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«Appunti di psicopatologia urbanistica, autovalori dominanti ed ecologia della mente in memoriam Fiorentino Sullo». ilgiornaledell'Architettura, 8 febbraio 2017 (m.c.g.)

Economia – dal greco οἶκος (oikos), “casa” inteso anche come “beni di famiglia”, e νόμος (nomos), “norma” o “legge” – si intende sia l’organizzazione dell’utilizzo di risorse scarse (limitate o finite) quando attuata al fine di soddisfare al meglio bisogni individuali o collettivi
(wikipedia, ad vocem)
Le funzioni amministrative sono esercitate in maniera semplificata, prioritariamente mediante l’adozione di atti negoziali in luogo di atti autoritativi
(Maurizio Lupi)

Lupi per agnelli

Milano si conferma anche oggi, nel bene e nel male come la capitale della ricerca avanzata del post: dimenticate subito le utopie moderniste di progresso civile e culturale, dopo l’apparentemente innocuo camouflage postmoderno con bricolage di capitelli, piramidi e colonne che nascondeva il disimpegno etico del nuovo che avanza, ora è la volta del postumano….. Alla (fanta)urbanistica futurista dell’assessore Carlo Masseroli, dove la fiducia nelle sorti progressive veniva sostituita dalla fiducia nella buona sorte (e lui, ingegnere dei sistemi, che aveva promesso di ritornare ai suoi amati diagrammi di flusso ora è catapultato a dirigere Milanosesto Spa per lo sviluppo delle aree ex Falck), al decesarismo democratico che ha inabissato la giunta Pisapia e spento per sempre l’alba arancione di Milano (ma a volte ritornano e, promoveatur ut amoveatur, Ada Lucia De Cesaris rispunta come grand commis nominata dal Ministero dell’economia a propria rappresentante nel Cda di Arexpo).

Tutti ancora al capezzale della suburbanistica del giorno dopo, o fast post, inauguratasi con Expo e ora con Arexpo. Oggi, dulcis in fundo, anche con Pierfrancesco Maran (preconizziamo per lui un futuro di ministro alle infrastrutture….) nel solco della continuità corrono i cavalieri, destri e sinistri, dell’apocalisse urbanistica contrattata di rito ambrosiano sempre a cavallo dei lupi affamati di suolo. Siamo giunti finalmente alla post-urbanistica, proporre e veicolare archifiction, inoculando nell’immaginario sociale la falsa immagine di un ritorno al futuro, ma quando il futuro ormai non c’è più.

Come si può capire fino in fondo questa rivoluzione copernicana dell’urbanistica meneghina? Riassume il meglio delle due posizioni: quella di un mondo che non sarà mai e quella di un mondo che quando si manifesta ha già superato l’orizzonte degli eventi e si ritrae in se stesso annichilendosi e trasformandosi in un buco nero che, come l’Expobuco, si è dimostrato capace d’inghiottire sogni e risorse degli italiani, non meno avido di alcune nostre storiche e ora non più prestigiose banche.

È il salto definitivo e irreversibile nella fiction finanziario-architettonica. Come è possibile che tutto accada in una democrazia ormai matura e forse avanzata? Basta deformare l’orizzonte epistemologico che vuole definire il progetto come un processo lineare continuo che parte da un punto (il cosiddetto prima) e arriva a un altro (il cosiddetto dopo), fino a far coincidere i due punti temporali in uno solo, tecnicamente chiamato scenario. Anche costruire non sarà più necessario… La smaterializzazione del progetto comporta la sua scomposizione in quanti fotonici, che per essere liberi di viaggiare alla velocità della luce, si distaccano da tutto quanto viene definito convenzionalmente come iter e legittimazione sociale di un progetto, per entrare nel nuovo ambito dell’aleatorietà determinata ai fini della grancassa della psicopropaganda virale del Ministero della Verità & Marketing. Le soluzioni sono aleatorie e discrezionali ma rimandano a quantità incognite, di autovalori dominanti che snaturano il carattere “pubblico” e la trasparenza del mercato, negoziati in modo opaco e indiretto per poi essere rapidamente cartolarizzati e avviati al consumo.

Come si traduce tutto ciò in burocratese urbanistico? La parola magica è Accordo di programma. Come ha scritto Maria Cristina Gibelli(1) :«è a Milano che ha fatto i primi passi una deregolazione urbanistica che ha poi trovato una configurazione organica con la LR 12/2005 sul Governo del Territorio e i suoi molteplici, e sempre peggiorativi, emendamenti successivi. È a Milano e hinterland che si stanno cogliendo i frutti avvelenati, in termini di coesione sociale, vivibilità, ma anche competitività, di quella stagione». Proprio su questo Accordo di programma degli ex scali Fs (1,25 milioni di mq che possono valere sino a ******) si è arenata la giunta Pisapia.

Ed è lo stesso Accordo, con qualche intervento di chirurgia estetica e social, che la giunta Sala si appresta a convalidare entro maggio con lo stesso spirito e gli stessi cosmetici principi con cui la giunta Pisapia ha poi ratificato il Piano di Governo del Territorio Masseroli-Moratti. La natura dello scambio segue la classica equazione asimmetrica dell’incremento di valore della speculazione fondiaria: ossia, prendo un’area a valore nullo o addirittura negativo, come in questo caso, e attraverso una trasformazione che è innanzitutto linguistica (la promessa di un cambio di destinazione d’uso), la rendo produttrice d’immaginario, di futuro.

Ora bisogna però stabilire se nella promessa di questo futuro la città assume il carattere di feticcio della merce, ossia, parafrasando Arjun Appadurai, tenda esclusivamente «a mascherare i rapporti sociali che rendono possibile la sua appropriazione a scopo di profitto da parte del capitale» (Scommettere sulle parole. Il cedimento del linguaggio nell’epoca della finanza derivata, Milano 2016, p. 17).

Architettura quindi non più come disvelamento, come invenzione critica, come nuova utopia del possibile, frammento di verità, progetto di emancipazione culturale e sociale, ma come tragica maschera che nasconda le contraddizioni e la falsa coscienza dei rapporti in atto, supina ai dettami imperanti dello spirito dell’incertezza. Architettura come formalizzazione, astrazione e commercializzazione del meccanismo del rischio stesso. Allora niente di meglio che l’immarcescibile visione del paradiso che, come ci ha spiegato Marcel Proust, è solo quello che abbiamo perduto. Come tutte le visioni beatifiche, sono misteri che oltrepassano la capacità di rappresentazione sensibile e la comprensione razionale. E allora avanti ancora con quell’ormai trita, frusta e paradossale menata improponibile della città giardino universale dove tutti non fanno altro che passeggiare ridenti e giulivi, innaffiano le piante sui terrazzi rigogliosi dove fioriscono orchidee perenni, vanno in bicicletta e portano a spasso cani…

Così si compie il miracolo della trasformazione di un reietto terzo paesaggio postindustriale “scalo ferroviario obsoleto da bonificare”, un Vicolo Corto pieno di problemi logistici, infrastrutturali e costi di bonifiche ambientali, a un meraviglioso “Central Park” (Public Garden non si usa più…) che rimanda alla favolosa casella del Parco della Vittoria del Monopoli, su cui tutti vogliono mettere le mani. Al subentrato “Central Park” vengono poi attribuiti dei volumi virtuali trasformati immediatamente in denaro sonante per i fortunati proprietari delle aree medesime, al di là che poi le suddette volumetrie vengano prima o poi realizzate.

La società titolare delle aree (Ferrovie dello Stato, che ha appena acquisito la linea 5 della metropolitana, e spinge da tempo anche per rilevare la maggioranza in Trenord al posto della Regione…), acquisiti i diritti “rapinati” con le equivoche pratiche di sdemanializzazione alla Giulio Tremonti, una volta firmato l’Accordo di programma li iscrive a bilancio ed è così ora pronta a quotarsi in borsa per poi essere privatizzata dagli speculatori finanziari. La polpetta indigesta viene poi condita in salsa social e adeguatamente lubrificata dalla politica compiacente, dall’establishment di programmatori e facilitatori, espertoni meglio se professori specialisti in supercazzole tecnichesi e storytelling a lieto fine, stampa compiacente, menestrelli e azzeccagarbugli specializzati nel paralogismo politico.

Dispiace vedere sempre in prima linea rettori e direttori di dipartimenti universitari e politecnici (di per sé enti terzi e non fiancheggiatori conto terzi… spesso chiamati sempre in camera caritatis, quando l’operazione è riuscita e il paziente è morto), pronti a correre al capezzale di una politica sputtanata per spendere le ultime briciole di dignità rimasta a fare da stampella alle strampalate e raffazzonate speculazioni territoriali che servono a colmare i buchi di bilancio di altrettante e spregiudicate gestioni finanziarie di enti pubblici e parapubblici come Fiera, Aler, ospedali, ecc., a cui si aggiungono, come contorno, il circo barnum dei visionari zelanti architetti con incarichi diretti o pseudodiretti, sempre compiacenti nell’offrire i propri servigi, ansiosi di lasciare il segno in ogni angolo della città, rigorosamente bipartisan, assunti in pianta stabile a tutto regime per la clonazione indefinita dello status quo e delle sue best practices, con sprofluvio di kermesse, articoli, forum e seminari, senza dimenticare spruzzate quanto basta di proteste e opposizioni antagoniste tanto per far credere che la democrazia sia ancora viva. Ma Milano non era la capitale dell’intellighentia critica? «Lotus International» ha dedicato un Forum e il numero Meteo Milano al dibattito in corso.

Un film già visto con la Fiera delle vanità, i grandi quartieri di lusso, gli Ospedali riuniti, l’Expoballa, Cascina Merlata… Ora è il turno degli scali ferroviari che, però – e questa è forse la maggiore difficoltà -, sono incuneati nel tessuto del cuore di Milano e lambiscono la città storica e i quartieri che ne costituiscono l’ossatura identitaria e il patrimonio genetico. Un’operazione a cuore aperto, irreversibile, che rischia di sfigurare per sempre ciò che è sopravvissuto dell’identità di Milano.

Anche per questo, tra i più di trecento architetti e firmatari dell’appello (rassegna stampa, elenco firmatari e interventi nel sito scaliferroviarimilano.blogspot.it) è nata l’idea di costituirsi nell’associazione “Città bene comune”, per affermare il primato della cittadinanza attiva, ben consapevoli che non saranno i tecnici, i regolamenti, le dispute di diritto, il finto teatrino della politica a salvarci ma solo la vera politica con la P maiuscola, ovvero quella che, come diceva Aristotele, significa amministrazione della polis per il bene di tutti: la determinazione di uno spazio pubblico al quale tutti i cittadini partecipano.

Débat public alla milanese…

Salzwasser in der Tennishalle! Ja, das ist ärgerlich, aber nasse Füße sind noch lang nicht das Ende der Welt(H. M. Enzensberger, Der untergang der Titanic, 1929)

Nella palude conformista milanese qualcosa non ha funzionato. Il dubbio si è fatto sospetto, a cui son seguiti la paura, lo sconforto e il tormento di un’angoscia ricorrente. Gli spettri dell’omologazione globale, i mostri come il quartiere fantasma griffato Daniel Libeskind di condomini sghimbesci abitato solo da dj tatuati con la Porsche, le Costa Concordia arenate di Zaha Hadid in piazza Giulio Cesare, i grattacieli mignon di City Life, la turbina a vento di Cesar Pelli sono ormai tra noi! Questi fantasmi si aggirano cupi e minacciosi nel salotto buono, turbando le coscienze dei milanesi che hanno sviluppato ormai una punta di diffidenza bipartisan, nonostante tutti gli sforzi della politica di sedarli e gli imbonitori che vendono lambrusco spacciandolo per champagne.

Alla luce di queste non esaltanti esperienze, risulta oltremodo patetico il tentativo di far passare per débat public quello che invece è astuta opera di disinformazione politica e di creazione del consenso. Meccanismo ormai rodato, per quelle operazioni di mattone deluxe certo più alla portata del fiato corto e delle idee stantie della politica contemporanea che dell’urbanistica avveduta e previdente e della pianificazione strategica lungimirante. Una politica che di moderato ha spesso solo la cultura e la fiducia nell’intelligenza critica.

Nonostante tutto e forse anche meno male, non sono bastate certo le cure e visioni dei cinque architetti-scenografi chiamati al capezzale per tessere gli scenarios e stimolare l’appetito degli investitori a sedare la diffidenza dei milanesi. Questo l’obiettivo della tre giorni di workshop milanese organizzata a fine dicembre 2016 da FS in “collaborazione” con il Comune. Dopo il lungo battage del «Corriere della Sera» sulle neoallucinazioni forestali del transgenico e sempre più green Stefano Boeri (il cosiddetto Fiume verde, il Pratone…), FS ha chiamato lo stesso Boeri (Studio SBA) e il “secchione” Cino Zucchi (CZA, che forse si poteva risparmiare la pagliacciata…), oltre a Benedetta Tagliabue (EMBT), all’olandese Francine Marie Jeanne Houben (Mecanoo) e al cinese Ma Yansong (MAD Architects). In attesa, come recitava il comunicato stampa, «del supporto di un advisor tecnico internazionale, le idee dei cittadini saranno trasformate in elaborati e modelli. Le cinque visioni possibili verranno presentate al Comune di Milano nel marzo 2017. L’Amministrazione comunale deciderà successivamente come gestire il processo di trasformazione urbana. Farini, Porta Romana, Porta Genova, Greco-Breda, Lambrate, Rogoredo, San Cristoforo sono i sette scali ferroviari milanesi inseriti nel progetto di riqualificazione, per una superficie complessiva di un milione e 250mila metri quadrati».

La musica è sempre la stessa… nonostante il Gran Ballo Excelsior di politici locali e nazionali, la variegata fauna di biodiversità architettonica presentata, l’ottimo catering, il parterre prestigioso e gli special guests a stuzzicare l’atmosfera festosa e arguta da Festival della mente, oggi di gran moda, la partecipazione prefestiva alla tre giorni in massa di architetti affamati di crediti formativi e di pressoché tutto il Comune di Milano in licenza studio. Oggi finalmente un pionieristico studio (A. Casavola, Perché comprare Parco della Vittoria conviene? Modellizzazione e studio sugli autovalori dominanti del gioco del Monopoli, s.d. Università della Calabria), ha messo a disposizione una tabella dei valori fondiari che ci consente di capire le ragioni profonde di tanto agitarsi: «Abbiamo quindi in questa tabella dei fattori che ci permettono di determinare la convenienza relativa di un appezzamento rispetto agli altri, tenendo unicamente conto della rendita che essi sono in grado di garantire.

In questa modellizzazione notiamo che l’elemento che continua a rimanere per rendita asintotica e massimale più conveniente è Parco della Vittoria, sebbene non sia il più frequente: questo primato spetta infatti (tra gli appezzamenti che danno rendita) a Corso Raffaello». L’autore subito ammonisce sull’esagerato ottimismo che potrebbe derivare dalla sensazionale scoperta: «Si noti infine la logica e attesa altissima frequenza della prigione, dovuta all’uso della regola del doppio sei».

Per questa urbanistica contrattata di rito ambrosiano è sempre buono il momento di proclamare che due più due fa cinque, e farcelo credere. Era inevitabile che prima o poi succedesse, era nella logica stessa delle premesse su cui si basa. La visione del mondo che la informa nega, tacitamente, non solo la validità dell’esperienza democratica ma l’esistenza stessa di una realtà esterna all’infuori di essa stessa.

In questa strategia della distensione e della creazione del consenso, la narrazione verde assume i toni di un astuto camouflage, che serve a nascondere i veri problemi di una programmazione che si è allineata alle prospettive di rischio e di performance sul brevissimo termine, e a quei calcoli che appartengono più alle prospettive monopoliste e di dumping finanziario tardocapitalista in una prospettiva di mercato viziato e drogato che alle logiche di promozione e sviluppo di una città, di un distretto territoriale. L’ormai inflazionata sussidiarietà, di per sé non un male, cercava di rimodulare il controllo dei rapporti stato-individuo sulla scala territoriale. Ha praticamente fallito, in quanto, a parte nicchie ecologiche particolari non fa altro che amplificare e duplicare difetti già immanenti alla scala del potere centrale, per di più appesantite dalle consuete dinamiche socioantropologiche.

La distribuzione di poteri e poltrone in una prospettiva socio-territoriale ancora più angusta non ha fatto altro che annichilire le responsabilità e la capacità decisoria intorno ad argomenti di generale interesse nazionale. Un altro effetto perverso è stato quello di prosciugare e smontare quelle sacche di sapere professionale e di buona pratica amministrativa che resistevano nella macchina comunale per affrontare le sfide strategiche e di larga scala, oggi rese ancor più critiche dalla questione irrisolta della “regione metropolitana”.

In altri casi, la gestione “dal basso”, come spesso è avvenuto per i beni culturali, è riconosciuta come un micidiale boomerang compromissorio, dove la mancanza di una chiara distinzione tra ciò che è di natura intrinseca bene pubblico e ciò che è privato, a causa di una legislazione incoerente e carente sul fronte delle garanzie di legittimità e per interpretazioni viziate per conflitto d’interessi, in mancanza di una legislazione aggiornata ma soprattutto efficace, ha spesso generato, nei casi non giudiziari, equivoci e proliferazione di contenziosi.

Il carattere di contratto negoziale tra attori, assunto nella quasi totalità dei casi, ha naturalmente bisogno di un quadro legislativo raffinato e di controlli efficaci e tempestivi per garantire trasparenza, equità e legalità (favorire, non garantire a tutti i costi il negoziato). E non è detto che basti, ossia è condizione necessaria ma non sufficiente, perché è indispensabile che tutto avvenga in un quadro sociale che attui il pieno rispetto di un corretto e fisiologico esercizio delle virtù democratiche.

Per questo, e per la persistente consapevolezza di una cronica incapacità di attuare un indispensabile aggiornamento senza derogare dai principi cardine della Carta costituzionale, il rapporto società-politica deve essere inquadrato anche nei termini di una “revisione” dei principi del contratto di gestione amministrativa che regolano anche il rapporto della gestione dei beni comuni, che s’intrecciano con un diritto privato oggi sempre più aggressivo e prevalente.

Questa materia “sensibile” ha avuto finora scarso ascolto dalla politica in termini legislativi, e ha spesso costretto all’uso del referendum, ma ha costituito un fertile terreno di confronto tra “beniculturalisti” e “benicomunisti”, costituzionalisti, ambientalisti ed ecologisti. E ora, per la prima volta, ha destato anche una folta rappresentanza di architetti, urbanisti, intellettuali e cittadini attivi, una società civile milanese trasversale, transgenerazionale e bipartisan, che al grido di “Città bene comune” ha trovato una naturale, inedita convergenza “politica” di obiettivi, cercando nuovi strumenti e spazi per opporsi, resistere e denunciare rischi e limiti di una situazione che si è protratta per troppo tempo e i cui guasti non siamo in grado di prevedere fino in fondo.

(1)Gibelli M. C. (2016), “Milano: da metropoli fordista a Meccadel real estate”, in Meridiana, n. 85

«Questione romana. Il virus del trasformismo sembra aver contagiato i grillini».il manifesto, 10 febbraio 2017 (c.m.c.)

L’imprudenza di Paolo Berdini non può trasformarsi in un viatico per l’approvazione dello Stadio. Il progetto che va sotto il nome Stadio della Roma è forse la più grossa speculazione fondiaria tentata a Roma dopo l’Unità d’Italia.

Un milione di metri cubi a Tor di Valle, in una fragile ansa del Tevere non lontana dall’Eur, località difficilmente accessibile, servita solo dalla Roma-Lido, la peggiore ferrovia d’Italia. Un milione di metri cubi equivale a dieci volte il volume dell’Hilton, l’albergo su Monte Mario della Società generale immobiliare contro il quale, a metà degli anni Cinquanta, si mobilitò l’Espresso (che aveva pochi mesi di vita). «Capitale corrotta, nazione infetta» è il titolo dell’articolo di Manlio Cancogni che dette il via a una memorabile campagna giornalistica, politica e morale, contro il malgoverno urbanistico. All’Espresso si affiancò Il Mondo dove scriveva Antonio Cederna che nell’occasione coniò l’hilton, unità di misura della speculazione edilizia: un hilton = centomila metri cubi.

Del milione di metri cubi previsti a Tor di Valle, lo stadio e le altre funzioni connesse alle attività sportive formano solo un segmento, meno del venti per cento, di un complesso immobiliare che comprende tre grattacieli alti più di duecento metri e altri edifici destinati ad attività direzionali, ricettive e commerciali senza rapporti con lo stadio, ma destinati a compensare il costo delle infrastrutture dichiarate necessarie per la funzionalità dell’insieme. Una specie di piccola Eur dove il piano regolatore prevede impianti sportivi con modeste cubature. Tutto ciò sarebbe consentito non da una legge sugli stadi, di cui ogni tanto si sente parlare, legge che non esiste, ma grazie a una norma inserita forzosamente e all’ultimo momento nella legge di stabilità del 2014 nell’ambito del tradizionale maxiemendamento e quindi approvato solo per volontà del governo con voto di fiducia.

E contro tutto ciò si sono energicamente battuti, durante l’amministrazione Marino, che aveva insensatamente deliberato l’interesse pubblico del progetto, il gruppo consiliare M5S e l’allora consigliera Virginia Raggi. Che non hanno cambiato idea in campagna elettorale. Per questa ragione, chi scrive questa nota non è stato il solo a votare per Virginia Raggi al ballottaggio per il sindaco nelle scorse elezioni amministrative, e ha votato Raggi soprattutto perché la determinazione contro lo stadio e la speculazione edilizia in generale era rafforzata dalla candidatura di Paolo Berdini ad assessore all’urbanistica, sicuro presidio contro il malaffare.

Tutto ciò sembra che non conti più nulla, più della coerenza e del rispetto per gli impegni presi (che pure furono rispettati a proposito delle Olimpiadi) contano il consenso di Totti e dei tifosi che un tempo l’Uisp (Unione italiana sport popolari) chiamava gli sportivi con il culo (nel senso che fanno sport stando seduti). Non conta nulla non sapere che fine fanno lo stadio Olimpico e il vecchio stadio Flaminio ormai vergognosamente abbandonato. Per non dire della difficoltà a negare lo stesso trattamento a una eventuale richiesta della Lazio o di altre società sportive. Contro lo stadio sono rimasti alcune associazioni ambientaliste, il benemerito comitato «Salviamo Tor di Valle» dal cemento e pochi altri.

Questo modo di fare politica si chiama trasformismo. Fu definita così la pratica politica sostenuta dal presidente del Consiglio Agostino De Pretis che, in un famoso discorso a Stradella nel 1882, si rivolse agli esponenti della destra affinché si trasformassero e diventassero progressisti. Da allora, il trasformismo, da De Pretis a Mussolini a Matteo Renzi al M5S, è diventata la più funesta malattia non solo della sinistra ma di tutta la politica italiana.

«Berdini è – e resta – un punto di riferimento per chiunque pensa che il male delle nostre città sia che abbiamo troppo, e non troppo poco, cemento». la Repubblica, Blog art.9 Tomaso Montanari, 9 febbraio 2017 (c.m.c.)

Paolo Berdini è stato terribilmente ingenuo: si sa, «i figli delle tenebre sono più scaltri dei figli della luce» (Luca, 18, 6). Ma difficilmente chi è stato polizzato a sua insaputa può rimproverare qualcosa ad uno che a sua insaputa è stato intervistato.

L'iperpersonalizzazione della politica italiana (e in particolare delle figure dei sindaci-capi, con la loro elezione plebiscitaristica) fa sì che il problema sembri quello della lealtà dell'assessore al sindaco. No: il problema vero è la fedeltà della giunta al programma e ai cittadini. Anzi, al bene comune.

Ora, non c'è alcun dubbio che Berdini è – e resta – un punto di riferimento per chiunque pensa che il male delle nostre città sia che abbiamo troppo, e non troppo poco, cemento. Una delle famose 5 stelle rappresenta l'ambiente: se salta Berdini, è evidente che la giunta diventa a 4 stelle.

Allora, se Berdini deve saltare, deve saltare semmai sullo Stadio. Se la Raggi dovesse cedere all'eterno potere dei palazzinari e ai tweet del Pup(olist)one, se ci si dovesse rassegnare al fatto che a Roma il sistema dei signori del cemento vige non solo con la destra e la sinistra, ma anche con gli antisistema: beh, in quel caso Paolo Berdini non avrebbe un solo motivo per restare.

Ma non ora. Non perché ha detto ciò che – a torto o a ragione – dicono, con dispiacere e angoscia, moltissimi cittadini italiani, moltissimi militanti e moltissimi eletti del Movimento 5 Stelle.

La Nuova Sardegna, 9 febbraio 2017

Emergenza cultura è un collettivo di sostenitori della tutela dei beni culturali, in sintonia con l'art.9 della Costituzione, punti di vista alternativi alla riforma Franceschini. Nel sito omonimo interessanti documenti. Coordinamento affidato a una ventina di rappresentanti del variegato schieramento impegnato su questi temi, tra gli altri Vittorio Emiliani, Rita Paris, Vezio De Lucia, Tomaso Montanari, Maria Pia Guermandi.

Emergenza cultura ha pubblicato, in due puntate, un dossier da brivido sulla Sardegna nel pantano della riforma. La dimostrazione che le riforme non sempre portano fortuna, specie nelle realtà di cui si trascurano la storia e la geografia.
Non convince la strategia del ministro: tutto in subordine alle super-collezioni e ai poli museali - nello sfondo l'incremento dei flussi di visitatori in aree urbane dense. Svantaggiosa per la Sardegna con la sua compagine di piccoli musei (spesso senza guida) impossibilitati a fare da traino alle iniziative delle soprintendenze depotenziate dagli accorpamenti tuttologici (erano quattro nell'isola e oggi sono due). Da un po' nel mirino di chi non ne sopporta l'autonomia di giudizio, e ha immaginato di sottometterle al controllo prefettizio (la sfortunata legge Madia). D'altra parte l'antipatia di Renzi verso i soprintendenti è nota. E infatti, al netto della noiosa retorica sul "Paese più bello del mondo", la riforma ministeriale (a costo quasi zero) non amplierà il grado di protezione dei beni elencati dalle due leggi del 1939, e sulla ambiguità della cosiddetta valorizzazione ci sarà da discutere.
E in Sardegna andrà peggio. Il patrimonio dell'isola è disperso nelle campagne, pericolosamente lontano dagli occhi e raggiungibile a fatica. I beni archeologici per essere rinvenuti/rilevati/protetti/visitati, necessitano di personale e forme organizzative adeguate al numero dei beni, alla difficoltà di raggiungerli, per cui servirebbero almeno efficienti mezzi di trasporto scandalosamente indisponibili.
Per memoria: i nuraghi sono quasi novemila, a cui si somma una miriade di antichi manufatti, chissà quanti sottoterra. Il patrimonio di beni architettonici con il corredo di apparati mobili è altrettanto vasto (in ogni piccolo comune c'è almeno una chiesa preziosa con dipinti e sculture). Il paesaggio vincolato, sul quale il Mibact ha competenza, è di grande estensione e valore, ed è minacciato da vecchi e nuovi aggressori come gli speculatori dell'energia.
Sono solo 400 i dipendenti Mibact tra Sassari, Cagliari e le sedi operative. Con clamorosi deficit. Basta l'esempio della Soprintendenza del Nord Sardegna: due tecnici laureati più uno part-time. Con queste poche risorse umane, spesso eccellenti, e con la cronica insufficienza di finanziamenti, la partita è persa in partenza. Il Polo Museale sardo invece di trainare le soprintendenze, sarà una scatola vuota affidata a pochi custodi "infelicissimi". Perché nessun museo ha senso senza un direttore, uno storico- conservatore, progetti didattici. Per contro, nel caos protratto, si rischia di perdere collaudate esperienze di integrazione, come quelle tra attività di scavo, restauro, esposizione di reperti, formazione. Una deriva deprimente che riguarda altri istituti come gli archivi statali, agibili grazie alla generosità di chi ci lavora.
C'è poi la questione dei compiti primari delle soprintendenze nella tutela del paesaggio, dei tempi stabiliti per esprimere pareri sugli atti trasmessi da Regione/enti delegati. Una marea di pratiche a cui si deve fare fronte con un pugno di funzionari sui quali incombe lo smacco (e non solo) del silenzio assenso. Dovrebbe sopperire il recente provvedimento del governo Gentiloni sulla semplificazione dei procedimenti di autorizzazione paesaggistica. Ma c'è chi teme i risvolti pratici. E che questi modi sommari per rimediare all'inefficienza dello Stato, non preannuncino il disarmo delle istituzioni a presidio dei nostri beni culturali. In questo brutto clima - "la tutela contro lo sviluppo" - sta la diffidenza verso la linea scrupolosa del soprintendente del Sud Sardegna Fausto Martino sul caso Eurallamina.

». il manifesto, 5 febbraio 2017 (c.m.c.)

Nella notte che ha devastato e portato lutti nell’aquilano, alcuni imprenditori se la ridevano allegramente pensando ai lauti appalti pubblici che avrebbero spartito. Dopo otto anni il terremoto ancora sconvolge un’area geografica enorme.

Il sisma nell’area compresa tra Marche, Abruzzo e Umbria, nota per le grandi qualità storiche e ambientali, diventa purtroppo l’occasione per assestare un colpo micidiale all’architettura dello Stato, come l’abbiamo fin qui conosciuta. Il governo della delicata fase di ricostruzione deve contemperare la dovuta tempestività nell’emettere i pareri sulle opere di ricostruzione da eseguire e il rigore nel difendere un patrimonio culturale fatto di meravigliosi centri storici, di pievi, di monasteri, di paesaggi e reticoli idrici.

La guerra ingaggiata da anni contro la «burocrazia» che blocca l’economia e lo sviluppo di un paese in crisi non poteva mancare di portare l’ultimo e definitivo assalto al sistema delle tutele statali che fa capo al Ministero dei beni ambientali e culturali. Eppure, se ci fosse lo spazio per una intelocuzione seria, nessuno potrebbe negare che le tanto detestate Soprintendenze di Stato hanno operato in modo perfetto ogni volta che sul territorio italiano si è prodotto un terremoto. E i casi sono molti e ricorrenti. Il sisma che ha colpito l’Umbria ha praticamente concluso la fase di ricostruzione e tutto è avvenuto con tempestività nel rispetto delle tutele monumentali o ambientali.

Da allora ad oggi sono accaduti due fatti che stanno provocando il crollo dell’intera architettura dello Stato. Da un lato, il personale a disposizione delle Soprintendenze è sempre più esiguo e i pensionamenti non vengono da tempo reintegrati. C’è il vuoto negli uffici dello Stato. E, ancora, i mezzi strumentali sono ormai merce rara: così tecnici e soprintendenti vanno spesso con la propria autovettura a compiere sopralluoghi. D’altro canto, nel recente terremoto dell’Emilia è stata per la prima volta violata la regola che prevedeva la ricostruzione degli edifici crollati «com’erano e dov’erano», preferendo una arbitrarietà che ignora sempre le ragioni della storia e della cultura.

Con i provvedimenti varati dal governo Renzi nel 2016 si compie il passo successivo poiché con il combinato di due articoli di legge si consente addirittura di sanare gli abusi edilizi – e di ricostruirli- senza avere il parere obbligatorio delle Soprintendendenze. Una mostruosità giuridica che avrà effetti devastanti sia sui paesaggi storici sia per la perdita di autorità di un settore dello Stato.

Ma sulla frenesia semplificatoria e sul completo esautoramento delle funzioni dello Stato è stato creato un vulnus gravissimo il 28 novembre dello scorso anno, quando nell’ordinanza n. 4 del commissario Errani è stata istituita una Soprintendenza speciale per fornire gli indispensabili pareri di competenza esautorando le Soprintendenze di Stato. È il ministro pro tempore a decidere chi occuperà il ruolo guida, una gravità istituzionale in sintonia con la cultura dell’uomo solo al comando, tanto cara a Renzi e come sembra piacere ancora al nuovo presidente del consiglio.

La questione rischia invece di avere conseguenze devastanti sull’ordinamento dello Stato: con incarico discrezionale politico è stato infatti nominato a capo della struttura un tecnico ingegnere, Paolo Iannelli – che avrà rapporti con il segretario generale del Ministero cancellando in tal modo la Direzione generale per l’archeologia, le belle arti e il paesaggio e, insieme ad essa, il Consiglio dei beni culturali e i Comitati tecnici di settore importanti organi di cui fanno parte i migliori docenti e studiosi della materia.

Insomma la lotta ai burocrati e ai «professoroni» procede spedita anche se, passo dopo passo si sta disarticolando la struttura dello Stato e la tutela prevista solennemente dall’articolo 9 della carta costituzionale che scompare nel gorgo della discrezionalità di una politica senza autorità.

«Dal Municipio sciolto per infiltrazioni alle condanne ai boss per gli appalti sugli stabilimenti così si svela l’intreccio tra criminalità e politica che per anni ha dominato il litorale». la Repubblica, 5 febbraio 2017

C’è o non c’è la mafia ad Ostia? Il suo Municipio è sciolto per mafia. Il suo lungomuro è infestato di mafia. Il suo mare è negato dalla mafia. I suoi abitanti sono strozzati dalla mafia. Allora, c’è o non c’è la mafia ad Ostia?

Un anno fa ci sono stati giudici che dicevano che non c’era e altri che sostenevano il contrario (poi confortati anche dalle eccellentissime toghe della Cassazione), due giorni fa un altro Tribunale non solo ha confermato che c’è ma che ha pure allungato le mani proprio sul tesoro di Ostia: gli stabilimenti balneari. Notizia che fa clamore ma che conoscono pure i bambini, fra le dune di Capocotta e la pineta di Castelporziano.

L’aveva scritto in anteprima anche la nostra Federica Angeli e si era presa — e continua a prendersi — minacce e insulti che la costringono ad andare in giro sotto scorta e ad avere molta cura dei suoi figli che all’asilo vengono fotografati da ignoti vigliacchi. L’aveva denunciato l’assessore alla Legalità Alfonso Sabella — che su Ostia aveva ricevuto una delega da commissario — e che un giorno ci ha confidato di sentirsi lì come nella Palermo dannata dei primi anni ‘80.

L’avevano gridato in molti ma contro di loro — ed è questo che bisogna tenere bene a mente per poi non fingere meraviglia — ogni volta si scatena una reazione sguaiata, violenta. Con intimidazioni. Minacce. Con campagne vergognose sul web e sui fogli locali, tutti foraggiate dai signorotti del luogo. Perché di Ostia non si deve parlare. Perché su Ostia, laboratorio politico criminale a pochi chilometri dal Colosseo, si sta giocando una partita che può diventare decisiva anche per Roma.

Gli Spada avevano finalmente il loro lido. Peccato che un’inchiesta di Repubblica li ha smascherati. Poi sono arrivate anche le condanne della magistratura. Manovalanza da usare alla bisogna, imparentati con i più famosi Casamonica, gli Spada avevano provato a fare il salto nell’aristocrazia del delitto per non rappresentare più soltanto la mafia delle estorsioni e dello spaccio. L’aggancio con Aldo Papalini, l’ex direttore dell’ufficio tecnico del loro Municipio, con un luogotenente della Marina Militare, con un esponente di CasaPound e con l’amministratore di una società. Intrallazzi conditi dall’articolo 7, l’aggravante mafiosa.

Quella che non avevano meritato secondo i giudici di Appello quasi un anno fa i Fasciani — livello più alto del crimine di Ostia — e che invece avevano ricevuto sotto forma di condanna i loro prestanome appena cinque giorni prima. Una giustizia schizofrenica. E a volte assai distratta: perché se i Fasciani non sono mafiosi nessuno è mafioso ad Ostia. Come in effetti i Triassi, altro clan di caratura per le loro parentele con i “siciliani”: e che siciliani, sono i generi dei capostipiti della Premiata Ditta Cuntrera & Caruana di Siculiana, quella che una volta era considerata la Wall Street della droga.

Ci sono mafie per tutti i gusti ad Ostia. Ma non si può dire. Non si può scrivere. Non si può nemmeno pensare. Quando ci sono i mafiosi, ci sono sempre i complici. Uno chi era? Il capo dei poliziotti di Ostia. Il primo dirigente Antonio Franco, arrestato, processato e condannato per la sua interessata relazione con il titolare di una sala scommesse vicina agli Spada. Poi ci sono funzionari e ed ex amministratori già finiti nel calderone di Mafia Capitale. Poi ancora personaggi come Mauro Balini, il “re del porto” al quale hanno sequestrato beni per 400 milioni di euro.

Una fauna corteggiata da associazioni antimafia assai ambigue che ogni giorno diffondono in rete veleni e grossolanità, un piccolo club di soggetti che in Sicilia li chiamerebbero “incagliacani” (accalappiacani), ovvero personaggi non proprio di spessore elevato ma sempre curvi e al servizio permanente ed effettivo di qualcuno. Ostia la considerano loro, fuori dai confini nazionali e dalle leggi. Ostia non si tocca. E nemmeno il suo lungomuro di 11 chilometri. Dove una cabina è diventata una palestra, dove un chiosco è ormai un beauty center, dove ci sono posti letto in riva al mare camuffati da spogliatoi.

Un paio di anni fa, le cartine catastali del 1992 di questa grande banlieu romana sono state nascoste in cassaforte, in un luogo segreto per paura che qualcuno le bruciasse o le facesse sparire. Confrontandola con le mappe Google dei giorni nostri, non c’è una sola Ostia ma ce ne sono due. La prima ancora dignitosa, l’altra che è un inferno di cemento.

La fine di questo piccolo romanzo nero a chi la vogliamo far scrivere? Alla tribù degli Spada, a Carmine detto Romoletto o a suo cugino Armando che a Federica Angeli l’ha avvicinata per urlarle “ti sparo in testa”? Ai Fasciani — non mafiosi per i giudici di una Corte di Appello? Ai Triassi di Siculiana che bivaccano sul litorale laziale? A Mauro Balini e ai suoi misteriosi amici? Agli “onesti cittadini” di Ostia, per fortuna pochi, che l’altra settimana sfilavano per protestare contro il Municipio sciolto per mafia e che mai avevano protestato contro la mafia?

Ecco (finalmente)un articolo che connette analisi e visione raccontando Roma com'è davvero, e come potrebbe essere se i decisori affrontassero i problemi veri e comprendessero quali sono le risorse disponibili. E se chi forma l'opinione pubblica facesse il suo mestiere. il manifesto, 5 febbraio 2017

Di Roma si parla ormai solo in occasioni di cronache giudiziarie, di scandali, di presunte o vere mafie, di aggressioni e stupri. Nel mentre la città affonda nelle splendide macerie della sua fantastica Storia, come nelle Carceri di Piranesi. «Siamo sereni, andiamo avanti» è il refrain della sindaca Raggi e della sua squadra, ma nessuno sa in quale direzione. Sarebbe più saggio affermare: «Fermiamoci e chiediamoci dove e in che direzione andare».

Scrivere su Roma è come scommettere, alle corse, su un cavallo zoppo: inutile sprecarci inchiostro, e poi per parlare a chi? Non certo a questi amministratori afoni preoccupati solo di rispondere a un fantomatico codice etico stabilito dal loro partito o dal loro Capo, e neppure alle singole persone ormai abituate, come solo succede ai romani, ad attraversare campi minati, scavalcare fili spinati, attendere inutilmente autobus sgangherati sperando che non cedano lungo il percorso.

Si è dimenticato che una città ha bisogno di idee e progetti; i quali, però, non sono quelli che dovrebbero renderla simile a Dubai o a qualche altra fantasmagoria ultra (o post) moderna. Si è dimenticato che esistono periferie in balia di attività illegali, droga, disagio esistenziale ed economico. E si è dimenticato che esiste una città di sotto dove invisibili presenze senza nome costruiscono rifugi e rovistano tra rifiuti.

Quando le cose vanno bene, l’amministrazione si limita alla pura ragioneria contabile, strozzata dai debiti. La rassegnazione dilaga incontrastata: è già tanto che qualche autobus arrivi alla fermata e raggiunga il capolinea o che una delle due metro funzioni.

È già tanto che non ci si azzoppi una gamba durante il percorso ad ostacoli per arrivare al lavoro. E una volta arrivati si tira un sospiro di sollievo: anche questa mattina ce l’ho fatta, sono salvo! Nel mentre sciami di cavallette travestite da turisti, scendono da torpedoni a due piani, pronti a divorare tutto ciò che incontrano: dall’Altare della Patria al Mosè di Michelangelo, non distinguendo l’uno dall’altro. Centri commerciali fioriscono come funghi intorno e oltre il raccordo anulare e si leggono, sempre più spesso, cartelli di affittasi o vendesi di antichi negozi e botteghe che non ce l’hanno fatta; fioriscono nuovi Bingo, nuovi negozi di «Compro oro», o creative insegne di «Non solo pane», «Non solo pizza»: un suk di disperazioni.

C’è chi ritiene che Roma sia afflitta da un ritardo di modernizzazione, una modernizzazione mancata o incompiuta, tanto che si invoca il trasferimento della sua funzione di capitale ad altre città (la solita Milano). Ma di quale mancata modernizzazione si parla? Non quella di far funzionare gli autobus, di dare pace a una metropolitana che non sa da che parte andare né di mettere fine al problema dello smaltimento dei rifiuti o di valorizzare (anziché far chiudere) quei centri sociali e quelle associazioni dove si creano lampi di possibili comunità conviviali, nuove culture e nuovi linguaggi. Né, ancora, di accogliere i diseredati del mondo o di intervenire sul risentimento delle periferie, prima che diventino polveriere pronte ad esplodere.

Roma non è mai stata, non lo è ancora adesso, e non sarà mai moderna se a questa parola si attribuisce il significato di competere nella classifica delle città globali, o di essere luogo indiscusso della finanza mondiale, o di essere smart o brand per attirare capitali. E insistere nella necessità di modernizzarla (leggi: politica delle grandi opere), è come tentare di normalizzare il collo della giraffa per farlo diventare come quello di un cavallo.

Roma non ha bisogno di aggiunte, di imbellettamenti per diventare una star nel firmamento della globalizzazione o un’attraente prostituta in attesa di clienti. Roma ha già quanto ogni altra città desidererebbe avere; non servono le grandi opere, serve, al contrario, far funzionare e valorizzare ciò che già c’è (non era questo il programma della sindaca Virginia Raggi?). Perché allora non utilizzare questa sua «mancata modernizzazione», questo suo cronico «ritardo», per trarne un vantaggio competitivo nella scena globale, per sviluppare un modo diverso di essere moderni?

Questo potrebbe essere il progetto. Valorizzare [preferiremmo dire "mettendo in valore" - ndr] le sue bellezze (arte, cultura, tradizioni) e perfino quella sua lentezza e pigrizia, risorsa rara in un mondo che corre troppo veloce; valorizzare la sua tradizione antirazzista (forse più per pigrizia che per merito), per creare luoghi e occasioni di accoglienza, valorizzare quell’immenso patrimonio di verde dell’Agro romano minacciato dall’urbanizzazione, valorizzare le tante esperienze di centri e comunità che producono cultura, convivenza tra diversità e quel welfare spontaneo fatto di coltivazione di orti e di pratiche di sopravvivenza.

E poi ancora impegnarsi seriamente per il Progetto Fori rendendo finalmente giustizia a Antonio Cederna. Dovremmo insomma fare tesoro di questa sua diversità anziché tentare di accorciare il collo della giraffa per renderla simile a un cavallo di razza, del quale non se ne sente alcun bisogno.

«Il nostro Paese è tanto ricco di arte non solo grazie alla capacità di crearla, ma anche alla lucidità con cui, lungo i secoli, si è dato leggi che l’hanno sottratta agli interessi privati e al mercato. L'obiettivo del negoziato è reprimere i reati che riguardano opere d’arte libri e reperti». la Repubblica, 4 febbraio 2017 (c.m.c.)

Non sono molti gli ambiti internazionali in cui l’Italia sappia esercitare una leadership: nonostante tutto, è ancora il caso della tutela del patrimonio culturale, e torna a dimostrarlo, in questi giorni, un seminario del Consiglio d’Europa alla Scuola Imt di Alti Studi di Lucca. Al centro della discussione è il negoziato, in corso presso lo stesso Consiglio d’Europa, sui reati penali contro il patrimonio. Un negoziato che già ad aprile sfocerà in una Convenzione internazionale che — una volta ratificata dagli Stati nazionali — renderà più sicuro ciò che abbiamo di più prezioso: musei, scavi archeologici, biblioteche, archivi e molto altro.

L’obiettivo — facile da comprendere, ma finora arduo da raggiungere — è definire con gli stessi termini, reprimere con i mezzi più avanzati e possibilmente punire con decisione i tanti modi che esistono prima per rubare, e poi per far muovere da uno Stato all’altro questa specialissima refurtiva: quadri, statue, libri, reperti di ogni tipo.

Oggi un’estrema sperequazione di mezzi caratterizza, per così dire, le guardie e i ladri d’arte ( da non immaginare come romantici Lupin: tra loro contano anche i terroristi dell’Isis). L’internazionale del crimine contro il patrimonio usa mezzi sofisticati e ignora ogni confine nazionale, mentre le forze di polizia ( pensiamo ai nostri eroici carabinieri del Nucleo di tutela) e le magistrature che devono combatterla sono frenate da strumenti giuridici antiquati ( pressoché impossibile, per esempio, usare le intercettazioni per reati di questo tipo), rogatorie internazionali interminabilmente lunghe, resistenze sciovinistiche.

Queste ultime rendono complessa la trattativa per la nuova convenzione: l’interesse dei Paesi ricchi di opere d’arte e di siti archeologici ( Italia, Grecia, Cipro, Spagna, Portogallo e Francia) diverge da quello dei Paesi ricchi di case d’asta e di gallerie antiquarie ( Regno Unito e Olanda su tutti), e la libera circolazione delle merci è forse l’unica religione del nostro tempo.
Qua farà la differenza la qualità della diplomazia italiana, che lavora perché l’amore per le radici della comune identità europea prevalga sull’arbitrio di un mercato senza regole, in cui non di rado sono sfumati i confini tra lecito e illecito.

Dopo decenni di disinteresse, il nostro ministero della Giustizia è ora particolarmente impegnato su questo fronte, e ha preparato anche una profonda innovazione della ( pressoché inesistente) sezione penale del nostro Codice dei Beni culturali. Se durante il precedente governo, il ministero per i Beni culturali ( cui ciò spetta) non aveva portato la proposta di legge in Consiglio dei ministri, con la nascita del governo Gentiloni questo passo è stato compiuto.

Sarebbe importante che, entro lo scorcio della legislatura, il Parlamento riuscisse ad approvarla, anche per dare il senso di un’inversione di marcia rispetto a segnali inquietanti, quali il disegno di legge Marcucci ( che giace in Parlamento) che mira, al contrario, a rendere più indiscriminata l’esportazione; o il discutibile coinvolgimento di rappresentanti di case d’asta internazionali nelle commissioni ministeriali chiamate a ridefinire le regole dell’esportazione.

Il nostro Paese è tanto ricco di arte non solo grazie alla capacità di crearla, ma anche alla lucidità con cui, lungo i secoli, si è dato leggi che l’hanno sottratta agli interessi privati e al mercato: se il patrimonio italiano esiste ancora, lo dobbiamo al continuo aggiornamento di queste leggi. Comprenderlo, e addirittura farlo comprendere all’Europa, è di importanza vitale. Non per il nostro passato: per il nostro futuro.

«Il PIL finisce con l’essere l’altare sul quale si chiede a un Paese di fare sacrifici come se tutti i Paesi fossero uguali e in particolare il valore dei servizi resi non dovesse tenere conto di specifiche realtà». ArcipelagoMilano, 31 gennaio 2017 (c.m.c.)

Negli ultimi giorni da Banca d’Italia, da Bruxelles e dalla Banca Centrale Europea sono arrivati ammonimenti, bacchettate e sollecitazioni come piovesse. Due i temi principali: le mancate o parziali riforme e lo sforamento dello 0,2% del rapporto debito PIL, fissato al 3% col patto di stabilità e crescita (PSC) stipulato e sottoscritto nel 1997 dai paesi della UE. La domanda che mi faccio e che penso si facciano molti dei nostri lettori è: ma che colpa abbiamo noi? Sì, proprio come il refrain della vecchia canzone dei Rokers del 1965, (magari riascoltarla non fa male). Noi milanesi.

Tanto per cominciare non siamo stati capaci di far pesare a Roma quello che ora il Governo ci riconosce: essere la principale locomotiva del Paese – non l’unica certo – e non aver mandato in Parlamento una classe politica capace di fare riforme che non abortiscano sugli scogli della Corte dei Conti, della Corte Costituzionale e, a livello locale, sugli scogli dei Tribunali Amministrativi Regionali. La sollecitazione a fare le riforme cade in un mondo legislativo assolutamente inadeguato, di dilettanti allo sbaraglio. Un esempio? La legge Delrio.

La scarsa attenzione al formarsi di una classe dirigente e, ancora peggio, una sorte di disprezzo della politica da parte della borghesia imprenditoriale sono due nostre colpe gravi. Ricordo a me per primo ma a tutti quelli della mia generazione il tempo in cui i milanesi si gloriavano nel dire che a Roma si faceva politica e noi invece lavoravamo e che i politici erano un taxi sul quale si saliva al bisogno. Questo disimpegno lo stiamo pagando anche adesso.

Se saremo sanzionati da Bruxelles e fossimo costretti ad esempio a un aumento dell’IVA e/o delle accise sulla benzina, è chiaro a tutti che il peso maggiore andrà sulle aree dove produzione e consumi sono maggiori. Se così sarà noi dunque saremo in prima linea.

Qui però vale la pena di aprire ancora una volta il problema del sistema di calcolo del PIL (o Prodotto Interno Lordo) che misura il valore di mercato di tutte le merci finite e di tutti i servizi che hanno una valorizzazione in un processo di scambio. Il PIL finisce con l’essere l’altare sul quale si chiede a un Paese di fare sacrifici come se tutti i Paesi fossero uguali e in particolare il valore dei servizi resi non dovesse tenere conto di specifiche realtà.

Nel calcolo del PIL sono sì compresi virtualmente anche i valori della produzione legata all’economia nera, guai se così non fosse da noi, ma essendo un calcolo teorico comunque ci penalizza ma, quello che è più grave, non si conteggiano i servizi forniti in modo volontario e gratuito ormai da una vastissima platea di cittadini. Milano in testa alla lista del lavoro volontario gratuito. Lo stesso discorso vale per il lavoro domestico e di accudimento a vecchi e bambini, ancora prevalentemente femminile, altrove in Europa per la maggior parte a carico dello Stato.

L’obiezione c’è: se questo lavoro fosse pagato, essendo di tipo integrativo e sostitutivo di funzioni non svolte dalla mano pubblica, e se quest’ultima le pagasse, i conti dello Stato peggiorerebbero e di conseguenza il rapporto debito/PIL.

Ma io propongo un’altra lettura. Il volontariato funziona dal punto di vista del suo valore con un meccanismo simile alla banca del tempo: è una sorta di autotassazione volontaria a favore dello Stato al quale “versiamo” il nostro tempo, dunque un aumento del gettito fiscale. Se così potesse essere, se così si potesse calcolare il PIL, fuori dall’utopia, di nuovo noi milanesi saremmo in prima linea come contribuenti volonterosi, insieme con altri, in un Paese più ricco, certo sulla carta. Ma il PIL non è carta?

La riflessione comunque sul PIL va fatta e noi milanesi dovremmo chiederla e forse, per una volta, troveremmo d’accordo M5s, Lega, Forza Italia, Pd e tutti insomma.

Ma la gratuità del lavoro è un tema che si allarga e comprende anche una parte della classe politica: sull’onda della riduzione dei costi della politica, ad esempio la legge Delrio prevede che i consiglieri delle Città Metropolitane non percepiscano compensi.

Contemporaneamente molti Comuni assumono consulenti che hanno emolumenti superiori a quelli degli assessori con i quali collaborano. Il divario tra le somme percepite da consiglieri comunali e quelli regionali sono stridenti. Ad alcune cariche e funzioni pubbliche può accedere soltanto chi ha redditi propri, alla faccia della democrazia, come ha sottolineato anche recentemente il Procuratore Generale milanese Roberto Alfonso all’inaugurazione dell’anno giudiziario.

Nel Paese delle disuguaglianze anche questo è un aspetto sul quale riflettere, senza indugi, senza ipocrisie e sapendo che per farlo si dovranno correggere anche pesantemente trattamenti che vengono da situazioni pregresse e diritti”acquisiti”. La politica saprà fare pulizia? In casa sua prima che altrove?

«Nel documento inoltrato alla Conferenza dei servizi i tecnici capitolini sollevano svariate obiezioni sull’intervento sotto il profilo della sicurezza, dei trasporti e dell’impatto ambientale in un’area a rischio idraulico». corriere della sera online, 2 febbraio 2017 (c.m.c.)

«Non idoneo». Due parole che riassumono il parere negativo del Campidoglio al progetto dello stadio della Roma a Tor di Valle. Il documento, protocollato in data 1° febbraio, è stato inviato alla Conferenza dei servizi alla Regione Lazio. Tra le motivazioni dettagliate nel documento, la sicurezza stradale e pedonale. Altra osservazione: l’incompatibilità del progetto definitivo con un’area considerata a rischio idraulico. Tra le criticità rilevate dai tecnici del Comune, in particolare del dipartimento Urbanistica, la mancanza di un sistema di trasporto adeguato e la sottostima degli aumentati flussi di traffico. Sono molteplici, e pertinenti ad ambiti diversi, le obiezioni sollevate dai tecnici capitolini.

Le modifiche richieste per sbloccare l’iter

Se non fosse che, malgrado il parere «non favorevole», in chiusura il Comune lascia aperto uno spiraglio: «Le condizioni per addivenire al parere favorevole - si legge nel documento pubblicato sul sito della Regione Lazio - sono definite dall’elaborazione delle modifiche/integrazioni progettuali necessarie a: assicurare adeguati livelli di sicurezza stradale: veicolare e pedonale; assicurare adeguati livelli «di esercizio» delle infrastrutture stradali; completare la documentazione progettuale con le elaborazioni mancanti; colmare le carenze di contenuti rilevate; nonché dalla: ridefinizione del perimetro delle zone, che interessano le aree di sedime dell’intervento in questione, già soggette a rischio per eventi idraulici “R3” e “R4” del Pai, nonché delle fasce fluviali “A” “B” e “C” e conseguente declassificazione».

In serata, dal Campidoglio è arrivato un ulteriore chiarimento per giustificare il «no» con riserva: «Sul progetto definitivo dello stadio della Roma c’è la volontà ad andare avanti per analizzare il dossier - si legge nel comunicato di Palazzo Senatorio - . È stata chiesta proprio per questo motivo la proroga di trenta giorni della Conferenza dei Servizi. Riserve sono state espresse sui livelli di sicurezza stradale, veicolare e pedonale nella consapevolezza che ci sono trenta giorni per intervenire. C’è una lista di temi da affrontare nel periodo di sospensione; ci sono tutti i margini per concludere positivamente la procedura».

Miccoli: «Raggi e Berdini imbroglioni»

Critiche pesanti all’alt del Comune dal deputato dem, Marco Miccoli: «Ancora una volta Virginia Raggi e il confuso ideologo del no a tutto, l’assessore Paolo Berdini - il commento del parlamentare - hanno imbrogliato Roma e i romani. Due giorni fa hanno chiesto un mese di tempo e il rinvio della Conferenza dei servizi per poter valutare ancora meglio il progetto dello stadio e le eventuali proposte di varianti. Oggi hanno dato parere sfavorevole seppellendolo definitivamente».

Il no della Città metropolitana

E tuttavia anche la Città metropolitana - peraltro guidata da Raggi - ha detto no al progetto. Il parere complessivo di Palazzo Valentini, anch’esso disponibile sul sito della Regione, esprime «dissenso» sul piano «con le motivazioni per le quali, vista la particolare articolazione e complessità, si rimanda a quanto espresso nei singoli pareri allegati». Per il «superamento del dissenso» la Città metropolitana indica numerose prescrizioni, divise per argomento. Si va dai temi della mobilità (tra cui l’«ulteriore potenziamento della Roma-Lido») alla tutela e valorizzazione ambientale, dalla viabilità alle infrastrutture fino alla coerenza della pianificazione urbanistica generale.

Pubblichiamo il testo dell'appello del gruppo cittadinanza attiva e comitato FAI "Che ne sarà di città degli studi?" 18 gennaio 2017 (m.c.g.)

Un altro esempio di ‘cattiva pratica’ urbanistica e amministrativa del capoluogo lombardo: pur di assecondare il discutibilissimo progetto di riuso delle aree EXPO Milano 2015, fortemente voluto da Renzi e da AREXPO (la società proprietaria dei terreni, controllata per il 39% dal ministero dell'Economia e delle finanze e compartecipata dal Comune di Milano e dalla Regione Lombardia) si mette a rischio la sopravvivenza di una vasta porzione della periferia milanese storicamente vocata all’istruzione universitaria. Ma i cittadini non ci stanno.(m.c.g.)

Egregio Sindaco Sala,

siamo un gruppo di residenti di Città Studi, Lambrate e Milano Est aggregatisi a partire dal febbraio 2016 tramite Facebook (dove la nostra pagina “Che ne sarà di Città Studi?” conta oggi oltre 2300 membri) e iniziative sul territorio. Lo scorso novembre, la campagna da noi lanciata per il riconoscimento di Città Studi come “Luogo del Cuore FAI” ha avuto un riscontro molto significativo tra i cittadini della Zona 3: in quattro settimane scarse hanno aderito con più di 4.500 firme, conferite per un terzo sul sito del FAI e per ben due terzi (oltre 3.000 firme) su carta, recandosi appositamente presso diverse decine di negozi della zona che si sono offerti di ospitare la raccolta. Vista la massiva e sentita partecipazione, il nostro gruppo si è anche costituito nell’omonimo Comitato FAI “Che ne sarà di Città Studi?”. (1)

Le scriviamo per manifestarLe la nostra viva preoccupazione per il futuro della periferia di Zona 3, che pare pericolosamente sospeso tra cecità amministrativa e vuoto di programmazione urbanistica.

L’area di Lambrate Stazione-Rubattino-Ortica è notoriamente afflitta da cronici problemi – degrado, occupazioni abusive, randagismo e microcriminalità- derivanti dalla presenza di numerosi siti industriali ed edifici civili dismessi lasciati in stato di abbandono, primo tra tutti l’amplissima area dell’ex Innocenti al Rubattino, da dieci anni sospesa nel limbo del lentissimo completamento della fase 1 e della mancata attuazione della fase 2 del PRU.

Eppure, a più di 6 mesi dall’insediamento della Sua Giunta e del Municipio 3, da parte di entrambe le amministrazioni non c’è segnale dell’intenzione di intervenire in modo strategico e radicale per risolvere finalmente lo stallo del PRU Rubattino e i collegati problemi di degrado e sicurezza dell’area. Il Piano per le Periferie da Lei varato lo scorso dicembre addirittura vede quest’area esclusa da ogni intervento strutturale.(2)

Il disinteresse del Comune e del Municipio 3 per la risoluzione dei gravi problemi dell’area Lambrate Stazione-Rubattino-Ortica si somma alle incognite del progetto che incombe sulla periferia del quartiere Città Studi: il trasferimento delle Facoltà Scientifiche dell’Università Statale sul sito di Rho-Expo. Grazie al sostegno fornito dalla Sua Amministrazione e da Lei personalmente, oltre che dall’uscente governo Renzi e da Regione Lombardia, il progetto è stato finanziato e troverà attuazione.

Sull’abnormità e sui possibili devastanti effetti di questo trasferimento e dell’ulteriore progetto di trasloco che interesserà la stessa periferia di Città Studi – lo spostamento a Sesto San Giovanni degli Istituti Tumori e Besta – ci siamo già espressi nell’allegato volantino(3), diffuso in 15mila copie tra i residenti di Zona 3 e che La invitiamo a leggere. Ora ci preme richiamare alla Sua attenzione che l’area Lambrate Stazione-Rubattino-Ortica è contigua e strettamente connessa – dal punto di vista della vitalità sociale, culturale ed economica – all’amplissima area di Città Studi (vie Valvassori Peroni, Pascal, Golgi, Celoria, Ponzio, Venezian, Colombo, Saldini, Botticelli, piazzale Gorini) che si svuoterebbe in conseguenza del trasferimento delle Facoltà Scientifiche di UniMi a Rho e dei due ospedali a Sesto.

È sorprendente come un’Amministrazione che proclama di voler porre le periferie al centro della propria visione sia completamente cieca alla concreta possibilità che il trasloco di UniMi e degli ospedali da Città Studi avrà l’effetto di aggravare ed allargare nella periferia e sin dentro il cuore di Zona 3 il cronico problema delle aree dismesse e abbandonate al degrado. Già oggi dall’area di Lambrate Stazione-Rubattino-Ortica l’abusivismo, il randagismo e la microcriminalità si allungano fin dentro zone più centrali di Lambrate e Città Studi. Il rischio che questi problemi avanzino e diventino endemici dentro la Zona 3 è grandemente favorito dalla vastità delle superfici che si svuoteranno e spopoleranno a seguito dei due progetti di trasferimento: almeno 350.000 mq tra edifici e plessi universitari e ospedalieri, oltre ai terreni annessi.

Non meno grave per Città Studi, Lambrate, Rubattino, Ortica e l’intera Zona 3 sarà il venir meno della vitalità sociale e culturale e dell’indotto economico che l’Università, gli ospedali e la correlate presenze (studenti, ricercatori e docenti, personale tecnico-amministrativo, personale sanitario, utenti degli ambulatori ospedalieri, degenti e loro famiglie) garantiscono da molti decenni a tutta la Zona 3, risultando però particolarmente importanti proprio per la sua periferia.

Con queste premesse, il trasferimento delle Facoltà Scientifiche e degli Istituti Tumori e Besta da Città Studi potrebbe assestare alla periferia della Zona 3 un colpo molto grave, se non fatale. In apertura della conferenza di presentazione del piano “Fare Milano” Lei ha detto che il Sindaco è in contatto quotidiano con i suoi cittadini che lo richiamano all’attenzione sui problemi. Ispirati da queste parole, abbiamo deciso di rivolgerci a Lei direttamente per segnalare il rischio concreto che, continuando su queste linee – da un lato avallate lo smantellamento di Città Studi senza avere alcun piano per il post dismissione, dall’altro non intervenite a sanare i problemi dell’area Lambrate Stazione – Rubattino – Ortica – Lei e la Sua Amministrazione getterete le basi per il futuro disastro sociale ed economico della periferia di Zona 3. Ci appelliamo a Lei perché scongiuri tale prospettiva, rivedendo con urgenza le vostre politiche per queste aree, a partire dagli interventi urbanistici.

In un evidente vuoto di programmazione urbanistica, si stanno infatti innestando sulla stessa zona, entro un raggio di pochissimi chilometri, tre grandi progetti: due dismissioni – Istituti Tumori e Besta, Università Statale – e una riqualificazione – scalo ferroviario di Lambrate – portati avanti ognuno per conto proprio, in assenza di una visione complessiva e ignorando i problemi e le potenzialità del territorio.

Guardando a tali potenzialità, la necessità di reperire nuovi spazi che spinge l’Università Statale a lasciare Città Studi poteva ben essere risolta utilizzando i numerosi grandi spazi disponibili alla periferia di Zona 3, tra l’altro vicinissimi alle sedi storiche di UniMi. Un’Amministrazione comunale davvero interessata a “mettere le periferie al centro”, avrebbe certamente visto la grande opportunità di riqualificare e anche rilanciare tutta la periferia di Zona 3 che si poteva creare destinando proprio l’amplissima e servitissima (tangenziale, stazione FS, metro, mezzi di superficie, aeroporto) area ex-Innocenti al Rubattino (4) alla realizzazione del nuovo e moderno campus di cui la Statale ha bisogno. Considerata anche la presenza in zona dell’area dello scalo di Lambrate da riqualificare, Rubattino offriva spazi sufficienti per accogliere l’intero progetto Human Technopole (5). Il nuovo polo scientifico e tecnologico si sarebbe qui giovato della presenza del Politecnico e delle numerose aziende farmaceutiche, biomediche e tecnomedicali che hanno sede nella periferia e nell’hinterland Est di Milano.

Invece, tramite ingenti finanziamenti pubblici, il Governo Renzi e Regione Lombardia hanno incentivato l’Università Statale a trovare nuovi spazi a Rho. L’Amministrazione comunale ha appoggiato la soluzione, consegnando la periferia di Zona 3 a un futuro di possibile ulteriore declino. Infatti, a partire dalla necessità di risolvere il problema del post-Expo, si è creato con effetto domino il problema del post-Città Studi, su cui persiste l’allarmante silenzio del Comune e del Municipio 3.

A noi cittadini della Zona 3 pare proprio che Lei e la Sua Giunta puntiate ad affossare la nostra periferia, piuttosto che “metterla al centro” come da Suo programma elettorale. Ora ci aspettiamo che vi facciate responsabilmente carico delle nostre preoccupazioni, riconsideriate molto seriamente la situazione – urbanistica e non solo – della periferia di Zona e diate risposta alle nostre domande, rompendo il vostro silenzio.

Da parte nostra, in rappresentanza dei cittadini della periferia e dell’intera Zona 3, vigileremo con massima attenzione su tutte le ulteriori vicende e fasi che riguarderanno la dismissione delle Facoltà Scientifiche e degli Istituti Tumori e Besta da Città Studi, adoperandoci per difendere la storia e l’identità del nostro territorio, con lo stesso civismo che ci ha spinto a scriverLe.

Grazie per la Sua attenzione,

Il Gruppo di Cittadinanza Attiva e Comitato FAI “Che ne sarà di Città Studi?”

Milano, 18 gennaio 2017

Note alla lettera:

Note alla lettera:
1) Presentazione e scopo del comitato disponibili al link: http://iluoghidelcuore.it/comitato/584
2) La situazione non pare sostanzialmente modificata dall’integrazione al Piano per le Periferie recentemente proposta dal Municipio 3.
3) Il volantino, del novembre 2016, è scaricabile sul blog del nostro gruppo, al link: https://chenesaradicittastudi.files.wordpress.com/2016/11/volantino_pronto_per_stampa.pdf
4) Ci riferiamo alla vastissima area su cui dopo un decennio non ha trovato ancora attuazione la fase 2 del PRU Rubattino, situata immediatamente a ridosso del quartiere residenziale “Parco Grande Rubattino”, distante appena 2 km dalle Facoltà Scientifiche di UniMi site intorno a via Celoria.
5) In zona Rubattino, a due passi dall’area ex Innocenti e dallo scalo di Lambrate, sono tra l’altro presenti, di proprietà della Statale, un ampio terreno non edificato (18.000 mq) in via San Faustino e, di fronte, in via Trentacoste 2, un edificio moderno che ospita le Facoltà di Farmacia e Veterinaria e confina con un’ampia area non più edificata appena dismessa dal Comune.

Nel prossimo futuro Milano e la sua area metropolitana rischiano di sprecare anche l’ultima cruciale occasione per realizzare un autentico policentrismo: quella del riuso degli scali ferroviari dismessi, una superficie in dismissione. arcipelagomilano.org, 24 gennaio 2017 (m.c.g.) con postilla

Il workshop dedicato al recupero degli scali ferroviari milanesi, organizzato da FS Sistemi Urbani (FSSU) in collaborazione con l’assessorato all’Urbanistica del Comune di Milano che si è svolto il 15, 16 e 17 dicembre nell’ambito dell’iniziativa Dagli scali, la nuova città, al di là del suo successo prevalentemente mediatico, ha comunque consentito il confronto, del quale ho riferito nei miei resoconti, tra progettisti, urbanisti, amministratori, funzionari, imprenditori e semplici cittadini, su importanti temi urbanistici diventati di grande attualità. Infatti, al termine del mandato di Pisapia, l’Accordo di Programma (AdP) predisposto dopo una lunga e complessa trattativa con FSSU dal precedente assessore Lucia De Cesaris, del tutto inaspettatamente, non è stato approvato in via definitiva dal Consiglio Comunale costringendo la nuova amministrazione e riaprire la trattativa.

Il workshop ha anche offerto l’occasione per portare all’attenzione di un vasto pubblico l’Appello sugli scali ferroviari milanesi che ha denunciato l’attuale inadeguatezza del Comune rispetto al compito promuovere una cultura urbana di cui a Milano si sente da tempo la mancanza, considerato che le grandi trasformazioni degli ultimi vent’anni sono state soprattutto frutto di trattative ed accordi condotti in assenza di ogni forma di dibattito pubblico e di partecipazione sociale alle decisioni.

Con la nuova amministrazione e le impegnative dichiarazioni del nuovo Assessore all’Urbanistica Pierfrancesco Maran subito dopo la sua nomina nell’incontro del 19 luglio dello scorso anno, era sembrato che si volesse cambiare totalmente metodo. Ma quando ci si è resi conto che il Comune aveva delegato a FSSU la definizione delle strategie e degli indirizzi per il recupero degli scali ferroviari, la delusione è stata grande e molto diffusa la volontà di manifestare il proprio dissenso come testimoniano le trecento adesioni al nostro Appello.

Per quanto il fatto che FSSU e assessorato abbiano assegnato degli incarichi diretti, sopra soglia e senza alcuna selezione di evidenza pubblica a cinque colleghi possa essere apparso il movente della denuncia resa pubblica con l’Appello, in effetti le questioni che abbiamo contestato anche direttamente all’assessore Maran sono ben più importanti e gravi.

Innanzi tutto il fatto di accettare la doppia identità di cui si avvale FSSU – tema trattato molto chiaramente da Luca Beltrami Gadola su queste stesse pagine – che si comporta come soggetto privato nel momento in cui assegna gli incarichi professionali senza rispettare la legge Merloni e come ente pubblico quando siede al tavolo della trattativa per la definizione dell’AdP e pretende di sottoscriverlo insieme a Comune e Regione in base all’ art. 34 della legge sull’Ordinamento degli Enti locali.

Poi, che a svolgere il ruolo di definizione degli indirizzi strategici e dei criteri urbanistici per il recupero degli scali ferroviari milanesi sia FSSU, che vanta la proprietà delle aree ed ha come compito fondamentale la loro valorizzazione immobiliare. Aree sulle quali è invece tenuto il Comune a esercitare la propria competenza urbanistica, in piena autonomia, equanimità e interpretando l’interesse pubblico.

Inoltre, che la trattativa tra Comune e FSSU e per la definizione del nuovo AdP si svolga essendo tuttora pendente il ricorso presentato da quest’ultima nell’aprile dello scorso anno al TAR della Lombardia per ottenere l’annullamento degli atti relativi alla mancata approvazione da parte del Consiglio Comunale del precedente AdP con l’evidente intento di condizionare il Comune nel corso della trattativa soprattutto perché nel ricorso si riserva espressamente di chiedere presunti danni passati e futuri.

Ne consegue che quella che è indicata come “collaborazione” tra FSSU e Assessorato all’Urbanistica non ha alcuna validità in termini di corretta pratica amministrativa. Tuttavia nel farvi riferimento il Comune si rende nei fatti corresponsabile degli atti che FSSU ha adottato e sta portando avanti con l’iniziativa Dagli scali, la nuova città, anche nell’impiego di ingenti risorse pubbliche, visto e considerato che essa è al 100 % di proprietà di FS e quindi del Ministero delle Finanze.

L’accesso agli atti, che ho chiesto personalmente, ha provato che non esisterebbe alcuna delibera della Giunta o del Consiglio comunale che autorizzi la collaborazione con FSSU. Nella lettera che ho ricevuto dalla Direzione Urbanistica del Comune di Milano si dichiara infatti che non vi è alcuna collaborazione tra il Comune e FSSU, e che l’ufficio non possiede alcun documento o informazione (sic!) relativi all’evento Dagli scali, la nuova città.

Stando a quanto pubblicamente affermato sia dall’Assessore Maran e dal presidente di FS Sistemi Urbani Carlo De Vito, l’unico atto formale in base al quale la collaborazione tra FSSU e Comune è stata attuata, sarebbe la Delibera di Indirizzo sugli scali del Consiglio comunale. Ma in essa non si cita affatto l’iniziativa Dagli scali, la nuova città. Per cui l’assessore avrebbe collaborato alla sua realizzazione in assenza di atti che esplicitamente lo autorizzino.

Invece, parrebbe che solo in coda a una riunione di Giunta del 6 di dicembre, l’assessore Maran abbia chiesto la conferma al possibile uso del logo del Comune per l’indizione e la realizzazione del workshop di tre giorni che si sarebbe tenuto, aperto alla cittadinanza, dal titolo Dagli scali, la nuova città.

Al termine di queste considerazioni relative alla scarsa trasparenza e alla dubbia legittimità della collaborazione tra FSSU e Comune, campeggia una questione ben più importante che riguarda la legittimità della proprietà delle aree degli scali ferroviari vantata da FSSU. Infatti, nel momento in cui si è proceduto alla loro dismissione dalla funzione per la quale erano state espropriate e concesse alle Ferrovie dello Stato, verrebbero meno i presupposti della concessione e con maggior evidenza dello stesso titolo di proprietà.

Le questioni illustrate fanno emergere chiaramente un impegno trasversale e ampiamente condiviso, tra chi ha aderito al nostro appello, ad affrontare tematiche di interesse molto generale che non consentono di interpretare l’azione intrapresa come una questione puramente corporativa.

Ma anche in questo quadro di interessi molto generali non si può non lamentare la genericità e scarsa attendibilità delle promesse – formulate dall’assessore e inspiegabilmente condivise dall’Ordine degli Architetti – che i concorsi si faranno in futuro, dopo la firma dell’AdP, sui singoli scali e le grandi funzioni che vi si localizzeranno, perché così facendo il Comune rinuncia alla sua imprescindibile funzione di indirizzo dello sviluppo della città che si elabora in questa fase, accettando di fatto la “visione” della proprietà.

Peraltro, le prospettive di effettivo recupero delle aree dismesse degli scali ferroviari sono condizionate da fattori estremamente aleatori: la situazione del mercato immobiliare, la disponibilità di investimenti stranieri, la discrezionalità di chi acquisterà da FSSU le aree edificabili e la caratterizzazione politica della amministrazioni che si avvicenderanno nei tempi, inevitabilmente lunghi, di interventi tanto impegnativi.

La considerazione di queste difficoltà induce a immaginare che ci siano altri interessi, ben più consistenti, che esigono di semplificare la procedura e ridurre al massimo i tempi della definizione del nuovo AdP tra FSSU, Comune e Regione. Pierfrancesco Maran può essere comprensibilmente interessato a portare a casa l’AdP per la speranza di vedere, entro il suo mandato, qualcosa di realizzato su qualche scalo a favore della sua brillante carriera politica.

La Regione, per quanto possa avere pieno titolo a essere il vero regista a causa della portata territoriale dell’operazione scali, tiene un atteggiamento prudente concedendo un generico patrocinio all’evento Dagli scali, la nuova città, forse consapevole che un maggior coinvolgimento potrebbe essere censurabile.

Ma FSSU ha ben altre finalità che non coincidono affatto con il pubblico interesse. Infatti, con l’attuale crisi del mercato immobiliare, con l’offerta inevasa di immobili a City Life e Porta Nuova con gli impegni già assunti di localizzare nell’area di Expo le grandi funzioni, immaginare che si possa avviare concretamente e a breve il recupero degli scali è pura illusione. FSSU è interessata innanzi tutto a ottenere che il Comune firmi l’AdP perché solo al momento della firma si genereranno, per incanto, le volumetrie sulle aree degli scali consentendo a FSSU, che attualmente è una Srl di capitali pubblici, di entrare in borsa diventando una Spa con capitali anche privati. Quindi l’operazione è tutta finanziaria e gestita in una logica privatistica attraverso la traduzione delle aree dismesse in diritti edificatori, utili poste di bilancio necessarie alla programmata quotazione in borsa.

Non credo ci sia altro da aggiungere e invito chi non l’avesse ancora fatto ad aderire aggiungendo la propria firma all’Appello sugli scali ferroviari milanesi.

postilla

Nel prossimo futuro Milano e la sua area metropolitana rischiano di sprecare anche l’ultima cruciale occasione per realizzare un autentico policentrismo: quella del riuso degli scali ferroviari dismessi (7 scali ferroviari, una superficie in dismissione di ben 1.100.000 mq.). Invece di imporre, trattandosi di aree caratterizzate da alta accessibilità pubblica, rigorosi criteri di localizzazione di nuove funzioni di irraggiamento metropolitano, l’amministrazione comunale sta delegando a FS Sistemi Urbani tutta la filiera progettuale. Nel 2015 si era verificata una inaspettata discontinuità: la bozza di Accordo di Programma, a cui si lavorava dal 2005 nelle segrete stanze del potere e che prevedeva la realizzazione di 674.000 mq di superficie di pavimento, prevalentemente a destinazione residenziale e spalmati sul territorio in maniera indifferenziata, era decaduta per l’ostruzionismo non solo dell’opposizione, ma anche di parte della maggioranza, evidenziando, nella fase conclusiva del mandato del sindaco Pisapia, una dialettica politica inattesa. Ma con la giunta Sala, e con l’assessore all’Urbanistica Maran, si sta compiendo un salto di qualità: immemori della bocciatura recente, si è lasciato a FFSU non più ‘soltanto’ il compito di proporre progetti, ma anche di elaborare visioni strategiche di medio-lungo periodo (naturalmente, ricorrendo alle firme prestigiose di 5 studi di fama internazionale i quali, su incarico professionale della FFSU, sono alacremente al lavoro e presenteranno le loro proposte nell’aprile 2017). Si tratterebbe di un compito tipicamente pubblico e la scelta dell’amministrazione suscita seri interrogativi. La delega ampia affidata a FSSU prelude a una approvazione senza se e senza ma delle sue proposte? Si rinuncia ancora una volta da parte dell’amministrazione municipale a svolgere un compito di regia e di controllo sul disegno complessivo della città? E il sedicente governo della Città Metropolitana non batte un colpo su progetti di evidente irraggiamento di area vasta?
E’ molto probabile, perché è FFSU, perché sono i grandi gruppi della finanza immobiliare che, per motivi del tutto estranei alla effettiva rigenerazione urbana, continuano a dettare l’agenda a questa amministrazione, così come l’hanno dettata alla precedente.
Qualcosa si sta però muovendo nella società civile e nel mondo della professione e dell’accademia: il successo dell’iniziativa promossa da Emilio Battisti è un segnale promettente.(m.c.g.)


«Firenze diventa ancor più diseguale; il suo patrimonio pubblico viene privatizzato e messo al servizio del piacere esclusivo di pochi super ricchi; La Pira si rivolta nella tomba». la Repubblica online, blog "articolo 9", 23 gennaio 2017 (c.m.c.)

Ci sono molti modi per amministrare una città, e i suoi edifici.

Qualche giorno fa l’urbanista Ilaria Agostini ha invitato la Giunta comunale di Firenze ad accogliere «nella città vecchia il popolo nuovo»: a dare, cioè, casa ai migranti nei grandi volumi vuoti e pubblici del centro storico. Agostini citava il luminoso precedente di Giorgio La Pira, che nel 1953 requisì molte case sfitte «considerato che gravissima è la carenza degli alloggi nel Comune di Firenze» (così la memorabile ordinanza che firmò).

Ora, Dario Nardella non è La Pira. La sua dimensione è più quella di: ‘votiamo il nome delle linee della tranvia scegliendo tra Michelangelo, Brunelleschi, Leonardo, Botticelli’… (e non è una battuta, purtroppo). La sua idea di Firenze punta sul rincoglionimento retorico dei cittadini, e sul lusso come unico asset strategico di sviluppo economico.

E dunque sapevamo che il grande complesso religioso di Costa San Giorgio non sarebbe stato restituito alla città, e men che meno a quelli che papa Francesco chiama gli ‘scartati’: ma che sarebbe divenuto, invece, un grande resort per milionari.

Oggi questo ‘progetto’ è stato presentato, con un linguaggio che merita un commento.

Alfredo e Diana Lowenstein, che hanno già trasformato Cafaggiolo in un altro resort, hanno detto che: «La scelta della Toscana è stata una scelta d’amore – perché la bellezza e la varietà del suo territorio, la straordinaria ricchezza del patrimonio artistico-culturale delle sue città ci hanno da sempre affascinato. Il colpo di fulmine è scattato 50 anni fa, quando abbiamo trascorso la nostra luna di miele proprio a Firenze, scelta per la nostra grande passione per la storia della famiglia dei Medici e del Rinascimento. Oggi facciamo un primo importante passo verso il nuovo destino di questa struttura, con lo sviluppo di un progetto di valorizzazione che, dopo tanti anni di abbandono, ridarà lustro e vita ad un patrimonio di inestimabile valore. Ci proponiamo di offrire al mercato dell’ospitalità una proposta assolutamente originale, di carattere esperienziale, capace di trasmettere le suggestioni di luoghi secolari che fanno parte della storia di questa città. Ci ripetiamo spesso infatti quello che è il nostro primo intento: non essere i proprietari del Complesso Immobiliare di Costa San Giorgio, esserne solo i custodi. Un bene mobile o immobile si può acquistare, si può vendere, ma un’eredità storica e culturale non si può mercanteggiare, si può solo custodire, preservare, conservare per i nostri figli e per i figli dei nostri figli».

C’è qualcosa di oltraggioso in questo storytelling che trasforma una gigantesca (e legittima, vista la variante urbanistica concessa da Nardella) speculazione immobiliare in un atto di amore. C’è qualcosa di insopportabile in questa idea che prendere un monumento e trasformarlo in un hotel esclusivo a mille stelle sia ‘valorizzazione’. C’è qualcosa di degradante nel marketing per cui la storia della città diventa un’esperienza spray, tra una spa e un drink. C’è molta ipocrisia in questa idea di mercanteggiare dicendo di non star mercanteggiando.

Capisco che in un momento in cui la ricchezza dell’1% più facoltoso degli italiani (in possesso oggi del 25% di ricchezza nazionale netta) è oltre 30 volte quella del 30% più povero, gli addetti alla comunicazione sconsiglino gli speculatori di parlare di lusso.

Ma la verità è esattamente questa: Firenze diventa ancor più diseguale; il suo patrimonio pubblico viene privatizzato e messo al servizio del piacere esclusivo di pochi super ricchi; La Pira si rivolta nella tomba.

Siamo sconfitti e umiliati, e questa non è più una città: almeno non pigliateci in giro.

il manifesto, 21 gennaio 2017 (c.m.c.)

Dario Franceschini sistema un altro tassello nel puzzle della sua «riforma» dei beni culturali e paesaggistici. Ieri, su proposta del ministro, l’esecutivo presieduto da Paolo Gentiloni ha approvato, in esame definitivo, un regolamento, da adottarsi con decreto del presidente della Repubblica, che semplifica le procedure di autorizzazione paesaggistica per gli interventi di lieve entità.

Sin dai primi mesi del suo mandato Franceschini non ha fatto mistero dell’intenzione di modificare radicalmente l’assetto organizzativo dei beni culturali e paesaggistici. Intenzione che si è concretizzata in una delle «riforme» renziane più controverse, quella che ha portato all’accorpamento delle soprintendenze e alla separazione della funzione di tutela da quella di valorizzazione dei beni culturali. È stato così creato un doppio sistema: da una parte un circuito di venti musei di eccellenza e di diciassette poli museali regionali e inter regionali al quale è stato affidato il compito di valorizzare, in termini economici, il patrimonio archeologico, museale, artistico e paesaggistico, e dall’altra le soprintendenze, alle quali è stata lasciata la tutela.

Il regolamento approvato ieri si inserisce in questo quadro. Che si aggrava se si considerano le norme della legge Madia di «riforma» della pubblica amministrazione. Norme che, soprattutto per il paesaggio, aprono varchi rischiosi. Prevedono infatti non solo la possibilità di richiedere il riesame di tutti gli atti di tutela adottati dalle soprintendenze, ma anche l’estensione del silenzio-assenso alle decisioni delle stesse in materia di vincoli paesaggistici.

Come si sa, il paesaggio è terreno di scontro tra speculatori di varia natura e un fronte di tutela attestato sul rispetto delle norme costituzionali. Tra i gruppi ambientalisti e nelle soprintendenze c’è preoccupazione. La decisione presa ieri dal consiglio dei ministri, giustificata anche dalla necessità di accelerare le procedure di ricostruzione nelle zone colpite dal terremoto, potrebbe aprire varchi ulteriori alla devastazione del paesaggio.

Per giudicare bisognerà vedere, nel dettaglio del regolamento, quali opere sono considerate «interventi di lievi entità» e quali no. Ma che il provvedimento sia stato approvato nel momento in cui in un enorme territorio ci si accinge a programmare interventi miliardari di riedificazione, fa suonare più di un campanello di allarme.

Forumsalviamoilpaesaggio online, 17 gennaio 2017

Una sentenza fissa un precedente importante per le associazioni che difendono il territorio: le associazioni ambientaliste non devono pagare i costi di accesso alla giustizia.

È una sentenza che segna un punto e un importantissimo precedente a favore delle onlus ambientaliste quella con cui la Commissione Tributaria regionale della Liguria ha accolto il ricorso dell’associazione Vas (Verdi, Ambiente Società) annullando una disposizione della segreteria del Tar che obbligava il Vas a pagare il cosiddetto contributo unificato relativo all’instaurazione di una causa davanti allo stesso Tribunale amministrativo regionale …

I giudici tributari regionali hanno accolto il ricorso del Vas presentato dall’avvocato Daniele Granara ribaltando così la sentenza di primo grado della Commissione Tributaria Provinciale che era invece favorevole all’obbligo di pagamento.

La sentenza si basa sul rispetto della Convenzione di Aarhus (firmata nella cittadina di Aarhus, in Danimarca, nel 1998) “ratificata – spiegano i giudici – dalla Repubblica Italiana con la legge 108 del 2001, impegna gli stati membri a prevedere l’adeguato riconoscimento e sostegno delle organizzazioni che promuovono la tutela dell’ambiente e a provvedere affinché l’ordinamento si conformi a tale obbligo, specie in materia di accesso alla giustizia, negare l’esenzione dal pagamento del contributo unificato per atti quali i ricorsi giurisdizionali finalizzati alla difesa di interessi collettivi diffusi in materia ambientale, porterebbe ad un evidente contrasto tra il diritto interno e le norme europee di pari rango, in quanto recepite nella legislazione nazionale, le quali mettono chiaramente in evidenza che il costo dei procedimenti giurisdizionali sopra indicati debba essere gratuito o non eccessivamente oneroso”.

Negli ultimi anni proprio questi costi sono aumentati e in passato l’ex presidente del Tar Liguria Santo Balba aveva spiegato come tale scelta scoraggiasse di fatto molti cittadini impossibilitati a versare alcune migliaia di euro solo per avviare la causa.

Nel caso in questione i Vas avevano impugnato davanti al Tar una deliberazione della Regione del 2014 che riguardava il “Progetto di coltivazione congiunta e recupero ambientale delle cave Gneo, Giunchetto e Vecchie Fornaci”.

Poiché il contributo unificato muta a seconda del valore della causa, per il business in ballo i questa vicenda i Vas avrebbero dovuto sborsare seimila euro in partenza.
È evidente che proprio tali costi siano un fortissimo deterrente per molte associazioni che si battono sul territorio per la difesa dell’ambiente e del paesaggio. La sentenza della Commissione Tributaria fissa un precedente importante che faciliterà l’azione delle associazioni di difesa del territorio.

Riferimenti
Si veda la sentenza di opposto segno della Corte di cassazione a proposito di un'azione benefica di Legambiente a Siracusa, in eddyburg: "Quanto costa difendere la bellezza"


Una vicenda, quella del riuso delle aree Expo 2015, come al solito opaca e gestita secondo le contingenti convenienze individuali, disancorata da una visione di ambito metropolitano e incompatibile con l'opzione, espressa dai cittadini nel referendum consultivo del giugno 2011, a favore della conservazione integrale del parco agroalimentare. Arcipelagomilano online, 18 gennaio 2017 (m.c.g.)

Non credo di essere un buon esegeta del renzismo perché è un percorso politico che a mio avviso non ha portato e non porterà dove si vorrebbe ma una cosa mi è chiara: di là dalle strategie banalmente di potere l’obiettivo era lo svecchiamento del Paese avviluppato in una rete di istituzioni inadeguate alla sua crescita, paralizzato da una burocrazia pletorica, inefficiente, castale e autoreferenziale e spesso funzionalmente incompetente, governato da una classe politica in parte intellettualmente vecchia, in parte incapace di declinare la propria ideologia per adattarla alla nuova società in balia di un travolgente cambiamento.

L’esito del referendum costituzionale, pur rappresentando solo un aspetto di quella politica, l’ha travolta tutta: una delle ragioni probabilmente è che il cambiamento in un Paese articolato come il nostro in tanti poteri diversi e spesso tra di loro conflittuali, con tante caste e burocrazie capillarmente insediate a presiedere la vita dei cittadini, con tante cattive abitudini e pigrizie ormai incistate, avrebbe richiesto una operazione di rinnovo molto difficile, capillare, una operazione alla quale le truppe di complemento del renzismo – i nuovi amministratori locali, il nuovo apparatchiks – non ha saputo far fronte. Nemmeno a Milano, l’isola renziana.

Le truppe di complemento sono il rincalzo a un esercito piccolo per la bisogna e che non riesce a formare nuovi soldati ma quelli di complemento hanno un difetto: sono l’espressione di un vecchio addestramento. Così è stato e così è.
La vicenda della aree Expo ha colto il renzismo in mezzo al guado e con truppe di complemento.

Arexpo è l’eredità pesante di una operazione da seconda repubblica con le sue compromissioni tra affari e politica: alla scelta di una localizzazione sbagliata si è aggiunta una gestione economica opaca e confusa nel groviglio del dare e dell’avere tra Expo 2015 Spa in liquidazione e Arexpo Spa, una società che solo con l’ultima assemblea del 30 novembre si è data un nuovo Statuto e ha definito la composizione del suo Consiglio di amministrazione e la sua mission: “Valorizzare, Trasformare, Innovare”. Una società pubblica di promozione immobiliare.

Al vertice di questa società c’è un consiglio di amministrazione di cinque persone: Giovanni Azzone, già Rettore del Politecnico, ordinario di Sistemi di controllo di gestione; Giuseppe Bonomi, una vita tra aeroporti e direttore generale della Presidenza di Regione Lombardia, Ada Lucia de Cesaris, avvocato amministrativista già Vicesindaco a Milano e Assessora al territorio; Chiara Della Penna, avvocata specializzata in diritto commerciale e in diritto anti trust; Marco Simoni, economista, della segreteria del Vice Ministro dello Sviluppo Carlo Calenda. In fine un direttore generale, Marco Carabelli, laureato in Economia e commercio, già direttore al Bilancio e programmazione, poi vicesegretario generale di Regione Lombardia.

Qualcuno può vantare una esperienza in promozione immobiliare? Chi li ha messi lì? Lo stato maggiore delle truppe di Complemento? Cerchiamo la competenza? Troviamo il manuale Cencelli, quello mai morto nemmeno nell’era renziana.

La verità è che Arexpo non è una società di promozione immobiliare: è tutt’altro, è un affare da seconda repubblica, uno snodo di interessi. La dimostrazione? Due fatti strettamente collegati: la redazione del documento di indirizzo e il recente bando del quale si parla in seguito.

Il Documento di indirizzo, dal titolo “Linee Guida del Piano Strategico di Sviluppo e Valorizzazione di Arexpo”, curiosamente ancora prima che il Governo entrasse come socio di maggioranza relativa (39,28%) Arexpo lo commissiona e lo ottiene da Pricewaterhouse Coopers e a Roland Berger – due società di consulenza – per farsi dire cosa fare di quelle aree. Quando mai una società di sviluppo immobiliare non sa cosa dovrebbe fare? Non ha le risorse interne per saperlo? Curioso.

Il documento prodotto nel settembre 2016, corposo, già dalle prime pagine dice che l’area Expo è il luogo ideale per un Parco della Scienza, del Sapere e dell’Innovazione. Solo per quello? Altre alternative no? Molte delle affermazioni per avallare questa ipotesi sono mere opinioni senza visibile supporto di ricerca: sembra più che altro un documento a sostegno di una candidatura.
Comunque. Parco della Scienza sia! Ma anche nuova localizzazione dell’Istituti Italiano di Tecnologia – assai discusso – e alcune università.

Lo Stato in novembre 2016 interviene con il Ministero dell’economia e delle finanze e nomina i suoi rappresentanti nella società. Il ministero dell’Università e della Ricerca incredibilmente non compare, forse nessuno lo interpella, forse questa operazione potrebbe essere collocata nel Programma Nazionale della Ricerca, che però è fermo al 2012 e che se fosse varato dovrebbe andare al CIPE per l’autorizzazione definitiva. Campa cavallo.

Arexpo comunque non si ferma e, sempre non sapendo bene di suo cosa fare, a dicembre fa un bando per la scelta di un unico contraente in grado di ideare e gestire lo sviluppo e la “Rigenerazione Urbana” dell’area ex Expo, cosa che invece il soggetto prescelto dovrebbe saper fare, ossia la gestione del masterplan secondo il documento di indirizzo e poi realizzare il tutto sulle aree, forte di una concessione di 90 anni. Un soggetto difficile da trovare viste le dimensioni dell’operazione, la sua complessità e la diversità dei ruoli.

Comunque Arexpo non ha dubbi e ha solo un problema: come si sceglie il soggetto operatore? Niente paura, la formula è quella prevista dal Codice degli Appalti: l’offerta economicamente più conveniente, quella usata per l’appalto della Piastra Expo e che ha riempito di sé le cronache giudiziarie, formula che i tribunali si ritrovano sempre quando si parli di malaffare, opacità e abusi. Usare però questo procedimento di scelta del contraente è fuori luogo: è un meccanismo per appaltare opere edili, non certo scegliere un piano che preveda un intervento urbanistico.

Ma ammettiamo pure che in questo caso tutto, nella più assoluta legalità, sia logico e coerente. Sapete chi deciderà i destini della più grande trasformazione territoriale del milanese? Una commissione, quella prevista Codice degli appalti, che valuterà, secondo certi parametri predefiniti, l’offerta economicamente più vantaggiosa: vantaggiosa per chi? Per pagare i debiti di Arexpo? Chi ci sarà in quella commissione? In rappresentanza di chi? Della ricerca? Dello sviluppo economico del Paese? Di Milano? Della città metropolitana? Chi valuterà onori e oneri per Milano? Oneri per manutenzioni delle aree, delle opere di urbanizzazione, per nuovi trasporti pubblici indispensabili? Per 90 anni? In un mondo che cambia e dove, se tutto va bene, siamo a stento capaci di fare programmi a 5 anni, la durata di un governo o una consigliatura comunale?

Un dettaglio: prima di partire con l’attuazione bisognerà probabilmente arrivare a un nuovo Accordo di Programma, perché le necessarie autorizzazioni competono al Comune di Milano. E se l’accordo fa la fine di quello per gli scali ferroviari?Un bando così forse andrà deserto, comunque non è per il mercato italiano e per finire è l’abdicazione a un ruolo di governo del territorio: il governo non si appalta.

Fermiamo il bando fin che siamo in tempo e ridefiniamo i ruoli. Quel che c’è oggi è frutto del lavoro di truppe di complemento, da rottamare: un renzismo che tradisce Milano.

Le contraddizioni italiane sul dramma dei profughi: le mostre in centro, i profughi in periferia. comuneinfo newsletter, 17 gennaio 2017 (m.p.r.)

All’estrema periferia, il Comune di Firenze diventa invisibilmente il comune di Sesto, anche se a guardare i capannoni, nessuno se ne renderebbe conto. Non c’è nemmeno un cartello, “Benvenuti all’Osmannoro!” (che i filologi ci riferiscono significherebbe “immondezzaio”).

A cinquecento metri circa oltre l’invisibile confine, c’è un immenso capannone, abbandonato qualche anno fa dalla Aiazzone, una ditta nota per l’imbonitore televisivo che la guidava, cui sono subentrati altri signori poi arrestati dalla Guardia di Finanza per “bancarotta distruttiva, fraudolenta e documentale, riciclaggio di denaro, sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, falsa presentazione di documentazione”. Insomma, una sana impresa italiana.

Questo capannone – in una zona in cui la metà delle insegne sono in cinese senza traduzione – è stato occupato da una settantina di africani: non clandestini, gente cui è stata riconosciuta la protezione umanitaria. Siccome nessuna cooperativa riceve trentacinque euro al giorno per ospitare i riconosciuti, l’interessamento dello Stato italiano finisce lì. L’altro giorno, scoppia un incendio e muore un giovane somalo (leggi anche Lo avete ucciso voi, ma anche La morte di Alì e quei profughi dimenticati, ndr).

Evacuati nei giorni più freddi dell’anno, i “protetti” hanno un’idea geniale.

Proprio al centro di Firenze, c’è Palazzo Strozzi. E a Palazzo Strozzi c’è una mostra di alcuni pezzi di metallo, di orrenda bruttezza, ammucchiati da un cinese dal nome Ai Wei Wei. Il tutto è dedicato al Dramma dei Profughi, simboleggiati da una fila di gommoni appesi ai sassi rinascimentali:

“La libertà – Libero è il titolo della mostra –, espressa attraverso ogni singola opera, è un messaggio per chi questo diritto vuole toglierlo e limitarlo. Inoltre, riuscire a portare ancor più in primo piano, sulla facciata di un palazzo storico di una delle più belle città del mondo, il dramma dei migranti e dei profughi, è vitale. Reframe, l’installazione che ha destato più polemiche, porta il mar Mediterraneo sotto gli occhi di tutti”.

E così gli umanitariamente protetti hanno deciso di fare una visita proprio alla mostra di Ai Wei Wei, dove sono stati accolti dalle istituzioni nella maniera che possiamo vedere in questo video (purtroppo incorporandolo, parte subito l’audio, per cui mettiamo solo il link, ma vale la pena di guardare).

Le Istituzioni della Città hanno rimandato la palla al povero sindaco di Sesto Fiorentino, che per ora ha messo i protetti nel Palazzetto dello Sport.

Si può occupare il capannone Aiazzone e marcirci dentro per anni, ma non si può entrare nemmeno per un giorno a Palazzo Strozzi. Infatti, la bellezza di Firenze è esattamente proporzionale a ciò che scarica sulle periferie.

Il Comune di Sesto non ha quindi soltanto l’onore di accogliere settanta persone che volevano invece andare a Firenze. Infatti, è a Sesto, come abbiamo raccontato, che si scaricano tutti i rifiuti di Firenze e dove vogliono farci l’aeroporto internazionale e pure una terza corsia dell’autostrada. Per far venire a Palazzo Strozzi gli altri stranieri, quelli che vanno a spasso con il bastoncino per farsi i selfie.

Always in Your Backyard…

. la Repubblica, 13 gennaio 2017 , con postilla

Perché no
IN QUELLE MURA L'IDENTITÀ
ITALIANA COSÌ LA SVILIAMO
di Tomaso Montanari«L’unicità.Rappresenta la continuità tra classico e moderno Resti gratuito»

Ha scritto Kant: «Tutto ha un prezzo o una dignità. Ciò che ha un prezzo può essere sostituito da qualcos’altro a titolo equivalente; al contrario, ciò che è superiore a quel prezzo e che non ammette equivalenti, è ciò che ha una dignità ». Il Pantheon deve avere un prezzo, o può continuare ad avere una dignità?

La dignità del Pantheon è intimamente legata al cuore stesso della nostra identità: esso simboleggia la continuità tra il mondo classico e la nostra cultura moderna (è un’architettura antica ininterrottamente usata), mostra l’eccezionale ruolo che l’arte ha avuto in Italia (ospita le tombe di Raffaello e Annibale Carracci), racconta la nostra faticosa epopea nazionale (accogliendo i sepolcri dei re d’Italia). Infine, rappresenta l’unità del nostro spazio pubblico, attraverso una comunione formale e sostanziale con la piazza che sarà interrotta dal pedaggio.

Questa interruzione è un peccato mortale, sul piano civile e politico: perché prende un pezzo di città e lo trasforma in attrazione turistica, disincentivando i romani dall’ingresso, e dunque dalla conoscenza di se stessi. Ed è anche un peccato vero e proprio: di simonia, cioè di vendita di cose sante, visto che il Pantheon è anche una chiesa consacrata (e infatti una direttiva della Cei, già troppo disattesa, vieta di fare pagare per accedere alle chiese). Il Pantheon – come tutto il nostro patrimonio culturale – è una scuola: di memoria, di futuro e di cittadinanza.

I cittadini mantengono le scuole attraverso la fiscalità generale: ed è lì che bisogna guardare. Togliere i biglietti a tutti i musei statali ci costerebbe circa 100 milioni di euro l’anno, mentre l’evasione fiscale viaggia sui 120 miliardi di euro l’anno. Siamo sicuri che sia un buon affare mettere a reddito il cuore stesso dell’identità nazionale, invece che far pagare le tasse a tutti?

Il ministro Franceschini ha spiegato che gli introiti del Pantheon serviranno a compensare il denaro che egli sottrae al patrimonio storico e artistico di Roma isolando il Colosseo in una assurda autonomia plurimilionaria. Egli ha citato il precedente del ministro Bottai: ma il capo di quel governo era Mussolini, per il quale «i monumenti millenari della nostra storia devono giganteggiare nella necessaria solitudine» (discorso del 31 dicembre 1925). Ora è l’ideologia è un’altra: non quella del fascismo, ma quella della supremazia assoluta del mercato. Tanto che il Mibact potrebbe cambiare la sua sigla in Mimcin: Ministero per la mercificazione della cultura e della identità nazionale.

Ma, come ha scritto Michael Sandel, «assegnare un prezzo alle cose buone può corromperle. Spesso gli economisti assumono che i mercati siano inerti, che non abbiano ripercussioni sui beni che scambiano. Ma questo non è vero. I mercati lasciano il segno. [...] Se trasformate in merci, alcune delle cose buone della vita vengono corrotte e degradate». La cultura dovrebbe essere l’antidoto a un mondo dove il denaro misura e compra tutto: ma se avveleniamo l’antidoto, che speranze avremo di cambiare?

Perché sì
GIUSTO IL BIGLIETTO SE SERVE
A SALVARE I NOSTRI TESORI
di Corrado Augias
«La sfida.Prevedere un costo può aiutare a risolvere i problemi di cassa»

In decisioni come queste non esistono un torto e una ragione, nemmeno un meglio e un peggio, tutti sono animati dalle migliori intenzioni, divisi solo da due concezioni, forse potrei dire da due urgenze.

L’annuncio di far pagare un biglietto per il Pantheon ha suscitato polemiche, vivaci quelle dell’assessore Luca Bergamo da noi intervistato ieri. Gli aspetti pratici della questione sono parecchi e vanno chiariti. Il Pantheon è arrivato quasi intatto fino a noi perché usato come chiesa dai primi cristiani - Bernini si portò via i bronzi per farne il baldacchino di San Pietro, ma pazienza. Ancora oggi il monumento è anche una chiesa ed è opportuno distinguere il turista dal fedele; sarà logisticamente possibile farlo? Oppure: far pagare un biglietto implica ingaggiare il personale addetto e predisporre una biglietteria. Sarà possibile una collocazione che non offenda il monumento né quel gioiello della piazza antistante?

Spero che prima dell’annuncio gli uffici ministeriali abbiano impostato la soluzione di questi e di altri possibili problemi. Resta il merito delle obiezioni, in particolare quella dell’assessore Bergamo, che può essere riassunta in questi termini: Roma non è un museo per turisti, il ministro guarda al patrimonio della città «come a un giacimento da sfruttare per la bigliettazione» (sic).

Altrove Bergamo ha anche aggiunto che «si può fare molto di più e di meglio che un parco archeologico nell’area centrale di Roma». Muove l’assessore una nobilissima visione idealistico-romantica. Dietro le sue parole traspare l’immagine di Chateaubriand che contempla immalinconito la mole del Colosseo illuminato da una pallida luce lunare.

Ho fatto a tempo a conoscerla anch’io la Roma di quando le rovine erano parte stessa della città, il fascino del Grand Tour poggiava anche su questo: la vita brulicante e chiassosa nelle strade e il grandioso silenzio del passato.

Quella Roma, quel silenzio, quella convivenza non ci sono più né torneranno più. Viviamo in anni in cui ovunque nel mondo, in particolare a Roma, è difficile perfino garantire la normale, ordinaria protezione dei monumenti – di manutenzione a Roma non è nemmeno il caso di parlare.

Quando attraverso a piedi Valle Giulia, Villa Borghese, il Pincio e vedo gli scempi commessi durante la notte mi chiedo sempre se sia una fatalità a volere una capitale così derelitta o se dipenda solo da un’amministrazione incapace o sopraffatta dagli eventi.

Presa ogni possibile precauzione, coordinati gli intenti tra Stato e Comune, ricavare un profitto da alcuni monumenti per destinarlo ad altri monumenti in un momento in cui le casse pubbliche sono vuote, mi sembra solo un volersi adeguare alla drammaticità del momento.

postilla

Sembra che la Costituzione del 1948 non sia stata abrogata, e che quindi sia ancora vivo l'articolo 9, il quale proclama che la Repubblica tutela il patrimonio storico e artistico della Nazione. Se è così le spese relative alla tutela di quel patrimonio costituiscono una delle ragioni per le quali esistono le istituzioni della Repubblica, esiste lo Stato, e i cittadini pagano le tasse appunto per consentire che lo Stato adempia ai suoi compiti. Augias sembra dimenticarlo. Anche lui paga un pedaggio a quella parte, ahimè sempre più numerosa, di intellettuali che sono stati conquistati dall'ideologia mercantilistica che pervade il nostro mondo. Ci piacerebbe che eminenti formatori dell'opinione pubblica, quando sembrano mancare i quattrini per far funzionare la sanità e la scuola, e tutelare i monumenti, sprecassero qualche parola, magari veementi, contro tutto ciò che ha «vuotato le casse» le spese inutili (Grandi opere), quelle in contrasto con la Costituzione (quelle per le guerre altrui) e mancassero al loro dovere di perseguire efficacemente l'evasione fiscale, comunque camuffata. Come afferma, giustamente, Tomaso Montanari

«La resistenza degli occupanti, la solidarietà degli attivisti dei centri sociali e della sinistra politica e diffusa, la decisiva mediazione dell'assessore all'urbanistica di Roma Paolo Berdini hanno impedito lo sgombero della casa dei precari, dei giovani e dei disoccupati Alexis nel quartiere Ostiense a Roma». il manifesto, 11 gennaio 2017

La resistenza degli occupanti, la solidarietà degli attivisti dei centri sociali e della sinistra politica e diffusa, la decisiva mediazione dell’assessore all’urbanistica di Roma Paolo Berdini hanno impedito lo sgombero della casa dei precari, dei giovani e dei disoccupati Alexis nel quartiere Ostiense a Roma. La casa prende il nome da Alexandros Grigoropoulos, uno studente quindicenne ucciso da un poliziotto greco il 6 dicembre 2008 nel quartiere Exarchia ad Atene, nei giorni delle mobilitazioni contro le politiche di austerità. Il grande artista Blu ha concepito un murale che rappresenta la vita metropolitana, e di strada, con volti, macchine e catene della nostra vita quotidiana. La facciata, a pochi passi dalla Centrale Monte Martini trasformata in un museo, oggi è un’opera d’arte.

Lo sgombero era nell’aria da settimane al punto da avere allertato gli attivisti. Il 2 dicembre avevano organizzato un’assemblea dove è stato rilanciato il progetto di recupero dell’ex rimessa Atac, occupata da quattro anni, che è stato fatto rientrare intelligentemente nella delibera regionale per l’emergenza abitativa approvata sia dalla Regione Lazio che da Roma Capitale.

Ieri mattina alle sette e mezza si è presentata la polizia con i vigili urbani per eseguire uno sgombero e creare una nuova crisi abitativa e politica per la giunta Raggi. Sul tavolo una richiesta di sequestro preventivo per una presunta inagibilità della struttura avanzata dal Gip su richiesta dell’azienda municipale dei trasporti Atac. Gli attivisti di Alexis, una ventina, hanno reagito immediatamente, costruendo barricate che hanno resistito il tempo necessario per fare convergere centinaia di cittadini che hanno bloccato il traffico sull’Ostiense e intavolare una trattativa. A tarda mattinata è stato stabilito un protocollo d’intesa che ha stabilito il trasferimento degli occupanti nella rimessa dell’Atac di via Della Collina Volpi, al Valco San Paolo, mentre lo stabile di Ostiense sarà riqualificato con i fondi di Regione e Comune. Il deposito Atac dove si trasferiranno gli attivisti ha una storia particolare. Occupato e più volte sgomberato negli anni, è stato ribattezzato dai movimenti con il nome di un partigiano romano: Sestilio Ninci.

Una volta conclusi i lavori, i precari potranno tornare a Alexis per continuare il loro progetto socio-abitativo che ospita anche la libreria «Piuma di Mare», un’aula studio, una trattoria popolare e sportelli di consulenza gratuita. Gli occupanti denunciano il furto di 2 mila euro dalle casse della libreria avvenuto durante il tentativo di sgombero. «La nostra ricchezza parla d’altro, non saranno questi soprusi a fermarci – scrivono in un comunicato – Niente di nuovo sotto questo cielo». Entro sette giorni partirà il tavolo con le istituzioni competenti che avvieranno concretamente il progetto di recupero. Oggi alle nove è previsto un primo incontro all’assessorato all’urbanistica. L’assessore Berdini farà da garante della transizione. A chi, più tardi in Campidoglio, gli ha chiesto perché non avesse partecipato a un incontro sul nuovo stadio della Roma, Berdini ha risposto: «Perché c’è stato uno sgombero a Roma, non so se vivete in questa città…».

”». la Repubblica, 11 gennaio 2017 (c.m.c.)

Si chiamerà Parco archeologico del Colosseo. È la struttura che mette il sigillo alla riforma voluta da Dario Franceschini per i Beni culturali. Un luogo simbolo, che il ministro ha posto quale approdo di un percorso iniziato nel 2014, una riforma che ha fatto discutere e che, secondo alcuni, rinnova, secondo altri, stravolge l’assetto del patrimonio italiano. Dunque il Colosseo, il Foro romano, il Palatino e la Domus Aurea, oltre a una significativa fetta della Roma storica, formeranno un parco che verrà guidato da un direttore scelto con un bando internazionale, come accaduto per gli Uffizi o Brera.

Il parco non avrà più a che fare con la soprintendenza che aveva competenza anche sui beni storico-artistici e paesaggistici entro le Mura Aureliane e che appena nel marzo scorso era nata una volta disarticolata la storica soprintendenza archeologica di Roma, quella che in molti identificano con la figura di Adriano La Regina, dalla quale erano state scorporate l’Appia Antica, Ostia e il Museo nazionale romano.

Franceschini firmerà a giorni un decreto che interessa pure Pompei, ma solo perché anche nel sito vesuviano comparirà l’espressione “parco”.

Le questioni più rilevanti investono invece Roma, dove nel giro di pochi mesi si cambia ancora. Il ministro assicura che si semplifica, ma gli umori che si raccolgono negli uffici vanno in altra direzione. La soprintendenza, ora diretta da Francesco Prosperetti, perde i pezzi più prelibati (oltre 6 milioni i visitatori ogni anno, 60 milioni incassati, di cui 42 alla soprintendenza e 18 al concessionario), ma continuerà a essere mista e dotata di autonomia, e, invece di limitarsi al centro storico (cioè alla parte entro le Mura Aureliane) avrà competenza su tutto il territorio del comune, inglobando quelle che da marzo aveva assunto un’altra soprintendenza, ora soppressa.

Replicando a chi lo accusa di sottrarre fondi a Roma, Franceschini assicura che un 30 per cento di quel che incasserà il parco sarà destinato alla tutela di tutto il patrimonio romano, archeologico e non. E che un altro 20 per cento, come avviene da un anno, alimenterà il fondo di solidarietà che finanzia l’intero sistema museale. Per lo storico dell’arte Tomaso Montanari, la separazione dell’area archeologica centrale dalla soprintendenza «significa fare a pezzi una città, è un atto di ostilità verso Roma. È un grave errore che spinge il pedale sulla mercificazione del nostro patrimonio: e non è un caso che il ministro abbia confermato di voler ricostruire l’arena del Colosseo».

Franceschini sostiene di aver trovato un precedente di questa separazione in un provvedimento del 1939 di Giuseppe Bottai, che «istituì la soprintendenza di Foro Romano e Palatino, soprintendenza che solo negli anni Sessanta si è deciso di riunificare». Fra i favorevoli al provvedimento figura Giuliano Volpe, archeologo e presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali: «Il nuovo parco è coerente con il disegno complessivo della riforma, e spero produca miglioramenti non solo nella gestione ma anche per la ricerca: l’importante è che da ora ci si concentri sul consolidamento delle strutture di soprintendenze e poli museali, che sono in gravi difficoltà ».

Franceschini si dice certo che la nascita del parco favorisca un’intesa con il comune di Roma, che ha una propria sovrintendenza responsabile della gestione di parti importanti dell’area archeologica centrale. Ed esibisce quale prova il fatto che la perimetrazione del parco coincide con quella fissata negli accordi del 2015 con il Campidoglio (sindaco Marino).

L’attuale assessore alla cultura e vicesindaco Luca Bergamo esprime perplessità, mentre l’urbanista Giovanni Caudo, assessore con Marino, aggiunge che quella perimetrazione andava rivista, perché esclude la Passeggiata archeologica e le Terme di Caracalla, include il Circo Massimo, ma non un settore del Celio e di piazza Venezia.

Insomma pezzi importanti di città: l’area archeologica romana, insiste Caudo, «non è in un recinto, come a Pompei, ma è parte integrante dell’organismo urbano ».

Una garbata e argomentata replica di un urbanista condotto, che conosce il territorio e la sua storia recente, agli articoli di Wolf Bukowsky e Wu Ming sul Passante Nord di Bologna (m.b.)



Un libello in tre puntate sul Passante di Bologna - di Wolf Bukowsky & Wu Ming è stato pubblicato a puntate su Internazionale online e ripreso da eddyburg. Cito:«Le ipotesi per risolvere i problemi di traffico del nodo bolognese si rincorrono ormai da vent’anni. Nel 2005 ha iniziato a consolidarsi quella del cosiddetto "Passante Nord", una bretella autostradale che doveva tagliare la campagna a Nord della città, collegando Anzola Emilia (A1), Altedo (svincolo A13) e San Lazzaro (Uscita A14). Quel progetto, già finanziato, è stato respinto l’anno scorso, grazie all’azione di un comitato e dei sindaci dei comuni interessati. Ma il comitato ha scelto di "non dire soltanto no" e ha proposto una “brillante” alternativa: l’allargamento di una corsia per senso di marcia dell’infrastruttura congiunta autostrada/tangenziale, che già ammorba la periferia bolognese. E così, un comitato che all’inizio contestava la ratio stessa del progetto, ha finito per scaricare il barile sui cittadini di un altro territorio».

E’ un estratto dell’incipit di una sorta di “libro bianco” confezionato da bravi professionisti, l’acuto critico ambientalista Wolf Bukowsky e il collettivo Wu Ming, uno dei più originali pilastri della narrativa contemporanea bolognese e non solo. Li adoro! Con le mie modeste conoscenze e passioni di storia non mi sono perso quasi nessuno dei loro avvincenti romanzi grondanti di fatti e di acuti parallelismi. Ovviamente, non essendo “cultori della materia” né testimoni di prima mano dei fatti essi si devono essere avvalsi di interviste, informazioni, canovacci e ciò trapela ampiamente dai giudizi e perfino dalle omissioni e smagliature della narrazione.

Fin da questo incipit l’ignaro lettore dedurrà che il progetto di Passante Autostradale Nord, un raddoppio lungo 44 km dell’Autostrada (sostitutivo dei 15 km attuali), finanziato solo per l’anticipazione dei costi di progetto, perché le autostrade le pagano gli utenti con i pedaggi per lunghi periodi di concessione, sarebbe stato spostato, per la maligna influenza di un comitato contrario e di sindaci malvagi, su un nuovo percorso a solcare la periferia cittadina inquinandola.In realtà i cittadini dei “comitati per l’alternativa” e i sindaci hanno solo respinto la devastazione di un territorio agricolo e geologicamente fragile proponendo l’uso di una sede stradale esistente da 50 anni, con un modesto adattamento alle mutate esigenze del traffico, risultate inferiori alle previsioni che un ventennio fa avevano motivato la scelta della infrastruttura ora cancellata.In realtà quindi, la opzione scelta con l’accordo di fine luglio fra Comune di Bologna, società Autostrade per l’Italia e Governo, annullando la previsione del Passante Nord, rappresenta proprio quella “opzione Zero” che l’articolo invoca. Al di là della maldestra trovata nominalistica del Sindaco Merola che, generando un groviglio di equivoci, ha battezzato l’operazione “Passante di Mezzo”, si tratta ora di decidere quali modifiche vadano effettuate sulle sedi stradali esistenti per garantire a questa “opzione zero” i richiesti caratteri di funzionalità e sostenibilità ambientale. Per anni, nelle assemblee amministrative e di categoria, riportate con enfasi dai media locali, la scelta del “Passante Nord” è stata decantata non solo come il toccasana dello smaltimento del traffico che assedia la città ma come un nuova frontiera dello sviluppo immobiliare, fonte di occupazione e ricchezza per il territorio e per gli operatori che lo popolano: “il nuovo che avanza”.I detrattori di tale scelta, agricoltori, associazioni e partiti ambientalisti, difensori di un paesaggio agrario fertile da due millenni e dei suoi beni, sono stati dileggiati come passatisti o rompiscatole.In questi lunghi anni di discussione sul Passante Autostradale Nord è emerso chiaramente che l’opera, oltre che impattante per la mole del rilevato su un terreno geologicamente instabile, soggetto a subsidenza, alluvioni e sismi, era insostenibile dal punto di vista economico in relazione allo scarso traffico che avrebbe tratto vantaggi dal percorrerla. Gli unici ad avvantaggiarsene sarebbero stati, oltre ai cavatori e i fornitori degli inerti, i proprietari dei terreni urbanizzati “fronte-autostrada” che già in fase di previsione avevano avviato operazioni di valorizzazione immobiliare.

Per cui gli estensori del torrenziale “libro bianco” in tre puntate sbagliano fin dalla premessa dove affermano che:“Sullo sfondo – o meglio: a far da cornice al tutto – la fine della programmazione territoriale «all’emiliana», l’amore cieco del Pci/Pds/Ds/Pd per il cemento…”perché attribuiscono alla “opzione zero” che è il Passante di Mezzo, la caratteristica di “business as usual” (sintetizzato in BAU) che è invece propria della scartata proposta del Passante Autostradale Nord, con il suo contorno di cave di inerti, cemento, tondino, asfalto e la ricaduta che trasforma aree agricole in “lotti” urbanizzati produttori di rendita immobiliare. Proprio quel BAU che ha caratterizzato l’originaria “urbanistica democratica” dell’Emilia-Romagna facendone una delle regioni primatiste nella classifica nazionale dello “spreco di suolo”.Certo, il modello urbanistico emiliano-romagnolo, un tempo decantato come esempio di equilibrio fra la città pubblica e le fortune private non ha mantenuto le promesse sotto i colpi del liberismo, neo o vetero che sia: l’urbanizzazione è sbrodolata devastando le fertili campagne e i beni naturali e paesaggistici, la rendita immobiliare ha fatto valere le sue libidini e le tentazioni connesse.

Ora ci troviamo di fronte alla brutta svolta con una nuova bozza di legge Disciplina Regionale sulla Tutela e l’Uso del Territorio, che dovremo contrastare con tutte le forze disponibili per cercare di salvare quel po’ che rimane del paesaggio agrario e naturale, con la forza della Costituzione Repubblicana uscita fortunatamente indenne dal confronto referendario.Ma non lo potremo fare se ci aggrappiamo, come pretendono i comitati di piccoli e grandi proprietari di appartamenti al ritorno del biscione serpeggiante in pianura o a mendicare come rivincite miserande o contraddittorie “opere compensative”.La procedura con il sistema di partecipazione previsto dalla apposita legge regionale proposta dalla neo-nascente Città Metropolitana attraverso la sua Delegata alla mobilità Irene Priolo (che è anche uno dei Sindaci di quei Comunelli della Pianura che finalmente di sono messi di traverso al Passante Nord) non era esente da rischi. Come hanno colto i Wu Ming, la metodologia ha scricchiolato in molti passaggi, non è stato chiaro fin da subito che l’uso della Tangenziale esistente era la sola, reale “opzione zero” per cui la necessità di accettarla ha avuto il carattere di una imposizione. Ma tant’è, i Bolognesi dovranno “farsene una ragione”, adottando provvedimenti concreti che rendano l’opzione zero sostenibile e che puntino alla riduzione del traffico pendolare o in attraversamento, sostituendolo con mobilità su mezzi pubblici di massa e mobilità dolce dovunque sia possibile.

La prima puntata

Addentriamoci nella prima puntata: è il racconto della vicenda del Nodo di Bologna, dalla data di entrata in funzione della Tangenziale (autostrade al centro, corsie aperte laterali) 11 luglio 1967 al “confronto pubblico” sul Passante di Mezzo, quasi cinquant’anni dopo, oltre la metà del 2016. Un racconto avvincente, ma che si dilunga troppo su aspetti marginali, valutazioni e inceppi della politica, tralasciano la cronistoria degli interventi strutturali che hanno accompagnato la vicenda: l’apertura di nuovo casello autostradale “Fiera”, le modifiche agli ingressi e uscite in collegamento con la rete stradale urbana e i lievi aggiustamenti in concomitanza con la realizzazione terza corsia autostradale dinamica nei primi anni del nuovo secolo. Un approfondimento di quest’ultima vicenda poteva essere interessante: perché all’epoca non si è previsto e realizzato, senza gravi disagi, anche quel lieve allargamento della piattaforma che avrebbe permesso di aumentare a tre carreggiate per senso di marcia le corsie laterali aperte, senza sollevare opposizioni. Chi dalle istituzioni influì su tale decisione, forse perché ancora aggrappato alla scommessa del Passante Autostradale Nord sostenuto per abitudine o per interesse dalla maggioranza di quelli che ci contavano?

Altro elemento che manca nella narrazione, anche se snobbato e cancellato dalla “Bologna che conta” e dai suoi media, è il convegno tenuto nella sede della Regione sulle “Grandi Opere”. Fu indetto nel maggio 2015 dai due gruppi consiliari de L’ALTRA E-R e dei 5stelle, e in quella sede associazioni, comitati e molte personalità della cultura e del sociale manifestarono il loro impegno contro il Passante Autostradale Nord e per la sua “opzione zero” cioè l’impiego della Tangenziale esistente. In quella occasione fu anche esposta, come complemento all’ipotesi dei Comitati, l’idea-progetto di copertura fotovoltaica dell’intera Tangenziale, in funzione anche di mitigazione delle emissioni inquinanti, che era stata anticipata con una graphic-novel dal periodico “il manifesto Bologna - in rete”.Ovvierò a tale omissione allegando il recapito al materiale e alla registrazione dell’esposizione raccomandandone la consultazione in rete.

La seconda puntata

Con vivace vena umoristica viene narrata la partecipazione degli autori alle sedute di “partecipazione”, condotte secondo una delle metodologie esposte nel testo di Nanz e Fritsche. “La partecipazione dei cittadini: un manuale” che, pubblicato a cura della Regione E-R ha preceduto l’approvazione della Legge Regionale 3/2010 che promuove e norma la partecipazione dei cittadini agli atti e ai progetti della Pubblica Amministrazione. L’organizzazione era curata da un’agenzia specializzata, Avventura Urbana, incaricata da Autostrade Per l’Italia (ASPI) di concerto con il Comune di Bologna. E’ certo che da una vicenda così sgangherata, figlia di tanti padri, protratta per decine di anni, fra scivolate, ribaltamenti di fronte e sotterfugi non potesse scaturire un confronto limpido e costruttivo.

I partecipanti più smaliziati, ma soprattutto i meno informati infatti covavano infondo al cuore le domande fatidiche:C’è qualcosa da decidere o è già tutto deciso?Chi ci guadagna di più in questo cerimoniale: i politici Comunali? i Benetton? i soliti Coop & Costruttori? Quali cambiamenti in peggio mi vogliono far digerire? Quali diritti mi vogliono negare?Con la comune convinzione, alimentata dai media locali e da concrete esperienze, che i pubblici amministratori siano incapaci o disonesti o con ambedue le qualità e che ci sia sempre una qualche ragione per fancularli. Ed inoltre con lo strazio interiore fra i due lemmi, avvalorati da partecipanti professionisti dell’igiene ambientale:- le automobili disturbano, inquinano e fanno venire il cancro.- quando voglio spostarmi uso l’auto che deve andare diretta e veloce.Gli incerti facilitatori professionali, qui appellati “difficilitatori”, preoccupati di stornare l’attenzione dalle più pungenti critiche e di sminuzzare il dibattito in brevi asserti da “report”, impedivano le possibili aggregazione della domanda e ogni dialogo esplicativo.

Ho partecipato anch’io, in quanto risiedo nel vicino Comune di Calderara, alla sessione cui si riferiscono gli estensori delle Tre-puntate, nella quale la preoccupazione principale dei condòmini era il rumore (non riuscendo a distinguere fra quello del traffico automobilistico da quello, molto più straziante dei decolli e dei “reverse" del vicinissimo aeroporto).Il dossier presentato dalla ASPI sull’impatto del Passante di Mezzo sulla qualità dell’aria, non chiariva le idee a chi teme per la salute e, in un turbinio di numeri non seriali né confrontabili, si venne a sapere che il traffico da smaltire sarà lo stesso degli anni in cui si chiama ancora Tangenziale, sia come volume che come qualità. Il miglioramento promesso avverrà automaticamente per la maggior scorrevolezza data dalle tre corsie per senso di marcia autostradali e dalle tre analoghe delle libere complanari. I tecnici esterni, per il principio di precauzione, chiedono più dati, più centraline da collocare ex-ante per rilevare ex-post l’eventuale miglioramento o peggioramento perché è convinzione radicata che “più corsie richiamano più traffico”. La sessione si conclude con la promessa di qualche allungamento delle bordure di pannelli fonoassorbenti e con la richiesta di due nuovi recinti sgambatoi (e defecatoi) per cani da collocare in due ritagli di prato, ora già pubblico a spese dei Benetton. Due, per dividere cani di diversa taglia! Inoltre pare assodato che il Comune programmerà la costruzione di un nuovo ponte sul Reno, fra l’abitato della “Birra” e la restante periferia cittadina, indicato da decenni sul Piano Regolatore e mai concretizzato.

La seconda puntata si conclude con l’esame, in tono sarcastico, delle dichiarazioni della Assessora Priolo che decanta la quantità e la costosità delle opere compensative che ASPI si impegna a finanziare, soprattutto spazi di verde in parte integrativi di quelle “fasce boscate” che vecchi Piani prevedevano a mitigazione della Tangenziale e che invece, nei decenni, si sono riempite di servizi e di costruzioni. Sulle opere “aggiuntive” ci sarebbe qualcosa da dire, ma lo rimando alle conclusioni.Non manca la nota critica sulle demolizioni di qualche casa, casupola o baraccamento, troppo vicini alla Tangenziale che occorre rimuovere per migliorarne la funzionalità soprattutto negli svincoli, ma su queste si sta già esercitando il Resto del Carlino, con pezzi di colore e interviste commiseratorie ai futuri espropriandi.

La terza puntata

Metteremo le scarpe nel fango, hanno promesso Bukowsky e i Wu Ming e lo fanno con cura percorrendo i frammenti di territorio abbandonati dalla ormai storica Tangenziale e i residui di destinazioni mancate o fallite che la circondano. Un misero paesaggio urbano, in luogo delle promesse “fasce boscate” immaginate cinquant’anni fa.In un’acida carrellata saltano fuori tante magagne prodotte dalle ondivaghe politiche di amministrazioni Comunali, Provinciali, Pubbliche e Private che hanno rosicchiato i margini, i non luoghi della periferia. Parcheggi pubblici desueti e falliti, ferite mai risarcite di un paesaggio che è il cascame, l’effetto collaterale, delle varie fasi dei “miracoli economici”, della rendita immobiliare che conquista nuovi terreni e vi ristagna.

Su questo tema, con un bel po’ di ulteriore confusione, la critica raccatta frammenti del dibattito ormai stucchevole sul “consumo di suolo”, sulle sue possibili diverse denominazioni, sui pericoli indistinti, ma prevedibili di una maldestra iniziativa della Giunta Regionale dell’Emilia-Romagna per una futura DISCIPLINA REGIONALE SULLA TUTELA E L’USO DEL TERRITORIO. Ciò non ha nulla a che fare con il Passante di Mezzo e serve solo ad aumentare il clima di incertezza e disagio che viene scaricato a piene mani sui cittadini preoccupati. Varrà la pena di parlarne a suo tempo, per una seria battaglia contro lo “spreco di suolo fertile e naturale” da intraprendere nelle sedi deputate all’inizio del prossimo 2017; e al quale servirà anche la arguzia critica dei Bukowski e dei Wu Ming, per resistere alle brame della rendita e dei politici che la servono con devozione.Proseguendo, viene esaminata questa Tangenziale, un po’ allargata e “vestita di verde”. Gli abili architetti paesaggisti incaricati da Autostrade hanno cercato di abbellire, inverdire la pillola, creare ricuciture nei percorsi e nelle visuali, addobbare come “porte della città” i sotto e sovrappassi, rendere più “plastici” i pannelli fonoassorbenti. Uno sforzo di buona volontà su cui è facile esercitare l’umorismo e in ciò Bukowski e i Wu Ming si trovano a proprio agio, spesso con leggerezza arguta, ma purtroppo talvolta anche con qualche caduta di stile.

Quello del paesaggista, come tanti altri mestieri, ha qualcosa di futile e vano nella sua vocazione di mascherare le ferree contraddizioni della scena urbana e del paesaggio agrario e perciò si presta allo sberleffo. Non è un gran mestiere, ma “qualcuno lo deve pur fare” come quello del critico, o del tecnico di traffico, o del politico comandato ad occuparsi di infrastrutture.Spiace che uno dei punti qualificanti della nuova sistemazione, la copertura del Passante a San Donino: una galleria artificiale “tipo Amburgo” con tetto-giardino, in modo da collegare due piccole aree a parco già sistemate e la giusta eliminazione di una pleonastica uscita/ingresso sulla via San Donato non sia sufficientemente valorizzata anche come frutto delle giuste lotte degli abitanti frontisti.

Quello che è mancato, al libello in tre puntate è anche una comprensibile e piana descrizione dell’evoluzione del traffico e del relativo inquinamento nel lungo periodo di vita della Tangenziale, con cifre e diagrammi reperibili in archivio ma resi comprensibili ai cittadini nella loro evidenza. In mancanza di tale esposizione è arduo proporre e far comprendere soluzioni che possano moderare gli effetti negativi del traffico in attraversamento o “stili di vita” adeguati ad affrontarli. In assenza di ciò si è diffuso nelle assemblee e nel forum un timore generico, con aspetti morbosi, che ostacola le proposte“di piano” che permetterebbero di affrontare “il mostro” con le armi della ragione e della scienza.

Agitati fra i miti contrastanti della qualità dell’aria e della scorrevolezza del traffico si sono persi di vista i provvedimenti che permetterebbero di moderare gli effetti del traffico privato in attraversamento o di confluenza nella città che sono:
- un sistema di trasporto pubblico collettivo basato sulla rete attraversante del SFM e delle sue fermate e dei possibili parcheggi scambiatori attrezzati.
- le possibili agevolazioni per tutti i sitemi dolci ed alternativi di mobilità, dai pedoni alla bici, dall’auto condivisa ai sistemi di car sharing e simili.
- un criterio di gestione delle sedi stradali del Nodo di Bologna, basato su tecnologie aggiornate, che possa far fronte anche alle emergenze con ragionevoli alternative guidate, che induca a comportamenti virtuosi sia nella condotta che nell’adeguamento dei veicoli.
- un programma di “rigenerazione urbana” specifico per le aree della Città-della-Tangenziale, definita dal Piano Urbanistico vigente, sostenuta anche dai finanziamenti per le periferie e partecipato dagli abitanti, analogo a ciò che sta facendo il Comune di Barcellona con le Superilles.
- la possibilità di confinare, contenere e trattare le emissioni inquinanti mediante un Carter fotovoltaico, una sorta di galleria artificiale che protegga, per successivi stralci, tutta la piastra del Passante di Mezzo, con i caratteri di funzionalità e sicurezza stabiliti dalla normativa e dalla pratica per le gallerie autostradali. Da proporre a mezzo bando di gara ai principali fornitori di energia da fonti rinnovabili.

E’ qui il caso di proporre la consultazione del “Quaderno degli attori” da me depositato agli atti del forum partecipato e che non sono riuscito a discutere né con i frastornati partecipanti né con i tecnici progettisti delle sedi stradali, né, tampoco con gli amministratori coinvolti nelle decisioni, facendolo precedere dalla registrazione della mia presentazione al Convegno sulle Grandi Opere che ho già citato.

Sull’idea-progetto del “Carter” contenuta nel Quaderno degli Attori il Coordinatore del procedimento partecipato, Andrea Pillon ha, nella sua relazione finale, inserito una efficace sintesi:“Copertura totale del tracciato oggetto di ampliamento con una tensostruttura continua su cui collocare pannelli fotovoltaici. “L’idea è di un’opera a bassissimo costo in quanto l’ammortamento dovrebbe essere in gran parte costituito dalla produzione di energia elettrica; (...) tenendo conto delle dimensioni del progetto la superficie fotovoltaica potrebbe essere superiore ai 60 ettari (...) cioè uno dei più grandi campi fotovoltaici” esistenti. I vantaggi dell’opera sarebbero: intercettare all’origine le emissioni inquinanti in modo da migliorare, per quanto possibile, la qualità dell’aria nell’intera area urbana di Bologna; disporre di una vasta superficie fotovoltaica, senza occupazione di aree agricole, prossima ai siti di massimo consumo di energia elettrica e quindi compatibile con i sistemi di controllo costituenti la smart grid; proteggere la superficie stradale dalle precipitazioni atmosferiche, che tendono a ostacolare il regolare scorrimento; disporre di una struttura continua atta a sostenere sistemi di segnalazione e sorveglianza, antincendio e lavaggio delle superfici, ventilazione e contenimento dell’aria (Quaderno degli attori di Antonio Bonomi del 6 ottobre 2016).”

Conclusioni (provvisorie)

La partita del Passante di Mezzo non è ancora chiusa: ha avuto di recente dei rimbalzi in Consiglio Comunale con divisioni all’interno della stessa maggioranza, frutto di confusione dei ruoli, di mancanza di corretta informazione tecnica e sulle opinioni di cui si fanno portavoce i media cittadini, sempre alla ricerca “dell’uomo che morde il cane”, dai tempi delle tenzoni fra i Pepponi e i Doncamilli.Non giova alla comprensione dei fatti la malagrazia con cui viene affrontata in Regione la necessaria svolta per uscire dall’età dello “spreco di suolo”, l’obbligo di un nuovi e più chiari PRT Piano Regionale dei Trasporti e PER Piano Energetico Regionale e PRU Piano Regionale Urbanistico. Non giova il fatto che a Bologna si continua ad annaspare fra sistemi diversi e conflittuali di trasporto pubblico, Civis/Crealis/Emilio, linee filoviarie, People-mover ed ora si riparla ancora di tram mentre il Servizio Ferroviario Metropolitano SFM che ne innerverebbe tutto il territorio è ancora incompleto, non passante ai capolinea perché suddiviso, nella Stazione Bo-centrale, in due cespugli separati da 600 metri di marciapiedi affollati (mentre dovevano essere stati collegati dai primi tre binari con scadenza contrattuale al maggio del 2016).Perciò sarà necessario parlare ancora del Nodo di Bologna, rivedendo anche le opere accessorie proposte che devono essere inquadrate dal punto di vista urbanistico per non causare altri irreversibili danni con sprechi di terra, paesaggio e risorse.Parlarne ancora e farne parlare per trarre da questa odissea il massimo di conoscenza e di crescita che ci dev’essere, che c’è, in ogni viaggio.

Antonio Bonomi - vecchio architetto e urbanistagià Assessore e Consigliere nel Comune di Calderara di Reno , mercoledì 28 dicembre 2016.

Qui di seguito i link alle tre puntate dell'inchiesta di Wolf Bukowsky e Wu Ming sul Passante di Bologna: prima puntata, seconda puntata, terza puntata.

«La parte del leone la gioca senza dubbio il nostro patrimonio archeologico e questo è un forte indizio rispetto al quale bisognerebbe guardare le cose da un’ottica più lungimirante: perché archeologia vuol dire contesto territoriale». la Repubblica, 8 gennaio 2017 (c.m.c.)

Il sensibile incremento di visitatori di musei e siti archeologici è un’ottima notizia.Su questo fronte come su altri gli italiani si rivelano assai migliori di quel che sembrano.

Certo non tutto, in queste statistiche, è facilmente interpretabile: nella classifica delle regioni, l’Abruzzo all’ultimo posto è forse effetto di una ricostruzione post- terremoto in perpetuo stand by, ma come mai la Liguria è al penultimo posto?

Ovvio che siano in testa Lazio, Campania, Toscana e Piemonte (quest’ultimo grazie al successo del Museo Egizio); ma come mai il Friuli sorpassa il Veneto con le sue mete di primissima qualità, a cominciare da Venezia?

E come si spiega che la Calabria, nonostante i Bronzi di Riace, figuri agli ultimi posti? Per non dire che manca la Sicilia, una lacuna che si spiega con la devoluzione dei beni culturali alla regione (agosto 1975).

Il ministro di allora (Spadolini) doveva essere ben distratto per accettare la sottrazione della più vasta regione d’Italia (certo non l’ultima per patrimonio culturale) al ministero fondato pochi mesi prima. Ma questa è una spiegazione meramente burocratica: non era proprio possibile, d’intesa con la Sicilia, includere anche i suoi dati in un bilancio di fine anno come questo? Potremo leggere prima o poi statistiche più ampie che includano in tutta Italia non solo (come queste) i musei statali, ma anche quelli comunali o privati?

Nonostante queste domande, il quadro è positivo, anche perché più visitatori vuol dire più introiti, e Franceschini ha assicurato che «queste risorse preziose torneranno interamente ai musei secondo un sistema che premia le migliori gestioni e al contempo garantisce le piccole realtà».

Più difficile è andare d’accordo col ministro quando interpreta la crescita dei visitatori come un successo della sua riforma. Incentrata sul divorzio fra tutela e valorizzazione, essa dà un ruolo privilegiato ai “super-musei”, con direttori selezionati con procedura speciale, ma comporta un marcato disinvestimento sulle Soprintendenze territoriali, sempre più povere di personale e di risorse anche se sempre più cariche di incombenze, dalle autorizzazioni paesaggistiche all’archeologia preventiva. Il ministro canta vittoria, ma concentrandosi sui musei li tratta come un sistema a sé, un arcipelago di isole ritagliate dal territorio nazionale. Anzi, tra i siti archeologici cita solo quelli già assimilati a un “super-museo” (Pompei, Paestum) o quella porzione di Roma (Colosseo e Fori) che intende scorporare dalla Soprintendenza per farne un’entità a parte, dato che vi si concentrano visitatori e introiti.

Parlando solo dei musei statali, escludendo dal computo quelli siciliani perché sono etichettati come regionali, puntando sui musei ma non sul territorio, il ministro si comporta come l’amministratore delegato di un’azienda che abbia per filiali i super-musei e, sì, una rete di «piccole realtà», più che come l’interprete primario dell’obbligo costituzionale di tutela del «paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione» (art. 9). Ma lo stesso fatto che in questo incremento di visitatori «la parte del leone la gioca senza dubbio il nostro patrimonio archeologico» è un forte indizio che bisognerebbe guardare le cose da un’ottica più lungimirante: perché archeologia vuol dire contesto territoriale. Nessuno può credere seriamente che i visitatori dei musei ci vadano per rendere omaggio, quasi fosse un referendum, alla riforma Franceschini.

La peculiarità del patrimonio culturale italiano è la sua diffusione capillare sul territorio, la perfetta osmosi fra il “piccolo” e il “grande”, fra i musei e le città, l’identità di paesaggio e tessuto storico-artistico, il radicamento al suolo di una stratificazione millenaria che non si esprime solo nei siti visitabili, ma nei dati archeologici (a rischio) che potrebbero spiegarli meglio.

Se vogliamo trattare come adulti gli italiani che visitano i musei, dobbiamo pensare che lo fanno perché sempre più consapevoli di questa trama minuta. Perciò il ministro non dovrebbe sbandierare i musei mentre le Soprintendenze territoriali sono abbandonate al loro destino, con risorse finanziarie e umane peggio che insufficienti. Dovrebbe sapere che l’instabilità provocata dalla sua raffica di riforme non giova al funzionamento delle istituzioni, e che musei e soprintendenze, in piena simbiosi, vanno intesi come enti di ricerca territoriale.

Dovrebbe correggere gli aspetti più pesantemente burocratici delle sue riforme, per esempio la separazione amministrativa dei musei “minori” dai loro contesti territoriali, o i massicci trasferimenti degli archivi delle Soprintendenze (strumento essenziale di tutela), ma anche di depositi, laboratori di restauro e tecnici dedicati. Dovrebbe tenere in conto che i 500 nuovi funzionari in corso d’assunzione sono una goccia nel mare, forse un decimo del fabbisogno risultante dai pensionamenti di questi anni. Dovrebbe aver ben chiaro che il progettato frazionamento del territorio di Roma sforbiciandone ad arbitrio le aree più ricche di visitatori e d’introiti è contrario alle esigenze della tutela e a quelle della ricerca, moltiplica burocraticamente le competenze nella stessa città e rende più arduo il dialogo con il Comune per un accordo sugli sterminati beni culturali della città (il maggior centro archeologico del mondo).

Roma è, anzi, la cartina di tornasole delle intenzioni del ministro. Colosseo e Fori non sono un “parco archeologico”, sono un pezzo di città da integrare pienamente nel tessuto dell’Urbe recuperandone l’unità di storia e di vita. È quel che ha detto il vicesindaco Bergamo, prendendo atto dell’unicità di Roma e del suo immenso potenziale, ed è difficile che il ministro non sia d’accordo. Un unico riferimento ministeriale per il dialogo con il Comune, Roma come laboratorio, dai grandi musei alle più minute emergenze. Dove mai si può immaginare un progetto più stimolante?

«Cominciamo con la cultura: come sta il nostro patrimonio artistico e monumentale? Lo abbiamo chiesto a Salvatore Settis, archeologo e storico dell'arte». Il Fatto Quotidiano 4 gennaio 2017 (c.m.c.)



Professore, sul Fatto qualche settimana fa ha scritto che le nostre città si stanno trasformando in un “agglomerato di periferie, divorando al tempo stesso il loro cuore antico e le circostanti campagne”. Cosa si può fare per arginare il fenomeno?

Il trionfo delle periferie ha una conseguenza particolarmente negativa nello svuotamento dei centri storici, i quali più si spopolano più sono oggetto di operazioni di gentrification, cioè di mutazione commerciale. Si stanno creando confini interni alla città, che sono confini di natura sociale. La questione non può essere risolta né dal punto di vista della tutela, né da quello del turismo. Bensì creando occasioni di lavoro, soprattutto per i giovani, che abbiano a che fare con i centri storici e politiche abitative che incoraggino a vivere nei centri. L'ho scritto nel mio libro su Venezia, ma vale per tutte le città.

Il ministero si sta occupando molto della valorizzazione del patrimonio in chiave turistica. Trova dei limiti a questa politica?
In Toscana si vede ricorrere dappertutto a una dizione, anche a Pisa, "centro commerciale naturale" che poi sarebbe il centro storico. Cioè la forma urbana, in cui vivevano Dante, Michelangelo, Giotto e Ariosto, sarebbe l'anticipazione dei centri commerciali all'americana: una perversione che si sta diffondendo. Al turista bisognerebbe offrire in primo luogo la civiltà italiana che non è fatta di monumenti vuoti, è fatta di centri storici e delle persone che li vivono. L'unico vantaggio - ma di questo non abbiamo ancora visto nulla - dell'aver accorpato il ministero dei Beni culturali con quello del Turismo, lo avremmo se la promozione turistica partisse dall'autocoscienza dei cittadini che abitano le città; non certo trasformando le città in luna park per turisti.

Che si può fare?
Non puntare sulle mete turistiche già famose, come Pompei o Firenze, ma distribuire i flussi turistici in tutto il Paese. Non solo Venezia, ma anche Vicenza.

Il Mibac sta promuovendo le aperture straordinarie dei Musei e sembra che i numeri gli diano ragione. È la direzione giusta?
Certo, tenere aperti i musei il più possibile è giusto. Ma dovrebbe valere anche per le biblioteche e gli archivi che sono parte di un sistema unico, ma che non hanno un trattamento simile. La Biblioteca universitaria di Pisa, per motivi misteriosi, è stata chiusa dopo il terremoto in Emilia. I volumi sono stati deportati a Lucca: per un numero imprecisato di anni saranno inutilizzabili. E poi: quali musei? Parliamo solo degli Uffizi? Se sì non mi va bene. Dovremmo esplorare i magazzini dei nostri musei che sono vere e proprie riserve auree da cui si potrebbero estrarre nuove opere da esporre. Sono tutte cose che si fanno, ma si fanno ancora troppo poco.

Mancano le risorse.

Sì, ma attenzione: non solo economiche, anche umane. Il ministero ha subito una pesantissima emorragia di personale. I 500 nuovi assunti, che dovrebbero diventare operativi in questo anno, non bastano a coprire nemmeno un quarto dei pensionamenti degli ultimi anni. Ci sono tantissimi laureati in Storia dell'arte e Archeologia che devono cercare lavoro all'estero e potrebbero essere impiegati qui. Questo sangue nuovo potrebbe essere immesso nel nostro sistema della tutela e dei musei: da loro potrebbero nascere nuovi progetti, e non solo più turisti.

Le Soprintentenze sono state accusate di essere la causa di ogni male, alimentando la burocrazia a dismisura e facendo lievitare i tempi d'intervento. Poco prima del referendum, Maria Elena Boschi ha detto in tv che il ministro Franceschini le sta smantellando: una vecchia idea di Renzi.
Il ministro sta attuando a rate una riforma mai annunciata nel suo insieme: l'interpretazione che ne ha dato la Boschi rischia di essere quella giusta. Le Soprintendenze sono state svuotate di personale, trasferito alle istituzioni museali a scapito della tutela del patrimonio diffuso sul territorio. Bisogna invece calibrare le risorse umane delle Soprintendenze in base ai compiti di tutela che hanno, mentre in questi anni è accaduto l'inverso. Addirittura poi con l'abolizione delle Soprintendenze archeologiche accorpate a quelle "olistiche" - parola vuota - la tutela archeologica del territorio, che richiede una presenza capillare, praticamente non esiste più.

Lunedì ci sarà una riunione del Consiglio superiore dei Beni culturali in cui il ministro annuncerà il suo piano di spaccare in due la Soprintendenza di Roma, per "isolare" le competenze su Colosseo e Fori imperiali perché è lì che si fanno i maggiori incassi. Ma è uno sbaglio clamoroso: almeno dai tempi di Augusto Roma è sempre stata una, e l'area archeologica centrale va integrata nello spazio urbano, non tagliata via. Anche per non moltiplicare gli interlocutori nel dialogo, necessario, con la Sovrintedenza che dipende dal Comune. Mi pare che così si accentui la burocrazia, anziché ridurla. Inoltre, il vicesindaco Bergamo qualche giorno fa sul Corriere ha detto che visto che gli introiti di quest'area sono molto alti, il rischio è che quanto eccede la sua gestione- circa 40 milioni di euro - venga redistribuito fuori Roma.

È favorevole al mecenatismo dei privati? L'ultimo caso è quello del restauro, avvenuto con fondi privati, della scalinata di Trinità dei Monti. Si è parlato addirittura di una cancellata.
Sono contrarissimo: se sotto il Pantheon ci sono due persone che dormono in sacco a pelo immagino che negli ultimi Duemila anni sia accaduto un numero di volte incalcolabile. Più che mettere inferriate, meglio sarebbe fare in modo che le persone non debbano dormire all'addiaccio. In Italia c'è grande confusione tra sponsorizzazione e mecenatismo, che è l'uso di capitali privati per iniziative culturali, senza profitto. Un'ottima cosa, che qui accade molto meno rispetto ad altri Paesi perché i meccanismi di defiscalizzazione sono arretrati. In Francia funziona bene perché i vantaggi fiscali ci sono anche per le micro-donazioni: il segreto è questo. Proviamo a copiarli.

Il Fatto Quotidiano, 3 gennaio 2017 (p.d.)

Il regalo di Natale del governo. Firmato 23 dicembre. La legge della Regione Sardegna non è stata stoppata da Roma. Bastano due parole: “Non impugnata”, come è scritto sul sito del ministero per gli Affari regionali. “Potrebbero cambiare il paesaggio della Sardegna. Rinunciando a rivolgersi alla Corte costituzionale, come era stato fatto in precedenza, il governo di Paolo Gentiloni spalanca la strada a una norma che potrebbe sdemanializzare un sesto del territorio sardo regalandolo ai privati”, sostiene Stefano Deliperi dell’associazione ambientalista Gruppo di Intervento Giuridico.

“La decisione del governo – aggiunge Deliperi – è arrivata a due giorni da Natale, nel disinteresse generale. Così come la Regione Sardegna, governata dallo stesso centrosinistra, zitta zitta aveva approvato di notte la norma”.

Già, gli usi civici. Fanno parte della storia dell’isola. “È uno straordinario patrimonio comune di noi sardi. Parliamo di immobili e aree di proprietà collettiva. I Comuni ne possono avere la gestione, ma non sono loro. I cittadini li possono utilizzare per esempio per pascolo, semina e raccolta della legna. I terreni a uso civico e i demani civici sono indispensabili sia per l’economia e il tessuto sociale sia per la cura dell’ambiente”.

Esistono in tutta Italia, ma in Sardegna gli usi civici riguardano 4 mila chilometri quadrati sui 24 mila dell’isola. Un sesto della regione. Vi rientrano aree ancora selvagge, ma anche zone di grandissimo pregio – e di enorme valore immobiliare – lungo la costa. Tra i casi più noti si ricorda Capo Altano, di fronte all’isola di Carloforte. C’è poi la Costa di Baunei a Orosei. Quindi le coste di Montiferru che salgono il monte Urtigu. Poi l’entroterra, il Mont’e Prama. Infine buona parte del Gennargentu, del Sulcis.

Gli usi civici sardi derivano dai tempi del feudalesimo. Gli appetiti nei confronti di questo tesoro cominciarono allora, quando i terreni tolti ai feudatari furono divisi tra privati e cittadini. Con l’arrivo del Regno di Sardegna era stato emesso l’Editto delle Chiudende che autorizzava i contadini a recintare i terreni che prima erano proprietà collettiva.

“Un assedio mai terminato. Gli usi civici non sono mai stati al sicuro”, ricorda Deliperi. E snocciola alcuni casi clamorosi: “Ci sono nati sopra dei complessi turistici, come a Costa Rei o vicino a Orosei”.

“Nel 2013 – sostiene il Gruppo di Intervento Giuridico – la giunta di centrodestra di Ugo Cappellacci tentò di aprire le porte alla sclassificazione. In pratica i Comuni potevano chiedere che i terreni degli usi civici fossero tolti dal Demanio”. Le conseguenze? “Non sarebbero probabilmente più sottoposti alla legge paesaggistica Galasso e in futuro potrebbero anche essere ceduti ai privati”. Ma allora lo Stato fece ricorso alla Corte Costituzionale che, appunto, bocciò la legge del centrodestra.

Il centrosinistra, sostengono gli ambientalisti, in sostanza l’ha riproposta. I Comuni avranno un termine di un anno per presentare la richiesta di sdemanializzazione. Ma qualcuno ha già proposto di allungarlo a due anni. E c’è chi vorrebbe toglierlo del tutto.

Un modo per regalare un sesto della Sardegna ai privati? La maggioranza regionale respinge l’accusa. Cristiano Erriu, assessore alle Finanze e all’Urbanistica della giunta di centrosinistra di Francesco Pigliaru, ha sempre negato: “Abbiamo concepito la norma soltanto per affrontare casi specifici come uno stabilimento di bauxite nel Sulcis. Non solo: per fare qualsiasi modifica sarà necessario un accordo con il ministero dei Beni culturali. Nessuna privatizzazione”.

Francesco Sabatini, consigliere regionale del Pd, aggiunge: “Le norme esistenti erano troppo rigide. Bisognava renderle più adattabili ai casi concreti, alle esigenze della popolazione. Altrimenti, paradossalmente, c’è il rischio che la tutela incentivi fenomeni di occupazione abusiva dei terreni sottoposti a usi civici. Come per esempio da parte di alcuni pastori”.

Ma il Gruppo di Intervento Giuridico ha molti dubbi: “Se davvero vogliono sanare singoli casi specifici, perché non usano la permuta, l’alienazione o i trasferimenti dei diritti di uso civico? Invece le nuove norme potrebbero essere applicate a tutti gli usi civici. In mano a cattivi amministratori rischiano di regalare ai privati un sesto della Sardegna. Un danno irrimediabile!”.

Ancora: “La Regione costituirà un gruppo di lavoro con esperti anche esterni per studiare i problemi legati agli usi civici. Costerà 300 mila euro. Ma perché non rivolgersi alle strutture della Regione?”.

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