Di Pietro, da mani pulite a mani libere
di Andrea Carugati
NON DEVE aver fatto piacere al ministro Di Pietro sentirsi definire «un uomo d’onore» da Totò Cuffaro. Eppure ieri è successo anche questo, dopo che la pattuglia di senatori dell’Idv ha votato con il centrodestra per salvare la società per il ponte sullo Stretto di Messina. «Parole strumentali», replicano dall’entourage del ministro. Da dove arrivano secchiate di acqua fredda su ogni possibile tentativo dell’ex eroe di Mani Pulite di destabilizzare il governo Prodi. Di tenersi le mani libere. La notizia di una discussione sulle dimissioni del ministro, mercoledì in una riunione con i parlamentari dell’Idv? «Totalmente infondata». E la proposta di un governo tecnico lanciata ieri a un incontro con la stampa estera? «Il ministro si è limitato a far suo il ragionamento del presidente Napolitano sulla necessità di non tornare alle urne con questa legge», dice il capogruppo alla Camera Massimo Donadi.
Eppure il ministro, dopo le roventi polemiche con Mastella sul caso De Magistris, è in costante agitazione. Ieri è tornato all’attacco del Guardasigilli, dopo il duro lavoro di Prodi per arrivare a una tregua nel Cdm di martedì: «Resterà un alone di sospetto su di lui», ha detto alla stampa estera. La questione è poi rimbalzata alla riunione dei capigruppo dell’Unione a Montecitorio: Fabio Evangelisti, dell’Idv, ha detto che se fosse stato in Di Pietro, «quando Prodi ha espresso solidarietà a Mastella in Cdm me ne sarei andato via». Immediata la reazione del capogruppo dell’Udeur Fabris: «Visto che io sono come Mastella, mi alzo e me ne vado. Con persone così non voglio stare».
Di Pietro ha parlato anche del voto in Vigilanza che ha sfiduciato il presidente della Rai Petruccioli: «Se all’ordine del giorno ci fosse stato il voto sull’intero cda avremmo votato ugualmente contro. L’informazione pubblica non deve essere controllata dai partiti. E l’unico modo per cambiare è votare».
Insomma, alla fine il vertice di ieri pomeriggio a palazzo Chigi con Prodi, Di Pietro e il titolare dei Trasporti Alessandro Bianchi (argomento ufficiale: fondi per le Ferrovie) è diventato anche un occasione di chiarimento tra il Prof. e Tonino. Prodi ha chiesto rassicurazioni al suo ministro e, una volte che le ha ottenute, l’ha invitato a trasmettere questo messaggio anche agli italiani, con comportamenti coerenti. Poco dopo Di Pietro ha dichiarato: «L’Impegno dell’Idv è rafforzare l’opera del governo. C’è stata una caduta di credibilità, vogliamo porvi rimedio». Insomma, ok a Prodi, ma il ministro non ha voluto rinunciare a una stoccata contro «la politica dei veti» e il «furore ideologico» della sinistra radicale.
Poi ha spiegato le ragioni del voto in Senato: «Noi ci siamo espressi per ripristinare il testo originario del decreto, come era uscito dal Cdm. Per questa coerenza Prodi dovrebbe ringraziarci. «Non ho alcuna intenzione di fare il ponte. Ma nella società sono già stati investiti 150 milioni, non dobbiamo fare come i talebani con le statue di Buddah». Cancellare quella società, spiega, sarebbe costato, tra penali e ricorsi, «500 milioni di euro». Già, ma la società che resta in vita? «Ne ho disposto il totale dimagrimento - dice il ministro- portando la struttura dai circa 100 dipendenti che aveva con Berlusconi a non più di 5 o 10 persone». Quanto ai soldi per il ponte, circa un miliardo di euro «è stato finalizzato, con un accordo di poche settimane fa, per le metropolitane di Palermo, Agrigento e Messina e al collegamento tra Agrigento e Caltanissetta».
Franca Rame, che ieri ha votato diversamente dal suo gruppo, non ci sta. Dopo il voto in Senato si è chiamata fuori dall’Idv: «Non ho capito la posizione di Di Pietro. Avrebbero dovuto informarmi e discuterne, invece non l’hanno fatto. Dunque da domani farò quello che devo fare». «Ci auguriamo sia possibile un chiarimento», fanno sapere dall’entourage del ministro. Anche nel popolo della rete ci sono malumori espressi sul blog di Di Pietro: «Vergognati! Si vede che De Gregorio non era con te per caso», scrive un navigatore. E Massimo Baroncini: «Averti votato è la scelta peggiore che abbia mai fatto». «C’è qualcosa dietro, la prego di spiegarci bene», scrive Andrea M. E un altro: «Mastella sarà una vergogna ma tu sei uguale». C’è anche chi incoraggia il ministro: «Non abbassare mai la testa».
Lo strano caso della società che
spende milioni per non fare nulla
di Eduardo Di Blasi
Fu Ballarò, il mese scorso, a farci vedere le facce dei timorosi impiegati dell’infopoint messinese della società Stretto di Messina Spa che, in un locale preso a fitto a 20mila euro mensili, avevano il kafkiano compito di spiegare ad ipotetici avventori le meraviglie del Ponte sullo Stretto di Messina, opera già derubricata dal governo, e quindi tecnicamente morta. Gli impiegati stavano lì, ovviamente sfaccendati, così come tutti i dipendenti, i manager e i consulenti di un progetto che la politica aveva già deciso di abbandonare. In studio da Giovanni Floris quel giorno c’era Oliviero Diliberto, segretario del Pdci. Non potè che esclamare: «Presenteremo un emendamento in finanziaria per sciogliere questa società».
E in verità l’onorevole Diliberto, assieme ai colleghi Licandro, Sgobio, Soffritti e Pignataro, aveva già chiesto al governo il 20 settembre 2006 che quella società fosse cancellata. «Non si capisce come e perché la società Stretto di Messina continui a spendere ed a sprecare denaro», domandavano in un’interrogazione nella quale spiegavano come la predetta società avesse stretto con «Impregilo, il 29 marzo 2006, in piena campagna elettorale, il contratto per l’affidamento della progettazione definitiva ed esecutiva del ponte del valore di 3,9 miliardi di euro». Quello su cui, per intenderci, adesso grava la costosa penale. Seguivano una serie di cifre che davano conto di quanto detto. La fonte era un informato articolo che Luca Domenichini aveva pubblicato sull’Espresso del 31 agosto 2006 dal titolo «Quanti ricchi sotto il Ponte». Cifre impietose: «19 milioni di euro spesi per il costo del personale, 4 milioni per i gettoni di presenza degli amministratori e 17 milioni di euro per le consulenze e inserite nel bilancio sotto la voce: “Prestazioni professionali di terzi”. Nei quattro anni del sogno ingegneristico - calcolava Domenichini - dipendenti e spese sono saliti alle stelle: da 29 impiegati e 7 dirigenti del 2002 si è passati agli 85 del 2005, di cui 13 manager. Per non parlare delle bollette: luce, acqua, gas, telefoni, i buoni pasto, l’assicurazione e la manutenzione degli uffici: triplicate, decollando da 3,5 milioni a 10,7 milioni». Dal 2002 al 2005 la voce «Emolumenti e gettoni di presenza per gli amministratori», erano passati da 526mila a 1,5 milioni».
Altre cifre si possono ricavare dall’interrogazione che i senatori Brutti, Donati, Villone, Adragna , Casson , Mele , Palermo, Pisa e Sodano hanno presentato a Palazzo Madama la scorsa settimana. Uno degli obiettivi dell’interrogazione era l’attuale amministratore delegato della società, quel Pietro Ciucci, da anni manager pubblico, arrivato frattanto al vertice dell’Anas. Altro quadro oscuro: «Il compenso annuale di Ciucci è stato di oltre 700.000 euro annui pagati, a quanto consta, da Fintecna, dietro rimborso da parte della società Stretto di Messina, con una manovra contabile di innalzamento degli emolumenti di Ciucci in Fintecna, costruita al fine da far apparire il compenso di Ciucci, una fittizia partita di giro». La società è passata da 36 dipendenti nel 2002 a 102 nel 2006. I deputati continuano: «Le 17 assunzioni, risultanti nel 2006, sono del tutto ingiustificate, in un’ottica aziendale, provocando sperpero di denaro pubblico, a prescindere da ogni considerazione - anche se di particolare gravità - sull’incidenza di tali assunzioni sul corretto svolgimento delle elezioni nazionali del 2006; risulta inoltre che Ciucci, nominato presidente dell’Anas, ha assunto 16 dipendenti dello Stretto di Messina spa oltre al suo vice presidente Bucci, mentre altri 2 dipendenti dello Stretto di Messina sono stati distaccati presso l’Anas su richiesta di Ciucci; sette di queste nuove assunzioni sono state collocate in posizione apicale con appesantimento della struttura di vertice». Così quando Di Pietro ha proposto di portare dentro l’Anas (di Ciucci) la società del ponte, in più d’uno ha strabuzzato gli occhi.
Ieri il Senato boccia l’ipotesi del Governo di chiudere una volta per tutte lo spreco infinito di democristiana memoria dello Stretto di Messina. Voti determinanti quelli dell’Idv. Per anni la Spa presieduta dal senatore Nino Calarco, proprietario della Gazzetta del Sud, ha ingurgitato soldi in consulenze. Ora alcune questioni si intrecciano. La società ora diretta da Pietro Ciucci ha spese di propaganda e pubblicità che sono passate da 110.000 euro nel 2002 a 1.480.000 euro nel 2004 e inoltre particolarmente rilevante è stato l’aumento della voce «emolumenti e gettoni di presenza amministratori», 526.000 euro nel 2002 con un picco di 1.616.000 euro nel 2006. Prima domanda: ma Di Pietro non è firmatario con Fini di una legge contro i costi della politica? Ancora: il Ministro Di Pietro ha nelle file del suo gruppo un deputato, Pedica Stefano, già «assistente» di Casini, Mastella, Folloni, Lunari; geologo, funzionario in aspettativa della Società di Calcestruzzi Scac, che progetta, costruisce ed installa viadotti autostrada- li. Tal signore è nel ristretto gruppo dei dipietristi che decidono. Seconda domanda: visto che la Società resta in piedi e non viene abolita, proprio con il voto determinante dell’IDV, non è che Di Pietro vuol rimettere in ballo il Ponte? Senza invocare il patente conflitto d’interessi, ma il buon senso politico dov’è finito?
Mi ha stupito l’esecrazione e la condanna esagitata ed esagerata della tintura in rosso con l’anilina delle acque di Fontana di Trevi. A parte che Totò la vendeva, come tutti dovrebbero sapere dalla lettura di Gianburrasca, l’anilina è un colorante innocuo, tanto che nel collegio Stanislao ci si tingeva, per renderla più attraente alla vista, la minestra “di risciacquatura dei piatti” del giovedì destinata agli scolari. Al limite si poteva denunciare il plagio, perché le acque della Fontana erano già state tinte di rosso, per protesta contro la guerra in Vietnam, nel 1966, in occasione della visita del vice presidente americano Humphrey a Roma. Il degrado del luogo non dipende da simpatici gesti neo futuristi, che non arrecano nessun danno al monumento, ma dal volgare uso turistico di tutti i giorni. Per città e monumenti non è l’eccezionale il problema, ma il quotidiano.
Il sito di Luigi Prestinenza Puglisi è raggiungibile qui. Vi raccomando in particolare la lettura delle cartoline di Renato Nicolini, che trovate qui.
Siamo persuasi che nel corso dell’ultimo decennio la distruzione del territorio e del paesaggio e l’attacco all’ambiente sono in Italia dilagati con effetti devastanti. Responsabilità di una legislazione troppo permissiva e delle carenze e debolezze delle strutture di controllo dello Stato; ma soprattutto degli orientamenti espressi dal ceto politico, anche da quello di centro-sinistra, il quale, - in misura crescente anche nelle zone del paese considerate un tempo santuari dell’arte e della cultura, come la Toscana, - ha imboccato, a quanto pare senza sentire ragioni, la strada dell’investimento immobiliare speculativo e delle Grandi opere a ogni costo.
La Rete Toscana dei Comitati per la difesa del territorio, forte dell’adesione ormai di ben centossessantadue Comitati, ritiene che non solo in Toscana ma anche altrove sia necessario estendere, rafforzare, sistematizzare una lotta che parta dal basso, resti solidamente ancorata alle radici e alle economie locali e pure s’estenda secondo il modello della rete e, progressivamente, Comune per Comune, Regione per Regione, fino ad abbracciare l’intero territorio nazionale.
Sommando l’una all’altra le emergenze territoriali, di cui esiste ormai un’ampia documentazione, - migliaia di casi, che riguardano le grandi città e le campagne, le coste e il territorio collinare, i beni culturali e quelli paesistici, il problema dei rifiuti e quello dell’energia, - viene fuori, infatti, il quadro di una vera e propria emergenza nazionale, forse in questo momento della vera emergenza nazionale.
Non si tratta, del resto, di un impegno solo difensivo. E’ nostra convinzione, infatti, che territorio, ambiente e paesaggio possano essere alla base di un diverso modello di sviluppo, produttore di una ricchezza durevole, e in grado di consegnare alle generazioni future una migliore qualità e una maggiore quantità di risorse.
Salvare il territorio italiano e il suo patrimonio storico, paesaggistico e culturale, difendere l’ambiente e il territorio, che è un bene comune, da speculazioni e interessi privati e dall’intreccio di affari, politica e istituzioni, che caratterizza pesantemente questa fase della vita pubblica italiana, è un compito gigantesco, che va affrontato subito, perché non sia troppo tardi...
Coloro che sottoscrivono questa dichiarazione fanno appello a quei cittadini, che ovunque si organizzano in Italia localmente nelle forme dei Comitati spontanei e volontari e delle Associazioni, perché uniscano le loro forze e le organizzino nelle Reti dei Comitati locali e regionali, che a loro volta si uniscano e si organizzino in una Rete delle Reti, capace d’essere interlocutore autorevole dei poteri locali e centrali in tutti i punti della carta geografica italiana.
Solo ripartendo dal basso, solo difendendo il territorio in tutti i suoi punti, solo unificando tutte le forze disponibili, sociali e intellettuali, si può pensare di affrontare e vincere questa battaglia di cittadinanza e di democrazia.
Primi firmatari:Alberto Asor Rosa, Mario Torelli, Alvise Serego Alighieri, Vezio De Lucia, Carlo Ripa di Meana, Paolo Baldeschi, Vieri Quilici, Alberto Pizzati, Bernardo Rossi Doria, Gaia Pallottino, Paolo Berdini, Benedetta Origo, Valentino Podestà, Nino Criscenti, Ornella De Zordo, Giorgio Pizziolo, Cosimo Marco Mazzoni, Francesco Vallerani, Gianfranco Di Pietro, Claudio Greppi, Cinzia Mammolotti , Andrea Zanzotto, Mario Rigoni Stern, Bruno Toscano, Gianluigi Colalucci, Bruno Zanardi, Daniela Bartoletti, Pino Guzzonato, Edoardo Salzano.
Inviare le sottoscrizioni a: toscanacomitati@libero.it
La Repubblica, 21 ottobre 2007
Zone verdi in cambio del cemento Regione e governo: sì alla legge
di Davide Carlucci
Prima di costruire, garantire un' area verde equivalente a quella che diventa edificabile. è la "compensazione ecologica preventiva" che Legambiente e alcuni studiosi del Politecnico, tra i quali Paolo Pileri e Arturo Lanzani, lanceranno a Milano, il 7 novembre, come legge d' iniziativa popolare. Per scoraggiare la moltiplicazione dei cantieri in un' area, come l' hinterland milanese, dove si sta per raggiungere - e in molti casi si è già superata - la soglia tollerabile di consumo di suolo, con punte di urbanizzazione superiori al 70 per cento del territorio. L' idea raccoglie plausi già in entrambi gli schieramenti. Piace ad Alfonso Pecoraro Scanio: «Si può rilanciare da Milano un' azione che sconfigga le lobby del cemento presenti anche nel governo». Il ministro dell' Ambiente lancia anche un appello ai parlamentari lombardi: «Costruiamo un fronte bipartisan per chiedere più risorse per i parchi urbani e nelle cinture». L' occasione è la Finanziaria, dove «abbiamo introdotto una norma che stanzia, a questo proposito, 150 milioni di euro». L' altra strada è la legge sulle compensazioni, che convince anche Davide Boni, assessore regionale al territorio, eletto dalla Lega: «La proposta potrebbe essere integrata nel nostro progetto di legge di riforma - spiega - non ho alcuna preclusione, sebbene arrivi da ambienti lontani dalla mia coalizione». Per Damiano Di Simine, di Legambiente, la legge dovrebbe «rendere meno conveniente edificare ex novo» e ha un obiettivo: «La crescita zero entro il 2050». A scrivere il testo della legge è Pileri, docente di Ingegneria del territorio al Politecnico e autore di un libro intitolato proprio "Compensazione ecologica preventiva". «Il meccanismo è molto semplice e in Germania funziona già dal 2001: chi costruisce una villetta a Desio, per esempio, deve garantire, prima, interventi come la creazione di un bosco in Brianza o il ripristino della vegetazione lungo il Lambro. è come se per ogni costruzione si adottasse una nuova area ecologica: un principio molto più avanzato delle perequazioni e delle mitigazioni ambientali già previste dalle norme attuali». Nell' ultimo quindicennio, ha calcolato Pileri con altri docenti del Politecnico, 30 grandi progetti - dal Maciachini center alla Humanitas di Rozzano, dal Santa Giulia all' Auchan di Cinisello Balsamo - hanno trasformato 11,248 milioni di metri quadrati di territorio milanese. «Se la legge fosse già in vigore - spiega Pileri - Milano sarebbe piena di veri parchi pubblici come Amsterdam o Berlino». Un modo per rispondere all' allarme lanciato dall' Agenzia europea dell' ambiente, che attribuisce a Milano un record negativo - «ha consumato, negli ultimi 40 anni, il 37% dell' area agricola: è il dato più elevato tra le 25 città europee prese in considerazione» - e include la Lombardia e il nord in generale tra le «aree in cui l' impatto dell' espansione urbana incontrollata è maggiormente visibile». Eppure resiste, nella capitale economica d' Italia, una minoranza che pensa ancora alla terra come a un bene da preservare: oggi a Cascina Battivacco, nel parco Sud, si sono dati appuntamento gli attivisti del comitato Barona - che contesta progetti come il piano Palatucci, il futuro centro direzione in via del Mare, «una minaccia per l' integrità del parco» - per una festa: «Ci saranno i prodotti tipici realizzati dagli agricoltori milanesi», annuncia Maria Teresa Lardera. «Non è affatto un' utopia pensare che anche nel cuore dell' area metropolitana si possano tutelare le cascine e le tradizioni agricole lombarde - dice Boni - ma il problema è che ogni comune utilizza gli oneri di urbanizzazione per pareggiare i propri bilanci. Noi non possiamo introdurre nuovi controlli ma possiamo rendere vincolante sempre il parere della Regione facendo in modo che si tenga conto delle vocazioni e degli equilibri delle aree. E non solo delle esigenze dei singoli municipi».
La Repubblica ed. Milano, 21 ottobre 2007
È vicino il punto di non ritorno
di Pietro Mezzi (assessore provinciale al territorio)
Nei giorni scorsi, dopo un lavoro durato poco più di un anno e mezzo, è stato presentato in giunta il Piano territoriale di coordinamento provinciale (Ptcp). Uno strumento che dovrebbe aiutare a governare meglio i processi di trasformazione del territorio nell’area metropolitana milanese e a coordinare, per grandi temi, le pianificazioni dei 189 Comuni della Provincia, Milano compresa. Un anno e mezzo di lavoro fatto di incontri con i Comuni, i Parchi, le altre Province, le autorità ambientali, ma anche con gli operatori economici e i rappresentanti delle associazioni e dei comitati di cittadini.
È un Piano che cerca di mettere ordine e di semplificare le procedure, ma che si pone anche programmi ambiziosi: tra questi, creare la rete ecologica provinciale, in particolare nel Nord Milano; indicare i punti di forza dello sviluppo urbanistico dei Comuni; individuare le aree destinate all’attività agricola.
Un tema, quest’ultimo, apparentemente lontano dall’attività pianificatoria territoriale, ma in realtà strettamente attinente allo sviluppo urbanistico comunale: con questa previsione i Piani di governo del territorio dei Comuni saranno inevitabilmente chiamati a rapportarsi. È un aspetto delicato, che chiama in causa le prerogative di pianificazione dei Comuni e della Provincia e al quale il lavoro di questi mesi ha posto grande attenzione, con uno sforzo di concertazione.
Vale la pena anche ricordare alcuni dati importanti, riguardanti il consumo di suolo: in provincia di Milano il valore medio della superficie attualmente urbanizzata è pari al 34 per cento del totale del suolo. Che però diventa 42,7 per cento se si considerano le previsioni urbanistiche già approvate dai piani comunali. E così, considerando Milano e i Comuni di prima corona, il valore arriva al 70 per cento, nella Brianza Centrale al 57, sull’area del Sempione al 60, mentre nel Sud Milano, grazie ai limiti imposti dal Parco Sud, il valore cala drasticamente al 19 per cento.
Il Piano presentato in giunta provinciale si pone l’obiettivo di non superare la soglia del 45 per cento. Importanti studi scientifici (Howard Odum, Usa) indicano nel dato massimo del 50 per cento la soglia oltre la quale un territorio non riesce più a rigenerarsi. Siamo molto vicini al punto di non ritorno, servono quindi attenzione e politiche urbanistiche coerenti.
Si pone così il problema di realizzare una concreta sostenibilità. Gli amministratori, i politici, gli ambientalisti, gli studiosi sapranno raccogliere questa sfida o si continuerà a pensare in termini di sviluppo infinito? E ad affidare al consumo del suolo l’unica risposta alla crisi strutturale della finanza locale? Il nuovo Piano territoriale di coordinamento provinciale si pone questo obiettivo e, con gli inevitabili e faticosi compromessi, propone una crescita giudiziosa. La più sostenibile in questa situazione.
La Repubblica ed. Milano, 21 ottobre 2007
Più capannoni lungo le nuove autostrade (redazionale)
Case, alberghi, capannoni, autogrill ai bordi delle nuove infrastrutture viabilistiche: e cioè le superstrade, autostrade, tangenziali che saranno costruite dai privati in project financing. Il succo del progetto di legge, che è stato approvato dalla giunta regionale e ora va in commissione Territorio, è stato spiegato dall’assessore alle Infrastrutture e alla Mobilità, Raffaele Cattaneo. Con il project financing i privati non riescono più a ripagarsi con i soli pedaggi delle spese sostenute per costruire l’opera. Di qui l’idea di concedere loro la possibilità di utilizzare aree adiacenti alla sede stradale per costruire dell’altro. Appunto alberghi, case, edifici con destinazione commerciale. Critico il verde Carlo Monguzzi: «In questo modo le autostrade non serviranno a smaltire il traffico ma ad aumentarlo».
La Repubblica ed. Milano, 22 ottobre 2007
Penati: "Comuni liberi di costruire"
di Davide Carlucci
È polemica sulla proposta di arginare l’espansione dell’hinterland a danno delle aree verdi. Per il presidente della Provincia Filippo Penati, «i Comuni sono liberi di decidere sul proprio sviluppo». E sul Cerba «andiamo avanti senza esitazioni». Plaude l’assessore comunale Carlo Masseroli di Forza Italia, più prudente la Lega.
Limitare la crescita della grande Milano, imporre un tetto all’espansione urbana nell’hinterland? Filippo Penati, presidente della Provincia, invita alla cautela: «Ogni comune è libero di programmare il suo sviluppo con i piani di governo del territorio. E il nostro piano di coordinamento territoriale provinciale non può darsi il compito di programmare meglio lo sviluppo delle singole realtà. È un tema complesso e cruciale, la pianificazione sovracomunale è una materia delicata da affrontare rispettando il corretto ruolo della sussidiarietà». Un freno alla volontà dell’assessore provinciale al territorio, Pietro Mezzi, dei Verdi, di arginare l’espansione dei comuni controllando il consumo di suolo, giunto ormai nel Milanese al livello di guardia. Penati tira dritto anche sul Cerba, il centro europeo di ricerca biomedica avanzata, 620mila metri quadrati nel parco Sud, voluto dall’oncologo Umberto Veronesi ma osteggiato dagli ambientalisti: «Io sono assolutamente favorevole e realizzeremo il piano stralcio entro la fine di novembre».
Ed ecco che il presidente della Provincia torna a incontrare favori nello schieramento opposto. Carlo Masseroli, assessore al territorio del comune di Milano per Forza Italia, concede a lui e a Bruna Brembilla, presidente del parco Sud, di aver «sempre cercato un percorso per arrivare fino in fondo nella soluzione del caso Cerba». Ma su questo, come sugli altri temi dello sviluppo urbano, «deve fare i conti con la sua zavorra, la sinistra ideologica e stantìa». Ideologico è anche «il tema della città metropolitana» e quanto al parco Sud, «oggi è degrado, è pieno di nomadi e abusivi, è un disastro: Penati l’ha capito e spero che vinca. Ma vedo che è in difficoltà». In modo speculare l’assessore regionale Davide Boni si ritrova, in questa polemica, iscritto d’ufficio nel campo ambientalista: «Come Regione andiamo avanti. Non vogliamo entrare nella pianificazione dei singoli comuni: però, pur garantendo autonomia, possiamo correggere e consigliare, come abbiamo fatto a Milano per migliorare il progetto Citylife. Se si lascia che ogni comune faccia di testa sua, domani tutto è incontrollabile. E l’area di Milano richiede uno sforzo diverso». Musica per le orecchie del verde Carlo Monguzzi che però avverte: «Boni predica bene e razzola male: la sua legge delega tutto ai comuni. Quanto a Penati, sappia che la pianificazione territoriale è la nostra linea del Piave. Se mandiamo all’aria anche quella, i comuni restano soli davanti agli appetiti dei grandi immobiliaristi». Non resta che puntare alla compensazione: chi costruisce ripaghi il consumo di suolo con la creazione di verde, come propone Legambiente. «Boni la appoggia - dice Monguzzi - e lui, malgrado tutto, è uno che se dice una cosa la mantiene. Speriamo sia così perché a Milano è quella l’unica via d’uscita».
Il Corriere della Sera, 22 ottobre 2007, cronaca locale
Il sogno verde dell'Expo Ecco la Milano del 2015
di Maurizio Giannattasio
MILANO — Come una finanziaria: 14 miliardi e 100 milioni tra investimenti diretti e indiretti, 3 miliardi e 700 milioni di produzione attivata. Senza tenere conto dell'indotto. L'Expo si può misurare anche così. Come una valanga di ricchezza e di lavoro — 70mila nuovi posti solo nei cinque anni precedenti alla manifestazione — che tracima su un intero territorio. Ma la candidatura di Milano per l'Expo 2015 con «Nutrire il Pianeta. Energia per la vita» è qualcosa di più. Lo si intravede nelle 1.200 pagine del dossier che la città ha consegnato nelle mani del Bie, il Bureau International des Expositions,
l'organismo che raccoglie 108 Paesi e che a marzo dovrà decidere chi vincerà la sfida tra Milano e Smirne. Lo si percepisce nella città tirata a lustro e impavesata per l'arrivo oggi dei sei ispettori del Bie, che per tre giorni metteranno sotto esame Milano. Lo si capisce dalle facce stravolte ma felici dei funzionari delle Relazioni internazionali del Comune che in meno di un anno hanno accompagnato il sindaco Letizia Moratti in 57 missioni all'estero, incontrando 18 capi di Stato, 8 capi di governo, 90 ministri, 5 governatori, 12 viceministri, 10 sottosegretari, 31 sindaci, 11 commissari europei e percorrendo la bellezza di 451mila chilometri: 11 volte il giro del mondo. Dall'impegno del Governo, che come scrive il presidente del Consiglio, Romano Prodi, al Bie, sostiene la candidatura di Milano «with the utmost determination », con la massima determinazione.
Milano, finalmente, si è data un senso. Non un sogno, ma un progetto. Che ha il pregio, vada come vada, di accomunare quasi tutti. Dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano — «Auspico che la candidatura dell'Italia e di Milano venga accolta» — al premier Prodi, al capo dell'opposizione Berlusconi. Maggioranza e opposizione insieme. A livello nazionale e a livello locale. Comune e Regione Lombardia retti dalla Cdl, e la Provincia del democratico Filippo Penati. E trova una sponda anche in Walter Veltroni, sindaco di Roma e neosegretario del Pd. Come dire: il sostegno all'Expo milanese vale per questa legislatura e la prossima. Chiunque vinca le prossime elezioni. Uno dei prerequisiti essenziali richiesti dal Bie.
Aichi 2005, Shanghai 2010. Milano ha scelto la strada di Shanghai. La città è pronta a cambiare volto. «Lasceremo in eredità alla città almeno il 90 per cento delle opere», continua a ripetere la Moratti. Ci sono i singoli elementi. La «Torre», alta minimo 200 metri, nuovo simbolo di Milano, la Via d'acqua e la Via di terra, due itinerari di 20 chilometri che immersi nel verde collegheranno Milano alla nuova area Expo, accanto alla Fiera di Rho-Pero, mettendo in connessione tutta la cintura dei parchi cittadini. Dei «raggi verdi» partiranno dal centro della città per ricongiungersi alla corona di verde. C'è il sito vero e proprio, 110 ettari, la metà a verde, dove sorgeranno i padiglioni, il grande ponte che collegherà la Fiera all'Expo, la Torre, il Villaggio Expo, piazza Italia. Tutto il quartiere espositivo sarà una «low emission zone», ossia avrà il minor impatto possibile sull'ambiente e sulla domanda di energia. La zona sarà off limits alle auto. I visitatori che vogliono raggiungere il sito in auto si dovranno fermare nei parcheggi di corrispondenza e poi verranno trasportati con navette ecologiche. All'interno saranno permessi solo veicoli elettrici, navette a idrogeno o biciclette. Anche il futuro della cittadella Expo sarà ambientale. Un enorme quartiere ecologico. Niente auto, niente petrolio o gasolio. Raffreddamento e riscaldamento saranno garantiti sfruttando il fotovoltaico, l'energia solare, e altri strumenti puliti. Un modello da esportare nel resto d'Europa. Proprio per questo motivo Legambiente è diventato partner dell'Expo milanese. C'è poi la Città del Gusto e della Salute ai Mercati generali e la creazione della Borsa agro-alimentare telematica.
Ma l'Expo è più dei singoli elementi. È un catalizzatore e un acceleratore di progetti urbanistici e infrastrutturali. Le due nuove linee della metropolitana, il prolungamento di quelle esistenti, i grandi collegamenti stradali che la Lombardia sta chiedendo da anni: la Brebemi, la Pedemontana, le nuove tangenziali esterne di Milano. Ma anche il collegamento ferroviario diretto tra Malpensa e la nuova stazione di Pero-Rho. Tutte da realizzare integralmente entro il 2015. O i grandi progetti urbanistici che dovrebbero trasformare il volto della città: da Garibaldi-Repubblica, ferita nel centro della città, lasciata marcire per decenni, ai tre grattacieli di Liebeskind, Isozaki e Hadid di Citylife nella vecchia Fiera. Ai progetti da venire sulla Bovisa, cittadella tecnologica e della comunicazione. «È tutto l'asse nord-ovest di Milano che cambierà volto», spiega l'assessore all'Urbanistica Carlo Masseroli. Catalizzatore lo sarà anche per la cultura. Nei sei mesi dell'Expo sono previsti 7.000 eventi culturali e scientifici. Quaranta al giorno. Abbastanza per soddisfare i 29 milioni di visitatori che frequenteranno Milano nei 6 mesi dell'Expo. Sempre che arrivi la vittoria. Ma questa volta Milano ci crede.
Nota: sulle pagine di Eddyburg il tema della sostenibilità ambientale metropolitana rispetto all'urbanizzazione (e del relativo modello di sviluppo socioeconomico) che sta al centro dell'attuale, contraddittorio dibattito milanese, è stato qualche giorno fa introdotto dall'articolo che riferiva della ricerca coordinata da Cristina Treu del Politecnico, sul consumo di suolo nell'area provinciale. Quello dell'Expo 2015 è ovviamente un tema strettamente correlato, anche se la cosa spesso sfugge alla stampa, locale e non. Per chi fosse interessato, di seguito l'avviso di una iniziativa correlata (f.b.)
Il Coordinamento Provinciale Milanese organizza per Mercoledì 24 ottobre p.v. in Via Fiamma n.5, alle 21.00 incontro di presentazione degli indirizzi e dei contenuti del nuovo Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale (PTCP) Sarà presente Pietro Mezzi, il nostro Assessore Provinciale che ha guidato in questi anni l'elaborazione del documento, che rappresenta la parte centrale dell'impegno amministrativo dei Verdi. Non a caso uno dei temi principali del PTCP riguarda il consumo di suolo in provincia di Milano, argomento di grande attualità nel nuovo corso dell'urbanistica territoriale e milanese. E sempre non a caso i contenuti del piano stanno già creando una serie di distinguo e precisazioni da parte anche di componenti della maggioranza.Conoscere il PTCP è la maniera migliore per difenderlo e promuoverlo. Sarà presente anche il gruppo consiliare della provincia. Vi attendiamo numerosi e soprattutto attendiamo i molti consiglieri e amministratori locali. L'iniziativa non è, ovviamente, limitata ai soli iscritti ma è estesa ad amici e simpatizzanti.
per il CoordinamentoMassimo MolteniPresidente dei Verdi della Provincia di Milano.
Titolo originale: The Price of Capitalism – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Nel 1791, quando Pierre Charles L’Enfant ideò la capitale nazionale, non poteva sapere che un giorno ci sarebbero stati i grattacieli a minacciare la sua creazione. Più di due secoli dopo, però, la sacralità del cuore celebrativo di Washington è assediata. Un progetto di iniziativa privata di un costruttore per erigere due torri appena oltre il fiume Potomac a Rosslyn, Virginia, sta colpendo al cuore un simbolo della democrazia.
Il cattivo, per chi ne cerca uno, è il capitalismo, forza tanto presente nella psiche nazionale quanto la stessa democrazia. La vittima è il National Mall, inestimabile complesso ambientale visitato da milioni di persone. Grazie ai limiti di altezza posti dal District of Columbia - 45 metri – il Mall non viene ancora eclissato da uno sfondo di grattacieli coi marchi delle aziende e le luci scintillanti. Ora quel borgo di edifici di media altezza oltre il fiume, conosciuto soprattutto perché ci passano i pendolari, aspira a diventare una Manhattan sul Potomac. O magari Dubai. Il progetto solleva questioni vecchie come i diritti dello stato: può l’aspirazione di un centro della Virginia ad affermare sé stesso con un simbolico “portale” soverchiare i caratteri della capitale nazionale? Oppure, visto che i confini fra centro e periferia sono resi più sfumati dall’uso quotidiano dello spazio, può un qualificato organismo regionale, come la National Capital Planning Commission, avere potere sufficiente a porre dei limiti?
JBG Companies, l’impresa costruttrice, ha avuto il via libera in maggio dalla Arlington County per realizzare il complesso chiamato Rosslyn Central Place. Con 30 e 31 piani, le due torri non entreranno certo nelle classifiche mondiali. E se Rosslyn si trovasse in qualsiasi altro posto, il progetto di Beyer Blinder Belle potrebbe anche produrre applausi perché sostiene la smart growth. Ma qui la cresta dell’elevazione sarebbe la più alta in tutta la regione della capitale, incombente sugli edifici più vicini di almeno 25 metri.
É da quando Mosca si è confrontata col Palazzo dei Soviet, o Parigi con la Tour Montparnasse, che una capitale non si trova di fronte a un grattacielo così simbolicamente angosciante. Thomas Luebke, segretario della U.S. Commission of Fine Arts, ha suonato l’allarme sulla pagina dei commenti del Washington Post in giugno, avvertendo come i possibili danni all’eredità di L’Enfant meritassero una ulteriore riflessione. La commissione sostiene da lungo tempo che gli edifici più alti di 20 piani sfigurano la veduta panoramica dal Mall sino al punto da rappresentare un “vandalismo urbano”, come ha dichiarato una volta lo scomparso presidente J. Carter Brown. “Siamo preoccupati” ha concordato in agosto Marcel Acosta, direttore facente funzioni della National Capital Planning Commission.
Il problema è, che nessuno dei due organismi ha potere in quella circoscrizione, e il costruttore non si piega. “A dire il vero ritengo che si stia inserendo nella skyline di Washington una cosa di cui manca totalmente” risponde Kathleen L. Webb, responsabile della JBG. “Non c’è niente di male ad alzare gli occhi dal Mall e vedere una bella skyline”.
Unoscontro di volontà sinora pietosamente soffocato dalla Federal Aviation Administration. Rosslyn si trova sulla linea di volo verso il Reagan National Airport, e quindi qualunque edificio più alto di 63 metri sul livello del mare ha bisogno di una autorizzazione particolare. L’ente ha classificato le torri “presumibilmente pericolose” e ha annunciato una analisi a scala regionale prima di emettere un parere, cosa che non aveva ancora fatto mentre andiamo in stampa. Un punto per la burocrazia, anche se non è ancora chiaro chi debba difendere il Mall dalla modernità.
“Il National Mall è un simbolo per tutti, che uno sia dell’Alaska o del Maine” spiega Luebke. “Sin dove bisogna arrivare per proteggerlo?” La risposta da Rosslyn, che L’Enfant aveva conosciuto come la verdeggiante Arlington Ridge, è: non provateci neppure. Gli amministratori dicono che I monumenti sono un’ottima cosa, ma gli abitanti vogliono quartieri fruibili a piedi con caffè Wi-Fi e mercatini di cibi biologici, proprio come quelli di Chicago o Seattle. Gli urbanisti hanno ovunque tradotto questi obiettivi in una conveniente miscela di edifici alti sopra un nodo del trasporto pubblico, e anche Rosslyn vuole il suo posto al sole. E allora, se questo modello urbanistico interferisce col godimento della veduta storica di L’Enfant?
La radice del problema affonda sino al 1846, quando Rosslyn passa dal District of Columbia alla Virginia. Il luogo diventa presto un covo di banditi. Prosperano bordelli e attività legate al petrolio. Negli anni ’60 e ’70 l’ enclave è vittima dei processi di rinnovo urbano. Ai tortuosi vicoli si sostituiscono canyons di anonimi palazzi per uffici collegati da utopici quanto inutili passaggi pedonali sopraelevati e superstrade in abbondanza. La città si guadagna una fermata della metropolitana. Ma la sua risorsa principale rimane quella di essere uno spazio di prima qualità esattamente di fronte al complesso celebrativo di L’Enfant, prato d’ingresso nazionale, che ora i costruttori vogliono arraffare come finitura da condominio: “veduta senza rivali in tutto il mondo”.
Lo spettro di una skyline in stile Dubai incombente sul Lincoln Memorial è certo un’esagerazione. Nondimeno, il ranger del National Park Service Dave Murphy, il cui lavoro è di rilevare gli edifici vicini alle zone verdi protette, è rubato nell’ascoltare la convocazione di un’assemblea pubblica sullo zoning per consentire che Rosslyn “salga a 300 metri”: chiaro segnale che i giorni della deferenza rispetto alla capitale sono finiti. Il Central Place starebbe a 160 metri sopra il livello del mare, mentre il Monumento a Washington è a quota 185. Gli amministratori della contea ammettono poi che ci sono progetti per altre torri attorno ai 160 metri in varie fasi dell’iter. “Il District se vuole può anche odiarci” spiega il direttore per lo sviluppo economico di Arlington, Terry Holzheimer. “Noi crediamo di fare un ottimo lavoro”.
Chi sta dalla parte di L’Enfant e tenta di tenere un coperchio sulla skyline di Rosslyn, è già stato bocciato due volte dal tribunale. Nel 1979 una causa intentata dalla National Capital Planning Commission (NCPC), organismo di nomina governativa di Washington, non è riuscita a fermare gli edifici dalle facciate curve da 31 piani che ora caratterizzano il profilo di Rosslyn. Al tempo la NCPC si sentì rispondere semplicemente da un tribunale della Virginia che non aveva potere nell’altra circoscrizione. Per cambiare queste decisioni, “si deve creare un forte movimento di indignazione pubblica” spiega Luebke. “Bisogna riscrivere le leggi”.
Il Congresso ha dato alla commissione il compito di tutelare “bellezza e tessuto storico” della capitale. Dopo 83 anni, il mandato non si è ancora esteso oltre l’esame dei progetti governativi federali e all’interno del District. L’agenzia può esprimere un parere sugli interventi privati soltanto se hanno impatti “sugli interessi federali”. Dotare la commissione di nuove armi, significherebbe riconoscere la necessità di un coordinamento regionale, cosa che nessuno ha ancora fatto.
“Non si fa alcuna pianificazione regionale” spiega Holzheimer. “Ogni circoscrizione lavora per sé”. In questo vuoto, sono i costruttori privati i veri detentori del potere. La JBG recentemente ha reso noti piani per 93 progetti in 42 località diverse sparse per tutte le circoscrizioni dell’area metropolitana, un portfolio per un valore che si stima di 10 miliardi di dollari. La signora Webb non nasconde il desiderio di liberarsi dei limiti di altezza posti dal District “mentre sono ancora in vita”, il che evoca immagini spettrali del nucleo celebrativo di L’Enfant ridotto a un giardinetto di gloriosa ma assediata testimonianza.
La tutela ha sempre potuto contare sul ruggito di leoni gentili. La first lady Jacqueline Kennedy a suo tempo si è battuta contro un intervento sviluppato in altezza a Lafayette Square, direttamente di fronte alla Casa Biabca. Il Senatore Daniel Patrick Moynihan ha liberato Pennsylvania Avenue. Eleanor Roosevelt ha fatto la sua parte risparmiando un bel po’ di Manhattan da Robert Moses e dal suo Brooklyn-Battery Bridge. L’appello che scrisse sulla sua colonna di giornale nel 1939, si potrebbe applicare al caso di Rosslyn oggi: nella nostra eterna marcia verso il progresso, si chiedeva, “ non c’è spazio per qualche attenzione alla tutela dei pochi spazi di grande bellezza che ci restano …?”
Il progetto di ponte di Moses fu depennato tre mesi più tardi. Il Presidente Franklin Roosevelt coinvolse il Ministero della Guerra, il quale dichiaro il ponte proposto vulnerabile agli attacchi e pericoloso per la Marina, stop. Non è stato chiesto ai generali di decidere su Rosslyn, e non ci sono segnali che alla Casa Bianca di Bush importi qualcosa. Ma forse val la pena notare come sulle carte della Federal Aviation Administration ci siano vistose linee rosse a indicare la vicinanza delle proposte torri al Pentagono, che dista circa un chilometro e mezzo.
L’Enfant non doveva pensare a queste cose progettando la capitale, ma George Washington avrebbe capito. Non c’è asso pigliatutto come la sicurezza nazionale. “Ovviamente se si tratta di un pericolo per lo spazio aereo nazionale” afferma Tammy L. Jones della FAA, “Dovremo decidere noi”.
Nota: su queste pagine, a proposito del progetto del National Mall (la cui realizzazione, come specificato in occhiello, non si deve a L’Enfant) una efficacissima descrizione contemporanea del giovane Patrick Abercrombie (f.b.)
Ci sarà sempre meno verde nell’hinterland milanese. Quanto saranno sviluppati tutti i piani di governo del territorio nei comuni, l’area urbanizzata schizzerà dal 34 al 42,7 per cento. La soglia di sostenibilità del 45 per cento. «Oltre quel dato i terreni non garantiscono più la rigenerazione ambientale» spiega Maria Cristina Treu, docente del Politecnico che ha curato lo studio insieme alla Provincia. Di questo passo, la città infinita divorerà i campi e l’ambiente. Ma ci sono comuni che si ribellano. E nascono comitati che dicono no.
Paolo vive da cinque anni ad Abbiategrasso. «Ho scelto di vivere qui perché Milano era diventata impossibile. Ma ora tutt’intorno a me stanno sorgendo nuovi cantieri. E il traffico si è quintuplicato. La pace che cercavo non c’è più». L’area del Milanese ormai è satura. Il punto è che non è affatto finita qui: «In provincia rischiamo ormai di superare la soglia tollerabile di consumo di suolo», spiega Maria Cristina Treu, docente del Politecnico. Dallo studio che ha curato insieme alla Provincia si ricava che quando saranno sviluppati tutti i piani di governo del territorio vigenti, nei comuni dell’hinterland la percentuale dell’area urbanizzata schizzerà dal 34 al 42,7 per cento. La soglia di sostenibilità definita dal piano territoriale di coordinamento provinciale è del 45 per cento, in linea con i valori definiti da tutta la letteratura scientifica sul tema. «Oltre quel dato, i terreni non garantiscono più la rigenerazione ambientale».
Ma in molte aree il livello minimo è stato già abbondantemente superato. Non solo nella prima cintura urbana di Milano, dove si è già al 70%: nella Brianza delle Groane - l’area tra Varedo e Lentate - è del 66%, l’area del Sempione - tra Rescaldina e Rho - è intorno al 60 per cento. E ci sono comuni come Cusano Milanino e Sesto San Giovanni dove ci si avvicina pericolosamente al 100 per cento. Ad abbassare la media provinciale è la zona sud-sudovest: il comune meno urbanizzato è Morimondo, seguito da Besate e Nosate e al di sotto del 20 per cento si colloca, per ora, anche Abbiategrasso. Ma è proprio in queste aree che sta esplodendo il conflitto tra urbanizzazione e bisogno di ambiente: chi è fuggito dalla giungla metropolitana ora si ritrova di nuovo assediato dal cemento e non ne può più. A contenere l’espansione della città resta il Parco agricolo sud - urbanizzazione pari al 19% - ma proprio lì si concentrano le mire dei grandi gruppi di costruttori. D’altronde le stime del Cresme - il centro di ricerche economiche sociali di mercato per l’edilizia e il territorio - valutano che entro il 2016 ci sarà una domanda di «Costruire significa, per i comuni, incamerare oneri di urbanizzazione», spiega Damiano Di Simine, di Legambiente, che sta organizzando, per il 7 novembre, un convegno sul consumo di suolo in provincia. Una sorta di "business del suolo" che Pietro Mezzi, assessore provinciale al territorio in quota Verdi, vuole tentare di governare: «La crisi della finanza locale, stretta tra patto di stabilità e riduzione dei trasferimenti, sta portando molti piccoli paesi dell’hinterland a utilizzare gli oneri di urbanizzazione, sempre meno vincolati alla creazione di aree verdi, per alimentare i servizi comunali». Che questo poi determini l’anarchia, non lo dice un ambientalista ma Mario Breglia, presidente dell’istituto di ricerche "Scenari immobiliari": «Non esiste una programmazione integrata del territorio, ogni comune va per conto suo. Il risultato è che ormai i milanesi non si spostano più a Monza, dove per costruire si pagano 5-6mila euro al metro quadro, o a Rho, dove i valori sono tra i 4 e i 5mila, ma direttamente fuori regione, nel Piacentino o nel Novarese, dove il costo della casa scende a 2000 euro a metro quadrato».
Il peccato originale di Milano, spiega Treu, è la sua dimensione: troppo piccola. Questo fa sì che sia al primo posto, in Italia, per indice di occupazione del suolo. E così il conflitto si sposta verso la prima fascia e il cemento punta a erodere parchi e giardini. «Ormai qui siamo arrivati alla saturazione - attacca Biagio Latino, del comitato di Segrate - non possiamo più andare avanti».
Per Claudio De Albertis, presidente dell’associazione costruttori di Milano, «una certa intelligente edificazione si potrebbe anche pensare in certe aree del parco sud, al di qua della tangenziale. Bisogna capire se il parco ha questa volontà». Milano ha perso il 16 per cento della popolazione negli ultimi vent’anni, spiega, anche se negli ultimi due c’è un’inversione di tendenza: «L’mmigrazione certo, ma c’è anche qualche segnale di ritorno da parte dei milanesi che erano andati a vivere nella prima o seconda fascia. Secondo noi l’unica soluzione è demolire e ricostruire quartieri periferici in abbandono, ricomporre i margini della città». In alternativa, gli imprenditori cercano aree tra Rozzano e Milano, ad Appiano Gentile, a Settimo Milanese. Oppure ambiscono ad aree come il parco del Grugnotorto, polmone verde tra Cinisello Balsamo, Muggiò e Paderno Dugnano, avviando interminabili contenziosi amministrativi.
Ma sono gli stessi comuni a sentirsi stretti nei vincoli dei parchi. «Su venti chilometri quadrati del nostro territorio, 18 sono in area parco - protesta Franco Toscano, vicesindaco di Rosate - questo significa che non abbiamo più possibilità di espansione. Noi non vogliamo ridiscutere il parco, vogliamo però verificare la possibilità di individuare una crescita minima che consenta alle nuove coppie di non andare fuori città e alle aziende del posto di evitare la delocalizzazione».
Dai campi di Segrate al parco Sud la rivolta di chi non vuole le ruspe
Biagio Latino calcola che fino a dieci anni fa ci fossero sette agricoltori a Segrate. Ora hanno smesso di lavorare la terra. «Perché i proprietari terrieri hanno lasciato deperire i campi per renderli poi edificabili. Eppure oggi, con l´impennata dei prezzi del granturco, un valore economico ci sarebbe, nell’agricoltura, anche qui». Latino, consigliere comunale dei Verdi, è alla testa del comitato cittadino che si batte contro il nuovo centro commerciale. Ma non si batte tanto per il ritorno all’agricoltura a Segrate quanto per lo stop alla costruzione di nuovi quartieri residenziali in un centro già congestionato. «La prossima battaglia riguarda il centroparco - spiega Latino - ci è stata presentata come un’area verde, in realtà è un nuovo insediamento». Segrate è uno dei centri dell’hinterland dove da anni cova il conflitto ambientale: petizioni, manifestazioni di protesta, ricorsi amministrativi. Tutto va bene per impedire la nuova cementificazione.
A Vaprio d’Adda, ai confini tra la provincia di Milano e quella di Bergamo, è nato un comitato che propone un referendum contro il piano di governo del territorio proposto dall’amministrazione. A Milano, invece, sono in mobilitazione i comitati che cercano di difendere il parco agricolo sud minacciato, dice Roberto Prina, della rete dei comitati "verde, aria, acqua". Proprio oggi ci sarà una festa in una cascina in zona Barona. «In quell’area bisogna resistere alle speculazioni di grossi gruppi edilizi che minacciano l’integrità del parco, in primis Ligresti», spiega Damiano Di Simine, di Legambiente. A Viboldone, frazione di San Giuliano, è agguerritissima l’azione di un comitato capeggiato da Paolo Rausa contro l’abbattimento di un borgo agricolo. «Abbiamo coinvolto anche il ministero dei Beni ambientali - spiega - per noi è una battaglia decisiva». Anche la Provincia ha presentato un ricorso contro il Comune nel quale si richiama il vincolo che riconosce «le caratteristiche di grande valore ambientale» dell’abitato di Viboldone in quanto «il territorio che lo circonda ha mantenuto a tutt’oggi significative caratteristiche dell’iniziale modificazione sul paesaggio operata dagli Umiliati che ebbero qui sede dal 1187 nell’abbazia omonima».
Uno scontro tra esigenze di edificazione e difesa dell’ambiente è in corso anche a Pozzuolo Martesana. Anche lì si è formato il comitato cittadino "Primo marzo" che contesta il piano di governo del territorio: sono previsti duecentomila metri quadri di lottizzazione destinati alla logistica. E anche in quel caso la Provincia ha proposto un suo ricorso contro l’amministrazione comunale. Tra le vertenze ambientali più spinose anche quella di Cernusco sul Naviglio, dove si vuol rendere edificabile un’area tra l’Ikea - che però è in territorio di Carugate - e il Carrefour. Altre battaglie sono in corso a Desio, dove la Regione ha nominato due anni fa un commissario ad acta per uno scontro tra Provincia e Comune, e a Corsico, dove si contesta il raddoppio della linea ferroviaria. Senza parlare delle proteste contro la Brebemi e contro la tangenziale esterna Est che rischia di "urbanizzare" tutti i comuni attraversati.
Forse al lettore frettoloso può essere sfuggita l’osservazione, incolpevolmente riportata dal giornalista: “Per Claudio De Albertis, presidente dell’associazione costruttori di Milano, una certa intelligente edificazione si potrebbe anche pensare in certe aree del parco sud”. Proprio qualche giorno fa in un intervento di non particolare rilievo, un noto architetto milanese lamentava sulle pagine dello stesso quotidiano l’assenza di una politica della greenbelt metropolitana. De Albertis ecco che ne offre una, naturalmente con “intelligente edificazione” magari pure dietro qualche slogan “comunità sostenibili” o simili, chiamando paesaggisti, o qualche firma di prestigio internazionale new urbanism, ecc. Con quanto successo nel dibattito britannico sul medesimo tema, nel medesimo quadro di destra rampante e ex sinistra votata a “riformarsi” comunque e quantunque, i presupposti ci sono tutti, per ripetere quanto sta accadendo oltre Manica. Ovvero si crea un’emergenza (l’Expo potrebbe funzionare benissimo, mescolata di sponda a qualche altra cosa) con relativa grossa campagna di stampa, in fondo basta copiare la serie di articoli che ad esempio il Guardian ha dedicato al tema in questi anni, e il gioco è quasi fatto. Ne consiglio la lettura, di questi articoli: stanno quasi tutti nella cartella Spazi della Dispersione di eddyburg_MALL sia tradotti in italiano che in originale, per chi volesse (f.b.)
ROMA - Nell’Unione nessuno vuole il Ponte di Messina eppure continua ad essere motivo di litigio nella maggioranza. A rievocare il fantasma del progetto accantonato è l’emendamento al decreto collegato alla mette in liquidazione la Società Stretto di Messina spa. Per il ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro la scelta della liquidazione presentata dai Verdi e già approvata in commissione al Senato è una mossa «Da talebani, a quelli non piacevano i Budda e li hanno buttati giù. Quell’emendamento rischia di mandare in fumo 500 milioni di euro».
Il calcolo del ministro somma i 150 milioni già spesi per il progetto preliminare e la realizzazione di tre gare d’appalto e i 300 milioni di penali da pagare alle società aggiudicatrici. «I vincitori avranno brindato a champagne, senza muovere un muratore né una cazzuola di cemento intascano un guadagno pulito del 10% senza pagarci neanche le tasse», ha ironizzato Di Pietro sull’inusuale alleanza creatasi tra costruttori e ambientalisti.
La proposta del ministro invece punta a riutilizzare i fondi destinati al Ponte per opere in Calabria e Sicilia: la SS Jonica, le metropolitane di Palermo, Catania, Messina, l’autostrada agrigentina. L’idea riscuote consensi anche nella sinistra radicale, ma non per la parte che prevede il mantenimento in vita della Stretto spa e un progetto definitivo del ponte al costo di circa 60 milioni. Di Pietro vorrebbe bloccare poi tutto al momento dell’approvazione obbligatoria del Cipe perché una bocciatura a quel punto non comporterebbe penali.
Però seguendo questa via il progetto-ponte non verrebbe interrotto e il governo che si trovasse a decidere tra qualche anno potrebbe dare al Cipe indicazioni diverse. Un rischio che nell’Unione vogliono correre in pochi, visto che il no all’opera era uno dei punti qualificanti del programma di governo. Lo conferma anche la posizione di Alessandro Bianchi, ministro dei Trasporti: «Condivido pienamente l’emendamento - ha dichiarato - accantonato finalmente il progetto dell’inutile ponte sullo Stretto, la società non ha più ragione di essere». Bianchi non vede neanche il rischio di uno spreco di risorse: «Si tratta di timori infondati. Finora gli unici impegni si sono limitati alla progettazione preliminare. Ci siamo fermati in tempo». Anche più duro il capogruppo alla Camera dei Verdi Angelo Bonelli: «Il 10% di penale non esiste perché non c’è il progetto definitivo del ponte sullo Stretto, mancano l’approvazione Cipe e la verifica di ottemperanza. Inoltre sul ponte vi è una procedura d’infrazione da parte dell’Ue. Di Pietro ancora una volta si pone contro il suo governo, esca dall’ambiguità e la smetta di attuare le politiche infrastrutturali della Cdl». Ecco che anche l’accordo sul rifiuto al megaprogetto da 6 miliardi di euro diventa invece l’occasione di accuse reciproche con Di Pietro che critica chi «nella sua maggioranza, per puro furore antagonistico blocca le infrastrutture».
(l.i.)
Milano è la città favorita ad ospitare l’Expo 2015. La decisione sarà a marzo 2008. Il sito scelto è adiacente alla Fiera tra i comuni di Milano, Bollate, Rho e Pero. Sarà un affare enorme, un grande evento commerciale simbolo dell’economia globalizzata, e del prevalere dei mercati sulla politica e la società:
- 4 miliardi di euro d’investimenti (1,4mld di _ pubblici)
- milioni di mq di nuove aree cementificate
- 160.000 visitatori attesi al giorno per 180 giorni
- realizzazione del Tav e di nuove autostrade (Brebemi, Pedemontana, 2 nuove tangenziali a Milano, Broni-Casale e Boffalora-Malpensa)
- terzo teminal a Malpensa
- alberghi, parcheggi, poli logistici di servizio
Una macroregione che va da Torino a Verona, già oggi tra le più inquinate e congestionate al mondo, alterata in maniera irreversibile. Sarà un gran business per le speculazioni sulle aree, la costruzione e la gestione dell’evento; un affare per i soliti pochi noti (Fiera, immobiliari, multinazionali, imprese di costruzioni); un guadagno effimero, precario, magari in nero per chi vi lavorerà. Un territorio sacrificato all’utopia di rilanciare il prestigio di Milano nel mondo con un grande evento, che finirà per essere fine a se stesso, non affrontando i problemi di chi vive, lavora, studia su un territorio così vasto.
Tutto questo senza consultare i territori, nell’unanimismo più totale delle istituzioni e nella disinformazione più completa nei confronti di chi pagherà per sempre le conseguenze di tutto questo.
E il tema proposto per l’evento (Nutrire il Pianeta, energia per la vita) resta un titolo vuoto senza critica al modello agro-alimentare imposto dalla globalizzazione neoliberista, fatto di Ogm, monocolture, sementi ibride, cibi massificati e plastificati; un modello che affama i tre quarti del pianeta, inquina e distrugge la bio-diversità ed arricchisce solo le grandi aziende del settore. Nessun accenno al fallimento delle politiche e delle campagne alimentari degli organismi internazionali.
L’Expo non è ciò che serve ad un territorio già sfruttato, inquinato, cementificato. Non è ciò che chiedono le persone che vivono in questa situazione e che semmai rivendicano città più vivibili a misura dei soggetti più deboli; che immaginano un modello sociale di convivenza costruito sulla relazione e non sullo scambio di merci; che vogliono una città ricca di differenze e non povera nella sua esclusività e uniformità culturale e sociale; che vedono nel territorio un bene comune da difendere; che chiedono cultura, servizi, verde, diritti, un’altra mobilità e non autostrade, alberghi e investimenti per eventi effimeri.
Info e adesioni:
info@noexpo.it ;
noexpo@libero.it; www.noexpo.it
Prime adesioni:
Piero Maestri, Basilio Rizzo, Luca Guerra,Mario Agostinelli, Luciano Muhlbauer, Giorgio Riolo, Augusto Rocchi, Daniele Farina,Vittorio Agnoletto, Paolo Cagna Ninchi, Osvaldo Lamperti, Giorgio Schultze, Emilio Molinari, José Luis Del Roio,Marco Bersani, Maria Carla Baroni, Gigi Sullo,Marco Revelli, Bebo Storti, Dario Lesmo.
TARANTO — «Le aree militari sono preziose per programmare interventi di riqualificazione urbana, soprattutto a Taranto che è una città slabbrata».
Angela Barbanente, l'assessore regionale all'Urbanistica, conosce il capoluogo jonico, ne segue le vicende, è in grado di indicare una delle strade da seguire pur, ovviamente, lasciando la totale autonomia di scelta ai tarantini. E' al corrente del tentativo della città di riconquistare aree della Marina situate in posizione strategica, di ottenere beni militari utili allo sviluppo, di liberarsi della schiavitù di due muraglioni che la soffocano per chilometri. E' una grande opportunità per Taranto rientrare in possesso di beni oggi ancora nella disponibilità della Marina ma non più utili ai fini militari. Molti tra questi sono anche abbandonati da anni e inutilizzati. Sono terreni, edifici, strutture, isole, beni immobili sui quali la città può fare leva per disegnarsi un futuro migliore. Di sdemanializzazione si parla da anni, un protocollo d'intesa fu firmato quindici anni fa, ai tarantini sembrava di poter già pensare a un museo galleggiante alla stazione torpediniere utilizzando l'incrociatore Vittorio Veneto e a un acquario realizzato in quell'area in disuso da quando la flotta s'è trasferita in mar Grande. Tutto è ritornato incerto perché la Marina ritiene quelle aree ancora utili ai suoi scopi.
Assessore, Taranto cerca di recuperare aree militari che ritiene indispensabili per il suo futuro. Il rapporto con la Marina, però non segue un percorso lineare.
«Questo capita in tutte le città che intrattengono rapporti con enti militari e che cercano di acquisire le aree strategiche dismesse o da dismettere. Non solo Taranto, ma anche tante altre città in Italia sono alle prese con questo tipo di problematica. Un dato che sembrava acquisito può non esserlo più in seguito. Molte città sono impegnate in negoziazioni intense con il ministero della Difesa per recuperare aree spesso situate in posizioni tali da risultare molto utili allo sviluppo urbanistico. Taranto non è un caso così singolare ».
Al di là dei siti della Marina, i tarantini vorrebbero liberarsi anche dei muraglioni che circondano per ettari insediamenti militari.
«Comprendo. I muri servono a separare, io sono per la ricomposizione».
Di cosa, urbanisticamente parlando, ha bisogno Taranto?
«Taranto ha bisogno, innanzi tutto, di interventi di riqualificazione urbana perché è una città fatta di tante isole tra loro separate».
Si riferisce ai quartieri che sorgono a chilometri di distanza dal centro della città e tra di loro?
«Sì. La città s'è dispersa, i quartieri sono separati. Per questa ragione le opportunità che si aprono con le aree della marina militare devono essere colte subito e nel migliore dei modi. Quelle aree possono servire anche a ricucire tra loro parti di città oggi sconnesse e nascoste ».
Come si può fare?
«Le aree militari vanno innanzi tutto censite per vedere quali sono realmente disponibili. Poi devono essere impiegate per un'operazione intensa di riqualificazione urbana sulla quale i tarantini sono perfettamente in grado di scegliere per migliorare il volto e la funzionalità della propria città».
Quindi serve una nuova progettazione urbana?
«Ne sono convinta. Secondo me la progettazione urbana può imboccare anche la direzione nella ricucitura tra le varie parti della città. I muraglioni che ci sono a Taranto non rendono permeabili le diverse zone, separano ciò che dovrebbe essere riunito».
La Regione in che modo può far parte di questo discorso?
«Com'è consuetudine, la Regione svolge un'opera di accompagnamento e orientamento sui singoli Comuni. Il rapporto è di grande collaborazione, di continuo affiancamento non solo per sostenere le iniziative comunali orientate alla riqualificazione, ma per collaborare a trovare la strada più idonea all'interesse della città. Con la Regione non c'è più un rapporto gerarchico ma di copianificazione».
«In questo settore, la Regione non dispone, ma condivide le scelte e gli orientamenti delle singole amministrazioni comunali. Queste sono completamente libere, le decisioni appartengono all'autonomia delle città, noi mettiamo il peso dell'amministrazione regionale molto volentieri per sostenere lo sviluppo anche urbanistico delle varie realtà comunali».
Abbiamo segnalato in molte rubriche quali siano stati gli effetti dell’aver affidato al solo mercato il governo delle città. Il caso che raccontiamo questa volta potrà in tal senso sembrare meno scandaloso. Si tratta di un atteggiamento da ancien regime da parte delle elites al potere. La sua gravità risiede nel fatto che segnali cambiamenti profondi nel funzionamento dello Stato: ad alcuni è ormai permesso tutto e diritti che sembravano universali si differenziano in relazione alla capacità economica.
Raccontiamola così, un gruppo di facoltosi amici e sodali vuol festeggiare il compleanno di attività di uno del gruppo. Avrebbero a disposizione luoghi esclusivi e inaccessibili agli sguardi indiscreti. Palazzi e giardini dove festeggiare nella discrezione. Ma a costoro è venuta in mente un’idea esclusiva: festeggiare all’interno del Foro romano, tra le rovine che tanto colpiscono l’immaginario collettivo. L’attenzione si è posata del tempio di Venere e Roma voluto da Adriano su uno spalto che domina il Colosseo. L’imperatore l’aveva voluto decastilo corinzio, e cioè formato da 10 x 9 colonne. Ai creativi della moda viene così in mente di ripristinare un tempio intero, sullo stesso luogo che le ospitava in origine. Una location mozzafiato, altro che la ricostruzione negli studi del Circo massimo per le scene di Ben Hur. E per sottolineare la propria classe e il fatto che non si bada a spese, il gruppo dei simpaticoni ha pensato bene di far ricostruire il tempio da un grande artista, Dante Ferretti, premio Oscar per la scenografia.
Ma lo Stato ha le sue regole e, come noto, alcuni edifici sono tutelati per consentirne la conservazione, per tramandarli alle future generazioni. Una di quelle fissazioni burocratiche, di quegli intollerabili lacci e laccioli inventati dallo stato liberale, devono aver pensato i sodali. Così la Soprintendenza archeologica di Roma dopo il primo scandalizzato rifiuto a concedere quel luogo è venuta a più miti consigli, ci dicono, per l’intervento dei potenti politici di turno. Segno appunto che lo Stato è finalmente diventato più moderno, più sensibile e più attento alle ragioni dell’economia. La presenza di Francesco Rutelli a capo del dicastero sembra dare i primi buoni frutti, l’esperienza dello scempio dell’Ara Pacis ha evidentemente insegnato qualcosa.
Così, come nelle più belle favole, all’allegra brigata è riuscito un colpo da manuale: festeggiare i quarantacinque anni della carriera dello stilista Valentino all’interno di un tempio e il Colosseo davanti agli occhi. La sera del sei luglio 2007, trecentocinquanta esponenti “della prima fila” tra cui spiccavano Carolina di Monaco, Claudia Schiffer, Anne Wintour, direttrice di Vogue america, solo per fare alcuni esempi, e tanti altri, ad iniziare dall’incontenibile delegazione dei politici di turno, potevano godere di un luogo da sempre chiuso al pubblico. Le esigenze del mercato consentono di poter disporre di tutto, di ogni cosa, di ogni luogo. Se chiedete perché sia stato concesso di far svolgere una festa privata in un luogo tutelato, vi spiegheranno infatti che il ritorno d’immagine dei video che invaderanno il mondo porterà colossali fortune al popolo romano.
A cento metri dal luogo del misfatto, il piano terra del Colosseo è chiuso da decenni da vecchi e ossidati tubi innocenti il cui unico merito è quello di consentire il passaggio della blasonata colonia felina. Ma sono vergognosamente brutti. Eppure il Colosseo è meta di interminabili code di visitatori, in media 3 milioni e mezzo all’anno, per un introito di almeno 21 milioni di euro. Una parte di questo tesoretto poteva essere almeno utilizzata per realizzare una chiusura dignitosa, ma forse quei soldi sono serviti a finanziare le imprese. E se il comparto pubblico è stato messo in condizione di non fare nulla, all’iniziativa privata non si deve frapporre alcun limite. I furbetti del tempio di Venere hanno vinto. Del resto, i problemi delle città non esistono più, si limitano soltanto la fastidiosa presenza di lavavetri e accattoni. Tutto il resto va benissimo.
Sull'argomento vedi anche Pecunia non olet e Valentino & monumenti.
Privati, sponsor attivi di cultura
Andrea Casalegno -Il Sole 24 ore, 13 ottobre 2007
«Torino, che sa fare sistema, è un modello da imitare» ha detto ieri Luca Cordero di Montezemolo, presidente di Confindustria e della Fiat, alla giornata di studi sul «Finanziamento privato dei beni culturali» che celebrava vent'anni di attività della Consulta per la valorizzazione dei beni artistici e culturali torinesi, presieduta da Lodovico Passerin d'Entrèves. «L'Italia da dieci anni cresce meno di ogni altro Paese europeo - ha proseguito -, riceve solo il 2% degli investimenti extra Ue, contro il 7% della Francia e il 9% di Gran Bretagna e Spagna, non attrae gli studenti stranieri e persino nel turismo, dopo essere stata la prima al mondo all'inizio degli anni 70, oggi sta scivolando al settimo posto, benché possieda il 50% del patrimonio artistico mondiale. Ma oggi parlerò del bicchiere "mezzo pieno ". Finalmente si torna a discutere di semplificazione burocratica, di "meno tasse, meno spese e più investimenti", di energia nucleare. Anche il patrimonio artistico è un atout per il Paese; ma solo se, invece di ridursi a mera rendita di posizione, diventa un fattore di promozione del territorio, prezioso in particolare per le piccole imprese. Per valorizzarlo però, senza gravare sulla spesa pubblica, è essenziale l'apporto dei privati».
Inventata da sei imprenditori torinesi, tra i quali Passerin d'Entrèves, la Consulta ha realizzato il modello di "sponsor attivo" richiamato ieri, in chiusura dei lavori, da Maurizio Costa, amministratore delegato della Mondadori e presidente della commissione Cultura di Confindustria. «Oggi - ha concluso Costa - siamo impegnati, insieme al ministro per i Beni culturali Francesco Rutelli, nella creazione di un Osservatorio sulla cultura d'impresa e sul patrimonio storico-culturale che analizzerà quantità, qualità e tipologie di tutti gli interventi degli imprenditori».
Invece di sponsorizzare singole iniziative, secondo la vecchia formula del mecenatismo, la Consulta, alla quale partecipano, tra le altre imprese, Fiat e Skf, Ferrero, Lavazza e Martini & Rossi, Pirelli e Telecom, Toro e Vittoria Assicurazioni, IntesaSanpaolo e Crt, oltre all'Unione industriale e alla Camera di commercio di Torino, si richiama alla grande tradizione torinese di Riccardo Gualino, che creava cultura. La Consulta non si limita a finanziare restauri, ma recupera e valorizza, d'intesa con gli enti locali e la Soprintendenza per i beni artistici, i simboli del passato, consolidando il senso d'identità e di appartenenza. E ce n'era bisogno. «Vent'anni fa - ha ricordato Passerin d'Entrèves - visitare il centro con ospiti stranieri era imbarazzante per il degrado». In vent'anni la Consulta ha speso 16 milioni di euro per un milione di ore di lavoro divise in 20 progetti, tra cui il Parlamento subalpino (dal 1861 primo Parlamento italiano), il monumento a Vittorio Emanuele II («Sono particolarmente affezionato a quell'iniziativa - ha detto il sindaco Sergio Chiamparino - perché è legata alla mia prima uscita pubblica come sindaco»), le statue della Venaria (ieri c'è stata anche l'inaugurazione della Reggia), il complesso monumentale, con giardino settecentesco, della Villa della Regina, le statue del Po e della Dora in via Roma, le due chiese di piazza San Carlo e, non ultime, due cancellate monumentali: a Palazzo Reale e al Teatro Regio. I progetti continueranno con la Biblioteca Reale, la Galleria Sabauda e una grande mostra storica sulla fabbrica Lenci.
Per il finanziamento privato dei beni artistici l'attività della Consulta e, in generale, il modello Torino sono apparsi esemplari. Louis Godart, consulente del Quirinale per i beni culturali, ha lodato il nuovo allestimento delle statue del Museo Egizio («Nessuno le aveva mai viste così») e Mario Turetta, direttore generale per il Bilancio e le risorse umane del ministero per i Beni culturali, ha rivelato i numeri del successo: «II turismo italiano perde colpi ma quello nelle città d'arte, composto per il 57,7% da stranieri, è in crescita. E’ rispetto al dato generale (+6% nel 2005), il risultato del Piemonte è eccezionale (+63% contro il +12% della Lombardia). A Torino le presenze aumentano, dalla Fiera del libro al Salone del gusto e al turismo; al Museo Egizio si raddoppia addirittura: +93%», «Un successo - commenta il presidente della Fondazione Museo Egizio Alain Elkann - cui hanno contribuito vari fattori, dall'allestimento innovativo della statuaria all'intensa attività di comunicazione. E persino gesti semplici come la collocazione di una guardia giurata nell'atrio del Museo, per impedire l'accesso ai venditori abusivi che prima vi bivaccavano indisturbati».
«Pompei? Ai privati» II piano delle imprese
Raffaella Polato - Corriere della Sera, 13 ottobre 2007
Sergio Chiamparino, il sindaco di una città che da Olimpiadi e patrimonio culturale ha costruito la propria rinascita, lo chiama «nuovo mecenatismo: e non è fatto di questue ma di vera collaborazione pubblico-privato». Luca Cordero di Montezemolo, presidente di Confindustria che del circuito arte-cultura-storia-turismo parla da sempre come di «un asset trascurato, ed è un delitto perché dopo l'industria potrebbe essere il secondo grande fattore di crescita per il Paese», ovviamente sottoscrive. E rilancia.
Esempi ne avrebbe mille. Però, per dire, «pensate a Pompei». Non fa il nome (ma dev'essere Tony Blair) dell'«importante ex premier straniero» che, dopo una visita agli scavi, «era alquanto stupito, ed è un eufemismo, di quel che ha visto intorno. Non un albergo, non un negozio, non una grande libreria: erbacce e carta».
Morale: «Usciamo dalla demagogia del "pubblico". Perché sé poi il pubblico non ce la fa, allora si passi la mano ai privati. Con tutti i controlli e le regole, ovvio. Ma abbiamo patrimoni enormi che, soprattutto al Sud, sono totalmente abbandonati a se stessi. E non è possibile». Tanto meno accettabile.
L'«esempio virtuoso» può essere proprio Torino, quella collaborazione pubblico-privato che ha usato il volano delle Olimpiadi ma ieri, per esempio, ha finalmente riportato allo splendore che merita la Reggia di Venaria. E da vent'anni — con enti e imprese raggruppate nella Consulta presieduta da Ludovico Passerin d'Entrèves — «adotta» e restaura beni storico-artistici.
Una visione di sistema che, dice Montezemolo, dimostra «quali siano poi le ricadute anche sull'economia e sull'occupazione». Ci aspettiamo turisti, «ci aspettiamo cinesi e indiani?». Se li vogliamo, diamo loro strutture e infrastrutture: «Rendiamoci conto che anche il patrimonio culturale ne fa parte. E non ci è costato nulla: è un'enorme risorsa che abbiamo ereditato, è la storia del nostro Paese», insiste al convegno organizzato per il ventennale della Consulta.
Poi certo, a una frecciata il presidente di Confindustria non rinuncia: «Vogliamo i turisti, ma non abbiamo una compagnia aerea in grado di portarli. E noi che abbiamo ricevuto tante lezioni dallo Stato su come gestire le nostre imprese...». Però non è giorno di polemiche, al di là delle battute «mai come oggi occorre sottolineare le cose positive che comunque il nostro Paese ha». «Spirito costruttivo», insomma, che si traduce nella proposta «formalizzata» per Confindustria da Maurizio Costa (numero uno Mondadori e presidente della Commissione cultura di Viale dell'Astronomia) : «Noi siamo già passati dalla fase del mecenatismo a quella delle strategie aziendali. Il passo avanti, la chiave di sviluppo auspicabile per il futuro, sarebbe una vera e propria partnership tra il pubblico e il privato».
Piace a Francesco Rutelli la proposta di Confindustria. «Montezemolo ha assolutamente ragione», sottolinea il ministro dei Beni Culturali. E qualcosa si muove. «Nella Finanziaria ci sono già innovazioni importanti», ricorda il vicepremier che aggiunge: ora servono incentivi.
Un nuovo scossone agita gli scavi di Pompei. Il ministero per i Beni culturali ha designato il direttore amministrativo della Soprintendenza archeologica, il city-manager che dovrebbe governare i custodi e tutti gli altri dipendenti, facendo funzionare una delle macchine più imponenti e anche più arrugginite dell´intero patrimonio artistico italiano, inceppata da incrostazioni clientelari e da inefficienze - dai cani randagi che razzolano fra i ruderi alla conflittualità esasperata, agli scioperi e alle assemblee che impediscono ai visitatori di entrare. Il nuovo direttore amministrativo si chiama Antonio De Simone. È un archeologo, qualifica che appare appropriata se non fosse, come fa notare qualcuno, che il direttore amministrativo deve occuparsi di conti e di gestione del personale e non deve decidere cosa scavare e cosa restaurare.
La nomina ha colto di sorpresa il soprintendente di Pompei, Pietro Giovanni Guzzo. Guzzo ha scritto una lettera al ministero in cui contesta la scelta, che appare come una duplicazione del suo incarico, una specie di soprintendente-ombra. De Simone, docente universitario, ha in corso vari scavi a Pompei ed ha collaborato strettamente con Baldassarre Conticello, che a Pompei fu il primo soprintendente, e dai cui metodi di ricerca Guzzo si è distaccato con nettezza. La nomina di De Simone sarebbe stata fortemente sostenuta dal vescovo di Pompei, monsignor Carlo Liberati, che, caso piuttosto irrituale, appena saputo della designazione, ha scritto alla Soprintendenza un vibrante telegramma di plauso. I vescovi di Pompei sono sempre molto sensibili alle vicende degli scavi, e tanto più ora che un grande edificio di proprietà della Curia verrà ristrutturato con i soldi della Regione Campania (12 milioni di euro) e ospiterà un complesso museale e di assistenza ai turisti, i cui ricavati dovrebbero andare, in parte, alla Curia stessa.
Nel dicembre scorso Guzzo aveva presentato le sue dimissioni al ministro Rutelli per una vicenda che ha molte analogie con quella di questi giorni. Rutelli aveva infatti confermato al suo posto di direttore amministrativo Luigi Crimaco, archeologo anche lui, ex direttore del Museo civico di Mondragone, vicino, si è sempre detto, ad Alleanza nazionale. Cambiato il governo, a molti sembrò naturale sostituire Crimaco, che invece alla fine del 2006 si vide confermato il contratto fino al luglio successivo.
A favore di Guzzo si erano mobilitati archeologi italiani e stranieri, oltreché funzionari della Soprintendenza pompeiana. Prima di arrivare a Pompei, nel 1994, Guzzo aveva diretto il Museo Nazionale Romano e il Colosseo. Ad accrescere la sua autorevolezza una ricchissima bibliografia, sia sui temi specifici dell´archeologia sia sulla tutela e l´organizzazione dei beni culturali. Un lungo colloquio con Francesco Rutelli aveva poi indotto Guzzo a ritirare le dimissioni. Crimaco sarebbe rimasto al suo posto, ma a fine estate sarebbe stato rivisto l´assetto dell´intera Soprintendenza pompeiana.
E in effetti qualcosa si è mosso. Crimaco è andato via a fine luglio. Inoltre, nel progetto di riorganizzazione complessiva del ministero, approvato da Rutelli, è stato previsto che la Soprintendenza di Pompei e quella archeologica di Napoli si unificassero e che venisse abolita la figura del direttore amministrativo. Contemporaneamente, però, uno strano cortocircuito ha portato a designare un archeologo per un posto che ha caratteristiche prettamente amministrative e che, per di più, sta per essere abrogato. E per Pompei si è aperta l´ennesima fase di incertezza.
Titolo originale: Italy resorts to telethon to protect antiquities – tradotto da Maria Pia Guermandi
Gravato dall'onere di restaurare e salvaguardare centinaia di siti archeologici e culturali in rovina, il governo italiano, in penuria di cassa, ha fatto ricorso ad un appello diretto agli italiani perchè offrano contributi attraverso una tre giorni televisiva di telethon. Con l'obiettivo di raccogliere tre milioni e mezzo di euro nel corso del week-end, cantanti lirici, attori e conduttori italiani sono stati arruolati per perorare elargizioni durante una kermesse sulla rete televisiva pubblica, la RAI, in cui si susseguivano gli annunci e i richiami sulle disastrose conseguenze degli eventuali mancati restauri in siti come la casa dell'imperatore Augusto sul colle Palatino.
Giovedì scorso, lanciando la maratona di raccolta dei fondi, il ministro della cultura Francesco Rutelli, ha raccontato al pubblico televisivo i pericoli derivanti dalla mancata protezione contro i tombaroli di scavi e monumenti, in un paese che ospita 41 siti segnalati dall'Unesco, ma che può stanziare solo 300 dei 700 milioni necessari per la loro manutenzione annuale.
Col sottofondo vibrante della musica di Ennio Morricone, sette siti sono stati reclamizzati in comunicati televisivi a rotazione, compresa la villa di Augusto dove affreschi e pavimentazioni stanno andando in rovina, la necropoli punica di Sulky in Sardegna, risalente al quarto secolo a.c. e una fortezza normanna abbandonata vicino a Cosenza.
Gli organizzatori hanno dato spazio anche a siti di epoche più recenti come il giardino reale di Racconigi nel cuneese, dove l'intervento di restauro è necessario per salvare le serre del diciannovesimo secolo dove sono cresciuti i primi ananas italiani. Fra i beneficiari è inserito anche il centro di restauro di antichi strumenti musicali a Cremona, così come una vecchia linea ferroviaria del diciannovesimo secolo che collega i centri siciliani barocchi di Siracusa, Modica e Ragusa. Se i telespettatori sganceranno, il treno sarà trasformato in un museo viaggiante per i visitatori.
Il sito più moderno fra i candidati è stato sostenuto dal cantante lirico Andrea Bocelli: un museo per non vedenti ad Ancona dove i visitatori possono toccare le riproduzioni di sculture e reperti archeologici.
Il ministro della cultura italiano ha evidenziato che gli italiani hanno donato nel 2006 solo 42 milioni di euro per la tutela del loro patrimonio culturale, a confronto con i 350 milioni elargiti dai francesi.
Mentre la maratona si avvia alla conclusione, le donazioni stanno raggiungendo l'ammontare auspicato, anche se 300.000 euro dell'insieme provengono da una fondazione americana.
Il telethon arriva in un momento di crescente risentimento, in Italia, nei confronti delle costose consuetudini e dei privilegi della classe politica.
Nel tentativo di fornire un esempio di onesta impresa da parte dei politici, Rutelli ha mostrato alcune delle opere d'arte che l'Italia ha reclamato in quanto frutto di furti e contrabbando dai suoi territori ottenendone, attraverso i tribunali, la restituzione dal Getty Museum di Los Angeles.
Rutelli ha dichiarato che le opere saranno esposte in una mostra gratuita a Roma, al Quirinale, l'esteso palazzo presidenziale che si è ritrovato nel mezzo della protesta contro gli sperperi dei politici dopo che è stato reso noto come i costi del mantenimento del presidente e del suo esercito di corazzieri, giardinieri e lucidatori di argenti è più alto di quello di Buckingham Palace.
I funzionari e i sovrintendenti del Ministero dei Beni Culturali sono tra gli impiegati statali meno pagati in Italia. Vengono disprezzati dai costruttori, che spesso cercano di corromperli, e dalle amministrazioni comunali e regionali, che li giudicano superflui. Ma dobbiamo quasi soltanto a loro se, in questi ultimi trent´anni, le chiese, i palazzi, le strade e i paesaggi sono stati conservati, non sempre, nel migliore dei modi.
Se non ci fossero i sovrintendenti, è probabile che la Villa romana di Piazza Armerina, coi suoi meravigliosi mosaici del quarto secolo, verrebbe trasformata in un condominio con abitazioni di tre camere e doppi servizi: ognuna con un frammento del mosaico romano, ora in salotto, ora nella camera da letto, ora davanti allo specchio del bagno, ora splendidamente in cucina.
Le regioni a statuto speciale, o una parte di esse (la Sicilia, il Trentino e il Sudtirolo) non obbediscono in nessun modo (per legge) ai pareri dei sovrintendenti e del Ministero dei Beni Culturali. In queste tre regioni (conosco meno bene la situazione in Val d´Aosta e nel Friuli-Venezia Giulia), le giunte comunali, gli assessori e i sindaci possono fare tutto quello che vogliono: abbattere chiese e palazzi, stravolgere piazze e strade, violare paesaggi. In fondo, questo è il desiderio di tutte le regioni italiane, che vorrebbero trasformare le città e i paesi a loro capriccio, senza ascoltare i pareri (ritenuti conservatori e pedanteschi) delle autorità centrali.
Tutti sanno quello che è accaduto in Sicilia, attorno alla zona archeologica di Agrigento. Lo stesso avviene in regioni che sembrerebbero più attente al proprio passato. Due anni fa, il sindaco di Monguelfo, nel Sudtirolo, ha fatto abbattere la pretura, ambientata in un edificio del quindicesimo e sedicesimo secolo, malgrado il parere del tribunale di Bolzano. La vicenda di Monguelfo si ripete in questi giorni a Trento. Le vecchie, eleganti carceri sono state costruite tra il 1876 e il 1890 dall´architetto Karl Schaden in quello stile che ancora oggi, se andiamo a Vienna, o a Praga, o a Zagabria, o a Lubiana, o a Dubrovnik, ci fa sentire il profumo dell´Austria-Ungheria: il luogo, diceva Joseph Roth, dove "quello che era straniero diventava domestico senza perdere il suo colore, e la patria aveva l´eterno incanto dell´estero". Ora, il comune di Trento ha deciso di demolire le vecchie carceri, sebbene, come suggerisce la delegazione del FAI, esse potrebbero venire trasformate in un edificio a destinazione pubblica o privata.
Non so come si concluderà la storia delle carceri di Trento: probabilmente nel peggiore dei modi, malgrado l´opposizione dei cittadini. Le regioni a statuto speciale ricordano appassionatamente di appartenere allo Stato italiano, quando ne incassano i finanziamenti troppo grandiosi. Negli ultimi mesi abbiamo assistito allo spettacolo grottesco di Cortina d´Ampezzo, che ha deciso di trasmigrare nel Sudtirolo, sebbene non abbia nulla a che fare col Sudtirolo, per prendere parte al gioioso festino. Ma queste regioni dimenticano all´improvviso di essere italiane, quando desiderano distruggere edifici antichi, o rovinare paesaggi, contro il parere del Ministero dei Beni Culturali, che non ha il potere giuridico di intervenire. Questa situazione non può durare più a lungo. Lo Stato deve imporre la propria volontà, modificando leggi e consuetudini, in modo che una stessa legge difenda tutto il nostro territorio dai suoi distruttori.
Se c’è un settore, in ambito culturale, in cui l’Italia gode di indiscusso prestigio internazionale per il livello di conoscenze acquisito negli anni, esercitato sui mille cantieri nazionali ed esteri di salvataggio e recupero del patrimonio culturale, consolidato e sistematizzato attraverso il magistero dell’Istituto Centrale del Restauro, fondato da Cesare Brandi, è proprio quello del restauro: davvero rarissimo caso di esportazione di sapere in un paese in cui, come noto, innovazione e ricerca sono la cenerentola ipocritamente blandita in ogni programma politico e regolarmente negletta al momento della spartizione delle risorse. Sulla capacità e competenza dei nostri restauratori e sulla qualità complessiva dei loro interventi, quindi, è davvero ingeneroso sollevare critiche generalizzate. E inoltre, sia detto en passant, si tratta di un settore di altissima specializzazione tecnica su cui la critica dovrebbe essere esercitata, in primis, da “addetti ai lavori”.
Certo è vero che qualche incidente di percorso, negli anni, si è verificato e che, purtroppo, in questo campo, quasi sempre il ripristino dello status quo antea è, per natura stessa dell’intervento, impossibile; e altrettanto vero è che l’impressione che si respira al momento dell’inaugurazione di ogni nuova mostra è ormai ricorrente, questa essendo una delle occasioni principali in cui, in presenza di risorse esterne – gli sponsors – curatori e soprintendenti possono mettere in cantiere restauri anche importanti: i quadri rifulgono nei loro colori brillanti, creando un effetto complessivo di omologazione che più di una critica ha sollevato. Annettere questo effetto, dovuto soprattutto alla compresenza di molte opere restaurate e, per scelta espositiva, legate per contiguità stilistica alle pressioni dei finanziatori che spingerebbero, per tornaconto mediatico, per ottenere effetti “shock”, significa però sminuire fortemente, e ingiustamente, il ruolo di elaborazione scientifica che i funzionari competenti del Ministero per i Beni Culturali esercitano in interventi di questo tipo. Ogni operazione di restauro è esito finale di un’istruttoria compiuta da storici dell’arte, archeologi, architetti che, sulla base delle rispettive competenze, programmano e decidono necessità e priorità di tutela e quindi di restauro del nostro patrimonio: può evidentemente accadere che le uniche risorse economiche per procedere a interventi di recupero siano preferibilmente elargite in talune direzioni (è inevitabile che il finanziatore preferisca legare il proprio nome a Raffaello piuttosto che a Cagnacci) e che quindi siano le opere più “famose” a ricevere le prime cure, ma è davvero eccessivo e in certa misura denigratorio, ritenere che alcuni quadri siano sottoposti a restauri non necessari solo per rincorrere i desideri degli sponsors. Il problema non sono i restauri che si fanno, ma quelli, tantissimi, che non si fanno per mancanza sistemica di risorse. Mancanza che costringe, per l’appunto, i curatori del nostro patrimonio culturale, a drastiche selezioni, in cui l’elemento esterno rappresentato dalla disponibilità di un finanziamento agisce, caso mai, in seconda battuta, quando cioè si debba scegliere fra opere tutte ugualmente bisognose di interventi conservativi.
Questo modo di procedere determinato dalle condizioni ormai sempre più consolidate di emergenza perenne in cui le nostre soprintendenze sono costrette a muoversi, naturalmente è ben lontano da quel principio di “conservazione programmata” che Salvatore Settis e Carlo Ginzburg ricordavano come sintesi del pensiero di uno dei maestri del restauro, Giovanni Urbani; nella stessa direzione e ancor più drasticamente, Manfredo Tafuri affermava che "il restauro si fa quando la conservazione è fallita". Come non essere d’accordo? Certo, in tempi in cui la parola “pianificazione” ha ormai assunto solo un risvolto sinistro di vetero sovietismo, l’espressione “conservazione programmata” pare riservata ai territori inattingibili dell’utopia. Eppure certo, anche in questo caso, un’efficace operazione di tutela può essere raggiunta solo dove si proceda ad una programmazione scientificamente mirata. Ma se questo non succede e se il nostro patrimonio culturale è ancora così fragile e così esposto ai rischi del degrado e l’opera di chi è preposto a salvaguardarlo resa sempre più difficile e complessa da un convergere di elementi negativi che vanno dalla asfissia di mezzi e risorse alle pressioni sempre più forti di interessi di parte, ciò non si deve certo all’ “eccesso di cura” rappresentato da pratiche generalizzate di restauri impropri.
Alquanto apodittica appare quindi questa richiesta di moratoria incondizionata propugnata da Settis e Ginzburg e soprattutto lontana dalle reali emergenze cui si trovano esposti i nostri beni culturali. E fors’anche un po’ antistorica: ogni epoca stabilisce il proprio rapporto con il patrimonio artistico tramandatoci, e in questo rapporto, anche un atteggiamento nei confronti della conservazione che si esprime in un complesso di regole e di pratiche. Può anche darsi che il nostro modello conservativo non sia il migliore possibile in assoluto e che quindi venga superato in un futuro anche prossimo, ma se, come nel caso italiano, è il frutto più avanzato delle nostre conoscenze attuali, abbiamo il dovere-diritto di utilizzarlo per realizzare l’obiettivo, comunque condiviso, di trasmettere questo patrimonio alle generazioni future.
* vicedirettore di Eddyburg
Due giorni fitti di dibattito in consiglio regionale e ben 1.800 emendamenti presentati dall’opposizione di centrosinistra alla fine hanno convinto la Casa della libertà in Regione a fare un mezzo passo indietro sulla nuova modifica della legge regionale urbanistica, per dare più tempo al consiglio comunale di Monza di raccogliere le osservazioni sul proprio piano generale del territorio (pgt, ex piano regolatore). Un escamotage per spianare nuovamente la strada al progetto di Paolo Berlusconi di costruire un nuovo maxi-quartiere residenziale alla Cascinazza, uno degli ultimi polmoni verdi della Brianza, a due passi dal parco della Villa Reale. Dopo il blitz della settimana scorsa, quando il centrodestra compatto in commissione Territorio aveva tenuto duro chiedendo una proroga di addirittura 270 giorni (nove mesi) per poi scendere a 180 (sei mesi). Ieri l’assessore lombardo al Territorio leghista Davide Boni, con un emendamento a sorpresa, si è accontentato di 150 giorni. In pratica, al netto dei termini già previsti, Monza, che da maggio è amministrata di nuovo dal centrodestra, avrà 60 giorni in più per approvare il nuovo pgt. E in teoria Berlusconi ha quindi modo di ripresentare il suo piano (300 mila metri cubi su 700mila metri quadrati) alla giunta "amica", dopo che quella di centrosinistra lo aveva bloccato.
Tutta l’Unione ha votato contro. «Un regalo a Paolo Berlusconi e soci - denunciano i verdi Carlo Monguzzi e Marcello Saponaro - . Ora possono aumentare le pressioni per ottenere un incremento delle volumetrie da realizzare sull’area della Cascinazza». «Come ogni anno arriva la leggina ad personam per Monza - aggiunge Pippo Civati dell’Ulivo - . La stagione delle leggi vergogna prosegue anche in Lombardia». «Vince ancora una volta il partito degli affari» insiste Luciano Muhlbauer di Rifondazione comunista. Di tutt’altro avviso i commenti del centrodestra. «Le modifiche introdotte - spiega l’assessore Boni - servono a migliorarne l’applicabilità, dando tempistiche certe che non mettano in difficoltà i comuni. Troppo spesso molte amministrazioni introducono nuove disposizioni a pochi mesi dalle elezioni, facendo così ricadere su quelle successive le decisioni in materia urbanistica».
La giunta dell’ex sindaco Michele Faglia, infatti, aveva osteggiato in tutti i modi il progetto di Paolo Berlusconi. Nel frattempo, il nuovo assessore all’Urbanistica è diventato il berlusconiano Paolo Romani, ex coordinatore regionale di Forza Italia. «Il nostro voto favorevole al provvedimento è un voto di responsabilità - si giustifica il capogruppo di An in Regione Roberto Alboni - . Soprattutto se si considera la difficoltà che molti comuni stanno incontrando nell’approvare in tempi stretti il pgt». Dalla società di Paolo Berlusconi nessun commento ufficiale.
Durante il dibattito c’è stato un duro botta e risposta tra l’ex assessore Alessandro Cè e i suoi ex compagni della Lega. «C’è molta gente qui che non si può più guardare allo specchio - ha esordito lui - . Le porcherie non si fanno e non si deve obbedire a nessun padrone, si abbandona il proprio partito piuttosto». Secca la replica dell’assessore Boni: «Dovevi uscire prima dalla Lega».
Nota: l'affaire Cascinazza, in quanto emblema di un certo rapporto col territorio e la cosa pubblica del centrodestra nostrano, è stato ampiamente trattato su queste pagine. A partire ad esempio dall'intervento dell'assessore all'urbanistica della ex giunta di centrosinistra Alfredo Viganò; o ai tentativi che sembravano riusciti della medesima ex giunta di bloccare per sempre il progetto, all'intervento su questo tema di Eddyburg per Carta; alla descrizione di quanto l'atteggiamento della "classe dirigente" berlusconiana consideri l'elettorato (e il territorio) un vero e proprio parco buoi. E molti altri: si possono cercare, con un po' di pazienza, digitando la parola chiave "cascinazza" nel motore di ricerca interno di Eddyburg (f.b.)
Nell'ultimo quarto di secolo la fisionomia di opere capitali, che appartengono al patrimonio artistico non dell'Italia soltanto ma dell'umanità, è cambiata profondamente. Al restauro del soffitto della Cappella Sistina e del Giudizio di Michelangelo, preceduti da quello della Camera degli sposi affrescata da Mantegna a Mantova, sono seguiti i restauri dei cicli di Masaccio e Masolino a Santa Maria del Carmine, di Giotto a Padova, di Piero della Francesca ad Arezzo: un lungo elenco che potrebbe continuare, includendo tavole e tele altrettanto importanti conservate in chiese e musei.
Si è trattato di restauri diversi per natura e per risultati. Essi sono stati discussi, e continueranno ad esserlo, da parte degli addetti ai lavori. Ma il fenomeno ha richiamato da tempo un'attenzione più vasta da parte dell'opinione pubblica internazionale. Come cittadini vogliamo esprimere una profonda preoccupazione. Chiediamo una pausa di riflessione, che nasce dalle seguenti considerazioni.
1) Il concentrarsi dei restauri su opere celeberrime come quelle citate, riprodotte in tutti i manuali di storia dell'arte, non ha bisogno di spiegazioni.
I gruppi industriali o finanziari che appoggiano quei restauri investono ingenti somme di denaro in cambio di pubblicità: chiedono risultati visibili, possibilmente clamorosi; all'eliminazione di ciò che può aver prodotto il degrado sono meno interessati. Una conseguenza inevitabile è che opere meno note, ma altrettanto o più bisognose di restauro, vengono spesso ignorate. Una conseguenza possibile (ma tutt'altro che irrealistica) è che opere notissime vengano sottoposte a restauri non urgenti che le rendano ancora più fragili. L'incuria e l'accanimento terapeutico sono due facce della stessa medaglia.
2) Ogni restauro costituisce un'interpretazione storica, anche quando si nasconde dietro l'alibi di una presunta scientificità «asettica» e senza tempo. Ma l'interpretazione di un testo scritto (una cronaca, un atto notarile ecc.) non è irreversibile; un restauro in molti casi lo è. Togliere una velatura da una tavola, un ritocco a secco da un affresco, un elemento che fa parte della stratificazione storica dell'opera, equivale a bruciare la pagina di un testo che ci è arrivato in un unico manoscritto. Quella tavola, quell'affresco non torneranno mai più quello che erano: e d'altra parte la restituzione dell'opera al suo stato originario, quando uscì dalle mani dell'artista, è per definizione inattingibile. E' giusto che una generazione si arroghi il diritto di intervenire drasticamente, trasformandola in maniera irreversibile, su una parte così cospicua, qualitativamente e quantitativamente, della tradizione artistica italiana, sulla base di una cultura figurativa specifica - la nostra, modellata dalle fotografie a colori e dai faretti, dalle sciabolate di luce elettrica che trasformano il gioco delle luci e delle ombre in carte da gioco? E' giusto correre un rischio del genere?
Come l'ambiente naturale, anche l'ambiente artistico è diventato estremamente fragile. In entrambi i casi la riflessione arriva forse troppo tardi, in una situazione ormai compromessa. Ma come il proverbio ci ricorda amaramente, il peggio non è mai morto. Dobbiamo chiederci quale patrimonio artistico ci apprestiamo a lasciare alle generazioni future, e in quali condizioni. Non dobbiamo dimenticare che, quando era direttore dell'Istituto Centrale per il Restauro, Giovanni Urbani propose di sostituire alla strategia del restauro come terapia d'urto quella della «conservazione programmata»: un continuo, capillare, diffuso monitoraggio delle opere d'arte teso a impedirne o rallentarne il degrado.
E' un'indicazione preziosa, a patto che si tenga presente, al di là della lettera, lo spirito che l'ha dettata. Una pausa di riflessione, una discussione ampia e non convenzionale su questi temi sono necessarie. Chiediamo una sospensione di tutti i restauri ad eccezione di quelli a fini di mera conservazione. Una moratoria è necessaria.
Quando vengono pubblicati sul Bollettino ufficiale regionale, i piani urbanistici diventano, come noto, legge. Il ruolo della regione Lazio nel valutare il piano regolatore di Roma è dunque molto importante. Al di la’ del merito delle scelte del piano -su cui si possono avere le più diverse opinioni- si tratta di ricondurre quello strumento urbanistico al rispetto delle regole. E, appunto, non ci possono essere opinioni o interpretazioni: deve essere rispettata la legislazione vigente.
La regione Lazio dovrà dunque risolvere tre grandi questioni. Il primo è quello maggiormente impegnativo dal punto di vista giuridico. Il piano di Roma si fonda su due concetti che non esistono nel corpus legislativo nazionale: i diritti edificatori e la compensazione urbanistica. Si sostiene che esistono diritti edificatori che discendono da precedenti atti di pianificazione e, conseguentemente, essi devono essere trasferiti in qualsiasi altro luogo. Ad esempio, le previsioni edificatorie del piano del 1965 per il comprensorio di Tormarancia –1,8 milioni di metri cubi- cancellate da una sacrosanta battaglia ambientalista sono state “compensate” in altri luoghi per un totale di 5,2 milioni di metri cubi. Al di là dell’impressionante aumento consumo di suolo che questa invenzione produce (quasi il 300%!), resta il punto centrale: nella legislazione italiana non esistono diritti edificatori e compensazione. Le norme tecniche del piano di Roma sono piene di rinvii a questi due concetti fuori legge: la regione deve pertanto cancellarli. E’ suo dovere istituzionale.
Il secondo punto è relativo al fatto che i piani approvati devono fornire un quadro esattamente rispondente alla realtà. In tal senso, quale piano, approverà la regione Lazio: quello controdedotto nel 2003 o quello successivamente variato dalle decine e decine di “accordi di programma” sottoscritti che hanno variato il citato piano? Anche qui un solo esempio. Subito dopo il marzo 2003, data della controdeduzione comunale, viene concesso a Bonifici, proprietario del quotidiano Tempo e di una fabbrica dimessa a Tor di Quinto, di trasformare l’immobile in un quartiere di densità impressionante, tipo viale Marconi degli anni ’60. Come questo, esistono altre decine e decine di casi: la regione Lazio ha il dovere di renderli evidenti sui documenti che diventeranno legge. Altrimenti che legge sarebbe?
Anzi, credo sia venuto il momento di cancellare l’uso dell’accordo di programma quale strumento per decidere volta per volta le trasformazioni urbane. Nell’agosto 2007, abbiamo appreso che Pirelli real estate, Fingen e Maire si sono aggiudicati in un’asta pubblica promossa da Fintecna, l’ex Istituto geologico di Largo Santa Susanna nei dintorni di via Nazionale, 23.000 metri quadrati di suolo dell’area dello scalo ferroviario di San Lorenzo, l’ex Zecca dello Stato di piazza verdi ai Parioli, e 7 ettari di terreni a Valcannuta, nell’estrema periferia occidentale.
Questa vendita, utilizzando le leggi liberiste volute dal precedente governo di centro-destra, non è stata ancorata allo stato di diritto definito dagli strumenti urbanistici. Le regole sono state cancellate e si vende sulla base del principio della valorizzazione immobiliare. L’ex Istituto geologico sarà destinato ad attività commerciali. A San Lorenzo saranno edificati 50 mila metri cubi di residenze. A piazza Verdi si realizzerà un albergo con circa 200 posti letto e “non meno” di 250 appartamenti. A Valcannuta verranno infine realizzati 200 alloggi residenziali e strutture commerciali. Queste trasformazioni non sono previste dal nuovo piano regolatore, ma con l’accordo di programma si può variare. Se non si spezza questa prassi perversa, reintroducendo regole rigorose, si cancella l’urbanistica ed è allora del tutto inutile approvare il nuovo piano.
La regione Lazio ha il potere di ricondurre il futuro delle città nel rispetto della coerenza. E’ in gioco una vicenda di enorme rilevanza istituzionale, e cioè l’universalità delle regole che i comuni devono osservare nel governo del territorio. Non esiste infatti solo Roma: se non verrà cancellato l’istituto della compensazione e se non verrà stroncata la logica della contrattazione economica che di volta in volta decide i destini delle città, tutti gli altri comuni del Lazio pretenderanno di utilizzare gli stessi metodi e gli stessi strumenti ammessi per Roma. Sarebbe la fine del governo pubblico del territorio e spero che ciò venga evitato.
Anche se, per concludere, una preoccupazione non può essere taciuta. Poche settimane fa la Regione ha infatti approvato molti emendamenti al piano paesistico regionale per tener conto delle scelte effettuate dal comune di Roma in sede di stesura del nuovo piano regolatore. Nonostante l’esistenza di vincoli ambientali, sono infatti state previste edificazioni. Accettando di cambiare il proprio piano paesistico, la regione Lazio ha commesso un gravissimo errore: per la prima volta in Italia si è capovolta la prassi legislativa fondata sulla supremazia della salvaguardia ambientale sulle scelte di sviluppo del territorio. Speriamo che oggi trovi la forza per recuperare all’errore e per riportare il piano regolatore di Roma nel rigoroso rispetto delle regole.
Dopo un anno di battaglieri dibattiti e polemiche in punta di penna Alberto Asor Rosa vince la guerra di Monticchiello. Il ministero dei Beni culturali ha imposto un vincolo definitivo non solo sul centro storico del borgo della Val d'Orcia ma anche sulla zona della contestata lottizzazione di Aia del Popolo. Risultato: niente più villette, come chiedevano i comitati ambientalisti. Il sindaco di Pienza Marco Del Ciondolo ha già convocato un´assemblea pubblica martedì prossimo per spiegare ai cittadini cosa comporta il decreto di Rutelli. «Dal punto di vista dell'incidenza sul territorio aperto», dice, «il vincolo ministeriale è alla fine meno restrittivo di quanto previsto dal nostro piano strutturale ma si irrigidisce nella parte che riguarda la zona di espansione di Monticchiello». Del Ciondolo non nasconde il suo sconforto: «Pur essendo state accolte alcune osservazioni presentate dall'amministrazione comunale, che consentiranno la costruzione di locali tecnici, cisterne e interventi di categoria edilizia fino alla ristrutturazione», aggiunge, «il vincolo resta irremovibile sulla possibilità di edificare nuovi volumi e dunque colpisce indiscriminatamente anche i cittadini di Monticchiello». Al contrario del sindaco Asor Rosa è decisamente soddisfatto: «La decisione del ministero è il riconoscimento della bontà della denuncia che facemmo a suo tempo», commenta ricordando il suo primo articolo apparso su Repubblica nell'agosto del 2006. «Certo, il vincolo è parziale, nel senso che riduce il danno di circa il 25 per cento ma credo che si debba considerare come una vittoria e un successo del fronte ambientalista contro la disinvoltura delle amministrazioni locali e, a volte, delle sovrintendenze». Gioisce con lui anche Legambiente: «Ci auguriamo che i sindaci della Val d'Orcia si rendano conto che il muro contro muro attuato fino a oggi non porta da nessuna parte», dice il presidente nazionale Roberto Della Seta.
Prima che si diffondesse la notizia del decreto del governo, ieri l'assessore regionale all'Urbanistica Riccardo Conti si era lasciato scappare una battutina velenosa nei confronti di Asor Rosa, a proposito dei dubbi sollevati su un altro progetto turistico-edilizio in discussione, quello della tenuta di Castelfalfi a Montaione: «L'operazione è tutta dentro il recinto comunale ma poiché ci è stato chiesto un supporto noi lo daremo. Non è però il momento di mettere subito mano alla pistola come qualcuno ha già fatto, qualcuno che ormai il pistolero letterato lo fa un po' di mestiere...».
«Le colonne in vetroresina? Sono semplicemente orribili, specie in alcune ore del giorno quando la luce le rende semitrasparenti come un calamaro». Arnax, così si firma il lettore internettiano, usa un paragone alla "Ventimila leghe sotto i mari" per rispondere al quesito lanciato dal sito di roma repubblica.it ai suoi lettori. E cioè: «Le false colonne sopra il Tempio di Venere - quelle utilizzate per la coreografia della cena di gala durante la festa di Valentino a luglio, e ancora non rimosse - vi piacciono o no?». Una domanda che ha scatenato un vortice di critiche tra il popolo del blog. Ultima coda di una polemica cominciata già dai primi giorni dopo la loro installazione. Con l’ex soprintendete ai Beni archeologici Adriano La Regina, che aveva definito tutta l’operazione «un modo sciatto e incolto di gestire i monumenti»; il successivo ordine dell’attuale soprintendente Angelo Bottini, di togliere subito le finte colonne a festeggiamenti finiti. Poi, il contrordine. Quello della dottoressa Silvana Rizzo, consigliere culturale del ministro Francesco Rutelli: «Rimarranno lì sicuramente fino ai primi di ottobre».
E lì stanno a tutt’oggi. Fotografate dai turisti, mal sopportate dai romani. Romani che sul blog si sono scatenati: «A me le colonne non piacciono, sono un pugno ad un occhio. Lì dove il tempo si è fermato vedere «quelle cose di plastica» fa veramente un brutto effetto», scrive sul sito una lettrice dal nome in codice Maxgala. E d’accordo è anche Lamalmedy che alle 8,20 manda in rete il suo verdetto: «Assolutamente da togliere e al più presto!». Anche Robecas2007 non le manda a dire: «Le colonne hanno lo stesso impatto visivo degli scarabocchi sui muri». E giù a dissertare sul senso dell’opera, firmata dal premio Oscar Dante Ferretti che si erge su un sito archeologico come il Tempio di Venere, bisognoso di consolidamento. E dove invece, hanno banchettato in 400 brindando ai 45 anni della maison dello stilista: «Non riesco a capire il senso di trasformare il Foro Romano in una sorta di Caesar´s Palace nostrano - scrive Moniq - Mi sfugge il significato di una colonna di cartapesta accanto a ricordi della storia del mondo... «. Critica a tutto campo per l’internettiana Ele02: «Sono invasive, riducono le rovine ad una pista circense e avrei molte altre cose da dire rispetto all’esposizione di Valentino all’interno dell’Ara Pacis. Scandalosa».
Ma non tutti sono d’accordo. Come Lamuzazie, un po’ cybernauta un po’ poeta, che sulla rete esprime la sua: «E invece, le colonne in vetroresina sono interessanti perché si trovano lì in quello scenario rimasto immobile nel tempo, E loro se la ridono, gaie. Tendono al cielo pure loro. Perché non dovrebbero farlo? Perché sono di plastica? O solo perché a Roma le uniche scenografie concesse sono quelle che hanno smesso di respirare da tempo. Poveri capolavori del passato, se guardate bene, i fori sono contenti di queste nuove intruse, hanno familiarizzato, il contrasto sottolinea ancor di più il loro splendore. E rende anche meno monotona e ripetitiva ogni visita in blocco dei turisti. Io passo lì davanti e mi incuriosisco, mi volto, rifletto, reagisco. Le colonne non sono finte, sono più che reali, e diverse. Per questo vi danno fastidio».
Sulle "Valentiniadi" in eddyburg
Chiedono il condono per lavori fatti dentro l’area vincolata del parco dell’Appia antica. E, senza aspettare risposta, propongono e mettono in atto un progetto di ampliamento: con tanto di piscina panoramica così che i nuotatori di "Roma 2009" s’allenino davanti alle tombe di via Latina e sul parco della Caffarella. Tra le varie proposte di impianti per gli iridati di nuoto, illustrate ieri nella conferenza dei servizi convocata dal commissario Angelo Balducci, c’è anche il progetto, presentato dalla società Sporting Palace, per la gestione di un impianto la cui realizzazione (sulla struttura di un palazzo in via Appia Nuova 700) è stata inoltrata da un consorzio di tre società. «Qui viene tutto nuovo, e ci sarà anche una grande piscina» spiega un operaio al lavoro sui ponteggi montati intorno all’edificio che ha ospitato un’impresa di imbottigliamento dell’acqua, il Giornale d’Italia e la società "Tecno holding", il cui nome compare sulla cassetta postale. «Sono gli intestatari della richiesta di concessione di nuovi lavori, di cambio d’uso e di condono edilizio, che ci è arrivata più di due mesi fa» racconta Rita Paris, della Soprintendenza archeologica, responsabile dell´Appia. «E adesso, senza il nostro ok, propongono un ampliamento. Io proporrei piuttosto la demolizione dell’edificio, di nessun valore architettonico. Fu costruito nel 1956 con i permessi, ma oscura i magnifici resti romani».
L’ente parco dell’Appia, in cui rientra il palazzetto, non è stato nemmeno convocato nella riunione di ieri. Ma il presidente, Adriano La Regina, è categorico: «È inaccettabile che si aggiungano carichi aumentando l’erosione di questa area archeologica». L’assessore all’Urbanistica, Roberto Morassut, prende atto dello stop: «Sono 30 le richieste di impianti giunte al commissario Balducci. Le sta analizzando con estremo rigore, tenendo conto della delibera comunale che chiede di valutare se i centri sportivi sono utili ai Mondiali di nuoto (ne servono 6 o 7) e, soprattutto, se rispettano i vincoli».
Il canone più prudente prescrive di raccontare la speranza. Sei qui per questo, non per altro. Racconta di casa Jonathan che sta in piedi senza soldi pubblici. Parla del generoso coraggio di Vittorio Merloni e della Fiat di Marchionne che, nel colpevole deserto di politiche pubbliche, offrono ancora un’opportunità ai "piccoli criminali" che abitano quella casa - "piccoli" perché quattordicenni o non ancora diciottenni e "criminali" perché assassini, rapinatori, stupratori, soldatini di latta della cinica camorra dei "grandi", spacciatori di eroina, di cocaina, spesso tossici loro stessi. Merloni e Marchionne li lasciano lavorare nelle loro fabbriche come operai tra gli operai senza chiedere del loro passato accontentandosi soltanto, con fiducia, del loro desiderio di ricominciare da un’altra parte un’altra storia, un’altra vita. Racconta la speranza, mi ripeto, mentre ritorno a Napoli da Scisciano nella piana del Vesuvio, dov’è la casa. E già so che non ci riuscirò perché la sola parola - speranza - mi appare una menzogna, una retorica progressista che non ha più niente a che fare con realtà. Dov’è la speranza? Quali sono le ragioni per averne? Da due giorni la parola che ascolto con più frequenza è morte, ecco la verità. Questi bambini - perché i "piccoli criminali" altro non sono: hanno faccia da bambini; si muovono impacciati come bambini; riescono nonostante le loro storie a essere timidi o entusiasti come bambini quando ti spiegano il loro lavoro nella falegnameria - dicono «morte» con la naturalezza con cui io e voi diciamo pioggia o vento, senza alcun emozione e drammaticità o stupore. Sembra che siano nati e vissuti accanto a quella nera presenza. «Mio padre? È morto, l’hanno ucciso e anche mio fratello hanno ucciso…». «Alberto era il mio migliore amico, gli hanno sparato, poi l’hanno gettato in un pozzo». Dicono di Giovanni. Era «un terremoto». «Nemmeno in carcere lo volevano più». Venne qui e chiese che si avesse per l’ultima volta ancora fiducia. Promise che «nessuno si sarebbe vergognato di lui».
Fu di parola, l’ometto, perché nessuno ebbe a vergognarsi di lui nel periodo che visse a casa Jonathan. Poi quel tempo finì e ritornò da dov’era venuto, nelle stesse strade, tra la stessa gente. Lo ritrovarono in un vicolo, con due proiettili in testa. Ricordano Marcello S. che era felice di vivere nonostante tutto, era forte come un toro, mai prepotente, coraggioso e mai aggressivo. Premuroso con i più piccoli, «dava sempre una mano». Non aveva paura di nulla e sapeva che cos’era giusto e ciò che non lo era. Mai nessuno, dicono, avrebbe potuto sparare a Marcello guardandolo negli occhi. Così gli mandarono sotto un suo amico, Luigi G., un altro ragazzo della casa. Marcello, che gli si era affezionato, lo abbracciò quando lo vide dopo tanto tempo e, quella sera, si accompagnò a lui. Luigi G. gli sparò alla nuca, appena lo vide distratto.
Non si può cancellare l’esistenza di questo orrore. Soltanto liberandosi dall’illusione che ci sia una speranza, dall’alibi che rappresenta quest’idea confortevole, si può misurare il vuoto assoluto, immune da ogni possibile scelta tra bene e male, dove esplode una ferocia che lascia increduli. «Bene» e «male» sono qualifiche insensate in questo mondo che non prevede conflitti interiori, domande, via di fuga. Marco M. dice che «accade e basta». «Vuoi fare la buona vita e l’unica opportunità che hai per averla è la mala vita. Tutto qui. Così è stato per me, così è per tutti. Non hai niente e vuoi avere tutto. Vuoi l’auto più grande, il rolex più prezioso, una camicia elegante, le scarpe più lussuose, le ragazze più belle e andare al mare e alzarti all’ora del pranzo come fanno quelli - tutti, dal più "grosso" al più fesso - che sono nel giro della droga a Scampia. Epperò tu non hai dieci euro in tasca e pensi che sei un niente, che non meriti nemmeno il saluto di chi ti incontra e vuoi tutta quella roba per essere rispettabile, per sentirti vivo perché se la vita non è buona che vita è? Cominci a rubare un’auto, a rapinare un supermercato. Quegli altri, i capi, i "grossi", ti stanno a guardare da lontano e apprezzano la decisione con cui fai il tuo lavoro e il rispetto che hai per la loro autorità. Se rivogliono l’auto rubata indietro perché non possono fare brutta figura nella loro zona, gliela restituisci. Se ti chiedono di rubarne una per un lavoretto, tu gliela "regali", se sei furbo. Un giorno, il tuo miglior amico ti chiede se sapevi che, sparando al cervello di un cristiano, senti uno sfiato come in un pallone bucato e ti dici che, tranquillo, tutto è a posto, che è così che va la vita. I "grossi" ti chiedono di fare allora qualche pezzo - sì, qualche morto - e tu gliene fai anche cinque, sei e non pensi mai che più ti dai da fare più ti metti nei guai perché quelli, i "grossi", a un certo punto, non si fideranno più di te perché ormai hai imparato a sparare bene e ti possono venire in testa anche manie di grandezza e, una notte, ti manderanno sotto casa uno come te, magari al suo primo pezzo e la giostra continuerà a girare e tu sarai solo uno che, come altri prima e dopo di te, è caduto con la faccia a terra e non si è più rialzato».
«Guarda», dice Marco e mostra una medaglia che ha al collo con una piccola foto: «Questo era Pasquale». «Guarda», dice e mostra un tatuaggio sul braccio e su un fianco con quel nome. «Non posso pensare a Pasquale senza farmi venire le lacrime agli occhi. Eravamo tre amici, io, Pasquale e Nino. Siamo cresciuti insieme da sempre, eravamo alti così. Ci siamo divisi il pane, quando c’era, e una risata, quando non c’era. I "grossi" hanno messo contro Nino e Pasquale e, una notte, Nino ha aspettato Pasquale e gli ha sparato. Io allora ho capito e mi sono tirato da parte, per quel che ho potuto. Dovevo scegliere: o diventare Pasquale, stecchito, o Nino, assassino del mio sangue. Preferisco essere quel che sono e sapere che la malavita è soltanto mala vita e che la buona vita che ti promettono è una bolla d’aria. Finora mi è andata bene. Ho una mia attività commerciale e mi lasciano tranquillo, ma fino a quando durerà? Il marito di mia sorella, il padre di mio nipote è, come tutta la sua famiglia, dentro la camorra. Possono ammazzarmi solo per questo e io posso ammazzare se facessero orfano mio nipote o se venissero a pretendere i soldi per quel lavoro che mi sono costruito con fatica. Non posso dire di essere salvo. Posso soltanto sperare di esserlo un giorno dopo l’altro».
La camorra, in queste parole, non è un’organizzazione criminale, non è un ricco affare illegale, non è un "nemico" che si affronta con l’eroismo dei coraggiosi. È un pensiero. Un pensiero di affermazione di sé che rende - necessario - il dominio sugli altri e - tassativo - il possesso di quei luccicanti oggetti superflui che rendono poi superflua anche la vita. È un’idea distruttiva del corpo comunitario. Immagina che esista soltanto un codice che regola i rapporti con il mondo: il potere che hai su chi ti vive accanto; un potere da ribadire ogni giorno, pena perdere tutto, con una presenza violenta e magnificamente abbigliata. In questo mondo insensato si uccide per invidia. «Giacomino - raccontano - fu ucciso alla Sanità perché era troppo bello, piaceva a tutti e tutti gli sorridevano e lo salutavano contenti. Giulio se ne fece un’ossessione, a lui nessuno lo salutava, manco lo vedevano, era come trasparente e così, per liberarsi da quel cattivo pensiero che gli faceva veleno nel sangue, si liberò di Giulio. Gli sparò». Si fa un pezzo per pagarsi la macchina nuova e più potente. Si fa un’estorsione per comprarsi un "dolcegabbana" o un altro paio di "hogan". Si fa una rapina per comprarsi "o rolex" che costa di più. Soltanto un corpo senza vita in una pozza di sangue è realtà nella totale irrealtà che governa la vita di questi adolescenti vittime e innocenti come agnelli il giorno di Pasqua, feroci e avidi e stupidi come borghesi piccoli piccoli. C’è uno scarto incommensurabile tra la concretezza delle vite spezzate e la "bolla d’aria" in cui vivono decine di migliaia di adolescenti armati di coltello o, se vogliono, di pistola. L’atroce è l’esito dell’assoluta irrealtà di un desiderio di oggetti che solo, a parer loro, concede valore. Al possesso di quegli oggetti è appesa la loro vita, il dolcegabbana, la mercedes, la smart, il rolex, la catena d’oro, il sogno di diventare come i guaglioni che lavorano a Scampia nella droga, «loro sì che fanno i soldi e, se stai appena più su nel controllo della "piazza" di spaccio, facile ti metti tre, quattro milioni da parte in poco tempo…».
Quale nome dare a questo scarto tra un destino di morte e un’irrealtà scandalosa? Ci si aggrappa di solito alla sociologia per spiegare questa catastrofe umana; si invocano i deficit dell’economia, la debolezza del mercato del lavoro, l’impotenza di una politica fatta di parole e cucita con gli interessi privati o di consorteria. Bisogna forse avere il coraggio di parlare di antropologia. Bisogna prendere molto sul serio finalmente, e con indignazione, l’ipotesi che si è consumato in questo angolo della Penisola un «mutamento antropologico» che, a guardarlo da vicino, toglie il fiato. Anche qui, che cosa c’è di nuovo? Soltanto i poeti sono capaci di profezie e il vaticinio di Pier Paolo Pasolini ha ormai più di 35 anni. La «tribù dei napoletani» che «irripetibile, irriducibile, incorruttibile» vive nel ventre di una grande città di mare ha deciso di estinguersi, scrisse. Quelli che verranno dopo non saranno «napoletani trasformati». Saranno «altri», predisse. Sono altri napoletani, ma nessuno si illuda di poter volgere lo sguardo da un’altra parte. Quel che accade qui è affare di tutti perché - ha ragione Giorgio Bocca - «Napoli siamo noi»: questi altri napoletani annunciano altri italiani; le patologie napoletane dicono dei morbi che affliggono gli italiani.
Vincenzo Morgera e Silvia Ricciardi, che hanno costruito casa Jonathan, non hanno bisogno di lezioni di disincanto. Sono disincantati per esperienza e non si sono mai illusi di aver trovato la soluzione definitiva di quel che si definisce «reinserimento e inclusione di ragazzi a rischio penale». In un cesto raccolgono le lettere - centinaia - scritte da chi non ce l’ha fatta, e sono i più. Fino a quando sono in casa, i ragazzi sembrano poter cambiare la loro vita, aver compreso la necessità di farlo. Poi Rocco scrive: «Mi trovo in carcere perché ho fatto un’altra rapina di gioielleria e mi hanno anche sparato e ringraziando a Dio, non è molto grave…». Giuseppe si vergogna: «Scusatemi, Vincenzo, avevo dato la parola a voi che non sarei tornato dentro, non l’ho mantenuta, spero mi perdonerete… Ho solo diciotto anni e non ho mai capito niente che mi volevate bene e mi viene da piangere a pensare quel che ho gettato via. Qui non mi viene a trovare nessuno e i miei problemi in questo carcere sono molto gravi e non mi dite niente che sono finito ancora qui, sono un uomo di merda…». Eugenio non cerca scuse: «Mi brucia aver perso la vostra fiducia, ma chi fa cose brutte, si deve prendere le conseguenze anche se qui ci sono tanti pezzi grandi e io non mi trovo tanto bene…». Dice Vincenzo Morgera che soltanto il lavoro e una comunità che possa restituire identità e appartenenza, alternative all’ambiente d’origine, alla famiglia, all’identità virtuale che inseguono, può offrire ai ragazzi dannati l’opportunità di cambiarsi la vita. «Vittorio Merloni, che da queste parti ha due stabilimenti Indesit, è il primo che ha creduto al nostro progetto. Io credo che la fabbrica, il lavoro comune possa offrire un esempio credibile». Dice Vincenzo che non vuole convincere nessuno. Dice che troppe sono le cose che dovrebbe aggiustarsi, sparire o apparire dal nulla, per avere speranza. Ma la sua non è speranza, dice, è soltanto una piccola ostinata disperazione che gli impedisce di credere che non si possa almeno tentare, ragazzo dopo ragazzo, vita dopo vita. Silvia dice che Angela T, che ce l’ha fatta, forse può spiegare quanto quell’ostinata disperazione possa, in qualche caso, aver successo.
Angela è a Fabriano, al lavoro alla catena di montaggio della Indesit, 1500 euro al mese, lei che duemila euro li spendeva in un giorno nella più bella piazza di Napoli, tra Dolce&Gabbana e Vuitton e Ferragamo. Chiamo Angela. Ha una voce allegra anche se quel che racconta non lo è. «La mia famiglia, mia madre, i miei cinque fratelli, le mie sette sorelle, tutti hanno sempre spacciato eroina, a chili, a San Gregorio Armeno per conto del clan Giuliano. Ricordo che andavo ancora alle elementari e la mattina quando bevevo la mia tazza di latte prima di andare a scuola, in cucina c’era tutta una frenesia per preparare le bustine della giornata. Era il mio mondo, ci sono cresciuta dentro, non ci ho fatto mai caso, era normale. Come era normale per me, diventata più grande, spacciarla e anche farmela con un mio fratello che è poi morto di Aids. Solo quando mi hanno tolto la libertà - e, con me, alle mie sorelle, ai miei fratelli, a mia madre - ho capito che quella vita non l’avevo scelta io. Apparteneva agli altri e, senza farmi una domanda, l’avevo accettata. La domanda sarebbe stata: vuoi davvero essere così? Ci ho messo anni per farmela venire in mente così netta e affilata. Quando ci sono riuscita mi sono sentita come soffocata dalla spazzatura. Il tempo, da allora, è passato a rimuovere dalla mia testa rifiuto dopo rifiuto per fare spazio a nuovi pensieri. Modesti, ma puliti. Lavorare in fabbrica è duro, ma mi dà ordine e mi piace perché quel che mi è mancato nella mia vita precedente sono le regole, accettare che soltanto con le regole si può vivere con gli altri, sapere che gli altri possono renderti felice. I soldi sono importanti, ma i miei 1500 euro mi fanno più soddisfatta delle migliaia di euro che spendevo. Ne ho la conferma quando vado a trovare, qualche volta, mia madre. Vive di pensione, non ha più i suoi ori e i suoi gioielli e si vergogna. Povera donna, ha 73 anni e non sa né saprà mai che cos’è la vita e la libertà. Io, a volte, ora credo di saperlo».
Mi chiedo, allora: è Angela, la speranza? Può solo una piccola, giovane donna tenersi sulle spalle il peso di quella parola?
«La burocrazia ucciderà la democrazia. Albert Einstein lo andava ripetendo fin dagli anni Trenta. Era una profezia che avevamo sottovalutato e che diverrà evidente proprio negli anni Cinquanta». Mezzo secolo è, più o meno, la distanza temporale che separa la storia dalla cronaca, la memoria orale ancora calda di emozioni dalle ricostruzioni filtrate dal tempo. Italo Insolera è l´autore di un libro - «Roma moderna» - pubblicato nel 1962 e considerato da un´intera generazione un testo fondamentale per capire lo sviluppo della Capitale, dall´Unità d´Italia agli anni Cinquanta. Che pensa oggi l´architetto quando rilegge, col senno del poi, le vicende urbanistiche di quel decennio? «Certo, bisognerebbe rivedere diversi avvenimenti. Fatti ai quali, magari, avevamo dato troppa importanza si sono poi rivelati secondari. O, viceversa, altri fatti che avevamo sottovalutato alla lunga si sono dimostrati carichi di conseguenze. Tra questi ultimi metterei senz´altro, in prima fila, la nascita di una burocrazia capitolina, poco appariscente ma in grado di esercitare un suo potere autonomo e indipendente".
«Lo sviluppo della città, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, era stato un fenomeno senza precedenti. Quello che colpisce, però, non è solo la quantità, la bassa qualità o la dimensione di quegli interventi, quanto il metodo con il quale quell´espansione fu indirizzata. C´è un piano delle grandi chiacchiere, discusso ufficialmente e puntualmente disatteso. E c´è un piano ombra, sostenuto dai vecchi, grandi interessi e veicolato dalla burocrazia capitolina. Apparentemente è il consiglio comunale che decide. Ma nella pratica c´è un potere autonomo e indipendente che ora insabbia, ora tira fuori dai cassetti le soluzioni che poi vengono adottate. I giochi erano stati decisi anni prima. E le linee guida erano addirittura esplicite. Basta rileggere quello che sembrava una delle tante scartoffie abbandonate e dimenticate nei cassetti del Comune e, invece, si è rivelato il vero piano regolatore di Roma: sono delle varianti, datate 1942, apportate al precedente piano regolatore. Programmi decisi sotto il fascismo; tutti regolarmente attuati, tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Perché, mentre in consiglio comunale si discuteva del nuovo piano regolatore, nei corridoi e negli uffici c´era chi, zitto zitto, continuava a mandare avanti i progetti dei grandi proprietari».
Lo studio di Insolera è in un palazzo piazzato sull´orlo di Monteverde. Sotto le finestre, dall´alto, si vedono i palazzi di viale Trastevere. «Proprio lì sotto c´era la vecchia stazione di Trastevere, che poi è stata spostata più in là. E accanto c´era il grande spiazzo dove, quando ero bambino, si accampavano i circhi che arrivavano a Roma». Ora, al posto di quegli spazi, c´è la fila, ininterrotta, degli edifici costruiti negli anni Sessanta: una delle tante, possibili immagini di una città che cambiava volto e che oggi quasi stentiamo a riconoscere e datare. A dieci anni dalla fine della guerra, nel 1955, nel resto d´Italia si era dato l´avvio a un piano di ricostruzione rimasto fino ad allora sulla carta. Nella Capitale non ci sono state grandi distruzioni. Ma quello della casa è un problema vero, impellente. «A metà degli anni Cinquanta a Roma ci sono 55 mila persone che ancora vivono in grotte e baracche; un quinto delle famiglie romane vive in coabitazione». Non si va tanto per il sottile. E la costruzione dei nuovi quartieri - una volta sistemati gli interessi degli speculatori - trascura spesso anche i servizi più elementari. «Senza nemmeno tenere conto di altre esigenze nate in quel periodo. Si pensi alla motorizzazione di massa, che pure è un fenomeno ormai emergente, tanto che in molte strade del centro vengono adottati per la prima volta i sensi unici. Anche il sistema dei trasporti pubblici rimane quello di una volta. Basti dire che ci sono ben 25 borgate collegate alla città solo dai mezzi di una società privata. E l´espansione non penalizza solo i poveri. Si pensi al caso dei Parioli, un quartiere di livello, che triplica la densità abitativa, ma senza aggiungere nuovi servizi».
«L´inizio e la fine degli anni Cinquanta sono abbastanza definiti; anche perché, simbolicamente, il decennio si apre e si chiude con due eventi precisi: l´Anno santo del 1950 e le Olimpiadi del 1960. Il primo avvenimento urbanistico del Dopoguerra a Roma è l´apertura di via della Conciliazione. E´ come vedere la città che recita se stessa. E che, sempre attorno al 1950, comincia a trasformarsi con altre importanti realizzazioni: la Cristoforo Colombo arriva all´Eur... si inaugura ponte Flaminio... apre la nuova stazione Termini. E poi si costruiscono una serie di palazzi al Tiburtino, San Basilio, San Paolo... sulla Tuscolana, al Laurentino, a Spinaceto... Si andava veloci allora. Bisognava consegnare nei tempi. Non c´erano scuse. A Roma, del resto, esisteva un vasto proletariato edile e artigiano. E ogni palazzinaro aveva le sue squadre fidate. A suo modo il sistema funzionava. E anche la politica, con la sua logica delle spartizioni, era accorta: le opere dell´Anno santo, ad esempio, erano state affidate ai tradizionalisti, agli accademici; le realizzazioni delle Olimpiadi erano andate ai progressisti razionalisti; le case popolari agli architetti di sinistra. L´idea guida che condiziona anche i grandi interventi per le Olimpiadi del Sessanta rimane però sempre la stessa: realizzare una serie di opere che obbligheranno qualsiasi successivo piano regolatore a riprendere le linee decise nel 1942, orientandolo verso i grandi patrimoni fondiari».
«Il problema non è solo urbanistico. C´entra, per l´appunto, come diceva Einstein, la democrazia. Le denunce di quanto stava accadendo non mancavano. Ricordiamo, una per tutte, la campagna dell´Espresso: «Capitale corrotta, nazione infetta». I progetti, anche se corretti, venivano però regolarmente disattesi e affossati sotto una montagna di varianti e di modifiche. E questo, alla fine, ha determinato come un senso di impotenza. E´ vero che all´epoca c´erano meno cose da seguire; ma fino agli anni Cinquanta i dibattiti che si svolgono nel consiglio comunale vengono regolarmente riportati dai giornali. La gente legge, discute. C´è un diverso rapporto tra cittadino e istituzioni. Se in consiglio si discuteva della borgata Gordiani e si scopriva che quell´intervento nascondeva una speculazione per favorire questo o quello, il giorno dopo se ne parlava. Negli anni Sessanta questa attenzione si spegne. E si perde definitivamente quello che era un clima davvero diverso, dove, tanto per cominciare, era facile fare le cose normali. Ti sentivi con un amico e ti davi appuntamenti oggi impensabili: ci vediamo tra mezz´ora a piazza Navona. E c´era un modo diverso di lavorare. Non solo perché non c´era il computer e si disegnava a matita e inchiostro di china e si usavano ancora le cianografie. C´era più confronto, più dibattito. Quando bisognava presentare un progetto per qualche concorso era assolutamente normale che, il giorno prima della consegna, ci si vedesse con molti dei colleghi che partecipavano allo stesso concorso e si confrontassero i rispettivi progetti. Ci si aiutava, ci si consigliava: attento a questa tavola. Si migliorava e ci si arricchiva a vicenda, anche perché, in fondo, ci si conosceva tutti. Io mi sono laureato - la mia laurea è firmata da Piacentini - nel 1953. Sa in quanti siamo usciti, quell´anno, dalla facoltà di Architettura? In 23».
"Ora togliete le colonne di plastica"
Carlo Alberto Bucci – la Repubblica, ed. Roma, 2 settembre 2007
La festa dei vip è finita da mesi, ora è tempo che anche le colonne di Valentino lascino il tempio di Venere e Roma. «Ho dato da tempo disposizione ufficiale di procedere alla loro rimozione», la risposta secca del Soprintendente Angelo Bottini. Che per domani attende l’arrivo degli operai dello scenografo Dante Ferretti, o di quelli della maison di Valentino: dovranno smontare i luminosi cilindri in vetroresina dal podio dell’edificio sacro che s’affaccia sul Colosseo. Proprio la base del tempio - sulla quale hanno banchettato i 400 invitati nella cena di luglio - è del resto al centro degli indispensabili interventi di consolidamento per contribuire ai quali Valentino ha donato 200mila euro. Criticato dall’ex soprintendente La Regina per l’mpatto sul monumento antico (che non è accessibile al pubblico), il colonnato è stato difeso dall’archeologo Carandini, «a patto che sia tolto in tempi ragionevoli». Lo stesso Bottini pose un limite all’uso del tempio che dal ministero gli era stato chiesto di concedere: «Sì, solo perché è per un evento eccezionale, irripetibile ...».
Ai Fori restano le false colonne fino a ottobre
Renata Mambelli – la Repubblica, ed. Roma, 7 settembre 2007
Per ora restano. Le colonne in vetroresina che fanno bella mostra di sé sopra i ruderi del Tempio di Venere, in faccia al Colosseo, non saranno smantellate con la fine dell’estate, come aveva dichiarato il ministro dei Beni Culturali Rutelli. Nonostante le polemiche suscitate e la richiesta di rimozione del sovrintendente Bottini, l’installazione curata dallo scenografo Dante Ferretti nata come sfondo per la cena di gala per i 45 anni della maison di Valentino verrà prorogata. «Si andrà avanti sicuramente per tutto settembre, forse fino ai primi di ottobre», ci spiega la dottoressa Silvana Rizzo, consigliere culturale del ministro, che anticipa anche nuovi eventi che si terranno nella cornice delle colonne: sono in programmazione per gli inizi di ottobre due o tre incontri aperti al pubblico, a numero chiuso, con i più illustri studiosi che stanno lavorando ai restauri del Palatino.
«Non capisco perché tante polemiche sulle colonne del tempio di Venere», continua la dottoressa Rizzo, «Si tratta di una scenografia, tra l’alto di un premio Oscar, che si presta al gioco di far vedere com’era un tempio nell’antica Roma. Durante questi mesi abbiamo avuto molti apprezzamenti, su richiesta sono state tenute diverse visite guidate. Fare un allestimento così solo per una serata sarebbe stato uno spreco di denaro, in questo modo si è offerto qualche cosa a tutti i romani». Quanto ai lavori di consolidamento e agli scavi nell’area del tempio, ai quali Valentino ha contribuito con 200 mila euro, se non sono iniziati non è colpa delle colonne di Ferretti: «Per gli scavi, che saranno condotti dall’Università La Sapienza in collaborazione col Ministero dei Beni Culturali e con la Sovrintendenza, bisogna aspettare l’erogazione dei fondi», spiega ancora la dottoressa Rizzo, «non se ne parlerà prima dell’inizio dell’inverno». E poi, aggiunge, «possibile che con tutti gli orrori che ci sono ai Fori Imperiali, compresi i falsi gladiatori e i furgoni abusivi e no che vendono panini, quello che sembra dare più fastidio siano proprio queste colonne in vetroresina?»
La breve nota di domenica scorsa sembrava quasi scontata, nella sua ragionevolezza, una “non” notizia, appunto: finita la festa, anzi la “celebration”, spentisi gli echi accortamente rimbalzati per giorni e giorni sui media di mezzo mondo delle crapule di vipperie e politicanti assortiti, come si conviene, occorrerebbe “sparecchiare”. In questo caso, alle desuete regole di educazione e buon gusto, si aggiungevano, en passant, le determinazioni del responsabile istituzionale dell’area in oggetto, il Soprintendente Archeologo di Roma. Ma si sa, viviamo in tempi di flessibilità giuridica e relativismo culturale latamente inteso: l’opinione dell’attuale Soprintendente, di quello precedente e di un cospicuo e sempre più perplesso numero di studiosi non solo nazionali è sembrata forse frutto di rigidità burocratiche un po’ bacchettone. Così appare per lo meno dal tono di quasi disarmante meraviglia che traspare dalle dichiarazioni riportate della consigliera Rizzo, talmente risibili nei contenuti culturali e nell’innocente inconsapevolezza dei meccanismi istituzionali da suscitare, lì per lì, solo un sorriso distratto e indulgente nei confronti dell’evidente stress da rientro postvacanziero.
Non ad altro si potrebbero addurre le analogie acrobatiche fra Dante Ferretti e l’architetto del tempio di Venere, gli involontari ossimori degli “incontri aperti” a “numero chiuso”, la trasmutazione degna delle migliori alchimie di un evento di marketing commerciale divenuto operazione didattica di successo. A ulteriore scusante della consigliera (che, è noto, è mestiere ingrato, di incerti destini e labili contorni tematici) si può d’altro canto aggiungere la consacrazione delle celebrazioni valentiniane ad opera del Sovraintendente ai Beni Culturali del Comune di Roma che nella prefazione culturale al catalogo della kermesse in Ara Pacis abbina il sarto di Vigevano allo scultore augusteo: “due classicità a confronto” (sic!).
E se le colonne in vetroresina, pare di capire che, forse, fra un mese, verranno rimosse, l’allestimento di decine e decine di manichini che circondano l’altare romano si prolungherà ancora almeno fino alla fine di ottobre, soffocando fin quasi all’asfissia il monumento, ormai divenuto accessorio e incongruo, con chilometri di chiffon e quintali di paillettes e perline (come quelle dei conquistadores…) e nascondendo per mesi parte dell’apparato didattico (il plastico e le copie di ritrattistica giulio-claudia).
La sortita settembrina, però, ad un occhio attento rivela anche altri elementi: ad esempio inaugura un nuovo stile di comunicazione ministeriale, più rilassato (in ogni senso), per cui le iniziative del Mibac relative alla più famosa area archeologica mondiale sono anticipate e pubblicizzate a mezzo stampa anche se in contrasto con quanto stabilito dal supremo responsabile della tutela dell’area stessa.
E che stile: quelle poche righe sono davvero un concentrato di equivoci e ambiguità forse non del tutto inconsapevoli, come quella di accreditare a Valentino, novello mecenate, la sponsorizzazione dei restauri e degli scavi archeologici. In realtà i 200.000 euro (pagabili in comode rate diluite in molti mesi) sono il prezzo stabilito per l’uso privato del monumento e del sito, cifra che, considerati i tempi dilatati (ma nel contratto non erano stabilite date certe?) e il ritorno mediatico ottenuto, si può a pieno titolo dichiarare come molto modesta. Ad una cena privata con celebrità di vario conio e origine erano funzionali le colonne di Dante Ferretti, non certo ad una ricostruzione filologica per visite didattiche. All’opposto, il perdurare dell’allestimento avrebbe richiesto una adeguata segnalazione di segno contrario, ai visitatori ignari e spesso sconcertati.
E al limite del comico, infine, appare il parallelismo fra il colorito teatrino di gladiatori e ambulanti che circonda i luoghi della romanità per il sollazzo e il dileggio dei turisti e le scenografie allestite al tempio di Venere sulla base di accordi istituzionali sottoscritti al massimo livello di responsabilità istituzionale.
Di fronte a simili enfatiche smargiassate mediatiche, contrabbandate per operazioni culturali, seppur mitridatizzati dall'ossessivo e stucchevole ritornello del "bene culturale come risorsa", riaffiorano alla memoria le parole, fastidiosamente attuali, di Cederna sarcastico censore dell'uso retorico e superficiale della romanità che bollava come inequivoco sintomo di: "ripiegamento su un assetto politico-economico arcaico, rifiuto della cultura e della tecnica, di ogni pianificazione nell'interesse pubblico" (Mirabilia Urbis, X). m.p.g.
Sulle "Valentiniadi" in eddyburg