Le grandi opere sono numerose, sorgono in molte zone del paese nell’intendimento di risolvere le necessità più diverse, ma hanno sempre alcuni tratti comuni.
In primo luogo sono, appunto, grandi e occupano molto spazio e usano (o sprecano) molte risorse ambientali, tanto nel corso della costruzione che in quello di funzionamento. Poi modificano per sempre il paesaggio trasformando e deformando la memoria delle cose. I tempi di realizzazione, alla fine, saranno almeno doppi di quelli preventivati e anche il costo finale dell’opera, se va tutto bene, sarà raddoppiato o triplicato. Alla fine di tutto, tra il pubblico si diffonde una sensazione: che l’opera sia esagerata.
Sarebbe potuta essere assai più piccola, cioè meno imponente e meno invadente; tanto più se, terminato il ciclo di vita o di uso; o finiti i soldi prima del completamento, ciò che avviene di frequente; o cambiate le tecniche o le scelte prioritarie della società, le grandi opere del ciclo politico precedente rimangono inutili e abbandonate. O, come si dice, dismesse.
1. Non tutte le interruzioni dei lavori, o i cambi di destinazione in corso d’opera, sono però negative.
C’è un’eterogenesi dei fini perfino nelle grandi opere. Se poi c’è di mezzo l’imperscrutabile fine ultimo, la questione è ancora più impervia per una mente umana. Un caso assai noto è quello del duomo di Siena, la cattedrale di S. Maria Assunta; un avvenimento non infrequente nelle storie delle cattedrali. Le città-stato rivaleggiavano nel costruire cattedrali, che erano la forma massima dell’orgoglio cittadino e la prova del potere della Chiesa, degli ordini religiosi e degli ottimati locali. Ma è avvenuto varie volte che si sia reso necessario ridurre in modo drastico gli esagerati progetti iniziali. Nel caso di Siena, l’edificio attuale, di perfezione assoluta, così ricolmo di arte e di religiosità, è solo il transetto della grande opera prevista inizialmente.
Oggi i tecnici sanno che se la grande opera fosse stata completata con le potenti navate, secondo il progetto di Lando di Pietro, mezza città sarebbe franata sotto il peso. D’altro canto, non è sempre andata così a buon fine. Ogni persona conosce almeno un gigantesco stabilimento abbandonato, spesso prima dell’inaugurazione o un ponte che si erge nella campagna senza senso, senza strade di uscita. Sono le repliche moderne, metafisiche, delle rovine antiche, degli acquedotti romani? Di certo manca la patina della memoria e della bellezza.
2. Per tornare alle grandi opere odierne, molti tra i critici pensano che le dimensioni del manufatto siano strettamente connesse al ricavo delle imprese o dell’impresa che ha curato i lavori. La visibilità, l’imponenza stessa dell’opera non è strettamente necessaria all’uso che è previsto, ma è una sorta di prova della sua indispensabilità. E’ talmente grosso questo manufatto, talmente costoso che deve anche essere necessario: molti ragionano così. Vi è insomma un capovolgimento tra interesse primario e secondario. Quello che conta è scegliere di fare l’opera e farla immensa. Il perché farla lo si deciderà dopo, in un secondo tempo. A qualcosa, comunque, servirà.
3. Si deve insomma immaginare che una grande impresa di lavori pubblici, proprio come una cooperativa di costruzione, sia artigianale sia con migliaia di addetti, hanno sempre bisogno di lavorare, quest’anno, l’anno prossimo, tra cinque anni; e per loro lavorare significa costruire; meglio se in grande.
Ma come nota per esempio Marco Cedolin, autore di un libro assai apprezzabile in argomento, (“Grandi opere – Le infrastrutture dell’assurdo” Arianna editrice), l’interesse per le grandi opere è condiviso da un ceto economico e finanziario, fatto di promotori e industriali, pubblici amministratori e banchieri, giornalisti e professori che spinge per ottenere le costruzioni, un po’ per condividere il profitto connesso alla grande opera, un po’ perché il clima sociale favorevole alle grandi opere è quello che mettein movimento i capitali e consente di realizzare i fini della società nella tale o talaltra generazione; o almeno quelli ritenuti tali. Gli stakeholder, i portatori d’interessi, delle grandi opere sono in ultima analisi assai più numerosi degli shareholder, gli azionisti delle compagnie costruttrici. E’ importante segnalare il ruolo decisivo degli intellettuali e dei media che hanno il compito di convincere l’opinione pubblica e la maggioranza della popolazione dell’utilità del nuovo manufatto, anzi della sua assoluta necessità.
Gli argomenti sono quelli ben conosciuti del confronto internazionale, del ritardo nei confronti degli altri paesi consimili con cui ci si vede in competizione; e un po’ anche quelli, meno economicistici, di erigere un monumento a se stessi, al proprio futuro. Sono in modo un po’ farsesco, gli argomenti dei costruttori di cattedrali, anche se la fede in dio non è proprio uguale alla fede in Mammona.
4. C’è una grande opera di cui nel corso di molti anni è stato possibile studiare a fondo e discutere la progettazione e l’utilità: è il Ponte sullo Stretto di Messina. Si è parlato di poesia e mitologia, di paesaggio e di fauna, di terremoti e di mafie, di ambiente e di denaro, di traffici e di modernità, di imprese pubbliche e di imprese private, di treni e di autoveicoli, di Anas e di Regioni, di 30 campi di calcio consecutivi da appoggiare sul Ponte, di vento forte e di Valutazione d’impatto ambientale, di monumento e di riscatto siciliano, di gare internazionali e di cordate sempre uguali, di progettazione da centinaia di milioni di euro e di penalità da pagare, di associazioni ambientaliste e di sindaci, di consiglieri regionali siciliani e calabresi, di lavoratori assunti e licenziati: sterratori, edili, manovali, manutentori, traghettatori di Messina e di Villa San Giovanni. E se ne parla ancora: il Ponte immaginato è sempre là che ci aspetta.
5. Il ministro delle infrastrutture Altero Matteoli ha scritto una lettera, invitando il presidente della Società Stretto di Messina a riprendere l’annoso progetto del Ponte e portarlo a termine. Pietro Ciucci – questo il suo nome – nel frattempo è diventato presidente e direttore generale dell’Anas, la società pubblica delle strade statali che della Stretto di Messina spa è il maggiore azionista con l’80% delle azioni. Ciucci rimane impassibile all’inattesa comunicazione.
Promette secondo l’indicazione del ministro di cominciare i lavori nel 2010 e di concluderli sei anni dopo. «E chiaro però – ha osservato – che prima è opportuno terminare l’autostrada per la quale siamo a circa il 40% dei lavori totali». Il presidente dell’Anas allude alla A3 (Salerno- Reggio Calabria). Inoltre ha assicurato di essere convinto che «il Ponte sullo Stretto sia come l’ultimo lotto della Salerno-Reggio. Di concerto con il nuovo Governo,adesso il progetto potrà partire».
Ciucci in questo modo ha indebolito, piuttosto che rafforzato la soluzione Ponte. In breve tempo è presumibile che salterà o come presidente dell’Anas o come presidente del Ponte, ridando spazio a uno degli uomini di Pietro Lunardi o di qualche altro giro più alla moda. Corre poi un’altra voce, secondo la quale i quattrini accantonati per grandi opere viarie (Ponte ovvero Palermo-Messina) in realtà sarebbero quelli che il governo dovrà sequestrare per adempiere alla sua promessa in tema di Ici sulla prima casa. Ma trascuriamo questo maligno sospetto.
6. Ciucci aveva però qualche ragione. Era a colloquio con il presidente della giunta di Calabria, Giuseppe Scopelliti che gli faceva presente i disagi profondi, tra tangenziale di Reggio e tratto autostradale tra Bagnara e Scilla, moltiplicati dai problemi di certificato antimafia alla società Condotte, incaricata di molti lavori.
Non poteva dunque dimenticare che il futuro Ponte serve a poco se non ci sono strade che lo raggiungano.
7. Questo dal lato calabrese.
Al lato siciliano ci ha pensato l’ingegner Castelli. Roberto Castelli, senatore leghista, è oggi anche sottosegretario alle infrastrutture, quindi particolarmente autorizzato a dire il suo pensiero a proposito di ponti e strade.
In un’intervista a la Repubblica(Luisa Grion, 24 maggio) Castelli, dopo aver chiarito che da federalista verace ritiene che ciascuno debba decidere sui ponti di pertinenza, mette in chiaro la scarsità di capitale per tutte le grandi opere desiderate. «Quando il governo Prodi decise che quell’opera (il Ponte, ndr.) non sarebbe stata realizzata, i fondi vennero indirizzati ad altre opere per il Sud, come la Messina-Palermo, per esempio. Ora sia chiaro: non è che i fondi destinati al Meridione possono raddoppiare a scapito delle altre opere. Bisognerà fare delle scelte: se ci sarà il ponte probabilmente non ci sarà la Messina-Palermo». Senza strade in Calabria, senza strade in Sicilia, per entrare e per uscire dall’importante manufatto, la sua vita appare piuttosto precaria.
Anche i sostenitori del corridoio Berlino-Palermo avranno qualche dubbio...
8. Carenza di investimenti privati, concorrenza con altre spese per grandi opere e con gli adempimenti di promesse elettorali del tutto alternative, costi che si moltiplicheranno nel corso degli anni e dei rinvii, devastazioni ambientali, tanto per la costruzione del Ponte in sé che per la necessità di servire il Ponte con collegamenti viari e ferroviari molto complessi. In questo contesto trascorrerebbero gli anni che ci separano dal fatidico 2010. Tutto per lo scarso traffico prevedibile . e previsto da tutti gli urbanisti e gli economisti del traffico indipendenti . con la necessità di potenziare, anche in presenza del Ponte, il sistema portuale che comunque deve reggere i traffici aumentati, per effetto della stessa costruzione del Ponte e per unaquindicina di anni, non speculando sulla carenza viaria, per un Ponte, ormai ridotto al significato di monumento celebrativo.
9. Dedicare tanta attenzione a un’opera di così difficile e controverso avvio, ai soldi che mancano e sui quali si sono manifestati troppi appetiti è proprio perché si tratta di un simbolo, di un monumento al fare male dell’intero settore delle grandi opere nel nostro paese. Il vizio di origine è proprio in una non scelta.
C’è un ponte sul Danubio tra Bulgaria e Romania in progetto, ma è lungo un terzo e soprattutto largo un terzo. Tra tutti ponti lunghi esistenti nel mondo, quello che avrebbe dovuto unire Sicilia e resto d’Italia è in pratica l’unico previsto per il traffico di autoveicoli e treni. Non c’è stata alcuna scelta, i sostenitori di auto e di treno, logicamente in alternativa, ovunque, qui non sono in grado di imporsi, di battere l’altro partito, con una proposta capace di prevalere, quali che ne siano le motivazioni. Così i due partiti, del ferro e della gomma, si accordano sul programma di massima, e su altri affari (Grandi stazioni, per esempio). Mettono insieme i sostegni politici, si spartiscono cariche, e assunzioni e finiscono non tanto per cooperare, ciò che sarebbe una novità, ma per non portarsi guerra a vicenda e per accettare un assurdo piano che fa del ponte non forse il più lungo, ma certamente il più largo mai programmato, proprio per l’obbligo di fare correre assieme due linee ferroviarie e otto corsie stradali. Questo significa porre al progetto condiziona-menti e vincoli assai difficili da superare, dal punto di vista della stabilità e dell’enormità di mezzi da mettere in campo. Il risultato è che i numeri dei treni e delle auto messi in preventivo sono entrambi spropositati, quattro o cinque volte maggiori della più rosea delle prospettive. I passaggi effettivi di lunga distanza sono passati (i dati sono tratti da un recente articolo di Alberto Ziparo su la Repubblica –Sicilia) dagli 11 milioni del 1985 ai 6,5 del 2002.
Naturalmente andare da Reggio a Messina e viceversa continuerà ad essere, in presenza dell’eventuale Ponte, molto più rapido ed economico con i traghetti che non con un’automobile, costretta a un giro pesca sui raccordi e poi alla ricerca del posteggio nell’altra città.
10. La grande opera per definizione è però nel nostro paese la Tav. Si tratta di mille chilometri di ferrovia, in parte già costruiti che prosciugheranno ogni altra spesa ferroviaria in Italia per un lungo periodo in una spesa senza pari. Senza pari, nel senso che i nostri modelli di Tav, proprio come il Ponte che non ha saputo scegliere tra i binari e la gomma, non sanno scegliere tra i passeggeri e le merci. “In Francia e in Giappone – scrive Marco Cedolin – sulle linee ad alta velocità passano solo treni passeggeri; in Francia i treni non passano la notte quando viene effettuata la manutenzione….I traffici passeggeri e merci previsti nel progetto (Tav Italia, ndr), sono un puro esercizio di fantasia, totalmente disancorato dalla realtà”. I treni da 300 all’ora hanno bisogno di binari lisci e puliti, impossibili da ottenere se sui binari passano treni merci da 1.000 tonnellate che deformano le rotaie.
Tutto lascia pensare che la linea doppio scopo sarà sempre in manutenzione. Ma in fondo avrà rispettato i suoi due compiti precipui: la forte spesa iniziale che si protrae nel tempo, la prova di forza o di autoesaltazione della classe dirigente, inebriata di sé e della propria modernità, anche se è stata costretta alla demagogia delle merci per ottenere tutti i miliardi di euri necessari a fare la Tav, proprio come in Francia.
Dopo via Corelli, in Lombardia è in arrivo un nuovo Cpt. Vicino a Malpensa. Tre le località candidate (Lonate Pozzolo, Somma Lombardo e Ferno) anche se sull'esatta collocazione della nuova struttura dal Viminale il riserbo è ancora strettissimo.
La volontà di aumentare il numero dei Cpt — in sostanza, un raddoppio — era stata annunciata dallo stesso ministro dell'Interno Roberto Maroni durante la presentazione del pacchetto sicurezza.
Con la nuova normativa i Cpt (centri di permanenza temporanea) hanno cambiato nome. Oggi si parla di Cie, centri di identificazione ed espulsione.
«I centri di permanenza temporanea ora si chiamano Centri di identificazione ed espulsione»
Sarà nei pressi di Malpensa il nuovo Cpt lombardo. O meglio, il nuovo Cie, visto che nel recente pacchetto sicurezza il nome è cambiato: quelli che erano i centri di permanenza temporanea ora si chiamano Centri di identificazione ed espulsione. Sull'esatta collocazione della nuova struttura del Viminale, il riserbo è strettissimo: le polemiche hanno contraddistinto la storia dei Cpt fin dalla loro istituzione. Ma con ogni probabilità, un secondo Cie lombardo da circa duecento posti — l'altro è quello di via Corelli a Milano, da 112 posti — troverà spazio in uno dei tre comuni in cui parte degli abitanti sono stati «delocalizzati» per l'eccessiva vicinanza a Malpensa: e dunque, la «rosa» si riduce a Lonate Pozzolo, Somma Lombardo e Ferno.
La volontà di aumentare il numero degli ex Cpt — in sostanza, un raddoppio — era stata annunciata dallo stesso ministro dell'Interno Roberto Maroni durante la presentazione del rinnovato pacchetto sicurezza. Un aumento connesso con l'allungarsi dei possibili tempi di permanenza in queste strutture fino a sei mesi, qualora l'identificazione degli ospiti risultasse incerta. Per quanto riguarda i tempi di realizzazione, Maroni a suo tempo aveva parlato di un paio di mesi, inclusa la definitiva approvazione del pacchetto sicurezza da parte del parlamento. Ad ogni modo, una commissione mista tra i ministeri del-l'Interno e della Difesa è già lavoro per valutare le diverse possibili localizzazioni.
Fino a questo momento, come sede per i nuovi centri di espulsione si è parlato soprattutto di caserme dismesse o edifici analoghi. Nel caso dell'area di Malpensa, potrebbe non essere così. A giocare comunque a favore dell'area sono soprattutto due fattori. Il primo è la vicinanza all'aeroporto, e dunque la facilità di raggiungere il luogo finale dell'espulsione. E in linea di massima, la vicinanza agli aeroporti contraddistinguerà tutti i nuovi Cie.
In secondo luogo, a facilitare l'operazione è la proprietà unica. A Lonate, Somma e Ferno esiste un'ampia disponibilità di edifici di proprietà regionale derivanti dal piano di «delocalizzazione » degli ultimi anni, il trasferimento degli abitanti dalle frazioni e dalle località più esposte al rombo degli aerei.
Ma in Regione, per il momento, prevale la cautela. Spiega l'assessore al Territorio Davide Boni che «i tavoli per discutere questi problemi stanno per essere istituiti, e certamente la collocazione di un Cie a Malpensa potrebbe rispondere a molti requisiti. Ma al momento, l'argomento è prematuro».
postilla
Dopo le ultime elezioni si è molto dibattuto sulla capacità della Lega di mantenere stretti rapporti col “territorio”. Con l’ultima proposta di realizzazione di un Centro di Identificazione e Espulsione nell’area del Parco Ticino, già devastata dai mal pianificati insediamenti connessi all’hub aeroportuale di Malpensa, forse si chiarisce meglio quali siano effettivamente le idee di “territorio” magari inconsapevolmente sottoscritte da una parte dell’elettorato:
a) si vuole realizzare nell’isolamento della brughiera del Parco Ticino una fortezza inattaccabile e di fatto socialmente incontrollabile: una sorta di “duty free ” del razzismo;
b) si vogliono, forse con l’esca di qualche posto di lavoro fantasma, colpire ancora le popolazioni locali, già fortemente penalizzate dall’insediamento aeroportuale;
c) con la scusa della solita “emergenza” si aggireranno quasi certamente le normali regole urbanistiche, in un’area ambientalmente sensibile come quella del Parco fluviale, e in linea con le mire del centrodestra lombardo nell’attacco alle zone protette.
Basterebbero anche questi pochi motivi, tutto sommato secondari rispetto all’impianto culturale e politico che sottende l’idea dei Centri di Identificazione ed Espulsione, per respingere decisamente il progetto di questa Guantanamo della brughiera (f.b.).
La riflessione aperta su l’Unità da Walter Tocci e poi ripresa da Roberto Morassut, sullo sviluppo urbano e sul PRG di Roma, non mette certamente in dubbio i risultati ottenuti in questi anni dalle giunte di centro sinistra per una diffusa e ampia rete ecologica e ambientale e per la riqualificazione delle periferie. Così come non è messa in discussione l’onestà e la trasparenza dell’azione non certo facile portata avanti dall’assessore Roberto Morassut. Il nuovo Prg è un risultato indiscutibile del centro sinistra capitolino da difendere e da cui ripartire.
Tuttavia una riflessione critica è necessaria nella prospettiva di quanto occorre migliorare e resta da fare. La riflessione, a nostro avviso, deve riguardare, più che l’impostazione generale del piano, anche essa integrabile in alcuni punti, le modalità con cui negli ultimi tre anni, prima ancora che il piano fosse approvato, si è proceduto alla sua attuazione sotto la spinta di un attivismo talvolta più rispondente alle sollecitazioni degli operatori che alle attese dei cittadini.
Così le molte zone di espansione attivate nelle aree esterne al Gra, in parte eredità del vecchio piano, oltre a consumare estese parti dell’agro romano tutelato, rischiano di produrre nuove periferie isolate, prive di connotati urbani e di collegamenti adeguati. Inoltre, esse impegnano l’amministrazione in programmi infrastrutturali dispersi, difficilmente attuabili e sostenibili.
Ancora, l’ambizione di attivare subito tutte le 19 "centralità" previste dal piano, sembra condurre ad un declassamento di ruolo delle stesse, da luoghi di offerta di funzioni di eccellenza e di policentrismo, a cittadelle isolate di ulteriore residenza ed uffici ad alto costo intorno ad un ipercentro commerciale. Non sempre, inoltre, queste operazioni negoziate con gli operatori accrescono in modo rilevante la dotazione di spazi pubblici, verde e infrastrutture.
È da queste valutazioni che deve muovere la riflessione critica. Un piano generale con la previsione di un forte incremento dell’offerta residenziale e di sedi di attività in una prospettiva segue più che decennale deve seguire una precisa strategia attuativa partecipata: a partire dai problemi pregressi e delle domande più urgenti dei cittadini, assicurando con la fattibilità la coerenza progressiva degli interventi tra di loro e con gli obiettivi ed i requisiti di qualità e funzionalità previsti dal piano. Occorre formulare un programma attuativo del piano a partire dalla riqualificazione della città esistente e delle sue periferie, scegliere le priorità, rinviando le scelte che risultano premature per l’assenza di infrastrutture o per eccesso di decentramento o non coerenti con la domanda.
La tutela dell’agro romano per essere reale richiede una politica urbanistica finalizzata alla ricompattazione urbana ed interventi di sostegno alle attività agricole e del tempo libero.
La coerenza dei nuovi interventi (residenziali e non) nei contesti preesistenti può essere assicurata da una programmazione urbanistica di livello intermedio, partecipata, affidata ai municipi ed estesa ai territori degli stessi.
Occorre accentuare la differente caratterizzazione delle centralità, tra quelle urbane con funzione di aggregazione dei municipi e dei territori locali e quelle metropolitane. Queste ultime sono da attivare solo dopo aver assicurato l’effettiva possibilità d’impianto o trasferimento di funzioni di eccellenza e servizi di alto livello e rappresentanza (ministeri, università, centri di ricerca, ecc.), in condizioni di accessibilità garantite.
Soprattutto due temi di carattere generale richiedono una più esplicita definizione. Il primo riguarda le regole generali della negoziazione nel rapporto pubblico-privato. È necessario recuperare al pubblico, con regole certe, una quota più elevata dell’incremento di valore indotto dalle previsioni di piano, in modo da coprire non solo costi e dotazioni di servizi, verde ed infrastrutture interne all’intervento ma anche una quota parte di quelli indirettamente indotti nei contesti di margine e sull’intera città.
Il secondo riguarda l’assenza di una visione metropolitana.
La città non può essere organizzata in modo isolato rispetto al suo territorio, né amministrata in modo autonomo rispetto alla provincia metropolitana. Né questo rapporto può essere inteso come conquista di territorio da parte di Roma. Va riproposto il doppio policentrismo fra municipi urbani ricompattati e sistemi intercomunali o comuni metropolitani, componenti distinte di un sistema metropolitano integrato sotto il profilo funzionale, ambientale ed economico, linea recentemente ripresa dal nuovo piano territoriale della provincia.
Si tratta di promuovere un processo di crescita culturale che, prima di sperimentare nuove soluzioni istituzionali, va praticato attraverso tavoli di copianificazione e consuetudine alla collaborazione tra enti locali e tra livelli istituzionali nella nuova dimensione della provincia metropolitana.
Infine "la riflessione" non può che investire anche il processo di rinnovamento che è indispensabile aprire nel Pd Romano, a partire dai problemi di fondo della città, dalle sue problematicità, e da quanto queste possono aver inciso soprattutto sul disagio dei cittadini delle periferie, e conseguentemente sul recente risultato per l’elezione del Sindaco di Roma.
Se è vero che occorre non fermarci e "guardare avanti", è pur vero che occorre dispiegare il massimo dell’impegno nel promuovere nuovi e competenti dirigenti, così come è giunto il momento di collocare questo dibattito guardando alla costituzione della provincia metropolitana ed alla soggettività delle future municipalità che segneranno per Roma il vero punto di forza istituzionale democratico dal quale ripartire.
È la piccola storia di un’Italia non alle corde, come dicono i giornali: sta talmente bene da frugare il manuale del superfluo costoso. Comincia col Berlusconi Due, va in opera col Berlusconi Tre. Un giudice sta per decidere (a Parma) se accogliere la richiesta di referendum presentata da avvocati civilmente slegati dagli interessi politico-imprenditoriali della città. Cremonini, ex sindaco socialista, Allegri presidente di Monumenta, associazione che prova a frenare gli eccessi della giunta cantiere. È il logo degli amministratori messi in poltrona da imprenditori che dei cantieri sono protagonisti. Le loro televisioni e i loro giornali trasformano gli uomini qualunque in personaggi dei quali non si può fare a meno. Incenso dopo incenso le generazioni degli elettori vengono cresciute così. Nella città di ieri i protagonisti dell’industria fabbricavano cose da servire in tavola; oggi sono signori del mattone.
Nessun professionista con la testa sulle spalle ha convenienza a contrastarli, eppure avvocati e intellettuali senza collare, hanno scelto di stare dalla parte della gente nella tutela di una normale democrazia. Contestano l’interpretazione dell’ex sindaco Ubaldi che ha deciso di sottrarre la costruzione della metropolitana al giudizio di chi dovrebbe usare il metrò. A Parma il voto della gente può decidere. È uno dei pochi comuni dove il sì o il no non sono consultivi: fermano o fanno correre l’avventura del treno sotto. Non importa se l’appalto è già firmato e le talpe pronte a scavare.
La metropolitana di Parma è il Ponte di Messina di noi della Padania. Con una differenza. Il ponte è la linea che unisce due sponde traversando il braccio di mare. Non vuole cambiare niente. La matassa degli intrighi mediterranei non può essere fiorata. La metropolitana è invece una linea di fantasia. Non risolve i problemi della città e impone il disegno di una città diversa per salvare in qualche modo bilanci che si annunciano disastrosi. Città troppo piccola? Gonfiamola per giustificare il metrò. Svuota il centro storico. Impone quartieri satelliti dove disgregare le abitudini nel pionierismo di strade abitate da gente che arriva a caso; estranei raccolti attorno alle cattedrali dei supermercati. Dovranno inventarsi un’altra vita, forse un altro dialetto.
Nel Cantiere Parma, il rapporto supermercati- abitanti, alza la città al top ten dei primati. Non importa se ogni supermercato chiude 75 negozi del centro storico dal quale sono già sparite le sale dei cinema. Riaprono fra i prati in attesa del metrò. Comunità che invecchia. Nel 2015 un abitante su quattro supererà i 65 anni. Per vedere i film che incantano i giornali deve prendere un taxi o aspettare due o tre anni fino a quando il film arriverà in Tv. Addio alle sale attorno alla piazza, quattro passi dopo lo spettacolo, pizza, un gelato: piaceri della provincia. Al cinema in moto oppure si resta a casa perché il metrò è ancora un appalto, impresa Pizzarotti. E la città dei monumenti, stradine con vetrine intriganti, librerie, caffè dalla piccola storia, sta per trasformarsi in una specie di museo: parmigiani come turisti, palcoscenico per i piaceri da rappresentare quando viene la sera. Musica e tavoli in mezzo alla strada. Talk show offerti dalle agenzie comunali mescolano nello stesso umanesimo Sgarbi e Funari. Mangiare e bere. Le nuove generazioni Tv incalzano; la maggioranza che ha una certa età deve rassegnarsi alle piazze spettacolo, città da fotografare, città sepolta nei tunnel, negozi e parcheggi interrati. La modernità lo impone. Perfino Parigi si era lasciata andare, anni fa. Ma appena si accorge che non-memoria e tensioni civili minacciano il futuro nell’emarginazione dei quartieri satelliti, Chirac richiama i commercianti dispersi nei recinti delle banlieue. Per favore, tornate. Rianimate la Parigi dormitorio sgualcita da turisti frettolosi. Prestiti a fondo perduto purché le botteghe riaccendano; cinema di quartiere che riaprono le porte. Ricompone la città densa dove il dialogo naturale nella quotidianità degli incontri, accende la vita reale. Non la vita immaginaria nei bunker, aria condizionata dei bottegoni di periferia. Chirac non era un presidente progressista: più o meno la stessa destra del governo di Parma, ma la Francia è nazione dove la cultura mantiene il primato sulla febbre del mattone. Il metrò di Parma dovrebbe raggiungere quartieri che crescono su terreni opzionati dalle solite mani. Disegno programmato da lontano. Il treno sottoterra è la ciliegina sulla torta- appalto dei mille zecchini d’oro. Il primo tratto unisce due punti della grande città: pedalando senza fretta sono quindici minuti in bici, dodici con autobus e filobus.
Non è questo il problema. Nella filosofia dei nuovi urbanisti inventati dall’ex sindaco Ubaldi, modernizzare, disperdendo, vuol dire attrarre nuovi abitanti per far risalire la popolazione da 174mila a 400mila persone, quasi Bologna, più di Verona. Miracolo. Con qualche perplessità sul raddoppio della popolazione: dove pescare i parmigiani del futuro? Arriveranno, arriveranno: tranquillizzano i profeti del metrò. Sono i soldi a far confusione, quei soldi che il governo Berlusconi Due ha elargito mentre stava passando la mano a Prodi: firma all’ultimo minuto. Coi milioni in tasca, rinunciare a scavare voleva dire restituire il grisbi allo Stato. Per carità, scaviamo. Inutilmente Alfredo Peri, assessore regionale ai trasporti, propone la soluzione della metropolitana leggera. Razionalizzare il sistema di superficie. Costi rimpiccioliti, ma addio all’appalto dei mille zecchini. Non se ne parla. Avanti col tunnel sotto i palazzi della storia. Per risparmiare, meno fermate. A una certa età camminare fa bene. Non importa se la linea corre lungo un torrente secco, impetuosità delle piene (rarissime) regolata da un bacino scavato a monte (impresa Pizzarotti). Trentacinque anni fa l’ingegnere Lunardi aveva firmato il progetto che immaginava far correre le rotaie nel grembo del fiume. Il quale taglia la città in due città. Costo dei lavori più o meno dieci volte inferiore ai conti di oggi, soluzione che il Lunardi ex ministro ritiene superata. Coraggio, scaviamo. Sotto la Pilotta dei Farnese, monumento con quattrocento anni di vita. «Tremare come la Pilotta», è il ritornello che accompagna l’ironia della città. Mura imponenti ma dai gusci fragili come le costruzioni del tempo. Accolgono la Galleria Nazionale, il Teatro Farnese, Biblioteca Palatina, Archivio Bodoni, Museo delle Scienze, università. Si trema davvero temendo che il frugare sotto non apra le crepe della Milano attorno a Sant’Ambrogio, vittima di parcheggi underground. Sciocchezze. Il dramma sono i conti. In Svizzera la gente decide questo tipo di spese col referendum. Un anno fa voglio sapere a Zurigo come mai la capitale dell’industria e degli affari continui ad affidare i trasporti ai tram più silenziosi del mondo. Gli elettori hanno una certa età: non vogliono il metrò. Preferiscono viaggiare alla luce del sole. Pio Marzolini, capo ufficio traffico assicura che gli zurighesi «hanno difeso il piacere di guardare le vetrine e poter scendere quando qualcosa attrae». Bacino di un milione di persone. «Ogni capo famiglia ha fatto i conti e non se l’è sentita di indebitare figli e nipoti perché un milione di abitanti non garantisce il pareggio». Risposta che si ripete a Ginevra. Philippe Vulster studia per le Nazioni Unite i flussi dell’urbanizzazione: meglio gli autobus. «Per dormire tranquilli. 50, 60 milioni di viaggiatori l’anno non bastano».
Un anno fa gli amministratori prevedevano 17 milioni di viaggiatori l’anno ma 12 milioni e 800mila clienti restavano «da individuare». Ancora non si trovano. E i 400mila fantasmi evocati dall’ex Ubaldi sarebbero gocce d’acqua. Ma non è solo il futuro. La previsione di spesa per la costruzione si annuncia ragnatela degli abra cadabra. 25 milioni al chilometro, si dice. Brescia che sta finendo il suo metrò, tracciato con le stesse difficoltà, ne spende 53. Più del doppio. Svista macroscopica o a Brescia hanno rubato? Chi rimboccherà la catastrofe? Il governo amico, eppure per quanto amico sono soldi di tutti gli italiani. Qualche sovvenzione; per il resto la città farà quadrare i bilanci in sconsolata solitudine. Il municipio sta vendendo le azioni Enia per riempire altri buchi. I buchi del metrò verranno colmati con tagli di servizi. Prezzi più cari per tutto. Meno autobus, filobus: i quartieri lontani dalla sotterranea devono farsene una ragione. Meno servizi sociali, non parliamo di case popolari per i senza tetto e senza niente. Costruiti 36 appartamenti in dieci anni di governo, con 6 milioni pagati dalla Fondazione Cassa di Risparmio, vicinissima (per italiche abitudini) all’Ubaldi quand’era sindaco. Più qualche casa riadattata. Ma il principio sacrosanto è che i senza casa non devono intralciare le grandi opere. Cinghia stretta per la gloria del metro. Ma non basterà. L’incubo della gestione coinvolge due, tre chissà quante generazioni: pagheranno i debiti di un trasporto per pochi.
Non è la polemica dei politici contro: analisi del professor Marco Ponti, insegna economia applicata al Politecnico di Milano, membro della società italiana degli Economisti dei Trasporti e della World Conference of Trasport Research Society. Nella sala Filosofi dell’università di Parma spiega perché la metropolitana è l’imprudenza che fa comodo a qualcuno. Dibattito organizzato da StopMetro, galassia di associazioni e movimenti motore del referendum. «Non sono né verde, tanto meno di sinistra. Sono un liberale che studia l’uso del patrimonio pubblico ed ho lavorato dieci anni per la Banca Mondiale. Tornato in Italia non mi sono ancora ripreso nel vedere come vengono utilizzate le risorse pubbliche». Ricorda che nel panorama nazionale sprechi come il metrò Parma non fanno eccezione: «L’obiettivo non è fare progetti sensati, ma ottenere da Roma più soldi possibili. Ed è quasi impossibile per l’amministrazione della città dire: “quei soldi non li voglio”. La pressione delle lobby locali (e di chi cuoce gli appalti) è quasi irresistibile». Domanda dall’aula affollata: il Cipe ha concesso il finanziamento sulla base di un progetto che prevedeva 25 milioni di viaggiatori l’anno. Le ultime stime prudenziali li hanno ridotti a 8 milioni. Possibile che i signori del Cipe non sappiano quanti abitanti ha Parma? Un clic sul computer e si informano. Il professor non consola: «Nella mia esperienza le previsioni di spesa sono sempre sottovalutate e il traffico di passeggeri sempre sopravvalutato. Se uno fa un progetto di mobilità che è una cretinata, dopo un anno si vede subito, mentre le grandi opere impediscono di controllare i risultati in tempi brevi, ecco perché sono molte amate dai politici del momento». Domani sarà difficile risalire alle responsabilità.
mchierici2@libero.it
Vedi su eddyburg la corrispondenza di Andrea Bui. Vedi anche il sito Stop Metro.
All’ingresso del ministero dei beni culturali, in via del Collegio romano a Roma, da qualche tempo i controlli per chi entra sono molto più rigidi. Chissà se dipende da un’aria cambiata o meno. Di sicuro le nomine fatte dal predecessore Rutelli in extremis prima della scadenza da ieri vanno a farsi benedire. Ben 216. Dirigenti, assegnati o talvolta confermati alle direzioni centrali, regionali, soprintendenze. Nomine fissate da un decreto ministeriale del 28 febbraio scorso che avevano suscitato critiche da più parti, soprattutto dai sindacati confederali (per Uil da un lato, Cgil e Cisl dall’altro, molte non erano date per meriti, anzi). Su quel decreto di riorganizzazione la Corte dei Conti ha fatto rilievi: avrebbe contestato 11 nomine.
Di conseguenza il decreto non è stato registrato e sulle osservazioni della Corte il capo di Gabinetto Salvatore Nastasi ha firmato il provvedimento che annulla gli incarichi. Nel ministero e soprattutto in tante soprintendenze c’è la sensazione di un ulteriore ribaltone dell’ingranaggio lasciando uno stato di precarietà permanente, di impossibilità a pianificare a lunga distanza, ad agire.
«Atto gravissimo», commenta l’ex sottosegretario ai beni culturali e ora senatore Pd Andrea Marcucci. Ma se Bondi agisce in una cornice legislativa, come prendere il neodeputato del Pdl Luca Barbareschi? Ringrazia il ministro e dice chiaro cosa vuole certa Destra: «questa scelta sottolinea lo spirito di squadra e di forte coesione con cui lavora il Popolo della libertà per il rilancio dell’azione di governo nella cultura». Tradotto: la cultura va occupata. Manca poco che dica militarmente. Formalmente le nomine saltano tutte. Magari non andrà proprio così. Alcune, eccellenti, come De Caro alla direzione archeologica o Carla di Francesco al paesaggio, non dovrebbero rischiare. Se sì sarebbe un errore. Non resterebbero Bruno De Santis, direttore generale per l’organizzazione, innovazione e altro, e l’attuale direttore regionale della Calabria Giuseppe Zampino, già soprintendente dei beni architettonici a Napoli, anni fa coinvolto in una vicenda di appalti partenopei dalla quale è stato assolto. Se Bondi voglia fare o meno piazza pulita, Barbareschi e chi spalleggia l’attore preme. Certo, ci sono cose da aggiustare, nel ministero. Sempre per fare esempi, in Campania con Rutelli si è sdoppiata una soprintendenza archeologica (una Salerno e Avellino, una Caserta e Benevento), operazione sulla cui utilità più di un archeologo dubita, mentre nella archeologicamente ricca Sardegna si è accorpato tutto a Cagliari con scelta poco lungimirante. E si potrebbe riflettere su quattro contratti esterni da soprintendente dati tempo fa a dirigenti di una regione del sud. Intanto Bondi ha detto al Corsera di volersi occupare del caso Monticchiello e Asor Rosa, che quel caso sollevò, se ne rallegra. Ma Tremonti cancellerà 15 milioni di euro stanziati da Prodi per abbattere ecomostri: dietro la facciata c’è molto da temere.
Postilla
L’episodio della revoca delle nomine al Ministero Beni Culturali non è grave in quanto ennesima manifestazione di spoil system. E’ questo in fondo un meccanismo cui siamo ormai assuefatti, pur nella versione del tutto italica e assolutamente bipartisan che ne fa una delle forme di occupazione del potere di tipo consortile più che politico, destinata a premiare non solo una consonanza ideologica, ma spesso soprattutto una disponibilità all’allineamento tanto più gradita quanto più prossima all’asservimento. Ma in questo caso nelle dichiarazioni di alcuni dei neoparlamentari si coglie una plateale e beatamente sbandierata ignoranza dei meccanismi istituzionali e amministrativi che preoccupa: le nomine sub iudice riguardano nella quasi totalità figure di funzionari già da anni impegnati in quei ruoli. Si tratta quindi di conferme o semplici spostamenti di sede, interni al personale in servizio, neppure lontanamente equiparabili a quelle dei grands commis o amministratori delegati di aziende o enti. Neanche in un rigurgito di bonapartismo quei funzionari potrebbero essere sostituiti sic et simpliciter con novelli esecutori della “cultura di destra”.
Questa pulsione a trasformare ruoli eminentemente tecnici in territori di possibile appropriazione è preoccupante come sintomo sia di distorsione della dinamica democratica che di assoluto disinteresse nei confronti dei parametri di competenza e capacità professionale: dietro queste affermazioni che ci auguriamo smentite nella pratica, vi è solo l’interesse ad occupare “caselle” sulla base di criteri di contiguità di appartenenza e di opportunismo clientelare. E’ status di pratica politica ben povero quello che, in cambio della costruzione di meccanismi di consenso anche a livelli davvero circoscritti quali quelli che può assicurare un funzionario statale di medio livello, non esita ad introdurre ulteriori, pesanti elementi di precarietà e disagio in una macchina, quella del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, già da anni strangolata da uno stillicidio progressivo di riduzione di risorse e la cui attività appare di fatto congelata da una perenne riforma che tutto cambia senza consolidare mai nulla.
Con quest’ultimo, ennesimo contraccolpo, sapientemente predisposto da una Corte dei Conti tempestivamente allineatasi all’evolversi del quadro politico, l’attività del Ministero, sia a livello centrale, che sul territorio è bloccata sine die, rendendo di fatto di enorme difficoltà una corretta azione di tutela del patrimonio culturale. In queste condizioni, organismi vitali di presidio come le Soprintendenze già da tempo minate da una lenta, ma progressiva asfissia in termini di mezzi e personale, sono financo politicamente delegittimate ad operare. E il tanto apprezzato Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio è destinato a rimanere semplicemente un bellissimo e prezioso documento, destituito di ogni efficacia operativa e quindi totalmente inutile. (m.p.g.)
«Il ministro Sandro Bondi mi dà ragione su Monticchiello non diversamente da come mi aveva dato ragione il suo predecessore Francesco Rutelli... Una vicenda di cui prendo atto con molta soddisfazione. Evidentemente la denuncia fatta a suo tempo ha sollevato uno scalpore capace di resistere ai mutamenti di maggioranza del governo».
Alberto Asor Rosa ha appena letto l'intervista al ministro Bondi al Corriere della Sera. Contento degli apprezzamenti del neoministro dei Beni culturali? «Non si può che esserne contenti. Ma Monticchiello è la punta più emergente e nota di un iceberg di dimensioni ben più imponenti, composto da tanti segmenti persino più consistenti. Lì si capirà il tipo di approccio del nuovo ministro, visto che anche lui parla del caso Toscana».
A che cosa si riferisce, Asor Rosa? «In Toscana pende da tempo la questione del corridoio tirrenico, cioè la sciagurata ipotesi di affiancare al vecchio tracciato dell'Aurelia una nuova autostrada destinata a sfondare da cima a fondo la Maremma. Sarà il vero banco di prova per il ministro, ben più impegnativo e significativo della presa di posizione su Monticchiello». Il vecchio professore non rinuncia alla battuta: «Il dispiegamento delle aperture bondiane avrà modo di chiarirsi nei prossimi mesi».
Vi vedrete col ministro? «Ci sarà presto una magnifica occasione. Il 28 luglio si riuniranno a Firenze proprio i Comitati toscani per la difesa del territorio, io ne sono il coordinatore. Credo che in quella sede, dietro adeguato nostro invito, il ministro potrà ottenere l'ascolto di una platea sicuramente molto attenta alle sue opinioni...»
Nell'intervista al neoministro Bondi alcune posizioni condivisibili, molta prudenza e sprazzi di cerchiobottismo. Dal Corriere della Sera , 29 maggio 2008 (m.p.g.)
Sandro Bondi è approdato al ministero fondato da Giovanni Spadolini. Ha cambiato stanza (addio a quella monumentale) ma ha confermato molti uomini che hanno lavorato con Urbani, Buttiglione e Rutelli (il capo di gabinetto Salvatore Nastasi, il capo dell'ufficio legislativo Mario Torsello).
Ministro, cominciamo dal paesaggio. Costruire ancora o procedere al riuso, come vogliono gli ambientalisti?
«La priorità è il recupero delle periferie degradate. Nelle città devastate si annidano fenomeni allarmanti di disagio sociale: la bruttezza genera mostri. Quindi: minor consumo di territorio e del poco verde ancora libero che assicura ossigeno alle città, priorità al recupero e al riuso delle aree già cementificate ma inutilizzate. Altrimenti le città si fondono in immense megalopoli indistinte. Il territorio in Italia è il bene scarso per eccellenza, e richiede un utilizzo attento, misurato e prudente. Questo non vuol dire che non si deve più costruire: evitiamo estremismi».
Un esempio concreto?
«Quello che Gianni Alemanno ha proposto per Roma: puntare sull'edilizia di riqualificazione, che rispetta l'identità della città e salvaguarda il verde. Nuove opportunità per l'ímprendítoria e l'edilizia, che troveranno nel recupero e nel restauro occasioni di sviluppo»
Mi può fare un esempio?
«Per esempio su Monticchiello e la difesa del paesaggio sono d'accordo con Alberto Asor Rosa. Anche se rifuggo da certe posizioni scandalistiche e vagamente ideologizzanti. Ma in una saggia applicazione del Codice dei Beni culturali c'è il giusto equilibrio tra sviluppo e tutela».
Pensa di parlarne con lui, di incontrarlo al ministero visto che presiede i Comitati di difesa del territorio toscano?
«Perché no? Volto volentieri. Farò tutto quello che può essere utile per difendere il nostro patrimonio. Asor Rosa ha rivolto critiche giuste all'amministrazione regionale toscana. E le stesse critiche io rivolgerò al presidente della Regione».
Apprezzava Asor Rosa già ai tempi di «Scrittori e popolo», cioè quando lei, ministro, militava nel Pci o preferisce l'ultima «versione» dello storico della letteratura?
«Per la verità ho sempre apprezzato Asor Rosa come storico della letteratura, attraverso l'imponente biblioteca di Storia della Letteratura pubblicata da Einaudi, anche se non sempre ho condiviso le sue predilezioni e scelte interpretative».
In quanto agli ecomostri?
«Al netto di certo sensazionalismo, ritengo giusta la battaglia per liberare i nostri paesaggi da brutture inaccettabili: i vecchi scheletri incompiuti che sfregiano coste e montagne devono essere abbattuti. Le norme esistono. Bisogna affinare gli strumenti operativi».
«Mai più condoni edilizi», disse Rutelli l'anno scorso per difendere il paesaggio. Condivide?
«Il condono, oltre che dannoso al territorio, ha dei costi gestionali elevati, anche se ne riconosco una necessità e utilità se pure limitata nel tempo e per via straordinaria. In ogni caso, la Corte costituzionale nel 2004 ha chiarito che un pezzo di competenza importante sul punto (tranne che per il profilo penale) è delle Regioni, non dello Stato».
Il suo portavoce Lino Jannuzzi rivela: «I registi di sinistra ora cercano Bondi, c'è curiosità...».Chi l'ha cercata?
«Posso confermare che c'è curiosità. Io non cerco palcoscenici. Desidero solo essere un interlocutore serio. E spero di essere giudicato dai fatti e dalla sincerità delle mie intenzioni».
I Beni culturali avranno un ruolo nell'audiovisivo?
«Dovremo far nascere iniziative comuni con la Rai e le aziende specializzate nell'audiovisivo per promuovere territorio e beni culturali con la promozione di un made in Italy del bello, della cultura e dell'arte. Anche fiction e cinema possono aiutarci in questo senso».
Luca Barbareschi ha polemizzato: «Perché Bondi ha reintegrato le 116 persone che Rutelli aveva tentato di assumere con la qualifica di dirigenti il giorno prima di lasciare i Beni culturali? Ci vuole una strategia comune del centrodestra».
«Non abbiamo preso decisioni. Forse si parla delle nomine della maggior parte dei soprintendenti di settore da parte del precedente governo in limine mortis, cioè dirigenti di ruolo dell'amministrazione e non di assunti. Molti loro contratti sono all'esame della Corte dei conti. Qualche rilievo c'è già stato e valuteremo con scrupolo e imparzialità le professionalità anche per correggere decisioni che sono sembrate alle volte affrettate e poco comprensibili. Spero si possa discutere con serenità e obiettività, e con uno stile misurato e costruttivo. Io sono pronto a farlo con tutti».
L'enorme potenza di fuoco legislativo della Regione Lombardia colpisce ancora, dopo l'ammazzaparchi (momentaneamente ritirato ma già pronto a ricomparire nell'ambito della revisione della legge quadro sui parchi), ci si mantiene in allenamento approvando una "leggina" che in sintesi dice:
- Pratiche veloci per le infrastrutture (hop-hop-hop via tutta quella carta e quelle lungaggini...)
- Mano libera ai privati che hanno partecipato alla realizzazione dell'opera: 20 anni di concessione non bastano? Bene, che gli scatoloni (logistiche, centri commerciali, cinema a 48 sale e via scatolonando) sorgano fino al sospirato pareggio.
Sado-masochismo territoriale e buoni sentimenti federalisti si mescolano nei commenti del post-voto. L'assessore regionale Raffaele Cattaneo gioca con le parole e con la nostra intelligenza sostenendo che si tratta di "federalismo territoriale". Come se non fosse possibile un modello federalista che abbia a cuore la tutela del territorio invece del suo consumo indiscriminato.
Grazie a HelpConsumatori da cui è tratta la cronaca che segue.
IL Consiglio Regionale lombardo ha approvato in data 18-05-08 la nuova Legge Obiettivo numero 226 in materia di infrastrutture. Il voto - rinviato nella seduta precedente per mancanza del numero legale - è stato espresso in maniera favorevole dalla maggioranza, con l'astensione del Pd e il parere contrario del resto dell'opposizione (Sd e Prc). La legge intenderebbe velocizzare la realizzazione di infrastrutture strategiche varie o ferroviarie di interesse nazionale per le quali è già stato riconosciuto il "concorrente' interesse nazionale e regionale". Scopo dichiarato del provvedimento è la riduzione delle procedure introducendo la regionalizzazione dell'istruttoria e assegnando alla Regione tutti quelli strumenti utili per superare l'eventuale inerzia degli organi statali.
In sintesi, qualora non si raggiungessero le intese per regolare ruoli, competenze e tempi, la Regione potrà intervenire con propri provvedimenti per evitare che eventuali lentezze da parte degli organi statali competenti possano frenare la realizzazione delle infrastrutture. Con l'approvazione di questa norma è possibile inserire all'interno della concessione per la costruzione di nuove strade e autostrade anche la possibilità di realizzare insediamenti e strutture di vario genere nelle aree vicine al tracciato. Il provvedimento prevede anche l'avocazione alla Regione di una serie di prerogative decisionali e autorizzative finora in capo al Governo nazionale. Delle nuove norme potranno beneficiare opere come la Pedemontana, la Brebemi e la Tem, oltre alle tratte ferroviarie Arcisate-Stabio, la connessione Malpensa-Ferrovie Sempione, la Chiasso-Monza e la Gallarate-Rho.
"Oltre all'aspetto contraddittorio nei confronti delle competenze governative - afferma Pietro Mezzi, assessore al Territorio e Parchi della Provincia di Milano - va lanciato un vero e proprio allarme per lo stravolgimento del territorio che questa norma comporta. Da oggi, infatti, sarà possibile intasare per una larga fascia i nuovi tracciati con insediamenti indiscriminati, al solo scopo di permettere al concessionario di ripagarsi l'opera in assenza di un ritorno economico dai pedaggi. Bisogna porsi l'obiettivo di ricostruire il paesaggio attorno al tracciato di una nuova autostrada, e cercare di contestualizzarla, non costruirle intorno capannoni e centri commerciali stravolgendo il territorio. In questo modo - continua l'assessore Mezzi - si produce un impoverimento complessivo dell'ambiente e ci allontaniamo dalla positive esperienze realizzate in molti Paesi esteri, dove si cerca di ridare fisionomia e qualità al paesaggio attorno ai grandi tracciati". Diversa la posizione della maggioranza regionale, secondo cui "la via del federalismo deve passare anche per autostrade e ferrovie", come ha dichiarato l'assessore alle Infrastrutture della Lombardia, Raffaele Cattaneo, che usa proprio il termine di ''federalismo infrastrutturale'' per descrivere la legge appena approvata. "La speranza, adesso, è che la legge non venga impugnata dal governo - ha continuato Cattaneo - non mi sorprenderebbe se dei funzionari ministeriali proponessero il ricorso perché la nostra legge è innovativa, ma su questo misureremo la politica''.
Sulla legge, ha ricordato il presidente della commissione Territorio del Consiglio regionale Marcello Raimondi, c'è già stato un confronto con i ministri del passato Consiglio. ''Per questo siamo sereni sul fatto che al governo non interessi fare ricorso, tanto più che l'attuale maggioranza parlamentare ha un orientamento federalista. Il ricorso sarebbe un un autentico controsenso''. Comunque, il Consiglio ha approvato anche un ordine del giorno per chiedere al governo di approvare una legge speculare a quella della Lombardia, che dia alle Regioni la possibilità, nel caso di infrastrutture concorrenti, di fissare discipline istruttorie più snelle e veloci.
''Quello che facciamo è prenderci tutti gli spazi di federalismo che ci consente la Costituzione'' ha aggiunto Cattaneo spiegando che l'effetto della Lgge obiettivo regionale "sarà quello di tagliare i tempi e abbassare i costi". Diversa la visione dell'opposizione di sinistra, secondo cui la legge lombarda stravolgerà in maniera irresponsabile il territorio.
"E' una legge miope e irresponsabile, poiché assume come bussola e ratio suprema la fretta di fare le grandi opere autostradali, come Pedemontana, Brebemi e Tem, senza porsi troppi problemi sul come operare e sul conseguente impatto ambientale e territoriale", afferma in una dichiarazione Luciano Muhlbauer, consigliere regionale lombardo del Prc. "La nuova legge, infatti - sottolinea Muhlbauer - non prevede soltanto un potere sostitutivo da parte del Governo regionale rispetto a quello nazionale in caso di ritardi procedurali, ma inserisce con l'articolo 10 una sorta di maxi-deroga agli strumenti urbanistici e paesistici, laddove stabilisce che le concessioni per le infrastrutture, approvate dal Presidente della Regione, possono comprendere anche l'autorizzazione per l'edificazione delle aree limitrofe. E come se non bastasse, la definizione di cosa e dove esattamente si può costruire, è talmente ambigua e generica, che praticamente tutto diventa possibile. E l'unico vero criterio per tali interventi diventa così che i margini operativi di gestione possano contribuire all'abbattimento del costo dell'esposizione finanziaria dell'infrastruttura". La preoccupazione della sinistra che ha votato contro - mentre il Pd si è semplicemente astenuto - è che questa norma sia anticostituzionale. "Pur guardando con favore alla partecipazione di privati per la costruzione delle opere infrastrutturali - ha rimarcato il vicepresidente del Consiglio Marco Cipriano (Sd) - credo che questi soggetti dovrebbero investire non per un tornaconto diretto ma attraverso i benefici indiretti sulla attività economica". Una delle questioni più discusse, infatti, riguarda l'articolo che prevede la possibilità che le concessioni riguardino non solo i tracciati ma anche le zone a loro vicine per "ottenere maggiori introiti".
Contro questo punto diverse associazioni - fra cui Italia Nostra e Rete Lilliput - hanno iniziato una raccolta firme e proposto un emendamento per cancellare la norma, presentato in primis dal consigliere del Prc Muhlbauer. "Poiché sono noti e significativi i problemi finanziari che comportano le faraoniche opere autostradali - ha spiegato Muhlbauer - Regione Lombardia non trova di meglio che offrire come una preda il territorio più o meno adiacente al tracciato delle autostrade". Ha parlato invece di un "miglioramento" il consigliere dell'Udc Gianmarco Quadrini, mentre Stefano Tosi del Pd ha spiegato la scelta astensionista come una "perplessità su alcuni strumenti e alcune incongruenze con la legge urbanistica, anche se è una misura importante perchè va nella direzione di ridurre i tempi delle procedure di progettazione e realizzazione delle infrastrutture decisive per il territorio, oggi oggettivamente troppo lunghe e farraginose e perché può avere un impatto positivo sulle politiche di sviluppo".
Michael Mehaffy è un pianificatore attento ai metodi dell'urbanistica sostenibile. Collabora con centri di ricerca e riviste. Ha scritto saggi con Nikos Salingaros e lavorato per la Fondazione del principe Carlo d'Inghilterra. Interviene nel dibattito sui rapporti tra moda, comunicazione e architettura
Oltre a comprensibili preoccupazioni sulla difesa dell'identità locale e del patrimonio nazionale, vorrei commentare la pretesa dell'Expo 2015 di definire i nuovi progetti che si stanno predisponendo a Milano come «sostenibili». E proporrei ai cittadini di assumere un atteggiamento molto scettico su quest'affermazione.
Per dirla molto francamente, la pretesa che esistano edifici alti sostenibili è una frode crudele. Tra i loro molti peccati, i grattacieli favoriscono la perdita e il guadagno di calore in inverno e in estate a causa delle loro grandi esposizioni e a causa degli ampi vetri non riparati dal sole. Tendono a causare effetti di «isola di calore» che, di fatto, aggiungono calore al riscaldamento globale del pianeta. Inoltre, i grattacieli sono costruiti con materiali che hanno un'elevata dispersione di energia, le loro superfici calpestabili non sono convenienti a causa degli eccessivi requisiti di spazio che richiedono ascensori, scale e uscite d'emergenza, infine la loro manutenzione e riparazione richiede spesso stravaganti sistemi. E si potrebbe continuare… Per altro non aggiungono realmente qualcosa alla vita di una città, se non, forse, un'icona aziendale che potrebbe essere interessante da guardare per un paio d'anni e nulla più. Ma il prezzo che per loro la città deve pagare è molto elevato: i grattacieli bloccano il sole e la vista, creano strani effetti del vento a livello del suolo ed isolano in modo estremo gli occupanti dall'attività urbana che si svolge a livello terreno. Invece di distribuire le persone lungo una strada e favorirne il contatto con la realtà urbana, con i grattacieli si finisce con il concentrare le persone in piccoli nodi, spesso lasciando grandi vuoti urbani nei quali non si può passeggiare. E questa non è di certo una formula giusta per costruire una città sostenibile.
Sono consapevole delle osservazioni di chi sostiene che la densità fornita da edifici alti è benefica; ma l'evidenza mostra che ciò non è vero. Alcune ricerche, ad esempio, dimostrano che i problemi legati al carbonio tendono a scendere ad un livello stabile nelle aree dove abitano circa un centinaio di persone per ettaro. Una densità ben distribuita di cento persone per ettaro è perfettamente realizzabile in un tessuto edilizio con case a quattro o sei piani, come dimostrato da molte città europee. Per contro, città come Houston e Atlanta, che hanno edifici molto alti, dimostrano di avere anche emissioni per persona molto elevate, oltre ad altri problemi ecologici.
Inoltre, la costruzione di un nuovo edificio alto — non importa quanto «verde» sia la sua tecnologia — consuma alti livelli d'energia e di risorse. Per capirlo, basta confrontare il consumo netto di energia e di materiali di un nuovo edificio con quello degli edifici esistenti. Spesso è molto più «ecologica» una riqualificazione di un edificio esistente piuttosto che costruire un nuovo edificio con funzioni di risparmio energetico, che spesso non funzionano nel tempo specie perché non si è tenuto conto degli alti costi di manutenzione.
È molto importante, infine, comprendere che un approccio sostenibile è basato sui «sistemi interi». Quando adottiamo questo approccio, scopriamo che la maggior parte delle strutture sostenibili sono quelle già esistenti. In definitiva, la strategia più sostenibile appare quella di proteggere il nostro patrimonio e la nostra identità locale, difendendole con forza contro chi vorrebbe cambiarla in favore di luccicanti novità.
Da anni vengono lanciati preoccupati allarmi sui tentativi della criminalità organizzata di mettere le mani sull’affare del Ponte sullo Stretto di Messina. Il grande potere criminogeno della mega-opera è stato confermato da numerose indagini che hanno evidenziato, da una parte, come le cosche locali puntino ad inserirsi nei sub-appalti, nelle opere secondarie e nell’imposizione di pizzo; dall’altra, come la grande mafia internazionale abbia provato a finanziare direttamente l’opera, grazie alle enormi disponibilità economiche in suo possesso.
Obiettivo cantieri
“Circa il 40 per cento delle opere potrebbe teoricamente alimentare i circuiti mafiosi” . È lo scenario che emerge da uno studio sull’impatto criminale del Ponte commissionato al Centro Studi Nomos del Gruppo Abele di Torino dall’Advisor della Società Stretto di Messina. Gli interessi mafiosi potrebbero manifestarsi nella fase di scavo e realizzazione delle fondazioni e della movimentazione terra, ed in questo caso imprese mafiose – già esistenti o più probabilmente costituite ad hoc – potrebbero rivendicare una partecipazione diretta ai lavori.
Identico rischio di penetrazione criminale per quanto riguarda le strutture di ancoraggio dei cavi di sospensione, per le quali è previsto un volume di 328.000 metri cubi in Sicilia e di 237.000 in Calabria.
Se si tiene inoltre conto che per la realizzazione del manufatto occorrono in totale circa 860.000 metri cubi di calcestruzzo, il rischio criminalità appare di gran lunga più elevato, data la tradizionale specializzazione dei gruppi mafiosi in Calabria e Sicilia nel cosiddetto “ciclo del cemento”.
Ma è nell’ambito dei lavori per i collegamenti ferroviari e stradali, in buona parte previsti in galleria e nelle rampe di accesso al Ponte, che il rischio criminalità è ancora più alto ed evidente.
Un altro settore particolarmente sensibile alla penetrazione mafiosa è quello relativo all’offerta di servizi necessari per il funzionamento dei cantieri.
Oltre alla tradizionale funzione di guardianìa - secondo il sociologo Rocco Sciarrone - “i mafiosi cercheranno con molta probabilità di inserirsi nelle fasi di installazione e organizzazione dei cantieri, e successivamente anche nella gestione dei loro canali di approvvigionamento.
È dunque ipotizzabile il tentativo di controllare il rifornimento idrico e quello di carburante, la manutenzione di macchine e impianti e la relativa fornitura di pezzi di ricambio, il trasporto di merci e persone”.
Nelle mani di mafia e ‘ndrangheta, in più, potrebbero finire cemento, ferro, finanche il catering e gli alloggi per gli operai.
Questa è però una visione “minimalista” che non tiene conto delle evoluzioni dell’impresa mafiosa e della sua forza finanziaria e di inserimento nei mercati “legali”.
Nella relazione trasmessa al Parlamento nel novembre 2005, la Direzione Distrettuale Antimafia (Dia), affermava che “la mafia è pronta a investire il denaro del narcotraffico nella costruzione del Ponte sullo Stretto di Messina”.
Nello specifico, le indagini avrebbero accertato che “ingenti capitali illecitamente acquisiti da un’organizzazione mafiosa a carattere transnazionale sarebbero stati reinvestiti nella realizzazione di importanti opere pubbliche, con particolare riguardo a quelle finalizzate alla costruzione del Ponte sullo Stretto di Messina”.
Il primo allarme degli inquirenti sugli interessi delle organizzazioni mafiose nella realizzazione dell’infrastruttura risale comunque al 1998. Anche allora fu la Dia a denunciare la “grande attenzione” di ‘ndrangheta e Cosa Nostra per il progetto relativo alla realizzazione del Ponte.
La Dia approfondiva il tema nella sua seconda relazione semestrale per l’anno 2000. Soffermandosi sulla ristrutturazione territoriale dei poteri criminali in Calabria e in Sicilia, si segnalava come le indagini avessero evidenziato che “le famiglie di vertice della ‘ndrangheta si sarebbero già da tempo attivate per addivenire ad una composizione degli opposti interessi che, superando le tradizionali rivalità, consenta di poter aggredire con maggiore efficacia le enormi capacità di spesa di cui le amministrazioni calabresi usufruiranno nel corso dei prossimi anni”.
Nel mirino, secondo l’organo investigativo, innanzitutto i progetti di sviluppo da finanziare con i contributi comunitari previsti dal piano Agenda 2000, stimati per la sola provincia di Reggio Calabria in oltre cinque miliardi di euro nel periodo 2000-2006.
“Altro terreno fertile ai fini della realizzazione di infiltrazioni mafiose nell’economia legale – aggiungeva il rapporto - è rappresentato dal progetto di realizzazione del Ponte sullo Stretto di Messina, al quale sembrerebbero interessate sia le cosche siciliane che calabresi. Sul punto è possibile ipotizzare l’esistenza di intese fra Cosa Nostra e ‘ndrangheta ai fini di una più efficace divisione dei potenziali profitti” .
Dal Canada allo Stretto di Messina via Arabia Saudita
Intanto alcuni faccendieri lanciavano l’assalto, per conto delle più potenti cosche mafiose d’oltreoceano, alla gara per il general contractor del Ponte di Messina.
L’intrigata ragnatela di interessi è venuta alla luce il 12 febbraio 2005, quando la stampa dava notizia dell’emissione di cinque provvedimenti di custodia cautelare per associazione per delinquere di stampo mafioso e delle perquisizioni in diverse città italiane.
I provvedimenti venivano notificati al boss Vito Rizzuto, capo dell’organizzazione legata ai mafiosi Cuntrera-Caruana e sospettato di rappresentare in Canada la “famiglia” Bonanno di New York, all’ingegnere Giuseppe Zappia (residente in Canada ma arrestato a Roma), al broker Filippo Ranieri (originario di Lanciano in Abruzzo), all’imprenditore cingalese Savilingam Sivabavanandan e all’algerino Hakim Hammoudi.
L’inchiesta (denominata “Brooklin”), coordinata dal capo della Dda di Roma Italo Ormanni e dal pm Adriano Iassillo, sulla base di numerose intercettazioni, individuava un’operazione concepita da Cosa Nostra per riciclare 5 miliardi di euro provenienti dal traffico di droga nella realizzazione del Ponte. Ad ordire le trame il boss Vito Rizzuto, originario di Cattolica Eraclea, figlio di Nicola “Nick” Rizzuto, personaggio eminentissimo della mafia internazionale.
Stando alle accuse dei magistrati romani, il mafioso italo-canadese si sarebbe avvalso dell’imprenditore Giuseppe Zappia che aveva capeggiato una cordata partecipante alla gara preliminare per il general contractor, avviata dalla Società Stretto di Messina il 14 aprile 2004. Sei mesi più tardi, tuttavia, la “cordata Zappia” e un non precisato raggruppamento di aziende meridionali venivano escluse nella fase di pre-qualifica, perché non in possesso dei requisiti richiesti .
Zappia ha negato i contatti con la criminalità italo-canadese e a sua difesa ha prodotto un affidavit, una sorta di accordo sancito con una società, la Tatweer international company for industrial investiments, in mano ad uno dei principi della famiglia reale dell’Arabia Saudita . I soldi per il Ponte, cioè, dovevano venire dagli immensi profitti del petrolio.
In realtà i faccendieri internazionali avevano fatto la spola tra Canada e Arabia Saudita, intrecciando inquietanti relazioni tra mafiosi e sovrani mediorientali, ed avviando i contatti con i manager delle maggiori società di costruzione in corsa per il Ponte sullo Stretto. La mafia, consapevole delle loro difficoltà a reperire capitali freschi per avviare i lavori, si era offerta a metterceli lei e per intero.
Come ha evidenziato Stefano Lenzi, responsabile dell’Ufficio istituzionale del WWF Italia, “l’attuale salto di qualità vede la holding mafiosa mettere sul tavolo dei suoi rapporti con le imprese il suo ruolo di ‘intermediatore finanziario’, con enormi disponibilità economiche. Un mediatore che non ha nemmeno bisogno di condizionare il general contractor per realizzare l’opera ‘con qualsiasi mezzo’, ma tenta, addirittura, di diventare esso stesso (attraverso le necessarie coperture) l’elemento centrale di garanzia del GC, che dovrà redigere la progettazione definitiva ed esecutiva e realizzare l’infrastruttura”.
Ma più di tutto, l’establishment criminale aveva colto l’alto valore simbolico del Ponte, comprendendo che con il finanziamento e la realizzazione della megaopera era possibile ottenere nuova legittimazione istituzionale e sociale.
“Quando farò il ponte – dirà in una telefonata l’imprenditore Zappia – con il potere politico che avrò io in mano, l’amico (il boss Rizzuto ndr) lo faccio ritornare…”.
Dal 19 marzo 2006 è in corso presso il Tribunale di Roma il processo contro i protagonisti dell’operazione Brooklin. In esso, incomprensibilmente, la Società Stretto di Messina ha scelto di non costituirsi parte civile.
Indipendentemente da quello che sarà l’esito giudiziario, un verdetto storico è inconfutabile: in vista dei flussi finanziari promessi ad una delle aree più fragili del pianeta, è avvenuta la riorganizzazione di segmenti strategici della borghesia mafiosa in Calabria, Sicilia e nord America. Ma non solo.
Dietro tanti dei Padrini del Ponte, infatti, si celano i nomi più o meno noti di mercanti d’armi e condottieri delle guerre che insanguinano il mondo. Quasi a voler enfatizzare il volto “moderno” del capitale. Saccheggiatore di risorse naturali e dei territori; generatore prima, beneficiario dopo, di ogni conflitto bellico.
Infiltrazioni criminali sui lavori autostradali
In attesa del Ponte, la criminalità organizzata ha scelto di sedere attivamente al banchetto dei lavori di ammodernamento dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria (oltre 1.200 milioni di euro), lavori appaltati proprio ad alcune delle grandi società italiane di costruzione che guidano l’Associazione temporanea d’imprese “Eurolink”, general contractor per la progettazione definitiva e la realizzazione del “Mostro sullo Stretto”.
Per l’ammodernamento della Salerno-Reggio Calabria, mafia e ‘ndrangheta avrebbero riscosso il pizzo da quasi tutte le aziende coinvolte. Lo ricorda l’ultimo rapporto su criminalità e imprenditoria di Sos Impresa/Confesercenti. Impregilo, ad esempio, capofila Eurolink, “aveva insediato nelle società personaggi che, secondo gli inquirenti da sempre avevano avuto a che fare con esponenti della criminalità organizzata e con imprese di riferimento alle cosche”. Lo stesso sarebbe accaduto con la Società Italiana per Condotte d’Acqua S.p.a., partner del gruppo di Sesto San Giovanni nella costruzione del Ponte sullo Stretto.
Il modus operandi delle due società è stato delineato dall’inchiesta condotta nel luglio 2007 dalla Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria che ha portato all’arresto di quindici persone, tra cui gli esponenti di spicco dei clan Piromalli di Gioia Tauro, Pesce di Rosarno, Condello di Reggio Calabria, Longo di Polistena e Mancuso di Vibo Valentia.
Per i lavori autostradali nel tratto compreso tra gli svincoli di Rosarno e Gioia Tauro, le cosche avrebbero imposto ad Impregilo e Condotte l’assegnazione dei lavori e la fornitura di materiali e servizi ad imprese a loro vicine, più una tangente del 3% sul valore delle commesse.
Spiega Confesercenti: “La scelta da parte di entrambe le imprese di investire personaggi discussi della carica di capo aerea della Calabria, secondo gli investigatori non era casuale ed a testimoniarlo vi sarebbero delle conversazioni intercettate e le indagini pregresse che avevano già portato ad inquisire due professionisti. Nelle intercettazioni risalta la piena consapevolezza delle regole mafiose imposte dalle organizzazioni criminali e l’adeguamento ad esse da parte delle grosse imprese, le quali recuperavano il famoso 3% da destinare alle cosche mediante l’alterazione degli importi delle fatture”.
Ogni intervento sui cantieri era già stato attribuito a tavolino alle varie cosche, secondo rigide regole territoriali: ai Mancuso è toccata la competenza nel tratto Pizzo Calabro-Serra San Bruno, ai Pesce quello tra Serre e Rosarno, ai Piromalli l’area tra Rosarno e Gioia Tauro. “Le procedure di subappalto erano state avviate ancor prima dell’autorizzazione dell’ente appaltante, il tutto a scapito delle imprese pulite estromesse dalle gare in quanto non gradite all’ambiente”, conclude Confesercenti.
La prefettura di Reggio Calabria aveva sempre negato la certificazione antimafia alle ditte sospette, ma puntualmente esse erano riammesse ai subappalti grazie alle benevoli sentenze del Tar della Calabria.
Destino beffardo quello dei lavori autostradali: il 1° aprile 2005 il consorzio Impregilo-Condotte aveva firmato con la Prefettura di Reggio Calabria e l’ANAS, un protocollo d’intesa per la “prevenzione dei tentativi di infiltrazione mafiose durante la realizzazione dell’opera”. Le due società si erano impegnate, in particolare, ad “adottare tutte le misure del caso atte ad evitare affidamenti ad imprese sub-appaltatrici e sub-affidatarie nel caso in cui le informazioni antimafia abbiano dato esito positivo”, e ad effettuare “controlli, verifiche e monitoraggi per scongiurare l'intromissione di imprese irregolari, forme di caporalato o lavoro nero”.
Chissà cosa faranno per il Ponte...
E il certificato antimafia?
Nell’euforia generale post-elezioni dove vincitori e sconfitti preannunciano il riavvio dell’iter progettuale ed esecutivo della megainfrastruttura tra Scilla e Cariddi, è finita nell’oblio una vicenda inquietante che in uno Stato di diritto, perlomeno avrebbe dovuto imporre a forze politiche, imprese, organizzazioni sindacali e sociali, organi giudiziari, una pausa di riflessione sull’intero sistema delle Grandi Opere.
Nella primavera 2008, infatti, è stato negato il certificato antimafia alla società Condotte, terza in Italia per fatturato e in gara – oltre al Ponte – per l’Alta Velocità ferroviaria e il Mose di Venezia.
Il fatto è stato reso noto direttamente dall’allora ministro delle Infrastrutture, Antonio Di Pietro.
“Nei giorni scorsi - ha spiegato il ministro - avevo segnalato al ministero dell’interno come dalle indagini della Direzione investigativa antimafia di Reggio Calabria e di altri organi investigativi era emerso uno stretto legame tra la società e la criminalità organizzata calabrese, in particolare in merito alla gestione di alcuni cantieri dell'autostrada Salerno-Reggio Calabra e della nuova strada statale 106 Jonica”.
“Alla mia segnalazione - ha proseguito Di Pietro - il ministro Amato ha risposto rendendomi noto che a seguito del parere del comitato per l’alta sorveglianza, attivo presso il dicastero dell’interno, il prefetto di Roma ha adottato, lo scorso 20 marzo un provvedimento di diniego della certificazione antimafia nei confronti della società Condotte”.
“Tutto questo ho tempestivamente comunicato all’ANAS - ha concluso il ministro - oltre che agli altri organi competenti, affinché adottino tutti i provvedimenti del caso, in merito ai cantieri della A/3 e della 106, ma anche in relazione ad eventuali altri rapporti contrattuali, gestiti da controllate o dalle concessionarie autostradali”.
Il nulla osta antimafia è richiesto nelle distinte fasi dell’appalto e non solo all’inizio e serve per ottenere i pagamenti in ogni fase di avanzamento dei lavori. Anche se ogni prefettura è autonoma nella valutazione discrezionale sul provvedimento, buon senso impone che le altre prefetture vi si adeguino, negando la certificazione per gli altri appalti ricadenti nella loro giurisdizione.
Il provvedimento di revoca del certificato antimafia è stato pure commentato dal prefetto Bruno Frattasi, alla guida del Comitato di sorveglianza sulle grandi opere. Frattasi, in particolare, ha fatto riferimento a “numerose verifiche del gruppo interforze di Reggio Calabria, che ha visitato più volte i cantieri trovando un contesto ambientale inquinato”.
Si è pure appreso che sempre in data 20 marzo 2008, la stessa Prefettura di Roma ha provveduto ad invitare la capofila Impregilo a “procedere alla estromissione, con eventuale sostituzione, della Società Italiana per Condotte d’Acqua S.p.a. dalla propria compagine sociale” nel termine di trenta giorni, pena il “recesso del contratto ai sensi dell’art. 11, comma tre, del DPR 3.6.1998, n. 252”.
A seguito della comunicazione del ministero delle Infrastrutture, l’ANAS ha provveduto in data 2 aprile alla “revoca di tutti i contratti con Condotte”, ma il diniego è stato poi tamponato con un ricorso della società di fronte al Tribunale amministrativo regionale del Lazio, che l’11 aprile ha concesso la sospensiva del provvedimento, in attesa della causa di merito.
Al colosso delle costruzioni italiane non è comunque mancata la piena solidarietà dell’associazione di categoria dei general contractor, l’AGI (Associazione Grandi Imprese).
Un suo comunicato recita che “la revoca dei contratti avrebbe effetti di devastante gravità per una delle maggiori, più antiche e più qualificate imprese del settore”. Per la cronaca, vicepresidente di AGI è l’ingegnere Duccio Astaldi, vicepresidente di Condotte d’Acqua.
Con la mafia, parole dell’ex ministro delle Infrastrutture Lunardi, si deve pur convivere.
Così, forse, nessuno richiederà più il certificato antimafia a chicchessia. Oggi, di certo, nessuno ritiene tuttavia ingombrante sedere accanto ad un’impresa fortemente censurata dall’autorità giudiziaria e dai ministri di un esecutivo. Nelle isole Eolie, ad esempio, Condotte d’Acqua ha costituito da poco una società mista con il comune di Lipari, la “Porti di Lipari S.p.a.”, per la realizzazione di un devastante programma di porti e porticcioli.
Grande sponsor dell’iniziativa l’intero stato maggiore di Alleanza Nazionale nella provincia di Messina.
L’assedio allo Stretto continua.
Pronti i primi sequestri, testimoni in Procura
Lavinia Di Gianvito – Corriere della Sera, ed. Roma, 24 maggio 2008
Piano regolatore nel mirino della procura. La magistratura indaga sugli accordi di programma, cioè su quelle intese fra Comune e costruttori che consentono di cambiare cubature e destinazioni d'uso. L'inchiesta vuole accertare se, nello stipulare gli accordi, si sia tenuto conto dell'interesse pubblico e capire per quale motivo i 70 milioni di metri cubi previsti sono tutti su aree private. Già pronti i primi sequestri. Il reato ipotizzato è la violazione delle norme urbanistiche, a cui presto si potrebbero aggiungere l'abuso d'ufficio o la corruzione. Acquisita la puntata di Report «I re di Roma», in onda il 4 maggio. Settanta milioni di metri cubi di cemento in dieci anni. Le gru che già da qualche anno divorano l'Agro romano per far posto a palazzoni e centri commerciali. Le centralità, micro-città di periferia, che rischiano di fare la fine dei quartieri dormitorio.
C'è il futuro di Roma nel piano regolatore approvato all'ultimo momento dalla giunta di Walter Veltroni. Un futuro lodato da alcuni, criticato da molti e che adesso minaccia di provocare un terremoto tra i politici e i costruttori più noti. La procura infatti ha aperto un'inchiesta sul progetto urbanistico grazie a cui si sta tirando su, di quartiere in quartiere, una città grande come Napoli. Solo su aree private.
All'attenzione dei magistrati sono finiti, in particolare, gli accordi di programma, che permettono di aumentare cubature e cambiar destinazioni d'uso attraverso intese tra i costruttori e il Campidoglio. Un'impresa vuole più case e meno uffici di quelli previsti? È facile: il Comune dà il via libera in cambio di una cifra che sarà destinata, per esempio, al prolungamento del metrò. Sulla carta sembra tutto in regola, sembra esserci quell'interesse pubblico richiesto dalle norme. Ma i dubbi nascono quando vengono accettate somme di 50-80 milioni a fronte di una spesa che sarà di centinaia di milioni.
L'inchiesta è coordinata dai pm Delia Cardia e Sergio Colaiocco, che avrebbero già chiesto il sequestro di alcune aree, tutte di proprietà dei big dell'edilizia. Per ora non ci sono indagati e l'unico reato ipotizzato è la violazione delle norme urbanistiche, ma non è da escludere che, al termine di alcuni accertamenti, verranno contestati illeciti più gravi, dall'abuso d'ufficio alla corruzione.
Nei giorni scorsi la procura ha acquisito dalla Rai la puntata di Report in onda il 4 maggio, dal titolo «I re di Roma ». La trasmissione di Rai3 ha suscitato molta attenzione e non è passata inosservata neppure a piazzale Clodio. Ma su alcuni accordi di programma raccontati da Milena Gabanelli i magistrati avevano già iniziato a indagare. Ora, però, i singoli fascicoli confluiranno nell'unica inchiesta aperta in questi giorni.
A palazzo di giustizia non hanno ancora deciso, ma non è escluso che vengano convocati come testimoni i costruttori che hanno siglato con il Comune gli accordi di programma.
Sul fronte opposto ci sono cittadini e associazioni infuriati per aver comprato case in quartieri che avrebbero dovuto avere servizi, verde e trasporti e che invece restano, almeno per ora, cattedrali nel deserto. Del resto, quello che è successo e che succederà l'ha spiegato a Report un consulente dei costruttori, Giovanni Mazza: «Il piano regolatore dice prevalentemente la verità, poi in alcune parti questa verità è una mezza bugia che va corretta».
«Illegalità? Aspettiamo i magistrati»
(redazionale) – Corriere della Sera, ed. Roma, 25 maggio 2008 (m.p.g.)
Piano regolatore sotto inchiesta. Su quanto scritto dal Corriere della Sera, interviene Gianni Alemanno: «Abbiamo appreso - afferma il sindaco - che la Procura ha aperto un fascicolo sul Piano regolatore e sulle operazioni urbanistiche avviate negli scorsi anni. Abbiamo contestato da un punto di vista amministrativo e politico le scelte operate sul piano regolatore e sugli accordi di programma. Senza alcun intento strumentale - aggiunge - attendiamo adesso l'esito del lavoro della magistratura per sapere se tali decisioni, oltre che contestabili politicamente, hanno avuto anche un profilo di illegalità». Per l'Acer, l'associazione dei costruttori romani, il presidente Giancarlo Cremonesi si augura che «l'intera vicenda possa essere chiarita al più presto per il bene della città. Il Prg - afferma Cremonesi - anche se suscettibile di interventi migliorativi, rappresenta un elemento fondamentale per lo sviluppo e deve presentare soluzioni idonee sul piano infrastrutturale, abitativo e urbanistico. E da questo punto di vista - conclude - ci tranquillizza la scelta dell'attuale amministrazione che ha affidato ad una figura esterna, ma di alto profilo professionale, l'urbanistica».
Una «sanatoria a posteriori». Così definisce il Piano regolatore Marco Marsilio, deputato Pdl, che quando fu approvato era capogruppo di An in aula Giulio Cesare. Che «a Roma - aggiunge ci sia bisogno di una stagione di chiarezza e di rispetto delle regole nella gestione del territorio è una necessità che abbiamo sollevato da oltre 10 anni, denunciando da sempre che il "pianificar facendo", scelto da Rutelli e poi ereditato da Veltroni, apriva il campo a scelte arbitrarie». «Sono sempre stato perplesso su questa stagione dell'urbanistica contrattata - aggiunge Fabio Rampelli, anche lui deputato di An - perché mi sono messo nei panni del cittadino che aveva un pezzo di terra non edificabile. Così non capisco perché alcuni possono rendere edificabile il loro terreno che non lo era e altri no: in questo caso le persone molto ricche hanno avuto un trattamento di favore».
E con una «lettera aperta» a Gianni Alemanno, alla giunta e ai consiglieri comunali, i comitati e le associazioni, con Italia Nostra, chiedono che «in occasione dell'insediamento venga fermato subito il nuovo piano regolatore, l'attuazione dei bandi sulle aree dismesse e specialmente tutti gli accordi di programma compresi quelli del commissario prefettizio».
“…-Messina- disse con lamento una donna; e fu una parola detta senza ragione; solo una specie di lagnanza…"
Elio Vittorini, Conversazione in Sicilia, 1941
“ Ricca grassa seduta…la povera Messina.
…terra e il mare sommossi…
E la guerra.
E chi successe alla guerra
e chi succede a chi successe
e non fa succedere…”
Bartolo Cattafi, L’aria secca del fuoco, Mondadori, 1972
“…sarebbe come una mattina
svegliarsi ed essere a Messina,
città ch’è degna d’ogni stima,
ma che vuoi che ci faccia io a Messina…”
Roberto Vecchioni, Messina, CGD spa, 1973
A Messina, “claves insulae”, come dice Edrisi, non solo, ma anche “nobilis Siciliae caput”, e, soprattutto, “emporio delle genti”, arrivavano le navi dagli estremi lidi della terra. Per questo gli abitanti ”quasi non ponnu viveri senza mercantii et esercitii marittimi”, essendo la città, appunto, “situata in loco sterili di terreno“.
Le fortune del sito, della posizione e delle professionalità marittimo-commerciali saranno causa ed effetto di cospicui privilegi “concessi per rimunerazione di servigi prestati dalli Serenissimi reggi”. E forse i molti privilegi “con i quali si è gloriata la città di Messina di essere arricchita (addirittura ne furono inventati altri “falsi e irregolari”, al punto che “nella ‘caparbietà’ di difendere tali ‘imaginarie chimere’, si precipitarono, “all’ultimo scopo della loro meritata rouina”, scrisse il Masbel), furono sempre causa che la medesima si rendesse nauseosa ...alle altre città del Regno”.
La rivolta antispagnola vide la città assolutamente sola, proprio al termine di una lunga controversia, con Palermo, sul privilegio “di estrarre la seta solo da Messina”. Temeraria ambizione quella, si chiede ancora con il Masbel, Massimo La Torre, o un “voler vivere in libertà, quasi in forma repubblicana”? Forse Messina, analogamente ad altre repubbliche cittadine, ritenuta “inevitabilmente sediziosa”, vede la sconfitta delle sue ambizioni municipalistiche e si arrende a poteri autocratici, perde la voglia di comunicazione dei cittadini, che resteranno solo vassalli, intorno agli affari pubblici, “la civile conversazione”. Se, ci ricorda ancora La Torre, il ‘rex’ è Leviathan, unità, indissolubilità, concordia di parti, il ‘populus’ è Behemoth, ribelle aggregato di mostri, sedizione, plurale. Così Messina, allora città temeraria senza accortezza, andrà incontro alla sua rovina, speculare all’aurea mediocritas che si accontenta. Città vinta e sottomessa, vivrà come esempio, ‘ universitad del mundo’.
Ma il paesaggio e le anche memorie sono tutte lì. Messina era stata letta, dice Alberto Samonà, come un teatro e il suo doppio: la città, dal mare-platea, come insieme di quinte, un palcoscenico che dalla palazzata-spettacolo si innalza sulle colline, con l’Etna come fondale; invece, tornata anfiteatro, con, sulla scena, il mare tagliato dalla falce, come nelle crocifissioni di Antonello, e, in fondo, l’ondulato disegno degli ultimi contrafforti dell’Aspromonte. Poi solo memoria e lamento. La cesura sarà più evidente dopo il terremoto del 1908, e non sarà solo virtuale.
Nella logica interna del suo impianto gli avvenimenti, le epidemie, i disastri sono state come ferite profonde del tessuto sociale e delle strutture urbane, che si rimarginano con modalità e tempi diversi: scansioni temporali entro cui i vari elementi della struttura si ricombineranno alla ricerca di un disegno. E perciò è come se sempre si fosse guardato al tempo dello spazio della lunga durata e gli avvenimenti, tra storia ed eventi.
Senza, è ovvio, trascurare l’avvenimento-mostro (l’evento-problema), la rivolta antispagnola, ma soprattutto il terremoto, a partire dal quale si riproblematizzerà tutto.
Per Messina si è a lungo pensato che il terremoto avesse azzerato le memorie, determinando una condizione di cittadini senza storia. L'avvenimento terremoto segnò infatti un taglio deciso, spietato, non solo nella struttura urbana e nella vita economica, ma soprattutto nella composizione demografica e sociale.
Messina appariva dopo la sua Iliade funesta, come un mondo livido e informe, tra cui vagavano le ombre degli scampati, e il resto della Terra leggeva, atterrito, il numero pauroso delle vittime, e contemplava la straordinaria visione di una città crollata in pochi secondi, come i castelli che i ragazzi fanno con le carte, scriveva Guido Ghersi. E sarà il momento dionisiaco della "lieta baraonda da fiera" della "resurrezione" post-terremoto che caratterizzava Messina "un po' cantiere, un po' bivacco, un po' mercato". Una città abitata anche da “un miscuglio di gente forestiera assillata dal desiderio di far fortuna”, intenta alle “più ingegnose speculazioni”. Città di "sventagliante fantasmagoria" nelle cui sale da pranzo e da convegno arrangiate si affollavano "funzionari, costruttori, legali, giornalisti, rappresentanti dei comitati di soccorso nazionali e stranieri, mondane, tutta una folla varia e strana, mutevole e gioconda fra la quale capitava spesso in raccolto atteggiamento qualche gruppo di persone a lutto”(P.Longo). E questa Messina a poco a poco assumerà forma, contemplerà gli effetti del maremoto, del terremoto, gli incendi, lo sciacallaggio, l’arrivo dei primi soccorritori, la nave russa, la partecipazione dei sovrani, la durezza dello stato d’assedio, le prime leggi per l’emergenza, la municipalità che risorge, i drammi di orfani e vedove, le sedute dei civici consessi. I futuristi cantano la volontà prometeica della ricostruzione, quella che viene enfatizzata, spettacolarizzata quasi, dal poeta Jannelli: tendere spasmodicamente verso la ricostruzione… un leggere il passato-presente…attraversato da un fil di ferro…poi l’avvenire che cresce… e il sorridere-mondo etc.etc. Dal "grumo di sentimenti e di irrazionalità, si tengono però lontani gli altri, gli scienziati alle prese con i problemi delle cause e degli effetti. Il primo pensiero, come si legge nella relazione del piano, avrebbe dovuto essere quello di conservare il mantenimento della vecchia città, conservandone, per quanto possibile, l’impronta generale, ed il ripristino della forma originaria.
Invece l'impianto del Borzì, il tecnico della municipalità, sarà solo imposto da necessità, urgenze e ‘particulari’. Un’ icona senza invenzioni e proiezioni. Così la forte, commovente volontà dei superstiti sembrerà esaurirsi nel mantenimento del sito, ma da questo non deriveranno ritorni di ruolo o di antiche funzioni. E’ la cittadinanza che finisce, sottolinea ancora La Torre. I diritti si collassato, restano solo concessioni di favori, mediate da suppliche, intercessioni, minacce: la contrattazione impropria dello scambio sarà la “costituzione materiale” di un patto sociale non sottoscritto ma comunque vigente.
Poi, dopo il terremoto, la guerra. “Sotto la gragnuola aerea si compì lo scempio...”(1945), sottolinea il Longo, in un articolo titolato “Messina: vita apparente di una città abituata a morire”.
Anche quest’ultima rottura sembra confermare la tesi di Gambi, poi ripresa dalla Rochefort, sul ripopolamento di Messina, avvenuto ad opera “in più saliente misura di famiglie provenienti dai comuni rurali delle aree prossime … di mediocri impresari e trafficanti provenienti da regioni settentrionali…
Resta perciò incompiuto il disegno di città. I ‘ Working Papers’ di Sociologia e di Scienza della politica (E.Tuccari) fanno discendere l’”inaridirsi” dei “messaggi pervenuti da un passato non lontano”, da un uso del potere “spregiudicato ed obliquo”; un potere che si è andato formando in modo quasi separato dalla città, con logiche di tipo familistico (così presente in alcune aree meridionali) con forti ed esclusivi vincoli di appartenenza e di solidarietà. Si potrebbe forse ricorrere a ragionamenti maturati altrove, come nelle analisi della Becchi, per convenire che, anche alla scala messinese, prevalgono le ragioni del riprodursi di una società urbana come società divisa.
Innanzitutto il blocco politico, gli affari, poi il difficile sbozzolarsi di nuovo ceto produttivo, poi una rara intellettualità indipendente, di valore, purtroppo fragile.
Poi ancora l’Università che, pur con presenze di conclamato livello, viene descritta come in rapido declino (non sarà un caso, che in quindici anni si siano avuti tre rettori su quattro inquisiti, sospesi, uno addirittura agli arresti domiciliari, e poi gambizzazioni, addirittura omicidi). Il declino non riuscirà ad essere ovattato dagli abbellimenti dei comunicatori “integrati”. E’ proprio necessario che l’università, ci si chiede, debba avere anche funzioni criminogene?
Poi le periferie, che, hanno strutturato in sé, accanto alle tradizionali microcriminalità suburbane, penetrazioni connotate da cultura di tipo mafioso: così sociologi urbani hanno riscontrato quasi l’insorgenza di situazioni di cittadinanza parallela e alternativa.
La chiesa, infine, solo a volte consapevole della lezione conciliare e di connotazioni profetiche. Come nella lezione di Mazzolari: una chiesa senza popolo?
Allora Messina come idealtipo della condizione civile, della politica.
Dice ancora La Torre: resterà il “fiume turchino” di Verga, resteranno i miti di Omero, ma sopravviverà soprattutto “l’instabile equilibrio tra forma politica e ordine naturale”. Con tutti i secolari veicoli di evidenza produttiva di giudizio: le “dande del giudizio” di Kant, appunto, gli schemi dell’intelligibilità, e della conoscenza.
Non deve perciò sorprendere che non si siano attivate “funzioni capaci di propiziare la modernizzazione”, ripeteva Lucio Gambi.
Il futuro sarà, acriticamente svincolato dalla storia, affidato al permanente uso patrimoniale dello stretto, nell’ignoranza di ricadute produttive e di valori territoriali anche simbolici? E allora possono ancora immaginarsi funzioni che si colleghino ai processi di un territorio, letto come storia sedimentata? Si riproporrà, il disegno di una città che si disisola e che potrebbe agganciare la nuova rete di relazioni prodotte dall’”arco etneo”, quello indotto dalla progressiva intermodalità catanese e dalla dirompente novità di Gioia Tauro?
O questo è solo nello zigzagare della “esigente” che si crogiuola tra malinconia e impotenza.
Anche la nostalgia del luminoso talento visuale dello stretto non sembra più varcare il grigio delle assuefazioni. In una recente prefazione ad un volume su Gambi -curato in Emilia-Romagna da M.P. Guermandi- Ezio Raimondi, che fu del Maestro “compagno di discussioni, in una entusiasmante fase di elaborazione culturale”, scriveva dell’avventura di un una geografia che avrebbe, occupandosi del territorio, dovuto introdurre l’analisi degli uomini in un condiviso rapporto tra natura e cultura, senza schematismi disciplinari, senza le ‘paratie’ di cui parlava Bloch.
E invece le fumisterie “riparazioniste” della nuova Sicilia, quella che ri-parla “con la bocca piena di sole e di sassi”, immagina percorsi più accentuati e ancora più rimunerativi di rinnovato mal-fare, senza “ uomini” per un “condiviso rapporto tra natura e cultura”.
Così sarà per il ponte?
Conciliate, pur in modo problematico, le questioni di sostenibiltà ambientale, il ponte avrebbe potuto avere senso territoriale, proprio perché consolidava ipotesi di nuova epifania della regione dello stretto, quella che ci raccontò Gambi, motivata da forti, antiche ragioni?
Ma adesso, nella sostanziale indifferenza del progettato percorso nord-sud, -che, di fatto bypassa Calabria ulteriore e Sicilia nord-orientale e ne determina una più accentuata periferizzazione e marginalità- non potrebbe apparire “estraneo”, solo straripante sovrastruttura, puro segmento di una visione trasportista?
L’ ineludibilità del ponte, disancorata da probanti apparati concettuali, non finirebbe per degradare verso una sostanziale insignificanza, proprio perché smarrisce -in una oggettivazione di puro, anche se mirabolante, consumo- ipotesi di produzione e/o di riscrittura territoriale?
Dalla “nuova geografia dei luoghi” alla banalità dell’intendenza?
L'autore è docente di Geografia economica e politica presso l'Università di Messina
Professore, è pronto a tirarsi su le maniche? Finalmente le è stato comunicato il decreto che la nomina presidente del Parco dell'Appia.
«Mah, ci sono voluti quasi due anni per varare queste nomine per i Parchi. Se si voleva perdere tempo ci sono riusciti. Comunque, prima di cominciare, sento la necessità di fare il punto con i responsabili della Regione, assessorato all'ambiente in testa, con i residenti, con chi svolge attività e con chi è portatore d'interessi...».
Qual è il suo punto di partenza?
«E’ stato fatto un Ente, ma non il Parco».
Spieghi meglio.
«La persona che va a visitare il parco dell'Appia si immagina un parco, mica una bolgia. Nel mondo i parchi sono parchi, lì si entra in una esorta d'autostrada. Allora quel visitatore non capisce cosa si intenda in Italia per parco. Trova un bel bailamme di traffico e di attività incongrue. La sensazione è di un fallimento totale, il Parco non esiste. Come se ci arrovellassimo su una finzione...».
Poniamo che vi sia un ritardo. Di chi, però?
«Non so se sia stata mancanza di coraggio. Vedo piuttosto disinteresse. Argan diceva: "Non si è ancora capito che la cultura è un affare di stato". Ecco, se la politica non si occupa di queste cose, di che si occupa?».
Cos'è mancato innanzitutto al Parco dell'Appia?
«Ciò che gli dovrebbe stare intorno. Sono mancati investimenti infrastrutturali a sua difesa. La città ha bisogno di crescere. Bene. Però cresce male. Prendete la via Ardeatina. Era una via scorrevole, di non grande traffico.Ora è intasata ad ogni ora, è diventata l'unico collegamento delle nuove realtà crésciute oltre Tormarancia. Naturalmente tutto ciò tracima dentro il Parco dell'Appia, inquina ogni passaggio, ogni diverticolo. Ecco cosa strangola il Parco e l'Appia Antica...».
Perché, secondo lei, è successo tutto ciò?
«Per decenni sono mancati investimenti necessari, per decenni non è stata fatta a Roma una buona politica urbanistica. Si sono scagliati nelle aree circostanti milioni e milioni di metri cubi senza che crescesse una rete di sostegno, di sviluppo, di trasferimento. Guardate cosa succede a via di Fioranello...»
Abbiamo pubblicato la foto dell'Appia Antica, all'altezza di via di Fioranello, trasformata in un parcheggio auto a ridosso dell'aeroporto di Ciampino...
«Ed è ancora così. Nessuno ha fatto niente. Ciampino ha superato cinque milioni di passeggeri, erano meno di un milione pochi anni fa. I parcheggi tracimano auto, ecco allora che nell'indifferenza generale l'Appia Antica diventa un parcheggio di lunga sosta. Che dire?».
Le amministrazioni dormono?
«Un'urbanistica sbagliata può esserlo per vari motivi, compresi quelli intenzionali e dolosi. In ogni caso non ci si rende conto che i valori sfruttati senza riguardo vengono persi in modo irrecuperabile. A Roma hanno sempre comandato, fin dall'ottocento, i palazzinari. Vince la loro logica. Chi vuoi che s'interessi all'Appia Antica e al suo territorio.,.E poi, aggiungiamoci anche le omissioni volute, di organi dello stato...».
Cioè?
«C'è chi frena contro la tutela. La Sovrintendenza ai beni architettonici, a suo tempo, si battè contro la tutela di Tormarancia... Oggi ci sono uffici che quotidianamente si danno da fare per saccheggiare il carattere paesaggistico di questa città autorizzando ponteggi e occultamenti di monumenti per anni, col pretesto di restauri inconsistenti. Ma torniamo all'Appia. In questo momento è in bilico il vincolo sull'area intorno a Cecilia Metella. Ci si lavora da anni. Ma c'è una sorda opposizione, naturale finché viene da proprietà potenti e ammanicate, inquietante se affiora da altrove...».
Cosa si dovrebbe fare ora per far decollare il Parco dell'Appia? Prendiamo l'amministrazione comunale...
«Deve avviare le opere necessarie per sgravare il cuore del Parco, cioè l'Appia Antica, da quel traffico caotico che la distrugge. Basta impedirne l'attraversamento, lasciando il traffico di destinazione che è sopportabile. Come? Si entri nell’Appia da diversi punti, ma se ne esca solo da dove si è entrati. La soluzione a favore dell'Appia è semplicissima, la soluzione più generale della rete stradale tutt'intorno rientra nei problemi del traffico urbano. Così non si fa il deserto, si fa dell'Appia un luogo tutelato e visitabile...»,
E alla Regione cosa chiede?
«La Regione che ha avuto il merito di istituire l'Ente Parco adesso sarebbe importante che gli fornisse strumenti adeguati. Cioè finanziamenti. Sull’Appia nessuno ha mai pensato a espropri in senso diffuso, che non sarebbero gestibili. Però capitano buone occasioni e allora bisogna avere disponibilità per acquistarle. Inoltre bisogna investire per la valorizzazione degli aspetti naturalistici: prendiamo Tormarancia. Ma anche la Caffarella. Cioè400 ettari che devono essere messi a flutto, al riparo da assalti speculativi».
Infine lo stato, il ministero dei beni culturali...
«Che vari la legge sull’Appia. Sono state formulate varie ipotesi di legge, nella precedente legislatura e in questa. Il governo deve farla sua. Una legge intelligente in questa direzione aprirebbe in Europa una nuova stagione di possibilità, dalla via Francigena alle vie consolari alla rete dei nostri Tratturi. Con una legge sull’Appia anche noi a Roma ci sentiremmo più confortati. In fin dei conti, perché la gente va a parcheggiare sul!'Appia Antica a Fioranello? Anche perché non esiste una legge di tutela...».
Qualcuno dice che viale Sant’Avendrace, nel centro di Cagliari, poteva essere una miniatura di via Appia Antica. Chi lo dice forse esagera, forse era vero fino a qualche decennio fa. Ora fra chi vi passeggia e la necropoli che si distende lungo le pendici del colle di Tuvixeddu, una delle più antiche e pregiate del Mediterraneo, oltre duemila tombe realizzate dall’età punica a quella della Roma imperiale, corre una cortina di palazzi alti sei piani, edilizia multicolore che occulta ogni vista, un paravento di appartamenti costruiti fino a un paio d’anni fa che le tombe sono servite a far crescere di valore: vendesi trivani, doppi servizi, termoascensore, posto auto sulla necropoli.
Tante tribolazioni ha sopportato la necropoli. E tante ne patisce ancora questo sito archeologico tra i più preziosi in Italia, ma invisibile, trattato come una discarica e forse ignoto persino a molti cagliaritani, poco studiato e pochissimo tutelato. Il 30 maggio il Consiglio di Stato si pronuncerà sulla fondatezza di un vincolo che la Regione Sardegna ha imposto su una vastissima area, allargando le prescrizioni già esistenti dal 1997, ma evidentemente ritenute inefficaci. Il nuovo vincolo è stato bocciato dal Tar dell’isola, sollecitato dal Comune e da un gruppo di costruttori. Se il Consiglio di Stato dovesse confermare l’annullamento, a Tuvixeddu e Tuvumannu, un colle a poche decine di metri, verranno inflitti altri 260 mila metri cubi di case, edificate su un’area a ridosso della necropoli, grosso modo una cinquantina di palazzi a sei piani, i cui cantieri sono fermi e frementi in attesa della sentenza. Nell’accordo che consente la lottizzazione è previsto che il Comune possa realizzare un parco urbano e un parco archeologico grandi poco più di venti ettari insieme a un museo da sistemare nel vecchio capannone di un cementificio. Ma oltre alle case, che rischiano di alterare la percezione di un contesto paesaggistico già vilipeso, eppure ancora splendido, sono previsti 80 mila metri cubi di altro cemento, più una strada a due corsie che dopo aver sfilato al fondo di un terribile e struggente canyon - prodotto dalla vorace attività di scavo per estrarre la pietra servita alla ricostruzione di Cagliari nel dopoguerra - si imbuca in un tunnel che sfocia in un’arteria stradale. È l’accesso al nuovo insediamento, dicono al Comune. Ma, se il progetto andasse in porto, Tuvixeddu e le sue tombe sarebbero ridotte a fluidificare il traffico cagliaritano.
La partita è delicatissima. La città è spaccata. A favore di una maggiore tutela di Tuvixeddu è schierato il governatore di centrosinistra Renato Soru, appoggiato da Italia Nostra, Legambiente e altre associazioni. Molti intellettuali si sono mobilitati. In prima fila uno dei maestri dell’archeologia, l’accademico dei Lincei Giovanni Lilliu, e poi i professori Simonetta Angiolillo, Roberto Coroneo, Bruno Anatra, Piero Bartoloni, lo scrittore Giorgio Todde. Dall’altra parte c’è il Comune, retto dal centrodestra, che difende l’accordo con i costruttori e sostiene che solo dando concessioni edilizie si possono incassare i soldi necessari a fare parchi e museo.
Lo scontro si gioca fra cavilli giuridici e questioni di ben altra portata che rivelano quanto su Tuvixeddu sia stato inadempiente il controllo dello Stato e in particolare della Soprintendenza archeologica. Uno dei punti più contestati riguarda l’efficacia dei vincoli imposti nel 1997. Sufficienti, secondo il Comune. Del tutto inefficaci, invece, secondo la Regione e secondo la Direzione regionale dei beni culturali, da poco affidata all’architetto Elio Garzillo. Il Tar ha dato ragione al Comune: dal ’97 a oggi, si legge nella sentenza, non vi sarebbero stati significativi ritrovamenti e la prova l’ha fornita il soprintendente archeologico Vincenzo Santoni, in carica fino al 2007, secondo il quale in dieci anni sono state rinvenute solo decine di altre tombe e tutte nell’area già vincolata. Dunque è inutile allargare le prescrizioni (Santoni è stato anche l’unico dei nove componenti della Commissione istituita dalla Regione che ha votato contro i nuovi vincoli).
Ma le smentite fioccano dagli stessi uffici della Soprintendenza. Sollecitati da ripetute richieste della Direzione regionale, sono emersi tutt’altri dati, che hanno i colori truci della disfatta. Dal 1997 al 2007 sono state ritrovate millecentosessantasei nuove tombe, solo metà delle quali nell’area del parco archeologico. Più di quattrocento, infatti, quattrocentotrentuno per la precisione, sono i sepolcri emersi in zone prive di efficace tutela. Si tratta, purtroppo, di tombe che resteranno invisibili per sempre: sono state trovate non dagli archeologi in una campagna di scavo scientificamente accreditata, ma dagli operai durante i lavori per le fondazioni di una mezza dozzina di palazzi che si affacciano su viale Sant’Avendrace. Sono state segnalate, catalogate e poi ricoperte da migliaia di metri cubi di cemento, infossate per l’eternità sotto cantine e garage.
Chi doveva esercitare i controlli su Tuvixeddu ha lasciato fare. E il massacro è stato sistematico. Tuvixeddu è archeologia e paesaggio. Fu scelto come luogo di sepoltura di fronte allo stagno di Santa Gilla e al mare negli ultimi anni del VI secolo a.C. all’inizio della conquista cartaginese della Sardegna. Ed è parte di un sistema ambientale in cui pulsa il cuore antico della città. Nessuna altra località che conservi vestigia del mondo punico, scrive l’archeologo Piero Bartoloni, può vantare la presenza di tali testimonianze. In Libano, terra d’origine dei conquistatori, le necropoli sono scomparse da secoli e a Cartagine la maggior parte delle tombe non è più visibile. Eppure l’area cagliaritana non è mai stata studiata nella sua interezza, non si conosce la reale entità della necropoli, comunque molto più vasta dell’area prevista dal parco archeologico, nel quale sono stati compiuti scavi sistematici fra il 2004 e il 2006. Sulla realizzazione del parco, inoltre, indaga la Procura cagliaritana che ha bloccato il cantiere perché invece di piccole fioriere sono stati installati pesantissimi gabbioni di pietra.
Le tombe si possono vedere infilandosi fra un palazzo e l’altro e inerpicandosi carponi lungo un costone sul quale spunta ciò che resta del Villino Serra, una gentilissima costruzione ottocentesca, nel cui giardino sorge uno dei palazzoni che sovrasta le tombe. Molte sepolture sono dentro i ruderi del villino, camere mortuarie incassate nella grotta accanto a colombari. Le pareti sono tagliate in orizzontale e sul fondo è scavato l’alloggio per i corpi. Per terra una carcassa di motorino, una batteria di auto, i resti di un pasto. Fino a pochi anni fa dalle finestre del villino si vedeva lo stagno di Santa Gilla e poi il mare. Ora c’è una muraglia di case.
Le tombe più antiche sono cavità a forma di rettangolo nella roccia. Bisogna camminare con attenzione fra orchidee selvatiche, piante di cappero e fichi d’india. Le sepolture scendono in verticale e poi in basso, orizzontalmente, si apre la camera mortuaria. Salendo lungo il dirupo se ne incontrano continuamente. Da qui sono stati recuperati - o rubati - monili preziosi e corredi funerari. Molte sono diventate bidoni di immondizia. Su viale Sant’Avendrace alcune tombe sono a un paio di metri da un cantiere. Qui dovrebbe sorgere il solito palazzo di sei piani che per sempre le nasconderà (ma i lavori sono bloccati) e che ha ricevuto tutte le autorizzazioni, sia dal Comune che dalla Soprintendenza, addirittura prima che il costruttore acquistasse l’area. Un’area originariamente di proprietà del Comune.
Su Tuvixeddu si affollano più progetti di architettura che di tutela. Il Comune ha il suo piano per il parco urbano e per quello archeologico. Ma anche la Regione ha tirato dal cilindro il suo disegno, firmato dal francese Gilles Clement, il teorico del “terzo paesaggio”, del paesaggio occasionale, che, secondo molti a Cagliari, sarebbe in contrasto vistoso con i rigorosissimi vincoli che la stessa Regione ha previsto.
Chi vincerà la partita sarà il Consiglio di Stato a stabilirlo. Soru si gioca molta della credibilità acquisita proprio sui temi della salvaguardia - gli stessi principi che hanno ispirato il piano paesistico regionale. Si racconta che a un convegno di Italia Nostra del 2006 il governatore abbia sconcertato il pubblico sostenendo che strade e palazzi, se di buona architettura, erano compatibili con la necropoli. Preso da parte da Maria Paola Morittu, battagliera esponente di Italia Nostra, ha voluto capire meglio come stavano le cose. La mattina dopo – era appena spuntata l’alba – si è fatto accompagnare a Tuvixeddu. Ci è rimasto qualche ora. Si è arrampicato fra sepolcri e piante di cappero. Ha raccolto cocci di anfore abbandonate fra i detriti. La mattina dopo, alla stessa ora, ci è tornato. E due giorni dopo ha dato il via ai vincoli.
"Sfoderiamo il nostro orgoglio per difendere quel tesoro"
di Marcello Fois
La constatazione più grave e triste per qualunque sardo di buona volontà è che, dietro la questione Tuvixeddu, c´è il peccato capitale isolano: quello di non rendersi conto del patrimonio che si ha sotto gli occhi. Le comunità colonizzate da un capitalismo malinteso e da un malinteso affarismo, che ha radici nella bassissima considerazione di se stessi, spesso preferiscono il guadagno a breve termine al patrimonio a lungo termine. La necropoli punica di Tuvixeddu non è un patrimonio di Cagliari, è un patrimonio dell´umanità che la Storia ha affidato a Cagliari.
Certo i padri punici hanno avuto il cattivo gusto di occupare aree appetitosamente edificabili, e questo secondo alcuni grossolani palati rende quel patrimonio di tutti poco più di una discarica. La corrente degli interessi può cercare di ridurre la bellezza e la ricchezza in bruttezza e povertà, ma non può certo negare quanto è assolutamente evidente: per molto tempo si è detto di tutelare un´area che non era affatto tutelata. Che ciò sia accaduto per malafede o, peggio, per incompetenza, poco importa al momento. Quel che conta è non arrendersi. Quel che conta è mettere in campo quell´orgoglio positivo che, troppo spesso folkloricamente, diciamo di voler affermare come sardi, come cittadini del mondo.
È una storia di ordinaria superficialità, ma anche la metafora di un deficit di interesse che dipende da un deficit di autocoscienza, esattamente come capita per i discorsi sull´identità e sulla lingua. Tutti sono virtualmente orgogliosi, ma praticamente servi di logiche sostanzialmente economiche. Il paesaggio, il patrimonio archeologico, la natura, sono il nostro codice genetico, ma anche, paradossalmente, la più importante fonte di ricchezza che abbiamo a disposizione, quello che può apparire conveniente oggi diventerà la nostra rovina domani. In un mio romanzo questa sarebbe una storia di affarismo in cui pochi loschi individui tramano nell´ombra perché non venga alla luce un tesoro di tutti, facendo così in modo da preservare un tesoro per pochi. Ci sarebbero amministratori corrotti e avidi, accondiscendenti, sovrintendenti. Ci sarebbe un ambiente distratto e poco sensibile, ma, per quanto sia uno scrittore di gialli e gli scrittori di gialli, si sa, fanno galoppare la fantasia, non so se, nel mio ipotetico romanzo, ci sarebbe un eroe senza macchia e senza paura pronto a rischiare tutto per tutto perché trionfi la bellezza.
Postilletta
"Eroi senza macchia e senza paura" magari no, ma se non ci fosse stato qualche personaggio positivo di Tuvixeddu rimarrebbe ben poco...
L’articolo di Walter Tocci pubblicato da l’Unità e dedicato all’urbanistica di Roma negli ultimi quindici anni merita una replica puntuale e articolata. Soprattutto ora, dopo la sconfitta elettorale, in un momento in cui, approvato il nuovo Piano regolatore (Prg), è già iniziato da destra e da sinistra un attacco concentrico al suo impianto riformista. Un attacco che riproduce gli astrattismi del vecchio dibattito urbanistico romano.
Il nuovo Prg e le sue regole innovative sconvolgono il campo. Impongono uno sforzo teorico nuovo a tutti e spingono a superare le vecchie pigrizie intellettuali, i vecchi codici stanchi. Paradossalmente, invece, per molti censori di destra e di sinistra, sembra più comodo indossare le vecchie lenti. La destra si lancia all’attacco, invocando maggiori quantità edificatorie e senza alcun riguardo al fatto che il mercato chiede oggi invece più qualità. Da sinistra ci si rifugia nel demone rassicurante della “rendita” che “tutto muove” per salvarsi la coscienza, senza però affrontare le sfide “reali” della trasformazione urbana, senza sporcarsi le mani nella storia “vera” e nei fatti.
Intanto ribadisco una cosa. La puntata di «Report» sul nuovo Prg era colma di inesattezze e bugie. Quella trasmissione non era informazione pubblica ma un programma mirato solo a fare ascolto, senza lo scrupolo doveroso della verifica. Non ho accettato di replicare in quella sede perché non ho avuto la garanzia di poterlo fare esaustivamente e con il tempo adeguato. Le repliche le valuteranno i legali ai quali ho consegnato una denuncia.
Torno alle cose dette da Tocci. Trovo nelle argomentazioni molta astrattezza e deficit d’informazione. Lo dico perché sarebbe utile, invece, parlare anche criticamente di questi quindici anni ma guardando avanti. Per esempio penso che, nonostante tutto, il nuovo Prg sconti dei limiti che le inevitabili mediazioni politiche in Consiglio Comunale hanno imposto ad alcune sue novità rivoluzionarie. Limiti che devono essere superati.
Invece si guarda indietro confondendo e sovrapponendo tante cose. Tocci confonde le trasformazioni in corso con il nuovo Piano. Errore clamoroso, lo stesso che fa «Report» il quale addebita alle Giunte Rutelli e Veltroni decisioni di costruire nuovi quartieri che non appartengono loro e che risalgono a prima del 1992.
Voglio ricordare un dato che spazza via ogni equivoco: il 70% delle costruzioni private realizzate o in corso di realizzazione tra 1993 e il 2008 non sono state approvate da Rutelli o Veltroni. Tranne Bufalotta - risalente al 1997 e comunque interna al Gra - e rari altri casi. Insomma, quando si parla della città trasformata «collocata a ridosso e oltre il Grande Raccordo Anulare in un territorio già devastato dall’abusivismo» e dei problemi che sconta, per favore non si tiri in ballo il nuovo Prg che, semmai, farà vedere i suoi effetti reali nei prossimi cinque, dieci anni. (Dalla approvazione definitiva di un intervento urbanistico alla sua integrale realizzazione e quindi al suo impatto reale urbanistico e sociale passano mediamente dieci-quindici anni).
Quelli che descrive Tocci sono semmai gli effetti delle ultime “code” delle giunte Carraro e Giubilo e delle decisioni dei Commissari Prefettizi pre-Rutelli. Questa banale constatazione cambia tutto il quadro.
Pigramente si cerca nel nuovo Piano con discorsi complessi quello che non c’è. Qualche esempio? Eccoli: Ponte di Nona, Grottaperfetta, Giardini di Roma, Lunghezza, Castelluccia, Casal Monastero, Torraccia, Cecchignola Ovest,Tor Carbone e potrei continuare. Queste parti di città con il nuovo Prg e con la nuova programmazione urbanistica non c’entrano nulla, perché erano già deliberate.
Tocci sostiene che lo strumento della compensazione è stato male utilizzato e che si sono portate cubature all’esterno, trascurando le aree interne e magari pubbliche in prossimità delle stazioni. Sono considerazioni completamente sbagliate e spiego perché. Tutte le compensazioni decise dal Consiglio Comunale e comunque non ancora attuate - e che sono elencate nelle Norme Tecniche di Attuazione - spostano pesi dall’esterno della città al suo interno e, grazie al criterio dell’equo valore immobiliare, ne riducono la quantità (mediamente per un metro cubo compensato ne viene attribuito circa 0.80).
L’unica eccezione, grave, è Tormarancia. Caro Walter, ricordo che chi con te si oppose alla lottizzazione di Tormarancia nel ’99 - tu eri vicesindaco ed io capogruppo Ds ed avevamo posizioni opposte - non volle capire che la conseguenza della cancellazione sarebbe stata una onerosissima compensazione. Cosa che avvenne, anche perché il Consiglio Comunale aveva confermato tre volte quella previsione, dando ai proprietari armi fortissime per ricorrere in giudizio. Oggi tu invochi l’importanza di edificare nelle zone compatte con i servizi e i trasporti anziché andare all’esterno. Tormarancia era questo. Tuttavia quel che è stato è stato e lo ricordo solo perché la storia ha sempre un ruolo nelle decisioni politiche. Non dimentichiamocelo.
Secondo. In vari casi il Piano localizza centralità a ridosso delle stazioni accorpando cubature del Prg del ’62 esterne e sparse nell’agro e trasformandone a servizi le precedenti destinazioni residenziali. È il caso di Massimina, la Storta, Muratella, Ostiense, Ostia Centro. Al tempo stesso il nuovo Piano “carica” volumi destinati a servizi in corrispondenza di tutte le stazioni disponibili con aree di proprietà pubblica. Tutte, nessuna esclusa. Esempi? Ponte Mammolo, Pietralata, Cesano, Polo Tecnologico Tiburtino, Anagnina, Stazione di Ostia.
Mi spiace che non si ricordino queste cose. Non si ricordi, ad esempio, quanto sta avvenendo a Pietralata, a Torvergata, a Valco di San Paolo, al Santa Maria della Pietà, dove stanno sorgendo i campus internazionali pubblici voluti da Veltroni, con i cantieri in corso delle residenze, degli impianti sportivi, delle facoltà. Tutto su aree pubbliche comunali o statali già servite dal trasporto su ferro. Si vada a vedere i cantieri di queste realizzazioni che dimostrano come oggi a Roma sia la mano pubblica a guidare la trasformazione urbana della città consolidata, della prima periferia e di quella più esterna, grazie alle decisioni del nuovo Prg
Terzo. Quando si parla di compensazioni non ci si riferisce ad un gioco di domino di semplici cubetti. Spostare cubature «da una area all’altra» è un procedimento amministrativo carico di implicazioni ambientali, amministrative, giuridiche, economiche e fiscali. Non si può dire astrattamente «andava usato meglio». Le aree di «atterraggio» delle compensazioni non sono quasi mai pubbliche perché il Comune di Roma è poverissimo di aree. Pertanto si è cercato di costituire una riserva pubblica di aree per attuare, tra le altre cose, le compensazioni dall’esterno all’interno. Queste aree sono state localizzate con una procedura di evidenza pubblica per non creare favoritismi di nessun tipo e ponendo come requisito la distanza massima di 1000 metri dai «nodi del ferro». Il bando è dell’8 agosto 2002 e lo si può recuperare.
Quando si parla del nuovo Piano lo si legga concretamente e non in modo astratto e generico.
Ancora. L’idea di una compattazione urbana nelle aree interne al Gra - ammesso che questo limite simbolico valga ancora qualche cosa - è una idea seria, ma alla prova dei fatti insegue astrattamente un modello parigino del tutto sganciato dalla storia reale di Roma e dai conflitti che hanno segnato tante lotte sociali nel cuore della città. Ricordo come alcune scelte del nuovo Piano di rilocalizzazione di volumetrie all’interno della città siano state fieramente ostacolate nei territori interessati: Collina Fleming, Tor Tre Teste, Colle delle Strega, Casal Grottini, via delle Acacie, Gregna, Prampolini e varie altre.
D’altra parte, la sinistra ha fortemente lottato in questi ultimi trent’anni per restituire alla città consolidata aree libere, in grado di recuperare parte delle quantità di standard di verde negati dalla speculazione edilizia degli anni 50-70, figlia del Prg del 1931. Abbiamo vincolato e acquisito al Comune del tutto o quasi, grazie al nuovo Prg, i parchi di Aguzzano, delle Valli, di Volusia, porzioni della Valle dei Casali e della Tenuta dei Massimi, di Veio, dell’Appia e del Litorale Romano.
Abbiamo raggiunto l’obiettivo di Cederna e Petroselli di avere squarci di campagna romana che entrano nel cuore della città, creando un modello urbano unico al mondo ed ora inseguiamo un non meglio specificato «consolidamento»?
Se invece ci si riferisce ai margini di trasformazione dentro la città che possono offrire programmi di riqualificazione urbanistica ed edilizia su aree dismesse e degradate o della brutta città degli anni 50, nel nuovo Piano vi sono gli strumenti dei “Print” (Programmi Integrati) per farlo. Sono ambiti perimetrati e normati con un sistema di incentivi e alcuni sono avviati. Esempi? Il programma - in corso - di demolizione e ricostruzione di Viale Giustiniano Imperatore, i programmi di ristrutturazione banditi per Alessandrino, Pietralata Vecchia, Centocelle Vecchia, Dragona, Torsapienza. Questi programmi sono il cuore della politica di riqualificazione della periferia intermedia del nuovo Prg. I loro frutti verranno se il nuovo Piano verrà attuato correttamente e se la legislazione nazionale lo aiuterà a sviluppare la sua forza innovativa affrontando il tema della aggregazione della proprietà diffusa e parcellizzata.
Non si cada nell’errore di considerare la pianificazione generale il momento in cui i diritti edificatori si possono cancellare dirigisticamente. È sbagliato. Questo è vero solo nelle raffigurazioni di una urbanistica astratta. La realtà è un’altra. Il nuovo Prg cancella 60 milioni di metri cubi prevalentemente residenziali e il Comune sta combattendo in giudizio contro i ricorsi dei proprietari delle aree. Sono vertenze difficili con il rischio di sentenze definitive che premino ancora di più la rendita
Perché? Perché la vecchia legge 1150/42, tanto invocata come un totem dall’urbanistica pubblicista che non tratta con i privati, in realtà rende eterni i loro diritti e si somma alle sentenze della Corte Europea dei diritti dell’uomo che negli anni ha integralmente ricostruito il diritto della proprietà privata dei suoli.
Questo fatto non può essere messo tra parentesi perché è il centro del problema.
In Italia occorre al più presto una moderna legge nazionale sui suoli, che fissi le regole generali all’interno delle quali i Comuni possano muoversi per contrattare con i privati e che ristabilisca parità di durata tra i diritti edificatori privati (oggi di fatto eterni) e le aree a destinazione pubblica (vincolate per cinque o massimo dieci anni). Perciò ritengo illusoria l’idea che si potesse ignorare il trascinamento del residuo del Prg del ’62 e realistica l’operazione di ridisegno e riequilibrio sancita dal nuovo Piano.
In conclusione. La sconfitta elettorale e la giusta revisione critica del nostro operato non deve ricacciarci in un dibattito vecchio che sbaglia bersaglio attaccando il nuovo Piano per cose che non lo riguardano. Il nuovo Prg ha ridotto l’espansione e ha tutelato due terzi del territorio a verde e suolo libero. Questo dato è incontrovertibile. Impone obblighi e oneri pubblici altissimi ai proprietari delle aree.
Il nuovo Piano va attuato. Da lì verrà la città nuova. Guardiamo avanti, allora, e spingiamo la nuova giunta a non interrompere il cambiamento. Demolire astrattamente il grande risultato del nuovo Prg senza conoscerlo rischia di riaprire i giochi.
Attenzione. Molti sperano che alla fine si dica “tutto da rifare”. Ma a “rifare”, caro Walter, nei prossimi cinque anni non saremmo noi.
L'ex assessore Morassut dice che si rivolgerà a dei giuristi per replicare alla denuncia di Report. Speriamo proprio che i giuristi interpellati spieghino finalmente all'ex assessore Morassut che le previsioni dei PRG non concedono affatto "diritti edificatori", che quindi la cancellazione di previsioni del vecchio PRG (1962!!!) non comportava nessuna "compensazione" nè per Tormarancia nè per nessuna altra previsione che si fosse voluta cancellare. Rilasciare o autorizzare atti abilitativi basati su vecchie previsioni di PRG non era quindi necessario nè alla giunta Rutelli nè alla giunta Veltroni.
SI può convenire con Morassut che la rendita non muova tutto, ma certamente ha mosso la politica urbanistica che egli vuole ancora difendere.
E così si può convenire quando sostiene che "Il nuovo Prg e le sue regole innovative sconvolgono il campo": in effetti sconvolgono l'Agro romano. E purtroppo, dato il carattere di esempio che la pianificazione romana ha spesso avuto, ha sconvolto anche il campo della buona urbanistica accreditando l'idea, assolutamente falsa, che il PRG attribuisca "diritti edificatori".
Sui "diritti edificatori" rinviamo ancora una volta a una nota di E. Salzano e a una lettera del prof. Vincenzo Cerulli Irelli
La scomparsa delle colline ora il cemento cancella i vigneti
di Jenner Meletti
Ecco, il "Centro Oli" dell´Eni dovrebbe cominciare qui, dove partono i filari di vitigni chardonnay. La campagna sembra un giardino, con il mare davanti e la Maiella alle spalle. Fra poco arriveranno le ruspe a abbatteranno tutto. Dodici ettari di viti preziose lasceranno lo spazio al Centro Oli, che non c´entra nulla con olive ed extravergine ma è solo la traduzione volutamente ingannevole di "Oil center", centro petrolio. In pratica: un impianto di prima raffinazione del petrolio estratto da due piattaforme che sono in mare e da altri pozzi in allestimento in mezzo Abruzzo. «Noi non vogliamo - dice Raffaele Cavallo, presidente Slow Food in questa regione - che anche qui appaiano i cartelli che sono stati affissi a Viggiano, in Basilicata, in un impianto simile a quello che si vuol costruire sulle nostre colline. «Idrogeno solforato: velenoso, infiammabile ed esplosivo. Non fidarsi dell´odorato per accertare la presenza di gas. L´idrogeno solforato paralizza il senso dell´odorato». Siamo nella regione più verde d´Italia, con tre parchi nazionali. I vini doc Montepulciano e Trebbiano d´Abruzzo finalmente rendono la giusta mercede a migliaia di contadini che grazie ai vigneti non sono stati costretti all´emigrazione. Perché vogliamo rovinare tutto?».
Petrolio in mezzo ai vigneti del Moltepulciano, Alta velocità che spazza via il 20% del Lugana doc al lago di Garda, un cementificio che vuole «mangiare» altre colline proprio nel cuore dell´Amarone in Valpolicella. Un tempo tutto questo sarebbe stato chiamato «progresso»: con le buste paga dell´industria i contadini poveri hanno cambiato la loro vita. «Ma l´industria del petrolio - raccontano Giancarlo Di Ruscio e Carmine Rabottini, presidenti delle cantine sociali di Tollo - arriva a mettere radici da noi in ritardo di decenni. La povertà per fortuna è un ricordo. Le nostre cooperative, con 1.360 soci, hanno un fatturato di 40 milioni di euro. Nell´ortonese, dove sorgerà l´impianto Eni, il vino incassa 150 milioni. Noi non siamo i talebani dell´ambiente. Abbiamo accolto a braccia aperte industrie come la Savel del gruppo Fiat e la Honda che sono in fondovalle e distribuiscono migliaia di salari. Ma il petrolio oggi non porta nemmeno posti di lavoro. Per il Centro Oli sono previste 27 assunzioni, con un investimento di 120 milioni di euro. Il danno per noi sarebbe terribile. Sta andando forte il turismo colto, di chi viene a comprare il vino doc ma vuole vivere qualche ora in mezzo a una natura intatta».
Per ora i lavori sono bloccati, con una delibera regionale che impedisce ogni costruzione sulla costa, ma solo fino alla fine dell´anno. Il presidente della Regione Ottaviano Del Turco è favorevole al Centro Oli, contrari gli assessori ad ambiente, sanità e turismo. «Il fatto grave - dice Raffaele Cavallo di Slow Food - è che nessuno aveva parlato di una industria così pesante. Il centro veniva presentato come un deposito di petrolio e niente altro. Solo da pochi mesi abbiamo saputo che si tratta invece di un impianto con un pesantissimo impatto ambientale. Le spiagge di Francavilla sono quasi sotto la collina del Centro Oli, Pescara è a soli 13 chilometri. Non vogliano finire come a Viggiano, che 15 anni fa ha accolto il centro Eni come una benedizione perché tanti disoccupati speravano in un lavoro. Il lavoro è sempre scarso e un quarto della popolazione è fuggita perché non vuole convivere con l´idrogeno solforato che puzza di uovo marcio».
È passato più di un secolo da quando "sembrava il treno stesso un mito di progresso". Oggi, a Peschiera del Garda, i produttori del Lugana doc sono invece arrabbiati perché la linea della Tav vuole cancellare il 20% dei loro vigneti. «Il progetto per questa linea ferroviaria - dice Francesco Montresor, presidente del consorzio che tutela questo vino - è del 1991 e 17 anni oggi sono un secolo. Chi immaginava, allora, il petrolio a 118 dollari al barile? Quando un ingegnere, nel suo studio milanese, ha tracciato una riga sulla carta geografica ed ha stabilito che la Tav doveva passare da Desenzano, Peschiera e Sirmione, si pensava che costruire, produrre e consumare fosse comunque positivo. Adesso si ragiona in modo diverso: si è capito che il progresso è consumare meno, tutelare, conservare. Vuol dire valorizzare la nostra storia e le nostre radici. Già Gaio Valerio Catullo esaltava la "Lucana silva", boscaglia con vitigni a bacca bianca. Ora il Lugana è richiesto anche in Giappone, da tre anni a questa parte ogni anno il prezzo dell´uva raddoppia: e noi dovremmo accettare di falcidiare la produzione del 20%?».
Anche fra i viticoltori del lago non ci sono pasdaran dell´ambiente. «Noi chiediamo semplicemente che la Tav sia spostata tre chilometri a Sud. Passerebbe fra i campi di granoturco e non fra le viti. E lo Stato risparmierebbe una bella cifra. Un ettaro di vigneto qui costa 300.000 euro. Se il proprietario è un coltivatore diretto - e qui lo siamo quasi tutti - il prezzo del terreno viene triplicato: un ettaro verrebbe a costare 900.000 euro, senza contare poi il "lucro cessante", il rimborso dovuto per i mancati futuri guadagni. Le terre del granoturco costano due terzi in meno».
Anche le terre della Valpolicella costano care. Per un ettaro di vigneto servono 300.000 - 500.000 euro. Qui il "progresso" è arrivato nel 1962, con l´apertura di un cementificio. L´Amarone, allora, era conosciuto sì e no a Verona, dove veniva portato in damigiane. Solo chi emigrava poteva mettere assieme il pranzo con la cena. Il cementificio era la manna. Nessuno protestava, anche se le colline attorno sparivano una dopo l´altra e venivano trasformate in cemento. «Secondo me - dice Mirco Frapporti, sindaco di Fumane - anche negli anni ‘60 fu un errore accettare il cementificio, diventato poi CementiRossi, sulla nostra terra. Ma adesso c´è e se rispetta le leggi ha diritto di continuare a lavorare. Come Comune, non possiamo fare altro che tenergli il fiato sul collo. Certo, oggi potremmo farne a meno: la ricchezza è stata portata dal vino e non dal cemento».
Bisogna salire in alto, per cercare la collina che era sotto Purano e ora non c´è più. C´è solo un enorme buco. «Ma il mostro - dice Daniele Todesco dell´associazione Valpolicella 2000 - ha ancora fame. Ha presentato domanda per poter trasformare in cemento anche la collina di Marezzane, che fra l´altro è dentro al parco naturale della Lessinia dove ogni scavo sarebbe proibito. Ma è stata concessa una deroga perché la domanda era antecedente la nascita del parco. Ora bisognerà vedere se il progetto riceverà una Via - Valutazione di incidenza ambientale - positiva. Contro il cementificio occorre più coraggio, da parte del Comune e della Regione. Lavora e guadagna da più di quarant´anni. Ora che gli investimenti sono stati ampiamente ripagati può anche chiudere. Ci lavorano 100 operai ma la disoccupazione qui intorno è a zero. La Cementirossi ha detto invece che investirà 60 milioni di euro per rinnovare i macchinari obsoleti e per questo vuole altre colline da mangiare, fino al 2025».
La direzione del cementificio ha certezze granitiche. «I vigneti, e la qualità dei vini, non subiscono alcun danno dalla presenza della nostra industria». Meno sicuro uno dei vignaioli più importanti, Franco Allegrini. «Il cementificio è un peso che abbiamo sopportato troppo a lungo. Noi siamo così abituati alla sua presenza che quasi non lo vediamo più. Certo, chi arriva da fuori e si vede questo mostro… Non è certo un bel biglietto da visita». Se la "Via" sarà positiva, meglio affrettarsi verso il parco della Lessinia, subito dopo il cementificio. Anche la collina di Marezzane potrebbe trasformarsi in colonne di cemento armato.
Una cultura da cambiare
di Carlo Petrini
Provate mai a immaginare questo nostro pianeta come un essere in grado di parlare e di dialogare con noi? A immaginare quel che vorrebbe dirci, se potesse comunicare a parole? Io ogni tanto ci provo, con risultati devastanti. Perché un conto è metaforizzare i cataclismi che sono davanti agli occhi di tutti noi (dall´uragano Katrina alla desertificazione delle foreste) come "risposte" della Terra ai comportamenti dell´uomo. Risposte allarmanti, ma che mantengono, nella loro straordinaria violenza, un segnale di energia, di presunta vendetta. Quando, invece, me la immagino che ci parla non riesco a non pensarla esausta, indebolita. Non immagino una voce stentorea che mi si rivolga con odio e rabbia, ma una voce stanca e affranta, che chiede una tregua, che chiede quando mai la finiremo, o per lo meno sospenderemo, di prendere, prendere, prendere.
Si è molto parlato, nelle settimane pre-elettorali, dell´ambientalismo del fare. Io, a titolo di completezza, sarei per specificare "del far bene", nel senso che il fare, in sé, non mi pare un valore. Anzi, mi preoccupa un po´, come mi preoccupa quest´incondizionata passione che i politici, senza distinzione di appartenenza, hanno dichiarato nei confronti della crescita del Pil. Il Pil cresce anche producendo mine antiuomo, o imballaggi inutili che dovranno essere smaltiti (e anche questo fa crescere il Pil) o che, se smaltiti malamente, inquineranno acqua, aria, terra; e per bonificare, ammesso che sia possibile, si farà ancora crescere il Pil.
Se invece si mettesse in campo un pizzico di saggezza, si potrebbe intraprendere la strada dell´economia del "non fare". Perché a volte è lì la chiave della ricchezza. Raffinerie, treni ad alta velocità e cementifici nelle vigne, sono ferite aperte nel cuore di territori che, in salute e bellezza, stanno producendo economia. Perché non lasciarli continuare? Perché disturbare?
Bisogna stare attenti, perché la cultura del fare, se non ha filtri, diventa la cultura del rifare, del disfare, del fare troppo per poi sfasciare. È una cultura subdola, perché si spaccia per libertà, progresso, benessere. Pensate ai prodotti dietetici che vengono pubblicizzati in questi ultimi tempi. Pastiglie che impediscono all´organismo di assorbire calorie, mentre se ne ingurgitano a volontà. Non è una follia? Non è immorale? Per non ingrassare bisogna mangiare di meno e meglio e avere uno stile di vita corretto; la soluzione non può essere ingurgitare qualunque quantità di cibo per poi rendere il nostro organismo impermeabile alle calorie. È come tenere le nostre case a 25 gradi d´inverno per stare in salotto in maniche corte; è come usare abbondantemente la preziosa acqua potabile per lo sciacquone del water. Ecco dove ci ha portato la cultura del fare. A fare male, a fare troppo. A fare cose che ci costano tanti soldi, e per avere quei soldi dobbiamo lavorare di più, e per lavorare dobbiamo fare, fare, fare. Se mangio meno e meglio spendo meno e non ingrasso. Risparmio sia sul cibo che sulle pastiglie dimagranti. Posso destinare quei soldi diversamente, oppure decidere che non ne ho bisogno, quindi non ho necessità di guadagnarli, quindi ho qualche ora libera in più. Magari per curare un piccolo orto, o per giocare con i figli o per leggere il giornale, saltando le pubblicità delle pastiglie dimagranti.
L´economia del "non fare", invece, ha le sue radici nella cultura dell´osservare. E del chiedersi: che bisogno ce n´è? L´economia del "non fare" ha uno sguardo lungo, non ragiona in termini di ritorni immediati: ha i tempi della natura, non quelli della finanza. Investe a lunghissimo termine e ha straordinari ritorni, perché è un´economia che non si occupa solo di denaro. Si occupa di culture, di identità, di territori, di origine, di storia e di storie; si occupa di paesaggio, di turismo, di conoscenza, di salute e di bellezza; si occupa di vigne, di imprenditoria, di mercato, di relazioni, di comunità, di coerenza. Siamo capaci di calcolare queste spese? Quanto costa una collina distrutta? Quanto costa un paesaggio devastato? Quanto costa un anziano che si immalinconisce perché il figlio non curerà più la vigna? Quanto costa l´orrore di un cartello che, in mezzo a colline vitate, avvisa che respirare può essere pericoloso? Quanto costa un bambino che cresce in mezzo alla bruttura?
I crociati del fare insorgeranno: con la cultura del non fare non ci sarebbero nemmeno le vigne, diranno. Troppo facile esagerare. Troppo facile far finta di non capire che quando parliamo di economia del non fare stiamo parlando, semplicemente, di economia della cura. E la cura è una cosa seria, complessa e delicata. Che richiede sensibilità, competenza e dedizione. Perché non si può, mai, curare solo una parte.
Ecco cosa ci chiede la Terra con la sua voce stanca: che ci si prenda cura di lei. Che la si smetta con gli interventi, le violenze, le conquiste. Che ci si metta in ascolto, per capire dove duole, cosa le fa male, cosa le fa bene. Deponiamo le armi del fare, smettiamo di considerarci padroni a casa d´altri. Cerchiamo di non disturbare, di non interrompere, di non sporcare. Ascoltiamola e prima o poi capiremo che la cura che serve a lei, è la stessa che serve a noi.
Se non ci alleniamo in questo esercizio, gli unici messaggi che riusciremo a cogliere resteranno quelli delle catastrofi. E dopo ogni catastrofe i falsi crocerossini del fare si rimettono all´opera, mentre i curatori del far bene vedono allontanarsi il traguardo del benessere.
L'inchiesta di Report sul Piano Regolatore di Roma da conto, più di tante elucubrazioni, di una parte rilevante delle ragioni della sconfitta elettorale a Roma e dell'esito disastroso per la sinistra.
Certo c'è da ragionare sul candidato, sulla riproposizione dell'ex sindaco, sulla improvvisazione della lista Arcobaleno; ma è necessario indagare le cause strutturali del crollo e gli errori della sinistra che a queste cause sono collegate.
Il "modello Roma" scaturito dal PRG era un modello che separava nettamente la crescita urbana dai suoi presupposti sociali fondamentali: il censimento dei fabbisogni abitativi reali e non solo quelli indotti dall'offerta, il fabbisogno di infrastrutture e di servizi, dalle scuole materne agli asili nido, dai centri per i giovani o gli anziani agli uffici pubblici, ai trasporti rapidi e di massa su ferro. Per questo la dimensione della crescita, la sua qualità concentrata nei centri commerciali e nell'edilizia residenziale privata oltre che nelle cosiddette grandi opere, per quanto enorme e capace di determinare tassi significativi di incremento del PIL, non ha dato alcuna risposta alla domanda di abitazioni per i ceti deboli, ha accresciuto i problemi di vivibilità e di mobilità della città, non ha innalzato la qualità della vita nelle periferie. Anzi queste hanno visto peggiorare notevolmente la propria condizione sia per il crescente affollamento, anche multietnico, che ha aggravato pure i problemi di concorrenza sul mercato del lavoro oltre a rompere gli equilibri delicati delle comunità delle borgate, sia per il più marcato isolamento legato alla inadeguatezza del trasporto pubblico. Un PRG che avesse voluto esprimere l'idea della città accogliente, per tutte e tutti, avrebbe dovuto assumere questa condizione come motivazione fondamentale e il suo radicale cambiamento come obiettivo. Non è stato così.
Quel "modello Roma" e quel PRG, al contrario, sono la rappresentazione di una cultura di governo strutturalmente subalterna ai poteri forti della rendita finanziaria ed edilizia, alimentata da un obiettivo di mercantilizzazione e finanziarizzazione dell'uso della città. Il tutto sorretto da una impressionante capacità mediatica, tale da far credere che "mentre a Milano si contesta persino la utilità del Prg, Roma definisce la sua crescita attraverso il Piano Regolatore". Non era vero. Solo che a Roma mentre si costruivano milioni di metri cubi attraverso accordi di programma in deroga, sostanzialmente come a Milano, un gruppo di architetti, con la supervisione e la relativa copertura di autorevolezza accademica di Giuseppe Campos Venuti,presidente emerito dell'Istituto Nazionale di Urbanistica, convertitosi al riformismo liberista, elaborava un Piano che veniva, di fatto, componendosi con le decisioni scaturite dai programmi dei costruttori contrattati con l'Amministrazione Comunale. Di questa contrattazione fanno organicamente parte lo strumento della perequazione al posto dell'esproprio, e quindi la marginalità dei progetti sociali pubblici rispetto a quelli privati, e la "compensazione", strumento inventato per riconoscere diritti edificatori inesistenti, presunti derivati da antiche previsioni di piani precedenti mai concretizzate in concessioni edilizie.
Report ha mostrato, opportunamente, la differenza con la pianificazione urbanistica di Madrid o di Parigi; ma anche la legge urbanistica regionale, la 38/99, prevedeva la possibile costituzione di Società per la Trasformazione Urbana come strumento misto, pubblico privato, per realizzare grandi progetti che fossero previsti dal Piano in base ai fabbisogni e all'idea di città da perseguire. Quella dell'accoglienza e del diritto all'abitare o quello della massimizzazione della rendita privata a scapito dell'interesse pubblico.
Il modo di procedere adottato a Roma venne battezzato con la definizione accademica altisonante del "pianificar facendo". Chi, come me, per fortuna in buona compagnia di illustri urbanisti e docenti di diritto urbanistico, non accettava questo,veniva tacciato di essere un "conservatore massimalista incapace di comprendere la nuova Urbanistica Riformista". Devo arguire che questa mia scarsa attitudine al riformismo urbanistico, nella misura in cui interferiva con le intese politiche nella giunta e nella maggioranza capitolina, consigliò il Partito a chiedermi di non occuparmi più dell'Urbanistica e specialmente a Roma!
Vezio De Lucia, oltre che maestro, coautore della proposta di legge sul "governo del territorio" presentata dai nostri gruppi parlamentari, finchè ci sono stati, alla Camera e al Senato, aveva definito "eversiva" quella proposta di PRG; ma la inveterata abitudine di separare, malgrado le affermazioni contrarie sempre ripetute, la teoria dalla prassi, ha consentito alla sinistra tutta di dialogare con Vezio nei giorni di festa dei convegni e smentirlo in quelli dell'ordinario operare come dirigenti ed amministratori.
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L'inchiesta di Report , anche per le acute ed informate critiche di Paolo Berdini, illustra in modo puntuale i meccanismi e i sistemi di relazioni ambigui che si determinano nel mercato immobiliare e negli accordi tra i proprietari delle aree e l'amministrazione; l'ambiguità dei ruoli giocati da figure a cavallo tra la professione libera e la funzione pubblica. Così come mostra la debolezza strutturale e la subalternità in cui la logica del "pianificar facendo" mette la pubblica amministrazione.
Infatti, accettata questa logica dell'urbanistica per progetti proposti dagli imprenditori, non solo viene a mancare il quadro organico di scelte responsabili a monte che danno l'idea della città che si intende realizzare, ma è necessario, perché i progetti possano realizzarsi nelle aree dei proponenti, rimuovere tutte le norme che regolano la pianificazione urbanistica, stravolgere quelle che sovrintendono la tutela ambientale e paesaggistica, svuotare i Piani Territoriali Paesistici previsti dalla Legge Galasso.
Campos Venuti e la giunta Rutelli, quando impostavano il Piano, hanno operato perché non venisse alla luce quella legge urbanistica regionale da me voluta e prodotta da un gruppo di studiosi e di tecnici coordinato da un maestro dell'urbanistica come Edoardo Salzano; poi l'hanno definita massimalista e rigida perché obbligava i Comuni a fare i piani prima di dare il via alle concessioni edilizie ed impediva che le varianti si facessero su richiesta privata, a trattativa diretta e con accordo di programma. La giunta Veltroni ha proseguito su questa strada di "riformismo urbanistico", demolitorio delle regole e delle tutele, concordando con la Regione, allora governata da Storace, un sostanziale stravolgimento della legge sulla tutela ambientale in modo che i vincoli di salvaguardia paesaggistica e ambientale, dovessero cedere il passo alle scelte urbanistiche.
È sempre il trito discorso dei vincoli che impediscono lo sviluppo delle magnifiche sorti e progressive dello sviluppo e della crescita urbana!
In ragione di ciò, e per consentire la localizzazione dei 70 milioni di metri cubi del PRG di Roma, il nuovo Piano Paesistico Regionale è uno strumento talmente labile e a "maglie larghe" da risultare sostanzialmente inefficace al fine di salvaguardare il patrimonio paesistico ed ambientale della regione e, nello specifico, dell'Agro Romano.
Non contenti di ciò, al fine di accelerare l'approvazione del Piano da esibire nella celebrazione dei fasti Veltroniani, la Regione, stavolta quella di Marrazzo con la partecipazione della sinistra, sostanzialmente abroga la procedura di approvazione dei Piani Regolatori prevista dalla legge e la sostituisce con una procedura di valutazione sostanzialmente politica, e quindi discrezionale, che si manifesta in una generica Conferenza di Copianificazione tra Comune, Provincia e Regione.
A sostegno culturale, si fa per dire!, di questa impostazione "riformista", rivendicata con orgoglio da Veltroni e da Campos Venuti, sta la impostazione della proposta di legge urbanistica avanzata nella passata legislatura berlusconiana dal forzista Lupi, ex Assessore al Comune di Milano, e fatta propria da DS e Margherita dell'epoca.
Report ci ha mostrato come sono andate le cose e ha dato conto dei risultati; le urne hanno manifestato il giudizio dei romani su questo "modello" costruito col Piano Regolatore. Nei 70 milioni di metri cubi del piano non trovano posto quelli che servono per le case popolari, per l'edilizia sociale. Hanno visto, i romani, la città crescere senza e contro di loro, l'edilizia sociale solennemente promessa con delibere "monstre" e quella privata solidamente realizzata a suon di varianti e accordi di programma, e hanno giudicato. È tutto qui? Certamente no! Ma se si salta questo dato di analisi si rischia di non essere in grado di ristabilire un rapporto con quelle periferie, peraltro assegnate per competenza assessorile alla sinistra, che hanno votato la destra e Alemanno.
Quel sistema di potere che si era costruito attorno al sindaco e che aveva alimentato quel modello crolla di schianto perché non ha dato risposte alla città, ma anche perché, non essendo fondato sul diritto positivo ed oggettivo ma su un sistema negoziale mercantile, ha lasciato crepe vistose e contraddizioni aperte tra gli interessi dei diversi gruppi economici in campo. E questi interessi si sono messi alla ricerca di altri interlocutori dopo aver preso tutto quanto il veltronismo poteva dare. Anche per questo non mi appassiona la casistica dei singoli immobiliaristi e l'approccio moralistico che giudica l'effetto e non indaga le cause di un processo gigantesco di arricchimento privato e di impoverimento sociale. L'analisi di questi interessi edilizi e il loro rapporto con la struttura dell'informazione e della comunicazione, la commistione/compenetrazione di interesse privato e funzioni direttamente o indirettamente pubbliche, sociali e di servizio, danno conto sia del meccanismo che ha alimentato il grande consenso e sia della dislocazione dei poteri che ha indotto la frana.
Purtroppo, quando la sinistra arcobaleno ha cominciato ad interrogarsi su cosa succedeva in città i danni erano stati compiuti. E come il Pasquino della tradizione si è trovata al "ne ho prese tante…ma quante glie ne ho dette!".
La sinistra, e Rifondazione in primo luogo, è stata investita dal crollo perché non ha impedito che quel blocco di potere si formasse; ha accettato che venissero stravolte le norme urbanistiche e paesaggistiche che la stessa sinistra aveva conquistato a livello regionale con la giunta Badaloni e che un insigne tecnico del diritto urbanistico come Sergio Brenna considera tra le migliori e più avanzate nel panorama delle legislazioni regionali. Norme che difendo e rivendico non solo perché le avevo promosse ma, soprattutto, perché rappresentano la cultura che la sinistra ha prodotto in materia di governo del territorio e tutela ambientale.
Oportet ut Report eveniat , si potrebbe dire parafrasando il detto evangelico che invita a muovere dallo scandalo; se questo può servire per avviare il percorso di costruzione del nuovo patto tra la sinistra e la società che ha bisogno di un modello diverso di città.
Le vicende di cui ha parlato la trasmissione Report possono essere chiarite fin nei dettagli, come sta avvenendo. Una cosa, però, ci tengo a dire: in questi 15 anni le scelte urbanistiche sono state in mano a persone per bene e impegnate a riformare la città, che hanno sempre lavorato per l’interesse generale, sia facendo bene sia sbagliando. E ciò vale per tutti i settori delle nostre amministrazioni la cui dignità è stata sempre integra. Queste polemiche, però, non devono impedirci una riflessione critica. In passato sull’indirizzo urbanistico ho espresso in varie sedi forti riserve, anche se attenuate dalla lealtà verso una comune responsabilità di governo. Dopo la sconfitta però siamo tutti più liberi nell’analisi e nella proposta.
A mio parere non siamo riusciti a modificare la tendenza di fondo che ha dominato lo sviluppo territoriale per l’intero secolo. Si è continuato ad espandere la città nell’agro romano costruendo tanti quartieri isolati tra loro e sempre più lontani dal centro. In 15 anni quasi tutte le nuove edificazioni sono state collocate a ridosso e oltre il Gra, in un territorio già devastato dall’abusivismo e privo di robuste strutture urbane. Ciò ha appesantito la vita quotidiana dei cittadini, sia di quelli che già vi abitavano sia dei nuovi venuti, e ha aumentato il pendolarismo tra una periferia sempre più lontana e i luoghi centrali di lavoro, fino a produrre l’ingorgo permanente sulle consolari. Ciò che banalmente viene chiamato "disagio delle periferie" scaturisce da processi strutturali. Questo dicono i risultati del voto: perdiamo nei municipi all’esterno del Gra, cioè proprio nei vecchi baluardi del centrosinistra.
Molti cittadini, soprattutto giovani, non sono riusciti più a pagare gli altri prezzi di acquisto o di affitto e, in mancanza di politiche di edilizia pubblica abbandonate in Italia ormai da venti anni, sono stati costretti a trasferirsi nell’hinterland. Circa 300 mila persone hanno lasciato i quartieri interni dotati di servizi e di trasporti per andare a vivere in zone che ne erano sprovviste e nelle quali sarà molto più costoso realizzarli. La nostra politica urbanistica non ha contrastato questi processi, anzi li ha assecondati e addirittura li ha proiettati verso il futuro con il nuovo piano regolatore, che persevera nella logica espansiva. Non potrebbe essere altrimenti: è basato sui residui di cubatura del piano precedente, pensato nei primi anni 60 per una città di 5 milioni di abitanti. Si è molto enfatizzato il taglio apportato alle vecchie previsioni edificatorie, operazione certamente lodevole - bisognerà vigilare che non venga messa in discussione da Alemanno - ma meramente quantitativa, che non ha modificato la dinamica urbana, poiché le cubature residue comunque appartengono a quella logica espansiva e quindi continuano a provocare insediamenti sparsi nella campagna. Sono state chiamate centralità ma tendono ad essere i soliti quartieri satelliti addossati a grandi centri commerciali e comportano inevitabilmente basse densità abitative sulla grande scala, il trasporto pubblico li serve male e a costi elevati. Il ché peggiora il traffico: allunga gli spostamenti casa lavoro e dopo la sconfitta sono venuti a galla i nostri difetti: troppa sicumera, troppo sentirsi classe dirigente, troppo Modello Roma, un’autodefinizione imposta ai fatti. Dire abbiamo perso perché è cambiato il vento non è una soluzione al problema, lo sposta solo un po’ più in là; perché allora non siamo riusciti a costruire un edificio tanto solido da resistere anche al cambiamento del vento? Dei meriti del quindicennio abbiamo detto tante cose vere che ormai fanno parte del patrimonio della città. Ora però dobbiamo svolgerne anche un’analisi critica, soprattutto noi che abbiamo avuto responsabilità di governo, mettendone sotto esame tutti gli aspetti: l’amministrazione e le aziende, la mobilità, i servizi pubblici, la sicurezza, perfino la cultura e certo anche l’urbanistica.
Aumenta la dipendenza dall’auto. Si è risposto allungando oltre il Gra le previsioni dei tracciati delle metropolitane, proprio mentre l’amministrazione è meritoriamente impegnata a sanare il vecchio deficit costruendo le metropolitane per la città esistente. Achille rischia di non raggiungere la tartaruga se mentre recuperiamo il ritardo del secolo passato creiamo nuovi insediamenti che aumentano il deficit infrastrutturale. Far discendere da immodificabili localizzazioni di aree fabbricabili l’esigenza di allungare le linee del trasporto è stato un errore. Si è parlato di priorità del ferro, ma è il suo esatto contrario, è la subordinazione dei trasporti alla localizzazione di cubature come variabile indipendente dello sviluppo urbano. Infatti, quasi preso da un senso di colpa a posteriori il piano stabilisce che non si possono attuare le edificazioni senza i necessari trasporti, ma si doveva evitare a monte che nascesse l’esigenza di nuove infrastrutture.
Ciò era possibile seguendo un approccio alternativo: non partire dai residui del piano del ’62, anzi spostare quelle vecchie previsioni espansive, concentrandole sulle stazioni del trasporto esistenti e già in costruzione - quindi senza creare nuovi deficit infrastrutturali - soprattutto quelle interne, per riportare le residenze nella città consolidata. Questo sì, sarebbe stato un piano basato sulla priorità del ferro, in quanto avrebbe scelto i nodi della rete come i luoghi di più intensa trasformazione a discapito di tutti gli altri. Si doveva quindi indirizzare lo sviluppo all’interno della città dove esistono molti margini di trasformazione. Roma è infatti quasi vuota, su una superficie grande come quella di Parigi ha un terzo degli abitanti, anche se ciò è difficilmente percepibile dal senso comune a causa del disordine urbanistico cha ha lasciato zone abbandonate e altre eccessivamente ingolfate. Bisognava operare con grandi progetti di recupero residenziale, anche demolendo parti della cattiva edilizia degli anni Cinquanta. Certo, sarebbe stata una trasformazione complessa, sia nella tecnica sia nella politica, ma solo questa rottura della logica espansiva novecentesca avrebbe davvero meritato l’attributo di nuovo piano del Duemila.
Va però riconosciuto a merito del piano approvato l’aver stabilito le regole per tale trasformazione dei tessuti esistenti e l’aver individuato, attraverso la condivisione dei cittadini, le centralità dei quartieri consolidati, quelle sì davvero utili. Non a caso negli anni passati le cose migliori sono state realizzate nella città esistente mediante gli interventi pubblici, basta vedere come è migliorato l’Ostiense con la nuova università. Gli investimenti privati, invece, sono come l’acqua e vanno dove trovano la strada. Solo bloccando la strada in discesa per l’espansione si possono trovare le energie per la strada più irta della trasformazione interna.
Si è sostenuto che questa svolta non era possibile perché in conflitto con i diritti edificatori dei proprietari delle aree esterne, ma è un argomento inconsistente. Proprio l’innovazione teorica del piano era basata sullo strumento della compensazione finalizzato a spostare una cubatura da una parte all’altra, senza turbare i diritti edificatori, i quali peraltro possono essere modificati proprio quando si fa pianificazione generale. Comunque, anche volendo evitare contenziosi, purtroppo sempre possibili a causa della debole legislazione sui suoli, la compensazione avrebbe consentito di delocalizzare le cubature esterne verso le aree più interne prossime alle stazioni, le quali oltretutto sono spesso di proprietà pubblica.
Invece lo strumento è stato usato nel modo peggiore verso l’espansione: lo conferma perfino la meritoria cancellazione dell’edificazione di Tor Marancia, che ha salvato uno splendido paesaggio a ridosso dell’Appia Antica, ma a prezzo del trasferimento nell’hinterland di più del doppio della cubatura prevista, aggravando così in futuro la mobilità e i servizi. Ciò si è ripetuto in molti altri casi, è prevalso infatti un compromesso al ribasso tra la vecchia domanda di costruire a prescindere dalla qualità localizzativa e la povertà della cultura ambientalista italiana, che capisce solo la tutela della singola area, senza neppure accorgersi dei guasti ambientali prodotti da una struttura urbana mal fatta. Così, gli ambientalisti hanno gioito per i tagli e costruttori per i residui, ma nessuno si è occupato della qualità del sistema, cioè lo scopo di un vero piano urbanistico. Un malinteso sviluppismo e un malinteso ambientalismo hanno deformato il progetto della struttura urbana. Sarebbe stato meglio interrogarsi su questi problemi quando i nostri consensi superavano il 60%. Allora però le analisi critiche erano tabù.
Non è solo un problema romano. È franata la cultura urbanistica italiana negli ultimi venti anni, non solo come disciplina, ma soprattutto come consapevole pratica politica. Usiamo ancora i loro nomi storici - Roma, Milano, Napoli, Palermo - ma sono ormai oggetti geografici di forma e scala completamente diversi dal passato. Senza alcun governo dei processi sono diventate galassie metropolitane, ingestibili pulviscoli di case sparse, capannoni pseudoindustriali, uffici in vetrocemento, centri commerciali e orribili viadotti. Lo sprawl della città contemporanea globalizzata, connotata soprattutto dall’uso dell’auto. In Europa è una tendenza contrastata con il progetto urbanistico, mentre noi abbiamo assunto pedissequamente il modello americano della città infinita, sovrapponendola ai centri storici più delicati del mondo. Con gravi effetti macroeconomici: se rifacessimo i conti del Pil nazionale dell’ultimo decennio sottraendo le voci della febbre immobiliare scopriremmo anche nelle statistiche ufficiali un paese depresso, molto più simile alla percezione del senso comune. A sproposito si parla di mercato: quando un proprietario rivende un’area a un prezzo dieci volte superiore a quello d’acquisto, senza alcun rischio di impresa, si appropria semplicemente di una ricchezza prodotta dalle decisioni pubbliche. Così le rendite sottraggono risorse alla produzione. Perché mai un imprenditore dovrebbe imbarcarsi in complesse innovazioni tecnologiche se può ottenere molto di più acquistando un immobile al momento giusto? Poi arrivano i furbetti del quartierino che tentano la scalata ai salotti buoni del capitalismo italiano e ai loro giornali e allora la politica si accorge del problema, più per gli effetti che per le cause. Avete mai sentito un politico di centrosinistra negli ultimi venti anni andare in tv a parlare di rendita urbana? Avete mai letto in un nostro programma elettorale un accenno alla regolazione della rendita immobiliare? Si è discusso fino all’accanimento della rendita dei Bot, ma non di quella ben più consistente del mattone.
L’urbanistica è una brutta bestia, quando si prendono le decisioni importanti appaiono avvolte in un tecnicismo che allontana, poi a distanza di tempo ci si accorge che lì erano in gioco cose ben più rilevanti di tanti bla-bla televisivi. La crisi della cultura urbana mette in evidenza l’incapacità della politica di governare i tempi lunghi. La nuova politica deve tornare a pensare il futuro della principale risorsa italiana, della città e dei suoi abitanti.
Da settimane nella città di Sassari è andata crescendo una sorta di fibrillazione collettiva perché, durante la risistemazione della pavimentazione di piazza Castello, sono stati ritrovati resti di due piani della fortezza aragonese abbattuta nel 1877 e che, di giorno in giorno, vengono annunciati entusiasticamente sempre più sorprendenti. Attorno a questi ritrovamenti si è acceso un interessante dibattito ‘popolare’ che ha coinvolto studiosi e numerosi cittadini, avviato sulle pagine de La Nuova Sardegna e di cui si avvertono i suoni attorno alla piazza in questione e nei diversi ritrovi (per lo più di consumo) del centro storico. Ovviamente non mancano i pareri degli scettici e degli espliciti devastatori: vi è stato chi ha chiesto che il tutto venisse ricoperto e che la si finisse con tutto questo clamore. A parte alcune dichiarazioni un po’ grottesche, finalmente si è avviata una concreta riflessione collettiva sulla città e sul suo passato, seppure per ora limitata ad una minima porzione urbana. In relazione a questi ritrovamenti in progress, affronto quattro tipi di problemi:
il primo riguarda i luoghi e le modalità della discussione sul che fare del “castello ritrovato”. Pongo un primo interrogativo. Se La Nuova non avesse aperto le sue pagine alla cittadinanza, in quali altre sedi sarebbe stato possibile esprimere la propria opinione? Mi pare di poter affermare che la città manchi di luoghi di confronto aperti alla collettività, dove discutere sulle sue trasformazioni urbane, maturare progetti di interesse generale e sottoporli al confronto democratico. Questo dovrebbe essere un compito primario dell’amministrazione locale, al quale essa in parte assolve formalmente quando assume scelte eccezionali quali il piano regolatore; ma dovrebbe essere anche una finalità delle sedi primarie della politica (partiti), della cultura (università e formazione più in generale), dell’economia (attraverso ad esempio le associazioni di categoria e sindacali). La sede del giornale può essere un buon sostituto? Solo parzialmente, sia perché la scelta di partecipare per iscritto è di per sé selettiva sia perché è limitato il numero di coloro, almeno rispetto alla popolazione complessivamente intesa, che hanno capacità tecniche di accesso. Basti pensare che la maggior parte delle opinioni dei cittadini pervengono per sms e per e-mail, il che significa che diverse fasce di popolazione, anzitutto quelle anziane, sono escluse dal dibattito, il quale, più che un confronto, appare la sovrapposizione di singoli pareri che non possono avere alcuna incidenza sui reali processi decisionali.
Il secondo punto riguarda i contenuti del dibattito che, a distanza di settimane dai primi ritrovamenti, continuano ad essere limitati all’oggetto in questione. Pongo dunque questo interrogativo. Senza voler sottovalutare il valore culturale di questi ritrovamenti, che in qualche misura stanno mettendo in discussione la memoria urbana collettiva e alcune certezze sedimentate nel tempo, è sufficiente questo recupero per iniziare a riqualificare il centro storico? Sì, a condizione che la riflessione non si limiti a piazza Castello. Perché isolarla dal tessuto circostante non solo è sbagliato dal punto di vista urbanistico, ma soprattutto è la perdita dell’occasione di coinvolgere attivamente un insieme di attori sociali, culturali ed economici in un complessivo progetto di riqualificazione di una parte importante del centro storico, sotto i profili dell’abitazione, delle attività produttive e dell’intrattenimento. Coinvolgimento che va costruito subito, a prescindere dall’entità reale dei ritrovamenti, perché i tempi e le procedure della partecipazione sono molto più complessi dei ritrovamenti archeologici, in termini di finanziamenti e di idee progettuali, di peso degli interessi generali su quelli particolari e viceversa, e così via. A mio avviso, la riflessione ‘sul che fare’ si dovrebbe estendere a tutta quell’area ‘racchiusa’, per così dire, dalle piazze d’Italia, Tola, Università e dall’area antistante porta S. Antonio; all’interno delle quali c’è un variegato, e per questo interessante, patrimonio architettonico - si pensi ai diffusi segni settecenteschi e ottocenteschi presenti in corso Vittorio Emanuele con tracce dei secoli precedenti -, e un tessuto sociale altrettanto interessante, perché composito sotto il profilo generazionale, sociale ed etnico.
La terza questione riguarda la viabilità urbana, giacché è evidente che questi ritrovamenti pongono numerosi problemi al traffico di questa (e non solo) parte della città. La risoluzione del problema di dove far scorrere il traffico automobilistico, visto che i ritrovamenti si stanno estendendo da via Politeama verso la piazza, non può essere solo di tipo tecnico e limitata all’area in questione, ma abbisognerebbe di una chiara scelta politico-culturale finalizzata, finalmente, a pedonalizzare il centro storico, offrendo ovviamente delle soluzioni a chi vi risiede e lavora. Invece, il problema di ridurre il traffico automobilistico e adottare soluzioni eco-sostenibili a Sassari continua ad essere una ragione di forte conflitto non tanto da parte della popolazione astrattamente intesa, quanto da parte di alcune categorie economiche e che in città sono tra quelle che hanno più voce, in primis i commercianti. Pongo un terzo interrogativo. La città di Sassari può continuare ad ignorare le direttive dell’Unione Europea, a partire dalla Carta di Aalborg che data 1994 e che, al punto 1.9, tratta specificamente di Modelli sostenibili di mobilità urbana, sottolineando che «…È divenuto ormai un imperativo per una città sostenibile ridurre la mobilità forzata e smettere di promuovere e sostenere l’uso superfluo di veicoli a motore….»?
Il quarto ordine di problemi riguarda la necessità culturale che la città di Sassari si riconcili con i propri passati. Qualche anno fa durante le lezioni di sociologia urbana, uno studente di Siniscola disse “chissà come sarebbe stata più interessante questa città se avesse conservato il suo castello” ed io aggiunsi “e anche se avesse conservato il suo patrimonio di manufatti ottocenteschi e liberty”, ahimé in buona parte abbattuto quasi nella sua totalità appena qualche decennio fa e certamente non per ragioni di rivincita contro l’oppressore. Abbandono le analisi contro-fattuali - che possono essere sì delle ottime esercitazioni per un corso universitario, ma poco utili sul piano delle scelte politiche -, e pongo un quarto interrogativo. Possiamo ragionare senza finzioni sulla bruttezza di questa città e su come invece potrebbe diventare bella? Non assegno alle parole ‘bello’ e ‘brutto’ solo un valore estetico, ma le associo ad altri termini, quali cura e attenzione, e, di contro, sciatteria e degrado. Credo che anche Sassari possa diventare una città bella, risanando e riqualificando il suo patrimonio storico-architettonico, certo, ma anche curandosi degli spazi pubblici e privati, e ciò può avvenire soltanto se ogni singolo cittadino si sente attivamente responsabile e coinvolto in un progetto comune.
Per esplicitare il mio pensiero, mi limito ad un solo esempio. L’amministrazione locale sta risistemando molte strade del centro storico - devo dire con molta attenzione -, riportando alla luce ciottolato e lastroni di granito. Ebbene, finiti i lavori già nei giorni seguenti al ripristino dominano incontrastati sporcizia e degrado che non vanno attribuiti all’ente pubblico, bensì a tutti quei cittadini che nel loro transitare o lavorare non si preoccupano di tenere puliti i loro spazi pubblici. Eppure, se imparassimo ad acquisire il bello come valore, Sassari potrebbe persino uscire dal torpore che la attraversa ormai da molti decenni.
In conclusione, abbiamo scoperto che anche Sassari può avere una sua identità, ed il castello ritrovato (o meglio alcuni suoi pezzi) è certamente parte propulsiva di questa scoperta, più che per le sue pietre, per l’orizzonte di idee che si è aperto seppure limitatamente sulle pagine di un quotidiano. Il passo successivo dovrebbe essere quello di spostare questo dibattito nelle sedi preposte alle decisioni, magari mettendo in pratica tutti quei buoni propositi contenuti nel piano strategico di cui ci si è fin troppo rapidamente dimenticati.
Nei giorni scorsi una polemica a più voci ha visto sulle cronache romane accendersi la discussione sui problemi connessi alla costruzione della nuova linea della metropolitana, la C, lungamente attesa, il cui tracciato, in particolare nel tratto che attraversa il centro storico, andrà ad impattare con il tessuto archeologico dell'area centrale.
La querelle ha trovato origine da una roboante (comme d'habitude) conferenza stampa di Carlo Ripa di Meana in qualità di Presidente della sezione Italia Nostra di Roma, durante la quale, coi consueti toni apocalittici ad usum mediorum, beata ignoranza dei meccanismi di tutela e del metodo archeologico oltre che palese distorsione della storia del progetto, si gridava alla distruzione del patrimonio archeologico romano soprattutto per responsabilità del Ministero Beni Culturali. Ora, che la metropolitana capitolina sia attualmente del tutto insufficiente alle esigenze di una metropoli come Roma e che l'intero sistema del trasporto su ferro vada rafforzato e ampliato proprio per decongestionare la città dal traffico veicolare, è evidenza che anche il neoeditorialista di “Liberal” ha dovuto ammettere. E d'altro canto la costruzione della terza linea della metropolitana è in realtà una vicenda che si snoda da alcuni lustri soprattutto perchè ha conosciuto, come inevitabile, considerando le zone interessate, la più grande attenzione da parte della Soprintendenza Archeologica. E del Soprintendente che è stato protagonista, in collaborazione con altri attori istituzionali e privati, della definizione del progetto.
Parliamo ovviamente di Adriano La Regina che, proprio in occasione della recente discussione ha rivendicato il progetto della metro C come uno degli elementi portanti della propria attività alla guida della soprintendenza archeologica capitolina. Attività quasi trentennale che può annoverare risultati quali il restauro integrale dei marmi dei monumenti dell'area centrale, corrosi da anni di inquinamento da gas di scarico, la creazione di un sistema museale, quello del Museo Nazionale Romano suddiviso nelle quattro sedi, di rilievo mondiale, la salvaguardia del patrimonio di fronte a pressioni speculative fortissime (Appia Antica, Tormarancia) e in situazioni di emergenza politico-istituzionale: ricordiamo su tutte le vicende dell'anno giubilare, quando La Regina, quasi da solo, seppe contrastare i progetti invasivi e inutili coi quali la Curia vaticana avrebbe sacrificato con leggerezza, per le presunte esigenze di poche settimane di qualche migliaio di pellegrini, il tessuto urbano di milioni di cittadini romani di oggi e di domani (oltre ad un considerevole numero di reliquiae martyrum).
Ma soprattutto La Regina ha avuto, condivisibile o meno, un progetto d'insieme sull'archeologia di Roma, perseguendolo pur tra mille difficoltà, a volte prevalenti, come nel caso di quel progetto Fori ideato sul volgere degli anni '80 col quale si dimostrava davvero una concezione sistemica nei confronti del patrimonio archeologico, inserito per la prima volta compiutamente quale elemento portante di una nuova idea di città.
Ma la storia avanza ed opinioni e situazioni ritenute dianzi valide e consolidate, divengono obsolete: l'archeologia capitolina è tornata recentemente ad essere un catalogo di mirabili scoperte, quando non è noleggiata dal sarto di turno come quinta di lusso per sguaiati carnasciali (le Valentiniadi di recentissima memoria); si susseguono sempre più frequentemente gli scoop, le rivelazioni autocelebrative e i disvelamenti mediatici (tempio di Quirino, lupercale, casa di Augusto) la cui inconsistenza scientifica è già stata stigmatizzata da studiosi come Filippo Coarelli, Adriano La Regina, Fausto Zevi la cui conoscenza della topografia romana risulta accreditata non dalle veline degli uffici stampa, ma dal riconoscimento della comunità scientifica internazionale.
E' l'archeologia dell'evento, immediatamente spendibile, reale o presunto (a volte artatamente costruito), così che dopo la scoperta della grotta di Romolo e la riscoperta della casa di Augusto ci toccherà forse giubilare per il rinvenimento della Domus Aurea o della statua di Marco Aurelio. Si tratta di una concezione del tutto asistemica del patrimonio archeologico, inteso, come in un passato culturalmente archiviato, quale collezione di monumenti di pregio, abbandonati peraltro, immediatamente dopo lo spegnimento dei riflettori, alle inefficienze di una gestione balbettante sul piano organizzativo, così come è accaduto nei giorni scorsi alla casa di Augusto e ad altri monumenti del Palatino rivelatisi di difficilissimo accesso per i visitatori.
E' un'archeologia che preferisce affidare in larga misura la fase, pur delicatissima, della fruizione e valorizzazione del patrimonio collettivo alle iniziative mercantili del privato – che in ambito romano sinora non ha mai brillato per ampiezza di visione imprenditoriale - limitandosi ad un piccolo cabotaggio di iniziative dal corto respiro e preferendo soluzioni meno problematiche e più tradizionali. Alludiamo anche alla recentissima regolamentazione dell'accesso ai fori, di nuovo “normalizzati”, dopo molti anni in cui erano divenuti libero luogo di loisir e passeggio e quindi ritrasformati, da spazio per i cittadini, nel solito recinto per turisti.
Del resto, tale soluzione ben si sposa con la sistemazione, sull'altro lato dello stradone fascista, dei Fori Imperiali che, pur con qualche correttivo, ancora si presentano nell'immagine di ideazione littoria con la loro sequenza di “povere reliquie disastrate” e “denti cariati” così come icasticamente li definì Cederna.
Al contrario, proprio Antonio Cederna (Presidente della sezione Italia Nostra di Roma...) ci aveva insegnato che l'archeologia, in una città come Roma, può e deve divenire lo strumento di una nuova concezione urbana, di un modo nuovo e migliore di vivere la città, consapevoli della sua storia.
Questa concezione non passatista, né musealizzante, illustrata compiutamente nel progetto Fori, e ribadita in quarant'anni di battaglie per la tutela integrale dell'Appia Antica, prevedeva la drastica diminuzione – e nella zona centrale l'abolizione – del traffico automobilistico ed era quindi connaturata alla costruzione di un sistema di trasporti pubblici efficiente, a partire dalla metropolitana.
Su opere come queste, la cui attuabilità anche in situazioni ad altissimo rischio archeologico è dimostrata, ad esempio, dai casi di Napoli e di Atene, si gioca non solo la sopravvivenza di testimonianze archeologiche seppur importanti (ma per molte delle quali, sia detto per inciso, non avremmo comunque mai avuto conoscenza e documentazione senza questi scavi) e quindi l'arricchimento del nostro patrimonio, ma anche la sopravvivenza della nostra idea di città da un lato. E dall'altro forse addirittura la sopravvivenza dell'archeologia stessa non solo come disciplina accademica, ma per quanto riguarda la sua capacità di acquisire consenso sociale, superando i limiti di una visione angusta che condanna ancora troppo spesso i resti archeologici recuperati all'interno del tessuto urbano ad esposizioni da giardino zoologico, incongrue ed inutili anche per la loro salvaguardia materiale.
Agli archeologi di oggi la sfida che si presenta è quindi ben più importante e culturalmente complessa rispetto a quella legata ai problemi conoscitivi innescati dal rinvenimento del singolo oggetto o monumento o sito, e consiste nella necessità ormai inderogabile di trasformare l'archeologia d'emergenza (ormai l'unica archeologia di scavo oggi attuabile) e preventiva in genere, da una sfibrante trattativa nei confronti delle esigenze della “modernità”, spesso condotta in condizioni di inferiorità e sotto la scure del ricatto politico-sociale di qualunque parte, in una battaglia culturale per un destino diverso delle nostre città e dei nostri territori, cercando e costruendo alleanze prima di tutto in chi, in queste città e in questi territori ci vive quotidianamente.
Qualche buon esempio cui ispirarsi, soprattutto in ambito europeo, già esiste, sia sul versante operativo che su quello giuridico. Mentre invece proprio nell'ambito dell'archeologia preventiva, purtroppo, la recentissima versione del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, reitera una lunga omertà legislativa, con questo ( ma non solo) incrinando quel carattere sistemico che è tanto più necessario per opporsi con efficacia alle operazioni di dissipazione del nostro patrimonio culturale e paesaggistico.
Roma, proprio per l'evidenza e l'importanza del patrimonio archeologico dovrebbe divenire un esempio virtuoso al quale ispirare una politica culturale nazionale più aggiornata, efficace sotto il profilo della tutela e solidamente ancorata al consenso civile: le premesse non sono delle migliori, ma oggi è Pasqua, Pasqua di resurrezione.
Bologna, 23 marzo 2008
Da diversi anni Paolo Berdini costituisce un punto di riferimento per chi voglia conoscere la vera storia delle recenti vicende urbanistiche romane. Prima di lui, anni addietro, un altro urbanista, Italo Insolera, ci consegnò un testo diventato famoso della storia urbanistica romana del dopoguerra. Quel libro (Roma Moderna, Laterza) si fermava alle soglie degli anni Settanta quando ancora Roma veniva definita capitale ladrona o capitale infetta; nel frattempo, è diventata una città «moderna». Anzi, la capitale è stata recentemente raccontata come la locomotiva di uno sviluppo che trascina il paese verso le magnifiche sorti e progressive, dalla Sicilia alla Lombardia.
È sul senso di questo «successo» che Berdini concentra la sua attenzione mettendone in evidenza luci ed ombre attraverso una minuziosa ricostruzione dei fatti. Ne esce una totale decostruzione di quel modello di sviluppo su cui Walter Veltroni ha organizzato la sua campagna elettorale (finita come sappiamo): il cosiddetto «Modello Roma».
La città divoratrice
La densità automobilistica ha raggiunto nella capitale il valore di 750 auto per mille abitanti (bambini inclusi), l'inquinamento atmosferico da carburante ha superato ampiamente i limiti di soglia. Nel frattempo si continuano a costruire parcheggi nel centro storico (vedi l'esempio del Pincio), e intere periferie abusive sulle proprietà dei soliti costruttori (le cosiddette centralità), si erode il patrimonio di beni pubblici sostituiti da centri commerciali e multisale. Perché accade tutto questo? Paolo Berdini (La città in vendita. Centri storici e mercato senza regole, Donzelli, pp. 190, euro 25) mette sotto accusa il modello di sviluppo liberista; di fatto città e paesaggi sono stati ridotti ad esclusivo fattore economico, trasformati in merce al pari di altre merci. Avviene per le grandi città quanto analogamente si afferma nell'economia: il trionfo della crescita illimitata, l'impero del Pil, la competizione selvaggia a danno della solidarietà sociale.
Le periferie crescono aggiungendo pezzi a pezzi alla metropoli, come una gigantesca macchina che erode suolo fertile, sradica gli abitanti dai luoghi, indebolisce il controllo sociale, frantuma le regole della convivenza e apre i territori alle infiltrazioni mafiose e ai comitati d'affari dei soliti costruttori. I centri storici subiscono le invasioni barbariche dei turisti sempre più numerosi. Berdini attribuisce questo degrado alla perdita di complessità delle funzioni che rendevano vitali le nostre città; la semplificazione indotta dall'economia (e addirittura auspicata nella politica) si traduce in una omogeneizzazione delle città.
Eppure Roma sembra essere una città sempre in festa: notti bianche, festival del cinema, concerti, parate, ma in questo modo si maschera e si occulta il disagio sociale diffuso nelle periferie, si manipolano desideri e bisogni autentici di socialità. Il 30 settembre del 2006, racconta nel libro Berdini, Napoli festeggia la sua Notte bianca: un grande successo, ma dopo appena 7 giorni esplode la questione rifiuti. Roma festeggia due intere notti bianche nel 2006: due milioni di partecipanti ognuno dei quali spende ben 34 euro. Si fanno i conti: un successo! ma poi i giorni seguenti il traffico è di nuovo in condizioni di stress, l'emissione dei gas-serra pure. Il problema delle amministrazioni è «fare cassa»; forse per destinare i fondi alla costruzione di alloggi destinati ai senza casa? No, ovviamente, ma in compenso uno studio della Gabetti afferma che nel centro storico di Roma i prezzi di vendita delle case possono raggiungere i 25.000 euro a metro quadrato. Per acquistare comunque una casa anche in periferia un impiegato dovrebbe investire lo stipendio di 132 mensilità, che fanno 11 anni di lavoro.
Gli strumenti urbanistici con i quali venivano regolate e governate le nostre città moderne sono impotenti di fronte all'invasione del capitale internazionale, con buona pace del pensiero riformista veltroniano. La nuova invenzione per governare la città si chiama accordo di programma. Si svolge senza più alcuna discussione pubblica, tra i proprietari dei terreni, qualche rappresentante politico, qualche tecnico e qualche faccendiere in barba ai cittadini che quel territorio lo abitano. E se è stata Milano a sperimentare questa devastante tecnica neoliberista negli anni Novanta, Roma l'ha messa al centro della sua politica urbanistica insieme alle feste e alle notti bianche.
Cemento da pianificare
Nel 2007 vengono aperti due grandissimi megastore, nei pressi di Lunghezza (Porta di Roma est) e Bufalotta (Porta di Roma nord): i due colossi commerciali sono tra i più grandi d'Europa. Sempre gli stessi i gruppi economici: Panorama, Auchan o Lidl. All'elenco si aggiungono il nuovo complesso Fiera di Roma e l'allucinante quartiere-centro commerciale Leonardo lungo l'autostrada per l'aeroporto. Una città letteralmente trasformata in centri commerciali, un immenso ingorgo quotidiano: ogni giorno settecentomila abitanti si spostano per andare a lavorare a Roma attraversando l'infinita periferia romana di aggregati senza centri, piene di edifici affollati. C'è poi la vicenda del Piano Regolatore Generale che ha caratterizzato sia la Giunta Rutelli, sia quella Veltroni. Afferma giustamente Berdini: «Si potrebbe obiettare che Roma ha comunque scelto la strada della pianificazione». Ma a vedere le cose con un occhio critico non è così. Il cosiddetto pianificar facendo della prima giunta Rutelli si è dimostrato niente di più che una acritica raccolta di tutti i progetti approvati nel corso dei dodici anni che sono serviti per la redazione del Piano. Progetti spesso stravolti a seguito della concertazione con la proprietà fondiaria o per effetto di una serie sterminata di varianti. Una seconda questione riguarda il dimensionamento del Piano. Mentre sessantamila famiglie sono costrette ad allontanarsi da Roma perché non possono pagare gli affitti, esso prevede di costruire una quantità enorme di abitazioni. I carichi urbanistici vengono moltiplicati con il tragico ricorso alla cosiddetta compensazione urbanistica. I diritti edificatori, infatti, non devono essere toccati così che (come a Tormarancia) la cubatura stabilita (e osteggiata dal municipio) viene «trasferita» altrove e aumentata di due volte e mezzo.
Orgia da consumo
Sembra a me che la sinistra deve fare culturalmente i conti con quel concetto apparentemente positivo che si chiama modernità. Giacomo Marramao sostiene che uno dei drammi dell'epoca che viviamo è la frattura tra la dimensione materiale e quella simbolica. Come ci rappresentiamo oggi? Chi siamo e cosa vogliamo essere? Ci rappresentiamo con gli outlet, con i centri commerciali, con l'orgia del consumo, con la caccia al diverso, con la blindatura degli spazi pubblici, insomma con le passioni tristi del presente; oppure vogliamo rappresentarci con la solidarietà, con l'appartenenza alla natura, con il ristabilimento del limite e pensare alle città, come il luogo in cui si dovrebbe realizzare l'universalismo della differenza?
Il futuro della padania sta anche in Danimarca.
Un recente articolo [1], racconta come nel piccolo paese nordeuropeo stiano iniziando a emergere i primi risultati pratici del già notato (dalla stampa economica) passaggio in forze dei maghetti finanziario-amministrativi al settore delle energie rinnovabili. Nel caso specifico, una joint-venture istituzionale e di impresa sta sviluppando con tecnologie esistenti e sperimentate un sistema regionale di trasporti dove si sommano virtuosamente auto elettrica e turbine a vento. Essenzialmente a riprodurre la medesima rete territoriale e organizzativa che ben conosciamo, dei veicoli privati e delle stazioni di rifornimento. Con buona pace, almeno potenzialmente, dei declinatori locali di crisi petrolifere globali, e di futuri autarchici su asini, o neotecnologicamente rigidi lungo linee di metropolitane leggere.
Insomma, a quanto pare la macchina in garage e fuori dovremo tenercela ancora per un bel po’, e fiduciosi gli strateghi padani spingono per farla arrivare ovunque, ad esempio a quell’infinita promessa di hub che sta nelle brughiere di Malpensa. È passata un po’ in sordina, inaugurata da un ministro dimissionario e in piena crisi di mercato e occupazionale dell’aeroporto, l’inaugurazione della nuova bretella stradale Magenta-Lonate Pozzolo, più nota (ma mica tanto di più) dal nome dei due svincoli di Boffalora-Malpensa.
Le polemiche a proposito hanno riguardano ovviamente sia l’utilità dell’opera, a servizio di quello che rischia di diventare uno dei tanti scali padani in balia di un mercato internazionale a montagne russe, che l’attraversamento di un’area parallela al corso del Ticino e relativo parco regionale. C’è però dell’altro, di cui certo si parla, ma molto meno di quanto si dovrebbe.
Un aspetto lo si nota annusando meglio da vicino il tracciato. Comincia con una grossa rotatoria sulla Padana Superiore lungo la circonvallazione di Magenta (poco prima della discesa nella valle del Ticino) e dopo lo svincolo con la Milano-Torino al casello di Boffalora prosegue a quattro corsie in trincea, con lunghi tratti coperti a farsi notare un po’ meno, per 19 chilometri, fino a congiungersi poco prima di Malpensa al prolungamento dell’altro raccordo, dall’Autostrada dei Laghi. La cosa più interessante, però, si nota da fuori.
Qualche tempo fa, un responsabile della pianificazione di coordinamento dell’area mi raccontava dell’insistenza delle amministrazioni per ottenere una o più uscite all’interno del proprio territorio. E usandole appunto per uscire dalla trincea, queste uscite, una dopo l’altra, e facendosi un giretto nei paraggi, si capisce anche perché. Bei terreni piatti, aperti, molto lontano dall’abitato, serviti dalla strada che, vecchia o nuova, collega il vecchio tracciato della Padana Superiore-Malpensa a questo nuovo. E il pensiero corre a quei terreni, identici, che negli anni ’60 formavano le ampie fasce laterali della superstrada dall’Autolaghi a Malpensa, e su cui ora si ammassa di tutto, a formare un “paesaggio” degno del migliore James Ballard.
È quello, il tipo di sviluppo a cui si pensa per questi altri 19 chilometri, magari con qualche siepe in più, e tonnellate di dichiarazioni sull’ineffabile “misura d’uomo” di tutto quanto? Il decantato capitalismo molecolare sceso dalle valli a dilagare in pianura, spinto dall’impulso di fantasiosi cantori, e nuovi equilibri politici più o meno locali, si riprodurrà soprattutto in molecole di cemento e asfalto? E non è finita, ovviamente.
Non è finita, perché come sanno benissimo gli oppositori dei vari tratti di questo grande disegno, qui si tratta appunto di quella che Patrick Geddes avrebbe a modo suo definito man reef, madrepora umana, ma che nell’attuale crisi ambientale rischia di esprimersi come micidiale crosta, a soffocare il poco che resta dell’ambiente naturale di un’area immensa.
Sulla linea intermedia degli sbocchi di valle a nord del capoluogo, quella che ironizzando Guido Martinotti chiama “la città infinita che comincia a Varese e finisce a Bergamo” [2] sta nascendo l’autostrada Pedemontana, fortemente voluta in modo bi-partisan dai principali decisori, e recentemente riverniciata da un positivo progetto di compatibilizzazione del tracciato.
Lungo la fascia occidentale della regione metropolitana, parallela alla valle del Ticino, si sviluppa per ora “solo” il raccordo appena descritto, dall’Autolaghi, a Malpensa, alla Milano-Torino. Però bisogna a questo punto tornare a quella rotatoria sulla Padana Superiore, da cui eravamo partiti per la prima ricognizione.
Da quella rotatoria, guardando verso est, si nota un cavalcavia con un cartello che annuncia la strada Est Ticino. Imboccando quel percorso, dopo un centro commerciale termina l’abitato di Magenta, e la strada prosegue molto stretta attraversando prima un quartiere di Robecco, poi dopo uno stretto ponte sul Naviglio e la zona industriale imbocca la circonvallazione di Abbiategrasso, dove si raccorda con altre direttrici.
Un giro fra strade locali e aggirando centro storici semipedonalizzati, per adesso. Solo per adesso, perché come si vede bene anche nella tavola infrastrutture del Piano territoriale provinciale, da quella rotatoria sulla Padana dovrebbe partire, nella direzione opposta a quella per Malpensa, anche il cosiddetto “Collegamento veloce Abbiategrasso-Tangenziale Ovest”. Che da Magenta attraversa tutte le aree “libere” a nord del Naviglio fra i territori comunali di Robecco e Cassinetta di Lugagnano, e più o meno all’altezza del nucleo di Albairate si innesta sul tracciato della provinciale esistente che taglia trasversale la profondità del Parco Sud fino a ricongiungersi alla Tangenziale Ovest, svincolo di Cusago.
Non è un caso che le opposizioni più decise a questo nuovo raccordo che appare slegato da esigenze locali e “ orientato a servire traffici di lunga percorrenza[3]” vengano da parte del comune di Cassinetta di Lugagnano, significativamente impegnato in un nuovo documento di Piano di Governo del Territorio orientato alla “crescita zero”, ovvero al contenimento massimo del consumo di suolo. Con il nucleo centrale urbanizzato compatto e circondato dalla corona delle aziende agricole, che come si intuisce anche solo osservando il tracciato della nuova arteria vedrebbero gravemente compromessa l’unitarietà insediativa e funzionale. E questa opposizione di principio, alla logica stessa che sottende quanto a prima vista apparirebbe come un forse inadeguato ma abbastanza innocuo adeguamento viabilistico (paesaggio e agricoltura a parte, naturalmente), si capisce meglio scorrendo i paragrafi iniziali di un altro documento di Osservazioni al progetto, dove a titolo di premessa si afferma, più o meno: si discute di seguito il collegamento Magenta-Abbiategrasso-Milano, ma lo sappiamo anche noi, che state pensando alla Tangenziale Sud.
In particolare: “ La reale finalità del progetto è quella di creare un nuovo tassello per la realizzazione di quel secondo anello tangenziale di cui si parla oramai da più di quindici anni e che recentemente è tornato alla ribalta anche con i progetti Pedemontana e Tangenziale Est esterna (e che il Ministro Lunardi chiama Grande raccordo Anulare, sul modello di quello romano). Non possiamo non evidenziare, con un certo sgomento, le ripercussioni, da un punto di vista urbanistico, sul territorio della provincia milanese” [4].
Ecco, di cosa si sta parlando.
Ecco, qual è il senso complessivo di quelli che vengono presentati e discussi sulla stampa come “opere”, e che invece sono soltanto tasselli di un grande piano di dimensioni più che metropolitane, e che va anche ben oltre il pur enorme anello della viabilità di tipo autostradale e delle opere di raccordo connesse.
Val la pena tornare, ancora, al vecchio raccordo Autolaghi-Malpensa, a cos’era negli anni ’60 e cosa è diventato oggi, coll’impasto di capannoni, villette, sotto e sovrappassi buttato lì un po’ a caso, quasi si trattasse di un’autostrada urbana entrata a tagliare il vivo dei quartieri preesistenti, e non di corsie posate più o meno nel vuoto delle campagne fra l’abitato di Busto Arsizio e quello di Gallarate. O magari, col senno di prima e di poi, farsi un giretto dall’altra parte dell’area metropolitana, oltre i ponti sull’Adda a vedere cosa sta provocando il tracciato virtuale della Bre.Be.Mi. prima ancora che venga mossa una zolla di terra dei cantieri. Centri commerciali, nuove zone artigianali, bretelle, raccordi, rotatorie, circonvallazioni, e a colmare il poco che resta qualche bel nuovo quartiere di villette “a dieci minuti da …”.
Naturalmente questa T.O.M. Traiettoria Orbitale Metropolitana non la si vede su nessuna mappa, così come non si vedono ancora le formazioni compatte dei nastri di capannoni che arriveranno prima o poi a popolarla, cancellando definitivamente qualunque idea di territorio agricolo o greenbelt, per quanto discontinua. Ma basta ricalcare con un dito la Pedemontana e poi proseguire verso sud a piacere: verso Malpensa sul lato ovest parallelo al Ticino, lungo la TEM a est, su quello dell’Adda. Da un lato si arriva, come detto, a quella rotatoria della Padana Superiore sulla circonvallazione di Magenta. Dall’altro, ancora virtualmente, ci si raccorda dalle parti di Melegnano con tracciato della A1, nelle campagne che puntano verso la zona di Bascapè, ancor oggi posto famoso solo perché ci è caduto l’aereo di Mattei tanti anni fa. Ma l’idea c’è, e ben chiara, come spiega ad esempio un articolo trovato abbastanza a caso sul web e che decanta le potenzialità di un centro logistico collocato lungo “ il tracciato della futura tangenziale esterna sud di Milano, che partendo da Agrate (A4) raggiungerà Melegnano, Binasco e l’aeroporto di Milano Malpensa” [5]. Quel centro si trova adiacente all’abitato di Lacchiarella, lungo la Melegnano-Binasco, a qualche centinaio di metri dal berlusconiano Girasole, guarda caso posizionato lungo la medesima direttrice. Che conclude logicamente la T.O.M nel tratto residuo, dai campi di Bascapè a quelli di Cassinetta di Lugagnano.
E iniziano ad assumere senso più compiuto e meno episodico, anche dal punto di vista di una vera e propria strategia territoriale, ad esempio le cosiddette varie proposte “ammazzaparchi” che tante polemiche continuano a suscitare. Oppure il nuovo progetto di legge lombardo che nel caso di opere a carattere autostradale mira alla “ valorizzazione massima delle aree infrastrutturali, comprese le aree connesse” [6], ovvero a promuovere insediamenti a nastro di carattere prevedibilmente commerciale e di servizio, e altrettanto prevedibilmente assai simili a quanto visto crescere sinora nei casi analoghi.
Si capisce anche meglio qual’era e qual è, il vero oggetto del contendere dei sindaci delle fasce esterne vogliosi di “nuove espansioni urbane”. Che solo in minima parte pensano a servizi per i propri cittadini, o ai – piuttosto pateticamente - citati nuovi alloggi per le giovani coppie costrette altrimenti a cambiare comune. I nuovi e certamente non piccoli quartieri di espansione residenziale andranno invece quasi certamente ad offrirsi ai milanesi priced-out dall’enorme processo di trasformazione e “valorizzazione” urbana del capoluogo. I nuovi insediamenti produttivi, commerciali, di servizio avranno invece la classica crescita a nastro indifferenziata vista sinora, a rafforzare l’effetto barriera dell’infrastruttura stradale e a spingere forse verso la realizzazione di nuove radiali a raccordo fra i due anelli.
Per la grande fascia di verde agricolo pare scontata con queste premesse la scomparsa in quanto tale, con buona pace dei mercatini di vendita diretta dei “prodotti del territorio” lanciati di recente a Milano. Auspicando un buon uso delle tecniche di compatibilizzazione e attenuazione degli impatti locali, si può anche sperare in un relativo mantenimento di alcuni corridoi, o magari anche di un sistema con qualche tipo di continuità, come quello tentato ora nel quadro del Piano Territoriale Provinciale nella fascia nord dell’area metropolitana.
Ma forse è il caso di fermarsi per il momento qui, e chiedersi: è questo che vogliamo?
Nota: di seguito scaricabile il pdf di questo articolo con qualche immagine che (forse) aiuta a capire meglio (f.b.)
[1]Andrew Williams, “Traffic goes electric green”, Green Futures, 15 aprile 2008
[2] Guido Martinotti, “La Città Diffusa: costi e vantaggi”, intervento al Festival Città Territorio, Ferrara 18 aprile 2008
[3] Alfredo Drufuca, Osservazioni al progetto preliminare del collegamento tra la SS11 a Magenta e la Tangenziale Ovest: aspetti trasportistici, giugno 2003
[4] Associazione Parco Sud Milano – EcoAlba Albairate – NaturArte Magenta – Legambiente circolo “I Fontanili” Cisliano – Comitato per il Programma Mab nel Parco del Ticino – Il Germoglio Cisliano, Osservazioni in merito al progetto denominato “Collegamento tra la SS11 “Padana Superiore a Magenta e la Tangenziale ovest di Milano”, 2004
[5] Marco Cattaneo, Milano Logistic Center: un nuovo Polo per il Sud Milano, sito http://www.logisticamente.it 9 luglio 2003
[6] Regione Lombardia, progetto di Legge n. 0226, Infrastrutture di Interesse Concorrente Statale e Regionale, presentato il 3 aprile 2008
La grande pesca nel mare dei quattrini dell’Expo è cominciata. I primi a farsi decisamente avanti sono stati i costruttori: il loro presidente, Claudio De Albertis, ha scritto al sindaco rivendicando spazio e ruolo per le imprese milanesi. Dando per scontato l’ovvio interesse economico della categoria, il discorso di De Albertis va giustamente al di là e fa trapelare il disagio dei costruttori. Da almeno un ventennio la pubblica amministrazione, primo committente per dimensioni, ha imboccato la strada dei mega-appalti anche attraverso l’accorpamento. Un esempio per i non addetti: se ho da sistemare dieci immobili sparpagliati per la città li impacchetto tutti in un unico appalto e li assegno a un’unica grande impresa. Potrei fare dieci appalti distinti ma con la scusa della razionalizzazione scelgo la strada più comoda e meno faticosa (e meno responsabile). Si sono visti così accorpare ospedali, edifici pubblici, strade di tutti i tipi e a Milano perfino la manutenzione del verde. Le conseguenze si sono viste: proliferare di subappalti in cascata e generale dequalificazione tecnologica del settore, ormai composto di un’infinità d’imprese medio piccole e da pochissime grandi, nessuna a livello europeo.
In sostanza con questa politica si è impedita la crescita naturale del settore: chi è nano resta nano e i grandi si sono nel frattempo finanziarizzati preferendo le crescite di valore di Borsa alla crescita tecnologica. D’innovazione non se ne parla da decenni in un settore dove impera una sorta di oligopolio diffuso dei grandi. Lo stesso fenomeno riguarda i progettisti, soprattutto le nuove generazioni, cui non è dato di crescere.
Adesso per l’Expo si parla di 3,2 milioni di opere infrastrutturali e per avere un’idea delle dimensioni di questo investimento bisogna pensare una cifra che, se fosse solo di edilizia residenziale, consentirebbe la costruzione di 160mila vani, come dire una città di più di 200 mila abitanti. A questa cifra, già impressionante, si devono aggiungere gli investimenti indotti.
Tra le preoccupazioni di chi s’interroga sull’uso successivo delle costruzioni e vede il pericolo di uno tsunami urbanistico e ambientale se ne aggiunge un’altra: questo gigantesco investimento lascerà sul territorio un giacimento d’imprenditorialità, di professionalità e di cultura proporzionato alla sua mole? Tutto dipende da come saranno gestiti questi soldi. L’amministrazione non può venir meno all’impegno di far crescere la realtà locale e di crescere essa stessa. Dove sono le risorse pubbliche per progettare, dirigere e collaudare tutte queste opere? La tentazione sarà di passare la mano ai privati ma le recenti esperienze che hanno portato al progetto Citylife sull’area della Fiera non sono un buon viatico. L’interesse collettivo non è appaltabile. Tra le molte commissioni, una che si occupi di valorizzare in modo permanente questo investimento forse non c’è. Se ci fosse, tra le tante considerazioni su cui dovrebbe riflettere ve n’è una importante: più è lunga la catena tra committente e manovale di cantiere più ci sono morti bianche e dequalificazione produttiva del territorio.
Sua maestà il piccone
Filippo Ceccarelli
Ah, la tentazione ricorrente del piccone! Metaforico, quando stava per crollare la Prima Repubblica, quello impugnato dall´allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Ben reale, una quindicina di anni dopo, quello evocato dal novello sindaco di Roma, Gianni Alemanno, che per un paio di giorni, appena eletto, ha lasciato credere di voler rimuovere la grande teca o la scatolona di travertino, se si preferisce, entro cui l'architetto newyorchese Meier ha racchiuso l'Ara Pacis. «Intervento invasivo da rimuovere»: questa la formula.
Poi è anche vero che Alemanno ci ha ripensato, relegando il proposito nell'elenco, invero senza fine, delle «non priorità». Eppure quel riflesso distruttivo è bastato ad accendere l'immaginario. È ricomparso il fatidico strumento, manico di legno, ferro compatto, robuste braccia a vibrare i colpi, rumore sordo e tutto intorno nuvole di polvere e calcinacci. Era un po' che non accadeva.
Nel merito, la prospettiva demolitoria sarebbe da considerarsi anche a livello di ipotesi del tutto ansiogena, l'ultimo atto di una «disgraziata saga», come a suo tempo l'ha inquadrata Arbasino, «un pasticcio di patate bollenti» in cui da tempo l'architettura e il potere si confrontano con risultati pessimi per entrambi.
Si pensi che appena tre anni e mezzo impiegarono gli antichi romani a scolpire quei marmi in onore dell´imperatore Ottaviano Augusto; mentre più di dieci anni ci sono voluti, dopo due millenni, per smantellare la vecchia teca-acquario del Morpurgo, frettolosamente allestita nel 1938, e costruire l'odierna e controversa vetrinona.
Un decennio segnato da sventure e litigi, il traffico rallentatissimo sul lungotevere, lo sciopero della fame di Sgarbi, il rogo solenne di un plastico, e disfide, capricci, vendette anche trasversali fra «archistar», messa in pista di commissioni consultive e correttive, pronunciamenti plurimi, da Italia Nostra alla Corte dei Conti, avvertimenti delle sovrintendenze e comizi di An con tanto di attivisti mascherati da centurioni; senza contare le fantastiche visite al cantiere dello stesso Meier, distratto, sudato e giulivo come in un film di Fellini, «Very nice, very nice».
Ecco insomma in quale contesto si colloca l'eventuale ri-picconamento del manufatto - che Iddio lo risparmi alla capitale e alla sua già provata cittadinanza. E magari l'enigmatica collocazione della teca in una non meglio precisata periferia. Eppure, come ti sbagli, a ogni cambio di equilibri politici lo spirito devastatore e il culto del piccone e della palla d'acciaio tornano a colorare la vita pubblica. Così come è sicuro - l'una cosa tira l'altra - che il nuovo potere prima o poi cercherà anch'esso di celebrarsi a suon di monumentali celebrazioni, come del resto succede in tutto il mondo. Vedi i risoluti progetti urbanistici del neo eletto sindaco di Londra, Boris Johnson; come pure la vicenda dei grattacieli milanesi di CityLife, le tre torri sghembe e pendule di Libeskind a proposito delle quali il presidente Berlusconi, contrarissimo come Celentano, si è concesso un'ardita valutazione fallico-urbanistica, com'è ovvio a maggior gloria del suo potere, anche sessuale.
Ma a Roma tutto diventa più complicato e al tempo stesso addirittura illuminante. Così conviene notare un che d'imperioso nel modo in cui Alemanno ha posto la questione di «liberare» il centro storico della capitale da tutti gli altri «sfregi» immaginati, pianificati o già procurati dalle amministrazioni di sinistra. Con il che si andrebbe dalla rimozione dei tubi Innocenti sul Colosseo al rifiuto di procedere con il maxi-parcheggio del Pincio, dall'idea di lasciare i sanpietrini di via Nazionale al riadattamento dell'originale statua di Marco Aurelio sul Campidoglio, a parte gli interventi di più specifica e detonante ispirazione sgarbiana tipo «bombardare» gli ascensori del Vittoriano o richiedere all'Etiopia la stele di Axum. Scherzava l'altro giorno l'architetto Fuksas: «Chissà che Alemanno non decida di ripristinare anche la Spina di Borgo, sciaguratamente distrutta nel ventennio», per far posto a via della Conciliazione sgombrando la vista di piazza San Pietro.
Ma è uno scherzo, questo di Fuksas, più che paradossale, nel senso che solo a Roma, forse, il piccone della destra potrebbe abbattersi proprio là dove a suo tempo si era levato quello del regime fascista. A riprova di come qui e solo qui il potere sia obbligato, condannato o forse abbia la più spontanea, vitale e inesorabile compulsione di tornare sul luogo del delitto.
E non si irriti né si dispiaccia Alemanno, ma è sempre e ancora a lui che si torna: alla Buonanima. C'è una quantità di filmati e fotografie che illustrano Mussolini, in borghese come in divisa da generale della Milizia, che con quell'utensile in mano assesta dei colpi pazzeschi. Per strada, sui terrazzi, da solo o contornato di gerarchi, comunque davanti a obiettivi e cineprese il duce buttava giù muri alle pendici del Campidoglio, tra le casupole di Borgo, attorno all'odierna via dei Fori Imperiali, di qua e di là del Tevere, inaugurando quegli sventramenti che modificarono a fondo l'assetto della capitale - e anche offrirono potenti e malinconici paesaggi alla mirabile serie di Demolizioni, appunto, eseguite praticamente dal vivo da Mario Mafai.
Si deve a Mussolini, che del giornalista di vaglia aveva tutto l'estro rapido e creativo, il successo non solo semantico della formula picconatoria. Teorizzata in Senato il 18 marzo del 1932, alla presentazione del Piano regolatore di Roma: «Un conto, o signori, sono i monumenti, un conto sono i ruderi, un conto è il pittoresco o il cosiddetto colore locale. Quest'ultimo, il pittoresco sudicio è affidato - e qui il duce assestò la zampata semantica: - a sua maestà il piccone». Tutto era destinato sotto la sua poderosa spinta a crollare, «e deve crollare - secondo il programma mussoliniano - in nome della decenza, dell´igiene e, se volete, anche della bellezza della capitale».
E si aprì l'era del «piccone risanatore». Per Mussolini attrezzo-simbolo di un attivismo frenetico che Roma e la sua architettura passata e futura - lo spiega molto bene Emilio Gentile nel suo recente Fascismo di pietra (Laterza) - finiva per considerare come arsenale di miti, deposito di destini imperiali, ma anche bersaglio di risentimenti che il duce nutriva fin dalla giovinezza nei confronti della città eterna.
Il modo in cui la polverizzazione di interi quartieri veniva allora presentata colpisce per i toni che a prescindere dalla limpida prosa e dal ritmo che vi imprime Ugo Ojetti in Cose viste, un pochino francamente ricordano l'accentuata personalizzazione di certe odierne cronache. E dunque: «È in atto la volontà di Benito Mussolini. Archeologi, architetti, soprastanti, manovali lavorano, si può dire, per lui, aspettano la visita sua, il consenso suo, quel sorriso che comincia in un lampo degli occhi, e talvolta si ferma lì. Tanto che sera per sera, ora per ora, egli è informato d'ogni ritrovamento e d'ogni nuovo problema; che anzi dalla sua finestra di Palazzo Venezia s'affaccia spesso a osservare le squadre che lavorano al Foro Traiano e se gli sembra che siano più rade e più lente, dopo un attimo un suo messo piomba lì a svegliare i dormienti».
Ora, limitando al minimo i paragoni: è possibile che il duce detestasse una certa Roma, molle e pantofolaia, assai più di quanto Alemanno e i suoi ce l'abbiano con le terrazze, le mostre, i loft, il red carpet di Veltroni o le feste di compleanno di Bettini. Ma certo colpisce come, fra tanti luoghi di questa città d'infinita storia, il nuovo sindaco sia andato ad evocare il piccone proprio là dove il fascismo s'era ben esercitato per impiantare la sua effimera mitologia.
Potere e magia delle coincidenze. Dietro l'Ara Pacis, tra cipressi polverosi, circondato da ingombranti e marmorei palazzoni di stile razionalista, insieme a una nutrita colonia di gatti riposa il Mausoleo di Augusto, già Auditorium dell'Urbe. Mussolini era assai superstizioso, e quindi non si diceva, ma il progetto era di fare di quel monumento circolare l'ultima sua dimora, la tomba più grandiosa e anche megalomane che si potesse immaginare.
Poi si sa com'è andata a finire - anche se a Roma non finisce nulla. Alle spalle della teca di Meier continua ad aggirarsi il fantasma quasi gemello di Cola di Rienzo, il cui cadavere venne bruciato proprio da quelle parti.
Sono le glorie e le magagne, le suggestioni, le tigne e i ribaltamenti della città eterna. Pare superfluo ricordare, a questo punto, che non c'è piccone che possa resisterle.
La lunga marcia dell'archistar dal committente-re al consenso
Franco La Cecla
Cosa distingue una buona architettura da una cattiva, un contributo prezioso allo spazio pubblico di una città da un intruso con pretese monumentali? È difficile dirlo in generale. Si cita il caso della Tour Eiffel, aborrita alla sua costruzione dai parigini, ma poi divenuta simbolo collettivo, un po' quello che è successo con il Centre Pompidou molti anni dopo. Chi cita questi casi lo fa per difendere l'arbitrarietà dell'architettura, l´essere in fin dei conti solo una questione di conflitto tra il genio dell´artista e la poca lungimiranza delle masse. I due casi però raccontano il contrario, e cioè che soltanto quelle opere che i cittadini riescono ad assimilare nel proprio mondo conscio e inconscio, a cui riescono ad attribuire un forte significato condiviso, hanno fortuna. L'idea che il genio architettonico debba sempre essere in conflitto con il sentire comune è una idea recente e piuttosto balzana.
Risente della crisi generale dell'arte e dell'architettura che a più riprese ha segnato gli ultimi cento e più anni. Prima di allora gli artisti e gli architetti sapevano bene di avere un controllo ben preciso da parte dei committenti, fossero essi regnanti, dittatori, principi o ricchi capitalisti americani. Nel periodo tra le due guerre gli architetti e gli artisti si sono sentiti impegnati come avanguardie della società, al servizio del cambiamento e della modernizzazione. Come tali spesso erano più al servizio di ideologie che al servizio dei cittadini. Quando le ideologie sono finite, negli ultimi decenni del Novecento, gli architetti hanno seguito gli artisti nel distacco dalla realtà sociale, nell'idea di essere non più avanguardia, ma semplicemente genio sregolato, e allo stesso tempo trend-seekers, cioè non professionisti al servizio della società, ma élite mediatica, produttori di quella cosa di cui oggi è fatto il grande mercato della moda e delle tendenze.
Il problema è che le opere degli architetti non rimangono chiuse nelle gallerie e nei musei, ma diventano luoghi, parte del contesto che crea il paesaggio quotidiano dei cittadini. E i cittadini giudicano, condannano o (a volte) accettano le architetture che vengono loro imposte da solerti amministratori in cerca di glamour mediatico. Le archistar, per quanto continuino a fare finta di essere artisti ingiudicabili (mai dire loro che al massimo sono stilisti di moda, ma questi sono più umili, più attenti allo streetstyle), devono accettare che è il pubblico che usa, fa e consuma una città ad essere il primo giudice.
Gli amministratori, i politici spesso sono complici di questo atteggiamento. Allora, se un sindaco vuole smontare una architettura lo faccia, ma stia attento che a Roma ci sono molti altri monumenti che la gente ancora non sopporta. Vorrà egli smontare anche la macchina da scrivere nazionale, alias l'Altare della Patria? E è davvero affar suo o non sarebbe il caso che almeno lui che è un eletto dal popolo, ascolti i suoi cittadini?