mercato”, ma anche intrusioni del “mercato” nei codici valutativi delle determinazioni politiche, significava che tali determinazioni dovevano discendere da un “progetto di società”. Soggiungendo che lo strumento principale per definire e perseguire un “progetto di società” è la “pianificazione”.
Di più, si era notato come, in particolare, la pianificazione territoriale e urbanistica avesse quali suoi oggetti tipici “risorse esauribili”, “beni posizionali”, beni non riproducibili (o assai limitatamente riproducibili), beni non sostituibili (o assai limitatamente sostituibili). E che quindi sua precipua finalità dovrebbe essere valutare tali risorse e tali beni secondo codici “non mercatistici”, cioè secondo giudizi di valore qualitativi, esprimenti la coscienza sociale (almeno maggioritaria), e coerenti con il “progetto” che la società (attraverso i processi decisionali politici) pone per se stessa.
Per cui poteva asserirsi che la pianificazione territoriale e urbanistica dovrebbe avere la “qualità” (secondo la percezione e consapevolezza che storicamente di essa si forma e si esprime) come suo obiettivo, e che essa ritrova nella definizione e nel perseguimento della “qualità” (che è un valore, e che pertanto, come s’è detto, non può essere misurata dal “mercato”) la sua ragion d’essere. [1]
3. Delle consapevolezze ora ricordate, e dei ragionamenti che ne sono stati fatti discendere, ora sommariamente ricapitolati, non v’è segno nel “Documento” in esame. Anzi, come s’è già asserito, esso costituisce uno dei più rilevanti esempi di totale estraneità alle storiche e contemporanee elaborazioni culturali alle quali appena sopra si è fatto riferimento.
Va piuttosto rilevato come esso si sforzi, dichiaratamente, di proporre un modello di attività pianificatoria che, nel soddisfare al meglio gli interessi (innanzitutto, ed egemonicamente) dei proprietari e degli operatori immobiliari, assuma sincreticamente le valenze perciò più funzionali sia del “modello” di attività pianificatoria “britannico” sia di quello “continentale”.
Si riconosce, infatti, che l’elevata flessibilità del “modello britannico” discende dalla latitudine, anzi dalla quasi assolutezza, della discrezionalità delle determinazioni delle pubbliche amministrazioni in ordine alle trasformazioni del territorio, fondata a sua volta nella tradizionalmente riconosciuta appartenenza al potere pubblico della facoltà di operare tali trasformazioni, ma si esclude di sussumere sia l’ampiezza di tali poteri discrezionali, sia, soprattutto, il suo presupposto.
Al contrario, si propone di assumere i presupposti del “modello continentale”, cioè il riconoscimento (più o meno ampio) dell’inerenza al diritto di proprietà degli immobili della facoltà di operarvi trasformazioni, fino a configurare il piano come (null’altro che) “il piano delle norme che riconoscono i diritti reali — e non attesi — d’uso del suolo”. Detto altrimenti: “una sorta di catasto, un archivio degli usi del suolo che si aggiorna continuamente con le nuove norme introdotte dai progetti di trasformazione approvati”.
Giacché, invece, nel modello proposto “il piano regolatore generale perde le sue valenze strategiche”, e “programmi e visioni [...] si traducono nelle linee guida e nelle strategie che l’amministrazione esprime nel piano strategico, approvato dal governo locale come [mero] documento politico.
In tale modello, si aggiunge, “la cerniera tra il documento legale delle norme e il documento politico delle strategie è costituita dai progetti di trasformazione. Il controllo dei progetti diventa una valutazione delle conseguenze che l’attuazione di un progetto comporterebbe sulla situazione esistente, e una valutazione della coerenza di quelle conseguenze con le strategie dell’amministrazione. Ogni progetto, coerente con le strategie, una volta approvato si configura come una variante delle norme esistenti, e diventa esso stesso parte delle norme”.
In pratica: il piano generale (“sorta di catasto”) attribuirebbe a ciascun immobile, o complesso di immobili, il “valore” (“di scambio”, ovverosia il prezzo presumibilmente traibile) connesso alla sua trasformabilità fisica e funzionale (effetto che nel “modello britannico” discende soltanto dall’intervenuta definizione dei piani/progetti operativi), garantendo ai relativi proprietari le ambite “certezze” (irreversibili, cioè non intaccabili da diverse scelte di trasformabilità, le quali devono essere preventivamente “negoziate” con gli stessi proprietari). A partire dalle acquisite “certezze” le concrete trasformazioni effettuabili sarebbero definite dai singoli progetti, attraverso, per l’appunto, la “negoziazione” con la pubblica autorità istituzionale, la quale ne valuterebbe la coerenza con le proprie strategie, salvo convincersi, negoziando, che queste ultime devono essere mutate, e alla quale spetterebbe poi di registrare nel piano generale i nuovi (e superiori, si può facilmente preconizzare) “valori” assegnati dai progetti decisi.
In estrema (ma non distorcente) sintesi: il pressoché unico compito assegnato alla pianificazione pubblica del territorio sarebbe quella di assicurare la (crescente) “valorizzazione” (nel senso dell’attribuzione di “valori di scambio”) degli immobili, e la minimizzazione del “rischio” d’intrapresa per i proprietari e gli operatori immobiliari.
Entro tale cornice, si è tenuti a ritenere, la pubblica autorità istituzionale può/deve “negoziare” ben poco: l’ottenimento di qualche metro quadrato in più di attrezzature per la fruizione collettiva, anche dei portatori di domande “non solvibili”, se ci riesce.
4. Anche in quanto a proposito della “negoziazione” afferente le trasformazioni di immobili tra il "pubblico" (per esso intendendosi l'istituzione democratica rappresentativa della comunità locale) e il "privato" (per esso intendendosi i promotori delle trasformazioni, coincidano o meno con i proprietari degli immobili interessati), con riferimento al “Documento” in esame come a qualsiasi altra teorizzazione o pratica, v’è da dire che essa verrebbe a essere comunque pesantemente falsata laddove il "pubblico" avesse di fronte, per così dire, un "contraente obbligato", cioè la proprietà in essere degli immobili interessati.
Laddove, in altri termini, il "pubblico" non potesse scegliere il "privato" che avanzasse la proposta più conveniente, vale a dire che configuri il migliore (e più avanzato) equilibrio tra gli interessi generali e gli interessi particolari. A questo fine, cioè, paradossalmente (ma non tanto), per introdurre i vantaggi (collettivi) del "mercato" nelle decisioni afferenti le trasformazioni urbane, conferendo al "pubblico" la possibilità di fare concorrere tra loro diversi operatori volti al conseguimento di "profitti", e non al lucro di "rendite", varrebbe la pena (magari soltanto per le previste trasformazioni di maggiore consistenza, o comunque di rilevanza "strategica") di rivisitare l'istituto della preventiva acquisizione pubblica della totalità degli immobili compresi negli ambiti interessati.
Non è un caso, presumibilmente, che il “Documento” in esame, che ostenta fervoroso consenso verso tutti gli “strumenti [che] il legislatore inventa” negli ultimi anni (“dopo che la legislazione precedente aveva introdotto strumenti che portavano a compimento il disegno del sistema di pianificazione”), i quali “permettono non di dare attuazione alla pianificazione stessa, ma di discostarsene in variante rispetto alle previsioni di piano”, manifesta molta freddezza verso le "società per progettare e realizzare interventi di trasformazione urbana", di cui al comma 59 dell’articolo 17 della legge 127/1997, ove si dispone che gli interventi da progettare e realizzare devono essere “in attuazione degli strumenti urbanistici vigenti”, e che si deve provvedere “alla preventiva acquisizione delle aree interessate”.
5. Coerentemente con quanto sostenuto e argomentato nei primi quattro capitoli, il quinto e ultimo capitolo della prima parte del “Documento” indica quali concretamente dovrebbero essere le “nuove procedure urbanistiche” da seguire (per ora) a Milano.
Conviene rivolgere l’attenzione a quelle previste per la “seconda fase” del processo di innovazione proposto, in quanto solamente allora il modello delineato è previsto possa trovare compiuta attuazione.
Sinteticamente, è previsto che
“nella seconda fase il piano regolatore avrà un ruolo diverso e meno vincolante, in quanto le linee guida per le trasformazioni urbane saranno espresse dal Documento di Inquadramento, o piano strategico degli usi del suolo, e le trasformazioni decise tenendo conto delle linee guida, e non più soggette a previsioni normative di piano regolatore. Il traguardo ultimo del processo è un piano regolatore che non comprenda determinazioni specifiche circa le trasformazioni future, ma esclusivamente i diritti d’uso del suolo confermati e le salvaguardie. La proposta delle trasformazioni è lasciata all’iniziativa del comune e dei soggetti pubblici e privati.
”Infatti si assume [...] che [...] non sia utile conferire un valore normativo alle previsioni di piano regolatore [...] ma che programmi e progetti di trasformazione urbana debbano essere decisi in attuazione delle strategie della Amministrazione e a seguito della valutazione dei risultati attesi. In questa prospettiva programmi e progetti costituiscono uno strumento per la verifica e non solo per la messa in opera delle strategie. In altre parole, la realizzabilità di una strategia è provata nel momento in cui viene tradotta in progetti operativi. La redazione dei progetti serve per verificare se una strategia è concretamente realizzabile o, se non lo è, per individuare gli ostacoli a realizzarla, cioè se siano tali gli stessi criteri fissati dall’Amministrazione e/o vincoli determinati dal contesto. In accordo con questa prospettiva, progetti e programmi di intervento proposti da soggetti pubblici e privati sono un contributo indispensabile alla verifica delle strategie dell’Amministrazione, e possono suggerire utili modificazioni o integrazioni delle politiche pubbliche in attuazione delle strategie nonché delle strategie stesse. Infine, anche progetti e programmi proposti indipendentemente dalle strategie sono utili, purché la proposta sia motivata da argomentazioni sufficienti a far modificare le strategie già adottate.
E viene ulteriormente ribadito che il Documento di Inquadramento non dev’essere “comunque vincolante”: esso, si sottolinea, ha un “valore politico-programmatico e non giuridico” e “risponde alla scelta di utilizzare programmi e progetti come strumenti non solo di attuazione, ma anche di verifica ed eventualmente di motivato cambiamento delle strategie”.
Con deliberazione del Consiglio dei Ministri del 3 agosto 2004 è stata promossa presso la Corte costituzionale[1] la questione di legittimità costituzionale di alcune disposizioni del nuovo Statuto della Regione Toscana [2].
Tra le suddette disposizioni figurano quelle specificamente indicate ai punti 3) e 4) dei motivi di impugnativa esposti nella succitata deliberazione.
Con il primo si eccepisce che la lettera l) del comma 1 dell’articolo 4 del nuovo Statuto regionale toscano prevede che la Regione persegua, tra le finalità prioritarie, “la tutela dell’ambiente e del patrimonio naturale, la conservazione della biodiversità, la promozione della cultura del rispetto per gli animali”. E si sostiene che “tale disposizione esula dalla competenza legislativa della regione, ponendosi in contrasto con l’articolo 117, comma 2, lettera s), della Costituzione, che riserva alla competenza esclusiva dello Stato la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema”.
Con il secondo si eccepisce che la lettera m) del medesimo comma 1 dell’articolo 4 del nuovo Statuto prevede che la Regione persegua altresì, sempre tra le finalità prioritarie, “la tutela del patrimonio storico, artistico e paesaggistico”. E si sostiene che anche “tale disposizione risulta invasiva della competenza esclusiva statale nella materia della tutela dei beni culturali prevista dall’articolo 117, comma 2, lettera s), della Costituzione, [...] attribuita alla potestà legislativa esclusiva dello Stato.
In effetti, a norma della lettera s) del secondo comma dell’articolo 117 della Costituzione (come modificata dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n.3) lo Stato ha legislazione esclusiva, tra l’altro, nelle materie denominate “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”.
Il fatto è che le surriportate impugnate disposizioni del nuovo Statuto nè asseriscono, nè tampoco implicano, che la Regione Toscana intende invadere le competenze legislative dello Stato nella materie di cui alla lettera s) del secondo comma dell’articolo 117 della Costituzione.
L’articolo 4 del nuovo Statuto regionale toscano, infatti, si limita a esporre un lungo elenco (pari alle ventuno lettere dell’alfabeto) di “finalità prioritarie”, della più diversa natura, che “la Regione persegue”. Tra di esse sono citate anche “il rispetto dell’equilibrio ecologico, la tutela dell’ambiente e del patrimonio naturale, la conservazione della biodiversità, la promozione della cultura del rispetto per gli animali”, e “la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, artistico e paesaggistico”.
Ma nulla è detto circa i modi, cioé le forme, in cui tali finalità debbano essere perseguite.
Talché avrebbe dovuto, come deve, pacificamente assumersi che l’intendimento (e per converso l’obbligo, che sarebbe stato assolutamente pleonastico esplicitare) sia quello di perseguirle nel pieno e assoluto rispetto delle competenze costituzionalmente assegnate (e garantite) a ognuno dei soggetti che, a norma del comma 1 dell’articolo 114 della Costituzione (come modificata dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n.3), costituiscono la Repubblica: i Comuni, le Province, le Città metropolitane, le Regioni, lo Stato.
Quindi non legiferando nelle materie riservate alla competenza esclusiva dello Stato come denominate dalla Costituzione (“tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”) e, necessariamente, meglio specificate dalla legislazione statale di settore.
Ma invece anche legiferando non soltanto (come riconosciuto legittimo – e ci mancherebbe! - dal Consiglio dei Ministri) in materia di “valorizzazione dei beni culturali e ambientali”, materia “di legislazione concorrente” (in cui spetta alle regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato) a norma del terzo comma dell’articolo 117 della Costituzione (come modificata dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n.3). Ma anche in materia di “governo del territorio”, materia anch’essa “di legislazione concorrente”, nel contesto della quale le tematiche della tutela dell’ambiente, del patrimonio naturale, del paesaggio, del patrimonio storico (artistico, o semplicemente testimoniale), cioé di quanto si può riassumere sotto le voci dell’”integrità fisica” e dell’”identità culturale” del territorio”, hanno avuto, e debbono avere, valenza ampia, e prioritaria.
A meno che non si voglia dare della dizione “governo del territorio” una definizione (quale, a esempio, “un’attività che concerne l’assetto e l’incremento edilizio dei centri abitati”) ben più riduttiva di quella alla quale si era pervenuti, con riferimento alla dizione “urbanistica”, nella legislazione statale antecedente alla riforma del Titolo V della Costituzione, e cioè con l’articolo 80 del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n.616, per cui “le funzioni amministrative relative alla materia urbanistica concernono la disciplina dell’uso del territorio comprensiva di tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali riguardanti le operazioni di salvaguardia e di trasformazione del suolo nonché la protezione dell’ambiente”.
E, per l’appunto, le contestate disposizioni del nuovo Statuto regionale toscano potrebbero addirittura alludere a un perseguimento delle indicate finalità essenzialmente (quand’anche non esclusivamente, per i motivi appena sopra esposti) mediante atti amministrativi, di natura regolamentare, o pianificatoria, ordinaria o specialistica, quale, per esempio, l’attività di pianificazione paesaggistica tassativamente richiesta alle regioni dall’atto legislativo recante la quasi totalità della vigente legislazione (“esclusiva”) statale in materia di “tutela dei beni culturali”, cioé dal decreto legislativo 22 gennaio 2004, n.42, recante “Codice dei beni culturali e del paesaggio”, e meglio noto come “Codice Urbani”!!! e allora, dove sussisterebbe la lamentata invasione della competenza legislativa statale???
Quantomeno sotto l’ultimo profilo sopra trattato, le contestate disposizioni del nuovo Statuto regionale toscano potrebbero, e presumibilmente dovrebbero, comparire come finalità da perseguire in tutti gli statuti non soltanto delle regioni, ma anche delle province, delle città metropolitane (quando ci si deciderà a costituirle, anziché cacciarle, assieme alle farfalle, sotto l’Arco di Tito), dei comuni.
Non foss’altro che per rispettare il secondo comma dell’articolo 9 della Costituzione (inserito tra i Principi fondamentali della stessa, talchè le restanti parti della medesima devono, all’occorrenza, essere interpretate così da non contraddirlo), a norma del quale “la Repubblica [...] tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. La Repubblica, per l’appunto: la quale, secondo l’originaria (e da chi scrive amaramente rimpianta) stesura della Costituzione “si riparte in Regioni, Provincie e Comuni”, mentre secondo la versione novellata “è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni, e dallo Stato”.
In effetti, quando l’Italia non era “federalista”, e vigeva la Costituzione del 1948, tutte le regioni a statuto ordinario inserirono, negli anni ’70, nei rispettivi statuti, l’enunciazione di finalità omologhe a quelle oggi contestate al nuovo Statuto regionale toscano (e lo stesso fecero, negli anni ’90, dopo l’entrata in vigore della legge 8 giugno 1990, n.142, sull’”Ordinamento delle autonomie locali”, un’enorme numero di province e di comuni).
E quasi tutte le regioni dettarono norme legislative volte ad assicurare che nell’attività pianificatoria d’ogni livello fosse adeguatamente presente la tutela dell’integrità fisica e dell’identità culturale del territorio (usando in proposito i termini più diversi, talvolta scombiccherati, spesso sinonimici, frequentemente pletorici). E molte regioni legiferarono in materia di tutela dei centri storici, e dell’edilizia storico-artistica e storico-testimoniale sparsa. E in materia di salvaguardia dell’equilibrio degli ecosistemi, e dei geotopi e biotopi rari, e perfino dei singoli esemplari arborei di pregio. E così via tutelando, salvaguardando, disciplinando.
Sempre troppo poco. Nella legislazione, nella regolamentazione, nella pianificazione, e ancor più nell’attività quotidiana di autorizzazione e controllo.
Talvolta, sia le regioni che gli enti locali, in contrapposizione con le amministrazioni statali (o “miste”) specialisticamente competenti all’amministrazione delle tutele. In tali casi, avendo, prevalentemente, torto, e peraltro vedendoselo, prevalentemente, dare. Salvo qualche clamoroso caso contrario (sotto entrambi gli aspetti).
Ma, tutto sommato, abbastanza spesso “concorrendo” (nel significato più etimologicamente e giuridicamente proprio del termine) al medesimo scopo: la tutela.
E oggi? e domani? non è che questo Governo, autore o promotore del maggior numero, e con la maggiore gravità, di attentati alle qualità del Paese concepito e realizzato da almeno un secolo, si prefigge, con un esibizione di muscoli “centralistici” che non sarà certo contrastata dai pseudo-federalisti e dai quasi(?)-secessionisti che costituiscono buona parte della sua maggioranza, di inibire a regioni, province e comuni di porre “vincoli” a tutela dell’integrità fisica e dell’identità culturale del territorio? del resto, si può immaginarsi un Jefferson Davis che protesta perché Abramo Lincoln vorrebbe, con legge federale, introdurre la schiavitù negli Stati del Nord?
[1] Ai sensi dell’articolo 123 della Costituzione, come modificata dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n.3.
[2] Approvato dal Consiglio regionale in prima deliberazione il 6 maggio 2004 e in seconda deliberazione il 19 luglio 2004.
Vedi anche l'eddytoriale n, 52
Innanzitutto, va rammentato che secondo la (relativamente) recente, ma ormai consolidata, giurisprudenza costituzionale [1], il “Codice dei beni culturali e del paesaggio", approvato con decreto legislativo 22 gennaio 2004, n.42, e successivamente modificato e integrato, per quanto di interesse di questa comunicazione, con decreto legislativo 24 marzo 2006, n.157 (in prosieguio per brevità denominato semplicemente “Codice”), contiene, contestualmente, disposizioni riconducibili sia alla “materia” denominata “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”, appartenente alla legislazione esclusiva dello Stato (comma secondo, lettera s., dell’articolo 117 della Costituzione come riscritto per effetto della legge costituzionale 3/2001), sia alle “materie” denominate “governo del territorio” e “valorizzazione dei beni culturali e ambientali”, appartenenti alla legislazione concorrente, in cui “spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato” (commi terzo e quarto del novellato articolo 117 della Costituzione).
Per cui, ha affermato la Corte, relativamente all’insieme delle disposizioni del “Codice”, le regioni “devono sottostare nell'esercizio delle proprie competenze, cooperando eventualmente a una maggior tutela del paesaggio, ma sempre nel rispetto dei principi fondamentali fissati dallo Stato”[2]. Giacché “la tutela tanto dell'ambiente quanto dei beni culturali è riservata allo Stato […], mentre la valorizzazione dei secondi è di competenza legislativa concorrente […]: da un lato, spetta allo Stato il potere di fissare principi di tutela uniformi sull'intero territorio nazionale, e, dall'altro, le leggi regionali, emanate nell'esercizio di potestà concorrenti, possono assumere tra i propri scopi anche finalità di tutela ambientale, purché siano rispettate le regole uniformi fissate dallo Stato” [3]. Cosicché, ha concluso sul punto la Corte, “appare, in sostanza, legittimo, di volta in volta, l'intervento normativo (statale o regionale) di maggior protezione dell'interesse ambientale” [4]. Fermo sempre restando che le regioni debbono “conformarsi” alla “disciplina dettagliata” [5] della Parte III del “Codice”, per quanto essa intersechi la predetta materia denominata “governo del territorio”.
Tutto ciò premesso, si possono ora ricapitolare i prescritti connotati della pianificazione paesaggistica secondo il "Codice”, la dottrina interpretativa in merito sinora conosciuta, e le pronunce della Corte costituzionale. Il "piano paesaggistico" (per esso intendendosi sia la figura pianificatoria così denominata e tipizzata che il "piano urbanistico-territoriale con specifica considerazione dei valori paesaggistici") deve essere formato dalla regione e riguardare “l'intero territorio regionale” [6]. Esso, conseguentemente, deve disciplinare sia gli immobili "vincolati" (a seguito di specifici provvedimenti amministrativi, ovvero ope legis) che ogni altro immobile, ivi compresi quelli ricadenti nelle aree gravemente compromesse o degradate [7].
Il piano deve riferire le sue disposizioni sia a elementi territoriali, individuati in base ai loro caratteri identitari distintivi (boschi, praterie, spiagge, dune, falesie, alvei fluviali, golene, paludi, colline, sommità montane, ecc. ecc.) [8] che ad ambiti (definiti con criteri olistici, in relazione ai profili fisiografici, vegetazionali, di sistemazione colturale, di modello insediativo, e simili, valutati anche in relazione alle dinamiche pregresse e previste, e soprattutto in relazione all'intensità specifica delle interrelazioni tra gli elementi territoriali in essi ricadenti) [9].
Le disposizioni del piano possono avere efficacia sia immediatamente precettiva e direttamente operativa (presumibilmente, buona parte di quelle riferite agli elementi territoriali) che efficacia di direttive necessitanti, per trovare applicazione, della mediazione di uno strumento di pianificazione sottordinato (presumibilmente, la più gran parte di quelle riferite agli ambiti)[10]. In ogni caso, tutte le disposizioni del piano sono tassativamente vincolanti per la pianificazione sottordinata (provinciale e comunale, nonché di qualsiasi altro soggetto, ivi compresi gli enti di gestione dei parchi e delle altre aree protette) [11].
Venendo alla Regione Toscana, va detto innanzitutto che il dianzi sunteggiato insieme di precetti del “Codice” non potrebbe trovare traduzione operativa nell’attività pianificatoria di tale Regione, e, susseguentemente, in quella, di adeguamento alla prima, degli enti locali subregionali, in assenza di una rivisitazione, magari non estesa, ma certamente profonda, della vigente legge regionale per il governo del territorio, la legge regionale 3 gennaio 2005, n.1.
Tale legge regionale, innanzitutto, definisce in termini alquanto diversi da quelli desumibili dagli obiettivi e dalle intenzionalità del “Codice” i contenuti dello strumento di pianificazione di competenza regionale, il Piano di indirizzo territoriale (e ciò al di là di talune stucchevoli trascrizioni letterali di parti di norme dello stesso “Codice”[12]). E soprattutto ne determina in modo tutt’affatto diverso le efficacie. Secondo la suddetta legge regionale, infatti, gli strumenti di pianificazione sovraccomunali (nonché il piano strutturale comunale) non hanno, sostanzialmente, mai efficacia immediatamente precettiva, e direttamente operativa. Né tampoco efficacia realmente cogente nei confronti della pianificazione sottordinata, in conformità a quel “modello rigidamente gerarchico” che, secondo la Corte costituzionale, costituisce un “principio fondamentale” in materia di “governo del territorio”, quantomeno per quanto afferisce ai contenuti della pianificazione riguardanti la tutela dell’”identità culturale” del territorio stesso. Ciò in quanto la legge regionale toscana 1/2005 è interamente e rigidamente improntata all’assunto per cui, a seguito dell’entrata in vigore del novellato Titolo V della Costituzione, comuni, province, città metropolitane, regioni, e Stato sarebbero soggetti “equiordinati”, e altrettanto “equiordinati” sarebbero gli strumenti di pianificazione di competenza di tali livelli e soggetti istituzionali. Con la conseguenza che il rimedio esperibile nei casi di strumenti di pianificazione comunali difformi (anche clamorosamente) dalla pianificazione della provincia territorialmente competente (o dalla pianificazione regionale), ovvero di strumenti di pianificazione provinciali difformi (anche clamorosamente) dalla pianificazione regionale, consiste nel rivolgersi a una “conferenza paritetica interistituzionale”, alle cui pronunce il soggetto pianificatore responsabile della formazione degli strumenti difformi può peraltro non adeguarsi, residuando al soggetto responsabile dello strumento di pianificazione contraddetto la potestà di approvare “specifiche misure di salvaguardia” che comportano la “nullità di qualsiasi atto con esse contrastanti”.
La Corte costituzionale è stata chiamata dal Governo [13] a pronunciarsi soltanto su tre norme della legge regionale toscana 1/2005, delle quali solamente una, a ben vedere, concerneva (anche) gli ora indicati elementi strutturali della pianificazione territoriale, di pretesa valenza (anche) di tutela “paesaggistica”. Assai più numerosi, a mio parere, erano, come sono, i contenuti della legge regionale toscana 1/2005 che potrebbero essere dichiarati costituzionalmente illegittimi, anche limitatamente a motivi di contrasto con il “Codice”, e ciò sia con riferimento ai profili “pianificatori” che ai profili “gestionali” della “tutela” dei “beni paesaggistici”. Essi non hanno costituito, a suo tempo, e nei termini, oggetto di ricorso governativo, il che non toglie che le relative questioni di legittimità costituzionale possano essere sollevate, in via incidentale, da chiunque vi abbia interesse. Ad ogni buon conto, la Regione Toscana si è ben guardata dal procedere a modificare le norme puntualmente dichiarate costituzionalmente illegittime [14].
Sulla base (anche) delle quali, nonché d’ogni altra norma della legge regionale 1/2005, la Giunta regionale della Toscana ha proceduto, con decisione del 15 gennaio 2007, n.9, a fare propri i predisposti elaborati del nuovo Piano di indirizzo territoriale, e a proporli al Consiglio regionale per l’adozione.
Tra tali elaborati, quello denominato “disciplina del Piano”, per dichiarazione dello stesso, “qualifica il Piano di indirizzo territoriale come strumento di pianificazione territoriale” [15], “definisce lo Statuto del territorio toscano e formula le direttive, le prescrizioni e le salvaguardie concernenti le invarianti strutturali che lo compongono e la realizzazione delle agende di cui lo Statuto si avvale ai fini della sua efficacia sostantiva” [16], “definisce lo Statuto del territorio toscano mediante l’individuazione dei metaobiettivi - unitamente agli obiettivi conseguenti - che ne compongono la agenda statutaria”, fermo restando che “la definizione quali invarianti strutturali dei suddetti metaobiettivi e delle invarianti attinenti alle infrastrutture e ai beni paesaggistici di interesse unitario regionale, insieme alle linee di azione necessarie a conferire effettività all’agenda statutaria, costituiscono il contenuto sostantivo dello Statuto del territorio [17]“, “definisce le invarianti strutturali e individua i principi cui condizionare l’utilizzazione delle risorse essenziali [18]“, e “contempla come sua parte integrante la disciplina dei paesaggi che assumerà valore di piano paesaggistico [19]“.
Gli altri elaborati del Piano di indirizzo territoriale sono denominati “documento di Piano” e “Quadro conoscitivo” (costituito, tra l’altro, da “quadri analitici di riferimento” e da un “Atlante ricognitivo dei paesaggi”[20]. Mentre è detto che “integrano […] la presente disciplina”, tra l’altro, “gli indirizzi e le prescrizioni per la pianificazione delle infrastrutture dei porti e degli aeroporti toscani”[21] [i corsivi sono miei. N.d.r.].
Da quanto riportato, si dovrebbe ordinariamente dedurre che quello denominato “disciplina del Piano” costituisca (con le integrazioni da ultimo dette) l’unico elaborato del Piano di indirizzo territoriale avente contenuto precettivo (essendo il valore degli altri, essenzialmente, oltre che espositivo, motivazionale e di supporto).
Conoscendo le modalità espressive consuete degli organi della Regione Toscana, non me la sento di asserire perentoriamente che così sia nelle intenzioni dei rappresentanti pro tempore di tali organi, sia tecnici che politici. Ma, per converso, ritengo che, invariate restando le espressioni utilizzate, nella loro singolarità e nel loro complessivo contesto, difficilmente eventuali intenzioni dei predetti organi radicalmente diverse dall’interpretazione da me appena sopra suggerita sarebbero avvalorate dalle istanze della giustizia amministrativa, nei casi di contenzioso.
Ad ogni buon conto, l’elaborato denominato “disciplina del Piano” proclama che “il presente Piano tutela i beni del paesaggio” [22] e specifica [23] che “la disciplina dei beni paesaggistici prevede”:
- “la ricognizione analitica dell’intero territorio nelle sue caratteristiche storiche, naturali, estetiche e nelle loro interrelazioni unitamente alla conseguente definizione dei valori paesaggistici da tutelare, recuperare, riqualificare e valorizzare, così come contemplata nell’elaborato intitolato I territori della Toscana che è allegato al quadro conoscitivo del presente Piano”;
- “l’analisi delle dinamiche di trasformazione del territorio attraverso l’individuazione dei fattori di rischio e degli elementi di vulnerabilità del paesaggio, nonché l’analisi comparata delle previsioni degli atti di programmazione, di pianificazione e di difesa del suolo”, e “l’individuazione degli ambiti paesaggistici”, entrambe contenute “nell’Atlante dei paesaggi toscani che è parte degli allegati documentali [il corsivo è mio. N.d.r.] per la disciplina paesaggistica”;
- “la individuazione” delle aree “vincolate” ope legis “insieme alle norme per la loro tutela e valorizzazione”, “la definizione di prescrizioni generali ed operative per la tutela e l’uso del territorio compreso negli ambiti individuati”, “la determinazione di misure per la conservazione dei caratteri connotativi delle aree tutelate per legge e dei criteri di gestione e degli interventi di valorizzazione paesaggistica degli immobili e delle aree dichiarati di notevole interesse pubblico”, “l’individuazione degli interventi di recupero e riqualificazione delle aree significativamente compromesse o degradate e degli altri interventi di valorizzazione”, “l’individuazione delle misure necessarie al corretto inserimento degli interventi di trasformazione del territorio nel contesto paesaggistico, alle quali debbono riferirsi le azioni e gli investimenti finalizzati allo sviluppo sostenibile delle aree interessate”, “la tipizzazione e l’individuazione […] di singoli immobili o di aree […] da sottoporre a specifica disciplina di salvaguardia e di utilizzazione”, le quali tutte “risultano dalla disciplina paesaggistica dei piani territoriali di coordinamento delle Province, assunta dal presente Piano e descritta nel documento intitolato Le qualità del paesaggio nei PTC, che è parte degli allegati documentali [il corsivo è mio. N.d.r.] per la disciplina paesaggistica.
L’elaborato intitolato I territori della Toscana, allegato, come detto, al quadro conoscitivo del Piano, ovvero, come parimenti detto altrove (sempre nella “disciplina del Piano”), costitutivo del quadro conoscitivo del Piano, in quanto “quadro analitico di riferimento”, associa a sintetiche descrizioni, sia sincroniche che diacroniche, di un rilevantissimo numero di articolazioni del territorio regionale, l’ancora più sintetica indicazione dei relativi “punti di forza” e “punti di debolezza”, escluso comunque restando qualsiasi suggerimento vagamente precettivo.
L’elaborato intitolato Atlante dei paesaggi toscani, che, come detto, è parte degli allegati documentali, ovvero, come parimenti detto altrove (sempre nella “disciplina del Piano”), è elemento costitutivo del quadro conoscitivo del Piano, denominandosi Atlante ricognitivo dei paesaggi, si configura come un abbastanza pregevole “album di cartoline”, riferito a un (diverso) rilevantissimo numero di articolazioni del territorio regionale, e corredato di notazioni, estremamente sintetiche, sia fotografiche che testuali (didascalie, in buona sostanza), afferenti le voci: geomorfologia, idrografia naturale, idrografia antropica, mosaico forestale, mosaico agrario, insediamento storico, insediamento moderno e contemporaneo, reti e impianti viari e tecnologici, alterazioni paesistiche puntuali profonde, alterazioni paesistiche indotte, emergenze paesistiche. Anche in questo caso, non è dato rintracciare qualsivoglia suggerimento vagamente precettivo.
L’elaborato intitolato Le qualità del paesaggio nei PTC, che, come detto, è parte degli allegati documentali, e che, altrove, nell’elenco degli elaborati costitutivi del Piano di indirizzo territoriale (sempre nella “disciplina del Piano”), non è neppure partitamente citato, costituisce un “florilegio”, come avrebbero detto ai tempi di mio nonno, ovvero un’”antologia”, delle disposizioni attinenti alla tutela del “paesaggio” (o, più latamente, dell’”identità culturale del territorio”) contenute nelle diversissime normative dei piani territoriali di coordinamento delle dieci province toscane.
La stragrande parte delle indicazioni che, secondo le dianzi letteralmente riportate espressioni della “disciplina del Piano”, dovrebbero “risultare dalla disciplina paesaggistica dei piani territoriali di coordinamento delle Province”, in realtà non risultano affatto in tale disciplina, e meno che mai in quella – selettivamente - “descritta nel documento intitolato Le qualità del paesaggio nei PTC”. In quest’ultimo documento, comunque, si evita scrupolosamente di riprodurre quei precetti, pur presenti nella disciplina dettata dai piani territoriali di coordinamento delle province, che abbiano corrispondenza biunivoca con specifiche categorie di elementi territoriali individuati in elaborati cartografici in scala adeguata, cioè le disposizioni puntualmente relazionate alle specifiche e peculiari caratteristiche conformative, meritevoli di tutela conservativa, dei concreti elementi territoriali considerati (non foss’altro che perché in tale documento non compaiono elaborati cartografici idonei a individuare tali elementi territoriali).
Quanto appena ora precisato è stato evidenziato in relazione all’assunto, ammesso per amor di dialettica, ma assolutamente non concesso, per cui a un documento qualificato come allegato documentale l’elaborato del Piano di indirizzo territoriale denominato “disciplina del Piano” potrebbe aver conferito efficacia precettiva, obbligante nei confronti dell’attività di pianificazione provinciale (che, sia detto per inciso, dovrebbe adeguarsi a sé medesima, venendo i suoi contenuti di molti anni addietro “congelati” nella nuova pianificazione regionale) e comunale.
Sempre ammesso e non concesso l’assunto predetto, esso ben difficilmente potrebbe ritenersi non confliggente con la dottrina della Corte costituzionale afferente alla pianificazione paesaggistica, la quale ha affermato [24] che il piano paesaggistico “deve essere unitario, globale, e quindi regionale”, e che a esso “deve sottostare la pianificazione urbanistica ai livelli inferiori”,e che “l'impronta unitaria della pianificazione paesaggistica” deve essere “assunta a valore imprescindibile, non derogabile dal legislatore regionale in quanto espressione di un intervento teso a stabilire una metodologia uniforme […]: il paesaggio va, cioè, rispettato come valore primario, attraverso un indirizzo unitario che superi la pluralità degli interventi delle amministrazioni locali” [i corsivi sono miei. N.d.r.].
L’elaborato denominato “disciplina del Piano” afferma quindi [25] che “la Regione […] provvede a implementare la disciplina paesaggistica contemplata nello Statuto di cui al presente Piano attraverso accordi di pianificazione […] con le Amministrazioni interessate”.
Ma, quantomeno in invarianza della legge regionale 1/2005, la definizione degli strumenti di pianificazione subregionali attraverso conferenze e accordi di pianificazione costituisce un possibile percorso procedimentale, alternativo a quello ordinario per cui ogni soggetto istituzionale competente procede alla formazione dei propri strumenti di pianificazione (e atti di governo del territorio) entro il circuito dei propri organi decisionali, essendo tenuto ad attivare la procedura della conferenza e dei susseguenti accordi di pianificazione “qualora emergano profili di incoerenza o di incompatibilità rispetto ad altri strumenti della pianificazione territoriale”, e non si intenda procedere a un mero adeguamento[26]. Altrimenti detto, qualsiasi soggetto istituzionale sub-regionale potrebbe tranquillamente ritenere, e agevolmente sostenere, che i contenuti dei propri strumenti di pianificazione (e atti di governo del territorio) non presentano alcun “profilo di incoerenza o di incompatibilità” con uno strumento di pianificazione regionale che non avesse, come emerge chiaramente essere nel caso del nuovo Piano di indirizzo territoriale della Regione Toscana, pressoché alcun reale contenuto precettivo. E conseguentemente non si vede perché dovrebbe attivare conferenze e accordi di pianificazione.
Sempre l’elaborato denominato “disciplina del Piano” stabilisce [27] che “l’autorizzazione [paesaggistica] è rilasciata sulla base della valutazione di compatibilità degli interventi rispetto al vincolo paesaggistico quale risulta dalla schede contemplate nel documento intitolato Schede dei vincoli paesaggistici, che è parte degli allegati documentali [il corsivo è mio. N.d.r.]., e che “costituiscono comunque riferimento per l’esercizio dell’attività autorizzativa […] le prescrizioni e le direttive contenute negli articoli 22, 23, 24, 25, 27 e 28 della presente disciplina”.
Premesso che è oscura la ragione per cui elaborazioni tanto – presuntivamente – rilevanti debbano costituire riferimento soltanto, a valle, per l’attività autorizzativa, e non, prioritariamente, a monte, per quella pianificatoria, occorre fare presente che le schede relative ai “vincoli paesaggistici” disposti con specifici provvedimenti amministrativi contengono esclusivamente sommarissime descrizioni dei valori riconosciuti nei siti interessati, così come i provvedimenti di istituzione del “vincoli”, ai quali provvedimenti soltanto il “Codice” ha imposto, a far data dalla sua entrata in vigore nel 2004, di recare anche precetti sostanziali [28]. Quanto alle prescrizioni e alle direttive contenute negli articoli puntualmente enumerati del medesimo elaborato denominato “disciplina del Piano”, si tratta delle disposizioni afferenti il “patrimonio collinare” e il “patrimonio costiero” della Toscana: disposizioni che i limiti quantitativi massimi imposti a questa comunicazione mi impongono di qualificare apoditticamente come rientranti in quella categoria di precetti che Bruno Visentini chiamava “norme che dispongono di volere bene alla mamma” (le quali, scontatamente, non vengono, in sede teorica, rifiutate neppure da Pietro Maso e da Erika Di Nardo).
Conclusivamente, trova ampia conferma, sulla base di una seppure ancora sinteticissima analisi critica dei suoi elaborati definitivi, il giudizio sommario sul nuovo Piano di indirizzo territoriale toscano pronunciato un paio di mesi or sono da Edoardo Salzano, dopo avere dato una veloce scorsa ai suoi elaborati provvisori: “un piano di chiacchiere”.
A chi voglia contestare questa mia conclusione, come a chi voglia confermarla, e soprattutto a chi voglia, laicamente, verificarla, propongo di effettuare la “prova della bontà del budino”, che, come dicevano i vittoriani inglesi, consiste nel mangiarlo.
Nella fattispecie, potrebbe consistere nel rintracciare, in tutti gli elaborati del nuovo Piano di indirizzo territoriale, un solo precetto che, domani, divenuto vigente tale piano, inibirebbe drasticamente la previsione e la realizzazione della famosa lottizzazione di Monticchiello (o di uno degli altri “schifi” che sono stati denunciati, e talvolta riconosciuti per tali dai vertici politico-istituzionali della Regione Toscana).
Che le inibirebbe, voglio dire, non a seguito di pressioni discrezionali, di contrattazioni tecniche e politiche, di scambi di varia natura, tra soggetti istituzionali e, concretamente, tra i loro reggitori pro tempore, il tutto sotto l’usbergo del vaniloquio sulla “equiordinazione” delle istituzioni, ma, invece, sulla base del (sacrosanto) principio fondamentale, introdotto nell’ordinamento repubblicano a far data dall’entrata in vigore della legge 8 giugno 1990, n.142, per cui la formazione degli strumenti di pianificazione non è più un “atto complesso ineguale”, ma, invece, vede subordinata la sua conclusione alla verifica della conformità degli strumenti, oltre che agli atti aventi forza di legge, alle disposizioni espressamente poste dai soggetti istituzionali sovraordinati nei propri strumenti di pianificazione.
[1] Si possono ricordare, per la loro precipua attinenza, le sentenze della Corte costituzionale 10 - 26 luglio 2002, n.407, 18 - 20 dicembre 2002, n.536, 19 dicembre – 20 gennaio 2004, n.26, 8 - 16 giugno 2005, n.232, 20 aprile – 5 maggio 2006, n.182; in http://www.cortecostituzionale.it..
[2] Sentenza della Corte costituzionale 182/2006, cit..
[3]Ibidem.
[4]Ibidem.
[5]Ibidem.
[6] Articolo 135, comma 1, del "Codice".
[7] Articolo 135, comma 3, lettera c), e articolo 143, comma 1, lettera g), del "Codice".
[8] Articolo 135, comma 3, lettera a), articolo 143, comma 1, lettere b) e f), nonché passim, del "Codice".
[9] Articolo 135, comma 2 e passim, e articolo 143, comma 1, lettere d) ed e), nonché passim, del "Codice".
[10] Articolo 142, comma 2, articolo 145, commi 3, 4 e 5, del "Codice dei beni culturali e del paesaggio".
[11] Articolo 145, comma 3, del "Codice dei beni culturali e del paesaggio".
[12] Si veda, per esempio, il comma 3 dell’articolo 33 della legge regionale 1/2005.
[13] Con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, su conforme deliberazione del Consiglio dei ministri in data 4 marzo 2005, notificato il 10 marzo 2005, e depositato il 15 marzo 2005.
[14] Con sentenza della Corte costituzionale 182/2006, cit..
[15] PIT, Piano di indirizzo territoriale della Toscana, disciplina del Piano, articolo 1, comma 1.
[16] PIT, Piano di indirizzo territoriale della Toscana, disciplina del Piano, articolo 1, comma 2.
[17] PIT, Piano di indirizzo territoriale della Toscana, disciplina del Piano, articolo 2, comma 2.
[18] PIT, Piano di indirizzo territoriale della Toscana, disciplina del Piano, articolo 2, comma 6, lettera b), primo “a linea”.
[19] PIT, Piano di indirizzo territoriale della Toscana, disciplina del Piano, articolo 2, comma 6, lettera b), secondo “a linea”.
[20] PIT, Piano di indirizzo territoriale della Toscana, disciplina del Piano, articolo 2, comma 6, lettere a) e c).
[21] PIT, Piano di indirizzo territoriale della Toscana, disciplina del Piano, articolo 2, comma 7, lettera b).
[22] PIT, Piano di indirizzo territoriale della Toscana, disciplina del Piano, articolo 31, comma 1.
[23] PIT, Piano di indirizzo territoriale della Toscana, disciplina del Piano, articolo 31, comma 3.
[24] Proprio nella sentenza con cui ha censurato la legge regionale toscana 1/2005, cioè nella sentenza 182/2006, cit..
[25] PIT, Piano di indirizzo territoriale della Toscana, disciplina del Piano, articolo 33, comma 1.
[26] Legge regionale 1/2005, articolo 16, comma 4, articolo 17, articolo 18, articoli 21, 22 e 23.
[27] PIT, Piano di indirizzo territoriale della Toscana, disciplina del Piano, articolo 34, commi 2 e 3.
[28] Articolo 138, comma 2, e articolo 140, comma 2, del "Codice".
Può darsi che il Sindaco di Olbia, allorquando ha ipotizzato (o auspicato? o invocato?) “un colpo di pistola o di fucile alla testa” del Presidente della giunta regionale della Sardegna, Renato Soru (mai nessuno mi costringerà a chiamarlo “governatore”), fosse stato fatto uscire di senno da un qualche dio, come suppone chi ne ha postillato la notizia in eddyburg.it (“Ppr, Nizzi passa alle minacce: un colpo di pistola contro Soru” – Società e politica – Dai giornali del giorno).
Forse qualche dio (magari il medesimo) aveva obnubilato gli intelletti (già però sovraccarichi di istigazioni all’odio, e all’azione omicida) di quegli squadristi che, quasi giusto ottant’anni or sono, assalirono la casa cagliaritana di un altro eminente uomo politico sardo, del quale porto il nome (anche se d’abitudine ometto di riportarlo nel firmarmi: ma mi propongo di rimediare). Mi riferisco, ovviamente, a Emilio Lussu: che, impugnata la sua pistola, respinse l’attacco dopo avere ucciso il primo squadrista affacciatosi in casa sua. Per la qual cosa fu assolto in istruttoria, per legittima difesa, da giudici non ancora asserviti al regime fascista, ma condannato in via amministrativa a cinque anni di confino a Lipari. Mio padre, allora poco più che ventenne, che negli anni precedenti aveva percorso in lungo e in largo la Sardegna partecipando alla scorta (armata) di Lussu, si rammaricò per tutto il resto della sua vita per non essere stato, il giorno dell’assalto, accanto al suo “padre spirituale” (così lo chiamava: d’accordo, era un sentimentale un po’ retorico). E a nulla valeva segnalargli che l’irruento ufficiale della Brigata Sassari era (e aveva dimostrato di essere) capace di cavarsela anche senza l’ausilio di un giovane studente in medicina, che amava allora, e avrebbe poi sempre amato, le partite di caccia, ma inanellando “padelle”, salvo mangiare di gusto pernici, cinghiali e altra selvaggina ammazzata dai compagni di battuta.
Ad ogni buon conto, Emilio Lussu ha legato in modo imperituro il suo nome (tra l’altro) alla tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione. Si deve a lui, infatti, se la Costituente sancì che il perseguimento di tale finalità compete alla Repubblica, cioè a tutte le sue articolazioni: Stato, regioni, province (o, oggi, città metropolitane), comuni. Con ciò ponendo le premesse acché il “giudice delle leggi”, vale a dire la Corte costituzionale, bocciasse impietosamente i tentativi, operati a seconda del “clima” prevalente, e talvolta, negli ultimi anni, imperando la babele dei linguaggi, degli intendimenti, degli interessi in conflitto, dei tatticismi autoreferenziali, anche quasi simultaneamente, ora nella legislazione statale, ora in quella regionale, di escludere talvolta lo Stato, talaltra il sistema regionale-locale, talaltra ancora soltanto le regioni, ovvero soltanto gli enti locali subregionali, dal diritto/dovere di concorrere alla predetta finalità, costituzionalmente posta (la qual cosa non implica affatto distribuzione delle medesime competenze a tutti i soggetti istituzionali anzidetti, né equiordinazione dei poteri).
Probabilmente si deve (anche) alla lezione di Emilio Lussu, tanto appassionato difensore dell’”identità culturale” della sua isola quanto “internazionalista” e curioso delle più diverse “culture” del mondo (assieme alla sua compagna Joyce, traduttrice di poeti albanesi, curdi, vietnamiti, angolani, mozambicani, afroamericani, eschimesi, aborigeni australiani), se fin dall’infanzia mi fu proposta la lettura, o almeno la consultazione, dei libri del prozio Dionigi Scano (ingegnere, ma soprattutto Vice-presidente della Società storica sarda): “Storia dell’arte in Sardegna dal XI al XIV secolo”, Chiese medioevali di Sardegna”, “Forma Kalaris”. Sulle caratteristiche del paesaggio sardo, all’inizio degli anni ’50, non c’era, in letteratura, molto, o, almeno, mio padre aveva maggiori difficoltà a trovarlo. Provava a supplire portandomi al mare, da Cagliari (dove lui lavorava, e tutti abitavamo), a Cala Mosca (di allora) più che al Poetto, e da Oristano alle paludi di Cabras e alla penisola del Sinis, e da Morgongiori (suo paese natale del quale per brevissimo tempo fu sindaco) su e giù, a cavallo, per le pendici del Monte Arci, e anche (bagassa! che fatica micidiale) per la Giara di Gésturi.
Per il mio diciannovesimo compleanno (eravamo da un sacco di tempo tornati “in continente”, e da qualche anno a Venezia, dove mio padre si era sposato, e io ero nato) mi regalò un libro, di Nicola Valle, intitolato “Scompare un’isola”. Credo soprattutto per potere scrivere, nella dedica, “anche tu, Luisicu, sarai tra quelli che non permetteranno che quest’isola scompaia”.
Si illudeva. Non ho fatto niente, specificamente, per la sua isola. Forse (mi illudo? voglio illudermi?) ho concorso a fare qualcosa per tutelare l’”identità culturale” (e l’”integrità fisica”) del territorio di qualche altro pezzo d’Italia, qua e là, e ho fornito qualche strumento (di dottrina giuridica, di ermeneutica giurisprudenziale) a quanti altri altrettanto volessero fare, in qualche altro posto d’Italia, qua e là.
Ma altri hanno fatto, egregiamente, negli ultimi tempi. Altri hanno redatto un piano paesaggistico regionale che pone le premesse (certo: nulla più che questo) affinché la Sardegna non “scompaia” (nelle sue caratteristiche costitutive e salienti, ovviamente, cioè non divenga la squallida, degradata, volgare, tragica maschera imbellettata di sé stessa: come, a esempio non casuale, sta diventando, o forse è già irreversibilmente avviata a diventare, la città delle mie radici materne, Venezia). Altri hanno voluto quel piano, e ne hanno deciso l’entrata in vigore. Una grandiosa operazione collettiva, sorretta e spronata e pretesa (a quel che ne so) dal Presidente della giunta regionale della Sardegna, Renato Soru.
Al quale, oggi, qualcuno (in consapevole o inconsapevole continuità con un passato che forse non passa proprio) promette che “avrà del piombo”.
Ebbene: così come, un po’ meno di quarant’anni or sono, a seguito di un’infelicissima battuta di un uomo politico francese di tutt’altra statura (non voglio fare dello spirito), più di metà della Francia proclamò “siamo tutti ebrei tedeschi!”, oggi chiunque sia interessato alla tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione, e anzi chiunque sia interessato alla preservazione, nel nostro Paese, della dialettica politica liberal-democratica, è chiamato a proclamarsi partecipe “di quella gabbia di matti che sta amministrando la Sardegna”, e solidale con il suo “temibile tiranno”, il Presidente della giunta Renato Soru. E ad affermare, come l’anno scorso i ragazzi di Locri, “e adesso ammazzateci tutti”.
Un incontro memorabile, quello che ha avuto luogo l’altra sera a Bressana Bottarone, organizzato da diverse organizzazioni ambientaliste e culturali impegnate sul territorio. Tema principale la nuova autostrada.
La sala del teatro, presso il palazzo comunale, era gremita: duecento persone, forse di più, che attente e partecipi hanno seguito la serata che ha avuto come ospite d’onore Luca Mercalli, lo studioso di meteorologia reso famoso dal programma Tv di Fazio “ Che tempo che fa?”. Ma il pubblico non era accorso per ascoltare in Vip, peraltro civilmente impegnato in sacrosante battaglie di difesa ambientale. Né era lì – come accade in certi festival culturali – perché ci sono serale alle quali, se si è gente di mondo, non si può mancare. No, i cittadini presenti all’incontro di Bressana erano lì perché davvero coinvolti nei temi proposti: ovvero i nodi cruciali di un territorio – che costituisce peraltro una parte significativa della nostra provincia – messo sotto assedio da una certa idea di sviluppo. Erano lì perché davanti ai tanti incastri con cui si sta progettando di mutare radicalmente l’assetto attuale di tante località – con l’autostrada Broni-Mortara, con l’interporto, con centri commerciali e altri progetti ancora che stanno sopra le loro vite come altrettante spade di Damocle – loro vogliono capire, chiedono di sapere e di poter avere voce in capitolo.
Come moderatore dell’incontro, mi ha impressionato non solo la quantità di persone presenti, ma la qualità della loro partecipazione, asseverata dalla dozzina di interventi che si sono susseguiti: serrati, concreti, documentati. Una polifonia rappresentativa delle molteplici iniziative ed esperienze che sono sorte in tutti questi mesi nella realtà a cavallo tra il Pavese, la Lomellina e l’Oltrepo: presenze che hanno lavorato con passione per studiare i dossier dei progetti, nonostante la frettolosa arroganza con cui le istituzioni e la pubblica amministrazione avrebbero voluto raccogliere un distratto consenso senza consentire un reale esame di come stavano le cose. Invece, con passione civile assolutamente stupefacente, queste persone hanno saputo lavorare assieme. Hanno bussato a tante porte, alcune pervicacemente chiuse, per raccogliere dati, procedere a comparazioni, sentire la valutazioni dei tecnici, avanzare proposte e alternative. Tutto questo rappresenta una ricchezza di partecipazione civile che fa onore alla nostra comunità e che, in un mondo che non gira al contrario, dovrebbe essere valorizzato al massimo.
Tanto per capirci, l’incontro di Bressana avrebbe dovuto vedere le forze politiche, e i loro rappresentanti, schierati e presenti: per ascoltare, dialogare, confrontarsi. Solo così si favorisce la tessitura di una vera e rispettosa democrazia capace di cimentarsi con temi concreti, non con fumosità ideologiche o psicodrammi di nascite e morti di soggetti politici più o meno improbabili.
E invece a Bressana la politica dei partiti non c’era. Alla riuscitissima serata la politica dei politici – segretari di federazione, deputati e senatori, sindaci e assessori e, perché no? esponenti di partito immessi nei consigli di amministrazione di autostrade o interporti – non ha partecipato: ha ritenuto non fosse necessario lo scomodarsi per andare ad ascoltare e per farsi ascoltare.
Un errore, di sensibilità e di percezione, particolarmente grave visto anche il tema su cui ci si stava confrontando. A meno di sostenere che, di quei dossier, la politica si sta già occupando, ma i naltra sede e preferisce che i cittadini non interferiscano.
Insomma, lasciateci guidare lo sviluppo.
E, soprattutto, “non disturbate il manovratore”.
Roberto Lodigiani
Stop all’avanzata di asfalto e cemento
Bressana – La cipolla di Breme contro gli asparagi bianchi made in China. Luca Mercalli usa una metafora volutamente provocatoria per sottolineare la fertilità del suolo padano, minacciato dalla cementificazione selvaggia, alla quale l’autostrada regionale Broni-Pavia-Mortara potrebbe dare un ulteriore incremento. Il meteorologo di casa Fazio è stato uno dei protagonisti dell’incontro di Bressana.
Una simbolica chiamata alle armi per il fronte del no alla superstrada il cui iter avanza nonostante il fuoco di sbarramento. Proprio il dibattito nella sala conferenze del municipio di Bressana, gremita di pubblico, è valso a lanciare ufficialmente l’ultima proposta, quella di annullare la procedura autorizzativi dell’opera, visto che gli impegni assunti alla conferenza dei servizi, come l’analisi dell’impatto ambientale, sarebbero stati disattesi. Fronte del no all’autostrada attento e compatto. CI sono gli esponenti del coordinamento delle associazioni locali, ecologiste e non (Italia Nostra, Legambiente, Wwf Oltrepo, comitato Parco Visconteo, Terra Celeste, Insieme, La Rondine); ci sono le rappresentanti del neonato comitato donne, che si unirà alla lotta; c’è Valeria Bevilacqua, portavoce del comitato Cascina Bella, che allarga l’orizzonte per ribadire la contrarietà all’interporto, l’altro progetto che agita i sonni degli ambientalisti, e annunciare l’imminente consegna al sindaco Eddy Latella della petizione anti-logistica con 1.300 firme.
E c’è il gruppo degli “Amici di Beppe Grillo”, che ha fatto della Broni-Mortara uno dei suoi cavalli di battaglia. Con un contributo giocato innanzitutto sui numeri dell’impatto che verrà prodotto dall’autostrada, documentato da un filmato: 45.000 veicoli in transito al giorno, incremento degli ossidi di azoto e delle polveri sottili in aree, come quella di Tre Re-Cava Manara, dove oggi si registrano livelli di Pm10 al di sopra dei limiti di guardia, secondo i dati diffusi dall’Arpa. Altre cifre eloquenti sono state prodotte sull’effetto cementificazione. Oltre 13mila ettari di suolo agricolo cancellati dal 1950 al 1998 in provincia di Pavia, e un tasso annuo di ettari “bruciati” salito dai 270 ettari di quel periodo ai 355 dei sei anni compresi fra il 1998 e il 2004; particolarmente pesante la situazione in Oltrepo, con il 12% dei suoli agricoli di pianura cancellati fra il 1961 e il 2000. Mercalli, dal canto suo, ha posto l’accento sull’esigenza di salvaguardare la nostra autosufficienza alimentare, difendendo suoli fertili come quelli della pianura padana.
Sullo stesso tema si vedano Lo Share dello Sprawl; La Fabbrica dello Sprawl; Fermate quell'autostrada nel Parco Ticino - altri links nel pdf allegato al "La Fabbrica ..." (f.b.)
La mostra ViviMi alla Triennale spiega che tra il 2000 e il 2004 nella provincia si sono costruiti 68 milioni di metri cubi di nuova edilizia.
Come sono queste nuove costruzioni? Come quelle che le hanno precedute. Il guaio delle mostre è di subire il fascino delle belle immagini, anche se sono immagini che non rappresentano nulla di bello e, con questo involontario artificio, imbelliscono tutto. Bisogna proprio che il soggetto sia terribile perché una sua bell´immagine solleciti in noi solo orrore, disgusto o pietà. Senza arrivare a tanto dico che la mostra ViviMi ha nobilitato una realtà che, per chi la conosce, non è quella descritta, è peggio. Basta girare per la provincia in automobile, lasciare i nuclei storici dei centri abitati, per provare un senso di disagio visivo e d´inquietudine in questo quasi continuo di costruito fatto di piccoli lotti impenetrabili circondati da muri di cinta o da siepi: la fuga nel privato che pone un´infinità di problemi e d´interrogativi. Potremmo stare a ragionarvi sopra per giornate intere, domandarci per esempio se le vittime delle "rapine in villa" avevano messo in conto anche quest´evenienza quando hanno fatto la loro scelta residenziale o se hanno ben valutato la fatica di accompagnare i figli a scuola in macchina tutte le mattine.
In ogni modo ha prevalso un modello, che è ovviamente frutto di una cultura, in questo caso con una forte componente imitativo-emulativa. Una cultura del tutto impermeabile, direi anzi ostile, alla cultura urbanistica prevalente tra i cultori di questa disciplina: una sconfitta dell´urbanistica ragionata, che vuole essere allo stesso tempo almeno parsimoniosa nell´uso delle risorse territoriali ma non preconcettualmente ostile ad ogni trasformazione o sviluppo. Dal mero punto di vista estetico, salvo rarissime eccezioni, le case unifamiliari sono il peggio che si possa immaginare (non solo in Brianza od in Italia) ed anche qui il deficit di cultura ma anche di tradizione ha colpito ancora. La casa unifamiliare in Italia, a differenza dell´Inghilterra o d´altri paesi soprattutto nordici, non ha storia né modelli storici. Quanto all´architettura, venendo ai nuclei urbani, le cose non vanno molto meglio. E´ difficile spiegare l´ostilità tutta milanese al nuovo, soprattutto se alto, che serpeggia in città assumendo molto spesso il connotato di una rivendicazione del diritto ad una sorta di "servitù di panorama" che l´ordinamento giuridico italiano non contempla e che è stato riconosciuta solo nei casi nei quali si accompagna a violazioni d´altre norme urbanistiche: servitù la cui violazione è anche difficilmente quantificabile in termini di danno economico.
Una sconfitta dell´architettura? Forse sì se penso al vecchio adagio veneziano: «Non vorrei esser padrone della Ca´ d´Oro ma di quella di fronte», che tradotto in milanese suonerebbe «Non vorrei essere il priore di Sant´Ambrogio ma vedere la basilica dalle mie finestre». I fondatori del Pd del Nord hanno da poco lanciato il loro grido localistico: «Federalismo fiscale, fisco e redditi, sicurezza e infrastrutture». Forse secondo loro l´urbanistica può ancora aspettare. Peccato.
E’ giunto in discussione alla X Commissione del Senato della Repubblica (ma coinvolgerà anche altre Commissioni senatoriali) il ddl N° 1532 “Modifiche alla normativa sullo sportello unico per le imprese e disciplina dell’avvio dell’attività di impresa”, primo firmatario Daniele Capezzone, già approvato dalla Camera dei Deputati il 24 aprile u.s. nel più assoluto silenzio generale.
Il ddl N° 1532 è così sintetizzabile in uno slogan che ne volesse pubblicizzare i contenuti: “Un’impresa, ovunque e comunque… e in soli 7 giorni!!!!” .
Lo slogan contiene i due “principi” che sono al contempo i maggiori pericoli insiti nell’iniziativa: la collocazione di impianti produttivi anche in deroga alle norme urbanistiche e paesaggistiche vigenti e l’eccezionale brevità temporale di questa operazione.
Questo in dettaglio è quanto prevede l’articolato.
L’Art. 1, c. 2, definisce gli impianti produttivi come quelli relativi a tutte le attività di produzione di beni e servizi, ivi inclusi le attività agricole, commerciali e artigianali, le attività turistiche e alberghiere, i servizi resi dalle banche e dagli intermediari finanziari e i servizi di telecomunicazioni.
L’Art. 1, c. 3 e segg, prevede per ogni Comune l’istituzione dello sportello unico per le imprese (anche in forma associata tra comuni) o la designazione dell’Ufficio che dovrà assorbire al suo interno i compiti previsti dal ddl. A tale sportello unico o a tale Ufficio sono attribuite tutte le competenze inerenti i titoli autorizzativi, a cominciare dalle dichiarazioni e dalle domande.
L’Art. 1, c. 8, elenca i casi in cui non occorre autorizzazione alcuna (utilizzazione dei servizi presenti che non comportano ulteriori lavori nelle aree ecologicamente attrezzate istituite dalle regioni, utilizzando prioritariamente zone con nuclei industriali già esistenti, anche se dismessi).
L’Art. 1, c. 9, definisce il caso in cui il progetto di impianto produttivo contrasta con lo strumento urbanistico (qualora lo stesso non abbia aree industriali sufficienti o non utilizzabili da quel progetto) perché interessa aree classificate agricole, residenziali, per attrezzature ecc.. Lo sportello unico “immediatamente” convoca la conferenza di servizi degli organismi interessati in seduta pubblica e in tale conferenza acquisisce e valuta le osservazioni. La conferenza deve tenersi entro 7 gg. dalla presentazione della documentazione (Art. 3, c. 2).
Il verbale della riunione è inviato poi al Consiglio comunale che delibera entro 30 gg. con decisione definitiva. Nel caso in cui il Consiglio comunale non dia parere positivo il Consiglio comunale stesso può deliberare una diversa localizzazione o diverse modalità di realizzazione del progetto. Se la conferenza dei servizi delibera conformemente a quanto indicato nella delibera comunale il progetto può essere realizzato senza alcun ulteriore passaggio, bastando una autodichiarazione di conformità tecnica.
L’Art. 2 esclude la possibilità di dare immediatamente avvio agli interventi quando la verifica di conformità comporta valutazioni discrezionali da parte della pubblica amministrazione (ad es. per i profili attinenti la tutela del patrimonio culturale e paesaggistico, la difesa nazionale, la tutela dell’ambiente……). In questo caso (Art. 3), lo sportello unico convoca per via telematica la conferenza dei servizi inviando, sempre per via telematica, la documentazione alle amministrazioni competenti che hanno 30 gg. di tempo per manifestare l’eventuale “motivato dissenso”. Se il “motivato dissenso” è espresso da amministrazioni in merito alla tutela paesaggistica, ambientale, della salute…..la decisione finale è rimessa al Consiglio dei Ministri o ai competenti organi collegiali degli enti territoriali cui appartiene l’amministrazione dissenziente. Questi Organismi tuttavia hanno a disposizione 30 gg. per deliberare (Art. 3, c. 6). Immaginiamo cosa può succedere nei palazzi dell’arbiter romano subissati dalle pratiche affluite dai comuni! E il silenzio entro quel brevissimo termine, in pratica infine obbligato, varrà consenso ad ogni intervento benché lesivo dei valori del paesaggio e della salute!
Il ddl N° 1532 pericolosamente introduce nuove prassi che cancellano i principi dell’urbanistica e quelli della partecipazione collettiva alla programmazione del territorio.
Per le attività produttive (intese nel senso lato di cui sopra), e solo per esse, su richiesta dei singoli diviene possibile introdurre varianti allo strumento urbanistico comunale senza seguire l’iter partecipativo e di coinvolgimento collettivo previsto sin dal 1942 (epoca fascista!): presentazione della variante urbanistica, adozione della stessa da parte del Consiglio comunale, pubblicazione, presentazione di osservazioni da parte dei cittadini, accoglimenti e/o controdeduzioni, definitiva approvazione del Consiglio comunale.
La variante allo strumento urbanistico secondo il ddl 1532 può essere decisa dalla conferenza di servizi e da un solo passaggio nel consiglio comunale! La partecipazione non può essere garantita dal fatto che la conferenza di servizi è pubblica (Art.3, c. 5) e che ad essa possono partecipare, senza diritto di voto, i soggetti portatori di interessi pubblici o privati, individuali o collettivi, nonché i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o in comitati che vi abbiano interesse e che possono proporre osservazioni in tale contesto. Ma in quale modo potranno essere avvisati e coinvolti tutti questi portatori di interessi privati o diffusi nell’inesistente tempo a disposizione?
Italia Nostra richiede ai Parlamentari impegnati nell’esame del provvedimento un’attenta ponderazione, nel senso ora descritto, sulle pericolose norme che possono portare ad una progressiva distruzione degli equilibri territoriali.
Quali Comuni, grandi e piccoli, avranno la capacità di anteporre l’interesse del territorio, resistendo alle richieste di impianti in ogni dove dettate da convenienze di singoli imprenditori e accompagnate dal miraggio delle sirene occupazionali?
Italia Nostra ribadisce l’importanza del principio di pianificazione che non può essere negato dalla volontà di razionalizzare e ridurre il tempo delle autorizzazioni, volontà sicuramente condivisibile, ma che non può essere perseguita a discapito dell’equilibrato sviluppo del territorio, contro il principio della partecipazione collettiva alle scelte che sul territorio incidono e perfino in danno del paesaggio e della salute.
Roma, 13 giugno 2007
La straordinarietà, quantitativa e qualitativa, del patrimonio culturale di cui dispone l’Italia spiega come, già a partire dal 1800, il legislatore italiano, anche se a singhiozzo e conformemente alla mutevole e contingente sensibilità verso la materia, sia intervenuto per definire i principi, gli istituti generali e l’assetto istituzionale relativo alla amministrazione dei beni culturali e ambientali.
Il rinnovato entusiasmo recentemente manifestato anche in ambito europeo, unitamente alle esigenze di adeguamento della disciplina conseguenti alla riforma costituzionale italiana del 2001, hanno prodotto il D.Lgs. 22.1.2004 n. 42 (così come successivamente modificato ed integrato dai D.Lgs. n. 156 e D.Lgs. n. 157 del 24.3.2006) - meglio noto come Codice Urbani - che rivaluta e riorganizza l’intera materia secondo criteri di organicità, sistematicità e completezza.
Il Codice dei beni culturali e del paesaggio sembra ispirato ad una filosofia nuova: l’accresciuta, generalizzata, sensibilità verso la tutela mira alla realizzazione concreta della funzione propria dei beni culturali e ambientali, ossia l’elevazione spirituale dell’uomo e il progresso della civiltà. Le esperienze passate, probabilmente, hanno chiarito che ciò è possibile solo a condizione che la tutela e la valorizzazione siano effettive, efficaci e capaci di garantire una protezione attiva e diffusa dei beni. Obbiettivo, quest’ultimo, che il Codice tenta di perseguire predisponendo un sistema di garanzie che, col supporto di un articolato impianto sanzionatorio, impegna soggetti istituzionali (Ministero per i beni e le attività culturali, Soprintendenze, Regioni, Enti pubblici territoriali) e privati (proprietari, possessori, detentori dei beni e associazioni portatrici di interessi diffusi). Detto coinvolgimento si esplica attraverso la previsione di divieti, doveri, diritti, poteri e facoltà individuali [1] e di forme di partecipazione, intesa, coordinamento, cooperazione e sostituzione [2].
Ma è nella applicazione pratica dei suoi principi, che spesso ha evidenziato vistose contraddizioni, che si può cogliere appieno la portata innovativa del Codice rispetto alla disciplina previdente.
L’esperienza Sarda, tutt’ora in corso, ne costituisce un esempio lampante.
Karalis - Cagliari – deve il suo nome alla conformazione collinare del suo paesaggio urbano. In pieno centro cittadino è situato il Colle di Tuvixeddu-Tuvumannu, che occupa una superficie di circa 48 ettari ed ha il privilegio di custodire (nel versante sud occidentale) la più grande necropoli punico-romana del Mediterraneo: centinaia di sepolture scavate nella roccia, impreziosite da decorazioni ed arricchite da corredi funerari, disseminate in uno spazio di circa 10 ettari, è ciò che rimane dopo l’attività di cava e le devastazioni edilizie incontrollate degli anni ’70.
Ebbene, i recenti esperimenti di tutela di quest’area, di eccezionale valore storico-paesaggistico, evidenziano molto bene i mutamenti di prospettiva e la conseguente diversa incisività degli interventi pre e post codicistici.
Complice la travagliata esperienza Sarda in tema di pianificazione territoriale paesistica, il vincolo paesaggistico imposto nel 1997 [3], si è rivelato incapace di conferire all’area una adeguata tutela. Tant’è che l’Accordo di Programma sottoscritto qualche anno dopo dalla Regione Autonoma della Sardegna e dal Comune di Cagliari [4] (attuale proprietario della porzione di area sulla quale insiste il realizzando Parco), al fine di concordare le modalità di programmazione, esecuzione e coordinamento delle rispettive competenze nell’ambito di un vasto progetto di riqualificazione ambientale e urbana dell’intera zona, interveniva su luoghi il cui aspetto originario era già fortemente compromesso. Oltre alla realizzazione di un Parco archeologico-naturalistico denominato “Karalis”, l’Accordo prevedeva l’esecuzione di una serie di iniziative immobiliari, rientranti nell’ambito del Piano Integrato d’Area – P.I.A. [5], a sua volta recepito integralmente dal Piano Urbanistico Comunale di Cagliari del 2004, con la conseguente sottomissione a vincolo archeologico diretto di solo 20 dei 48 ettari costituenti estensione totale dell’area. Sulla restante porzione insisteva il progetto di sviluppo edilizio e stradale che, essendo ritenuto compatibile e fattibile, otteneva il nulla osta paesaggistico[6].
L’entrata in vigore del Codice Urbani (risalente al 1.5.2004) si è abbattuta furiosamente sulla esasperante lentezza degli iter amministrativi necessari alla emanazione dei provvedimenti miranti alla salvaguardia e sulle scelte di tutela approssimativa dei relativi beni. Così, dopo essere stato consegnato ad anni di abbandono e degrado, il colle di Tuvixeddu-Tuvumannu ha improvvisamente acquisito una posizione centrale nell’ampio dibattito sulla nuova concezione di tutela culturale e ambientale. Le problematiche intorno alle quali si incentra la disputa sono tante quanti sono i soggetti coinvolti e i relativi interessi contrapposti, e sono tanto più accese quanto più l’inversione di rotta, rispetto al vecchio sistema di protezione, si è dimostrata repentina ed intransigente.
In particolare il Codice [7] si è rivelato sia uno strumento utilissimo per rafforzare gli obbiettivi di tutela del patrimonio culturale che una occasione imperdibile per adottare il tanto sperato Piano Paesaggistico Regionale[8] che, classificando il Colle di Tuvixeddu-Tuvumannu quale bene paesaggistico di interesse storico culturale, è stato solo il primo di una lunga serie di interventi ispirati al Codice Urbani.
Infatti, sulla scorta di questa disciplina, il vincolo è stato rafforzato imponendo la misura cautelare della inibizione o sospensione dei lavori, comunque riferibili alle opere (pubbliche e/o private) intraprese sull’area di Tuvixeddu, in quanto ritenuti idonei a recare pregiudizio all’area tutelata[9]. Al fine di superare l’efficacia interinale del provvedimento, la neonata Commissione regionale per il paesaggio[10], ha proposto la dichiarazione di notevole interesse pubblico ex art. 140 e la ripartizione dell’area in quattro zone con decrescente intensità di tutela. L’attività della Commissione è, poi, confluita nell’intervento diretto della Regione da esplicarsi essenzialmente nella rimodulazione del P.I.A., la cui approvazione è stata equiparata a dichiarazione di pubblica utilità ai sensi dell’art. 98 del Codice [11].
Questi fatti esprimono l’aspetto più determinato, quasi “intransigente”, della filosofia di tutela fatta propria dal Codice applicata al caso concreto, di cui è un chiaro segnale anche l’iniziativa Regionale volta all’attivazione delle procedure di esproprio (ex art. 96) per causa di pubblica utilità e per fini strumentali, di edifici ed aree limitrofe ai beni ed alle aree oggetto di tutela, al fine di “…assicurare luce e prospettiva…” nonché “…garantire o accrescere il decoro o il godimento da parte del pubblico e facilitarne l’accesso”. Dal punto di vista pratico questa prolifica attività deliberativa si è tradotta in una stratificazione di vincoli che, ancora oggi, convivono sopra la stessa area: un vincolo di natura storico-culturale, uno (più esteso) di natura paesaggistica ed il terzo di conservazione integrale [12].
A tutti questi interventi, complessivamente valutati in vista dell’importante risultato che si propongono di perseguire, non si può se non riconoscere il valore della grande conquista, tuttavia è necessario essere coscienti del fatto che i frutti di questi sforzi (anche in termini di effettivo godimento dei beni da parte della collettività) si potranno cogliere (ad essere ottimisti) non prima del medio-lungo periodo. Infatti, lungaggini burocratiche a parte, rimane il fatto che porsi l’obbiettivo di tutelare e valorizzare il patrimonio culturale secondo uno spirito che non ha precedenti, potrebbe non bastare o addirittura produrre conseguenze dannose, se il regime rivoluzionario che ne scaturisce è destinato ad operare in un contesto – in termini di struttura organizzativa e sociale - non adeguatamente, preventivamente e gradualmente preparato ad accogliere i rinnovati principi. Ciò vale, a maggior ragione, se si vuole introdurre un regime che, rispetto al precedente, appare rivoluzionario.
L’esperienza che qui si sta analizzando, offre diversi spunti di riflessione anche sotto questo ulteriore profilo.
Si è visto che gli interventi protettivi sul patrimonio di Tuvixeddu, seppure tardivi nella prospettiva di evitare i danni (passati e presenti) oramai subiti dall’area, rivelano la chiara intenzione di avviare l’adeguamento tempestivo al Codice Urbani, il che rende auspicabile sia il recupero (nei limiti del possibile) dei beni già danneggiati sia, soprattutto, l’assunzione di scelte che (almeno per il futuro) possano scongiurare nuovi eventi dannosi.
In termini generali (anche se non è certamente questa la sede per approfondire la questione) è utile ricordare, in proposito, che l’impianto sanzionatorio predisposto dal Codice Urbani (che in gran parte raccoglie l’eredità della L. 1089/1939, successivamente trasfusa nel D.Lgs. 490/1999), contempla una notevole varietà di comportamenti illeciti in quanto dannosi e/o pericolosi per il patrimonio culturale, rilevanti dal punto di vista penale e amministrativo [13].
Per entrare nello specifico della realtà che si sta analizzando (e senza presunzione di fornire un quadro completo di tutti gli effetti patologici, scaturiti o scaturibili) sin d’ora sembra potersi affermare con certezza che il danno derivato dalla modifica irreversibile dell’assetto morfologico–ambientale e storico-culturale dei luoghi, causato dagli interventi già intrapresi sulla zona a vario titolo è, praticamente, inestimabile. Stesso discorso vale per il danno da mancata fruibilità collettiva delle bellezze dell’area, causato dapprima dall’abbandono e dal disinteresse e, successivamente, da un interesse soffocante che, in definitiva, ha determinato il blocco degli interventi di completamento del parco archeologico.
Dal lato opposto, ma sempre nella prospettiva di una battaglia in cui tutti abbiamo perso qualcosa, lo stravolgimento dei principi che, sino all’era Urbani, avevano caratterizzato le scelte di convivenza tra interessi legati allo sviluppo urbano e interessi di tutela ambientale e culturale, non poteva se non scatenare una forte reazione da parte di chi, nel pregresso sistema, aveva maturato delle aspettative, tanto più se legittime, degli interessi o peggio acquisito dei diritti e intrapreso degli investimenti. L’importanza dei danni, di natura eminentemente patrimoniale, che ne scaturiscono è tale che sarebbe inverosimile aspettarsi un sacrificio silenzioso, anche se in gioco vi è la tutela di un bene costituzionalmente protetto.
L’esperienza Sarda (che sicuramente non è l’unica) sembrerebbe mostrare come i buoni propositi contenuti nel Codice Urbani, non solo possono essere vanificati dalla carenza di un idoneo supporto organizzativo, ma addirittura possono rivelarsi controproducenti se imposti senza la preventiva, adeguata ricognizione (obiettiva e realistica) delle caratteristiche che distinguono il contesto ambientale e sociale destinato ad accoglierli che, spesso, deve confrontarsi con la difficoltà di percepire il patrimonio culturale come un bene comune, come plusvalore per la collettività che lo detiene.
È certo che una seria iniziativa di vincolo sulla base del nuovo Codice “non poteva se non scatenare una forte reazione da parte di chi, nel pregresso sistema, aveva maturato delle aspettative, tanto più se legittime”. Ma non sembra affatto che tali aspettative possano configurarsi come l’acquisizione di diritti. Ciò è confermato, oltretutto, dal fatto che il TAR ha rifiutato la sospensione dell’atto di vincolo. Se l’amministrazione dovesse poi ristirare il “danno patrimoniale” subito dai proprietari di “un bene costituzionalmente protetto”, questo non potrebbe essere superiore alle spese sostenute dai proprietari per realizzare gli interventi legittimamente autorizzati, sulla base della loro rigorosa documentazione. A nostro parere, di fronte alla portata del’obiettivo perseguito dai fautori della tutela, non è utile avanzare dubbi poco fondati sulla benefica iniziativa della Regione Autonoma della Sardegna, che certamente ha colto tutte le potenzialità del Codice e della sua impostazione innovativa, giustamente sottolineata dall’Autrice.
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[1] Quali, ad esempio, il divieto di distruzione, danneggiamento e di uso incompatibile con la funzione culturale di cui all’art. 20; il divieto di uscita definitiva dei beni dal territorio della Repubblica, di cui all’art. 65; il divieto di alienazione di beni culturali demaniali, di cui all’art. 54; gli obblighi conservativi ed il relativo diritto alla erogazione di contributi, di cui agli artt. 29-37 e 146-152; la facoltà di proporre ricorsi amministrativi, di cui agli artt. 16 e 146.
[2] In proposito significativi appaiono gli artt. 5 e 6, relativi al patrimonio culturale nel suo complesso, gli artt. 132 e 135, 143-145, specificamente dedicati alla tutela e pianificazione paesaggistica e l’art. 141 relativo alla procedura per la dichiarazione di notevole interesse pubblico.
[3] Il provvedimento venne adottato dalla Commissione provinciale per la tutela delle bellezze naturali ai sensi della L. 1497/1939.
[4] L’Accordo, siglato ex art. 27 L. 142/1990, come modificato dalla L. 127/1997, ora confluito nell’art. 34 D.Lgs. 267/2000, è stato sottoscritto il 3.10.2000.
[5] Ossia del programma di cofinanziamento pubblico – Regione, Provincia, Comune – e privato, adottato con L. Reg. n. 14/1996 e succ. mod. e int..
[6] Il relativo provvedimento è stato adottato ex art. 12 L. 1497/1939, con determinazione del 27.5.1999 del Direttore Generale dell’Assessorato Pubblica Istruzione, Beni Culturali, Informazione, Spettacolo e Sport.
[7] Precisamente si tratta degli artt. 143 comma 3 e 156 del D.lgs. 42/2004.
[8] Il Piano Paesaggistico della Regione Sardegna, elaborato sulla base dell’intesa stipulata tra Ministero per i beni e le attività culturali, Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e Regione Autonoma della Sardegna, è stato effettivamente adottato il 5/9/2006 secondo le procedure previste dalla L. Reg. 8/2004 (di recente assolta dalle accuse di illegittimità costituzionale con sentenza n. 51 del 6.2.06).
[9] Il provvedimento, adottato ai sensi dell’art. 150, comma 1, lett. a) e comma 3, del D.Lgs. 42/04, dal Direttore del Servizio beni culturali dell’Assessorato Pubblica istruzione consente l’esecuzione dei soli lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria ex art. 3 DPR 380/2001
[10] La Commissione è stata istituita con delibera della Giunta Regionale Sarda del dicembre del 2006, ai sensi dell’art. 137 del Codice. Insediatasi ai primi del gennaio 2007, il suo primo compito su specifica richiesta della Regione formulata ai sensi dell’art. 138 del Codice, è stato quello di attivare l’istruttoria avente ad oggetto la tutela del colle di Tuvixeddu.
[11] Detta revisione, dapprima programmata, come attività da svolgersi d’intesa con il Comune nella deliberazione n. 5/23 del 7.2.2007, è stata, successivamente, avocata completamente a sé dalla Regione.
[12] I vincoli sono stati, rispettivamente, imposti ai sensi e per gli effetti dell’ art. 10 e ss. D.lgs 42/2004, dell’art. 142, comma I, lett. m) D.lgs. 42/2004 e della L. Regionale Sarda n. 23/1993.
[13]Agli illeciti di tipo penale contemplati dal Codice fanno riferimento gli artt. 169-180, quanto alla tutela dei beni culturali e l’art. 181 per i beni paesaggistici. Accanto ad essi sopravvivono le fattispecie criminose previste e sanzionate dal Codice Penale, in particolare l’art. 733 c.p. relativo al danneggiamento del patrimonio storico-artistico nazionale, l’art. 635 comma 2 n. 3 c.p. in tema di danneggiamento comune aggravato e l’art. 639 c.p. in tema di deturpamento ed imbrattamento aggravato. Gli artt. 160-166, per i beni culturali e 167-168 per i beni paesaggistici considerano, invece, illeciti di tipo amministrativo.
Da martedì 12 giugno il sito ufficiale del Ministero per i Beni e le Attività Culturali ospita in bella evidenza, nell'home page, la notizia di un'importante scoperta archeologica, il rinvenimento di una “struttura templare probabilmente di tipo dorico-ionico di eccezionale interesse storico-artistico”, in località Torre Melissa, a pochi chilometri da Crotone. I resti del tempio, databile al IV-III secolo a.C., sono venuti alla luce all'interno di un complesso turistico, durante la costruzione di alcune villette a schiera.
Nella nota ministeriale, introdotta dall'icona di un carabiniere atleticamente accosciato a guardia di uno dei rocchi di colonna or ora rinvenuti, viene descritta la dinamica dell'opera di salvataggio e recupero del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale di Cosenza dell'Arma, frutto della “costante attività di monitoraggio del territorio”, oltre che di “conseguenti indagini” attuate, ça va sans dire, “con metodo”, attivando all'uopo “servizi di controllo svolti in collaborazione con militari dell’Arma territoriale e con la cooperazione aerea del personale dell’8° Nucleo Elicotteri di Vibo Valentia” e conchiudendo l'operazione con “ulteriori immediati servizi di osservazione e pedinamento” che hanno alfine condotto al sequestro di numerosi reperti finiti, nel frattempo, a decorare gli ambienti del vicino villaggio turistico e a bloccare il cantiere edile impiantato sull'area del tempio.
La scoperta, orgogliosamente definita come “estremamente importante” è opportunamente illustrata attraverso una galleria di immagini di cui riportiamo, in apertura, un esempio. Davvero illuminante.
E non solo dell'importanza del ritrovamento. L'area archeologica risulta circondata dalle costruzioni recenti e recentissime: ora, a meno di non ipotizzare, per questo sito, una strategia urbanistica finora sconosciuta in antico, appare alquanto improbabile che in quell'area non fossero comprese altre evidenze archeologiche che, se ne deduce, sono quindi state analgesicamente asportate mentre con ampio dispiego di mezzi (e tempi) le forze dell'ordine deputate alla tutela del patrimonio cercavano di localizzare - "con metodo" - il sito di provenienza di quei resti di cui erano fortunosamente “venuti a conoscenza”.
Che il nostro patrimonio archeologico sia vittima troppo spesso inerme di un'attività edilizia che, in nome di un concetto di sviluppo spesso distorto, aggira facilmente le difese colpevolmente indebolite e a volte distratte degli organismi di tutela, è fenomeno risaputo e costantemente denunciato, anche da eddyburg.
Che poi, come in questo caso, la distruzione sia operata per far posto a servizi che dovrebbero migliorare la ricettività turistica e quindi aumentare l'appeal di una risorsa – il turismo, appunto – la quale trova alimento anche e soprattutto da quel patrimonio che contribuisce a distruggere, è elemento che insaporisce di ironia l'italico esercizio del cupio dissolvi.
Ma che si cerchi di contrabbandare un esempio, palmare, di insipienza e neghittosità dei nostri organismi di tutela come un intervento di successo che ha condotto ad un brillante risultato per quanto riguarda il nostro patrimonio culturale, è tentativo che induce ad un umorismo del genere letterario più nero.
Davvero, leggendo quelle righe, tornano alla mente le migliori parodie di Corrado Guzzanti dei documentari “Luce” di qualche decennio fa...
*Si ringrazia per la segnalazione il nostro corrispondente sul territorio: trapezista di professione, archeologo per passione.
L'intervento è stato tenuto in occasione del convegno: “Politiche culturali e tutela: dieci anni dopo Antonio Cederna”. Sull'iniziativa, che si è svolta a Roma, nella sede del Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo alle Terme, il 6 giugno 2007, occasione di ricordo di Antonio Cederna, ma anche di discussione sugli attuali problemi della difesa del patrimonio culturale e paesaggistico e sulla situazione dell'urbanistica italiana ed in particolare romana, v. su eddyburg
Il bel volume sulla figura di Antonio Cederna non solo ci restituisce un profilo di grande interesse, ma contiene anche un’indicazione di metodo che ritengo oggi particolarmente importante. Afferma infatti Maria Pia Guermandi nella sua introduzione che “ Sull’attualità di Cederna non tutti convengono…..Eppure il dibattito politico di questi ultimi mesi ha riproposto il tema del bene pubblico, dell’interesse generale …”.
La città appartiene certamente ai beni comuni. La storia delle città, il loro fascino e la loro bellezza è inscindibilmente legata al perseguimento del bene comune, ma dalla morte di Cederna ad oggi, il quadro delle culture e delle regole che sovrintendono alla trasformazione delle città è completamente mutato: è dunque importante prenderne atto criticamente per poter essere in grado di recuperare strumenti di lettura della realtà e di intervento adeguati ai tempi.
Il cambiamento epocale riguarda l’affermazione della cultura economicista nel governo delle città. Gli interventi urbani non vengono misurati in relazione degli effetti che provocano, ma esclusivamente riguardati sotto il profilo dell’aumento del reddito. Non era mai accaduto nella storia delle città. Gli interventi erano certo valutati anche sotto il profilo economico, ma senza mai dimenticare il contesto, le relazioni urbane e le più generali esigenze di benessere sociale. Le città appartenevano al “bene comune”.
Oggi questo orizzonte non esiste più e per rendersene conto basta fare pochi passi da qui ed arrivare a piazza Esedra. In uno dei rari concorsi per architettura che si sono svolti nella città (oggi vige la prassi dell’affidamento diretto alla star più in voga del mondo dell’architettura) Gaetano Koch vinse nel 1888 con il progetto che prevedeva due edifici simmetrici che riprendono il sedime delle terme di Diocleziano e che vennero coronati con due balaustre di travertino a chiusura delle terrazze praticabili.
Uno dei più importanti gruppi italiani del turismo internazionale, Boscolo, e non la classica figura dell’abusivo tanto diffusa a Roma, non ha trovato di meglio che chiudere la terrazza con una struttura in metallo e rivestimento plastico per ricavarne una piscina e dei locali. Un edificio storico è stato manomesso per ricavarne ricchezza. Aumentano gli utili del gruppo, il Pil nazionale aumenta ma la città, la ricchezza collettiva, perde di valore.
A nulla sono valse proteste e richieste di intervento dell’autorità comunale. La risposta era sempre la stessa: era un edificio degradato (cosa vera) e se si trova un imprenditore che se ne fa carico non bisogna guardare tanto per il sottile. C’era bisogno insomma di un “aiutino”, di poter aumentare la rendita immobiliare anche a scapito dell’integrità della memoria storica della città.
Questo fatto ci indica i tre elementi di novità con il periodo in cui Antonio Cederna denunciava le malefatte degli “energumeni del cemento”. Il primo è relativo alla cancellazione delle regole urbanistiche. Oggi le trasformazioni si attuano attraverso l’accordo di programma. Se prima con le procedure pubblicistiche dei piani regolatori si poteva conoscere in anticipo quanto sarebbe accaduto, svelarne gli effetti e denunciarne i pericoli, oggi con la nuova prassi veniamo a conoscenza dei nuovi intervento soltanto quando iniziano i cantieri edilizi. L’accordo di programma prevede soltanto la procedura di ratifica da parte dei consigli comunali. E la ratifica arriva in un momento in cui non è quasi più possibile opporsi o cambiare i progetti: prima di quel voto, infatti, si sono consolidati interessi e attività progettuali che è difficile contrastare in fase conclusiva.
Il primo impegno che deve essere dunque perseguito è quello del ristabilimento delle regole liberali, dei piani regolatori e della parallela abolizione dell’uso dell’accordo di programma come strumento per variare i piani urbanistici. Va in questa direzione la proposta di legge elaborata dagli amici di Eddyburg che sta iniziando l’iter parlamentare e che trovate nello straordinario sito di Edoardo Salzano ( www.eddyburg.it).
La seconda novità riguarda il mutamento dei caratteri dei bilanci comunali. A partire dal 1993, non solo i trasferimenti dello Stato verso le autonomie locali si sono ridotti in maniera consistente, ma si può affermare che oggi i comuni traggano le possibilità di vita dal comparto dell’edilizia. Pochi mesi fa la Provincia di Roma nel quadro delle elaborazioni per redigere il piano provinciale di coordinamento, ha diffuso i dati ufficiali sulle caratteristiche dei bilanci comunali. La tassa sugli immobili (ICI) rappresenta in media il 41% dei bilanci comunali con punte massime fino al 76% per i comuni minori.
Va sottolineato che queste somme servono esclusivamente per il normale funzionamento della macchina amministrativa, e cioè per il pagamento degli stipendi del personale e per i servizi. Quando i comuni devono investire in infrastrutture o per la realizzazione dei servizi –e l’arretratezza delle strutture comunali sta lì a ricordarci quanto sia importante questa esigenza- non possono oggi far altro che incrementare l’edificazione, promuovendo la serie interminabile dei programmi complessi che si fondano proprio sullo scambio ineguale tra pubblico e privato.
In buona sostanza, nuovi servizi e nuove infrastrutture si possono realizzare soltanto con i proventi derivanti dall’edilizia: un meccanismo perverso che deve essere invertito al più presto. Il secondo obiettivo dell’azione di chi ha a cuore i destini delle città e dei territori è dunque quello di tornare a bilanci comunali svincolati dalla rendita immobiliare e in grado di consentire ai comuni di risparmiare la risorsa suolo. Il terzo elemento che segna una novità rispetto al periodo di Cederna riguarda la progressiva opera di depotenziamento delle funzioni degli organi dello Stato preposti alla tutela, in primo luogo le soprintendenze. Si tratta di un’azione ben nota che ha riguardato provvedimenti legislativi e ostacoli al funzionamento della struttura. Francesco Scoppola ha scritto spesso su quest’ultimo tema: posso dunque limitarmi a ricordare che se non interverranno inversioni di tendenza -e non si vedono elementi che vadano in questa direzione- le soprintendenze si avviano verso una inarrestabile marginalizzazione.
Per quanto riguarda le difficoltà all’azione di tutela poste dal susseguirsi della legislazione, ricordo che l’ultima battaglia condotta da Cederna fu quella per la salvaguardia del comprensorio di Tormarancia. L’azione di denuncia da lui svolta sulla stampa e quella scientifica svolta per conto della soprintendenza archeologica da Carlo Blasi, Vezio De Lucia e Italo Insolera non avrebbe avuto successo se non fosse intervenuta l’apposizione del vincolo da parte della medesima soprintendenza. Oggi, con i mutamenti introdotti nella legislazione ciò non sarebbe più possibile. Emerge così la terza linea di azione che riguarda la ricostruzione delle funzione pubblica nel campo della tutela.
Ricostruzione delle regole urbanistiche, restituzione ai comuni della capacità di intervento sulle città, restituzione del ruolo alle strutture preposte alla tutela sono i tre grandi obiettivi per recuperare un’azione efficace di governo delle città e dei territori nella chiave della salvaguardia della memoria storica dei luoghi, come affermava Cederna.
E proprio a Roma, dove una sciagurata politica urbanistica sta portando alla cancellazione dell’agro romano, e cioè di quei luoghi di straordinaria stratificazone storica e archeologica, si può tentare di invertire la china. All’inizio degli anni ’90, l’allora soprintendente Adriano La Regina propose di costruire un provvedimento legislativo che consentisse la tutela della campagna romana, vista sotto l’inscindibile connubio di storia natura e archeologia. Credo che oggi dobbiamo riprendere quella proposta per arrestare la dilagante cementificazione. Dei 70 milioni di metri cubi di cemento che prevedeva il piano regolatore, almeno 50 sono stati realizzati o sono in corso di realizzazione attraverso l’uso dell’accordo di programma, nonostante il fatto che il piano non è stato ancora approvato. Altri 15 mila ettari di territorio agricolo sono stati cancellati e ormai la meta dell’immensa estensione della città (129.000 ettari) è occupata da asfalto e cemento. La campagna romana sta scomparendo: Cederna ne aveva fato una ragione di vita e dobbiamo oggi, nelle mutate condizioni, portare avanti la sua battaglia.
Che le grandi firme garantiscano la qualità della città futura, è un'idea che comincia a mostrare le prime crepe. Alberoni, tra gli altri, sul Corriere, annotava la stanchezza del pubblico per il protagonismo di architetture imposte dalla fama del progettista, nate per essere ammirate ma, spesso, inutili. La forma bella perché «necessaria» non ha bisogno di griffe: ammiriamo ancora oggi il disegno perfetto della bottiglietta del Campari pur avendo dimenticato che l'autore è il grande Depero.
Si potrebbe osservare, peraltro, che anche il progetto «dal basso» e democratico, vecchio mito della sinistra mai realizzato e forse irrealizzabile, non è una soluzione. E dunque, che fare? Forse, vale la pena di riflettere, con sano realismo, su alcuni esperimenti romani di coinvolgere nel disegno della città almeno alcune delle forze in gioco: tecnici, istituzioni, rappresentanze dei cittadini, imprenditori.
Nei concorsi, ad esempio, per il riuso delle aree delle ex rimesse Atac a piazza Bainsizza e a Porta Maggiore, le università hanno eseguito gli studi preliminari, un buon numero di progettisti proporrà le linee guida dell'intervento, mentre il progetto finale sarà scelto attraverso una competizione alla quale parteciperanno, insieme, architetti ed imprese. Le quali saranno costrette, in qualche modo, ad innalzare la qualità dei loro cantieri, rimasta spesso ferma agli anni '70. Una strada difficile, fatta di successivi contributi, dove la sintesi artistica non è generata da folgoranti intuizioni, ma è l'esito di un processo, l'incontro del molteplice. E i primi risultati sembrano dimostrare la validità del metodo. Lo testimonia l'esperimento di maggior respiro fino ad ora tentato in questa direzione: i progetti «partecipati» eseguiti dai dipartimenti della Sapienza per le proprie sedi, che saranno in mostra da domani nelle sale del Rettorato. Il disegno della nuova sede per facoltà umanistiche nel futuro campus di Pietralata, progettata dal Dipartimento di Architettura e Costruzione, ne è un campione significativo. Raccolta intorno ad una grande piazza coperta, dominata dal monolite della biblioteca attorno a cui si avvolge la luce che scende dalla copertura vetrata, l'opera trasmette il messaggio di una comunità scientifica moderna e vitale. Un'immagine immediata che pure deriva dal paziente raccordo tra bisogni e interessi diversi, lunghi incontri con i rappresentanti del V Municipio, confronti tra progettisti di disparate tendenze che non impediscono al disegno di arrivare ad una propria, serena identità espressiva. I valori civili che il progetto trasmette, la vita che s'immagina nell'edificio, per una volta sono più importanti della personalità dell'autore. Roma sembra riscoprire che, anche in architettura, la vita, quella vera, non è una sfilata di moda.
Nota: sul tema, notoriamente più ampio e complesso, della partecipazione, qui su Eddyburg una completa Visita Guidata a cura di Carla Maria Carlini (f.b.)
Che ci guadagni qualcosa il Pantuflè? In italiano fa letteralmente il Pantofolaio, ed è un negozio di calzature “moderno” sulla statale Padana Inferiore nell’Oltrepo pavese, appena fuori Redavalle, verso Broni. L’edificio del Pantuflè è esattamente il tipo di scatolone che il magico svincolo della Lisbona-Kiev-bis previsto un pochino più a nord-ovest di lì, dovrebbe diffondere copioso in tutta la pianura, inseminando appunto svincolo dopo svincolo le terre attualmente sprecate da inutili risaie.
Sembra più o meno questa, la filosofia alla base dell’autostrada regionale lombarda nota come Broni-Mortara, ma appunto solo piccolo tassello di un’idea del mondo. Un mondo di scatoloni.
Sono già state dette molte cose, serie, documentate, contro questa ennesima grande opera utile soprattutto a chi la costruisce. E non è il caso di ripeterle, salvo riassumerne in due parole una delle idee di fondo (molto in fondo): raddoppiare il sistema dei grandi flussi est-ovest noto come Corridoio 5, dall’asse pedemontano dell’A4-Ferrovia all’ex cuore verde padano, ovvero dal Monferrato alla bassa padovana. La megabretella che raccorda queste due linee parallele, è un tracciato che da un nodo autostradale nelle risaie a sud di Vercelli, si ricollega dopo una sessantina di chilometri verso sud-est, a un altro percorso autostradale ai piedi delle colline dell’Oltrepo pavese. A un tiro di sasso dal Pantuflè. Che sembra essere, per così dire, la sua “ragione sociale”, almeno simbolica.
In principio c’è sempre una road gang, la banda di quelli dei lavori pubblici, delle strade in particolare e tanto per cominciare. L’hanno raccontato per decenni centinaia di ricercatori e giornalisti, come quella delle strade sia sempre e comunque una scusa: quelle che servono anche per andare da un posto all’altro, così come quelle che servono solo a chi le fa. E in questo caso sposerei il giudizio di chi opta soprattutto per la seconda ipotesi. Ma restiamo alle imprese delle road gang, e della loro parola d’ordine per niente segreta: lo svincolo. Nel caso specifico la parola d’ordine si pronuncia ben sette volte. Sette volte, ovvero una volta ogni meno di dieci chilometri, il che ragionando in una prospettiva continentale sembra una sciocchezza. E lo è. Ma qui la prospettiva non è affatto continentale, e quegli svincoli sono il sale della vita. Gli orifizi da cui il serpente spargerà le sue uova a forma di piccoli e grandi cloni del Pantuflè. Per dirla in linguaggio esotico: la road gang vuole fare lo sprawl. Per dirla in italiano, il partito autostradale vuole cementificare il territorio con la scusa dei corridoi europei. Per dirla – obiettivamente - con le parole della relazione tecnica del progetto: “La nuova infrastruttura si pone l’obiettivo di separare, a livello regionale, il traffico di scorrimento da quello locale e di offrire un servizio ed un’opportunità di sviluppo produttivo alle aree dell’Oltrepo e della Lomellina” [1].
Il servizio e opportunità di sviluppo, di development si dice in alcuni ambienti con traduzione un po’ forzatuccia, viene erogato appunto attraverso lo svincolo.
E dunque la lettura di queste opportunità virtuali di crescita (naturalmente di crescita edilizia perbacco!) si può già cominciare a fare a partire dagli svincoli. Nel senso che lì non c’è ancora niente, salvo quelle inutili risaie, buone al massimo (si mormora in alcuni ambienti) per fare un po’ di etanolo di alta qualità per i SUV del domani. Non sono ancora cresciute quelle belle distese di scatoloni, come per esempio nelle ex risaie di Vicolungo, dove il Corridoio 5 ne incrocia un altro, e ora invece dei tristi acquitrini ci sono un bell’Outlet, un Parco Logistico, un Parco a Tema, qualche lottizzazione sparsa di villette che cresce rigogliosa, molte rampe, svincoli, rotatorie e tanti, tanti comodi parcheggi.
Qui in Lomellina queste cose non ci sono ancora, ma si può iniziare a immaginarle guardando gli svincoli, e quello che ci sta attorno (continua ... vedi sotto)
Nota: per motivi di spazio e organizzazione delle immagini, il testo integrale dell'articolo è disponibile di seguito in Pdf, con mappe e foto; per un confronto si veda anche in questa stessa cartella il progetto della complementare "ACME" Cremona-Mantova (f.b.)
[1] Infrastrutture Lombarde, Autostrada regionale “Integrazione del sistema padano direttrice Broni-Pavia-Mortara”, Relazione Sintetica Divulgativa, p. 7.
C’È UN DISPERATO bisogno di casa a Roma e nel Lazio. Le cifre appena comunicate dalla Regione al governo ne fotografano l’effettiva dimensione oggettiva. Par-
lano di un fabbisogno regionale di oltre 45mila alloggi. Una vera e propria emergenza sociale che ogni giorno produce storie di nuova marginalità e il cui epicentro è a Roma e provincia, dove il fabbisogno è di oltre 42mila case.
Per invertire la rotta, il governo dovrà varare - secondo la Regione - un piano casa nazionale che per il Lazio preveda un investimento di circa 4,5 miliardi di euro. Così si legge nella delibera approvata ieri per definire il fabbisogno regionale che sarà ora trasmesso ai ministeri delle Infrastrutture, della Solidarietà Sociale e delle Politiche per la Famiglia.
A quella cifra si arriva prendendo il costo medio di una casa poplare e moltiplicandolo per il bisogno di case indicato da ciascuno dei 79 comuni del Lazio. Solo l’area romana, tenendo conto anche dei Comuni della provincia, ha indicato un fabbisogno di 42.369 alloggi, A cui si aggiungono i 3.439 necessari a far fronte all’emergenza abitativa anche nei comuni delle province di Frosinone, Latina, Rieti, Viterbo.
Era stato lo stesso governo Prodi, all’indomani del varo della legge 9, a chiedere a Comuni e Regioni una stima esatta del fabbisogno abitativo, in base al quale elaborare un nuovo Piano casa nazionale dopo quello definito da Fanfani alla fine degli anni Cinquant.a
Perciò, in Regione si sottolinea l’importanza di questo primo passo che il presidente Piero Marrazzo saluta come un «ritorno alla politica di concertazione».
Al di là delle cifre indicate dai singoli comuni, «il dato è politico», spiega l’assessore ai Lavori Pubblici e alle Politiche abitative Bruno Astorre: «Se non si fa un poderoso programma di interventi a livello nazionale, gli interventi decisi a livello locale rischiano di essere solo un tampone». Astorre li elenca: 100 milioni destinati alla realizzazione di nuove case popolari, 100 per le ristruttrazioni, 220 milioni per l’edilizia sovvenzionata.
«La delibera estituisce una fotografia realistica della situazione del dramma casa nella nostra regione», osserva il presidente della competente commissione regionale Giovanni Carapella: «Per il 93% la richieste viene dal Comune di Roma e dai comuni della sua Provincia. La tracimazione della popolazione romana oltre il Gra verso e dentro i Comuni della Provincia registrata negli andamenti demografici degli ultimi 5 anni, giustifica e conferma questi dati».
Intanto è stato approvato dalla giunta capitolina il programma di realizzazione di 35 piani di zona. Prevede la realizzazione di più di seimila nuove abitazioni, di cui almeno il 30 per cento in affitto, seguite da servizi e infrastrutture viarie in dieci diversi municipi della città. Una prima attuazione del piano che si propone di realizzare a Roma 20mila alloggi entro il 2011. «Un contributo importante per calmierare i costi, aumentare l'offerta degli alloggi in affitto e realizzare nuovi quartieri puntando sulla qualità», osserva l’assessore ai Lavori Pubblici Giancarlo D’Alessandro.
Zone industriali dappertutto, in barba alla pianificazione urbanistica e territoriale: questa è la nuova razzìa di ciò che resta del Belpaese che sta per scatenarsi. Primo responsabile l’on. Capezzone, complici i parlamentari che hanno approvato la proposta di legge alla Camera, e quelli che stanno per approvarla al Senato, dove il provvedimento è approdato col n. 1532.
L’hanno soprannominato “un'impresa in 7 giorni”. Se il provvedimento passerà per costruire gli edifici necessari per una qualsiasi attività produttiva in materia di beni e servizi basterà presentare la domanda allo “sportello unico” comunale. La ricevuta della domanda costituisce titolo edilizio. Se l’area non è considerata idonea per quella attività dallo strumento urbanistico (è area agricola, o per attrezzature pubbliche, o residenze o altro), basta che comunque rispetti le normative ambientali e quelle relative ai beni culturali. Viene convocata la conferenza dei servizi che entro sette giorni modifica lo strumento urbanistico! Se poi c’è contrasto con le normative specifiche di tutela ambientale o culturale l’attesa del privato è appena un po’ più lunga, ma l’esito è sicuro: il privato dispone la convocazione della conferenza di servizi, e se c’è l’opposizione di uno dei suoi membri che rappresenta competenze statali decide il governo. Questo ha trenta giorni di tempo per decidere: se non decide, la licenza di uccidere si intende concessa.
Numerosi parlamentari hanno firmato proposte di legge che si propongono di restaurare l’autorità pubblica e restituire razionalità al governo del territorio, dichiarando la rilevanza del “principio di pianificazione”. Cinque proposte di legge in materia giacciono nei due rami del Parlamento (in un’attesa che speriamo non diventi letargo). Chiediamo almeno ai firmatari di quelle proposte come mai sia passato sotto il loro naso un provvedimento così distruttivo senza che l’opinione pubblica ne sia stata informata, senza che ci sia stato il segno d’una qualche opposizione. Il nostro timore che l’urbanistica neoliberista avesse già vinto, che la sconfitta di Berlusconi fosse stata una vittoria del berlusconismo, si rivela sempre più fondato. Speriamo di sbagliare.
Che la ripresa sia in atto lo testimoniano i cantieri, le gru, il traffico. Che Milano scalpiti per dare un colpo d'acceleratore allo sviluppo trova espressione in un intenso susseguirsi di proposte e annunci. Che, insomma, si respiri un'aria di cambiamento segna un indubbio vissuto di dinamicità da considerare con attenzione e favore. Procede invece a passo lento l'elaborazione di un disegno generale della città, che dica come i milanesi immaginano e vogliono la loro città di qui ad almeno vent'anni. Il governo della cosa pubblica ha lasciato alle spalle una mentalità vecchia, che pretendeva di pianificare tutto sino alla possibile mortificazione di slanci e sforzi creativi, ma non è ancora riuscita a trovare un modo trasparente e adeguato di darsi obiettivi, linee, regole, attori da coinvolgere. Che sia una strategia atta ad assecondare la crescita purchessia o un procedere senza malizia, dettato solo da carenze culturali, è questione aperta, su cui peraltro giustamente si anima il dibattito politico. Resta il fatto che manca il quadro normativo e progettuale complessivo entro cui collocare gli interventi singoli e la riqualificazione di aree definite.
Il progetto «Porta Nuova» presentato ieri è esemplare. Supera particolarismi e velleità trascorse, riunisce e integra in un «unicum» le annose questioni di Garibaldi- Repubblica, Varesine, Isola. Ma Comune e Regione debbono ancora dire come intendono inserire questo vasto e qualificato insediamento nella parte di città esistente e come collegarlo con i progetti pure importanti e ambiziosi in corso di messa a punto e realizzazione nelle altre zone, di modo che Milano sia riconoscibile nel tessuto connettivo che è un impasto di privato e di pubblico, fatto di socialità, servizi, mobilità, relazioni umane, spazi di aggregazione, pluralità e varietà identitarie, non solo di grattacieli.
Si sa che è in corso l'elaborazione del «piano territoriale» generale della città, che l'assessore all'Urbanistica punta a far diventare il documento legge entro il 2008. Sarebbe prova di una effettiva vivacità democratica se linee portanti e strumenti di attuazione venissero al più presto portati al vaglio dell'opinione pubblica e dei luoghi istituzionali in cui svolgere il confronto. È doveroso capire dove la città sta andando quanto a strutture e a qualità dell'esistenza. Così sarà possibile verificare il consenso sul trend attuale e, qualora fossero necessari riequilibri, introdurre correttivi. Dalla politica ci si aspetta governance e bene comune oltre a cantieri.