«“Green infrastructure”: l’infrastructure è l’autostrada/tangenziale e il green è quello che c’è già, va solo pettinato meglio per attenuare il grigio e i rumori. È la versione emiliana della dialettica di Hegel: il simulacro di tesi, antitesi e sintesi in un unico partito e blocco di interessi». Internazionale online, 21 dicembre 2016 (p.d.)
Pubblichiamo la terza ed ultima puntata del reportage in tre puntate condotto da Wolf Bukowski e Wu Ming sul Passante di Bologna (la prima puntata la trovate qui, la seconda qui).
Abbandonàti (e perciò sopravvissuti)
Nel dossier del Passante di Bologna i cantieri rientrano nella categoria delle “occupazioni temporanee”, e coprono in tutto una superficie di 20 ettari. Ma se “temporanee” significa “per molti anni”, come nel caso dell’Area ex Michelino, e magari anche di più, qualora non arrivi un nuovo progetto a finanziare la deimpermeabilizzazione, allora quei 20 ettari di terreno “temporaneamente” occupati diventano l’ennesima bugia, e faremmo meglio a considerare che almeno 40 ettari di suolo saranno impattati dall’infrastruttura, nel significato etimologico di “calpestati, trasformati in pattume”. Lungo il Sàvena Abbandonato, sulla riva opposta rispetto al casello Fiera, c’è un terreno agricolo e alberato di circa 23 ettari, undici dei quali saranno “temporaneamente” occupati da un cantiere del Passante, completo di campo base, officina, deposito mezzi e materiali di scavo, campo travi dei cavalcavia, impianti di produzione del calcestruzzo e del conglomerato bituminoso. Come si fa a sostenere che quel suolo non sarà “consumato” da un simile ingombro? Come si può pensare che, dopo tanta devastazione, torni a essere quello di prima? E il Sàvena Abbandonato – ritenuto “risorsa ecologica e ambientale” – come resisterà nella morsa tra un simile cantiere e lo svincolo autostradale, che ormai lo affianca fino a che morte non li separi?
Ma non basta, perché con la scusa della “semplificazione”, il progetto di legge si spinge “fino alla negazione della stessa disciplina urbanistica”. L’articolo 32 dichiara infatti che un comune non può stabilire quante saranno e dove saranno ubicate le nuove residenze e attività produttive. La decisione “spetta agli accordi operativi derivanti dalla negoziazione fra l’amministrazione comunale e gli operatori privati”. In sostanza, la pianificazione dei comuni evapora, sostituita dall’esame, caso per caso, delle proposte dei costruttori. Proprio come era previsto da una proposta di legge di Maurizio Lupi, risalente al 2005, a dimostrazione dell’uniformità di vedute in materia di cemento tra centrodestra e centrosinistra. “È un ribaltamento totale della prospettiva”, continua Bonora. “Mentre un tempo la pianificazione serviva ad accreditare la dimensione pubblica della territorialità, oggi è l’esatto contrario, e sono gli investimenti privati che vanno salvaguardati. In Emilia vantiamo la pianificazione come grande scelta pubblica degli anni sessanta-settanta, mentre oggi ci troviamo a essere capofila della privatizzazione”.
Vestita di verde
L’assessora Valentina Orioli – responsabile di ambiente e urbanistica – introduce i lavori parlando delle opere di inserimento e mitigazione del Passante come di una “vera e propria infrastruttura ecologica che accompagna la strada”. Il concetto di “green infrastructure” ritornerà più volte nel corso della mattinata, con l’aggiunta di un pizzico di orgoglio patriottico, perché si tratta di una strategia adottata dall’Unione europea nel maggio 2013 su iniziativa dell’italiana Pia Bucella. Tuttavia, l’idea originaria di cucire tra loro le aree naturali di un territorio qui si traduce in un obiettivo più terra terra: l’infrastructure è l’autostrada/tangenziale e il green è quello che c’è già, va solo pettinato meglio per attenuare il grigio e i rumori. L’architetto Carles Llop, come da copione, si dice onorato di lavorare a Bologna, ricordando quando i professori gli facevano studiare questa città modello e Pier Luigi Cervellati – assessore urbanista dal 1965 al 1980 – era il suo idolo intellettuale. Peccato che Cervellati sia seduto tra il pubblico, schierato con i cittadini che si oppongono al Passante. Llop fa partire una presentazione con 78 slide, fitta di mappe, rendering, tavole a colori. I materiali sono organizzati in base a cinque parole chiave: parchi, percorsi, passaggi, opere d’arte e porte.
Le porte sono una tipica ossessione bolognese, ma il trucco vale per qualunque altra città. Si prende un elemento del paesaggio urbano, carico di storia, caro ai cittadini, ricco di simbologie. Nel nostro caso, le dieci porte superstiti delle antiche mura. Quindi, si assimila a quell’icona una nuova architettura, potenzialmente sgradita, per presentarla come un’espressione del genius loci. A Bologna è già successo con la ripugnante porta Europa, un ecomostro per uffici del gruppo Unipol, che scimmiotta i casseri medievali fin nelle finte merlature, e che dovrebbe essere l’arco trionfale di accesso alla città dalla Fiera, dalle Alpi, dal resto del continente. Un’architettura pensata per favorire incontri e passaggi, ma affollata solo dalle auto che ci scorrono sotto. Ecco perché, quando sentiamo parlare degli svincoli del Passante come delle nuove “porte” di Bologna, un brivido ci scuote. Per carità, l’idea di rampe d’accesso e sottopassaggi che non siano un incubo ciclopedonale è senz’altro meritevole, ma quando si comincia a raccontarli come luoghi di scambio e identificazione, forse si sta esagerando con le pie illusioni. Perché una strada in rilevato a dodici corsie non la cancelli con quattro salici, il wi-fi diffuso e qualche bel lampione. E se la schiaffi in mezzo a una periferia, non sarà mai un polo d’attrazione. Ma su questo, Llop è molto chiaro: non spetta a lui giudicare l’opera. Il suo compito è migliorarne l’inserimento. Insomma, lo stesso obiettivo che i facilitatori hanno indicato ai cittadini durante il percorso partecipativo: essere propositivi, suggerire qualche abbellimento e contribuire a gonfiare una bolla di consenso intorno al Passante di Bologna e ai suoi promotori.
L’intervento sui parchi è affidato alle parole di Andreas Kipar, dello studio Land, già coinvolto nella gentrificazione del quartiere Isola a Milano. Anzitutto, scopriamo che i parchi hanno una doppia funzione, come luoghi del tempo libero e spazi di mitigazione dell’opera. Grazie a questo duplice obiettivo, rientra nella definizione anche una zona interclusa, un filare di pioppi, un’aiuola spartitraffico. Accade con i parchi quel che abbiamo già visto per le “porte”. Anche questa è un’idea passepartout, un lasciapassare: chi semina parchi è sempre benvenuto. Eppure, non è affatto detto che un parco sia sempre e comunque una buona notizia. I paesaggi che accompagnano la tangenziale bolognese sono un impasto molle, in precario equilibrio chimico, di ruderi, palazzoni, squarci di campagna, canali, colonie feline, fasce boscate, rimesse di ferraglia, artigiani in baracche, sfasciacarrozze, centri commerciali, sottopassaggi dormitorio, cartelli “vendesi”, scavatrici, arredi da parco urbano spruzzati sui prati, sentieri nascosti, orti, studi di registrazione e startup ricavati in vecchi fienili. Un territorio nel quale qualsiasi intervento di “riqualificazione urbana” deve stare attentissimo a non cancellare ricordi e uniformare differenze, accorciando insieme all’erba anche il respiro delle storie.
Ci vuole l’albero
Kipar mostra i rendering del nuovo parco Nord, che sarà rinverdito, riforestato, rinaturalizzato. Nell’immagine, si vede un tizio che va in monociclo sull’erba e sullo sfondo, oltre una fioritura di pruni, spiccano le due torri, che da parco Nord non si vedono manco con il binocolo. A ulteriore illustrazione del futuro dell’area, una foto mostra un concerto sul prato… del parc de la Villette, a Parigi. Grande spazio viene dato all’idea di connettere i parchi tra loro, con piste ciclabili, sottopassi pedonali e sentieri. Nelle slide che scorrono sul telo, non c’è l’ombra di un’automobile, eppure il motivo per cui siamo qui è una strada a 12 corsie. Kipar parla di trasformarla da ferita che taglia il territorio a sutura che lo tiene insieme, ma ripete troppo spesso “basta con l’ornamentalismo, basta con i giardinetti in mezzo alle rotonde” e l’impressione è che voglia scacciare un fantasma. Infatti, dopo aver parlato di ecotoni e biodiversità, l’architetto tedesco si lascia scappare una frase rivelatrice: “L’albero è un’architettura vegetale che piace sempre di più”.
Gli fa eco Paolo Desideri dello studio Abdr, orgoglioso responsabile di quelle che negli appalti italiani si chiamano ancora “opere d’arte”, quasi a voler preservare la gloriosa tradizione romana di coniugare architettura e ingegneria. Desideri quindi si occuperà di barriere antirumore, cavalcavia, viadotti. E soprattutto della galleria acustica di San Donnino, fiore all’occhiello sul fiore all’occhiello, grande sfoggio di attenzione per i cittadini del quartiere più segnato dal passaggio dell’A14/Tangenziale. Non a caso, di tutti i rioni che abbiamo visitato lungo l’infrastruttura, San Donnino è quello che più fa sentire la sua opposizione al passante, con striscioni, tazebao e volantini. Uno di questi ritrae uno scheletro intento a fare jogging. La didascalia recita: “Andava tutti i giorni a correre nel giardino pensile sul Passante di Bologna”. Giardino pensile, ecodotto, galleria fonica: comunque lo si voglia chiamare, si tratta di un tunnel artificiale, steso sopra le 12 corsie della nuova strada, e rivestito da “un panneggio ambientale”, un “manto verde”, secondo le parole dello stesso Desideri. E dunque alberi, perché piacciono sempre di più, e giardini usati come camouflage. A dispetto del grande impegno progettuale, l’obiettivo reale di questi interventi emerge dai lapsus linguae. L’elemento naturale serve a infilare il pugno d’asfalto in un guanto di velluto verde.
Racconti che la benzina quasi quasi quasi purifica l’aria
In realtà la risposta alla domanda è fin troppo facile, e altrettanto deludente: le proiezioni fatte da Autostrade sono fondate su pensieri speranzosi, più che su solide realtà. Il ritmo con cui gli automobilisti cambiano la vettura è condizionato dai redditi in calo e dalla precarietà lavorativa, e i dati delle emissioni dei nuovi modelli di auto sono notoriamente poco affidabili. Inoltre il governo Renzi, dello stesso segno dell’amministrazione bolognese, si è caratterizzato come uno dei meno virtuosi: “Tra i paesi dell’Europa occidentale l’Italia veramente balza all’occhio come quella che vuole rinviare e indebolire” norme più stringenti sui test per le emissioni dei veicoli, dice Julia Poliscanova dell’associazione Transport & Environment a Radio 24. Infine andrebbe sempre ricordato che costruire un’auto nuova inquina quanto guidarla per tutta la sua vita utile, quindi sarebbe doppiamente saggio frenare gli entusiasmi attorno al “rinnovo parco auto”. Il wishful thinking di Autostrade è interessato: dire che le nuove auto quasi quasi quasi purificano l’aria è parte della campagna comunicativa che conduce, anche per conto delle istituzioni, a favore del Passante di Bologna. Ma non è un caso isolato: una schiera di ideologi di un modello di città integralmente privatizzata va ripetendo la stessa presunta profezia. Il milanese Giacomo Biraghi, già uomo dei social di Expo 2015, scrive: “Nonostante un decennio di lotta allo sviluppo della mobilità individuale e di investimenti sulla mobilità collettiva, le auto resteranno protagoniste delle nostre città. Saranno sempre meno a combustione e sempre più a trazione elettrica, con versioni innovative che si guidano da sole […]. Dovremmo cominciare a ripensare all’equilibrio di attenzione, spesa corrente e investimenti tra trasporto pubblico e nuovi sistemi di mobilità personale”. Il contenuto politico è chiaro: il ritorno delle auto ovunque e il disinvestimento nel trasporto pubblico. A Bologna in tanti pensano esattamente lo stesso, ma la comunicazione risulta distorta dal mito autocompiaciuto del buongoverno emiliano. Così si arriva a sostenere che allargare autostrada e tangenziale è l’atto inaugurale di una stagione di riscatto… per la mobilità ferroviaria!
Lo scarico calibrato e un odore che non inquina
Il racconto del Passante di Bologna si arricchisce così di un terzo livello di privatizzazione, dopo quelli che abbiamo già visto nelle puntate precedenti. Il primo è nel rapporto ombelicale con Autostrade, che condiziona tutte le scelte sulla mobilità; il secondo consiste nella privatizzazione ed esternalizzazione del rapporto tra cittadini e amministratori; quello definitivo, nella privatizzazione della politica ambientale, ridotta a semplice questione di consumi individuali. Stabilita questa equazione mistificante, si possono tranquillamente condurre politiche che generano traffico (e cementificazione) senza ritenersi responsabili delle conseguenze. Si promette la fluidificazione del traffico grazie al Passante di Bologna, e nello stesso tempo si genera traffico con Fico, parco tematico fintissimo ma vero centro commerciale della smisurata galassia Coop. Fico ambisce a milioni di visitatori; gran parte di loro sono attesi in automobile e dunque andranno a intasare nuovamente l’infrastruttura – ma questa contraddizione svanisce nella bolla di irrealtà in cui è immersa Bologna, e si perde nel gioco di rifrazioni della dialettica emiliana. Il giorno dopo la sconfitta al referendum costituzionale viene presentato un “ordine del giorno” in consiglio comunale. Il documento si limita a chiedere un maggiore coinvolgimento dei consiglieri nelle decisioni che riguardano il Passante. La prima firmataria è un’alleata esterna, Amelia Frascaroli, ma il testo è approvato grazie ai voti favorevoli (e alle astensioni) nelle file del Partito democratico. Il sindaco Merola la prende molto male, l’assessora Priolo reagisce in modo scomposto. L’accusa che rivolge a Frascaroli e, implicitamente, ai consiglieri Pd che ne hanno sostenuto la mozione, è quella di non essere stati presenti “al percorso di condivisione con i cittadini, quando c’erano da prendere i pomodori in faccia”, e di presentarsi solo “alla fine (a pomodori scansati, ad assemblee pubbliche durate fino all’una di notte, a più di mille cittadini ascoltati)”. Noi in quelle assemblee c’eravamo e non abbiamo visto volare pomodori, nemmeno quelli Gentry della galleria Cavour. A quanto pare, la scarsa consuetudine con il conflitto porta a scambiare per ortaggi le fin troppo disciplinate critiche di un pugno di bolognesi, peraltro vigilati da uno stuolo di esperti e difficilitatori. Ma come abbiamo visto, la dialettica del Pd è autoreferenziale, al punto da inventarsi agguerritissime opposizioni, nei confronti delle quali ergersi a eroici e coraggiosi paladini.
Noi, per non assecondare quest’epica farlocca, i pomodori ce li siamo mangiati e abbiamo preferito scrivere quest’inchiesta in tre puntate. Per mettere un freno al verde fasullo, alla partecipazione bugiarda e alle immagini finte della nostra città.
Nel corso dell’inchiesta siamo stati accompagnati da versi di canzoni, utilizzati come titoletti dei diversi paragrafi.
Quelli della prima puntata sono questi:
Guarda la fotografia (La fotografia, di Enzo Jannacci, 1991)
Col trattore in tangenziale(Andiamo a comandare di Fabio Rovazzi, 2016)
I lupi e gli agnelli (Lupi e agnelli, di Fausto Amodei, 1965)
Chilometri da odiare (Autostrada, di P. Cassella e D. Baldan Bembo, 1981)
E si aggrappa al passante più vicino (She’s lost control dei Joy Division, 1979)
Scopri sempre che c’è un’alternativa (Un’alternativa di Irene Grandi, 2015)
Stasera pago io (di Domenico Modugno, 1962)
Luglio, agosto, settembre (nero) (degli Area, 1973)
La playlist della seconda puntata è questa:
Per vedere di nascosto l’effetto che fa (Vengo anch’io. No, tu no di Jannacci, Fo e Fiorentini, 1968)
Libertà è partecipazione (La libertà di Giorgio Gaber, 1972)
(Non) sarà un’avventura (Un’avventura di Battisti e Mogol, 1969)
Anagramma (quasi) perfetto di facilità (Ballando con una sconosciuta, di Francesco Guccini, 1990)
Viaggi e miraggi (di Francesco De Gregori, 1992)
L’ultima occasione (di Del Monaco, Fontana e Meccia. Incisa da Mina, 1965)
La colonna sonora di quest’ultima parte è:
Abbandonàti (e perciò sopravvissuti) (Il mio canto libero, di Battisti e Mogol, 1972)
Nubi di ieri sul nostro domani odierno (di Elio e le Storie Tese, 1989)
Ci ho pensato su, non consumo più (Cicciottella di Lauzi, Caruso e Baudo. Incisa da Loretta Goggi, 1979)
Vestita di verde (Verde, dei Diaframma, 1990)
Ci vuole l’albero (Ci vuole un fiore di Bacalov, Endrigo e Rodari, 1974)
Racconti che la benzina quasi quasi quasi purifica l’aria (Ma è un canto brasileiro di Battisti e Mogol, 1973)
Lo scarico calibrato e un odore che non inquina (Il motore del 2000 di Dalla e Roversi, 1976)