Il referendum si terrà nel giugno del 2008. Esso riguarda l’abrogazione della cosiddetta “legge salvacoste”. La legge (n. 8 del 25.11.2004) vincolava all’inedificabilità una fascia di 2 km di costa fino all’approvazione di un piano paesaggistico che confermasse e articolasse la tutela del paesaggio. In attuazione alla legge la Regione ha approvato un primo stralcio del Piano paesaggistico regionale esteso a una corposa fascia costiera, ed ha in corso la sua estensione all’intero territorio sardo.
È dubbia l’efficacia giuridica sulla tutela che avrebbe una vittoria del referendum: il piano ha ormai pienamente sostituito il contenuto della legge. Certo che avrebbe una notevole portata politica, poiché sarebbe considerata uno smacco per il presidente Renato Soru e la sua giunta, e soprattutto per l’azione di energica e lungimirante tutela del paesaggio e dell’ambiente che essi hanno condotto. Chi apprezza quell’azione è sollecitato fin d’ora a scendere in campo per difenderla.
Perché in Sardegna, ai piani alti del potere, il clima non è bello. È stata recentemente emessa una sentenza del Tar sul piano paesaggistico. Essa è stata presentata dalla stampa locale come un “affossamento del piano” e, nel più dolce dei titoli, come un “siluro contro di esso”. Nessuno ha informato che la sentenza respinge 20 motivi di ricorso contro il piano, limitandosi a dar ragione al ricorrente su un aspetto del tutto marginale. Nessuno ha informato che la massima parte della sentenza è dedicata a confermare in pieno le scelte compiute dal piano e a rafforzarne la legittimità con argomenti di diritto e di merito.
Distruggere la difesa del paesaggio sembra essere divenuto l’obiettivo di poteri che, se nascono dagli interessi immobiliari, vanno ben al di là al di là di essi. La falsificazione dei dati oggettivi è uno delle armi più insidiose adoperate per difendere i propri interessi.
Della Toscana porto sempre nella memoria e nel cuore le immagini del borgo di Castelfalfi nei pressi di Montaione. A lungo ho creduto che questo luogo – fortunatamente marginale ai grandi flussi turistici – avrebbe resistito, conservando il senso della sua storia, restio a svendersi. Magari riacquistando una comunità di abitanti legati al paesaggio fruttifero ( dieci chilometri quadrati di vigne, ulivi, bosco).
D’altra parte si avverte la stratificazione di luogo conteso; si sa delle incursioni per prenderselo Castrum Faolfi, degli sfregi subiti ( dalla chiesa di San Floriano per mano dei soldati di Pietro Strozzi nel Cinquecento). Però ho sempre pensato di ritrovarli intatti Castelfalfi e i profili dei colli circostanti. Difficile immaginare di togliere o aggiungere qualcosa a un posto come questo, come alle linee dei palazzi nei canali veneziani o al tessuto monumentale di Roma.
Qualche timore dopo le prime notizie di passaggi di proprietà della tenuta. Visto il secondario interesse degli acquirenti per il suo passato legato alla campagna e le indiscrezioni sull’obiettivo di trasformarlo in un albergone. Nello sfondo il proposito di liberarlo dai residenti nelle case quattrocentesche tra il castello e la villa , da trasferire nel borgo nuovo, nel crinale che guarda le balze di Montaione. Buon pretesto. L’argomento degli abitanti da sistemare serve per far passare incrementi di volume senza tante storie.
Vicissitudini varie, dovute alla scarsa solidità delle imprese , hanno rallentato l’operazione. Il borgo è oggi deserto. Tutto è disanimato, in quel clima sospeso che si registra nei luoghi in attesa da anni di più redditizie condizioni. C’e però un campo da golf tra le colline,interferenza fastidiosa nello sguardo che si allunga verso Volterra. Del borgo nuovo un abbozzo, due blocchi edilizi che ammiccano all’architettura del borgo storico, tavoli e sedie bianche in pvc in ogni terrazzo. Di recente l’annuncio: si riparte in grande a cura del supergruppo tedesco TUI che ha rilevato quasi tutto; e i segni di nuova efficienza si intravedono, un edificio è stato rilevato nei dettagli, una ditta di pulizie sgombera i piani terra dell’albergo, di fronte una vetrina spolverata che espone prodotti della fattoria. Spicca un edificio nuovo, all’ingresso un plastico, cinque metri quadri inscatolati in plexiglass per spiegare il masterplan “ Toscana Resort Castelfalfi”, maBstab 1:2000.
| foto di Sandro Roggio |
La presentazione del progetto è fissata per domenica 21 ottobre, a Montaione con il patrocinio del Comune. Ci sarebbe da aspettarsi una presenza vasta di estranei (azzardo: della stampa estera, data l’importanza translocale dell’oggetto). Invece l’atmosfera è quella intirizzita e sonnolenta, da strapaese in attesa dell’ ora di pranzo. C’è il Garante della Comunicazione della Regione, che autocertifica l’imparzialità del messaggio che per cominciare manda sullo schermo: un lungo spot su Castelfalfi- TUI, molto apprezzato dall’imprenditore che si complimenta. Poi preambolo della sindaca, la presentazione del progetto, ancora la sindaca e infine un commento del Garante che tira fino a mezzogiorno, quando si capisce – dai profumi d’arrosto – che non si potrà contare a lungo sull’attenzione della platea. L’ illustrazione è neutrale (?), si sottolinea continuamente. Però si omettono le informazioni sulle quantità di volume in progetto ( e sul numero di abitanti previsti) su cui neppure il depliant, a spese dell’impresa, fa chiarezza. Si dice che il progetto mira – potrebbe essere altrimenti ? – a produrre vantaggi alla comunità locale impoverita (?) per cui occorre opporsi al degrado ( al degrado?) del paesaggio dato che qui l’agricoltura langue (langue?). E si descrive il vecchio borgo e tutto il patrimonio edilizio dell’ appoderamento, come se TUI avesse in carico un cumulo di macerie e non un capolavoro.
Nel depliant disegni acquerellati impastano il nuovo ( quattro villaggi e un “Robinson club”) con il vecchio “da salvare”. Ma, a pagina 20, compare inopinatamente la foto del casale Poggiali da demolire – gulp! – per non impicciare la piazza di uno dei villaggi in progetto.
Per rimediare al “degrado diffuso” non basta un cauto recupero dell’esistente e il potenziamento dell’azienda agricola , ma è indispensabile un disinvolto investimento edilizio. La cura per rinvigorire la civitas e l’urbs di Castelfalfi consiste insomma nel raddoppio della volumetria che passerebbe da 230mila ad almeno 400mila metri cubi, anche case da vendere parrebbe (ma non si dice quante in rapporto alle attrezzature ricettive ). Un insediamento da 5-6000 utenti (?). Infrastrutture e parcheggi per un migliaio (?) di auto e bus, e il raddoppio del campo da golf , 160 ettari, che così com’è – dice l’ impresa – è inadeguato alla bisogna. “Saremo attenti a fonti energetiche e risorse idriche!” (ma silenzio sulla circostanza che i campi da golf di acqua ne consumano uno sproposito).
In tutto si spenderanno, ecco il dato sbandierato, 300milioni di euro ( due terzi in edilizia). Il Comune ha deliberato l’assenso in linea con le generiche indicazioni del Piano strutturale ( che consente un incremento di volume non superiore al 10% dell’esistente), dando per scontata l’approvazione di una variante al Regolamento urbanistico, pure in presenza di un vincolo idrogeologico nelle aree di espansione. Ma neppure un accenno a vincoli superiori a presidio del paesaggio introdotti dal Codice Urbani.
Sembra di non essere nella Toscana che dava esempi di buon governo del territorio, con quell’eredità che si ritrova nella cura dei luoghi, esemplarmente praticata e nelle teorie illustri (dagli affreschi di Ambrogio Lorenzetti alle lezioni di Edoardo Detti).
Colpisce la sottovalutazione di un’operazione che intaccherà e falsificherà profondamente il paesaggio di Castelfalfi, perché non c’è precauzione che valga per evitare la botta di oltre centomila mc in quel delicato contesto. Il buon affare lo farà TUI, questa è la sola certezza: ci vuole poco a capire che non c’è convenienza pubblica ad omologare un luogo autentico agli standard dell’industria delle vacanze, come sanno i turisti che scelgono la Toscana.
Stupisce che questa delicata fase informativa di avvio, da cui dipendono le successive, sia di parte e sfuggente, e la sola preoccupazione manifestata con nettezza quella di rendere agevole il percorso. Bisognerebbe invece dire alla platea che questi modi di trasformazione trovano molte opposizioni, ormai anche nei luoghi del sottosviluppo (per molto ma molto meno, a Monticchiello, non lontano da qui, è intervenuto il ministro Rutelli). Un processo partecipato non può che configurarsi come un dibattimento: se non proprio un’accusa e una difesa a confronto, almeno la presentazione degli svantaggi senza sottovalutazioni. Che dirà la Regione di tutto questo ? Non dovrebbe avere difficoltà a spiegare, tempestivamente, che specialmente da queste parti lo sviluppo è assicurato dalla tutela dei luoghi. Ma nei successivi incontri, secondo uno svolgimento prevedibile, solo Italia Nostra, Wwf e Legambiente avanzano forti riserve.
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Vedi anche Difesa del paesaggio o monocultura turistica?, sul medesimo numero di Carta
CAGLIARI, 22 NOVEMBRE 2007 - Dopo Legambiente, che ha lanciato tra i propri soci un coordinamento per la difesa della legge Salvacoste, ora anche il Wwf Sardegna si mobilita e chiede una campagna d'informazione sui contenuti del piano paesaggistico.
I Sardi, secondo l'associazione, devono comprendere il senso e l'importanza del Piano e delle normative di tutela e conservazione dell'ambiente, del paesaggio e della biodiversità della Sardegna.
"La comunità sarda sarà chiamata ad esprimersi su una materia importante - ha dichiarato il Presidente regionale del Wwf Sardegna, Luca Pinna - ma al tempo stesso estremamente complessa e articolata. Ciò rende indispensabile un'adeguata campagna di informazione e sensibilizzazione con interventi capillari sul territorio e rivolti a tutte le categorie sociali.
Negli ultimi tempi, infatti, il senso ed i contenuti del Ppr, come quelli di altri provvedimenti finalizzati al buon governo del territorio - ha aggiunto il presidente del WWF - sono stati comunicati all'opinione pubblica in maniera parziale e distorta, soprattutto da parte di chi, difendendo interessi di varia natura, ritiene che si possa creare sviluppo in Sardegna svendendo le coste, il paesaggio ed i valori della biodiversità. I sardi devono invece comprendere che oggi è importante preservare, tutelare e valorizzare l'identità ambientale, storica, culturale ed insediativa del territorio dell'isola a vantaggio di uno sviluppo più sostenibile e duraturo".
Il Wwf, che sin dall'inizio ha sostenuto con forza il Piano Paesaggistico e la sua applicazione, nel ribadire il proprio supporto in difesa dell'importante strumento legislativo, chiede che sia proprio la Regione Sardegna a farsi carico dell'avvio della campagna informativa, mettendo in campo risorse umane e finanziarie sufficienti a garantire la massima efficacia degli interventi di comunicazione
I toscani son fumantini e facilmente la polemica con loro volge in aceto. Se ne è accorto Vittorio Emiliani, il quale, dopo una brillante carriera giornalistica, ha dedicato la seconda parte della sua esistenza all’ambientalismo e alla difesa della bellezza, dando vita, appunto, ad un comitato che si richiama espressamente a questo nobile fine. E, come poteva, partendo da questo assunto, non scontrarsi con alcune brutture inflitte alla più bella delle regioni italiane? La sua denuncia non è, però, piaciuta agli amministratori fiorentini, così come non era piaciuta quella del professor Asor Rosa quando aveva protestato per la sconcia lottizzazione di Monticchiello e per l’allargamento di una fabbrica di laterizi nel bel mezzo di una zona protetta dall’Unesco.
Peraltro Emiliani ha parlato nel quadro di un convegno sulle devastazioni territoriali avvenute in tutta Italia nell’ultimo quindicennio durante il quale sono stati "divorati" altri 3 milioni 663 mila ettari di verde, una superficie pari al Lazio e all’Abruzzo uniti, con un consumo del territorio senza eguali in Europa. Vi sono ormai regioni, come il Veneto e la Liguria, quasi interamente ricoperte di cemento e asfalto. Colpisce, inoltre, che, nel contempo, la crescita esponenziale (+ 21%) dell’edilizia privata sia correlata al crollo dell’edilizia pubblica e sociale. Quindi si "consuma" il suolo a solo vantaggio della rendita mentre restano con la fame di casa giovani coppie, immigrati, anziani impoveriti. Anche questo è un primato negativo del nostro Paese che ha il 4% di alloggi sociali sul totale delle abitazioni nei confronti del 31% del Regno Unito, del 38% della Francia, del 39% di Austria e Svezia e di ben il 55% della Germania. Inoltre in questi paesi una apposita legislazione obbliga e/o incentiva per le nuove costruzioni l’utilizzazione delle cosiddette brown field (ex aree industriali, strutture edilizie degradate, ecc.). In Inghilterra una legge nazionale impone addirittura di allocarvi il 70% di ogni nuova costruzione (il sindaco di Londra sta arrivando al 100%).
Vorrei, però, tornare al discorso sulla Toscana la quale, essendo una delle regioni più belle del mondo, suscita sensibilità più vigili che per altre, come argomenta Emiliani indicando ad esempio negativo – dopo Monticchiello, l’Argentario, Pienza - altri casi come la gigantesca cantina alle porte di Capalbio e il maxi parcheggio che incombe sul borgo medievale, le lottizzazioni di Poggio del Leccio e di Casole d’Elsa, ecc. Ma quel che suscita allarme, ben oltre i singoli casi, è la delega affidata in ultima istanza ai Comuni in merito alla difesa del paesaggio. Così, con una risibile interpretazione della «democrazia partecipativa», si è non solo abrogato l’art.9 della Costituzione secondo cui «la Repubblica tutela il paesaggio» (non certo i comuni), ma si è innescato un diffuso conflitto d’interessi: gli enti locali, sempre a corto di mezzi, sono invogliati a introiti aggiuntivi, attraverso concessioni edilizie, spese di urbanizzazione, ecc. tanto più che hanno ottenuto di usarli come spesa corrente, cosa che la vecchia legge Bucalossi vietava. Una pratica che può invogliare in qualche caso anche a finanziamenti illeciti, di partito o personali.
Purtroppo a Firenze ci si è inalberati per la denuncia. «Non capisco questo accanimento contro la Toscana», ha scritto sull’Unità l’assessore regionale al Territorio, Riccardo Conti, contestando i dati Istat riportati da Emiliani. In conclusione, però, affronta meritoriamente quello che a suo avviso (e anche a mio) è il punto politico centrale: «Vogliamo una conservazione attiva (attenzione all’aggettivo, ndr) del nostro territorio. Quello che non vogliamo è che si affermi una idea della Toscana come un’arcadica regione residuale. buona solo per i fini settimana di ospiti illustri. Siamo una complessa moderna regione europea». Affermazione che rivela un pernicioso errore ideologico derivante dalla ottocentesca «religione del Progresso industriale». Oggi in Europa l’icona delle ciminiere e degli opifici è, invece, resa sbiadita dalla globalizzazione. Le fabbriche del mondo saranno sempre più in Cina, in India, in Indonesia, in Brasile. In Occidente subentrerà, per chi saprà raccogliere la sfida, l’impresa immateriale, tecnologica, informatizzata. In questo quadro l’Italia possiede un solo bene insostituibile, non scalfibile dalla concorrenza, il territorio. Ogni ettaro distrutto è una picconata contro noi stessi. Chi non lo capisce si comporta come i talebani che fecero saltare i Buddha di Bamyan in nome dell’islamismo puro e duro.
Nota: per capire meglio alcune affermazioni e risposte di Mario Pirani, si vedano almeno gliinterventi a cui direttamente si riferisce, ovvero quelli dell'assessore toscano Riccardo Conti, e di Vittorio Emiliani, entrambi disponibili qui su Eddyburg (f.b.)
«Non escluse edificazioni sulla collina»
Adriana Comaschi – l’Unità, ed. Bologna, 18 novembre 2007
Il PSC non esclude «una possibilità edificatoria». È il cuore dell’argomentazione con cui il Tar dell’Emilia Romagna ha bocciato la variante di tutela della collina del Comune di Bologna. La stessa che ha bloccato un residence da 49 alloggi dell’imprenditore
Minarelli, che oggi minaccia di «rivalersi» su palazzo d’Accursio. Una bocciatura a cui è seguita quella del Consiglio di Stato. Per l’assessore all’Urbanistica Virginio Merola quella del Tar è «una sentenza incomprensibile»: la variante non sarebbe solo di tutela come obiettato dal tribunale ma «urbanistica» a tutti gli effeti. E si appoggerebbe al Ptcp della Provicia, che sulla collinea prevede appunto una tutela specifica.
Si è già detto che la misura del Comune è per il Tar «intempestiva» e dunque «illegittima», perché anticipa i contenuti del vero strumento abilitato a dettare le tutele, ovvero il Psc. La lettura integrale del testo però evidenzia come il tribunale punti il dito soprattutto sul carattere «provvisorio» della variante. «Non si è in presenza ... di una variante diretta a dettare una disciplina potenzialmente stabile del territorio - si legge infatti - ma di una misura preventiva e provvisoria, come rilevato dalle stesse difese comunali, che non escludono una possibilità edificatoria al momento di adozione del Psc e degli altri strumenti attuativi con i quali saranno effettuate le nuove scelete urbanistiche comunali». In altre parole, è lo stesso Psc a non dare garanzie certe sulla linea anticipata dalla variante. Fermo restando che il solo richiamo al Psc, oltretutto non ancora «formalmente adottato», è di per sé insufficiente. In effetti, la sentenza sottilinea come non vi siano altri riferimenti normativi a dare “consistenza” alla variante sulla collina. Non basta infatti il richiamo al Ptcp, visto che questo «al punto 7.3 non pone un vincolo assoluto di inedificabilità nelle zone di particolare interesse paesaggistico-ambientale».
È su questo che insistono anche l’architetto Pier Luigi Cervellati, l’ex sindaco Guido Fanti e la docente di Geografia all’Alma Mater Paola Bonora, che già contestarono il via libera del Comune a un campo da golf da una buca in collina. Ora lanciano un appello alla Regione, perché «esca dal suo sonno», per dirla con Fanti, e intervenga con un richiamo forte al Piano paesistico regionale che solo può dare una valida base giuridica alla tutela della collina. L’altro appello è al Comune, perché al di là dello scontro in atto sul residence a Domizzola torni a porsi il problema della tutela «con un disegno complessivo della città che oggi manca - nota Fanti -, si agisce in modo settoriale».
Un esempio? La tutela della collina per l’ex sindaco fa parte di «una più generale tutela del centro storico». Tutela che viene meno quando si stende l’asfalto in Strada Maggiore per il passaggio del Civis, che secondo Cervellati «stravolgerà completamente la funzione» del centro. sempre più simile a «un supermarket». Insomma «prevale una logica di frammentazione, anche nel Psc: dividere Bologna in 7 città è solo retorica», attacca Bonora. Senza contare che «il Psc non può tutelare la collina perché è stretto nei confini comunali - ricorda Cervellati -, non prende in considerazione l’area metropolitana».
Se questo è il quadro, inutile andare all’iniziativa pubblica sulla collina del 20, promossa da Merola: «La partecipazione non si costruisce a giochi fatti». Piuttosto, Fanti guarda «con interesse al dibattito che si è aperto in maggioranza proprio in questi giorni, da qui si capirà se veramente si vuole cambiare strada, correggere il tiro». Sulla colilna e sul Civis. E le penali da pagare per interrompere i lavori del tram? «Distruggere l’immagine e l’identità di Bologna costa di più - nota l’ex sindaco - dei milioni da sborsare per gli errori fatti».
I passaggi più significativi della sentenza
Adriana Comaschi -l’Unità, ed. Bologna, 18 novembre 2007
La sentenza n.1667 con cui il Tar boccia la variante comunale sulla collina parte da una premessa: «L’oggetto del presente giudizio è costituito dalla legittimità o meno degli atti impugnati e delle motivazioni indicate quali ragioni ostative dell’intervento edilizio in questione. Nessun rilievo hanno pertanto le considerazioni difensive dell’amministrazione comunale che», si legge, «si presentano come una inammissibile integrazione postuma dei provvedimenti impugnati». Altro punto contestato: la variante del Comune «precisa che la scelta effettuata costituisce una “misura di salvaguardia nel percorso in atto di elaborazione della nuova pianificazione urbanistica (Psc, Poc e Rue)”». Insomma la variante ha carattere provvisorio, è «tale da non pregiudicare la pianificazione in via di elaborazione». Il Comune difende poi la variante come «urbanistica» a tutti gli effetti: il Tar invece rileva come «la qualificazione formale dell’atto quale misura di salvaguardia è più volte contenuta nella deliberazione stessa».
Sentenze e difesa della collina
Vittorio Emiliani -l’Unità, ed. Bologna, 18 novembre 2007
La situazione della collina bolognese è unica in Italia. Lo si constata ad occhio nudo ogni volta che si passa da Bologna in treno o in autostrada. Il suo paesaggio verdeggiante non ha subito manomissioni. Per contro il cemento ha invaso da tempo i Castelli romani, ha reso agghiacciante lo sfondo di Genova e falcidiato il verde di quella Napoli che Stendhal definiva «indiscutibilmente la più bella città del mondo, con tanta campagna dentro». Né è andata granché meglio nella collina torinese. Dunque l’atto di coraggio compiuto, tanti anni addietro, dalle giunte comunali guidate da Dozza e da Fanti, con gli assessori Sarti e Cervellati, rimane nella storia dell’urbanistica italiana come un fatto positivo rarissimo di cui essere ancor oggi orgogliosi. E da difendere come patrimonio paesaggistico, naturalistico, ambientale di tutti.
Comprendo bene quindi come si rimanga disarmati di fronte alla sentenza del TAR e del Consiglio di Stato sostanzialmente favorevoli (bando alle sottigliezze giurisprudenziali) ad un progetto di residence che costituisce il "grimaldello" col quale può saltare la tutela pluridecennale della collina bolognese. Con l’argomentazione davvero speciosa che la giunta Cofferati ha ecceduto in zelo presentando troppo in anticipo la variante in difesa della collina medesima e, ancor più, violando un diritto acquisito dai privati che non si vede quale fondamento abbia.
Ma la “questione collinare” è diventata anche argomento per una arroventata polemica fra due urbanisti, entrambi ex amministratori bolognesi di notevole peso, Felicia Bottino e Giuseppe Campos Venuti, sulla qualità della pianificazione urbanistica: su quella vecchia o tradizionale, dirigistica, su quella nuova, condivisa con le forze economiche, sociali, culturali. L’impressione che ho io è che la prima non abbia dato i risultati sperati (però per la collina bolognese li ha dati) soprattutto perché essa è stata spesso tradita - come lo stesso Piano paesistico del 1986 - a livello di attuazione con l’arma delle varianti e che la seconda porti in sostanza all’urbanistica contrattata la quale, a sua volta, conduce al "paesaggio negoziato" (si salvano quelli belli e integri, pochi ormai, e per gli altri…si negozia).
Sono soltanto un giornalista appassionato di questi temi e problemi e però la vedo così. Come vedo l’Emilia-Romagna seminata di gru, in testa ai permessi di costruzione edilizia assieme a Lombardia e Veneto, fra le prime nei consumi di suolo e quindi di paesaggio, divenuti da noi divoranti, con una riduzione della superficie ancora libera del 22 per cento soltanto nel quindicennio 1990-2005, alla pari con la Sicilia (dove, certo, l’edilizia abusiva se ne "mangia" un altro bel po’ di ettari ex agricoli o a verde) e appena dopo la Calabria.
Insomma, la battaglia per salvare la collina bolognese da asfalto & cemento mi sembra di quelle emblematiche se non vogliamo giocarci nella regione quel po’ che resta di paesaggio agrario, storico e naturalistico alle spalle di un Adriatico integralmente costruito e quasi senza più dune, da Cattolica ai Lidi Ferraresi.
I Comuni che fanno bene il loro mestiere tutelando come quello di Bologna la collina verdeggiante o, come quello di Verucchio (Rimini), collina e archeologia, dovrebbero venire premiati anziché paradossalmente puniti dagli organi della giustizia amministrativa.
Continuo a non capire un certo accanimento contro la Toscana portato avanti anche da Vittorio Emiliani. In questi giorni si è tenuto banco con la divulgazione di dati Istat, ci pare non sempre correttamente interpretati, sul consumo di suolo in Italia, con una particolare enfasi nella nostra regione. Dati che poi, con qualche variazione contingente, vengono replicati su interventi, comunicati e siti web. In quei dati la Toscana risulta al dodicesimo posto nella classifica nazionale. Non è una posizione che dovrebbe far gridare allo scandalo.
Capisco però ancora meno quell’accanimento alla luce dei dati che abbiamo a disposizione sul reale uso del suolo nel nostro paese. E questi di più corretta interpretazione.
C’è un programma di rilevamento satellitare infatti, si chiama Corine, che trasforma in statistiche ragionate i dati forniti dal satellite riguardo l’uso del suolo.
Sono così difformi e incommensurabili rispetto a quelli dei comitati e di Vittorio Emiliani, da averci indotto a fare diverse verifiche prima di uscire con questo commento.
La rilevazione satellitare compiuta sulla Toscana nel 1990 e nel 2000 (altre più recenti non se ne danno: è imminente quella di aggiornamento alla situazione attuale) ci dice che il «consumo di suolo» tra il ’90 e il 2000 è stato di 8135 ettari. Che sono tutto meno che pochi: ma non sono i 150 mila denunziati da Emiliani. Una discrasia enorme. Che il satellite sia passato per sbaglio da un’altra parte? Ma ci dice anche che il peso dell’urbanizzato in Toscana è pari al 4.1% dell’intero territorio regionale molto al di sotto della Lombardia (10.4%) e del Veneto (7.7%) solo per prendere due regioni di un certo rilievo nel Nord.
L’uso del suolo al 2000 vede infatti una Toscana con 2 milioni e 298 mila ettari di superficie, 1 milione e 37mila ettari di territori agricoli, 1 milione e152 mila ettari di territori boscati, 8.297 ettari di corpi idrici, 6.017 ettari di zone umide, e finalmente i famigerati spazi, suoli e terreni destinati all’edificazione: cioè 93.657 ettari di territori «edificati» a vario titolo (case, villette, certo, ma anche centri commerciali, zone industriali, reti di comunicazione, zone estrattive, discariche e cantieri cosi come tutto il verde urbano) che corrispondono al 4% del totale del territorio toscano.
Ciò detto, nulla toglie al fatto che anche la Toscana sia stata coinvolta, tra il 2000 e il 2005, nel boom edilizio che ha caratterizzato l’economia italiana in questi anni: ma con una incidenza che non ha mai comunque superato il 5% dell’intera edificazione nazionale. Inoltre, fatto 100 lo stock di edificato esistente in Italia, la Toscana vi contribuisce per il 6,6% (analisi dei dati Istat sui permessi a costruire). Fatto 100, invece, lo stock di nuova edificazione, la Toscana vi contribuisce per meno del 5%. Questo vuol dire che la Toscana non registra una particolare accelerazione negli ultimi cinque anni rispetto al resto d’Italia, anzi evidenzia il contrario.
E confermerebbe invece certe critiche che ci vengono rivolte dall’Ance Toscana che accusa il Piano di indirizzo territoriale regionale (Pit) approvato a luglio, di troppo conservazionismo. La critica non ci pare fondata. Infatti di un Piano approvato a luglio non si vede come già a settembre si possano registrare effetti sulla congiuntura edilzia! Ma, a parte le critiche di chi vorrebbe edificare troppo a ruota libera, ci viene fatto presente anche da alcuni investitori importanti, non solo toscani, che la nostra troppa attenzione al territorio allunga qualsiasi procedura rispetto ad altre regioni. Allora dico a tutti che la linea di pianificazione certamente non va abbandonata ma semplificata, all’insegna di un criterio, mutuato dal mio amico Pierluigi Bersani che potremmo riassumere in «quando, dove, come si può, si fa», che poi altro non è una sintesi del concetto di moderno sviluppo sostenibile.
Apro una parentesi. Mi pare ingeneroso e basato su dati non corrispondenti alla realtà, l’attacco rivolto alla mia amica sindaco di Montaione Paola Rossetti, alla quale va riconosciuto il merito di aver spalancato porte e finestre prima di decidere sulle proposte avanzate da un investitore importante e potente. E di aver sottoposto queste a un processo di partecipazione aprendo il fascicolo coram populo. Peraltro non c’è al momento nessun progetto approvato, ma solo una organizzata, partecipata, impegnata discussione pubblica. Vorrei tranquillizzare: i piccoli Comuni toscani non sono affatto lì pronti a farsi mangiare dai moderni colossi nazionali o internazionali. Lo sviluppo territoriale della Toscana non lo decidono i fondi di investimento né i grandi investitori, ben accolti quando ci aiutano a sviluppare progetti che abbiano i contenuti illustrati nella programmazione e concertazione regionale. Quei contenuti non dicono «vade retro» investitori ma dicono che si fa quando, dove e come si può. Assicuro i lettori dell’Unità che nessuno è più affezionato al territorio toscano di una classe di amministratori, uomini e donne impegnati.
Non sto qui a fare l’apologia del Pit. I buoni intendimenti ci vengono riconosciuti anche dai più critici. Sottolineo solo che l’incremento edilizio, in ragione della particolarità del territorio toscano e di un obiettivo toscano di sviluppo tipo «Agenda di Lisbona», ci ha portato a affermare che non può esserci uno sviluppo spostato sull’edilizia (modello anni Cinquanta), bensì bisogna orientare le spinte in altre direzioni. Quindi attuando la tutela delle colline, controllando il pregresso, evitando i trascinamenti di piano, mettendo in atto tutte le salvaguardie. Ripeto, con noi stessi siamo più critici dei nostri critici, per questo guardiamo dentro le tendenze. E vediamo che i dati ci dicono che c’è una rincorsa della Grande distribuzione, e un incremento del residenziale in questi anni.
Non solo. Il consumo di suolo è un significativo e fondamentale indicatore del governo del territorio, ma non l’unico. Propongo di recuperare in chiave di governo del territorio il concetto antico di carico urbanistico, la ricerca di adeguate dotazioni territoriali in funzione di una nuova buona urbanistica. Questa impostazione non può limitarsi al consumo di suolo e non può non riguardare le politiche di recupero e riqualificazione. Una falegnameria che si trasforma in un complesso di 60 miniappartamenti o un piano di recupero possono non implicare nuovo consumo di suolo ma produrre egualmente impatti importanti sulle risorse comuni. Per questo, con gli strumenti che ci siamo dati, stiamo controllando anche i processi di riqualificazione con criteri che tengono ben fermo il parametro del consumo di suolo, ma vanno ben oltre il suo significato perché puntano ai concetti di qualità e di dinamismo, alla architettura degli interventi, alla forma degli insediamenti, cioè alla buona urbanistica.
Con il che non intendiamo neppure criminalizzare l’edilizia con una critica indistinta e generica, come fosse un comparto abusivo o marginale del nostro sistema economico.
Anche in quel campo vogliamo interlocutori innovativi che non si mangino, in nome della rendita, il territorio e lo sviluppo ma che facciano della qualità, della sicurezza sul lavoro e della sostenibilità ambientale e paesaggistica nella progettazione i criteri della propria offerta.
Il tema ci ha appassionato talmente che nelle prossime settimane organizzeremo un seminario per discutere questi dati con esperti, studiosi e amministratori. Spero che in quel caso vogliano essere presenti anche i nostri critici. La lettura di questo articolo mi auguro che voglia chiarire che in fondo siamo più critici verso noi stessi dei nostri critici. E tuttavia non si sfugge da un’impressione. Che il problema non attenga allo sviluppo edilizio e a una discussione sul territorio toscano, quanto a un punto politico. Per quanto ci riguarda, vogliamo più qualità e innovazione nella nostra regione. Vogliamo mettere in atto una politica di conservazione attiva del nostro territorio anche puntando sull’attuazione del Codice del paesaggio in linea con quel documento fondamentale che è la Convenzione europea del paesaggio, non a caso firmata a Firenze nel 2000. Quello che non vogliano (ecco il punto politico) è che si affermi un’idea della Toscana come un’arcadica regione residuale, stretta tra esplosive questioni settentrionali, meridionali, centralità di politiche per Roma capitale, una regione buona solo per i fine settimana di ospiti illustri. Siamo una complessa moderna regione europea.
E come tali vogliamo essere apprezzati e magari criticati.
PS. Siamo talmente convinti dell’opportunità di proposte sul risparmio di suolo quali quella di Rogers o di Angela Merkel, che ne abbiamo fatto una norma generale della nostra pianificazione e l’abbiamo adottata come criterio di monitoraggio. I dati che abbiamo a disposizione mostrano che la Toscana è molto vicina ai parametri inglesi e tedeschi.
[ Riccardo Conti è Assessore al territorio della Regione Toscana]
Della "logistica" in questi tempi si fa un gran parlare, tanto da far persino dimenticare il significato della parola. Quando si parla di logistica si pensa agli interporti, a nuove autostrade progettate affinché funzionino da magnete per attrarre ai loro bordi massicci insediamento commerciali, nonché all'alta velocità. Alta velocità che dovrebbe consentire alle merci, giunte dall'Estremo Oriente sino ai porti europei, di collocarsi al più presto sugli scaffali del più defilato centro commerciale. Pochi ricordano che la logistica, nel suo significato fondamentale, quello che emerge anche aprendo un buon vocabolario dovrebbe essere essenzialmente "l'attività di coordinamento e di sincronizzazione di movimenti di persone o cose in una struttura collettiva". E un territorio, abitato da una comunità, quale ad esempio la nostra provincia, è certamente una "struttura collettiva" dove la "logistica" dovrebbe dare il meglio di sé.
Tuttavia vi sono dei missionari della "grande logistica" - disseminati nella politica e nelle imprese, a volte collocati sul crinale di confine dell'una o della altre - che sembrano convinti che solo con le grandi opere, quelle di cui sono imperiosi paladini, si possano sanare le magagne di un territorio quale il nostro, pesantemente penalizzato nella razionalità ed efficienza delle comunicazioni e dei trasporti. Eppure davanti ai loro scenari è legittimo evidenziare qualche dubbio, far affiorare domande che, partendo dai disagi concreti che affliggono ogni giorno la gente comune, chiedono ragione di una contraddizione sempre più evidente.
Se la logistica è coordinamento e sincronizzazione di movimenti di persone e cose perchè, anziché intervenire tempestivamente dove le incongruenze sono immediate e palesi, risolvibili con investimenti ridotti e interventi che facciano tesoro di quanto già c'è, si imbocca sempre un'altra direzione? E così si privilegia l'opera a grande impatto e dai costi vertiginosi piuttosto che l'intervento attento sulla manutenzione, sull'intelligente scioglimento di nodi così palesi che la soluzione salta immediatamente agli occhi del più distratto dei cittadini.
Ad esempio perchè si consente a molte strade della nostra provincia, e non da oggi, di essere in condizioni di tale degrado da costituire un vero attentato alla sicurezza delle persone? Cosa è stato dell'attenta manutenzione che dovrebbe rappresentare il primo compito di un'oculata gestione delle pubbliche infrastrutture prima di vagheggiare mega-opere in sostituzione di quelle esistenti negligentemente condannate al decadimento?
A volte non sono solo le pubbliche amministrazioni a latitare, ma anche le imprese private che controllano la parte della viabilità più significativa. Ad esempio, è possibile che il gestore dell'autostrada Serravalle che fa anche da significativa bretella di collegamento tra Pavia e Milano, non si sia ancora reso conto di come, ogni giorno, all'ingresso della superstrada di Bereguardo, si formino code - in entrata al mattino e in uscita la sera - perchè quel casello è del tutto sottodimensionato rispetto al bisogno degli utenti? Possibile che nessuno degli amministratori pavesi, finora presenti nel consiglio d'amministrazione della Serravalle, abbia speso la propria influenza affinché fosse adeguato? Magari cominciando a estendere le entrate abilitate all'uso del Telepass?
Saranno piccoli dettagli, bazzecole per chi è abituato a delineare le grandi strategie della logistica, ma per l'utente comune rappresentano tempo prezioso che quotidianamente viene buttato via.
Ma, su tutto l'assetto dei trasporti che innerva la provincia di Pavia, il grande malato continua ad essere, inutile negarlo, il treno. Qui migliaia di pendolari misurano ogni giorno il degrado del servizio, l'inaffidabilità di una rete ferroviaria che peggiora di anno in anno e che, opportunamente valorizzata, con costi inferiori a quelli previsti per le faraoniche opere stradali in progettazione, potrebbe costituire il fondamentale sistema di collegamento tra Pavia e Milano, rappresentando la rete di circolazione, efficace e a ridotto inquinamento, della Grande Milano.
Ma i paladini della logistica, davanti a queste sfide poste dall'esistente, nicchiano, tacciono, latitano. Preferiscono guardare alle mega-opere del futuro. Quelle che, per imporsi, pare debbano prima ridurre il presente in macerie.
Nota: il contesto pavese in particolare, vede l'incombere dello sciagurato progetto dell'autostrada Broni-Mortara (f.b.)
Regione Lombardia, Gruppo Consiliare Verdi per la Pace, Comunicato stampa
La Regione Lombardia chiude i parchi: via libera alla cementificazione del Parco Sud
Milano, 7 novembre 2007 - Nel corso dell'odierna seduta in V Commissione l'assessore Davide Boni ha annunciato ulteriori emendamenti alla sua modifica della legge 12/2005 Testo Unico sull'Urbanistica che attribuiscono ai Comuni la facoltà di prevedere - attraverso i PGT, Piani di Governo del Territorio - espansioni insediative nel territorio dei Parchi Regionali.
In caso di contrarietà dell'ente Parco, interviene la Regione Lombardia modificando autonomamente il Piano Territoriale di Coordinamento del Parco Regionale, con procedure addirittura semplificate e accelerate, dando di fatto la facoltà di edificare nel Parco.
Il risultato di tutto questo è l'annullamento di qualsiasi potere dei Parchi, che diventerebbero solo organizzatori di qualche convegno e produttori di qualche peluches evocativo.
La cosa più immediata sarà la totale cementificazione del Parco Sud secondo i desiderata dei costruttori, ultimamente già troppo spesso avvallati da molti Comuni, quello di Milano in primis.
Carlo Monguzzi, capogruppo dei Verdi in Regione Lombardia
Via libera alla cementificazione del Parco Sud
Nel corso dell'ultima seduta della quinta Commissione regionale, l'assessore Davide Boni ha annunciato ulteriori emendamenti alla sua modifica della legge 12/2005 " Testo Unico sull'Urbanistica" che attribuiscono ai Comuni la facoltà di prevedere - attraverso i PGT, Piani di Governo del Territorio - espansioni insediative nel territorio dei Parchi Regionali. In caso di contrarietà dell'ente Parco, interviene la Regione Lombardia modificando autonomamente il Piano Territoriale di Coordinamento del Parco Regionale, con procedure addirittura semplificate e accelerate, dando di fatto la facoltà di edificare nel Parco. Il risultato di tutto questo è l'annullamento di qualsiasi potere dei Parchi, che diventerebbero solo organizzatori di qualche convegno e produttori di qualche peluches evocativo. La cosa più immediata sarà la totale cementificazione del Parco Sud secondo i desiderata degli speculatori, ultimamente già troppo spesso avvallati da molti Comuni, quello di Milano in primis. Personalmente sono molto preoccupato per la situazione di Buccinasco, infatti, qui il PGT della precedente Giunta di centro-sinistra è stato sospeso dal T.A.R. - Tribunale Amministrativo Regionale - per un vizio di forma e la nuova Amministrazione di destra (dello stesso colore di quella regionale) lo deve ripresentare. E' noto che a Buccinasco, vista la sua storia, gli " appettiti" del " partito del mattone" sono inesauribili e "ben rappresentati" politicamente. La metà del nostro territorio comunale è oggi vincolata dal Parco Agricolo Sud Milano, cioè circa 6 Km/q. Faccio appello a tutte le forze democratiche, alle Associazioni ed ai Cittadini perchè si attivino in difesa del nostro Parco Agricolo Sud MI.
Rino Pruiti
Consigliere Comunale di Buccinasco
Uniti per Buccinasco
Nota: sembra così trovare sbocco istituzionale la recente polemica sulla "fruibilità dei parchi", per usare le parole rivelatrici dell'assesore milanese Masseroli, usate nel contesto del discutibilissimo progetto CERBA. Che a questo punto si rivela per quello che è: un grimaldello per creare un precedente, e dare la stura a qualunque rivendicazione localistica, giustificata o meno, azzerando il ruolo della greenbelt metropolitana, e potenzialmente i nquesto senso anche quello degli altri parchi regionali. Proprio da Buccinasco e da Corsico, altro comune del sud Milano, un gruppo di studenti aveva scritto pochi giorni fa al Presidente della Provincia lamentando il sostegno a queto tipo di approccio (f.b.)
Il grandioso progetto Toscana Resort Castelfalfi miete anche consensi. Se all’inizio la colata di cemento aveva fatto solo paura, ora in paese aumenta il partito dei favorevoli. E, durante l’ultima assemblea pubblica dell’altra sera, la quarta, si è costituito un comitato pro sviluppo turistico di Castelfalfi.
Tui Ag, la società tedesca quotata in borsa proprietaria della Tenuta di Castelfalfi, ancor prima di convincere l’amministrazione comunale sembra aver già convinto i montaionesi che, del resto, già da venti anni vivono in un’economia turistica.
Fuori dal coro di assensi, durante l’affollatissima assemblea dell’altra sera, sono rimasti però le associazioni ambientaliste, Legambiente, Wwf e Italia nostra, sempre più convinte che si tratti di una colossale cementificazione di colline, tra l’altro tra le più belle in Toscana. E decise a dare battaglia a tutti i costi cercando di creare un clamore nazionale su Castelfalfi sull’onda della “edilizia drogata” che sta facendo nascere una rete di comitati in tutta la Toscana contro gli interventi particolarmente lesivi del paesaggio.
I paladini del Resort. L’altra sera fuori dal teatro dove si svolgeva la riunione c’è stata una raccolta di firme per costituire il “Comitato a favore dello sviluppo di Castelfalfi”. Un centinaio le adesioni. Nel documento diffuso dal gruppo si legge che «è vero, i numeri del progetto Castelfalfi sono grandi, ma non dobbiamo lasciarci impressionare. Più volte la discussione pubblica si è incentrata sulla questione delle nuove volumetrie. E’ giusto valutarle attentamente, ma dopo averle valutate dobbiamo andare avanti senza lasciarci spaventare da niente e da nessuno: il compito dell’amministrazione è quello di pensare non solo all’oggi ma anche al domani». Nel documento del gruppo di cittadini si confeziona un lasciapassare alla multinazionale: «Oggi l’amministrazione comunale ha di fronte a sé un soggetto che ci può far guardare al futuro con speranza - si spiega - Tui è un interlocutore serio, cha dà ampie garanzie. Pertanto, il sindaco e la giunta non devono perdere l’occasione offerta da Tui di far ripartire “il motore Castelfalfi”. Che avrà ricadute positive sull’economia locale e sulla vita di noi montaionesi: se il progetto decollerà Montaione e il suo indotto ne trarranno beneficio. Ne siamo convinti».
I numeri. Nel continuo valzer di cifre, che sono cambiate più volte, ne rimane una fissa, invariata, ed è la più eloquente. Sono oltre 140mila metri cubi in più di nuova edificazione sui 391mila complessivi a disposizione del nuovo complesso. Il totale dei posti letto sarà 1452. Attualmente i posti letto erano 443. Quindi sarebbero creati con l’operazione 1009 posti in più. Da Tui rassicurano preventivamente: la presenza massima stimata è di 955 visitatori al giorno per il mese di luglio, mentre per il periodo di minima affluenza, in gennaio, sono previsti 16 visitatori al giorno. Gli arrivi complessivi sarebbero 15mila e 982 per un totale di 179mila e 205 pernottamenti. Tutto questo tra Iberhotel, previsto accanto all’attuale hotel “Medici”, Robinson club, accanto alla ex scuola, casali e quattro villaggi in campagna.
«Siamo in linea con il piano strutturale - spiega Martin Schluter, responsabile del progetto Tui - il Comune ha previsto 430 nuovi posti letto in più oltre 40 alloggi per altri 160 posti. Poi abbiamo altri 80 posti letto dai circa 20 casali (sui 30 di proprietà) che vogliamo restaurare. E infine abbiamo vecchi capannoni agricoli abbandonati che vogliamo riutilizzare per altri 300 posti letto. Ecco che arriviamo ai mille previsti».
«Noi vogliamo presentare un programma di sviluppo sostenibile - ha affermato l’architetto Wolf Uwe Rilke, uno dei progettisti Tui - piuttosto che un programma di sviluppo immobiliare. Il nostro obiettivo è salvaguardare la qualità del paesaggio e delle caratteristiche architettoniche del borgo. Quando si parla di volumi non dobbiamo guardare soltanto ai dati, alle volumetrie, ma alla qualità degli interventi che si vanno a fare».
Golf. Il nuovo campo da golf si sviluppa su 170 ettari rispetto agli attuali 70. L’aumento è di 100. «Ma per realizzare le 18 buche in aggiunta sarebbero serviti solo 60 ettari - spiega Schluter - sul resto avremo boschi e alberi da frutto». Per l’irrigazione Tui confida nel riciclo delle acque di scarico e nel rastrellamento dell’acqua piovana anche con un sistema di pompe in grado di convogliare l’acqua nei laghi principali. In più verranno usati terra e semi in grado di trattenere l’umidità. «Così come sarà importante posizionare i getti dell’acqua in modo da ottenere il massimo risparmio», aggiunge Schluter.
Piscine e giardini. Ancora non è stato quantificato il numero di piscine che potrebbero essere decine e decine. «Stiamo lavorando per prevedere quelle con un minor impatto», spiega Schluter. E così consistente sarà anche la superficie ricoperta dal verde annesso ai villaggi e ai casali.
Agricoltura. Al momento la Tenuta di Castelfalfi utilizza solo 10 ettari di viti. «Il progetto prevede l’aggiunta di circa 10 ettari su cui verranno impiantate viti nuove - spiega Schluter - vogliamo fare un prodotto di qualità. Abbiamo l’intenzione di incrementare la coltivazione di olive e destinare complessivamente 220 ettari a seminativo». Un ettaro, infine, servirà per un orto biologico.
La vendita dei casali. Rispetto alla vendita dei casali, il responsabile Tui ha spiegato che «ancora non è stato ceduto niente. Abbiamo fatto una prima valutazione dell’interesse che poteva esserci sugli acquisti e abbiamo scoperto che qualcuno vorrebbe comprare anche per stabilire qui la propria residenza». «In ogni caso - aggiunge Schluter - venderemo solo una volta avuti i permessi dal Comune e la gestione dei casali sarà comunque unitaria e gestita da Tui».
Le conclusioni. L’assemblea è stata chiusa dal sindaco Paola Rossetti che ha espresso una serie di caute riflessioni. «L’amministrazione comunale - ha puntualizzato - desidera approfondire tutti gli aspetti pubblicamente. I numeri delle volumetrie saranno valutati in maniera attenta ed anche per quanto riguarda la risorsa idrica e le eventuali ripercussioni sulla falda acquifera derivanti dalla trivellazione di nuovi pozzi valuteremo in maniera puntuale. L’acqua è una risorsa di tutti».
I prossimi appuntamenti. Domenica 18 è prevista un’altra assemblea che non sarà l’ultima. Ne è stata aggiunta un’altra per la domenica successiva, 25, dove ci saranno le conclusioni del professor Massimo Morisi, garante per la comunicazione della Regione.
«Troppo suolo consumato»
Aspre critiche di Wwf, Italia nostra e Legambiente
MONTAIONE. Il consumo del suolo per cementificare e il problema idrico. Questi sono i due punti su cui attaccano Legambiente, Italia Nostra, e Wwf. «Vorremmo conoscere - ha esordito Guido Scoccianti del Wwf durante l’assemblea - l’entità attuale e quella futura del prelievo d’acqua dalla falda attraverso i pozzi esistenti. In più sarebbe opportuno che l’amministrazione comunale stessa con periti propri provvedesse a far effettuare uno studio sulle possibili conseguenze del prelievo dalla falda». «Non abbiamo dubbi sul fatto che Tui Ag riesca a reperire l’acqua necessaria per il Toscana Resort Castelfalfi - ha continuato Scoccianti - ma tutto intorno cosa accadrà? Per ora, nessuno lo ha detto». Polemica anche la posizione espressa da Margherita Signorini di Italia Nostra la quale ha sottolineato «la mancanza di serietà nella comunicazione a causa del continuo balletto di cifre proposte».
«Il quadro di quello che è il progetto Tui a Castelfalfi comincia a diventare più chiaro e, purtroppo, sempre più allarmante - spiegano Signorini e Scoccianti - un aumento di oltre 2 volte e mezza della superficie coperta da strutture e opere connesse; 260 metri cubi per ogni posto letto di nuova costruzione (pari a circa 86 mq, se si considerano volumi di 3 metri di altezza); 650 metri cubi per ogni nuovo alloggio (pari a 216 mq); un albergo da 240 posti letto e un villaggio vacanze di lusso da oltre 400 posti letto; la creazione di veri e propri nuovi piccoli borghi dove oggi c’è un casale isolato; un cambio di destinazione d’uso per 224.900 metri cubi di volumetrie, con i carichi urbanistici che una tale operazione; la perdita di 91 ha di seminativo e di 38 ha di arbusteto che è il luogo principe per la difesa della biodiversità poiché succedaneo del bosco in zone di creta come queste; la costruzione di parcheggi per 673 auto e per 5 autobus e la creazione di una nuova “circonvallazione” in luogo della panoramica strada provinciale “Delle colline”». «Un progetto di espansione urbanistica che va ad incidere su un’Anpil (Area Protetta di Interesse Locale) di recente costituzione - continuano - si tratta di snaturare Castelfalfi, un borgo medievale di origini antichissime. 233.000 metri cubi di volumetrie esistenti consentono operazioni turistiche di grande rilievo senza ulteriori consumi di territorio, di paesaggio e di risorse ambientali. All’amministrazione e a Tui chiediamo di riformulare in questa ottica il progetto». Forti critiche anche da Fausto Ferruzza, direttore regionale di Legambiente. «Legambiente - ha affermato - da giugno sta ricevendo telefonate dai più importanti network televisivi svizzeri, inglesi ed americani che richiedono di esprimere una posizione sulla vicenda della costruzione del Toscana Resort Castelfalfi. A Castelfalfi si gioca una partita delicatissima, non solo per noi, bensì per i futuri scenari del governo del territorio in Toscana». E prosegue: «Si vuole perpetrare un enorme falso storico urbanistico. Quel che si evoca qui è esattamente l’opposto dei fini di salvaguardia del piano strutturale vigente e di tutti gli altri strumenti di pianificazione territoriale di livello regionale come il Pit. Per noi è imprescindibile una totale revisione del progetto e un ridimensionamento quantitativo molto consistente».
Sull’iniziativa immobiliare di Castelfalfi eddyburg è stato tra i primi a intervenire, con una corrispondenza di Paola Baiocchi del 9 settembre scorso. In settimana inseriremo il servizio di Sandro Roggio e il commento di Edoardo Salzano, in corso di pubblicazione sul n. 41 del settimanale Carta, in edicola da sabato prossimo.
«Questa è solo la prima vittoria!»: così risponde il movimento No da Molin al ritiro della ditta vincitrice dell'appalto per la bonifica dell'area. L'Abc di Firenze, questo il nome della società, aveva aperto i cantieri alle 4.30 del mattino del 17 ottobre scorso con il compito di risanare 400 mila metri quadrati di terreno destinati ad accogliere il nuovo insediamento militare.
Ma nulla da fare, i cittadini di Vicenza non hanno mollato e dopo tre giorni di presidi e l'annuncio di una manifestazione di protesta davanti alla sede dell'azienda toscana, è arrivata la notizia: «Noi ce ne andiamo, non ci sono le condizioni per andare avanti». Queste le parole pronunciate da Gianfranco Mela, titolare della società che smantellando il cantiere ha rinunciato ad un compenso di 2,2 milioni di euro per un lavoro della durata di nove mesi. Tanto avrebbe fruttato il contratto firmato con le forze armate americane, vinto in associazione temporanea d'impresa con l'azienda Strago di Portici. «Smobilitiamo il cantiere e ritiriamo le quindici persone impegnate sul posto, anche se non capisco perché se la prendono con noi che interveniamo solo per ripulire e mettere in sicurezza un'area - interviene Mela - non ero preparato ad affrontare delle contestazioni così forti né qui, né nella sede di Firenze dove un nutrito gruppo di persone è venuto a manifestare.
I festeggiamenti, intanto continuano così come l'entusiasmo di chi ha dimostrato che una lotta pacifica e costante può ottenere dei risultati. A parlare è Cinzia Bottene, portavoce del presidio permanente contro il Dal Molin che, assieme agli altri manifestanti, chiede di trasformare la zona in un parco pubblico. «Il movimento vicentino - spiega la Bottene - è stato capace di impedire pacificamente l'accesso all'aeroporto a coloro che avrebbero dovuto realizzare la bonifica e ha dimostrato anche una forza politica perché, in poche ore, abbiamo ricevuto la solidarietà di tante città italiane». Secondo i No dal Molin, infatti, «fermare la realizzazione della nuova installazione militare è possibile, a Vicenza siamo sempre più determinati a raggiungere questo obiettivo».
Il blocco dei lavori era cominciato tre giorni fa con un episodio controverso: un manifestante, come riferito da lui stesso e da altri testimoni, era stato investito da un'auto guidata da un militare italiano che voleva entrare nel cantiere. Il manifestante, Francesco Pavin, un giovane no global, era finito all'ospedale per un trauma alle vertebre cervicali: sull'accaduto è in corso ora un'inchiesta.
La querelle si trascina da mesi e ha investito anche il governo che ha deciso di nominare un commissario, Paolo Costa, che segua tutto l'iter dei lavori. Costa, però, ha già fatto sapere di voler andare avanti secondo il progetto e che le decisioni spettano solo al governo. Ma i movimenti insistono: «Noi non ci fermeremo davanti a niente, oggi abbiamo vinto una battaglia, non la guerra, ma chiunque provi a portare avanti i lavori avrà la stessa risposta dell'Abc. Qualsiasi società in tutta Italia sarà ostacolata non solo da noi, ma anche da chi continua a sostenerci dimostrandoci solidarietà. Il presidio continua».
ROMA — Alberto Asor Rosa la chiama «crisi di un sistema ». Cioè della catena economico- elettorale che per decenni ha saldato, nella Toscana guidata dalla sinistra, i vertici politici alla base nel nome dello sviluppo del territorio. Ora si è aperta una frattura. Sempre Asor Rosa: «C'erano le scelte degli amministratori. E intorno a quei progetti si coagulavano inevitabilmente molti interessi. Ma si garantiva una certa vivibilità. Ora c'è la nuova economia. Che ha un prezzo inaccettabile, un territorio non più salvaguardato com'era tradizione». Insomma la Toscana Infelix, l'ha definita tempo fa lo stesso Asor Rosa.
Ed ecco la frattura. Da una parte le giunte di centrosinistra, da quella regionale fino alle tante comunali, impegnate in uno «sviluppo» senza precedenti visto come motore di nuova occupazione. Dall'altra la «Rete toscana dei comitati per la difesa del territorio » che domani, sabato, si riunirà a Firenze alle 10 al teatro dell'Affratellamento in via Gian Paolo Orsini. Presiederà Asor Rosa, paladino della battaglia per la salvaguardia di Monticchiello, e che ora pilota una galassia di 162 comitati. Si difende di tutto: dalle piazze storiche in pericolo (Fucecchio, Prato, Fiesole) al territorio interessato dall'ampliamento dell'aeroporto di Ampugnano passando alla lotta contro gli insediamenti da 12.000 metri cubi a Casole D'Elsa per arrivare a chi si oppone alla trasformazione dell'antico borgo di Castelfafi in un resort di lusso da parte di una multinazionale tedesca. Qualcuno ha già tirato in ballo un parallelo con i Girotondi.
Vento di destra? Paolo Baldeschi, docente di Urbanistica a Firenze, relatore del documento politico, sorride: «Sono e resterò un uomo di sinistra. Ma la regione Toscana non fa quel che dice. Qui siamo pieni di buone intenzioni: la legge di governo del territorio, il piano di indirizzo territoriale... ma mancano i controlli e così molti comuni agiscono nella piena illegalità. L'unica via è il ricorso al Tar o alla Procura. E questo è tragico. Gli oneri di urbanizzazione possono essere impiegati anche nella spesa corrente. E così i comuni diventano "drogati di edilizia". Massacrando un territorio irripetibile, come quello toscano, un patrimonio dell'umanità ».
Claudio Greppi, architetto e urbanista, docente di Geografia a Siena realizza la mappa delle emergenze: «Ho sempre navigato nei mari della sinistra, il Pci non mi tesserò perché ero "eretico"... Ma qui l'ideologia non c'entra. Se a San Casciano Val Di Pesa il Comune pensa di concedere il permesso di edificazione di un megacapannone coperto di ben tre ettari per la costruzione di camper, significa che il calo di cultura di gestione del territorio è drammatico. La legge regionale del 1995 concesse piena autonomia ai Comuni. Che ora agiscono senza controlli». Della vicenda di Casole Val D'Elsa ( www.casolenostra.org), un complesso da 12.000 metri cubi per 16 palazzine bloccato dalla procura di Siena cinque mesi fa dopo l'emissione di 17 avvisi di garanzia, si occupa il fisico Roberto D'Autilia, ex elettore Pci e ora Ds: «Hanno anche disboscato un ettaro di terreno, la Forestale ha spedito una multa da 100 mila euro. Le giunte Ds della cittadina hanno permesso un insediamento mostruoso. Un tempo la sinistra regalava alla politica i Ranuccio Bianchi Bandinelli che mai avrebbe messo mano al territorio. Oggi genera solo piccoli politici, facili prede di pescicani e speculatori». Nel gruppone c'è anche un ex consigliere comunale Pci di Fiesole, Cosimo Mazzoni, avvocato e docente di Diritto civile a Siena. Che ora presiede il Comitato per Fiesole (www.comitatoperfiesole. org), ostile al parcheggio sotterraneo a piazza Mercatale voluto dalla giunta di centrosinistra «e ai sei cantieri spalancati nel centro storico. Nel nostro fascicolo lo abbiamo chiamato "lo sviluppo insostenibile"».
Insomma, altro che vento di destra. Infatti lo «scisma» allarma la sinistra toscana al governo. Molti Comitati si sono trasformati in liste civiche alle elezioni amministrative. Come ha raccontato Violante Pallavicino, coordinatrice delle politiche dell'informazione dei Comitati, in un articolo sul sito http://eddyburg.it i risultati sono stati sorprendenti: «13% alla lista di Pistoia, 27% a Monterotondo Marittimo, 20% a Rignano sull'Arno, 6% a Regello ». Il fenomeno è in espansione. I Comitati toscani hanno già dato vita all'appello «Salviamo l'Italia» (firmato da Andrea Zanzotto, Andrea Camilleri, Mario Rigoni Stern). Un modo per far compiere un «salto nazionale» all'iniziativa » La Toscana, insomma, fa scuola. Infatti anche le Marche si stanno organizzando con una rete analoga (col supporto dell'attivissimo Comitato per la Bellezza di Vittorio Emiliani) e tra gli animatori ci sarebbe l'ex presidente della Cassazione Ferdinando Zucconi Galli Fonseca. Il presidente della regione Toscana, il ds Claudio Martini, ha assicurato ad Asor Rosa una replica al documento politico che verrà votato sabato. Lo scisma rientrerà davanti a un tavolo di consultazione sul territorio toscano?
La marcia su Chiaia come banco di prova. Come simbolo di una riscossa, che unisce tutta la città. Mancano 24 ore alla grande manifestazione organizzata dal comitato cittadino della prima Municipalità (partenza domani alle 11 da piazza dei Martiri) e la protesta del quartiere "elegante" catalizza l ’attenzione, la voglia di riscatto, la rabbia di decine e decine di associazioni cittadine, dal centro storico alla remota periferia. Sono movimenti diversi, con anime diverse. Ma confluiranno tutti in piazza dei Martiri. Ci sono comitati civici, ambientalisti, gruppi di pensionati, di consumatori, circoli culturali e associazioni di quartiere. Ieri sera i preparativi finali. E oggi volantinaggio fino all ’ultimo minuto.
«Napoli o si salva tutta o è perduta per intero - dice don Fulvio D ’Angelo, uomo simbolo della Secondigliano che si ribella - Si deve creare una rete tra le periferie e il centro. Il grido di allarme di Chiaia non può e non deve essere sottovalutato, perché è il grido della città che soffre. Ovviamente ogni quartiere hai i suoi problemi specifici, ma se ognuno lotta solo per sé si rischia l ’isolamento».
La solidarietà a Chiaia non arriva solo da Secondigliano. «Saremo a Chiaia - dicono da Soccavo-Pianura, dal Vomero e dal Centro Storico - perché siamo stanchi, perché da qualche parte bisogna cominciare. Proviamo a farlo da Chiaia, un quartiere in genere privilegiato. Se vinciamo la prima battaglia, magari alla fine vinceremo la guerra: gli obiettivi sono comuni». Per domani quindi si stanno organizzando diverse delegazioni di altri quartieri. «I problemi in città sono gli stessi da Chiaia al Vomero - dice Vincenzo Perrotta, Ascom-Vomero - perciò non possiamo mancare l ’appuntamento». «Stiamo cercando di contattare anche gli amici di Scampia», dice Stefania Martuscelli, di "Minerva Donne", che da quest ’estate ha messo in piedi un network di 102 associazioni e ora sta lavorando gomito a gomito con Giuseppe Marasco e Paolo Santanelli, gli organizzatori della marcia su Chiaia.
Il 10 novembre diventa il giorno del riscatto, su cui si catalizzano i più disparati punti di crisi cittadini. «Ci saranno per esempio anche i rappresentanti dei tassisti - dicono gli organizzatori - con la Fastaxi, presieduta da Salvatore Augusto». Una rabbia comune che si amplifica nella grande rete di Internet: sul blog http://noipernapoli. splinder. com si confrontano le voci di commercianti, consumatori, associazioni civiche. L ’emergenza e la voglia di legalità si allarga da Chiaia a tutta la città. «Siamo nati un anno fa - dice Antonio Di Dio, presidente del comitato Bagnoli Punto a Capo - Quando si parla di Bagnoli ora si pensa solo all ’arenile, dimenticando l ’intero quartiere. Il comitato cerca di risolvere i problemi di vita quotidiana, non eclatanti come la colmata a mare, e quindi poco considerati. Abbiamo però ottenuto una farmacia notturna, e presto avremo un ufficio postale». Associazioni e cittadini uniti, anche se c ’è chi alza la voce fuori dal coro. Sono i Comunisti Italiani del gruppo consiliare della I municipalità Chiaia-San Ferdinando: «La battaglia per la civiltà, quando si realizza in uno dei cosiddetti salotti della città, non può trasformarsi in uno scontro privato tra gli "alti borghesi" e i "briganti di strada"».
È tornato a Napoli dopo quasi cinquant’anni. Un tempo normalmente sufficiente a suturare o anche solo a lenire le ferite. E invece, niente. «La verità, caro Caracas, è una sola», scrive Ermanno Rea a pagina 141 di Napoli Ferrovia, il suo nuovo libro (Rizzoli, pagg. 357, euro 19), ed è che «io non sento di appartenere più a questa comunità. Tra noi, tra me e la città, è accaduto qualcosa di irrevocabile che rende impossibile ogni ipotesi di ritorno: sarebbe come votarmi a una tragica infelicità. Ormai io sono uno straniero, anzi un rinnegato che si è fatto straniero».
Napoli Ferrovia è il resoconto dello struggente tentativo di tornare non solo fugacemente nei luoghi abbandonati mezzo secolo prima. Un tentativo che mescola la città alla propria vita, i cui primi trent’anni furono in gran parte spesi in quel poligono austero e fatiscente che si chiude fra piazza Cavour, il quartiere Sanità e poi via Foria, piazza Principe Umberto e quindi la Duchesca e piazza Garibaldi. Qui, appunto, è la Ferrovia, un nome che nella toponomastica partenopea designa non tanto un luogo, ma una vasta conurbazione antropologica, che nei decenni ha cambiato la sua fisionomia e oggi è il cuore del grande melting pot mediterraneo, con le parlate napoletane che inseguono gli idiomi maghrebini e mediorientali.
Con Ermanno Rea parliamo di questo libro nella sua casa romana, a cento metri dalla Porta Angelica e dal Vaticano. Rea ha ottant’anni e i capelli candidi. Napoli Ferrovia chiude un ciclo che avvolge la sua geografia e la sua storia. Mistero napoletano (Einaudi, 1995) raccontava il suicidio di Francesca Spada, una giornalista dell’Unità di cui era stato amico, una donna che caricava sulle sue fragili spalle il peso di redimere gli ultimi. La dismissione (Rizzoli, 2002) narrava invece l’infrangersi del sogno di una Napoli operaia, raffigurato nello smantellamento dello stabilimento siderurgico dell’Italsider e nella storia personale di Vincenzo Buonocore addetto a smontare la fabbrica per venderne i pezzi alla Cina.
«Avevo in mente un personaggio letterario», racconta Rea, «quello di un super operaio che racchiudesse i simboli e le speranze di cui ci eravamo nutriti da giovani, immaginando un destino della città non necessariamente plebeo. L’ho trovato frequentando la mensa e il piazzale dell’Italsider e alla fine l’ho trovato e gli ho cambiato il nome. E ho potuto verificare che quell’idea non era campata in aria».
Nasce così anche Caracas. Il protagonista di Napoli Ferrovia cercava qualcuno che lo accompagnasse nella città oscura e minacciosa, e ha immaginato che questo qualcuno fosse uno straniero, un venezuelano convertito all’islam, "un integralista romantico" con un passato da naziskin, ammiratore di Yukio Mishima e anch’egli, come Francesca di Mistero napoletano, schierato dalla parte degli ultimi: «Scendo con lui nell’inferno, e lui me lo spiega, mostrandomelo così come lo vede con i suoi occhi: senza rancore per nessuno, disprezzo per nessuno, gelosia per nessuno». Caracas è un nome di fantasia dietro il quale si cela una persona reale, una persona che ha letto questo libro mano a mano che vedeva la luce e che ha avuto - come Rea racconta nelle ultime pagine del libro - una reazione di rigetto, sparendo in quel nulla nel quale era stato raccolto. Come per Mistero napoletano e per La dismissione, anche qui Rea incrocia l’universo letterario e la realtà, ma con una forte intensità nello stile, utilizzando l’autobiografia al pari di uno strumento che fortifica la facoltà di conoscenza e senza mai scivolare in una lingua sciatta.
Con Caracas, il protagonista (qui Rea mette in scena sé stesso e l’incarico ricevuto nel 2002 di presiedere il Premio Napoli) comincia a realizzare il progetto che ha preso forma dentro di lui diventando sempre più impellente mano a mano che si avvicinava il giorno in cui, ancora una volta, ma stavolta per sempre, avrebbe abbandonato la città: ritrovare le origini, i luoghi dell’infanzia, per capire che cosa abbia voluto dire per lui vivere e invecchiare. Alla figura di Caracas si sovrappone quella di un amico della Napoli di allora, lo scrittore Luigi Incoronato, che muore suicida nel 1962, attaccandosi al tubo del gas esattamente un anno dopo la Francesca di Mistero napoletano, entrambi nei giorni a ridosso di Pasqua. Scala a San Potito, il migliore dei suoi romanzi, un libro sconsolato, racconta di un giovane attratto da un sordido ospizio per poveri, luogo derelitto frequentato da uomini senza speranza. In quegli stanzoni aveva vissuto Giovanni, un suo amico, da poco scomparso. Al quale, una sera, si era rivolto con un’espressione: «Se mi capita di poter fare qualcosa per te, che ne dici?». In quella frase, scrive Rea, «a me pare riconoscere tutta intera la mia giovinezza, assieme a quella di Incoronato e non so di quanta altra gente che, come noi, considerava il prossimo suo, la società, non semplici astrazioni concettuali, ma insiemi di persone vere, in carne e ossa».
La Napoli alla fine degli anni Quaranta e per buona parte del decennio successivo è il luogo in cui, essendovi alloggiata la più imponente base americana del Mediterraneo, si vive il senso di separatezza che reca con sé la Guerra Fredda (di questo Rea ha parlato a lungo in Mistero napoletano). Ma è anche il luogo in cui si spezzano nella miseria del dopoguerra quelle reti che avevano consentito alla parte più debole della città di barcamenarsi. «Sai cosa facevamo, non dico tutti i giorni, ma spessissimo, due, tre volte a settimana?», domanda Rea a Caracas. «Andavamo nei vicoli più bui a predicare. Anzi no, non a predicare, ma a portare la speranza. La speranza nel vicolo. Non era mai successo. Dicevamo alla gente, al disoccupato, alla madre di sette figli, al ragazzo analfabeta: guardate gente che voi siete degli esseri umani, con gli stessi diritti e gli stessi doveri di tutti gli altri».
Quest’opera di apostolato sociale era poi finita in cenere. Il comunismo in cui quei giovani credevano si era rivelato una sanguinaria utopia. Ma quell’afflato continuava a pulsare, non poteva essere sistemato in un polveroso archivio della memoria. Ed è per capire cosa ne è rimasto che il protagonista di Napoli Ferrovia cerca un Caracas che lo accompagni a scoprire quanto di quelle speranze, sotto le quali sono rimasti schiacciati Francesca e Luigi, sopravviva nei vicoli incrostati di vecchia e nuova sofferenza.
Ma l’esito non può che essere una nuova fuga. La Napoli contemporanea imbarbarisce a vista d’occhio, annota Rea. E lui non sopporta più «i sorrisi molli della gente» di fronte al degrado. Maledice la tolleranza che si manifesta verso l’arbitrio lungo tutta la scala gerarchica, dal basso fino ai luoghi del potere. «Come è successo che questo germe, questa malattia della tolleranza è penetrata dentro di noi fino a condizionare la nostra stessa antropologia?». La sua requisitoria si specchia, pur non collimando, in quella di un altro scrittore disincantato, Luigi Compagnone, che declinava verso l’invettiva disperata, condensata nel titolo di un libro: «Odio Napoli». Che era un modo diverso, aggiunge Rea, per gridare: «Amo Napoli».
«Il cosiddetto rinascimento napoletano è stato una fonte di equivoci a non finire», dice ora Rea guardando un punto fisso nella parete di fronte a lui. «Sarebbe stato necessario orientare la città verso un impegno collettivo nel senso di un recupero della legalità. Ma invece di rivoltarla come un calzino, Napoli è stata oggetto di rassicurazione». Rea ci ha provato finché ha diretto il Premio Napoli, ha organizzato questionari sulla legalità, ha allestito circoli di lettura, uno dei quali nel carcere di Secondigliano. Ma un giorno, dopo aver tentato di medicare la ferita che cinquant’anni prima lo aveva indotto a fuggire, ha finito di scrivere la lettera di dimissioni che aveva iniziato chissà quante volte. E l’ha spedita.
Egregio dottor Penati, noi alunni della 3a C della scuola media Verdi di Corsico abbiamo appreso delle intenzioni di diversi Comuni e della Provincia di ampliare gli insediamenti del Parco Sud. Noi ragazzi proveniamo sia da Corsico che da Buccinasco. L’area di Corsico è ormai quasi completamente urbanizzata, a Buccinasco ci sono ancora spazi abbastanza ampi destinati all’agricoltura, con belle cascine e borghi ricchi di storia.
Ampliare ulteriormente l’area urbana milanese ci sembra poco saggio considerando che, come ci dicono le statistiche, a Milano e dintorni si respira la peggiore aria d’Europa e una delle peggiori al mondo. Abbiamo studiato durante le ore di geografia che la riduzione dei suoli agricoli sarà uno dei più gravi problemi che l’umanità dovrà affrontare in futuro assieme alla carenza di acqua potabile. Questo patrimonio si sta perdendo. Per noi è un piacere ritrovarci, con pochi chilometri di bicicletta, in aperta campagna, a volte sembra un sogno. Voi governanti dovreste pensare più spesso a noi ragazzi e al nostro futuro. Le chiediamo di avere un po’ di coraggio e lasciarci in eredità un campo di grano e di riso, la bellezza e l’armonia della natura.
Nota: tra i vari esempi di forte ridimensionamento della greenbelt metropolitana nel Parco Sud Milano, su queste pagine si è descritto con qualche particolare quello del CERBA ; all'indifferenza dell'amministrazione comunale milanese, in linea col resto d'Italia, per l'ambiente e un'idea di città non coincidente con la valorizzazione immobiliare, è dedicato anche l'ultimo Eddytoriale (f.b.)
Era già successo sabato, in diretta su Raitre per uno speciale di “Ambiente Italia” dedicato alla giornata del Coast Day in Sardegna. Impossibile, in quella occasione, non discutere del Piano paesaggistico regionale: e l'assessore aall'Urbanistica Gianvalerio Sanna aveva denunciato la malainformazione sulla norma salva-coste varata dalla Giunta nel 2004. Difficile pensare a una premonizione: anche perché probabilmente in viale Trento non si aspettavano le quattro sentenze-fotocopia con cui il Tar ha annullato il quarto comma dell'articolo 15 delle Norme tecniche di attuazione, sbloccando di fatto le concessioni edilizie nei comuni in regola con il Puc al momento dell'approvazione del Piano.
Ma anche all'indomani del pronunciamento del Tribunale amministrativo, l'idea dell'assessore non cambia. Supportata, in questa occasione, anche dal presidente Renato Soru. Il concetto è affidato a una nota che precede una conferenza stampa in programma per la mattinata di oggi: «La ricerca di sensazionalismo ha fatto fare oggi (ieri, ndr) qualche titolo che contiene un macroscopico errore di valutazione della sentenza del Tar e delle sue conseguenze sulla validità del Piano paesaggistico regionale». In pratica è un altolà per chi grida al “colpo mortale” inferto a una delle norme principe della legislatura. Tutto il contrario, secondo Soru e Sanna: «Il Piano paesaggistico», sottolineano, «esce da questa prima fase di contestazioni e ricorsi - fra cui quello della Confindustria e di alcuni Comuni - con un riconoscimento di piena legittimità del suo impianto, della sua struttura, della coerenza con la disciplina nazionale e quindi con il riconoscimento della sua piena validità».
Nessuna falla nell'impianto della legge, quindi. Una piccola breccia, al massimo, che la sentenza dei giudici amministrativi contribuirà a riparare: «Potranno esserci singoli aspetti marginali che possono essere meglio precisati, cosa che potrà essere fatta in sede di discussione del Piano paesaggistico regionale per la parte che riguarda gli ambiti interni, e l'attività dei giudici ci è utile anche per giungere a questo ulteriore livello di definizione».
Nel caso specifico, anzi, «la sentenza del TAR non solo non apre varchi, ma ribadisce maggiori vincoli e maggiore severità. L'istituto dell'intesa - che è un istituto transitorio che regola l'attività edilizia e la permette a certe condizioni sino all'approvazione del Puc - è pienamente valido in gran parte delle circostanze previste dalle norme tecniche». In buona sostanza non si aprirebbe la voragine pronosticata a una prima lettura della sentenza, anche se buona parte dei ricorsi depositati - qualche decina, pare di capire - farebbero riferimento proprio all'istituto dell'intesa.
Golfo Aranci e Santa Teresa di Gallura, i due comuni interessati alle ultime sentenze del Tar, avevano già approvato nel 2004 il proprio Puc. È il motivo per cui l'istituto dell'intesa «viene considerato illegittimo perché inutile, per verificare le lottizzazioni che sono fatte salve nella fascia costiera per i Comuni che avevano il PUC approvato e per i Comuni senza Puc fuori dalla fascia costiera. Questa illegittimità ha come conseguenza non che possano essere fatte salve delle lottizzazioni che non hanno i requisiti fissati dal Piano paesaggistico, ma che è sufficiente che sia il Comune a verificare autonomamente la sussistenza di questi requisiti».
Non cambia il risultato, sostiene la Giunta, perché «è comunque la Regione che deve dare il nulla osta paesaggistico, anche quando quelle lottizzazioni fatte salve sono certificate dai Comuni e non attraverso l'intesa». Dalla decisione del Tar, insomma, il Piano paesaggistico regionale uscirebbe addirittura rafforzato. Di sicuro, secondo Soru e Sanna, improntato a «una maggiore severità, perché viene eliminata anche solo l'ipotesi che attraverso l'intesa si potessero approvare lottizzazioni prive dei requisiti richiesti. Comune e Regione verificano separatamente queste lottizzazioni: il Comune valutandone la rispondenza ai requisiti, la Regione successivamente, verificando la possibilità di concedere o no il nulla osta». Con buona pace per chi gridava al crollo totale della norma salva-coste.
CAGLIARI. Il presidente getta acqua sul fuoco: «Non cambia niente». L’oppositore rilancia la sfida: «E’ l’ennesimo fallimento». Il tecnico avverte: «A rischio altre norme di salvaguardia». Dopo la sentenza del Tar che ha annullato un comma delle norme tecniche è ripresa la guerra sul Piano paesaggistico. Sul quale pende ora anche il referendum abrogativo regionale: lunedì la decisione finale.
Quella di ieri, nonostante la festività, è stata un’intensa giornata di lavoro per il presidente della giunta regionale, Renato Soru, e l’assessore all’Urbanistica, Gian Valerio Sanna. I quali, in un lungo vertice assieme a diversi collaboratori hanno studiato la sentenza con cui il Tar, mercoledì, ha annullato il quarto comma dell’articolo 15 delle norme tecniche del Ppr, il comma che prevedeva, per i Comuni con il Piano urbanistico già approvato, la procedura dell’Intesa con la Regione per l’approvazione finale delle lottizzazioni e dei piani attuativi già varati. Nel vertice è stato verificato che si tratta solo delle «lottizzazioni già fatte salve» per le quali resta comunque «l’obbligo del nullaosta paesaggistico se non ottenuto dopo il dicembre 2005». Nel vertice è stato inoltre verificato che l’istituto dell’Intesa è stato salvato per tutti gli altri casi (ampliamenti, costruzioni nell’agro, eccetera) e che l’ultima parola resta comunque alla Regione attraverso gli uffici del Paesaggio, che sono in grado di bloccare qualsiasi pratica giudicata non in linea con il Ppr. Secondo i partecipanti al vertice (Gian Valerio Sanna parlerà solo oggi in una conferenza stampa per chiarire il punto di vista della Regione) i progetti interessati dalla sentenza del Tar «sono una decina». Ma si dovrà poi verificare (e lo faranno i giudici del Tar in prossime udienze) se i rilievi si allargheranno ad altri articoli di legge: lo si capirà quando arriveranno i ricorsi sull’Intesa presentati per progetti nei Comuni che non hanno il Puc approvato. Renato Soru, comunque, non sembra preoccupato. Dopo il vertice con Sanna ha diffuso una lunga dichiarazione proprio per dire che «non cambia niente» e che, anzi, «ora i vincoli sono più forti».
Il presidente ha voluto subito precisare che la sentenza del Tar che ha accolto i ricorsi di alcune società immobiliari del nord Sardegna, «non apre alcun varco»: la procedura dell’Intesa è stata «considerata illegittima semplicemente perché inutile e solo nei casi specifici delle lottizzazioni fatte salve nella fascia costiera per i Comuni che hanno il Puc approvato e per i Comuni senza il Puc fuori dalla fascia costiera». Mentre per il resto («la gran parte delle circostanze previste dalle norme tecniche di attuazione del Ppr») è stata, ha detto, «confermata la sua validità».
Secondo Soru il Ppr «esce da questa prima fase di contestazioni e ricorsi, fra cui quello della Confindustria e di alcuni Comuni, con un riconoscimento di piena legittimità del suo impianto, della sua struttura, della coerenza con la disciplina nazionale e quindi con il riconoscimento della sua piena validità». E ha aggiunto: «Potranno esserci singoli aspetti anche marginali che possono essere meglio precisati, cosa che potrà essere fatta in sede di discussione del Piano per la parte che riguarda gli ambiti interni, e l’attività dei giudici ci è utile anche per giungere a questo ulteriore livello di definizione».
La illegittimità rilevata dal Tar, ha dichiarato Soru, «ha come conseguenza non che possano essere fatte salve delle lottizzazioni che non hanno i requisiti fissati dal Piano paesaggistico, ma che è sufficiente che sia il Comune a verificare autonomamente la sussistenza di questi requisiti. E’ comunque la Regione, anche in questi casi, che deve dare il nullaosta paesaggistico». Quindi «è eliminata anche solo l’ipotesi che attraverso l’Intesa si potessero approvare lottizzazioni prive dei requisiti richiesti per essere fatte salve».
La lettura data da Soru non è stata certo condivisa da Mauro Pili che ha invece parlato di «un fallimento dietro l’altro». La bocciatura di quella «norma discrezionale» è «sacrosanta», ma «restano restano in piedi in tutta la loro gravità» altre norme che «cancellano i Comuni, mettono a rischio l’ambiente e in ginocchio la Sardegna». Per questo motivo «è importante che siano i sardi a decidere se approvare o bocciare il Ppr con il referendum». Lunedì si saprà se quello abrogativo del Ppr sarà ammesso o no.
Durissimo anche il giudice del senatore olbiese Fedele Sanciu (Forza Italia: «Non sono bastate le molteplici voci di disapprovazione, le sentenze della Corte dei Conti, il pronunciamento della Corte d’Appello sulla Statutaria e la recente decisione del Tar a frenare l’inarrestabile smania del presidente Soru di voler controllare tutto e tutti». Quelli del Tar sono «sonori schiaffoni».
Secondo Silvestro Ladu, capogruppo di Fortza Paris in consiglio regionale, la sentenza del Tar «elimina un vero e proprio obbrobrio legislativo che dava alla giunta un potere discrezionale di stampo feudale: con le stesse regole tutto poteva essere permesso o vietato».
Il tecnico Alberto Boi, responsabile del Centro servizi urbanistici e consulente di diverse Procure, ha spiegato che «gli effetti della sentenza sono immediati, per cui i Comuni devono rilasciare le concessioni edilizie». Inoltre, a suo avviso «le motivazioni della sentenza non sono solo procedurali ma sostanziale, per cui a essere messo in discussione è l’intero istituto dell’Intesa perché toglie la competenza esclusiva al Comune in materia urbanistica». Pertanto, ha concluso Boi, «la Regione farebbe bene a non impugnare la sentenza del Tar, né a chiedere la sospensiva». Perché se la sospensiva non venisse accolta si creerebbe una paralisi di almeno due-tre anni in attesa del pronunciamento del Consiglio di Stato. E allora? «La Regione - ha concluso - deve dotarsi subito di una norma che abbia i requisiti di legge, in caso contrario si entrerebbe in una fase di caos e tutto il Ppr, con i successivi ricorsi in punti decisivi, potrebbe essere fatto decadere dai giudici». A quel punto «i danni sarebbero irrimediabili.
Si è svolta sabato 27 ottobre, presso la Sala municipale di Bressana Bottarone, l’Assemblea dei Comitati e delle Associazioni contro l’autostrada Broni-Pavia-Mortara. Di fronte a 150 persone, si sono alternati al tavolo dei relatori i rappresentanti di dieci dei diversi comitati cittadini, che hanno esposto i problemi che il tracciato procurerà ai singoli centri abitati, e delle diverse associazioni, che hanno posto l’accento sulle criticità dell’opera. I Comitati e le Associazioni riconoscono che alcune aree della Provincia di Pavia hanno oggettivi problemi viabilistici, ma ritengono che l’autostrada, lungi dal risolverli, li aggraverà. Ma i problemi viabilistici non sono gli unici aspetti che sconsigliano la realizzazione dell’autostrada. L’autostrada ha, secondo i Comitati, forti controindicazioni per la salute: nel corso della serata sono state ricordate alcune evidenze statistiche, presentate anche in un recente convegno sull’inquinamento svoltosi alla Fondazione Maugeri, da cui si ricava come gli inquinanti del traffico siano tanto più dannosi quanto più giovani sono le persone che li respirano e come la vicinanza a strade trafficate aumenti l’incidenza dell’asma e delle malattie respiratorie. Altre statistiche stabiliscono che a Pavia, dove nel 2006 per ben 111 giorni è stata superata la soglia di attenzione per le polveri sottili, esiste una relazione significativa tra malattie dell’apparato respiratorio e cardio-circolatorio e inquinanti legati al traffico. Da un punto di vista strettamente ecologico, hanno invece ricordato i rappresentanti del WWF, un’autostrada lunga 67 km e larga 40 m, comporta la distruzione di 3.000.000 mq di un territorio eccezionalmente vocato per l’agricoltura; e altri 3.800.000 mq di questo territorio se ne andranno per l’esecuzione delle cave (alcune tra l’altro sotto il livello delle falde idriche) necessarie per ottenere gli inerti per la costruzione dell’opera. E anche sotto il profilo giuridico l’opera non manca di punti oscuri, tanto è vero che la palese violazione di numerose disposizioni di legge ha spinto i Comitati e le Associazioni a presentare tre ricorsi al TAR.
Al dibattito sono anche intervenuti Ezio Corradi vicepresidente dei Comitati Ambientalisti Lombardi che ha riferito delle analogie con l’ autostrada Cremona-Mantova, i rappresentanti del Comitato di Zinasco che si oppone alla costruzione dell’impianto di bioetanolo, del Comitati agricoltori, delle associazioni, Legambiente, La Rondine e Italia Nostra.
L’idea che è emersa nel corso della serata è che il territorio della Provincia di Pavia non deve essere considerato uno spazio da riempire, a maggior ragione se il riempimento avviene con colate di cemento e asfalto.
Non so se se vi è mai capitato, vedendo certe ambulanze che caracollano nel vuoto totale, magari notturno, a sirene spiegate, di chiedervi qual è il loro bilancio sanitario. Ovvero, se con tutto quel dispiegamento di decibel non facciano molti, ma molti, più danni alla salute di chi si trova a portata d’orecchio, di quanto vantaggio portino al tizio che sta chiuso là dentro in barella, o aspetta da qualche parte che l’ambulanza arrivi a prenderlo. E sottolineo: mi riferisco alla sirena spiegata nella notte, o nel vuoto pomeriggio di agosto. Non all’universo dei pronto soccorsi, del trasporto feriti, e compagnia bella. Figuriamoci!
Ecco, se vi è mai capitato di farvi una domanda del genere sul bilancio sanitario della sirena spiegata al popolo, forse potrebbe sorgere un dubbio simile anche di fronte a un altro aspetto, diciamo più raffinato, della medesima questione: il trasferimento dei diritti alla salute. Succede, ad esempio, col progetto del CERBA (Centro Europeo di Ricerca Biomedica Avanzata), città della scienza che secondo il suo mentore e promotore Umberto Veronesi “non può aspettare i tempi della politica” [1]. E figuriamoci se non siamo d’accordo un po’ tutti, sia sul ruolo di punta della ricerca del professor Veronesi, sia sulla necessità che questa ricerca si svolga in spazi adeguati, attrezzati, modernissimi, delle dimensioni necessarie. Le quali dimensioni necessarie, guarda caso, coincidono con “le aree messe a disposizione da Salvatore Ligresti nel Parco Sud” [2]. Ma va?
Un punto di vista, quello del “non poter aspettare i tempi della politica”, a quanto pare condiviso dalla politica stessa, che ad esempio nella persona dell’Assessora provinciale all’Ambiente, Bruna Brembilla (e Presidente del Parco greenbelt) non ha alcun dubbio nel dichiarare che “La nostra capacità di governo si esprime attuando questo ambizioso progetto, in armonia con il bene comune rappresentato da natura e ambiente del Parco”.
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Una bella sfida, questa di realizzare una “armonia” facendo atterrare in un campo arato superfici di tutto rispetto (più di 60 ettari), e volumetrie per niente trascurabili e indispensabili, oltre a pesanti per quanto “compatibilizzati” interventi alle infrastrutture (si calcola una presenza quotidiana di 15.000 persone, e il solo centro ricerca ha una superficie complessiva di 60.000 mq). Il tutto, in una zona per niente trascurabile in quanto a ruolo territoriale.
Le famose aree “messe a disposizione da Salvatore Ligresti”, oltre che più grosse ad esempio di tutta la superficie brownfield della Bicocca per citare un famoso paragone locale, non si collocano né in una fascia tutto sommato di urbanizzazione consolidata, né in una posizione neutra. Basta a questo proposito usare quello strumento di democrazia geografica che è Google Earth, per rendersene conto. Siamo nell’estremità meridionale del territorio comunale di Milano, quasi ai confini con quello di Opera, e anche dall’arteria principale (le ultime propaggini della via Ripamonti, che si appresta a diventare il tratto metropolitano della Statale 412 Valtidone per l’Oltrepo pavese-piacentino) si inizia a notare la discontinuità fra l’insediamento compatto e quello che un po’ oltre l’abitato di Noverasco e il tracciato della Tangenziale diventerà il corpo principale del parco di greenbelt agricola.
Per dirla con parole parecchio più povere, dopo il corridoio di asfalto e cemento ininterrotto della periferia milanese, che prosegue fino al capolinea tranviario oltre il vecchio borgo dell’Assunta abbondantemente ingollato da tutto il resto, qui si inizia, anche se con qualche discontinuità, a respirare. Una discontinuità che si nota anche scorrendo le tavole del piano di coordinamento del Parco Sud, dove appunto qui la retinatura delle zone in qualche modo aperte diventa più rarefatta, le campiture da continue si fanno sfrangiate, diventano cunei, strisce, fino ad esaurirsi contro la città compatta che la greenbelt è chiamata a rintuzzare.
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Le cinture di verde agricolo, che si chiamino Greenbelt, o Urban Growth Boundaries, che si tratti di scelte locali o di politiche nazionali di più ampio respiro, sono da sempre oggetto di discussione. Si favoleggia che la prima indicazione tecnica venga addirittura da Dio in persona, il quale con la riconoscibile voce tonante avrebbe dettato dal cielo che c’è un posto per le case, uno per la campagna, e un altro intermedio fra di esse [3]. Più nota e moderna l’indicazione di Ebenezer Howard e del successivo movimento per le città giardino, evoluto poi sino alla contemporanea pianificazione territoriale, secondo cui a evitare la crescita omogenea e compatta delle grandi aree urbane, vanno riservate a verde, con funzioni agricole e/o di tempo libero, ampie corone e cunei liberi. È un salto concettuale, rispetto al verde urbano ottocentesco, inteso soprattutto come passeggio, servizio locale, spazio pubblico sociale complementare alla piazza. Qui si toccano anche temi ambientalmente più vicini alla sensibilità di oggi, come ad esempio la relativa autosufficienza alimentare dei bacini territoriali, o in generale un’idea di pianificazione del territorio che scavalca di gran lunga il coordinamento delle opere pubbliche di un Haussmann, o anche le finalità estetico-sanitarie del primo Olmsted.
Ma pur con tutte queste alte premesse, qui non bisogna dimenticarsi che siamo di fronte alla medesima amministrazione comunale che col suo sindaco precedente (tanto per ricollegarsi a Olmsted) ha definito Central Park una manciata di alberelli piantata all’ombra di mastodontici grattacieli. Una sofistica da oratorio, visto che nessuno può negare che anche quella roba sia un park, e che senza dubbio sia molto central, come dimostrano i valori immobiliari di quei grattacieli ... In definitiva lo stesso modo di ragionare piuttosto sbrigativo che emerge anche nel caso del progetto CERBA, accettato e sottoscritto in pieno non solo da Comune e Regione (amministrazioni di centrodestra), ma anche dalla Provincia (amministrazione di centrosinistra, e di passaggio anche organo garante della greenbelt metropolitana). Per cui la “capacità di governo si esprime attuando questo ambizioso progetto”, le cui ambizioni si devono realizzare lì, e non altrove: tagliando le gambe, per il momento solo in dettaglio, all’idea stessa di greenbelt, visto che le sognanti vedute a volo d’uccello dello Studio Boeri si collocano esattamente sopra una delle rare fasce di discontinuità dell’edificato urbano. Anche senza pensare a cosa poi succederà, ad esempio, alle aree lasciate libere tutt’attorno.
Ma non finisce qui, tra le frange dell’urbanizzazione (ancora) rada fra Milano sud e la Tangenziale. La greenbelt ha un respiro metropolitano-regionale, e corrispondentemente scatena spiriti animali di scala proporzionata. Lampante il serafico assessore milanese al territorio Carlo Masseroli, quando commentando la firma dell’accordo di programma per il CERBA si lasciava scappare in pubblico un eloquente “la firma di oggi è un segnale importante per lo sviluppo del Parco Sud finora bloccato e quindi non fruibile” [4]. Dove il verbo fruire forse non si riferisce esattamente ad anziani che raccolgono insalate selvatiche, adolescenti scorazzanti in bicicletta tra i filari di alberi residui, padri che tentano di mostrare ai figli un contadino in carne e ossa da raccontare ai posteri. Il fruire a cui si riferisce Masseroli è quello che si misura in metri cubi per metro quadro, e si gusta al meglio al chiuso dei consigli di amministrazione, più che tra le fastidiose umide nebbie di queste terre così mal pavimentate!
Dove il “sogno che Umberto Veronesi insegue dall’inizio degli anni Novanta” si incrocia con altri sogni inseguiti da vari altri in vari periodi, e che ad esso si sovrappongono, puntando le canne mozze della stampa di opinione contro chi, naturalmente, opponendosi a seicentomila metri quadrati di astronave scientifico-immobiliare proprio lì sopra, è un oscurantista contrario al progresso umano.
E se come ci insegna Walt Disney i sogni son desideri, chiusi in fondo al cuor, figuriamoci quanti altri sogni stanno sepolti nel cuore di tenebra del Parco Sud: la medesima fascia che un paio di generazioni fa, ci raccontavano prima Cesare Chiodi e poi Amos Edallo, vedeva le cascine svuotarsi in mancanza di una seria urbanistica rurale a scala sufficiente almeno ad attenuare il fascino delle mille luci della vita cittadina. Si vede che quei tempi – quelli dell’urbanistica rurale - non sono ancora arrivati, se i sogni di tutti i sindaci sono letteralmente esplosi da quando si è capito che la variante urbanistica per il CERBA è cosa praticamente fatta: “Sono 22 i Comuni che hanno chiesto la modifica dei confini del parco, non avendo più spazio per costruire asili, scuole, case. Confini disegnati vent’anni fa, dunque nessuno esclude l’opportunità di una revisione” [5].
Insomma, dove la pianificazione metropolitana sembra funzionare assai male, funzionano invece altri processi, opposti, di scala sovracomunale, ovvero la somma degli interessi particolari, che secondo logica (una logica a quanto pare non condivisa dalla politica attuale) non compone mai l’interesse generale.
Interessi particolari che hanno modo di irrompere, ora, proprio nella breccia aperta dal comune di Milano: perché il capoluogo si, e poniamo Rosate, o Bellinzago, no? Per dirla con Paolo Hutter, uno che di ambiente, di assessorati, di amministrazione, se ne intende abbastanza, “In via Ripamonti sembra inarrestabile la marcia del CERBA, il Centro europeo per la ricerca biomedica avanzata, come se chiedere alla struttura di esser costruita altrove, e non sui campi, fosse una mancanza di riguardo verso la sanità”.
Perché proprio lì? Perché forzare la mano, imporre un potenziale pasticcio a colpi di sogni, alti traguardi della scienza, tavole di rendering dove anche la specie di autostrada in cui si trasformerà la via Ripamonti è disegnata in verde? E dove con un trucchetto da baraccone le alture dell’Oltrepo pavese, che stanno giù decine e decine di chilometri in fondo alla statale Valtidone, spuntano per incanto più o meno al posto della Tangenziale? Concessione poetica, a fare il paio con quella edilizia.
Resta solo da sperare (c’è qualche possibilità?) che almeno il sognatore Veronesi provi a fare un ragionamento simile a quello dei medici che sino a non molto tempo fa partecipavano ai gruppi di lavoro sull’assetto del territorio: prevenire è meglio che curare. Una grande fascia di verde, continua, che comincia il più possibile vicino al cuore del capoluogo, è garanzia di una migliore qualità ambientale, baluardo contro la congestione, l’inquinamento, l’impermeabilizzazione dei suoli. E, visto come stanno andando le cose, ragionare anche per il CERBA a dimensione metropolitana (e già che ci siamo: perché non farlo più vicino a una fermata esistente del metro?) metterebbe un tappo alle rivendicazioni dei sindaci, che in effetti fuori dal loro territorio non ci possono andare e a quella prospettiva sono obbligati per contratto.
Forse c’è poco da sperare: provate voi a spiegarlo, al tizio della sirena ululante nella notte, che al mondo c’è qualcosa d’altro, oltre al tizio con la colica in barella sul retro. Ma bisogna aver pazienza, e riprovarci.
Professor Veronesi: come e dove li trasferiamo, i diritti alla salute?
Nota: per una migliore informazione storica sull’idea della greenbelt e sull’evoluzione degli insediamenti compatti pianificati sul modello città giardino, faccio riferimento al sintetico testo di Charles Benjamin Purdom;il dibattito anche aspro attuale, sulla revisione del concetto e del ruolo delle grandi fasce di verde agricolo in Gran Bretagna, è ampiamente documentato nella cartella Spazi della Dispersione, di Mall; sui temi più generali del Consumo di Suolo, c’è l’omonima cartella di Eddyburg; gli articoli citati nel testo e riportati più in dettaglio nelle note qui di seguito, sono consultabili a testo intero in una apposita Raccolta ; ancora per chiarire meglio i termini del progetto, della variante, delle varie contraddizioni, allego qui in pdf la brochure informativa ufficiale del Cerba, che contiene anche qualche dato in più sul progetto architettonico-urbanistico, e le osservazioni (sostanzialmente negative) presentate qualche mese fa dalle Associazioni ambientaliste rispetto alla proposta; altre informazioni, sia al sito del Cerba che a quello dello Studio Boeri e infine all'area Piano Regolatore del Comune di Milano e Parco Sud della Provincia (f.b.)
[1] Simona Ravizza, Veronesi: la città della scienza non può aspettare «Milano rischia di perdere l’unico centro europeo di ricerche biomediche», Il Corriere della Sera, 16 marzo 2006
[2] idem
[3] “ Le case dei Leviti situate nelle città, possono sempre venir riscattate […] I loro campi suburbani però non vadano venduti, perché sono loro possessione perpetua” (Levitico, 25, 34).
[4] Ricerca e innovazione: firmato l'accordo di programma per il CERBA, Milano-Lorenteggio News, 6 marzo 2007
[5]Stefano Rossi, Parco Sud, ventidue sindaci in rivolta "Vogliamo più spazio per costruire", la Repubblica, 21 ottobre 2007
In principio c’era la «Città dello Sport», progettata dall’architetto Santiago Calatrava su un’area dell’università di Tor Vergata e da costruire in gran fretta, con i soldi (250 milioni di euro) della legge per Roma capitale, in tempo per i Mondiali del Nuoto: 18 luglio-2 agosto 2009. I lavori marciano, ma, comunque vada, la creatura acquatica per quella data potrà essere pronta solo in parte - ormai questo è assodato - e il grande evento ha già da tempo cominciato a migrare (anche) altrove.IL VECCHIO Foro Italico, che sarà rimesso a nuovo con i soldi del Coni ospiterà il grosso delle gare. Il Piano delle opere prevede la ristrutturazione e la copertura dello Stadio Centrale del Tennis. Ma non è solo lì che si concentra l’attenzione degli organiz-
zatori. La presidenza del Consiglio nell’ottobre del 2005 ha dichiarato i Mondiali del Nuoto «Grande evento» e con questo ha creato una corsia preferenziale per la realizzazione tutto ciò che servirà ad ospitarlo. Piscine, impianti, foresterie. Una macchina piuttosto potente, che la presidenza del Consiglio ha messo in mano a Giovannino Malagò, presidente del Comitato organizzatore, abituato a trattare con la Ferrari, al presidente della Federazione italiana nuoto, Paolo Barelli, già senatore di Fi, e al Commissario delegato Angelo Balducci. Con licenza di realizzare nella capitale (e a Frosinone, Tivoli, Anguillara, Monterotondo) una serie cospicua di nuove opere natatorie.
Oltre a Tor Vergata, altri lavori per realizzare 3 impianti con annesse strutture ricettive, finanziati in questo caso dalla Federazione italiana nuoto, dovrebbero cominciare entro la fine dell’anno: così è stato stabilito alcuni giorni fa, durante l’ultima riunione tecnica. A Valico San Paolo, il progetto si fonde con quello del campus universitario di Roma Tre e prevede una piscina coperta, una scoperta da 50 metri e una foresteria con sala convegni. Un secondo polo, a Pietralata, secondo lo stesso schema impianti-campus universitario, in questo caso della Sapienza, comprende due piscine, una coperta e l’altra scoperta da 50 metri, palestre, foresteria, etc.. Infine a Ostia, dovrebbe sorgere un terzo polo. Anche in questo caso non sono mancati i problemi. Per i primi due impianti le gare d’appalto (con base d’asta rispettivamente di 12 e 11 milioni circa) sono state bandite all’inizio di agosto e il termine, spostato di 30 giorni per dare il tempo ai partecipanti di ricevere tutti i chiarimenti necessari, è scaduto il 24 ottobre. A breve (forse già oggi) si dovrebbero conoscere i nomi di queste e delle altre due gare bandite per i lavori di ristrutturazione del Foro Italico (base d’asta circa 23 milioni) e per la realizzazione del Museo dello Sport (20milioni). Per il polo di Ostia c’è stata qualche complicazione in più. L’impianto doveva sorgere vicino al PalaFijlkam: un’area definita con dovizia di particolari nella delibera del 25 luglio 2007, che dava il via anche alle procedure d’esproprio per la parte privata. Progetto preliminare affidato dalla Fin all’ingegner Renato Papagni. Un nome che conta ad Ostia e che - contesta un’interrogazione parlamentare del Verde Bulgarelli -, accentra già in sé parecchie funzioni: «presidente del Consorzio turistico Litorale romano, presidente di Assobalneari, membro della Commissione Impianti della Fin». I Verdi hanno alzato le barricate e l’impianto con l’annessa foresteria, 100 metri per quattro piani, destinata agli atleti non si farà più lì. Dove, quindi? La nuova area, non lontana da quella originaria e messa a disposizione dal Comune, è già stata individuata. Mercoledì l’assessore all’urbanistica Roberto Morassut porterà in giunta la delibera con la modifica che comunicherà poi al Commissario delegato, come prevede la procedura abbreviata autorizzata dalla Presidenza del Consiglio.
Ma c’è ancora un’altra partita, apparentemente più piccola, in realtà la più interessante dal punto di vista dei privati, a cui è stata data la possibilità di concorrere, presentando progetti per ampliare «strutture sportive esistenti funzionali alla celebrazione del “Grande Evento”», così recita la delibera 85 approvata in Consiglio comunale il 21 maggio 2007. Da allora sono state avanzate 28 proposte. Si va dallo storico «Circolo Tevere Remo» a «Cristo Re». Dall’azienda produttrice di latte «Agricola Salone» a «SS. Lazio Nuoto». In almeno due casi, i progetti presentati ricadono all’interno di un parco: una piscina che un Circolo sportivo vorrebbe realizzare all’interno del parco Decima Malafede con annessa foresteria e un altro impianto che una struttura alberghiera vorrebbe costruire all’interno della Valle dei Casali. Nel primo caso, il via libera è arrivato prima che si insediasse la nuova presidenza direttamente dal commissario del parco. Nel secondo caso, invece, la questione è stata analizzata dal Consiglio di Roma Natura, che ha approvato la deroga. Voto favorevole degli altri consiglieri, voto contrario di Mauro Veronesi. Scorrendo il verbale della riunione, le sue obiezioni si possono sintetizzare così: se nel nuovo prg sono previsti 700 ettari per impianti sportivi perché realizzare le piscine nelle aree protette? E poi perché devono «ricadere» sui parchi gli «errori di programmazione» compiuti sulla Città dello Sport? Infine, una preoccupazione anche di altri consiglieri riguarda l’uso pubblico della piscina: che in futuro non «debba servire all’albergo». Non tutti i progetti avranno seguito. E finora solo per 12 si è conclusa la conferenza dei servizi. Sempre mercoledì l’assessore all’urbanistica indicherà alla giunta un numero ristretto a 5-6 di impianti che si possono considerare idonei.
Storia a parte quella delle proposte presentate dal Circolo Canottieri Aniene, presieduto dallo stesso presidente del Comitato promotore dei Mondiali, Giovanni Malagò. Un primo progetto, per la costruzione di una piscina olimpionica a 50 metri dal Tevere, è trapelato e naufragato in seguito a feroci scontri nati all’interno del Circolo (con tanto di provvedimenti disciplinari e ricorsi vinti dai soci “dissidenti”) e a un esposto dettagliato presentato da Legambiente. Un nuovo progetto ha però soppianto il primo, trovando spazio – secondo quanto previsto dalla deliberazione di giunta del 18 luglio 2007 - vicino alla Moschea. L’area (ex “Palaparioli”, un po’ lontanuccia dal Circolo) ce la mette (in parte) il Comune. Mentre la «pubblica utilità» dell’opera - necessaria a procedere con i lavori - è stata certificata, a stretto giro, dal Commissario delegato del «Grande evento», Angelo Balducci. Perplessità, oltre che dai soci del Circolo poco propensi a mettere mano al portafogli, vengono dai residenti che - spiega il presidente del Comitato Parioli, l’ingegner Fraddosio - avrebbero voluto vedere «altrettanta sollecitudine per la realizzazione del parcheggio di scambio atteso da anni».
A Francesco Rosi – che sarà oggi a Napoli a Palazzo Reale per il convegno degli Annali sulla Grande Napoli: centro storico e aree est e ovest – è forse necessario proporre una riedizione del celebre "Mani sulla città", ma con una tesi opposta. Occorre cioè rimettere oggi le mani sulla città perché v´è troppa inerzia urbanistica, soprattutto sul capitolo "centro storico" che rischia di morire per eccesso di tutela. Non si preoccupino i difensori della conservazione (e chi scrive, tra questi).
Le mani di cui parliamo sono quelle della storia, quelle dal tatto sensibile, in grado di distinguere il significato, la qualità e il carattere innovativo dei progetti da realizzare, le mani che nei secoli hanno costruito la Napoli di cui menar vanto. Non quelle avide e rozze d´un recente passato contro cui sibilò invettive Roberto Pane e tuonò Luigi Cosenza e che diedero vita alla parte di città di cui vergognarsi. Il piano regolatore vigente non ci aiuta in questa direzione, interventista ma con discernimento critico, perché sul centro storico fornisce infinite regole ma non idee e prospettive generali. Le immagini di Napoli che oggi vedremo, girate da Mario Franco e commentate in sala da Rosi, ci dicono in modo inequivocabile che "bisogna rimettere le mani sulla città".
Rimetterle innanzitutto sul centro storico, superando la sindrome da Regno del Possibile. Il controverso progetto d´iniziativa accademico-imprenditoriale della seconda metà degli anni Ottanta ha finito per condizionare venti anni di politica urbanistica, fornendo tra l´altro l´alibi culturale e metodologico a una sostanziale inattività operativa. Nulla s´è fatto, ma ben poco c´era da fare: questa potrebbe essere la laconica sintesi del problema. Invece, con tutta evidenza, c´era e c´è molto da fare. Quanto alle risorse disponibili, si parla di 200 milioni d´euro dei fondi europei destinati al centro storico di Napoli; si ha inoltre notizia d´un recente accordo tra Regione, Comune e Curia napoletana per interventi su beni ecclesiastici. Non sappiamo come saranno distribuiti questi fondi né i particolari dell´accordo. Con buona pace del metodo "partecipato" e delle decisioni "condivise" che celebrarono la loro epifania nei Forum pre-elettorali del 2006.
Rimetterle sulla zona orientale, il nostro "non luogo" per antonomasia, tra depositi carburanti, aree dismesse, quartieri popolari un tempo d´esemplare decoro e un litorale che a fabbriche chiuse attende facoltà universitarie e porti turistici. Il piano regolatore prevede nell´area delle ex raffinerie un grande parco di 150 ettari collegato a piazza Garibaldi con un lungo viale in rettifilo e alberato. Sembra un frammento dell´utopia ottocentesca di Lamont Young che immaginava per la Napoli del futuro grandi boulevard, metropolitane sopraelevate e canali navigabili. Allo stato delle cose, l´iniziativa più concreta è un accordo con le società petrolifere per la delocalizzazione degli impianti entro i prossimi due decenni.
Rimetterle infine sulla zona occidentale, Bagnoli-Coroglio, area simbolo dell´urbanistica napoletana fin dagli anni della dismissione dell´Italsider. Rimetterle per dare lena a programmi che accusano dieci anni di ritardo tra operazioni di bonifica terrestre e marina, concorsi annullati per imperizia gestionale e poi rifatti, rimozioni controverse di colmate a mare e porti-canale di dubbia realizzabilità. È cronaca di questi giorni il rinvio della scelta del progetto vincitore del porto-canale per un supplemento di istruttoria tecnica sui quesiti: il porto-canale si interra oppure no? I progetti presentati sono compatibili con le esigenze della tutela paesaggistica? Cose non di poco conto ma da risolvere entro poche decine di giorni, si dice ora in un sussulto d´efficienza decisionista. In ogni caso, il progetto è avviato e non resta che seguirne gli sviluppi e gli esiti che si sperano corretti.
È opinione corrente che a Bagnoli-Coroglio si giochi il futuro della città, ma questa è una tesi non condivisibile. Il futuro di Napoli è nel restauro del suo centro storico, nella rigenerazione funzionale dei 1917 ettari di città pregiata per storia, arte, ambiente e paesaggio nei quali vivono centinaia di migliaia d´abitanti. Napoli può rinascere se il suo centro storico, da grande questione rimossa dell´urbanistica napoletana, diviene la priorità assoluta, più di Bagnoli, più della zona orientale, più della stessa politica dei trasporti.
Postilla
È un articolo esemplare per disinformazione. La nuova normativa del piano regolatore (basata sull’analisi e la classificazione tipologica, come nelle migliori e più note esperienze italiane), ha liberato il centro storico dall’obbligo della preventiva approvazione di piani particolareggiati, che nessuno era in grado di formare, e ha perciò finalmente consentito una vera e propria esplosione di interventi di restauro, manutenzione, conservazione, come sanno tutti gli operatori del settore e come trapela, pur nell’ormai generalizzata scarsa attenzione ai problemi urbanistici (quelli veri), anche dalle cronache cittadine. Chi insiste perché ci sarebbe un eccesso di tutela, o non sa quel che dice, oppure, gratta gratta, rimpiange proprio “Il regno del possibile”. Il che è confermato dall’auspicio di nuove idee per il centro storico. Quali idee? Quelle dello sventramento? Nessuna idea concreta è neanche vagamente accennata, se non quella di un indistinto (e pertanto ancor più pericoloso) appello al “fare”, al costruire. In alternativa ci sono solo la conservazione e il restauro, come prescrive il nuovo piano regolatore. E lo spot, veramente ignobile, “mettere le mani sul centro storico”, al di là della distorsiva piaggeria nei confronti di un film che ha invece combattuto tenacemente la Napoli del cemento ad ogni costo, si apparenta piuttosto ad un più consono “mettere le mani in pasta”: attività di rinnovato successo sotto il Vesuvio.
PROGETTO “PARCO POSSIBILE”
collocato nel quartiere Isola-Garibaldi-ex Varesine;
promosso dall’Associazione Chiamamilano;
patrocinio dal Consigliere Comunale Milly Moratti,
Il presente schema di progetto, denominato “Parco Possibile”, si contrappone al progetto “Porta Nuova”, approvato recentemente dal Comune di Milano; e si pone come alternativa a quest’ultimo, non solo sotto l’aspetto della configurazione architettonico-urbanistica, ma anche sotto l’aspetto della sua gestazione, giacché esso nasce come espressione delle speranze, delle proposte, delle aspettative comunicate ai progettisti dalla popolazione del quartiere. Il Forum Isola, condotto da un tenace e coraggioso gruppo di abitanti della zona, preso atto dello sgomento suscitato nella gente del luogo dall’immane e violento progetto comunale, ha raccolto suggerimenti, notizie ed informazioni utili ad impostare lo schema di progetto alternativo che qui viene presentato.
Il progetto comunale, al contrario, non tiene in nessun conto i desideri espressi dalla popolazione locale, nonostante le ripetute (ma inascoltate) richieste di incontri e di colloqui, inoltrate agli Amministratori responsabili dai residenti della zona.
Quando questi Amministratori, e con loro gli imprenditori immobiliari interessati al progetto comunale, sostengono – per giustificare il loro scortese silenzio – che le richieste della popolazione sono fuori dalla realtà, impossibili da realizzare, del tutto utopistiche e insensate, essi mentono spudoratamente; giacché quelle richieste sono invece piene di buon senso, realistiche, ed assennate; e sono anche – fatto apprezzabile ma non abbastanza riconosciuto – pronte a prendere in considerazione tutte le ragioni della controparte, cioè del Comune e degli imprenditori.
Quali sono queste richieste? Sono quelle che da più mesi il Forum Isola e gli abitanti del quartiere cercano invano di sottoporre all’attenzione del Comune:
1a richiesta dei residenti: rispettare il giardino del quartiere.
Si richiede di conservare il giardino esistente compreso tra Via Confalonieri e Via De Castilla; giardino frequentato da bambini, da madri con neonati, da persone anziane, e in genera da abitanti del quartiere desiderosi di riposo e di ricreazione.
Nel progetto comunale il giardino viene letteralmente cancellato; viene cioè riempito di enormi ingombranti condomini tra i quali rimangono liberi soltanto piccoli appezzamenti di verde; che saranno riservati agli abitanti degli edifici circostanti, e quindi sottratti alla popolazione del quartiere.
Il progetto “Parco Possibile” tiene conto della richiesta dei cittadini e conserva intatto il giardino di Via Confalonieri, anzi ne aumenta la superficie totale, rettificandone il perimetro, e raddrizzando uno sghembo edificio triangolare che l’incoerente progetto comunale ha posto alla estremità est del giardino.
2a richiesta dei residenti: allontanare dalla edilizia esistente una minacciosa cortina di alti ed incombenti volumi.
Si richiede di non togliere la vista del cielo alle case del quartiere e di non oscurare la luce del sole, costruendo nelle immediate vicinanze edifici troppo alti e massicci; si richiede in sostanza di rispettare coloro che da anni abitano nelle case allineate davanti al giardino, e godono di una ampia veduta ancora oggi libera da costruzioni oppressive.
Mentre il progetto comunale innalza di fronte a queste case una cortina compatta di alte costruzioni e, poco distante, una coppia di altissimi grattacieli, togliendo ai residenti aria, luce e vista sul giardino; il progetto “Parco Possibile” al contrario tiene conto della richiesta dei cittadini; non colloca nessun nuovo edificio davanti alle case di Via Confalonieri, e lascia inalterata e libera la vista che dalle case di apre sul verde antistante.
3a richiesta dei residenti: prevedere meno cemento e più verde.
Si richiede di diminuire la cubatura complessiva, che nel progetto comunale è stata calcolata con indici molto più alti di quelli contenuti nel Piano Regolatore; e di aumentare la superficie destinata a verde pubblico.
La cubatura prevista dal progetto comunale raggiunge un valore quasi doppio di quella indicata dal Piano Regolatore Generale; e ciò avviene per effetto della libertà concessa ai piani particolareggiati (detti oggi piani di intervento) ai quali è data facoltà di derogare dagli indici precedentemente prefissati. La nuova cubatura ammessa nei piani particolareggiati viene concordata tra costruttori privati e Amministratori Pubblici. Non è difficile supporre che nel corso delle trattative gli Amministratori concedano ai costruttori una cubatura molto maggiore di quella prescritta, e chiedano in cambio ai costruttori generose contropartite, non sempre trasparenti.
Nel progetto “Parco Possibile”, pur auspicando che il Comune si ricreda e accetti di diminuirla, la stessa cubatura del progetto comunale viene rispettata e mantenuta; e ciò per poter fare un confronto obiettivo ed attendibile fra i due progetti; e dimostrare quanto sia diverso e migliore il progetto “Parco Possibile”, attento e sensibile alle richieste della gente, rispetto al progetto comunale, sordo ed indifferente a quelle stesse richieste.
| Il parco visto dall'alto (Corriere della Sera) |
La superficie a verde del piano comunale è molto frammentaria, poco estesa, male utilizzabile; e per giunta è interrotta da frequenti volumi costruiti al suo interno. Inoltre la superficie a verde si trova in parte collocata sulla copertura di ampi parcheggi sotterranei, dove la poca profondità del terreno impedisce la crescita di alberi di alto fusto. E’ un verde quindi che appare sulla carta ma che in realtà non esiste quasi.
Il progetto “Parco Possibile”, come appare dalle tabelle e dalle tavole grafiche qui allegate, presenta una disposizione degli edifici più semplice e razionale, ed aumenta sensibilmente l’estensione di verde destinato all’intera zona.
L’area coltivata a verde, ossia il nuovo parco, si trova sollevata di circa sei metri (l’equivalente di due piani fuori terra) rispetto alla attuale quota stradale; tale rialzo consente di far passare in gallerie le due arterie di grande traffico che attraversano oggi la zona e la tagliano in più porzioni, separate e non comunicanti. Sia l'arteria diretta est-ovest (Viale Don Sturzo); sia l'arteria diretta nord-sud (Via Melchiorre Gioia) scompariranno sotto il rialzo occupato dal parco e lasceranno indisturbata e tranquilla la grande area destinata a verde. Poiché i parcheggi richiesti dalle norme urbanistiche sono tutti collocati sotto gli edifici di progetto, nessuna struttura interrata verrà mai a trovarsi sotto il verde del parco. La profondità del terreno da coltivo sarà perciò tale da consentire la crescita di alberi di alto fusto in tutte le zone del parco, fatta eccezione per le due arterie sotterranee ricoperte da prato.
Una cortina continua di case poco alte, che circonda il parco lungo l’intero suo perimetro, ha lo scopo di delimitare e concludere la zona verde entro un margine preciso e ben visibile; e anche di nascondere la disordinata edilizia circostante e sottrarla alla vista di chi si trova nel parco. Le case sono alte tre piani fuori terra sul lato affacciato verso il parco rialzato; e cinque piani fuori terra sul lato rivolto verso le strade esterne, poste a quota più bassa del parco.
La cortina si interrompe in alcuni punti di notevole importanza viabilistica e paesaggistica. Viene aperto un varco in corrispondenza di Corso Como, sull’asse della prospettiva rivolta verso la porta neoclassica di Corso Garibaldi; un altro varco alla altezza del collegamento con il giardino di Via Confalonieri, così da formare un percorso ininterrotto che va dal verde del parco al verde del giardino; ed un terzo varco sull’asse di Viale Tunisia, in corrispondenza dell’imbocco della galleria che accoglie il traffico proveniente dal viale e lo immette sotto il parco.
Due aperture lasciate libere nella cortina di case si presentano di particolare importanza: una rivolta verso Viale Restelli: ampia, visibile, spaziosa; l’altra, meno evidente, rivolta verso Via Galileo. Dalla prima apertura, risalendo il viale verso nord e percorrendo una lunga ed ininterrotta passeggiata pedonale, si raggiunge lo spazio circolare della grande Piazza Carbonari. La passeggiata, per evitare attraversamenti di traffico motorizzato, scavalcherà, con due sovrappassi erbosi, gli incroci di Via Galvani e di Via Tonale; mentre la stessa Piazza Carbonari, convogliati in galleria gli automezzi che oggi la attraversano, diventerà un’ampia area verde, indisturbata e tranquilla, interamente coltivata a prato e ad alberi.
La seconda apertura, rivolta verso via Galilei; non è molto visibile, né particolarmente segnalata, ma di importanza vitale per creare un collegamento tra il “Parco Possibile” e il verde di Piazza Repubblica, progettato tempo fa e mai realizzato. Sono passati circa venti anni dalla data del concorso bandito per la sistemazione di questa piazza. Il concorso, vinto dagli architetti Zanuso e Chambry, proponeva la brillante soluzione di coprire la grande arteria di Via Pisani, che oggi divide la piazza in due metà non comunicanti, e di creare, al di sopra dell’arteria, una collina coltivata a prato, così da trasformare l’intera piazza in una unica superficie a verde, riparata dal traffico, protetta dai rumori, non raggiunta dall’inquinamento dei gas di scarico. Il progetto vincitore del concorso merita di essere ripreso ed integrato con il progetto “Parco Possibile”. La connessione delle zone verdi previste dai due progetti darebbe origine ad un prolungamento del percorso pedonale, in direzione sud, analogo a quello sopra descritto in direzione nord. Partendo dal nuovo parco di progetto, che già si trova sopraelevato rispetto alla quota stradale, si scavalca con una passerella Via Galilei e si raggiunge Piazza Repubblica, supponendolo già trasformata e sopraelevata secondo le indicazioni del progetto vincitore. Da qui, scavalcando con una seconda passerella i Bastioni di Porta Venezia, anch’essi sopraelevati rispetto alla quota stradale, si scende nei Giardini Pubblici; e infine, attraverso Via Palestro, si arriva al piccolo ed accogliente parco di Villa Belgiojoso. Se un simile percorso fosse realizzato verrebbe offerta non ai soli abitanti del quartiere Garibaldi-Isola, ma ai cittadini di tutta Milano, una passeggiata tutta nel verde, mai interrotta, lunga quasi tre chilometri, che dalla periferica Piazza Carbonari arriverebbe alla centralissima Via Senato.
| Veduta del Parco Isola |
La cortina di case, poco alte, allineate lungo il perimetro del parco, creano un forte contrasto volumetrico con gli unici due gruppi di grattacieli che compaiono nel progetto. Sono grattacieli non collocati a caso, come quelli del progetto comunale, ma messi in posizione strategica, perché corrispondenti a due centri nevralgici della vita cittadina: la stazione di Porta Garibaldi e la sede degli Uffici Comunali. I due gruppi di grattacieli aiutano a segnalare da lontano la presenza di questi due poli urbani e nello stesso tempo inglobano e nascondono le infelici torri esistenti; e precisamente le due torri abbinate nei pressi della stazione ferroviaria; e la torre isolata degli uffici comunali; tre costruzioni di notevole altezza ma di scarso valore architettonico, che sembrano sorte al di fuori di qualsiasi ragionevole pianificazione urbanistica.
L’area su cui far sorgere il futuro grattacielo, destinato ad ospitare gli uffici della Regione Lombardia, è stata scelta lungo Viale Restelli. Non merita citare il progetto approvato dal Comune che, nonostante la firma di un noto architetto internazionale, è uno dei peggiori esempi di architettura pubblica progettati per Milano. Sulla stessa area il progetto “Parco Possibile” prevede un edificio composto, sobrio e semplice; che cerca di stabilire una corrispondenza volumetrica con il grattacielo che gli si eleva di fronte al di là del Viale Restelli. I due grattacieli, quello futuro e quello esistente, essendo di altezza e di profilo simili, ed elevandosi nel centro di due piazze di forma e dimensione uguali, generano una stretta corrispondenza tra spazi urbani e volumi edilizi, e mantengono una intima continuità tra edilizia di ieri ed edilizia di oggi.
Vi sono due modi di inserirsi nella città. Uno di questi non presta nessuna attenzione alle preesistenze ambientali: è il modo seguito dal progetto comunale. L’altro, al contrario, tiene conto delle vicinanze, prende in esame i dintorni, stabilisce un rapporto con l’urbanistica circostante; e cerca di dare alla città una nuova configurazione più ricca e più stimolante: è il modo adottato dal progetto “Parco Possibile”.
4a richiesta dei residenti: salvaguardare la “Stecca”.
Si richiede di conservare e restaurare l’edificio della “Stecca”, divenuto in questi anni luogo di incontro, di ritrovo, di elaborazione culturale e politica. L’edificio non ha nessun valore architettonico, ma ha un grande valore simbolico, perché è vissuto dalla popolazione come centro di vita e di attività comuni, ed è oggetto di un forte legame affettivo, che comprensibilmente si vuole rispettare e salvaguardare.
Mentre il progetto comunale prevede di abbattere l’edificio della Stecca, e così facendo calpesta i desideri e gli affetti del quartiere, dimenticando che l’urbanistica non è fatta solo di ragionamenti funzionali ed economici, ma è anche alimentata da sentimenti individuali e collettivi; il progetto “Parco Possibile”, al contrario, intende conservare e restaurare l’edificio della Stecca, consapevole del grande valore ideale che esso rappresenta per l’intero quartiere.
| Dettaglio del Parco Isola |
Contro un modo di procedere insensibile e sordo (tanto abituale e caro all’Amministrazione Comunale) i cittadini della zona hanno voluto opporre una resistenza tenace, e ricorrere ad una protesta concreta e positiva. Non parole, non lamentele, non discorsi vaghi: ma uno schema ben leggibile di progetto alternativo, il progetto “Parco Possibile”. Hanno così voluto dimostrare nei fatti come si possa risanare la disordinata area esistente, e ribaltare la caotica impostazione dello scadente progetto comunale.
Nota: altri materiali e informazioni su questo progetto e il processo che intende promuovere, al sito di Michele Sacerdoti (f.b.)
23 ottobre 2007
Signori del mattone
padroni di Milano
EXPO E OLTRE La capitale dell’industria italiana è diventata la città dei mille cantieri, una metamorfosi che cambia lo skyline ma anche la mappa del potere: meno fabbriche e più immobiliaristi, vecchie volpi e nuovi arrivati. Alla fine comandano i soldi delle banche, mentre la politica resta ai margini
A Milano e dintorni molti sono in ansia, perché non è stato ancora deciso dove si farà l’Expo 2015 e la turca Smirne resta in gara, con qualche speranza a giudicare dal nervosismo che ormai regola i rapporti tra il megagovernatore Formigoni e il sindaco Moratti, tra loro e gli altri «poteri forti» della città, poco disposti a trattare con la politica.
Peggio che imbarazzante il titolo dedicato dal Sole-24 Ore di domenica scorsa ai «grandi progetti» milanesi (con paginata al seguito): «A Milano progetti da 7 miliardi a debito». La spiegazione: i cantieri di Milano nel segno delle grandi banche e degli affari.
Che sono poi principalmente IntesaSanPaolo e Unicredit (e, in coda,le altre). Tutto noto. Ma il riassunto di quei progetti gridato così in prima pagina dall’organo confindustriale, mentre sta iniziando la visita dei commissari della Bie che dovranno decidere se promuovere o meno la candidatura milanese, quel "debito" grosso grosso sbattuto in faccia non mettono certo allegria tra i partigiani di Milano internazionale. A meno che non si legga la sortita di Ferruccio De Bortoli come una perorazione: dateci l’Expo, altrimenti...
L’Expo significa tanto: per Milano è ovvio, ma anche per il destino politico della signora Moratti, ambiziosa controparte dello stesso presidente regionale nella scalata al dopo-Berlusconi, e soprattutto per la sorte dei "nuovi immobiliaristi milanesi", che non sono gli speculatori degli anni sessanta, quelli del "rito ambrosiano", quelli dei palazzoni costruiti in deroga al piano regolatore e poi "regolarizzati" dalle varianti su misura allo strumento urbanistico.
In gara oggi (ma in realtà dentro una sorta di oligopolio collusivo) nella spartizione della città ci stanno altre figure, di ben altro peso, in felice sintonia con il sistema bancario italiano, figure che non hanno bisogno di infrangere le regole e di rubare sul cemento: le regole dopo dieci anni di giunta Albertini e un anno di giunta Moratti, dopo undici anni di Formigoni, si fanno secondo il principio che è il mercato a dettarle. Dal momento che siamo tutti "liberisti" e che fermare o condizionare l’invasione del mattone potrebbe apparire poco moderno e contro lo "sviluppo".
L’Expo 2015 sarebbe una tavola imbandita per le migliore forchette, tra immobiliaristi e costruttori, ma anche tra bancari, assicuratori, famiglie di vecchia ricchezza, eccetera eccetera. Un esempio, per spiegare le attese molto concrete: la delibera del consiglio comunale che tocca l’accordo del 19 luglio scorso per la concessione in diritto di superficie al Comune di Milano di 1.280.000 metri quadrati di terreno, metà di proprietà della Fondazione Fiera Milano, l’altra metà della famiglia Cabassi, al confine con la nuova fiera di Rho-Pero. Un’area brulla. Il Comune se ne servirà, per ospitare strutture e servizi utili all’Expo 2015, permanenti, ma anche temporanei.
Chiusa l’Expo, qualcosa resterà al Comune (55 mila metri quadri) e qualcosa resterà in piedi (come una grande torre-simbolo dell’Expo), molto verrà demolito (a spese del Comune) per restituire ai legittimi proprietari (alla famiglia Cabassi e alla Fondazione Fiera cioè alla Compagnia delle opere) quel ben di Dio ripulito, aggiustato e dotato di ogni confort (cioè delle più copiose infrastrutture: autostrada, metropolitana, ferrovia, aereoporto) per destinarlo alle più belle imprese immobiliari. Naturalmente l’amministrazione comunale vigilerà e deciderà al momento buono. Intanto la bacchetta magica dell’Expo trasformerebbe una distesa incolta in una gigantesca opportunità di cemento e rendite, riservando naturalmente, siccome siamo tutti ambientalisti, la metà dell’area a verde, verde che poi, al momento, si può anche rivedere e magari tagliare e "contare" come nel grande progetto, questo nell’area della vecchia Fiera, di CityLife, dove secondo la tradizione, nella somma entrano le aiuole spartitraffico e i giardini condominiali. Quello che secondo l’ex sindaco Albertini, autentico padre amministrativo dell’operazione CityLife, sarebbe dovuto diventare il Central Park di Milano, alla fine contrapporrà la miseria di 12 ettari ai quattro milioni di metri quadri di New York, dodici ettari spezzettati appunto tra aiuole, marciapiedi, condomini.
CityLife si riconosce facilmente, è già entrato prima che si sia alzato di un metro nel cosiddetto immaginario collettivo dei milanesi e soprattutto nella protesta collettiva: è il progetto dei tre grattacieli, di Arata Isozaki, di Zaha Hadid e di Daniel Libeskind (l’architetto di Ground Zero), che l’assessore alla cultura Vittorio Sgarbi giudicò con il suo colorito linguaggio: "Tre cessi senza forma e senza figura".
In realtà il confronto, malgrado i prestigiosi architetti in gara, al momento della scelta è stato soprattutto tra cordate. Contro quelle di Pirelli e Unicredit (con Renzo Piano) e di Risanamento, Fiat Engineering, Astaldi, Ipi (con Rafale Moneo, Frank O. Gehry, Norman Foster, Cino Zucchi, eccetera eccetera), ha vinto quella internazionale di CityLife, composta da Generali Properties, Ras, Gruppo Lar Desarollos Residenciales, Lamaro e, infine, Progestim e cioè Fondiaria Sai e quindi Salvatore Ligresti.
Sono stati loro a presentare l’offerta più alta per l’acquisto dell’area:dalla base d’asta di 300 milioni di euro sono saliti fino a 523 milioni di euro. Tanto investimento fa intuire sogni d’oro, che per tradursi in realtà chiedono soprattutto volumetrie prestigiose.
Pazienza se significheranno inquinamento, congestione e persino ombra e ristagno d’aria (come ha denunciato uno dei tanti comitati in lotta). La solita "licenza" consentirà, infatti, di raddoppiare l’indice di edificabilità della zona: dal consueto 0,65 mq/mq (quello previsto a Milano per i nuovi progetti sulle aree dismesse) a 1,15 mq/mq. Conseguenza: quasi un milione di metri cubi edificabili. Visto che il valore di un terreno è direttamente proporzionale al suo indice di edificabilità sembra piuttosto evidente quale business speculativo possa celarsi dietro uno sfruttamento tanto intensivo del nuovo quartiere fieristico.
Con CityLife è tornato sulla prima linea dei mattoni Salvatore Ligresti: era un re dei mattoni negli anni gloriosi di Craxi, prima di diventarlo anche tra le assicurazioni. Ma il ritorno dell’ingegnere di Paternò rivela il meccanismo, cioè la mano pesante dei "poteri forti".
Nella deregulation milanese all’insegna del mercato, una regola almeno non può mancare e la sta dettando il vecchio democristiano manuale Cencelli, che diventa il "vero" piano regolatore. La città si ridisegna per "cordate": se la Fiera va a Ligresti, la Fiat entra all’Om, Zunino si prende Montecity (con il nuovo quartiere Santa Giulia), la Bicocca va a Pirelli, il gruppo Hines (con una straordinaria mobilitazione di banche, da Intesa a Unicredit, Mediobanca, Banca Popolare di Milano, Montepaschi, Antonveneta...) si insedia nell’affare più clamoroso quello che riguarda le aree Garibaldi-Repubblica-Isola-Varesine, cioè un agglomerato, una sorta di spina nel cuore di Milano, di grande accessibilità (metropolitana più treni e passante ferroviario).
Più tutto il resto, cioè una miriade di interventi di minor peso, che avrebbero consentito in una coraggiosa pianificazione urbana di non buttar risorse, che non sono infinite per quanto generose, le aree dismesse, le aree libere di industrie, che si contano (o si contavano, ormai) nella iperbolica misura di sei milioni di metri quadri. Interventi che si chiamano Manifattura Tabacchi (accanto alla Bicocca, ancora Ligresti), Cartiera Binda (Alzaia Naviglio Pavese), Marelli-Adriano (verso Sesto San Giovanni, cioè a nord), la ex Motta o la ex Osram. Una nomenklatura in perdita dell’industria milanese, fino agli anni settanta, che serve ora a ridisegnare in forma terziaria e residenziale (di lusso) la città, con poche eccezioni di peso sociale e culturale, ovviamente in ritardo, come la Biblioteca europea di Porta Vittoria. Più le piccole speculazioni, che si chiamano parcheggi sotterranei o che si chiamano sottotetti recuperati e rialzati, fino davvero a cambiare il paesaggio urbano, guardando dall’alto verso il basso: quasi seimila interventi contati tra il 1999 e l’anno scorso.
Nel corso di un decennio soffitte e solai, depositi di roba vecchia, sono diventati 800 mila metri con una destinazione d’uso, quella residenziale, assai pregiata in una città come Milano, in vetta nella classifica dei costi per le abitazioni: si calcola che siano state mobilitate risorse per un miliardo, che il valore immobiliare di quei sottotetti sia salito a due miliardi e mezzo o tre, che il Comune infine abbia raccolto in oneri di urbanizzazione 140 milioni di euro.
Non sono briciole anche di fronte a quanto di clamoroso è già accaduto (alla Bicocca, alla Bovisa, all’ex Portello) e sta accadendo altrove e soprattutto nell’area che fu Montecity a Rogoredo e nella zona frammentata tra le ex Varesine, la stazione Garibaldi e l’Isola. Aree infrastrutturate, semicentrali o centrali, strategiche rispetto alla città e rispetto a una idea di qualità urbana dettata dalla qualità della vita di chi dovrebbe abitarla.
(1-continua)
28 ottobre 2007
A Rogoredo, periferia industriale di Milano, a sud est, sorgerà Santa Giulia, mega quartiere di lusso progettato da una star dell'architettura contemporanea, Norman Foster, l'impresa più cospicua immaginata, tentata e avviata nel capoluogo lombardo da Risanamento Spa. Cioè da Luigi Zunino,una delle ultime stelle del firmamento nazionale del mattone e del cemento,piemontese, con alle spalle una tradizionalissima famiglia di vignaiuoli, un cinquantenne dal fisico asciutto che esprime severità, a capo di una impresa che capitalizza 1,7 miliardi di euro con un patrimonio immobiliare, in tutta Europa, che ne vale 2 e mezzo miliardi. Assai schivo,ha sempre tentato di schivare, talvolta incrociandoli, gli immobiliaristi della sua generazione e ha sempre coltivato rapporti con le banche.
Si dice ad esempio della sua amicizia Con l'ex presidente di Mediobanca,Gabriele Galateri di Genola. Dentro Mediobanca ha messo assieme un pacchetto che sfiora il quattro per cento. Nel mondo del credito, gli appoggi li trova soprattutto in Banca Intesa, che è il primo finanziatore di Santa Giulia: 726 milioni di euro per costruire le abitazioni di lusso del nuovo quartiere. Santa Giulia è appunto molta residenza di lusso, pochissima residenza convenzionata in affitto,molto terziario e due perle: un centro congressi e un grande parco, purtroppo diviso a metà dalla statale Paullese, una superstrada.
Per il Comune sarebbe dovuta diventare la nuova porta di Milano aperta sul Sud lombardo. Peccato che l'edificio in questo senso più simbolico, l'edificio pubblico, cioè il Centro Congressi, sia stato collocato sul fronte opposto della stazione del passante ferroviario (l'asse appunto di collegamento tra Nord e Sud Milano) e della metropolitana, a ottocento metri di distanza: la vera "porta", immediatamente raggiungibile con i mezzi pubblici, sarà la sede di una società privata, Sky di Rupert Murdoch, in omaggio alle enormi rendite fondiarie differenziali che saranno determinate dall'irripetibile posizione dell'insediamento.
Ma non sarebbe l'unico colpo alle ambizioni simboliche e civili di Santa Giulia, perchè il centro congressi da ottomila posti che stava tanto a cuore al sindaco Albertini (alla firma della convenzione con Zunino nel 2004) sta subendo un attacco da un altro fronte, quello della Fondazione Fiera di Milano, che non sapendo bene come utilizzare le strutture del Portello (l'edificio a ponte, un po' tempio greco, disegnato da Mario Bellini, sede provvisoria in attesa che venisse completata l'opera monumentale di Pero) s'è fatta venire la brillante idea di un centro congressi.
Entusiasta la Moratti, perplessi molti altri: che fare di due centri congressi di enormi dimensioni, come se Milano fosse un congresso via l'altro. "Improvvisazione", commenta Marilena Adamo, capogruppo Ds in consiglio comunale. Zunino pare non abbia fatto una piega, il centro congressi lo fa a spese sue, 62 milioni, "contributo oltre gli oneri di urbanizzazione". Quello della Fiera di milioni ne costerebbe quaranta. Chi pagherebbe? Ma la vera tragedia, rivelata dal conflitto dei centri congressi, è quel vento di casualità che regola la politica urbanistica a Milano, casualità che è vuoto di regole e di disegni, soprattutto di quello che si dovrebbe definire con orribile espressione "disegno organico" della città, del suo rapporto con la provincia (che ne fa una metropoli estesa di oltre quattro milioni di abitanti) e con la regione.
Niente. Cancellato come figlio del demonio comunista il piano regolatore, si sono inventati parzialissimi strumenti di un'urbanistica a richiesta: si fa quel che il padrone comanda."Milano e l'area urbana: una conurbazione senza governo", ha scritto l'urbanista Antonello Boatti in un prezioso volume, che rifà la storia, anche recente, di Milano, dei suoi piani e anche delle possibili alternative alle scelte affaristiche ("Urbanistica a Milano", Città Studi). "Un'urbanistica - spiega Basilio Rizzo, uno dei più combattivi consiglieri d'opposizione – che costruisce le sue regole sulla base di quanto pretende il mercato immobiliare". Forse perchè alla resistenza dei vincoli, poco sensibili ai mutamenti, s'è preferita la via della flessibilità attraverso la collaborazione tra pubblico e privato?
Secondo Roberto Camagni, docente di economia urbana al Politecnico, "non esiste collaborazione tra pubblico e privato, s'è imposta piuttosto una specie di collusione a spese della città". Un esempio? Scegliendo il progetto CityLife per l'area Fiera, l'amministrazione comunale non ha scelto il miglior progetto, ma quello che pagava di più per l'area: quasi mezzo miliardo di euro incassati da una Fondazione, proprietaria dell' area e istituzione di diritto privato,nata dalla trasformazione di un ente morale che aveva ricevuto quei terreni a prezzi simboliciproprio in ragione delle sue funzioni pubbliche. Al "pubblico" oggi che cosa andrà?
Non è finita, naturalmente, e non sarebbe neppure finita con il mosaico, che va tra le ex Varesine e l'Isola, cioè quel quartiere popolarissimo che sorge per chi viene dal centro al di là dei binari ferroviari,conl'aggiunta di Melchiorre Gioia. Solo per una parte, all' Isola, siamo nel campo delle aree dismesse. Le ex Varesine, ex scalo ferroviario, un'area dismessa lo sono da tempo immemorabile, teatro dei più svariati progetti mai realizzati o interrotti (come il più ambizioso progetto del dopoguerra, quello del vicino Centro direzionale). Dal lato opposto si è disboscato un'antica serra, stracarica di vegetazione: ma proprio qui il governatore Formigoni voleva il grattacielo della "sua" Regione e nessuno è stato in grado di fermarlo, non ovviamente gli ambientalisti abbarbicati (letteralmente) alle piante, non banali considerazione circa il traffico e l'insostenibilità della futura concentrazione, non certo la politica, assai distratta in nome dello "sviluppo".
A nessuno è venuto in mente che il grattacielo della Regione, poteva salire anche a Pero, ad arricchire di opportunità la nuova fiera, che non vive certo giornate di gloria e di sovraffollamento. Più di Formigoni, i protagonisti dell'impresa tra le ex Varesine e l'Isola sono le banche (l'intero arco nazionale da Unicredit ad Antoveneta), un fondo pensioni texano con la sua propaggine italiana (Hines) e, di nuovo, Salvatore Ligresti, che avevano incontrato all'inizio,dopo gli anni di tangentopoli e dopo una lunga operosità senza clamori (festeggiata con l'ingresso nel patto di sindacato del Corriere della Sera: come si spiegano certi entusiasmi giornalistici). Hines, rappresentata in Italia da un giovane architetto, Manfredi Catella, e Ligresti faranno ametà, su aree un po' loro un po' pubbliche (quelle centrali, più pregiate,masi farà il baratto), per costruire la Città del Moda, vecchissima idea, che risale ai tempi ruggenti dei sarti milanesi, ancora residenza, grattacieli, uffici, alberghi e persino la Biblioteca degli alberi, cioè il parco centrale. Indicativo che Manfredi Catella si sia generosamente offerto di ospitare nel "mosaico"delle ex Varesine il nuovo centro di produzione Rai:evidentemente non sanno già che fare di tutto il terziario che vogliono edificare.
Il costo complessivo sarà di due miliardi e mezzo. Il "mezzo" almeno lo dovrebbe mettere la Regione Lombardia per il suo grattacielo. Dalle banche (per l'intervento Garibaldi Repubblica) arriveranno intanto 464 milioni. Poi si vedrà. Hines spera di vendere a sette/ ottomila euro al metro quadro. Popolare, insomma. Anche in questo caso all'opera si sono prestati architetti di fama internazionale, come Cesar Pelli. Dopo stagioni di brutture moderniste,Milano si affida alle "grandi firme" per dar credito ad operazioni, che per essere importanti e belle mancano sempre di relazione con la città: sono episodi dettati dalla percezione del vantaggio privato più che da un' idea di città. Si costruiscono frammenti, magari ricchissimi, a prescindere da ciò che sta attorno: strade, case, funzioni, persone. Mentre il "pubblico" batte in ritirata. In tutte le città del mondo il "pubblico", cioè la pubblica amministrazione, è operatore attivo: per progettare, controllare, guadagnare. Forse per questo le altre città (da Berlino a Parigi) crescendo diventano più belle.
"A Milano - racconta Milly Moratti, consigliere comunale – manca il rispetto per la storia e manca la strategia per il presente". Manca tutto: "Viviamo tra i momenti peggiori di questa città. Nell'assenza di una visione d'assieme, si premia l'iniziativa dei singoli e la speculazione avanza e non c'è neppure più bisogno di tangenti". Chi comanda?" Ho la sensazione che non comandi nessuno. Se qualcuno comandasse, si leggerebbe un disegno coerente. Comanda un intreccio di interessi. Sicuramente non comanda il consiglio comunale espropriato delle sue funzioni: non ci arriva mai nulla da discutere. Tutto procede a colpi di mano. Facciamo il caso della Regione, che paga un istituto, l'Arpa, per dirci quanto l'aria di Milano è inquinata. Dopo di che la stessa Regione costruisce la propria sede in uno dei luoghi più congestionati e inquinati di Milano, rinunciando a qualsiasi tentativo di decentrare funzioni e uffici". "La città è in vendita" è la conclusione di Milly Moratti. Nessuno comanda. Qualcuno però comanda più degli altri.
(2-fine. La prima puntata è stata pubblicata il 23 ottobre)
Bagno a Ripoli «taglia» le case in collina, riducendo le previsioni di nuove costruzioni a Villamagna e Osteria Nuova, contestate dai sei comitati sorti in questi anni e in parte bocciate dal Tar. Il Comune ingrana la retromarcia su decisioni che risalgono a meno di dieci anni. E´ l´inizio di un percorso amministrativo a ritroso, un «rientro dall´errore» inevitabile, secondo i comitati, dopo i verdetti della magistratura. Oggettivo, però, un risultato politico: dopo lo strappo che si era consumato nella passata legislatura proprio su questi temi, la verde Beatrice Bensi ha votato assieme a Ds, Margherita, Comunisti italiani e Rifondazione comunista una variante attraverso la quale - come afferma una nota del municipio - «l´amministrazione comunale proverà a ricollocare in parte o totalmente alcune delle previsioni insediative, che l´attuale piano strutturale localizzava nei centri collinari di Villamagna e Osteria Nuova in altri contesti urbani ambientalmente e paesaggisticamente meno problematici». Nulla di definito, insomma, ma un primo passo.
Cinquantotto nuovi alloggi a Osteria Nuova, 28 a Villamagna. Le previsioni urbanistiche di nuove costruzioni in collina, deliberate dalle passate amministrazioni e che dovrebbero essere realizzate dalle cooperative, avevano scatenato l´opposizione dei comitati. Che nel 2004 vincono un´importante battaglia. Il Tar annulla il progetto Osteria Nuova perché le nuove edificazioni sono previste in «area fragile». L´amministrazione comunale, alla cui guida è intanto subentrato il sindaco Luciano Bartolini, da una parte annuncia ricorso al Consiglio di Stato ma dall´altra inizia il confronto con le parti sociali, politiche e con i costruttori per arrivare ad una soluzione condivisa della querelle. Dapprima ottiene una riduzione dei volumi, adesso incassa in chiave amministrativa i risultati della mediazione. All´atto di riperimetrare i centri abitati, il Comune ha infatti sospeso le relative delibere non solo su Villamagna e Osteria Nuova, ma anche sul capoluogo Bagno a Ripoli, su Antella e Capannuccia. Bartolini tratta infatti con le proprietà dei terreni lo spostamento nelle altre zone di parte di quanto doveva essere costruito a Villamagna e Osteria. In novanta giorni la soluzione, che - secondo indiscrezioni - dovrebbe concretizzarsi nella riduzione ad un terzo delle case da costruire a Villamagna e di oltre la metà a Osteria Nuova.
Nella stessa seduta il consiglio comunale ha approvato una seconda variante che - si legge in una nota del Comune - «produrrà l´arresto della proliferazione di residenze legato ai cambi di destinazione d´uso degli edifici esistenti (agricoli e non)». Nuovi vincoli, insomma, per ostacolare la speculazione fondiaria e immobiliare e sostenere le attività economiche.
QUANDO LA PERIFERIA invade la campagna non è sempre segno di sviluppo. Né economico, nonostante l’inaugurazione di mega centri commerciali, né culturale, nonostante l’apertura di multisala, né abitativo, nonostante la costruzione di ampi complessi residenziali. La febbre edilizia degli ultimi anni ha «mangiato» il territorio, ma non sembra avere attenuato l’emergenza casa. E centri commerciali e multisala non hanno migliorato poi la qualità della vita nelle periferie. Queste alcune delle riflessioni condotte ieri nel convegno «Paesaggio italiano aggredito, che fare?», organizzato dal Consiglio Provinciale di Roma e dal Comitato per la Bellezza a Palazzo Valentini. Urbanisti, professori universitari, esperti e amministratori locali hanno confrontato i loro studi e le loro esperienze partendo dal «caso Roma». Il modo in cui la città si è sviluppata la renderebbe idonea a rappresentare tutta la schizofrenia della politica urbanistica italiana. A cominciare dalla contraddizione più stridente: i mattoni consumano i terreni fuori la cinta cittadina, ma la domanda di alloggi da parte di giovani coppie, anziani, immigrati, rimane invariata. «È il tipico caso in cui la legge della domanda e dell’offerta non vale - spiega Vittorio Emiliani, presidente del Comitato per la Bellezza -, gli edifici costruiti erano e sono destinati quasi unicamente al mercato, per lo più alla speculazione. Crescono gli stock di seconde e terze case, mentre l’edilizia popolare è ferma». E poi ci sono i mega centri commerciali a disegnare la morfologia delle nuove periferie. Una «urbanistica dell’offerta» che, secondo Paolo Berdini, urbanista, nel resto d’Europa è stata abbandonata da decenni. «Fino a 10 anni fa a Roma esistevano solo due centri all’ingrosso della catena Metro, ora sono 28 solo quelli di superficie superiore ad un ettaro. Queste estate sono stati inaugurati 3 mega centri commerciali, di ognuno è stato detto che era il più grande d’Europa». «Ci si è mai chiesti come mai Parigi, che ha 6 volte gli abitanti di Roma, non ambisce a questo primato?», continua Berdini, «perché non portano ricchezza ma, al contrario, per ognuno che se ne apre chiudono 70 negozi tradizionali nel resto della città e spesso questi rappresentano le uniche attività non residenziali nelle periferie, gli unici presidi sociali». Per di più multisala e “cattedrali dello shopping” dissipati per il territorio senza una preventiva «verifica dell’accessibilità del luogo, contribuiscono alla congestione del traffico, rendendo necessarie altre strade che distruggono altra campagna». E così, secondo i dati forniti durante il convegno, dal 1990 al 2005 nel Lazio sono stati consumati circa 226mila ettari di superficie prima libera, il 19% di tutta la regione. Per l’ex sovrintendente Adriano La Regina bisognerebbe riutilizzare la vecchia legge Ponte del ’60 (sulla quale già puntava il sindaco Luigi Petroselli all’inizio degli anni 80) che vincola anche i suoli agricoli, cosicché «i privati siano invogliati ad investire recuperando, riqualificando, gli spazi in centro ed in periferia». Inoltre, secondo Adriano Labbucci, presidente del Consiglio provinciale, «bisogna mettere in rete i comitati che nascono localmente a difesa del patrimonio artistico e paesaggistico per fare massa critica ed evitare il massacro del territorio». L’hinterland di Roma è ormai a un punto di non ritorno? «La città - risponde Berdini - è terreno di conquista di grandi fondi immobiliari internazionali, anche questa è globalizzazione. Ma intanto Roma muore di traffico».