Le città dovrebbero eliminare le auto a motore entro il 2050, ma non ci sono limiti stringenti per arrivarci. L'auto “pulita” resta un'utopia». Www.sbilanciamoci.info, 28 marzo 2014
L'Europa si richiama costantemente alla mobilità sostenibile, ma poi quanto si tratta di passare da Piani e Libri bianchi a direttive, finanziamenti e regole stringenti, molte restano buone intenzioni. Nel 2011 la Commissione europea ha adottato il nuovo Libro bianco sui trasporti "Per una politica dei trasporti competitiva e sostenibile" – nel tentativo davvero complesso di coniugare l'incremento della mobilità e la riduzione delle emissioni, con una strategia di ampio respiro e dal lungo orizzonte temporale fino al 2050 quando i trasporti dovranno ridurre del 60% le loro emissioni.
Le città entro il 2030 dovranno dimezzare l'uso delle auto con il motore a scoppio ed eliminarle del tutto entro il 2050. Sempre nella stessa data la maggior parte del trasporto di medie distanze dei passeggeri deve avvenire mediante ferrovia. Entro il 2030 almeno il 30% del trasporto merci che superi i 300 km deve utilizzare la ferrovia o la via d'acqua. Questa quota dovrebbe raggiungere il 50% entro il 2050. Nel trasporto aereo il Libro bianco propone di aumentare l'uso di carburanti a basse emissioni fino a raggiungere il 40% entro il 2050.
Nel trasporto marittimo occorre ridurre del 40-50% le emissioni di C02 derivate dagli oli combustibili entro il 2050. In concreto però nessuna nuova direttiva con limiti più stringenti è stata adottata, tutto si riduce a una proposta. (vedi il sito www.transportenvironment.org delle principali ong che vigilano sulla politica dei trasporti a Bruxelles).
Altri obiettivi rilevanti sono il completamento entro il 2030 della rete infrastrutturale Ten-T e il dimezzamento entro il 2020 della mortalità stradale, puntando all'obiettivo "zero vittime".
Non mancano debolezze e criticità in questo Libro bianco sui trasporti. In primo luogo la scarsa considerazione per i problemi del trasporto urbano (oltre due terzi della mobilità): è confermata la necessità del potenziamento del trasporto collettivo, della bicicletta e delle aree pedonali, ma poi si affida un ruolo chiave all'auto pulita, tralasciando i problemi di congestione, di uso dello spazio urbano e di pianificazione territoriale. Su questi temi il Consiglio europeo ha adottato nel 2010 il Piano d'azione per la mobilità urbana, che contiene ottime indicazioni strategiche, ma purtroppo ha scarsa attuazione, soprattutto in Italia.
Per l'auto "pulita" si punta su ricerca, innovazione tecnologica e carburanti alternativi, ammettendo che questo obiettivo è ancora molto lontano dalla soluzione. A tale scopo è stato approvato lo scorso anno "Cars 2020, Piano d'azione per una competitiva e sostenibile industria automobilistica" che, partendo dalla crisi del settore, punta al suo sostegno e rilancio. Alcuni obiettivi, come la riduzione delle emissioni di C02 per i veicoli, sono condivisibili, ma non si punta sulla necessità di ridurre il mercato dell'auto in Europa, che essendo maturo può solo essere un mercato sostitutivo.
L'esperienza concreta di questo decennio ha dimostrato che ogni positivo incremento di efficienza di automobili e veicoli stradali è stato divorato dall'aumento della potenza e dall'aumento dei chilometri percorsi, producendo alla fine un incremento significativo delle emissioni di C02, passate dal 23% al 28% nel settore dei trasporti e quindi fallendo ogni obiettivo di riduzione del 6,5% rispetto ai dati del 1990, fissato dal protocollo di Kyoto. Ed è solo per effetto della crisi che in Italia dal 2008 le emissioni nei trasporti hanno cominciato a scendere, ma adesso in Europa si discute dei nuovi obiettivi di riduzione con la strategia al 2030, quindi non basterà puntare solo sull'auto "pulita".
Un'altra criticità è rappresentata dalle reti Ten, che anche in questo Libro bianco costituiscono un pezzo essenziale della strategia, identica al ruolo centrale assegnato in Italia dalla politica alle grandi opere strategiche previste dalla Legge obiettivo, senza una efficace selezione e con costi pubblici insostenibili.
Il Libro bianco 2011 quantifica in 550 miliardi di euro il fabbisogno europeo di risorse fino al 2020 per il completamento delle reti Ten-T e arriva a 1500 miliardi di euro che servirebbero entro il 2030 per sviluppare le infrastrutture di trasporto. Risorse pubbliche e private non disponibili in ambito pubblico né privato e che rendono questi obiettivi sbagliati e fallimentari. Anche in Europa dunque, bisogna cambiare strada.
I provvedimenti della fine dell’800 per costituire una zona monumentale (1887), dal Campidoglio all’Appia, erano finalizzati all’avvio su larga scala di interventi di conoscenza e valorizzazione di una parte importante della città che si sarebbe aperta così al grande ambito dell’AA, fino ed oltre i confini del Comune di Roma.
L’abbandono di questo percorso ha lasciato il posto alla trasformazione di quella zona, intesa unitariamente per i complessi monumentali, con strade di grande scorrimento che si riversano da un lato verso il centro della città dall’altro sull’AA. Si sono comunque potuti realizzare interventi per le singole realtà monumentali che sono però rimaste disgregate, in un contesto inadeguato, mentre la zona mantiene ancora un elevato potenziale per l’uso e l’accessibilità al patrimonio archeologico e per un recupero urbanistico.
L’interesse eccezione che la cultura moderna ha rivolto all’Appia ha fatto si che se ne sancisse la salvaguardia integrale nel PRG del 1965, collegata direttamente alla zona monumentale. Questo atto, arrivato insperatamente dopo anni di denunce, appelli, proposte, in particolare di Antonio Cederna ma anche di altri illustri personaggi, con l’impegno forte dello Stato di porre fine alle gravi ferite procurate all’Appia, con costruzioni di edifici, ville e strade, destinava l’intero territorio (allora 2500 ettari) a Parco Pubblico, per il godimento della collettività. Successivamente vi è stato lo Studio di Italia Nostra pubblicato nel 1984 al quale di fatto non ha seguito alcun altro studio adeguato per l’assetto di questo ambito fino al PTP 15/12 del 2010.
Al posto di un Parco Archeologico, in continuità con l’area archeologica centrale, nel 1988, è stato istituito un Parco Regionale (che sottolinea ancora di più questa divisione iniziando da fuori le mura aureliane), definito e gestito con impostazione naturalistica, secondo la legge regionale 29/97 (derivata dalla legge quadro 394/1991), che include la zona nelle aree naturali protette, nella cui amministrazione non vi è alcuna rappresentanza delle Soprintendenze e del Ministero, inadeguato alla difesa, alla valorizzazione e all’accrescimento di un patrimonio archeologico e monumentale di eccezionale rilevanza (che genera confusione e conflitti di competenze). Tale compito è rimasto affidato alla Soprintendenza Archeologica di Stato che, con strumenti ordinari, ha portato avanti un programma per la cura della tutela e per la valorizzazione del patrimonio (circa 1850 ettari con vincoli archeologici specifici e circa 3980 con vincolo archeologico paesaggistico, art. 1, lettera m).
Un primo problema per l’Appia dunque è quello della definizione, nell’equivoco che si tratti di un Parco Archeologico.
Un secondo problema è quello normativo: il PTP 15/12 del 2010 Appia, Caffarella Acquedotti, redatto in forma partecipata e condivisa tra tutte le istituzioni è strumento prevalente dall’entrata in vigore del Codice, il Piano del Parco, ai sensi della legge 29/97, non ancora approvato, redatto dall’Ente in autonomia, con la finalità principale di proteggere gli habitat naturali (non diversamente da come è per i Monti Simbruini), dovrebbe oggi essere adeguato al PTP e in tale procedimento dovrebbe essere assicurata dalla Regione la partecipazione degli organi del Ministero (comma 5 dell’art. 145). Per questo sarebbe necessaria una modifica della legge 29/97, diversamente a mio avviso si è nella piena irregolarità. Si può facilmente comprendere quanto grave sia la contraddizione normativa in seno alla Regione stessa che affida a due strumenti diversi la pianificazione e gestione del territorio, azioni che dovrebbero considerarsi complete con il PTP e con le procedure dell’autorizzazione paesaggistica.
Un terzo problema, di conseguenza, è nel governo di questo territorio, con l’esistenza di un Parco Regionale che non può occuparsi del patrimonio archeologico e paesaggistico (non ne ha titolo e competenza), Roma Capitale che mantiene le competenze sugli aspetti urbanistici e della mobilità/viabilità, e con un patrimonio culturale di competenza dello Stato e parte del Comune. Qui infatti convivono tutti i problemi della città pur con il continuo riferimento a un Parco.
La mancata attuazione delle previsioni del PRG, totalmente disattese ad eccezione di una parte della Caffarella, l’incapacità delle amministrazioni locali, Regione e Comune di far rispettare i vincoli urbanistici di inedificabilità, l’inerzia di parte degli organi del Ministero hanno portato alla seguente situazione:
Abusivismo. Nonostante i vincoli a tutela del patrimonio archeologico e paesaggistico che va considerato unitario, nonostante la legge regionale del Parco, l’abusivismo ha qui assunto dimensioni di cui tutti dovrebbero vergognarsi, privati che hanno commesso le violazioni, amministrazioni tutte che hanno lasciato che questo diventasse lo stato di fatto gravissimo con cui oggi doversi confrontare, motivo di infiniti contenziosi amministrativi derivati dalla necessità, almeno da parte della mia Soprintendenza, di applicare le regole. Un rapporto di questa realtà è stato redatto dallo studio di Vezio De Lucia.
Proprietà. Le aree di proprietà pubblica oggi sono una percentuale inconsistente in relazione alla quasi totalità di proprietà privata, (circa cinquanta ettari in consegna allo Stato con la strada, la Villa dei Quintili, la Villa di Sette Bassi e altri complessi più piccoli e 140 ettari circa del Comune di Roma tra Caffarella e complesso di Massenzio al III miglio…). Siamo molto lontani dalle previsione del PRG che con lungimiranza aveva previsto l’acquisizione pubblica di tutto l’ambito ritenendo che solo così sarebbe stato possibile salvaguardarlo.Traffico. Nessuna iniziativa è stata mai adottata per limitare il traffico veicolare, anche di mezzi pesanti, che affligge tutto il primo tratto della Via Appia, fino alla Basilica di S. Sebastiano e le vie limitrofe. Questo impedisce ogni possibile fruizione con difficoltà per l’accessibilità alla strada e ai monumenti con scarsi o inesistenti servizi pubblici.
Nell’assenza di un piano adeguato alla complessità dei suoi valori, l’Appia non prende forma nel modo giusto, destinata a subire l’assalto dell’interesse privato che rischia di essere l’unica opportunità alla quale vi è sempre più la tendenza a ricorrere.Nonostante la grande difficoltà di operare in una situazione critica come questa, in pochi anni, dove è stato possibile intervenire, con metodologie eccellenti, messe in campo nella ricerca, nel restauro e nella valorizzazione, si è dimostrato che è concreta e realizzabile la possibilità di recuperare e rendere disponibile questo patrimonio alla fruizione pubblica, attraverso i processi della conoscenza, proiettando il modello del risultato ottenuto su una scala più ampia. E’ il caso del Mausoleo di Cecilia Metella con il Castello Caetani e la chiesa di San Nicola, del sito di Capo di Bove, acquistato nel 2002, da villa privata trasformato in luogo per la fruizione e centro di ricerca e documentazione, della Villa dei Quintili che scavi, restauri e allestimenti hanno trasformato in una delle aree archeologiche più attraenti d’Italia, dei restauri e della cura continua della Via Appia, di cui si è ridefinita la proprietà con l’avvenuta consegna dal parte del Demanio alla Soprintendenza di tutto il tratto dal IV miglio in poi, che proviamo a trattare come un monumento, con un impegno straordinario al quale non vogliamo sottrarci perché lo consideriamo inevitabile. Tra gli interventi più importanti si devono ricordare anche l’interramento del GRA e la ricucitura della grave ferita per ripristinare la continuità della strada (realizzato a cura della SSBAR); l’acquisizione e il restauro ambientale e monumentale della Caffarella, a cura del Comune di Roma (da tempo però privo delle necessarie manutenzioni).
Da ultimo l’acquisto nel 2006 della tenuta di S. Maria Nova, dove si sta riscoprendo la storia attraverso i secoli, che permetterà a breve di aprire questo complesso con la Villa dei Quintili dall’AA.
In questi anni non ci si è limitati a scavare, restaurare, conoscere, abbiamo cercato di restituire al pubblico pezzi di patrimonio, nell’ottica di un sistema e di un “laboratorio di mondi possibili”, (non è uno slogan, è una realtà tangibile, se si pensa solo agli acquisti che hanno trasformato ville private in luoghi per la conoscenza e la fruizione pubblica), raccontando attraverso mostre fotografiche e filmati (che sono presentati a Capo di Bove) la storia infinita della tutela dell’Appia. Abbiamo ideato e organizzato per due anni il festival Dal Tramonto all’Appia, con aperture prolungate alla notte, eventi culturali di ogni genere per far godere una pezzetto di Appia in modo diverso, secondo lo spirito dell’originaria estate romana. La via Appia si presta a diventare un luogo in cui si sperimentano nuove forme di conservazione del patrimonio culturale e paesaggistico e si da vita a progetti legati al progresso civile della Città e alla qualità di vita dei cittadini. Un po’ come è accaduto presso il muro di Berlino dopo la sua caduta: al suo posto una ferita da curare attraverso impegno civile, creatività, partecipazione, sperimentazione di nuovi modelli sociali; così l’Appia, pur con le sue numerose ferite rappresenta, l’apertura a nuovi mondi possibili, come sito archeologico di primaria importanza, come paradigma dell’ambiente, della cultura, con la civiltà romana e cristiana, della persona come spazio per il diletto.
Rapporto pubblico privato. Eventuali privati che vogliano sostenere con contributi economici la via Appia possono collaborare a una graduale, importante rivoluzione culturale. Oltre a contribuire alla conservazione di un monumento fondamentale patrimonio dell’umanità possono partecipare ad innalzare il livello civile della città, a rendere Roma punto di riferimento mondiale per nuovi temi e innovazioni. Questo deve accadere non per la carenza di risorse dell’amministrazione pubblica ma per consentire anche a privati di partecipare a una grande impresa culturale, che s’intende sempre di esclusivo interesse pubblico e condotta con le modalità della gestione della cosa pubblica (come è avvenuto per la Piramide di Caio Cestio). Con l’assunto che dare visibilità all’Appia significa non portare il caos sull’Appia ma portare la tranquillità dell’Appia all’esterno, dando impulso al ruolo formativo ed educativo delle azioni.
Come dare vita al Progetto archeologico per Roma, a questa ininterrotta porzione di città adibita a complesso archeologico/naturalistico consegnato ai cittadini e alla città, dal Campidoglio ai piedi dei Colli Albani?
Si può parlare genericamente di “Parco Archeologico” per indicare un’area estesa con particolare concentrazione di antichità, ma il termine non ha ad oggi rilevanza giuridica. Numerose commissioni ministeriali hanno affrontato l’argomento senza giungere a conclusioni concrete. E’ a mio avviso opportuno riempire questo vuoto normativo per poter dare all’intero ambito la definizione giusta, anche al fine di attribuire agli interventi l’indirizzo adeguato ai reali valori di questo ambito e le competenze del suo governo. Tale criticità deve essere risolta con un atto di volontà da parte del Ministero, d’intesa con Regione e Roma Capitale, per la condivisione di un progetto che avrà ricaduta internazionale per lo sviluppo della città e del turismo.
Questo dovrà essere fatto anche con l’ascolto delle Associazioni più vicine a questi temi e dei cittadini che spesso hanno svolto un ruolo importante per l’attenzione agli aspetti della salvaguardia del patrimonio della città.
Vi è dunque un pacchetto di possibili azioni da compiere, un pacchetto di progetti, un pacchetto di aspirazioni, al fine dell’istituzione di un luogo organizzato con riguardo ai beni culturali presenti, nella loro complessità, e affinché questi siano messi a disposizione della collettività.
(Legge) Far correggere la legge regionale, istitutiva del Parco Regionale e promuovere con il Ministero e la Regione la definizione di un Parco Archeologico, secondo quanto previsto nel Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio (art.101 e). Per questo è necessario partire dalle reali esigenze di questo territorio, nel riconoscimento dei valori preminenti, evitando sprechi di risorse economiche e umane, piuttosto definendo forme di coordinamento nel rispetto delle competenze istituzionali e nell’interesse della tutela e valorizzazione dell’Appia.
(Traffico e mobilità) Studiare un piano per la drastica riduzione del traffico veicolare improprio, in tutto il primo tratto della strada di competenza di Roma Capitale; la Soprintendenza Archeologica di Stato sta provvedendo ad attivare un controllo con telecamere per i tratto di propria competenza per salvaguardare ciò che resta del monumento Via Appia, con una cura anche nell’arredo e una sperimentazione per l’illuminazione notturna, affinché torni ad essere il museo all’aperto dell’800.Attivazione di un servizio pubblico di mobilità, oltre ai servizi con mezzi elettrici, creazione di “accessi” trasversali con mezzi pubblici, da punti strategici esterni per la riqualificazione anche delle aree di bordo dell’Appia (ad esempio dal parco delle Tombe Latine, dalla zona dello Statuario di fronte alla Villa dei Quintili; attrezzare l’uso del treno che dalla Stazione Termini porta alla Stazione di Torricola, presso l’Appia, in soli 10 minuti; dalla via Ardeatina). Dobbiamo pensare all’Appia non solo come una strada da percorrere dall’inizio e per chilometri ma anche a una vasta area come villa Borghese alla quale accede da punti diversi della città. Per questo occorre eliminare alcuni ostacoli e creare semplici collegamenti che permettano di raggiungere i diversi tratti da quartieri nei quali il cuneo del territorio dell’Appia si inserisce, anche ripristinando antichi tracciati.
(Abusi) Risolvere il problema dei numerosi condoni edilizi in piena collaborazione con le Soprintendenze responsabili per la tutela e ripristinare uno stato di legalità a fronte del fenomeno dell’abusivismo incontrollabile. Solo da poco più di un anno si è messa a punto una procedura condivisa e corretta tra UCE e Soprintendenze. Occorre correggere gli errori assumendo la consapevolezza dell’importanza della strada antica e del suo territorio, con i riconoscimenti che il PRG del 1965 aveva sancito e dare seguito a tutte le azioni che restituiscano all’Appia la dignità di monumento e favorendo lo sviluppo delle aziende agricole.
Creare le condizioni per una migliore fruizione di quanto già è stato recuperato e incrementare il patrimonio pubblico. Non si tratta di investimenti economici impossibili. In cifre:
restauro dell’ultimo tratto della Via Appia, dopo Via di Fioranello (circa 2 milioni e mezzo), recupero funzionale di un’area di 1 ettaro che la Soprintendenza ha ottenuto dal demanio militare, localizzata tra Via Appia e Via di Fioranello, dove regna ora il massimo degrado (qui si può creare un punto di sosta e di ristoro, con parcheggio di auto e scambio con bici e mezzi elettrici) e quest’area può costituire un importante accesso all’Appia all’altezza dell’aeroporto di Ciampino da cui dista pochi passi (circa 2 milioni).Restaurare e collegare la bellissima parte dell’Acquedotto dei Quintili sull’Appia Nuova, con l’Appia Antica (circa 2milioni e mezzo con le acquisizione delle aree private).
Troppi e troppo importanti sono i monumenti ancora in proprietà privata, senza alcuna destinazione particolare o adibiti ad usi impropri. Tra questi voglio ricordare:
I tre Colombari di Vigna Codini, di proprietà dello Stato ma inseriti in proprietà private, con enormi difficoltà di accesso, per i quali va creato un passaggio indipendente, con minime acquisizioni, anche per poter provvedere agli interventi conservativi.
Non derogabile è l’acquisizione pubblica dei mausolei c. d. dei Calventii e dei Cercenii all’angolo dell’Appia con l’Appia Pignatelli, pertinenti al complesso delle catacombe di Pretestato come mausolei sub divo. Da anni in stato di abbandono, intrappolati da tre villette abusive, senza uso. Qui si esercitavano artisti e studiosi fin dal Rinascimento per lo stato di conservazione fino alle volte, oggi a rischio di crolli e assolutamente inaccessibili;Esproprio delle aree del castrum Caetani, almeno di quelle interne per ricostituire l’unitarietà di questo importante complesso medievale a cavallo del III miglio della strada e per ricreare il collegamento con il Circo di Massenzio;acquisizione del sepolcro degli Equinozi…
Complesso di S. Urbano sull’Appia all’altezza di Via dei Lugari, attrezzato nella metà degli anni ottanta per un capriccio privato con tinello, cucina e barbecue, inaccessibile e abbandonato.
Casal Rotondo, il mausoleo privatizzato per la presenza di un edificio sulla sommità, anche questo usato solo per feste, inaccessibile. Si può ritenere che con una cifra di circa 30 milioni (tra acquisizioni e restauri) si possano eliminare le situazioni più scabrose dando un forte segnale di inversione di tendenza.
Mi domando come possiamo consegnare al futuro questa situazione; peraltro il valore di mercato di questi beni è quasi nullo considerato anche il decremento di valore per gli abusi commessi e la possibilità di acquisizione al demanio con la semplice applicazione della legge.
L’Appia si trova incastonata tra l’area archeologica centrale, con la quale non comunica, l’area dei Castelli con la quale si deve migliorare il rapporto di continuità e la città che attraversa, con la quale si devono creare i collegamenti. Per quanto riguarda l’argomento di oggi credo sia inderogabile l’acquisizione di alcune aree strategiche per ricostituire un percorso che non sia solo attraverso i tratti che hanno assunto una connotazione autostradale, come Via delle Terme di Caracalla. Questo non può non prevedere l’acquisizione di alcune aree di straordinario pregio la cui unica destinazione deve essere di contribuire a risanare le ferite prodotte, stroncando ogni possibile iniziativa di usi diversi rispetto a quello di contribuire alla ricucitura della continuità del tessuto storico, in senso moderno.
Dico questo pur nella consapevolezza che al momento vi sono altre visioni, altre tendenze. Negli ultimi quindici anni abbiamo provato a fare molto e anche abbiamo provato a far conoscere quale fosse lo stato delle cose; abbiamo ricevuto una buona attenzione da parte della comunità, scarsa attenzione da parte delle istituzioni, percependo a volte quasi un senso di fastidio o di noia nel sentire ripetere gli stessi argomenti. Per questo ringrazio l’ABB, il suo presidente e tutti gli intervenuti, per aver creato una occasione ancora, magari è quella buona.
L'articolo è la trascrizione dell'intervento tenuto al Convegno "Archeologia e città. Dal Progetto Fori all'Appia Antica", organizzato dall'Associazione Bianchi Bandinelli a Roma, il 21 marzo 2014.Nel sito dell'Associazione sono presenti i materiali iconografici a corredo.
Vivo apprezzamento per la decisionedella giunta regionale di accantonare la proposta del PPS perche’ avrebbe compromesso fortemente il paesaggio della Sardegna
E’ sicuramente un atto di grande significatopolitico e programmatico che il primo atto della giunta regionale presieduta daFrancesco Pigliaru riguardi la salvaguardia del paesaggio della Sardegna, conla decisione di mettere da parte gli ultimi provvedimenti sul PPR della passataAmministrazione Regionale. E’ molto positivo che da subito sia stato approvatoun provvedimento di cancellazione dell’ultima delibera del 14 febbraio edassunto l’impegno ad esaminare a breve la revoca anche della delibera del 25ottobre, a seguito degli opportuni accertamenti procedurali.
Manifestiamo da subitola disponibilità al confronto, con l’augurio che al più presto si giunga all’annullamentodella delibera del PPS del 25/10, come abbiamo ripetutamente richiesto, peraprire una nuova fase che passa per il miglioramento del PPR del 2006, con lacorrezione di tutti gli errori materiali senza stravolgimenti, per darecentralità alla pianificazione innovativa dei Piani Urbanistici Comunali. Voltare pagina rispetto alle disposizioniderogatorie e di stravolgimento della tutela contenute nella proposta del PPS èmolto importante per affermare nei fatti che la salvaguardia dei paesaggi dellecoste e delle zone interne deve costituire la risorsa strategica per promuoverelo sviluppo sostenibile della Sardegna. Negli ultimi anni la Sardegna si ècaratterizzata nel panorama nazionale e internazionale per l’azioneresponsabile nella tutela del paesaggio e nel governo del territorio. Infattil’adozione nel 2006, da parte della Regione Sardegna, del Piano PaesaggisticoRegionale ha rappresentato un evento di rilievo nazionale. È stata infatti laprima volta che una Regione italiana ha approvato un Piano ai sensi del Codicedei Beni Culturali e del Paesaggio (DLgs 42/04), che fa proprie le indicazionidella Convenzione Europea citata.
Il Piano PaesaggisticoRegionale, divenuto esecutivo nel settembre 2006, ha definito il paesaggio comela principale risorsa territoriale della Sardegna e rappresenta oggi ilriferimento principe per il governo pubblico del territorio. Il Piano sipropone di tutelare il paesaggio con la duplice finalità, da un lato diconservarne gli elementi di qualità e di testimonianza e dall’altro dipromuovere il suo miglioramento attraverso restauri, ricostruzioni,riorganizzazioni, ristrutturazioni anche profonde, dove risulta degradato ecompromesso. Il Piano ribadisce che la costa è un bene comune e non una merce.Sancire con la delibera odierna che il PPR del 2006 è ancora in vigore permettealla Sardegna di presentarsi sulla scena internazionale con un capitale moltorilevante: il suo paesaggio eccezionale, il suo ambiente caratteristico. Questesono le nostre possibilità per misurarci col mondo, far diventare questo patrimoniouna molla per innescare un nuovo sviluppo. Dobbiamo respingere chi pensa ditornare indietro a politiche speculative. Sulla pianificazione delle areerurali esiste un forte allarme. La normativa di deregolazione per permetterel’edificazione nelle zone interne e in tutte le aree rurali ed agricole,riducendo la portata del lotto minimo e permettendo qualsiasi tipologia slegatadall’attività agricola, suscita un vivo allarme per la compromissione delpaesaggio rurale identitario. La diffusione e dispersione edificatoria nellecampagne, oltre ad essere estranea alla storia, può produrre effetti disastrosidal punto di vista ambientale. La qualità territoriale verso cui puntare rendenecessaria una vera e imponente opera di manutenzione e restauro della fasciacostiera, che può creare migliaia di posti di lavoro nuovi. Per fare questo èindispensabile passare dalla giusta azione di tutela a quella di gestione delbene paesaggistico.
Postilla
Un primo passo nella direzione giusta. Ma stupisce (e preoccupa un po') che si sia proceduto solo alla cancellazione della delibera del 14 febbraio, palesemente priva di qualsiasi leggittimità, e non si sia proceduto anche alla revoca della delibera del 25 ottobre (approvazione del Piano paesaggistico dei sardi, di Cappellacci), rinviando per questo agli «opportuni accertamenti procedurali» Non vorremmo che il rinvio nascondesse una trattativa per un'approvazione bipartisan di un ammorbidimento del Piano paesaggisico della giunta Soru, tuttora vigente.
la Repubblica e Corriere della Sera Milano, 28 marzo 2014 (f.b.)
La Repubblica
Appalti e cantieri fantasma il cerchio magico dell’Expo
di Alberto Statera
UNA landa popolata di fantasmi umani e di mostri meccanici. Il campo di un milione e cento metri quadrati, lungo due chilometri e largo da 350 a 750 metri, che tra quattrocento giorni coperto di cinquecentomila alberi e tra idilliache scenografie dovrebbe portare dal mondo 20 milioni di visitatori e certificare la fine della decadenza della Nazione, sembra sulle mappe il profilo di un pesce spiaggiato. Come l’Italia. A guardarlo viene persino voglia di dare ragione, per una volta, al disfattismo di Beppe Grillo, che qualche giorno fa è stato qui e ha commentato: «Non c’è niente, c’è un campo e quattro pezzi di cemento. Ma chi ci vienea Rho?» Eppure, per fare le cose per bene l’Italia aveva a disposizione 2.585 giorni da quel 31 marzo 2008, il giorno in cui tra epici festeggiamenti ottenne dal Bureau International des Exposition l’organizzazione dell’evento mondiale del secondo decennio del secolo, vincendo la sfida con Smirne. “Grosse Koalition” all’ombra della Madonnina scrisse il “Financial Times”, commentando la collaborazione tra il governo Prodi, ormai al lumicino, e la destra che governava Milano e la Lombardia con Letizia Moratti e Roberto Formigoni.
Tutti insieme si spesero, anzi spesero in regali ai paesi votanti: scuolabus nei Caraibi, borse di studio nello Yemen e in Belize, una metrotramvia in Costa d’Avorio, una centrale del latte in Nigeria, bus a Cuba, e così via. Oltre a un numero imprecisato di orologi di pregio e altri presenti a ministri di mezzo mondo. Poi per quasi duemila tragici giorni andò in scena il bieco spettacolo di spartizione tra politici, partiti, correnti, faccendieri, signori degli appalti e anche coppole storte, per la caccia alle poltrone e per assicurarsi fette della torta di potere e denaro. Interessi che la Direzione Nazionale Antimafia definì subito “maggiori persino di quelli ipotizzabili dalla realizzazione del ponte sullo Stretto di Messina”, che Berlusconi, tornato a palazzo Chigi, aveva rimesso in cima al delirio sulle Grandi Opere. Ma non una pietra fu mossa in quella striscia di terra tra i comuni di Milano, Rho e Pero, che il nuovo presidente del Consiglio Matteo Renzi, qui in visita tra qualche giorno, dovrà necessariamente presentare come l’evento del grande riscatto del paese di cui si dichiara il protagonista.
Ora il Decumano e il Cardo, come aulicamente vengono chiamate le vie, che nelle città romane si intersecavano da est a ovest e da nord a sud, cominciano a intuirsi nel fango. Il fango del cantiere e quello dell’inchiesta della procura milanese che ha già portato all’arresto otto persone e promette sviluppi conturbanti. Sviluppi che — Dio non voglia — potrebbero fulminare la corsa contro il tempo per evitare all’Italia la figuraccia mondiale che rischia il primo maggio dell’anno prossimo, quando l’Expo dovrebbe partire. Molti avevano previsto che il sogno sarebbe diventato un incubo. Di fronte alla sanguinosa lotta per le nomine, il controllo dei finanziamenti e degli appalti, si fece portavoce del “partito della rinuncia” l’architetto Vittorio Gregotti, il quale ricordò il saggio precedente di Francois Mitterrand che all’ultimo momento nel 1989 cancellò i faraonici progetti per la celebrazione del bicentenario della rivoluzione francese. Ma a Parigi non c’era la simoniaca cupola politico-affaristica lombarda, che per diciotto anni sotto le insegne del casto Roberto Formigoni, capitano di una legione di sedicenti lottatori per la fede ma incapace di sottrarsi al peccato,non ha perso occasione per accumulare potere e denaro con mezzi illeciti, in nome del “ciellenismo realizzato” attraverso la Compagnia delle Opere: un blocco di potere con 34 mila aziende associate e almeno 70 miliardi di fatturato, che ha svuotato lo Stato dall’interno con l’alibi della sussidiarietà.
Negli scandali che si sono susseguiti negli anni, il cerchio magico del Celeste c’è sempre tutto. Organizzato quasi militarmente per specialità di business: la sanità, gli ospedali, l’ambiente, l’urbanistica, l’edilizia, le opere pubbliche. Delle ruberie sui 17 e passa miliardi annuali della sanità pubblica ormai, con le inchieste e i processi in corso, si sa molto. Come molto si sa da anni sulla mangiatoia delle opere pubbliche.
Alcuni dei nomi che ricorrono nell’inchiesta sull’Expo sono gli stessi che figurano in quella sul “Formigone”. Così è stato ribattezzato il palazzo che l’ex zar della regione ha fatto erigere in via Melchiorre Gioia a perenne celebrazione della sua potenza. Con i suoi 167 metri di altezza — più alto della Madonnina, come l’ex governatore sostiene volesse Papa Paolo VI — il mausoleo formigoniano è l’emblema dell’appaltopoli meneghina nello skyline dell’ex capitale morale dell’ormai obliata borghesia produttiva. La procura non trascura un’inchiesta partita sulla base di un rapporto del colonnello Sergio De Caprio, il “Capitano Ultimo” che arrestò il boss mafioso Totò Riina. Ricorrono i nomi di Rocco Ferrara, già arrestato per le estrazioni petrolifere in Basilicata, e di Antonio Rognoni, l’ex direttore di Infrastrutture Lombarde, quello appena arrestato per gli appalti dell’Expo.
Per la cronaca, il “Formigone”, che doveva costare 185 milioni di euro, ne ha ingoiati oltre 500. Capite allora cosa intende la procura quando analizza la vittoria dell’appalto per la “Piastra” dell’Expo da parte della Mantovani, al posto dell’Impregilo, che doveva vincere con il solito accordo di cartello scambiando appalti sulla Pedemontana Lombardo- Veneta, con un ribasso d’asta di oltre il 40 per cento, pari a 100 e più milioni? Che con gli inevitabili aggiornamenti prezzi c’è “ciccia” per tutti, soprattutto in un’operazione che coinvolge la dignità nazionale in corsa disperata contro il tempo. Un classico nella corruttela nazionale, i cui esempi si sprecano, a cominciare dagli appalti per il G8 della Maddalena gestiti direttamente a palazzo Chigi da Guido Bertolaso, regnante Berlusconi.
Quando l’appalto per la “Piastra” (oltre 160 milioni) andò alla Mantovani, società dicui era diventata pars magna la segretaria dell’ex presidente del Veneto Giancarlo Galan, Claudia Minutillo, con Erasmo Cinque e la Ventura di Barcellona Pozzo di Gotto (poi esclusa per sospetti di mafia), Formigoni fece un comunicato di fuoco per l’eccessivo ribasso d’asta. E il responsabile delle gare Pierpaolo Perez protestò con un interlocutore al telefono: «Ma cosa si è fumato? Io non lo voto più questo qui, deve essere internato». «È il politico più stupido che io conosco», disse del resto una volta Ciriaco De Mita di Formigoni. O il più furbo di tutti negli affari? Non capì niente in castità perfetta e povertà evangelica, come si richiede ai Memores Domini, o sapeva tutto? Personalità da psicoanalisi il Celeste, lo stesso uomo che balla sulle note di Hot Chili Peppers su uno yacht da milioni e che poi va a confessarsi dal padre salesianodi via Copernico. Piove sul fango di piazza Italia, 4.350 metri quadrati che non si sa se saranno mai pronti per il primo maggio 2015; piove sul Children Park e sull’Anfiteatro, già realizzato — così dicono — al 20 per cento; l’Orto Planetario è stato cassato, come buona parte delle autostrade; non piove sulle Vie d’acqua, cancellate dai progetti, che dovevano collegare Rho al vecchio porto della darsena, né sulla linea ferroviaria Rho Gallarate, che resterà un pezzo di carta inumidita.
Dicono che a 400 giorni dal giorno fatidico per il prestigio internazionale di questa nostra Italia siamo al 40 per cento dell’opera. Soltanto un rifiuto risoluto del disfattismo nazionale ci permette di crederci. Se il miracolo si compirà — e ce lo auguriamo — si aprirà la fase delle Red Arrings, le aringhe rosse, bocconi olezzanti che i cacciatori britannici disponevano sul terreno di caccia per distrarre i cani dei cacciatori avversari. L’Expo come aringa per attirare una speculazione immobiliare da 3 o 400 milioni di euro, quando il peccato originale dell’esposizione universale sarà un angoscioso ricordo. Si è già fatta sotto personalmente Barbara Berlusconi, leader politica in pectore, manifestando interesse per costruire su 12 ettari del pescione Expo uno stadio da 60 mila per il Milan. E magari qualche nuova “caricatura” di città nella città, come le chiama l’architetto Mario Botta. Secondo le tradizioni di famiglia.
Corriere della Sera Milano
L'immobiliare Sanità
di Giangiacomo Schiavi
L’inchiesta che coinvolge Infrastrutture lombarde incrocia la sanità milanese e un opaco sistema di appalti da rivedere per come sono pilotati e per le insidie corruttive che vengono a galla. Prima che sia (un’altra volta) troppo tardi è doveroso mettere il naso su un’operazione da centinaia di milioni che riguarda il trasloco di Istituto dei tumori e Neurologico Besta nell’ex area Falck di Sesto San Giovanni, in quella che è stata chiamata Citta della Salute: serve un supplemento di istruttoria e una garanzia di trasparenza sui conti e sul ruolo svolto da Infrastrutture lombarde e dall’ingegner Rognoni, attualmente agli arresti. Alla luce di quel che è successo per i cantieri del San Gerardo di Monza e di Niguarda, finiti nel mirino della Procura, è doveroso mettere al riparo un progetto di integrazione sanitaria, sia pur discusso e contestato, dal sospetto di illeciti e illegalità.
Ogni ragionevole dubbio dovrebbe essere confutato dal governatore, dal sindaco, dall’opposizione, dai sindacati, dai dirigenti, dai medici, dagli imprenditori, per garantire un percorso trasparente ed evitare sorprese in corso d’opera. Quel che si scopre ogni volta che la Procura si muove e scoperchia il pentolone degli appalti è un’imbarazzante commistione affaristica tra politica e imprese: le ragioni dell’utenza, in questo caso i malati e il personale della sanità, sembrano non contar niente. Invece dovrebbero essere prevalenti, per non ripetere i soliti errori e doverne pagare, più tardi, anche il prezzo.
Nel caso della Città della salute c’è alle spalle il poco edificante spreco di denaro pubblico per la falsa partenza nell’area dell’ospedale Sacco: quasi un paio di milioni di euro buttati tra studio di fattibilità, consulenze e avviamento della macchina organizzativa. Il polo pubblico della sanità d’eccellenza poteva essere una grande intuizione e non è mai stato del tutto chiaro il perché della rinuncia: se la lievitazione dei prezzi o le liti tra cordate sui futuri appalti.Il passaggio da una parte all’altra di Milano, da Vialba a Sesto, è sembrato lo schizofrenico segnale di una giunta al capolinea che ha salvato l’investimento ragionando come un’immobiliare: portando i due ospedali verso un Comune alle prese con il fallimento dei progetti di trasformare una gigantesca area dismessa, sulla quale doveva sorgere prima una banca e poi un centro televisivo.
È comprensibile l’impegno del sindaco di Sesto nel difendere la Città della salute: porterà valore e darà un senso alla futura area metropolitana. Ma oggi tocca alla Regione spazzare via tutte le ombre, e dare un senso vero al progetto sanitario. Anche attraverso la trasparenza del cantiere, dalle bonifiche agli appalti. Per non recriminare domani su quel che si doveva fare e non è stato fatto. E non far pagare ai cittadini altri inutili costi della politica.
Ridurre il controllo pubblico sulla gestione degli affari è sempre stato un obiettivo centrale del neoliberismo. Ha tutti i titoli per lavorare con efficacia per questo obiettivo l'autorevole esponente lombardo del governo renzusconiano; troverà certamente aiuto tra i suoi colleghi. Arcipelagomilano online, 25 marzo 2014
Mercoledì scorso il ministro alle infrastrutture Maurizio Lupi in un’intervista pubblicata il giorno dopo su la Repubblica dichiarava: “… Un altro risparmio lo otterremo prendendo una decisione forte ma che non è più rinviabile: e cioè chiudendo l’Autorità dei Lavori Pubblici … visto che si può integrare in altre Authority.”. Due giorni dopo l’intervista la procura di Milano mette in galera i vertici di Infrastrutture Lombarde, con a capo l’ingegner Rognoni messo lì da Formigoni insieme ai soliti amici della ben nota famiglia di ciellini della quale fa parte lo stesso ministro.
Ma quali sono le competenze di questa autorità? Tante, tutte utili ma fra tutte cito quella che fa al caso nostro: “vigila sui contratti pubblici, anche regionali, per garantire correttezza e trasparenza nella scelta del contraente, di economicità ed efficienza nell’esecuzione dei contratti e per garantire il rispetto della concorrenza nelle procedure di gara.”. La stessa autorità in una sua nota immediatamente successiva all’arresto del Rognoni scrive: “L’Autorità con propria delibera n. 29 del 30 luglio 2008 segnalò le anomalie, oggi venute alla luce con le indagini della magistratura, al Presidente della regione Lombardia, al Consiglio di Sorveglianza ed al Consiglio di Gestione della società IL. S.pA.” e aggiunge maggiori dettagli. Vi sembra poco? Dobbiamo chiuderla e integrarla con altre autorità? Siamo di fronte al solito caso italiano d’insofferenza per ogni tipo di controllo. Quest’autorità, visto l’andazzo dovrebbe essere potenziata ma soprattutto costituita da personale “veramente” indipendente e non raccogliendo burocrati dall’inesauribile casta romana.
Ma veniamo al caso specifico: Infrastrutture Lombarde. Che nei suoi affari ci fosse poca chiarezza l’ho detto e l’ho scritto fin dai tempi della mia collaborazione con la Repubblica e poi dalle pagine di codesto settimanale e non solo ma anche a orecchie sorde e disattente. Ma la cosa che desta maggior stupore è che l’opposizione in Regione negli ultimi anni non avesse “mai” avuto la curiosità di guardare dentro questa società che faceva girare milioni. Per altro non l’ha fatto nemmeno nella sanità, dove le cifre in gioco erano ben maggiori. Io credo che per i pubblici amministratori valga quello che vale per gli amministratori delle società private, l’obbligo della sorveglianza: dunque nessun innocente per quello che è successo, anche se la gravità delle colpe è molto diversa tra sorveglianti e sorvegliati. I primi a casa i secondi colti, con le mani nella marmellata, in galera. L’opposizione i poteri li aveva e l’accesso ai documenti pure, perché non sorvegliare?
Non si può che ridere alle affermazioni che la legalità è stata garantita dall’intervento della magistratura: chiunque l’abbia detto è un ipocrita. La magistratura è intervenuta su segnalazione di una vittima di malversazioni in appalto, non certo su segnalazione di qualche pubblico amministratore attento e onesto.
Ma quello che finalmente emerge dalle carte dei magistrati è una cosa ben precisa. Siamo di fronte a un’organizzazione ben radicata sul territorio, in grado di pilotare appalti, di assegnare incarichi di progettazione, consulenze legali, di promuovere candidati a cariche elettive e di farli eleggere, di sistemare amici in consigli di amministrazione, di affrettare, rallentare o bloccare carriere, di favorire società di ogni genere purché amiche e così elencando. Cauti però, salvo qualche grossolanità come nel settore della sanità, nel far circolare denaro che, come si è visto lascia tracce indelebili o quasi.
Siamo di fronte alla sottile strategia del baratto corruttivo che può essere messo in atto solo da un’organizzazione capace ed efficiente in modo che i percettori delle utilità siano tanti, difficilmente individuabili, lontani dal vertice cui però resta saldamente in pugno il “potere”, che in fondo è quello che conta perché il cerchio si chiuda. E il cerchio si chiude quando si è tanto potenti da rendere inoffensiva qualunque forma di controllo.
Che fare domani? Passare al vaglio tutti gli appalti e gli incarichi per consulenze e progettazioni e i relativi concorsi, con un vaglio fine, per accertare che non solo la forma sia stata rispettata ma anche la sostanza. Rivedere le scelte fatte per accertare che non vi siano state collusioni tra giurie e giudicati, che la cosiddetta “urgenza” non sa l’ampio mantello che tutto copre e occulta.
Da tempo tutti quelli che si occupano di criminalità organizzata denunciano l’assoluta inefficacia ai fini del contenimento di questo fenomeno e di quello più generale della corruzione che la alimenta, l’inefficacia dicevamo della legislazione sull’appalto pubblico: voci nel deserto. È arrivato il momento di mettervi mano. È competenza del ministro delle infrastrutture e dei trasporti. Al secolo Maurizio Lupi. Siamo in buone mani?
«Dalla modernità post-bellica, che includeva le nuove periferie, alla neoliberista «stagione dei sindaci» (Veltroni e Rutelli), fino all'oggi dei tessuti disgregati in una miscela esplosiva». L'ottava puntata dell'inchiesta sulle città italiane. Il manifesto, 27 marzo 2014
Su Roma, a partire dal secondo dopoguerra, sono state svolte diverse e importanti narrazioni. La prima, tra il 1943 e il 1955, è quella dei film neorealisti di Visconti, Germi, De Sica, De Santis. Una Roma post-bellica, una città provinciale che coincideva con la sua parte storica ancora non colonizzata dai turisti. Qualche anno dopo, tra il 1950 e il 1960, il genio profetico di Pasolini è riuscito a rappresentare la grande trasformazione di quegli anni: la fine di un mondo contadino e il dramma del sottoproletariato urbano, entrambi in via di cancellazione dalla storia con l’avvento delle prime manifestazioni di modernità. La letteratura sociologica e antropologica poneva intanto la sua attenzione su quello straordinario mondo di immigrati dal sud e contadini inurbati che si accampava a ridosso delle mura e che dava vita a inedite tipologie urbanistiche: borgate, borghetti, baraccamenti. Sono da ricordare le analisi di Ferrarotti e Macioti, le foto di Pinna, le testimonianze di vita come quella di don Sardelli all’Acquedotto Felice, le descrizioni dei grandi scrittori romani «d’origine» come Moravia o Elsa Morante, quella degli scrittori d’adozione come Caproni, Gadda, Gatto, Penna, Bertolucci.
La città, per la prima volta, si estendeva oltre le sue storiche mura, invadeva l’agro, la campagna romana; nascevano le nuove periferie che accoglievano il nuovo ceto impiegatizio, soprattutto coloro che, in città, lavoravano nelle aziende municipalizzate o nelle ferrovie. Da allora narrazioni importanti come quelle sopra citate non ce ne sono più state. Quelle periferie, allora lontane, quasi sconosciute, una volta evocate sono entrate a far parte della storia moderna di Roma, le si sono — potremmo dire — «appiccicate addosso» come una pelle: non c’è una Roma antica e una Roma moderna — diceva Pasolini — ma solo una, antica e moderna contemporaneamente. Nelle periferie storiche l’emarginazione, il senso di diseguaglianza veniva elaborato — ricorda Walter Tocci — tramite un altrove temporale, un’utopia di buona società, da raggiungere attraverso l’emancipazione. In sostanza, le periferie storiche non erano luoghi di disperazione, di solitudine, di disincanto; piuttosto luoghi carichi di speranza, dell’attesa di un riscatto. In esse trovava consenso e faceva proseliti il «vecchio» Partito Comunista che tra i suoi obiettivi politici comprendeva il progetto del riscatto di questo popolo contro il potere e il dominio delle grandi famiglie di proprietari di terreni e immobiliari poi.
La seconda grande trasformazione
Nel 1993 diventa sindaco Francesco Rutelli e dopo di lui, nel 2001 Walter Veltroni. In quegli anni, in Italia, si assiste al fenomeno chiamato «rinascimento urbano». Da Roma a Napoli, da Salerno a Catania, si inaugura la stagione dei sindaci che, eletti direttamente dai cittadini, danno vita a iniziative urbane che fanno nascere la speranza che cambiamenti significativi nella vita quotidiana sono possibili. Roma si appresta a progettare il nuovo piano regolatore che sostituirà quello precedente del 1961.
Il quindicennio rosso, dal ’93 al 2008, verrà ricordato per il tentativo di (presunta) modernizzazione di una città considerata in ritardo rispetto ai processi di rinnovamento avvenuti in altre città europee ed extraeuropee (Londra, Barcellona, Bilbao, e perfino Dubai). Ma cos’era realmente questa modernizzazione così tanto invocata e cosa sottendeva questa categoria (ideologica) del ritardo? Questa idea — la modernizzazione — si rivela ben presto un complice potente dell’ideologia liberista poiché essa viene alimentata dal dogma della concorrenza internazionale, dall’esaltazione della velocità, dal mito della decisione efficace, dal feticcio dello sviluppo, dall’eliminazione di ogni conflitto ritenuto un sabotaggio della stabilità politica. La competizione economica tra le città spinge inoltre queste ultime a «rifarsi il trucco» per adeguarsi alle regole dell’economia finanziaria.
La celebrazione di Grandi Eventi serve a imbellettare la città come fosse una vetrina, mentre prende piede e si afferma un modello culturale basato sull’individualismo proprietario, il successo personale, la competizione che fa perdere valore alla coesione sociale e alla responsabilità comunitaria. Tutto quello che non serve alla santa crescita (persone, culture, tradizioni, virtù) viene buttato via, diventa spazzatura, ritardo, appunto, perché le nuove regole stabiliscono che gli investimenti andranno solo dove la tecnologia sostituisce le forme tradizionali di vita e la velocità annulla le relazioni sociali e rende inutili i luoghi pubblici. Per altri versi non viene frenato il saccheggio del territorio iniziato molti anni prima e che ora agisce attraverso una moltiplicazione della ricchezza immobiliare in una città la cui crescita demografica si è arrestata sin dagli anni Settanta con due milioni e settecentomila abitanti. Le nuove regole liberiste impongono che per modernizzare la città occorre stabilire accordi con i privati quasi sempre con vantaggio tutto a favore di questi ultimi. La sensazione è che a questa crescita di ricchezza immobiliare fa da controcanto un sempre più impoverimento urbano in termini di marginalità, solitudine, coesione sociale, servizi
Nel 2008, anno della sconfitta clamorosa del candidato sindaco Rutelli, esce il libro di Walter Siti, Il contagio. Un libro che svela, più di qualsiasi analisi politica, il «risentimento» degli abitanti delle periferie che da tempo, avevano voltato le spalle alla sinistra. Le periferie considerate un tempo lo zoccolo duro del partito comunista, ora si sono trasformate in ghetti dove nessuno si salva. Ma la portata della trasformazione antropologica è ben più vasta di quella che appare. Abbandonata ogni ideologia, le borgate romane si sono adeguate ai valori borghesi del consumo e del possesso dell’ultimo gadget a ogni costo, ai sogni del successo, alla diffidenza reciproca tra persone, mentre la borghesia del centro tende sempre più a imitare questi modelli, periferizzandosi. L’ipotesi riformista alla base del modello veltroniano — il famoso Modello Roma — non trova alcuna accoglienza, anzi suscita indifferenza e ostilità («mai visto un borgataro riformista» è la battuta che si legge nel libro si Siti).
Una città diseguale
Un dato preoccupante che emerge dalla cronaca di ogni giorno è la crescita della diseguaglianza e della povertà. Esse formano una miscela esplosiva insieme alla sottoistruzione, microcriminalità, diffusione di droga, disoccupazione intellettuale, commerci illeciti. Sempre più la città appare la discarica della globalizzazione che frantuma i rapporti sociali, crea gruppi antagonisti, spinge verso l’individualismo predatorio. Sono questi gli obiettivi che la nuova giunta guidata da Ignazio Marino dovrebbe mettere ai primi posti: la lotta contro la povertà, le diseguaglianze, l’esclusione, l’isolamento per favorire la rinascita di un senso civico, la coesione sociale, l’appartenenza, la responsabilità sociale. Credo che questo possa essere fatto a partire dalla generazione dei giovani offrendo loro progetti e opportunità di lavoro per venire incontro ai loro bisogni economici ma anche ai loro desideri di convivialità, di fruizione culturale, di scambio di esperienze e per arricchire il capitale sociale e culturale della nostra città (si veda il progetto delle «Case Zanardi» per Bologna). Se non dalla città da dove dovrebbe nascere il rinnovamento auspicato? Non sono le città i laboratori sociali dove si può elaborare un diverso concetto di differenze, di cultura del limite, di spirito civico e di partecipazione all’uso del tempo e dello spazio quotidiano? In una parola, forse è proprio a partire dalla città che potrebbe essere restituita la speranza di un cambiamento della politica che si propaghi all’intero territorio, all’intero paese.
La Repubblica Milano, 27 marzo 2014, postilla (f.b.)
Il cemento avanza, sfonda la seconda cintura dell’hinterland e ormai invade persino la terza. È come se i confini fossero quasi scomparsi e Milano e i Comuni limitrofi quasi un tutt’uno. E l’area metropolitana satura di asfalto e cemento. Il capoluogo lombardo — con solo Napoli che di un soffio riesce a far peggio — primeggia nella gara tra le città che consumano più suolo. Una sfida senza medaglie. E con la Lombardia che è una grande macchia nera che in questo primato, tutto negativo, sbaraglia tutte le altre regioni.
Ci pensa l’Ispra, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, a fotografare l’andamento dal 1956 al 2012 del consumo di suolo. Sotto la Madonnina, la scomparsa di suolo libero è un fenomeno in crescita dagli anni Settanta: dal 42,8 per cento di terre mangiate nel ‘73, si passa al 58,3 per cento nel 1997 fino al 61,2 nel 2007. Per arrivare al 61,7 a fine 2012, ultimo dato ufficiale disponibile. E tra i peggiori, con la Lombardia che ha il 10 per cento di territorio irreversibilmente occupato da strade, capannoni, case. Che, contando montagne, laghi e dove non si può cementificare, non è poco, 261 i metri quadri di suolo consumato da ciascun abitante. Macome si è arrivati qui, a Milano? «La percentuale, inquietante, deriva da un’espansione urbana mal regolata o deregolata che avanza — spiega il ricercatore Ispra e responsabile del Rapporto, Michele Munafò — oltre che da una mancanza di programmazione strategica che non ha dato importanza alle funzioni del suolo anche per l’ecosistema.
E dietro, c’è la crisi di Milano città con la gente che tende a uscire, verso l’hinterland, e porta con sé l’infrastrutturazione del territorio». Per l’assessore all’Urbanistica Ada Lucia De Cesaris è vero che Milano è stata cementificata nei decenni «ma nel Pgt abbiamo ridotto le volumetrie in un’ottica di conservazione». L’80 per cento dei Comuni lombardi ha in pancia 41mila ettari,oggi aree agricole, da urbanizzare. Una cifra enorme, se si pensa che in Lombardia negli ultimi dieci anni si sono mangiati 10mila ettari. Il primo colpevole è meno scontato del previsto: divorano più suolo le strade rispetto alle case. «Pedemontana, BreBeMi e Tem hanno provveduto a dare una botta, peraltro quando fai le strade è il prodromo di nuove urbanizzazioni — osserva il docente di Programmazione ambientale al Politecnico, Paolo Pileri — .
La crisi si pensa abbia messo in ginocchio l’edilizia ma in realtà questo non ha voluto dire un calo del consumo di suolo. Questo perché i Comuni continuano a mettere nei loro piani nuove aree da urbanizzare, Milano compresa: da Moratti a Pisapia il Piano di governo del territorio è stato asciugato, ma non ci sono dispositivi di legge e nemmeno la volontà che obblighino i sindaci a riutilizzare prima le aree dismesse ». Per invertire la tendenza, difatti, le ricette ci sarebbero. Senza toccare i livelli della Gran Bretagna, dove non si costruisce su nuovi terreni fintanto che i due terzi di aree abbandonate non vengano rimessi sul mercato, le chiavi sono diverse. Anche perché l’Europa impone di azzerare il consumo di suolo entro il 2050.
«Anzitutto il riuso di aree dismesse — dice Munafò — prima di costruire sul nuovo, si riqualifichi il vecchio che non si usa più. E poi il regolamento edilizio, nelle mani del Comune che ha il pallino della tutela del territorio. E, se proprio si deve cementificare, non si tocchino le aree agricole». Da tempo gli ambientalisti denunciano che la Lombardia sia «la cattedrale del cemento». E oggi esortano la Regione: «Siamo in emergenza — denuncia il presidente lombardo di Legambiente, Damiano Di Simine — il consiglio regionale ha in mano una proposta di legge di iniziativa della giunta che non è così male, va nella direzione giusta. La approvino presto».
postilla
A quanto pare, amministrazioni locali escluse (ed è qui il guaio), tutti concordano nel ritenere allarmante la continua e allegra espansione dell'urbanizzato metropolitano e regionale, anche in un'area ormai ampiamente satura come quella padana centrale. La vera questione però, indipendentemente dall'approvare o meno in tempi rapidi una legge che magari adotti virtuosamente il principio dell'approccio sequenziale di matrice britannica, è di definire qualche modello di sviluppo alternativo all'attuale. Non solo per le costruzioni, ma per l'idea di città società e attività economica oggi ancora legate mani e piedi al modello sviluppato dalle amministrazioni, di centrodestra e non, ad ogni livello. In altre aree sviluppate (ad esempio la spesso citata Silicon Valley) si è deciso di puntare sull'innovazione vera, quella di ricerca tecnologica e produttiva, lanciando politiche di polarizzazione urbana che si sostituiscano, anche nel modello industriale, allo sprawl novecentesco. Nella padania felix invece procede, come qualcuno osservava casualmente nell'articolo, il modello autostradale e disperso, salvo inventarsi proprio su quelle stesse nuove e micidiali autostrade le stazioni di rifornimento per auto elettriche. La sostenibilità retorica per gonzi insomma, e sotto il business as usual, con l'innovazione altrettanto ideologica della nuova trovata, che si chiama "Smart Land". Proprio così, lo slogan della smart city, già scivoloso di sé, traslato sui territori della dispersione, e guarda caso promosso dai medesimi interessi, a ben vedere dalle medesime persone, che si sono inventate la mitica città infinita. Andiamo proprio bene, con questa versione italiana del destrorso "new suburbanism" d'oltre oceano, e discutere di un ettaro in più o meno di prati di periferia destinati a trasformazioni urbane, ottime intenzioni a parte, scusate ma sembra l'ennesima presa in giro (f.b.)
Prefazione al libro Contenereil consumo di suolo in Italia. Saperi ed esperienze a confronto. Raccolta multidisciplinare di saggi a cura di Gian Franco Cartei e Luca De Lucia, Editoriale scientifica, Napoli 214
Questo libro giunge in un momento opportuno. Quando, cioè, laprotesta per il danno subito dagli attuali e futuri abitatori del pianeta Terraa causa dell’uso irrazionale della crosta terrestre sembra trovar riscontro nellavolontà dei legislatori e dei governanti nazionali e locali di correre ai ripari.I saggi raccolti nel volume ci aiutano a comprendere molte cose: dai significatiche il termine “consumo di suolo può assumere alle fonti e ai metodi cui i può ricorrereper misurarlo, dai meriti ai difetti delle proposte legislative approvate o in corsodi discussione in Italia ai modi che si raccomandano nell’Unione europea e che sipraticano in altri paese europei per contrastarlo, ai rapporti tra il tema specificodel consumo di suolo e i punti di vista di altre discipline, quali quelle dellapianificazione urbanistica e del diritto positivo.
Nell’introdurre alla lettura vorrei accennare brevemente atre questioni. Innanzitutto vorrei riassumere le ragioni per cui si deve considerareil fenomeno del consumo di suolo uno dei segnali più preoccupanti del degrado incui alcuni secoli della storia della civiltà e della società umana hanno condottoil pianeta che ancora abitiamo, in condivisione con altre civiltà e società. Vorreisviluppare poi alcune considerazioni, altrettanto sintetiche, sul contributoche la politica urbanistica ed edilizia ha dato in Italia al consumo di suolo,per concludere infine con qualche appunto sul “che fare”.
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Le decisioni nascono da una pluralità di motivazioni, consapevolio inconsapevoli. Credo che la decisione di contrastare il consumo di suolo debbanascere dalla consapevolezza che il suolo è un bene prezioso: un bene non meno preziosodell’intelligenza o dell’amicizia, della volontà di vivere e della capacità di sopravvivere.Una consapevolezza che vedo razionalmente basata su tre serie fondamentali di argomentirazionali: che nel loro insieme definiscono le caratteristiche essenziali del suolo.Esso è, al tempo stesso, la pelle del pianeta,quindi il substrato di tutte le comunità biologiche che animano l’universo a noinoto e l’infrastruttura materiale della sua vita. E’ il palinsesto della storia delle civiltà umane, cioè l’insieme dei codicie delle narrazioni della storia collettiva dell’umanità e dei suoi condomini. E’,infine, quello che Piero Bevilacqua definisce l’”habitat dell’uomo” cioè dei luoghi, più o meno trasformati dall’interazionetra storia e natura, essenziali alla nostra vita.
Da queste sue caratteristiche discendono le molte potenzialiutilizzazioni del suolo per la razza umana: la conservazione del ciclo della biosfera,la produzione degli alimenti, l’organizzazione più soddisfacente dell’habitat dell’uomoe l’uso parsimonioso delle altre risorse necessarie, preservazione e utilizzazionedella storia delle civiltà
Come sa chiunque è capace di guardare al di là dell’hic et nunc le trasformazioni dellaciviltà umana hanno prodotto, soprattutto negli ultimi secoli, un pesante processonell’evoluzione delle molteplici utilizzazioni del suolo: tra tutte quelle necessariee possibili è divenuta dominante quella finalizzataall’uso del suolo come habitat dell’uomo nella forma dell’urbanizzazione: lacittà, gloria e dannazione della civiltà umana. Il suolo si sta gradatamente mavelocemente trasformando in una “repellente crosta di cemento e asfalto” come dicevaAntonio Cederna.
Per conto mio sono profondamente convinto che decisivi in questomortifero processo siano stati non solo la mancanza di consapevolezza del valoredel suolo come bene (come patrimonio da gestire con parsimonia), ma il ruolo cheha via via assunto la rendita urbana. Di fatto, la potenzialità economica dellarendita nell’economia capitalistico-borghese, e soprattutto post-borghese, escludegradualmente le altre possibili utilizzazioni e condiziona pesantemente lo stessa“habitat dell’uomo”
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Il consumo di suolo ha molte forme. Se si vuole davvero contrastarleoccorre vederle tutte, sebbene il loro peso sia diverso nei diversi contesto territorialie sociali. L’esigenza di considerarle tutte non deriva solo dalla necessità di esercitareun controllo globale del miglior uso della pelle del pianeta, ma anche perché lediverse facce del consumo di suolo costituiscono differenti aspetti dello sfruttamentodell’uomo sull’uomo, del saccheggio di patrimoni comuni, e di nascita di condizionidi disagio, precarietà, povertà.
E’ consumo di suolo il landgrabbing (l’accaparramento forzoso dei territori dei paesi poveri), come lealtre forme di asservimento della produzione agricola al ciclo energivoro dell’economiaopulenta, come è consumo di suolo la distruzione materiale della naturalità, dellabellezza e della storia mediante l’espansione immotivata della la repellente crostadi cemento e asfalto.
E’ su quest’ultimo aspetto che vorrei soffermarmi, tenendo contoche non è l’unico, e che considerarli tutti nel loro insieme è necessario ancheper costituire quel sistema di alleanze sociali che è essenziale per poter contrastarecon efficacia il fronte degli interessi vitalmente interessati alla prosecuzionedel saccheggio.
Una prima domanda bisogna porsi per comprendere come contrastareil consumo di suolo. La mia ferma opinione è che il consumo di suolo è diventatoun problema nella realtà italiana nel corso degli orribili anni 80 quando si è lasciatoche a quello che definisco “il ventennio della speranza” succedesse il “trentenniodel saccheggio” :una fase, ahimè, che non sembra ancora seppellita.
Nel quadro del sistema giuridico-amministrativo italiano L’unicostrumento idoneo a contrastare efficacemente e durevolmente il consumo di suoloè indubbiamente quello della pianificazione urbanistica e territoriale: ovviamente,ove questa sia orientata verso gli obiettivi giusti, quali quelli generalmente predicatinegli atti normativi nazionali e – come sottolinea Luca De Lucia - anche regionali.
E’ la pianificazione, a tutti i livelli, che ha la missione didefinire e prescrivere un soddisfacente equilibrio tra le diverse, e potenzialmenteconflittuali, utilizzazioni del suolo. Del resto la componente edilizia del consumodi suolo (la più rilevante, insieme a quella delle grandi infrastrutture) è “regolata”dai piani urbanistici comunali
Gli anni 80 sono stati, fin dall’inizio, caratterizzati da unaprogressiva delegittimazione della pianificazione territoriale e urbana (con l’unicaeccezione di quella paesaggistica. Ciò è avvenuto mediante una serie di teorie epratiche devastanti, tutte all’insegna degli slogan dominanti a partire da queglianni (“privato è bello”, “meno stato e più mercato”, “via i lacci e lacciuoli”).Voglio ricordare la pratica della perequazionecome spalmatura generalizzata dell’edificabilità, la connessa teorizzazione deidiritti edificatori ( inesistenti peril diritto, inventati dagli autori del PRG di Roma), lo spacciare una presunta vocazione edilizia come proprietà specifica deiterreni. E voglio ricordare infine, sul piano strutturale quella caratteristicadel capitalismo globalizzato che Walter Tocci ha definito il trionfo della rendita, e sul piano politicoe legislativo il successo che ha accoltola proposta di legge urbanistica proposta dalla legge di Maurizio Lupi, fondatasulla mutazione della pianificazione urbanistica da compito e responsabilità dell’azionepubblica a ratifica dell’imitativa della proprietà immobiliare.
Il fatto è che l’onda globale del neoliberismo si è aggravatanella sua versione italiana, a causa anche del ruolo storico che ha avuto nel nostropaese la rendita immobiliare, e della debolezza cronica della pubblica amministrazione
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Mi sono domandato spessodella ragione per cui la gravità del fenomeno è stata avvertita così tardi. E’ unadomanda che mi pongo da quando, nel 2004, decidemmo (con Mauro Baioni, Vezio DeLucia, Maria Cristina Gibelli) di dedicare la prima edizione della Scuola di eddyburgall’analisi e alla denuncia del consumo di suolo e ci accorgemmo che il tema eradel tutto assente dal dibattito politico e culturale (se non in qualche studio accademico,spesso più elogiativo che critico della nuova forma di urbanizzazione).
Non so rispondere, ma c’è certamente una relazione tra questoritardo, e l’egemonia conquistata dall’ideologia della crescita indefinita (lo “sviluppismo”),la decadenza della politica e il suo appiattimento sul giorno per giorno, la distrazionedella gran parte dei saperi specialistici dagli aspetti propri della pianificazionedelle città e del territorio, e infine il prevalere nell’accademia della formazionedi tecnici per la gestione dei processi in atto (facilitatori) anziché di intellettualidotati di spirito critico e quindi propositori di strade alternative.
Da allora, fortunatamente, le cose sono cambiate. Oggi “No alconsumo di suolo” è diventato uno slogan di massa: il peggioramento delle condizionimateriali, i risultati del saccheggio in nome della rendita hanno suscitato reazioniestese di protesta e di puntuale proposta alternativa. Ma il “No al consumo di suolo”è diventato anche una parola passepartout (come sostenibilità, come sviluppo, comedemocrazia). Una retorica dietro la quale si nascondono spesso progetti di uso delsuolo molto simili a quelli che abbiamo conosciuto e che condanniamo.
C’è ancora una grande confusione sul “che fare”. Le commissioniparlamentari sono affollate di proposte legislative, alcune chiaramente volte aconvalidare le scelte perverse che hanno causato il saccheggio del territorio, altresemplicistiche e velleitarie, altre infine mutuate da esperienze di altri paesiil cui contesto è profondamente diverso dal nostro. I saggi raccolti in questo libroforniscono un utilissimo contributo alla comprensione di questa realtà e alla individuazionedelle vie da percorrere per uscirne.
La situazione e gravissima ed è urgente dire “stop alconsumo di territorio ”non solo nella retorica delle dichiarazioni d’intenti manella pratica tecnica, politica e amministrativa.
Molto si può già fare, a tutti i livelli. Ma occorrono almenotre elementi. Occorre disporre, e rendere condivisa, una visione strategica sull’usodella pelle del pianeta, che sia alternativa rispetto alla miopia prevalente oggi. Occorre un dispositivo che leghi tra loroi diversi livelli di governo: le istituzioni della Repubblica, stato, regioni, provincee città metropolitane, comuni.Occorre l’attivazione di procedure che consentano di dare voce informata e consapevole al “popolosovrano” coinvolgendolo responsabilmente nel processo di decisione.
Il Fatto quotidiano, 26 marzo 2014
Asservire il patrimonio artistico alla propaganda dei valori del presente – per esempio asservirlo alle ragioni della politica attuale – significa disinnescarlo, neutralizzarlo: o peggio, pervertirlo, tradirlo, falsificarlo. Se l’arte dice la verità sulla condizione umana, difficilmente andrà d’accordo col potere: ed è per questo che in una democrazia basata su una Costituzione come la nostra, l’unico modo di gestire il patrimonio è metterlo al servizio della conoscenza, e dunque della verità, e non al servizio del potere, e dunque della propaganda e della mistificazione pianificata.
Facciamo un esempio. Nel settembre 2013 una grande (cinque metri per due e mezzo) Annunciazione di Sandro Botticelli è stata spedita in Israele, per celebrare i 65 anni dello Stato ebraico. Botticelli la affrescò nella loggia esterna di una specie di orfanotrofio della Firenze del Quattrocento: l’Ospedale di Santa Maria della Scala. Quella Madonna che culla il suo bambino nella pancia, quella casa accogliente e tranquilla perdono un po’ di significato per ogni chilometro che si allontanano da Firenze. Il passare del tempo scompone il mosaico della storia in tante tessere, che dovremmo sforzarci di rimettere insieme, e non di allontanare. Con amore, possibilmente. Ma quando il ministro Massimo Bray ha provato a bloccare il viaggio del Botticelli volante – che anche a lui pareva senza senso – è scoppiata quasi una crisi diplomatica.
Non si potevano mettere in discussione gli accordi dello sventato predecessore, e il ministro degli Esteri Emma Bonino riteneva l’ostensione di un singolo Botticelli assai più efficace di una seria pianificazione di rapporti culturali. Quando Bray ha chiesto al massimo istituto di restauro italiano, il fiorentino Opificio delle Pietre Dure, una relazione sulle condizioni dell’opera, ne è arrivata una così concepita: la vera relazione tecnica, scritta da una restauratrice, diceva che l’opera aveva subito danni durante spostamenti recenti e che un’ulteriore movimentazione sarebbe stata “pericolosa”. Ma questa verità scientifica veniva schiacciata dalla lettera di accompagnamento del soprintendente dell’Opificio, dove la ragion di Stato induceva a definire “non significative” le preoccupazioni sullo stato di conservazione. E così Bray si è arreso, e Botticelli è volato a Gerusalemme. D’altra parte esiste un precedente eloquente: nel 1930 proprio Botticelli fu protagonista di una spettacolare quanto criminale mostra voluta da Mussolini a Londra, esaltata dal Corriere della Sera dell’epoca come “un segno portentoso dell’eterna vitalità della razza italica”. E basta sostituire “brand Italia” a “razza italica” per ottenere la retorica propagandistica di oggi. Che travolge la verità della storia dell’arte e della scienza in nome delle ragioni di un potere autoreferenziale.
In una lettera scritta insieme a Sefy Hendler – che insegna Storia dell’arte all’Università di Tel Aviv – abbiamo provato a dire che entrambi crediamo profondamente nell’amicizia tra Italia e Israele, e nel ruolo che la cultura può e deve avere nel rafforzarla: il nostro stesso, continuo scambio scientifico è un minuscolo tassello di quell’amicizia. Ma siamo convinti che le relazioni culturali tra i popoli non possano essere rafforzate da scambi di singole opere “feticcio” decise dalle diplomazie senza nessun coinvolgimento della comunità scientifica, e anzi imponendo al museo prestatore e al museo ospitante un “evento” del tutto estraneo alla loro vita. Non siamo più nell’antico regime: nelle democrazie moderne le opere d’arte non sono più pedine della ragion di Stato, ma testi su cui fare ricerca, e da restituire alla conoscenza dei cittadini.
Una vera mostra di ricerca aperta al grande pubblico avrebbe ogni ragione di spostare dall’Italia a Israele, o viceversa, anche cento opere (magari meno fragili del Botticelli): non ha invece alcun senso spedire un’opera singola e irrelata, in un’operazione assai vicina al marketing. Crediamo che la regola fondamentale della conoscenza, e cioè il perseguimento della verità, debba stare anche alla base delle relazioni internazionali: specie quelle che si vogliono fondate sulla cultura. È per questo che dirsi la verità non può in nessun caso mettere in crisi, ma anzi può solo rafforzare, le relazioni culturali internazionali dell’Italia. Può sembrare curioso – certo sembra ingenuo – ricordarlo in un momento in cui “parole come verità o realtà sono divenute per qualcuno impronunciabili a meno che non siano racchiuse tra virgolette scritte o mimate”: ma “il ruolo dell’intellettuale è tirar fuori la verità. Tirar fuori la verità e poi spiegare perché è proprio la verità [...] La verità spiacevole, nella maggior parte dei luoghi, è di solito che ti stanno mentendo”. In questo consiste ogni serio programma di politica culturale, a questo serve il patrimonio culturale. A dire la verità.
Tra il Gran Sasso e la Maiella la discarica di veleni più vasta d’Europa. La Repubblica, 24 marzo 2014
Questa è la discarica di veleni più grande d’Europa. Qui intorno, su una superficie di circa 30 ettari, sono state “intombate” quasi 250 mila tonnellate di rifiuti tossici e scarti industriali. Una bomba ecologica al confine tra il Parco del Gran Sasso e quello della Maiella, a Bussi su Tirino, in Abruzzo. Ma oggi, dopo quarant’anni di denunce e polemiche approdate finalmente nelle aule giudiziarie, dalle ceneri contaminate di questo disastro potrebbe cominciare un’operazione di bonifica e riqualificazione di tutta l’area, per sperimentare un modello di riconversione industriale su scala internazionale.
La storia comincia nel 1972, quando l’allora assessore all’Igiene e alla sanità del Comune di Pescara, Giovanni Contratti, scrive una lettera alla Montecatini Edison, proprietaria dello stabilimento chimico di Bussi, chiedendo di ripulire il sito e adottare misure anti-inquinamento. Passarono 35 anni prima che la Guardia forestale mettesse nel 2007 i primi sigilli alla discarica Tre Monti. Fino ad arrivare ai nostri giorni, con il processo davanti alla Corte d’assise di Pescara in cui 19 responsabili dell’ex colosso devono rispondere di disastro doloso e avvelenamento delle acque, mentre sono finiti sul registro degli indagati anche otto dirigenti della società francese Solvay che nel 2002 aveva acquistato il polo chimico dall’Ausimont (gruppo Montedison).
Una prima stima dell’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) per il ministero della Salute valuta un danno ambientale di 8,5 miliardi di euro e un costo di 500-600 milioni per la bonifica della discarica che al momento appare ricoperta da un “sarcofago”, con un telone impermeabile e sopra un terrapieno di ghiaia, come la tomba di un faraone. Per effetto della legge per il terremoto dell’Aquila, finora ne sono stati stanziati una cinquantina. Ma questi soldi - come precisa il sindaco di Bussi, Salvatore La Gatta – sono destinati alla bonifica e alla reindustrializzazione dello stabilimento che oggi è fermo.
Oltre alla discarica Tre Monti, a monte del polo industriale se ne trovano altre due, di minore estensione e criticità. Originariamente furono autorizzate per lo stoccaggio degli scarti di produzione, ma poi anch’esse sono state sequestrate dalla magistratura e recentemente risequestrate a causa di una malagestione. Un deposito di veleni, insomma, che continua a inquinare la terra e il sottosuolo in forza di un’antica maledizione chimica che risale alla fine dell’Ottocento. Già allora questo appariva il luogo ideale per localizzare la “nuova industria”, sfruttando la portata dei due fiumi Tirino e Pescara: il primo è stato deviato con un salto di 70 metri e addirittura inglobato nello stabilimento, caso unico in Italia, per produrre energia elettrica e alimentare un impianto di scomposizione elettrolitica del cloruro di sodio da cui si ricavano cloro e soda. Qui, durante l’ultimo secolo, più di mille operai sfornavano la formaldeide, il potente disinfettante poi bandito dal mercato perché riconosciuto cancerogeno. E, ancora, varechina, perclorati (componenti sbiancanti dei detersivi) e cloruro di ammonio. Nei periodi di guerra, dal paese-fabbrica di Bussi è uscito perfino l’yprite, il terribile gas nervino con cui i nostri soldati furono sconfitti a Caporetto e che noi stessi utilizzammo poi nella campagna d’occupazione in Africa.
Nel tempo gli scarti di queste produzioni, insieme alle acque di scarico che, filtrate, confluivano nei due fiumi, sono stati sparsi sul territorio come il sale a Cartagine. L’operazione di bonifica, quindi, deve comprendere il polo chimico e tutta l’area contaminata. E per quanto riguarda in particolare la discarica dei veleni, c’è chi dice che è sigillata dallo strato di argilla sottostante e chi invece sostiene come il presidente regionale di Legambiente, Angelo Di Matteo, geologo - che si tratta di un’argilla porosa, per cui non si può affatto escludere il rischio di inquinamento delle falde freatiche.
Oggi l’attenzione di tutti è concentrata sullo stabilimento e sul piano di reindustrializzazione, da cui l’amministrazione comunale si aspetta almeno un centinaio di posti di lavoro per ridare vita a un paese di 2.800 abitanti con uno dei redditi pro-capite più bassi dell’Abruzzo (11mila euro all’anno). Ma su questo futuro i pareri e i desideri divergono, anche in rapporto agli appetiti degli imprenditori interessati all’operazione. A cominciare da Carlo Toto, patron di Air One, considerato vicino al Pd e amico personale dell’ex sindaco di Pescara Luciano D’Alfonso: il suo progetto è di trasformare l’ex polo chimico in un cementificio, per approvvigionare il quale avrebbe già chiesto le concessioni minerarie sulle montagne vicine.
Il sindaco La Gatta (Rifondazione comunista) riferisce di aver ricevuto una ventina di manifestazioni d’interesse da parte di altrettante aziende, tre delle quali chimiche: «Per noi sarebbe un’occasione storica: da quarant’anni qui non investe più nessuno». Ma il presidente di Legambiente Di Matteo avverte: «Siamo d’accordo sulla reindustrializzazione. Bisogna fare, però, un salto di qualità: questo deve diventare un Laboratorio delle bonifiche, per realizzare un esperimento di frontiera da replicare eventualmente nel resto d’Italia e d’Europa».
La Repubblica, 24 marzo 2014
A chi tocca tutelare e promuovere il nostro patrimonio artistico? Lo svuotamento di risorse degli uffici di tutela e le conseguenti disfunzioni hanno fatto venire di moda la diceria che le Soprintendenze sono enti inutili, da eliminare. Quando la nave affonda, tutti se ne accorgono ma nessuno si prende la colpa: si fa prima a cercare un capro espiatorio. Così da una settimana all’altra la patria è salva se si aboliscono le Province, se chiude il Senato, se si smontano i Beni Culturali. Questa voglia di rottamare tutto e tutti, spacciata per moderna, non ha niente di nuovo: è del 1950 un intervento alla Camera del liberale Epicarmo Corbino su «l’enorme discredito» che getta sullo Stato chi dice «se si vuol fare una cosa seria, serviamoci di tutto, tranne che degli organi dello Stato».
L’ultimo libro di Sabino Cassese (
Governare gli italiani. Storia dello Stato), appena pubblicato dal Mulino, offre un lucidissimo sguardo di lungo periodo sul tarlo che rode l’organizzazione della cosa pubblica. Da sempre chi ci governa gonfia l’amministrazione di nuove funzioni e strutture con una mano, con l’altra la delegittima perché lenta, pletorica, inefficace. A lungo la soluzione per snellirla fu di creare aziende autonome (come le Ferrovie dello Stato, 1905) o enti pubblici (come l’Iri, 1933). Questo «processo di fuga dallo Stato» ne diventa, scrive Cassese, «un fattore di disaggregazione». È qui che si è innestato lo slogan di Reagan, «lo Stato non è la soluzione, è il problema»: l’impulso a privatizzare, spacciato per modernissimo, è tutto in questa frase datata 1981.
Ma la politica continua il gioco delle tre carte, delegittima lo Stato per asservirlo a sé: dopo la riforma del pubblico impiego (1993), la dirigenza è stata precarizzata, i concorsi per merito sono l’eccezione e non la regola, la competenza è esiliata, «il vertice amministrativo è composto di persone transeunti». «La politicizzazione del vertice si estende alla periferia, con assunzioni dettate da criteri di patronato politico, non da quello del merito». Si formano, in nome di una “flessibilità” contrabbandata per funzionale, legioni di precari, che impediscono di bandire concorsi e premono per assunzioni ope legis. Tutto contro la Costituzione (artt. 97-98), secondo cui «il personale pubblico dovrebbe esser retto dal principio di neutralità perché al servizio esclusivo della Nazione»: reclutamenti discrezionali e successive stabilizzazioni sono pertanto «un aggiramento della Costituzione». Lo Stato svaluta se stesso, delega funzioni a terzi e assume non per competenza e merito, ma secondo appartenenze e fedeltà.
Le Soprintendenze ai Beni Culturali, devastate dall’efferato dimezzamento dei bilanci perpetrato dal duo Tremonti-Bondi (2008), fanno solo in parte eccezione: da un lato i livelli dirigenziali sono sottoposti al voto di ubbidienza imposto dalla politica, ma il centro è ipertrofico rispetto agli uffici territoriali su cui pesano le funzioni costituzionali di conoscenza e tutela. Dall’altro, la mancanza di turn over (età media 57 anni) ha lasciato nelle soprintendenze molti funzionari assunti per competenza e per merito, che talora osano ancora opporsi alle voglie del politico di turno. Perciò spesso chi se la prende con le Soprintendenze o ne reclama l’abolizione non punta su una maggior funzionalità dell’amministrazione, ma su un suo totale asservimento alla politica: questo il senso di ripetute invettive del sindaco di Verona (il leghista Tosi) ma anche del sindaco di Firenze, ora presidente del Consiglio. A una frase di Renzi si ispira un professore di Architettura [Marco Romano, n.d.r.] ( Corriere, 3 marzo), secondo cui le Soprintendenze sono «un intralcio» e vanno soppresse; ma vuole affidarne le funzioni, guarda caso, alle facoltà di Architettura.
Questo il quadro entro il quale con monotone litanie si invoca da vent’anni l’intervento dei privati, inteso come supplenza a uno Stato in ritirata. In una recente intervista, il ministro Franceschini si è mostrato consapevole della differenza fra mecenatismo e sponsorizzazione (che in Italia sfugge ai più), e ha giustamente indicato come modello da seguire l’accordo del Ministero con la Fondazione Packard per gli scavi di Ercolano. “Mecenatismo” è infatti solo la donazione volontaria e senza alcun corrispettivo economico se non (com’è negli Stati Uniti, e dovrebbe essere da noi) qualche vantaggio fiscale.
Tutt’altra cosa è la presenza di ditte private che fanno quello che dovrebbe essere il core business dei musei (ricerca conoscitiva, mostre, programmi educativi): al Louvre o al Metropolitan a nessuno verrebbe in mente di appaltare una mostra a un privato. Ma il mecenatismo privato non può funzionare, se non in un quadro garantito da finanziamenti pubblici adeguati, come oggi non è. Lo ha scritto Eugenio Scalfari in queste pagine (11 novembre 2008): «cultura, ricerca, beni culturali, patrimonio pubblico, paesaggio sono considerati elementi opzionali dei quali si può fare a meno. Ma non si tratta di spese bensì di investimenti che, per loro natura, non possono esser interrotti senza causare nocumento e deperimento gravissimi. (...) La condizione in cui versano da anni le nostre Soprintendenze è quanto di più misero si possa immaginare: personale ridotto al minimo, sedi vacanti da tempo, servizi pressoché inesistenti. (...) Sarebbe necessario chiarire una normativa confusa, fonte di abusi continui che hanno devastato il nostro territorio disseminando mostri architettonici, lasciando deperire monumenti di importanza mondiale, occultando il mare con una cortina edilizia che ne ha confiscato la pubblica fruizione. (...) Da qui l’esigenza di una politica di tutela e di valorizzazione che sia unificata nei poteri e nelle competenze; tale unificazione non può avvenire che in capo allo Stato, il solo che sia depositario di una visione generale».
Perciò occorre non solo indicare un modello positivo di mecenatismo, come Franceschini ha già fatto, ma anche tenere a bada il patriottismo for profit di chi investe in beni culturali solo per averne un rientro economico (basterebbe seguire l’ottimo esempio della Francia). Ancor più importante è però tornare almeno ai livelli di investimento pubblico ante 2008 (già allora insufficienti), poiché i contributi privati sono virtuosi solo se si innestano su forti politiche pubbliche. In nome della Costituzione (art. 9), ma anche delle buone pratiche diffuse in tutto il mondo. In questo come in altri settori, il buon funzionamento delle istituzioni non è il problema. È la soluzione.
Anche a Firenze, come in Val di Susa, come a Venezia, chi si oppone alle Grandi opere inutili e devastanti non si limita a dire NO: Presenta anche soluzioni alternative. Ma l'alternativa in questo regime non è ammessa. Il manifesto, 23 marzo 2014
Il Pd di Matteo Renzi non ha dubbi: il faraonico, costosissimo e rischioso progetto del sotto-attraversamento fiorentino dell’alta velocità deve andare avanti. “La Tav è un progetto nazionale di Ferrovie dello Stato, e ci auguriamo che questo cantiere riprenda il prima possibile”. Parole di Dario Nardella, neo deputato tornato vicesindaco perché il leader lo vuole in Palazzo Vecchio. Un candidato sindaco che, alla vigilia delle odierne primarie di un partito che gli ha subito tolto dai piedi l’unico pericolo (Eugenio Giani), snobba l’invito del comitato “No tunnel Tav” ad una giornata di analisi — eccellente — sulle enormi criticità della grande opera. Con in parallelo la presentazione di quella alternativa, di superficie, esistente fin dagli anni ’90. Diventata oggi un raffinato e innovativo maxiprogetto di sistema ferroviario integrato per l’area metropolitana fiorentina. Meno impattante. Assai meno costoso. Ben più utile per un traffico ferroviario che, dati alla mano, conta molti più pendolari locali – penalizzatissimi — che utenti Tav.
Per giunta sul nodo di Firenze, e più in generale sull’intero percorso dell’alta velocità che da Bologna arriva nel capoluogo toscano, pesano costi stratosferici per la collettività. Anche senza considerare il sotto-attraversamento, con annessa una nuova, grande stazione sotterranea a soli due chilometri dalla centrale Santa Maria Novella, la tratta appenninica di 78,5 chilometri è costata la cifra record di 96,4 milioni al chilometro. Una somma enorme, cui dovrebbe aggiungersi almeno un altro miliardo e mezzo per il passante fiorentino. Di più: le indagini della magistratura, e il processo per le devastazioni ambientali in Mugello che si è appena (ri)concluso in corte d’appello dopo che la Cassazione ha fissato alcuni importanti punti fermi, hanno scoperchiato un vaso di pandora da cui è uscito l’intero codice penale o quasi. Tanto da aver bloccato, da più di un anno, i lavori del passante sotterraneo.
In questo contesto, tanto drammatico quanto abituale per gli studiosi delle patologie invariabilmente connesse alle grandi opere italiane, il giudizio di Alberto Asor Rosa è fulminante: “Se questi formidabili errori non fossero commessi per motivi di interesse economico, non smetterebbero certo di essere di una gravità eccezionale. Se dietro non ci fosse la corruzione, anche se fossero fondati solo su un ragionamento sbagliato dal punto di vista tecnico, vorrebbe dire comunque che il cervello delle nostre classi dirigenti è finito in pappa”.
Anche Asor Rosa, che presiede la Rete dei comitati per la difesa del territorio, ha fatto sentire la sua voce alla sala delle ex Leopoldine in piazza Tasso. Insieme a quelle di Mariarita Signorini di Italia Nostra, Fausto Ferruzza di Legambiente, e ad ingegneri, urbanisti, architetti e geologi (Alberto Ziparo, Massimo Perini, Giorgio Pizziolo, Vincenzo Abruzzo, Roberto Budini Gattai, Alberto Magnaghi, Mauro Chessa, Teresa Crespellani, Enrico Becattini, Manlio Marchetta e Alessandro Jaff). Del resto fra gli organizzatori della giornata c’era anche il “Lapei”, il Laboratorio di progettazione ecologica degli insediamenti, nato sotto l’egida dell’ateneo fiorentino. Mentre, sull’altro piatto della bilancia, a dare forfait non è stato il solo Nardella: il neo viceministro Riccardo Nencini, mugellano, ha girato alla larga da piazza Tasso, così come Confindustria, Confartigianato, e gli stessi sindacati confederali.
Sul punto, a nome del comitato No tunnel Tav, l’ex ferroviere Tiziano Cardosi non ha nascosto l’amarezza: “Qualcuno ci ha detto che aveva altri impegni. Qualcun altro ha ammesso che non se la sentiva di rompere certi equilibri. Ma se certi ragionamenti arrivano anche dalle associazioni di categoria, vuol dire che ad essere ‘malato’ c’è qualcosa di più profondo della semplice dinamica partitico-politica”. Quest’ultima resta comunque il fattore decisivo: “Abbiamo un nuovo presidente del consiglio che vuole agire con la spending review per recuperare gli sprechi di denaro pubblico — osserva Ornella De Zordo — scegliere l’opzione del passaggio in superficie, in una città che lui conosce bene, sarebbe un’ottima occasione per passare dalle tante parole ai fatti”. Conferma Asor Rosa: “Se Renzi volesse, nella sua posizione avrebbe la possibilità di esercitare una funzione molto rilevante”. Se.
Anche nell'elezione del sindaco di Parigi emerge vistoso e drammatico il tema delle disuguaglianze metropolitane, e dell'inadeguatezza dell'idea di città contemporanea, da molte prospettive. Corriere della Sera, 23 marzo 2014 (f.b.)
Comunque vada a finire l’odierna sfida elettorale, sarà una donna a governare Parigi. E sarà una donna di origine straniera, perfetta simbologia del cambiamento sociale e culturale della Francia di oggi, in cui si specchia la sua capitale. Parigi come New York, con un sindaco il cui dna riflette le tante anime e le tante diversità di una grande metropoli.
Anne Hidalgo, 54 anni, socialista, è nata in Spagna. Nathalie Kosciusko-Morizet, 40 anni, destra gollista, ribattezzata NKM perché più facile da pronunciare, discende dalla nobilità polacca che combatté a fianco di Napoleone. Due donne alle quali sono affidate le diverse speranze delle rispettive famiglie politiche. La Hidalgo, data per favorita, erede della lunga gestione del sindaco uscente Delanoë, deve riuscire a impedire che un test amministrativo si trasformi — come spesso avviene a metà legislatura — in uno schiaffo politico al governo centrale, ossia nel deposito della delusione dei francesi nei confronti del presidente Hollande, il cui consenso è in caduta libera. NKM, ex ministro dell’ecologia e molto vicina a Sarkozy, può offrire a una destra lacerata da conflitti di corrente e rivalità un messaggio di riscossa, con cui coltivare peraltro anche le sue personali ambizioni.
Ma la simbologia parigina non si ferma alla sfida fra due donne e due personalità. È evidente anche nel confronto di contenuti e programmi. Se depurati dalle forzature propagandistiche — un po’ più di sicurezza, un po’ più di alloggi popolari, un po’ meno funzionari pubblici, un po’ meno burocrazia e sprechi e riduzione delle tasse sulle abitazioni — riflettono un’idea molto simile della Parigi di oggi e di come sarà il suo futuro. Per la bruna spagnola dagli occhi mediterranei e per la bionda polacca dal malinconico sguardo slavo, le priorità sono l’ambiente, il trasporto pubblico, la lotta al traffico automobilistico e ai motori diesel, l’estensione delle aree pedonali. Chiunque vinca, non correggerà la politica che ha portato alla chiusura delle vie di scorrimento sulla Senna, al modello velib e autolib imitato in tante metropoli europee, a una forte diminuzione della circolazione privata. Entrambe le candidate annunciano misure più radicali, con la determinazione di azzerare picchi d’inquinamento atmosferico e acustico che periodicamente ancora si registrano in giornate e ore di punta.
La scommessa delle due «rivali» è, in sostanza, la prospettiva di un nuovo urbanesimo, una trasformazione della vita collettiva della capitale francese di cui sono già state poste le premesse nell’ultimo decennio. Una scommessa che stenta però a conciliarsi con le altre decisive realtà e funzioni di una metropoli che rappresenta il 10 per cento del prodotto nazionale, è il cuore burocratico di un Paese fortemente dirigista e centralista, è sede di 360 mila società e imprese, accoglie ogni anno milioni di turisti e ogni giorno milioni di pendolari. La Parigi della sfida fra le due dame, quella compresa fra i confini municipali, è piccola cosa rispetto alla «grande Parigi» con i suoi dodici milioni di abitanti e città satelliti che «usano» la capitale senza far parte di un disegno complessivo di governabilità e integrazione sociale.
Il «club Med» che piace tanto ai visitatori stranieri e ai «bobos» che hanno in privilegio di abitare in centro e di percorrerlo in bicicletta, è quindi in stridente contraddizione con le esigenze del lavoro e della produzione, con le vaste aree di povertà ed esclusione, con la «cintura» delle sue periferie popolari che tendono a strangolarlo. Il «club Med» è una macchina amministrativa che gira con cinquantamila impiegati, una città nella città, al costo di otto miliardi all’anno, senza contare l’apparato dei ministeri e delle funzioni statali. Capitale ecologica, ma anche capitale ostile, con un tasso di nevrosi collettiva e latente depressione e aggressività che oscura il mito della Ville Lumière. Anche per questo, la sfida delle due dame è un test nazionale: il futuro di Parigi, al di là dei risultati di un’elezione amministrativa, è anche una certa idea della Francia, dei suoi primati culturali ed economici, di una qualità della vita collettiva che tende a diventare, come a Parigi, un privilegio di pochi.
Fosse la volta buona! Intervista al sindaco Ignazio Marino. «In ritardo di 125 anni, per riportarci al centro del dibattito culturale mondiale». Il manifesto, 22 marzo 2014
Sindaco Ignazio Marino, sul progetto di demolizione di via dei Fori imperiali esiste già un vostro piano o siamo ancora alla discussione preliminare?
Esiste già un piano del Comune abbastanza dettagliato che mira a realizzare il parco archeologico più grande del pianeta. Un piano che purtroppo arriva tardivamente: basti pensare che la prima volta che si scrisse una legge per la sistemazione dell’area archeologica di Roma è stato nel 1881 con il ministro della Pubblica istruzione Guido Baccelli che insediò una commissione col compito di sistemare la zona monumentale della Capitale arrivando infine alla prima legge sulla zona archeologica romana, la 4730 del 14 luglio 1887. Quindi con 125 anni di ritardo, e già allora l’area indicata era la stessa che indichiamo oggi: il Foro romano, i Fori imperiali, il Colosseo, il Foro di Augusto, parte del Celio, il Circo Massimo, le terme di Caracalla e la via Appia antica.
Ma è proprio di questo che ha bisogno Roma?
È un’esigenza, non un’idea bizzarra: né di Guido Baccelli, né una mia reiterazione. Tutto questo si giustifica perché in questi luoghi è nata la civiltà occidentale. Sotto il balcone dell’ufficio del sindaco c’è la Tribuna dei Rostri dove è salito Marco Antonio per pronunciare l’orazione funebre per Giulio Cesare. Accanto c’è la via Sacra, dove i soldati che tornavano dalle campagne di guerra depositavano gli ori frutto dei saccheggi, e sulla quale hanno camminato Cicerone e Vercingetorige, Catilina e Catone. È chiaro insomma che è capitato a noi possedere queste aree ma abbiamo la responsabilità e il privilegio di custodirle e valorizzarle nell’interesse dell’umanità.
Ai romani, che vedranno sconvolta tutta la viabilità, probabilmente con grosse ripercussioni sul traffico cittadino, cosa ne verrà?
Sulla viabilità io sono molto netto: è vero, se aprissimo alle auto un tratto della Via Sacra certamente scaricheremmo una parte del traffico urbano, ma io sono assolutamente contrario. Non possiamo assumerci la responsabilità di danneggiare un’area già molto danneggiata e saccheggiata.
Ma il parco archeologico è anche una straordinaria e non utilizzata risorsa economica. Già da subito, dal 21 aprile prossimo, abbiamo programmato ogni sera tre cicli di spettacoli a pagamento in sei lingue diverse: attraverso ologrammi e tecnologie luminose ricostruiremo nell’aspetto originario la Roma di Augusto di duemila anni fa e il Tempio di Marte Vendicatore che venne costruito in 40 anni dall’imperatore Augusto a ridosso dei Mercati di Traiano. È un progetto realizzato non con i soldi del comune ma avremo un ritorno in tre anni del 150% delle risorse investite.
Chi ha investito su questo progetto?
Zètema, una società controllata dal comune con fondi propri. E questo è solo l’inizio. Perché credo che in nessun posto al mondo avrebbero utilizzato il Colosseo come una rotatoria spartitraffico, o lascerebbero al buio e non fruibili di notte queste nostre aree uniche al mondo. Vogliamo che Roma torni al centro del dibattito culturale del pianeta. Ma per continuare questo progetto abbiamo bisogno che il ministero dei Beni culturali istituisca una commissione per vedere quali dei vincoli imposti nel 2001 dall’allora governo Berlusconi è possibile rimuovere. Avevamo cominciato a discuterne col ministro Bray e tre giorni fa ho incontrato Franceschini, anche per parlare dell’accesso ai fondi europei a cui stiamo lavorando dall’inizio di febbraio.
Per il Colosseo, dopo il fallimento della via commissariale, si è dovuti arrivare al restauro sponsorizzato da Diego Della Valle. Per questo progetto, c’è l’ipotesi di trovare un “club di Mecenate”?
Non è solo un’ipotesi, è un lavoro molto avanzato con un gruppo di filantropi internazionali. Ma la differenza con una sponsorizzazione privata è che noi non vogliamo innescare risvolti di tipo commerciale o pubblicitario. Stiamo chiedendo di investire risorse economiche allo scopo di partecipare appunto a un “club di filantropi” che senta il bisogno, l’onore e l’orgoglio di partecipare a questa opera. E già abbiamo un numero di donatori certi o potenziali: singoli imprenditori molto benestanti o addirittura Stati che hanno interesse a dimostrare quanto ci tengano a questa area archeologica simbolo della civiltà occidentale.
Eppure, se tra gli esperti di archeologia si discute di quale era romana vada riportata alla luce, molti architetti e urbanisti propongono un’altra idea di città, con il centro antico di Roma arricchito e valorizzato da opere moderne, come avviene in altre capitali europee.
È un dibattito interessante e importantissimo, e per questo ho sollecitato Bray e adesso Franceschini a istituire una commissione di altissimo livello. Perché non ho l’arroganza di immaginare che possa essere io o la giunta a decidere. Sappiamo che al di sotto dei Fori imperiali si potrebbero riportare alla luce i Fori di Nerva e di Cesare e parte del Foro di Augusto. Ma sopra questi Fori si è costruito nei quasi due millenni successivi. Non posso essere io a dire quale progettualità e quale visione sia la migliore.
Ma poi, una volta riportata alla luce l’antica Roma, la lasceremo marcire come avviene ora, e non solo nella Capitale? D’altronde, sulla manutenzione dei siti archeologici e sugli sprechi di sovrintendenze e commissari ha già detto tutto la Corte dei conti…
Nella nostra visione, con gli incassi dei biglietti, insieme ai fondi europei e alle donazioni filantropiche, si può contribuire significativamente alla manutenzione di questi luoghi unici al mondo. Anche se deve essere garantita la possibilità di accesso culturale a chi ha meno risorse, come gli studenti o gli anziani. Presto avvieremo ulteriori pedonalizzazioni e posso dire che l’idea è di realizzare il parco archeologico entro la fine di questa consigliatura.
L'articolo integra l'analisi urbanistica di Parma di Paolo Scarpa, con un'ampia finestra sulle contraddizioni del sindaco grillino. Unn "rivoluzionario" imbrigliato dalla realpolitik della gestione quotidiana. Il manifesto, 20 marzo 2014
Pizzarotti ci ha costruito la campagna elettorale, l'impianto doveva essere fermato, smontato, venduto a pezzi ai cinesi. Ma da dieci mesi brucia immondizia nel cuore della food valley, a due passi dalla Barilla
Se è vero che la rivoluzione non russa, nella Stalingrado grillina sembra comunque sonnecchiare. Volevano rivoltare la città i giovani sanculotti a 5 Stelle che, ormai due anni fa, conquistarono il Comune di Parma in uno sfavillio di proclami e buone intenzioni. Strada facendo i loro forconi si sono spuntati contro la realpolitik della gestione quotidiana, inducendoli a più miti consigli.
«Rifiuti zero», il loro acuto grido di battaglia in campagna elettorale con il «No» a quell’impianto di incenerimento allora in costruzione a una manciata di chilometri dal centro storico. Doveva essere fermato, smontato, venduto a pezzi ai cinesi e, il resto, riconvertito dagli olandesi in un impianto di selezione evoluto. Parma come San Francisco, mecca internazionale del riciclo virtuoso. E Parma, umiliata dalle manette che avevano travolto la giunta comunale di Pietro Vignali, si aggrappò al credo ambientalista di Federico Pizzarotti, felice di riconquistare i riflettori nazionali per lo strabiliante risultato del voto, non più per le ruberie della città champagne.
Ma da dieci mesi l’inceneritore fuma alle porte della città, a due passi dalla Barilla, nel cuore della food valley. L’inaugurazione ufficiale avverrà tra qualche settimana, intanto comunque brucia i rifiuti del capoluogo e di un pezzo della provincia anche se all’orizzonte si profila il rischio che possa ospitare spazzatura da altri territori (se ne sta discutendo in Regione) fosse solo per restituire il favore di dieci anni di esportazione parmigiana. Ipotesi immediatamente stroncata dall’amministrazione pentastellata, con la stessa forza con la quale aveva bocciato anche l’accensione del camino. «Dovranno passare sul cadavere di Pizzarotti» tuonò in piena campagna elettorale Beppe Grillo contro quello che bollò come un tumorificio. «Avremo un cadavere schiacciato» chiosò con ironia Elvio Ubaldi, il sindaco che quel progetto lo vide nascere.
Eppure Pizzarotti, quel forno, dimostrò di volerlo spegnere davvero. Lo mise addirittura, nero su bianco, nel programma di insediamento: «Stop alla costruzione dell’inceneritore e sua riconversione in un centro di riciclo e recupero». E la sua maggioranza monocolore votò compatta. «Non ho mai detto che lo avrei fermato, ma che avrei fatto il possibile» afferma invece oggi il sindaco, sconfessando pubblicamente il suo stesso documento. Un’aperta contraddizione che i parmigiani accettano con rassegnato distacco, salvo che la questione non leda l’orgoglio locale. Se Grillo parte all’attacco — «Chi mangerà il parmigiano e i prosciutti imbottiti di diossina?» — il sindaco, animato da sano realismo, si affretta invece a premiare, proprio nella giornata del santo patrono, l’imbufalito Consorzio di tutela del salume ducale. «Un brand, quello del Prosciutto di Parma sinonimo di eccellenza e di qualità», si legge nella motivazione dal sentore riparatorio.
Più che una rivoluzione, quindi, quell’inceneritore si sta rivelando una via crucis per il primo cittadino, partito con candido slancio. «Mica mettiamo una bomba, si va da Iren e si parla», disse a urne ancora calde. E per tutta risposta la multiservizi, che aveva già investito 194 milioni di euro, chiese un risarcimento danni per stop al cantiere da 27 milioni (sulla cui congruità dovrà a breve decidere il Tar) ai quali se ne potrebbero aggiungere altri 7 a causa di un fermo deciso dallo stesso Pizzarotti.
Ma anche l’accensione costa e l’obiettivo «rifiuti zero» resta un miraggio nonostante la raccolta differenziata spinta sia stata estesa a tutta la città per portare Parma al di sopra di quel misero 50% che la relega a fondo classifica tra i comuni della regione. L’amministrazione 5 Stelle ce la sta mettendo tutta, ma il sistema di raccolta, lo stesso adottato da Iren in tutte le zone servite, è aspramente criticato dall’opposizione comunale che chiede un ritorno ai più igienici cassonetti mentre oggi i sacchetti dell’immondizia si accumulano nelle strade con i parmigiani confusi che abbandonano sui marciapiedi tutto quello che non sanno come e dove smaltire.
«La colpa di Pizzarotti agli occhi di Grillo - scrive il capogruppo del Pd in consiglio comunale Nicola Dall’Olio - è di non essere più, e probabilmente non essere mai stato, rivoluzionario». E sull’inceneritore aggiunge: «Non ha avuto il coraggio di immolarsi per fermarlo a ogni costo». I parmigiani però non hanno rispolverato la ghigliottina perché dopo la Parma champagne sembrano accontentarsi di un’onesta malvasia. «Almeno questi non rubano», il commento più diffuso che circola nei bar. Con buona pace della rivoluzione attesa.
Prosegue l'analisi del manifesto (20 marzo 2014) sulle città italiane. Dopo Milano (7 febbraio), Sassari(13 febbraio), Venezia (20 febbraio), Napoli (27 Febbraio), Avellino (6 marzo), Bologna (13 marzo), eccoci nel cuore della foodvalley.
Per comprendere l'evoluzione delle recenti trasformazioni urbane di Parma è forse sufficiente percorrere i cinquanta metri che, nel cuore della città storica, separano Piazzale della Pilotta da Piazza della Ghiaia. Pochi passi che permettono di inquadrare, una accanto all'altra, le espressioni di un'illuminata etica della cosa pubblica, probabilmente smarrita, l'arroganza miope degli anni del "fare" berlusconiano, la paralisi cerebrale dell'oggi. Ovvero, la rappresentazione delle diverse fasi di una crisi che a Parma ha avuto origini di carattere culturale, assai prima che di natura economica.
Piazzale della Pilotta è il grande squarcio lasciato dalla guerra davanti al palazzo del potere farnesiano, uno spazio rimasto abbandonato per decenni, in attesa che se ne definisse la destinazione urbanistica. Dopo una sequela di progetti e concorsi di idee, tutti finalizzati a costruire un volume, qualunque esso fosse, l'ultima Giunta di centrosinistra di Parma, alla fine degli anni novanta, decise di sciogliere quel nodo urbanistico irrisolto, pensando una sorta di consapevole spazio vuoto, senza volumi, né edifici, né emergenze. E così si realizzò il progetto di Mario Botta, semplicemente un grande prato ai piedi del Palazzo seicentesco, aperto alla città, costellato di radi segni minimali. Un progetto che ebbe il merito di restituire monumentalità al Palazzo ma che rappresentava anche l'espressione della resistenza coraggiosa alle pulsioni edificatorie.
Con il succedersi in Comune di maggioranze diverse (tre di centro destra e una del movimento Cinquestelle), si perdette progressivamente il senso di quella scelta, abbandonando di nuovo la piazza a se stessa, con il risultato che oggi è uno spazio degradato, mortificato da troppe aggiunte edilizie incongrue. Ma uno spazio degradato favorisce fatalmente comportamenti socialmente sbagliati e quindi la piazza è diventata anche scenario di attività illecite. Un problema di fronte al quale la miseria intellettuale dell'oggi sembra suggerire solo soluzioni imbarazzanti, come l'idea di recintare la piazza, chiudendola alla fruizione pubblica.
Poche decine di metri separano la Pilotta dalla Ghiaia, sede storica del mercato alimentare, che era il luogo più vivo della città e che un progetto promosso dalla Giunta di centrodestra nel 2005 e affidato a una gestione privata, ha portato alla sua desertificazione, con l'emigrazione definitiva dei vecchi negozi alimentari. Oggi grandi vele in acciaio e vetro coprono uno spazio inutilizzato, in cui nessuno ha ancora una chiara idea di cosa farci, e attorno al quale, al posto delle vecchie botteghe sfrattate per sempre, aprono profumerie in franchising e negozi di chincaglierie orientali. Un piano sotterraneo, senza illuminazione diretta, ospita negozi che sono già chiusi, perché a nessuno viene in mente di andare laggiù a fare la spesa. In realtà, la vera finalità, soprattutto economica, di questo progetto, che ha ucciso un pezzo fondamentale dell'identità di una città, era la costruzione di un parcheggio sotterraneo privato, sotto la piazza, la cui rampa di accesso costituisce oggi un improprio "retro", rivolto come un gesto irrispettoso verso la facciata laterale della Pilotta farnesiana, umiliando così la relazione tra le due piazze, come tra due progetti, accentuando la differenza tra due concezioni antitetiche della cosa pubblica, del rapporto tra storia, cultura e città.
Ma è forse nell'Oltretorrente, il quartiere popolare sull'altra sponda del torrente Parma, che si manifesta oggi, con ancora maggiore crudezza, la crisi della città, esplicitata nella distesa di cartelli "Vendesi" affissi alle saracinesche abbassate delle vecchie botteghe e nei portoni delle case di civile abitazione nella prima parte di Via Bixio, il cuore del quartiere. La sopravvivenza del quartiere è garantita ancora dalla presenza di alcuni dipartimenti universitari (salvati per fortuna dalle spinte alla delocalizzazione), quindi dagli studenti e da alcune comunità straniere. Ma il senso di abbandono che lo pervade è l'emblema di una ferita aperta.
L'Oltretorrente è il quartiere che aveva visto sconfitte le truppe di Italo Balbo nel 1922, fermate dalle barricate, e che venne poi punito, al punto che l'urbanistica del ventennio operò qui alcuni squarci traumatici, che non riuscirono tuttavia a sradicarne l'anima. Ma l'opera di scardinamento sociale, che non riuscì a Mussolini, sembra invece riuscita alle politiche urbanistiche degli ultimi anni, conseguenza diretta di una trasmutazione della forma urbana, che nella follia edificatoria di inizio millennio, in poco più di dieci anni ha sconvolto un equilibrio consolidato, realizzando una città fuori dalla città, che ha generato l'abbandono progressivo di molte funzioni del Centro, tra cui, in primis, residenza e terziario.
La nuova città è cresciuta attorno ai nuovi centri commerciali, seminati lungo le tangenziali: negli anni novanta ne esisteva solo uno, mentre ora ne sono stati realizzati altri sei, oltre a una trentina di supermercati, ipermercati, grandi centri di vendita specializzati. In una città, che rimane stabilmente sotto quota 200 mila abitanti, l'impatto sul tessuto esistente è stato pesante, perché ha indotto a nuovi comportamenti sociali e allo spostamento dei baricentri di interesse aggregativo. Sono trasformazioni urbane che derivano in linea diretta dall'evoluzione di alcuni passaggi politici, a partire dall'avventura neoliberista avviata nel 1998 dal Sindaco Elvio Ubaldi, sino all'implosione della maggioranza di centrodestra culminata con gli arresti, tra cui quello del suo successore, Pietro Vignali.
E il territorio è stato, come sempre in questo disgraziato paese, materiale di scambio privilegiato, tra politica e affari. Il mito della "città cantiere", la delegittimazione del Piano urbanistico come strumento di regolazione dei fenomeni, hanno reso agevole un processo di privatizzazione della cosa pubblica e di depredazione della risorsa suolo. Il piano regolatore, sempre derogabile tramite varianti, accordi di programma, strumenti attuativi, modifiche regolamentari, venne ridotto al paravento mobile dell'accondiscendenza alle istanze edificatorie. Sul Prg di Bruno Gabrielli, che la nuova maggioranza di centrodestra aveva ereditato dalla precedente nel 1998, furono approvate oltre 1.400 Osservazioni, sventrandone l'assetto dimensionale e dando il via a un assalto alla diligenza che non avrebbe avuto pause per quasi quindici anni. Un'escalation volumetrica, che doveva condurre fatalmente allo scoppio della bolla immobiliare, uno scoppio che è arrivato tuttavia molto tardi, forse troppo tardi, e che ha fatto le prime vittime proprio nel settore edile che aveva scommesso su un'espansione senza fine né limiti. La sezione fallimentare del Tribunale è diventata teatro di un'ecatombe di imprese, medie e piccole; la nuova periferia è costellata di cantieri abbandonati, di case fantasma invendute, in un mercato immobiliare esangue, tra eccesso di offerta e congelamento della domanda.
Quando la magistratura scoperchiò il vaso in cui erano racchiusi i vizi del sistema di potere, la reazione, di fatto, fu debole. Non seppe reagire soprattutto il centrosinistra, che riuscì a perdere nel 2012 elezioni comunali già vinte, nella presunzione che bastasse stringere un patto con alcuni centri di interesse (gli stessi che avevano appoggiato per anni le precedenti maggioranze), per "riprendersi" la città, con un'operazione di potere, che è stata umiliata dagli elettori. L'avvallo costante o, più precisamente, il non-dissenso che la Provincia, retta dal centro sinistra, aveva garantito alle politiche urbanistiche del centrodestra, aveva reso poco credibile la sua posizione di alternativa.
In questo contesto è nata la vittoria del movimento Cinquestelle, come reazione di una città libertaria, individualista e comunque poco incline alla disciplina di schieramento, a una politica in cui destra e sinistra apparivano corresponsabili del disastro, anche se in misure e modi diversi, e in cui quindi occorreva voltare radicalmente pagina. Quello che è stato poi avviato dai Cinquestelle è un esperimento ancora non delineato, ispirato a un principio di rigore, il "non rubare", che sembra già molto, nel quadro di un paese corrotto, ma che ad oggi non sembra dimostrare contorni o strategie definiti, né molte idee, impegnato come è soprattutto nel controllo del debito, tra diminuzione di servizi e aumenti tariffari.
Eppure proprio nelle politiche urbanistiche i primi segnali non sono stati esaltanti: appena insediati, i nuovi amministratori hanno ritenuto di dare immediata approvazione a strumenti attuativi di espansione edilizia, anche in casi controversi, in cui ritrovamenti archeologici, vizi procedurali, errori progettuali palesi avrebbero consigliato, se non altro, di ridiscutere scelte sbagliate della passata amministrazione. Una modalità vecchio stile, dettata dalla volontà di portare ad incasso, in un bilancio comunale esangue, ulteriori introiti per oneri di urbanizzazione, ma che è apparso, nella sostanza, anche un segnale di rassicurazione verso il settore immobiliare.
Le politiche locali attuali, una sorta di navigazione a vista senza molto orizzonte, sembrano volere accentuare il senso della ferita aperta, un'autopunizione che Parma si infligge per le proprie colpe, un cilicio politico che si traduce in una rassegnazione collettiva, si rispecchia nel degrado degli spazi pubblici, nell'abbandono diffuso dei rifiuti per le strade, come nell'addormentamento della vita culturale e nell'aumento del disagio sociale.
Da città capitale di tutto, un refrain ossessivo ripetuto per quindici anni, la Parma delle grandi opere, che voleva persino una metropolitana, come le capitali europee, nell'apice della crisi si trova ad essere cavia di un esperimento politico improvvisato, in cui, paradossalmente, la grande nuova opera che sembra meglio funzionare è quel termovalorizzatore, nel cuore della foodvalley, attorno al quale nel 2012 si consumò una battaglia elettorale, che portò alla vittoria di chi ne aveva con solennità promesso il blocco della costruzione. Un simbolo anch'esso, che, inutilmente, si vorrebbe oggi rimosso dalla coscienza collettiva, e che invece se ne sta lì, imponente, alle porte di accesso sull'autostrada, a esprimere in sé, nel bene e nel male, tutte le contraddizioni di una città e della sua cultura politica.
Sospese le ordinanze che vietavano il passaggio delle Grandi navi nella città antica di Venezia. La discussione si riapre, ma si dovrà valutare e comparare le soluzioni non solo sull'impatto estetico, ma sul destino deòla città e della sua Laguna. Dai giornali locali riprendiamo articoli di Albeto Vitucci (La Nuova Venezia), Paolo Navarro Dina (il Gazzettino) e Alberto Zorzi (Corriere del Veneto), 18 marzo 2013
La Nuova Venezia
Il Tar azzera i divieti alle grandi navi
di Alberto Vitucci
Il Tar sospende le ordinanze. E da ieri non ci sono più limiti, di numero e di tonnellaggio, al transito delle grandi navi nel canale della Giudecca e in bacino San Marco per il 2014 e il 2015. «Non è stata rispettata la gradualità in assenza di soluzioni alternative», scrivono i giudici amministrativi nelle due ordinanze pubblicate ieri. E l'ordinanza della Capitaneria, continuano, «non appare sostenuta da un'adeguata attività istruttoria volta all'identificazione dei rischi assunti a fondamento delle misure mitigatone». Che significa? Che in attesa della discussione nel merito, fissata per il 12 giugno, vengono a decadere i prowedimenti firmati dalla Capitaneria di porto. E in particolare l'ordinanza 153 de 2013, che prevedeva la riduzione nel 2014 del passaggio di navi superiori alle 40 mila tonnellate (non più di 708 in un anno, il 12,5 per cento in meno con i traghetti deviati a Marghera e non più di cinque attraccate contemporaneamente in Marittima. Ma soprattutto il divieto di passaggio alle navi superiori alle 96 mila tonnellate. Dunque, si torna alla situazione precedente.
Evidente la soddisfazione di Vtp, La Venezia terminal passe : eri che aveva presentato il ricorso contro il prowedimento insieme alle imprese portuali coma la Bassani viaggi e la Panfido rimorchiatori. «Il Tar con un prowedimento che entra anche nel merito della questione riconosce le nostre buone ragioni», dice il presidente di Vtp Sandro Trevisanato, «e riconosce quello che diciamo da sempre, cioè l'inesistenza di pericolosità e rischi per il passaggio delle grandi navi in laguna. Un'ordinanza coraggiosa, perché i giudici non si sono fatti influenzare dall'emozionalità e dal clima. Adesso occorre che la politica riprenda in mano la questione e decida. Se ci invitano noi siamo disposti a sederci a un tavolo per individuare le vie di accesso alternative alla Marittima».
Freddo il commento del sindaco Giorgio Orsoni. «Per ora sappiamo che quell'ordinanza era illegittima. Anche abbiamo presentato un ricorso su questo, sarà discusso a breve. Confido in ogni caso che il governo saprà imporre ai suoi concessionari il rispetto di quanto deciso». Partita aperta, dunque. Anche se la sentenza del Tar (presidente Bruno Amoroso, relatori Enrico Matti e Silvia Coppari) segna un punto in favore della croceristica. Costringendo in sostanza i vari soggetti a ricominciare daccapo. Adesso le strade sono due. Potrebbe essere emessa una nuova ordinanza motivata e concordata con i soggetti che preveda una riduzione graduale, in presenza del via ai «progetti alternativi». Oppure «tutto resta com'è», come temono gli anti navi. A di polemiche e buoni propositi, in assenza di provvedimenti (annullati) i passaggi delle navi potrebbero non essere ridotti almeno per qualche anno.
Il Gazzettino
Grandi navi, via libera dal Tar
di Paolo Navarro Dina
«Mancano zioni alternative». Accolto il ricorso di Venice Terminal Passeggeri contro le limitazioni al traffico crocieristico in Laguna. Nuova decisione il 12giugno Paolo Navarro Dina VENEZIA Le alternative non ci sono. E allora è bene che tutto resti com'è. Il Tribunale amministrativo per il Veneto ha deciso di prendere tempo. E di non guardare in faccia neanche al precedente governo di Enrico Letta che nel novembre scorso aveva cercato una mediazione (che non aveva accontentato nessuno sia pure dietro le quinte) sulla questione delle Grandi Navi. E ieri il Tar lo ha messo nero su bianco con la sospensiva del ricorso numero 146 proposto da Venezia Terminal Passeggeri, la società che gestisce lo scalo passeggeri della Serenissima, contro un pool di enti e istituzioni (ministeri delle Infrastrutture; dell'Ambiente, della Difesa; Autorità portuale, Magistrato alle Acque e Comune di Venezia) sull'ordinanza emessa dall Capitaneria di Porto che, all'indomani di un vertice ministeriale a Palazzo Chigi, con tutti gli enti interessanti, aveva messo in pratica le decisioni assunte a Roma con le quali si prevedeva la limitazione al transito nel canale della Giudecca di navi passeggeri di stazza lorda superiore alle 40 mila tonnellate; nonchè il divieto per l'anno 2015 del transito in Bacino di San Marco e Canale della Giudecca di navi passeggeri di stazza superiore alle 96 mila tonnellate e relative misure di mitigazione per il periodo transitorio 2014-2015. Ora, a seguito della sospensiva del Tar tutto torna in alto mare. Il ministro all'ambiente Galletti: «Rispettiamo la magistratura ma serve soluzione rapida per eviater che le Grani navi attraversino il bacino di San Marco». E ancor più potranno sorgere problemi, non solo di carattere logistico, ma di pro grammazione su un tema così delicato anche per il futuro, visto che lo stesso Tar ha stabilito una decisione "nel merito" sui provvedimenti per il 12 giugno prossimo, contemporaneamente all'avvio della stagione crocieristica, pur se questa è stata già programmata da tempo. il "niet” del Tar fa tornare quindi tutto all'anno zero, e anche se qualcuno ha visto implicitamente un favore all'Autorità portuale e ai suoi progetti di scavo del canale Sant'Angelo-Contorta nella laguna Sud, la questione ritorna drammaticamente all'attenzione, anche perchè il Tribunale amministrativo sottolinea nel suo documento che "le misure - recita il dispositivo - si pongono in contrasto con lo specifico principio di gradualità in base alla quale l'interdizione del transito può essere consentita solo a partire dal momento dell'effettiva disponibilità di una via alternativa». Insomma, manca il Contorta o qualsiasi altra via navigabile? Bene, allora si torni alla consuetudine adottata finora. Anche quella di far continuare a solcare le grandi navi a pochi metri da Palazzo Ducale. Ma c'è di più. Il Tar getta altra benzina sul fuoco, anche con un'indubbia critica alle istituzioni laddove afferma: «L'ordinanza di novembre - aggiungono i giudici - non appare sostenuta da un'adeguata attività istruttoria preliminare volta all'identificazione dei rischi connessi ai traffici nei canali in questione e ai transiti (...)». Ma è ancora più pesante la "chiusa" del provvedimento: «Tale carenza - dicono i magistrati del Tar - oltre a concretare un difetto di motivazione, non consente altresì di valutare appieno l'idoneità, la razionalità e la congruenza delle misure limitative adottate in concreto». Nell'ultima parte della sentenza di sospensiva, il Tar ribadisce le "contestazioni di segno opposto (Vtp e Comune, ognuno per la propria parte ndr)" in modo assolutamente speculare (...) volte a dimostrare per un verso la sproporzione rispetto agli obiettivi di tutela e salvaguardia dell'ambiente lagunare e, per l'altro, l'assoluta insufficienza rispetto al medesimo obiettivo»
Corriere del Veneto
Grandi navi, niente limiti Il Tar: prima le alternative
di Alberto Zorzi
Grandi navi, tutto da rifare. Il Tar ha accolto la richiesta di sospensiva presentata con due ricorsi da Venezia terminal passeggeri e da otto imprese portuali più il comitato Cruise Venice. L'ordinanza boccia i limiti del governo che imponevano una riduzione del 12,5% del traffico delle crociere per il 2014, ma anche i limiti per il 2015 che vietavano l'ingresso alle navi superiori alle 96 mila tonnellate. Chi il Tar lo «mastica» tutti i giorni, quando ha ricevuto le ordinanze numero 178 e 179 depositate ieri pomeriggio poco dopo le 3 e firmate dal giudice Silvia Coppari e dai colleghi della prima sezione, Bruno Amoroso ed Enrico Mattei, l'ha capito subito. Quelle tre pagine di motivazione, decisamente anomale per una ordinanza di sospensiva, sono un'ipoteca anche in vista della nuova udienza che il 12 giugno affronterà nel merito, in maniera più approfondita, la questione. E dunque, pur con le pmdenze del caso e una giusta dose di scaramanzia, il futuro sembra segnato: le grandi navi da crociera torneranno davanti a piazza San Marco, senza limiti, fino a data da destinarsi. Questo dicono le due ordinanze, che hanno accolto la richiesta di sospensiva presentata da un lato da «Venezia terminal passeggeri» (Vtp), la società di gestione del terminal della Marittima (con l'avvocato Vittorio Domenichelli), dall'altro da otto imprese portuali più il comitato pro-navi Cruise Venice (con l'avvocato Roberto Longanesi Caftani). Fino al 12 giugno sono dunque «congelati» i limiti che la Capitaneria di Porto aveva stabilito sulla base delle indicazioni del governo dopo l'incontro a Roma del 5 novembre scorso con Regione Veneto, Comune di Venezia e Autorità portuale: ovvero una riduzione del 12,5% del traffico delle navi da crociera per l'anno 2014 (da 809 del 2012 a 708), mentre per l'anno 2015 era previsto un limite ancor più stringente, cioè il divieto di ingresso dalla bocca di porto del Lido alle navi superiori alle 96 mila tonnellate di stazza. Un limite, questo, che secondo Vtp avrebbe di fatto dimezzato il numero di passeggeri a Venezia (che lo scorso anno erano stati 2,2 milioni) e messo a rischio 2.50o posti di lavoro diretti e 4.500 con l'indotto. Ed è il motivo per cui il gestore del terminal, in una nota, ieri ha esultato. «Questa decisione conferma la validità delle tesi da noi sempre sostenute - dice Vtp - circa l'inesistenza di pericolosità o di danni dovuti alla circolazione della navi in laguna. Il Tar non si è fatto influenzare dalle inconsistenti argomentazioni dei circoli del "no" o da ragioni di tipo emozionalo». Due, secondo i magistati, i motivi per la sospensione, che apre vari scenari: difficile pensare a un ricorso immediato al Consiglio di Stato, vista l'udienza di merito fissata così a breve, ma non è scontato nemmeno che, di fronte a una situazione anche sospesa, le grandi compagnie siano pronte subito a rimettere quelle «grandi navi» ritirate dopo il provvedimento. Il primo è che l'ordinanza della Capitaneria sarebbe in contrasto con il decreto Clini-Passera di due anni fa (il famoso «anti-inchini» successivo alla tragedia della Costa Concordia all'isola del Giglio), che aveva posto dei limiti molto più stringenti - stop alle navi oltre le 4o mila tonnellate - ma subordinati a «praticabili vie di navigazione alternative». «Le misure in esame si pongono in contrasto con lo specifico principio di gradualità enunciato - scrive il Tar - L'interdizione del transito può essere consentita solo a partire dal momento dell'effettiva disponibilità di una via alternativa». Secondo i giudici mancherebbe inoltre un'adeguata istruttoria, «volta all'identificazione dei rischi connessi ai traffici nei canali in questione (...) non potendosi evincere dal provvedimento un'esauriente ponderazione delle specifiche valutazioni dei rischi, assunti a fondamento delle misure mitigatorie in esame). Di qui la «carenza di motivazione» del provvedimento, che peraltro ha portato lo stesso Comune di Venezia a impugnare l'ordinanza per motivi opposti, cioè ritenendo troppo «soft» quel taglio del 12,5% a fronte dell'indirizzo del governo che diceva «fino al 2=%». «Il Tar è stato molto coraggioso», dicono all'unisono gli avvocati Domenichelli e Longa-nesi Caftani, i due legali che si erano battuti nell'udienza di giovedì scorso per dimostrare che i limiti avevano finalità meramente «estetiche», non di sicurezza o ambientali, e che ora ricordano gli interessi (e le pressioni) in campo, dalla politica agli ambientalisti, alla comunità internazionale. «Prendiamo atto dell'ordinanza, ma noi abbiamo fatto quello che dovevamo, sulla base delle indicazioni del ministero», dice il comandante della Capitaneria, l'ammiraglio Tiberio Piattelli. Alberto Zorzi Prendiamo atto dell'ordinanza, ma noi abbiamo fatto quello che dovevamo, sulla base delle indicazioni del ministero Tiberio Piattelli comandante della Capitaneria
Due anni di storia L'incidente del Giglio e il decreto «inchini» II 13 gennaio 2012 la Costa Concordia affonda all'isola del Giglio. II governo, dopo che già da mesi a Venezia si protesta contro le crociere, stabilisce che davanti a San Marco non potranno più passare le navi sopra le 40 mila tonnellate, ma solo dopo aver trovato una strada alternativa: è il decreto «anti-inchini» Clini-Passera Le proteste e il tuffo in Bacino In città la protesta monta. I «No Nav» insultano dalla banchina i passeggeri delle navi e ritengono che il decreto sia carta straccia, perché non stabilisce limiti temporali. La manifestazione più clamorosa è quella del 21 settembre scorso, quando una cinquantina di persone si tuffa nel canale della Giudecca bloccando una nave per un'ora Lo stop del governo e il pressing di Letta II 5 novembre una riunione a Roma presieduta dall'ex premier Letta stabilisce che nel 2014 le navi dovranno essere «fino al 20 per cento» in meno rispetto al 2012 (ma il limite reale sarà del 12,5), mentre nel 2015 saranno off limits quelle sopra le 96 mila tonnellate. Il 5 dicembre la Capitaneria pubblica le ordinanze 1 andi na transito n- . aguna le limitazioni sono congelate no al 12 giugno, il Tar si esprimerà nel merito della questione L'ordinanza della Capitaneria era illegittima, ci aspettavamo un pronunciamento del genere Giorgio Orsoni sindaco di Venezia Lo stop ai limiti al transito è un fatto grave per Venezia e per il futuro della città Ilaria Borletti Buitoni sottosegretario alla Cultura
Finalmente inizia la realizzazione il progetto della nuova Roma, sognato da Antonio Cederna e avviato dal grande sindaco Luigi Petroselli. Un buon inizio: la rimozione dell'ingombro infrastrutturale con cui l'imperialismo fascista si era impossessato dei pezzi della storia della Roma antica. La Repubblica, ed. Roma, 18 marzo 2014
«UN SUBLIME spazio pubblico», l’aveva definito Benevolo. Un parco archeologico senza macchine che dai Fori abbraccia il Colosseo, il Palatino e il Circo Massimo, il vertice di un cuneo — lo chiamava così Cederna — che da piazza Venezia e poi dalla Passeggiata archeologica arriva all’imbocco dell’Appia Antica e si spinge fino ai Castelli. Caudo procede con prudenza (ne parlerà in
un convegno venerdì al Teatro dei Dioscuri organizzato dall’Associazione Bianchi Bandinelli). L’impianto è ambizioso, prevede che l’archeologia entri nel tessuto urbano e non sia solo un oggetto di contemplazione turistica. La fetta di strada da sopprimere è già a traffico limitato e sopporta un passaggio di macchine molto ridotto.
Caudo ha studiato il piano prima da urbanista. E ora da assessore. Non si parte da zero. «Quando mi sono insediato», racconta nel suo ufficio all’Eur, «ho trovato gli studi delle due commissioni che fra il 2004 e il 2006 lavorarono alla sistemazione dell’area. Le conclusioni, però, conducevano alla sopravvivenza della strada d’epoca fascista». Dunque un’ipotesi contraria alla sua, o no? «Le conclusioni, secondo me, erano in contrasto con tutte le analisi condotte dalle stesse commissioni, che invece portavano a ritenere superflua, anche dal punto di vista della mobilità, la via dei Fori imperiali, almeno nel tratto fino all’imbocco di via Cavour. E allora perché conservarla? Non vorrei che la sua permanenza fosse il frutto di un’ostinazione ideologica». Soluzioni di traffico alternative? «Una potrebbe essere rendere a doppio senso via Nazionale». Il piano deve essere condiviso da tutta l’amministrazione Marino, e dalle sovrintendenze, comunale e statale. L’ex ministro Bray si era impegnato a costituire due commissioni, una per rimuovere il vincolo imposto sulla strada nel 2001, un’altra per studiare l’assetto della zona. Ma le commissioni non sono partite. Ora la parola spetta al suo successore, Franceschini.
Caudo squaderna sul suo tavolo una mappa: «Gli studi mostrano che gli assi per accedere ai Fori erano trasversali e scendevano da Monti. Noi abbiamo intenzione di ripristinarne almeno uno entro agosto prossimo, creando un percorso pedonale che parte da via Baccina, nella Suburra, e collega via Alessandrina, attraversa i Fori imperiali, via della Consolazione, arrivando in via San Teodoro e via del Velabro. Il tracciato è previsto dalla commissione del 2006 e offre una prospettiva del tutto diversa da quella, storicamente meno fondata, che, come un cannocchiale, inquadra il Colosseo da piazza Venezia».
L’intesa con le sovrintendenze è indispensabile, insiste Caudo, per completare lo scavo una volta eliminata la strada che lo sovrasta. E anche in previsione di realizzare una maglia di passerelle rimovibili che consentiranno di scendere alla quota archeologica e di osservare dall’alto le strutture antiche.
Il piano di Caudo è a scadenza da definirsi, ma intanto il Campidoglio ha fissato una serie di passaggi in un cronoprogramma. Fra i più importanti figurano, entro giugno prossimo, l’introduzione della ZTL nel triangolo di Monti; successivamente, entro agosto, il senso unico riservato ai soli mezzi pubblici lungo via dei Cerchi (strada iche entro l’agosto 2015 verrà chiusa al traffico) in modo che il Palatino si ricongiunga con il Circo Massimo. Se scompare il tratto di via dei Fori imperiali fino a largo Corrado Ricci, che ne sarà dell’ultimo segmento, quello che giunge al Colosseo? «Resterà», risponde Caudo. «D’altronde sotto quel manto stradale non c’è strato archeologico: lì era la collina della Velia, distrutta per realizzare la via dell’Impero. La nostra intenzione è quella di riportare alla luce il Foro della Pace che è sotto largo Corrado Ricci. Le auto non potranno più spingersi in fondo a via Cavour e dunque il pezzo superstite di via dei Fori imperiali diventerà una passerella integralmente pedonale».
Riferimenti
Numerosi altri articoli e documebti sull'argomenbto, raccolti vel vecchio e nel nuovo archivio di eddyburg, sono raggiungibii scrivendo "progetto Fori" oppure "Vezio De Lucia" nella finestra sensibile in alto, tra la testata e la lente d'ngrandimento. Vedi anche la cartella Appia Antica.
Il racconto del giornalista, avvincente, da molti punti vista rischia di vedere solo il dito: la questione vera è quella delle politiche territoriali, come hanno ben capito altri. La Repubblica, 17 marzo 2014, postilla (f.b.)
Sembrano degli Ufo, vascelli spaziali che trasportano alieni. Imponenti, maestosi, e misteriosi, i torpedoni extralusso a due piani si aggirano per le vie di San Francisco inghiottendo il loro carico umano in silenzio. Hanno i vetri oscurati. Sul cruscotto leggo dei cartelli dai simboli arcani: Mtv, Mpk, Gbus. Gli addetti ai lavori sanno decifrare ogni sigla. Mountain View, quartier generale di Google. Menlo Park, sede di Facebook. Gbus sta per Google-bus. Si accostano ai marciapiedi dove li attendono i passeggeri in file ordinatissime, molto più lunghe di quelle degli utenti “normali” che attendono gli autobus pubblici. Questi qui sono tutti ventenni, ragazze e ragazzi, molti di loro asiatici, vestiti ultra-casual (bermuda, T-shirt, sandali e ciabatte infradito) e con zainetto come se andassero a fare surf in spiaggia; gli immancabili auricolari che li isolano dal mondo. Appena salgono sul bus li vedo aprire i loro tablet e sprofondare in un isolamento ancora più completo, a tu per tu con il cyber-lavoro che li aspetta.Questi torpedoni stile Rolls Royce, extra-large e con tutti i comfort delle limousine (wi-fi, snack, bevande, poltrone rilassanti), sono diventati il detonatore di una protesta sociale senza precedenti da queste parti. Occupy Silicon Valley, possiamo chiamarla.
È la rivolta dell’altra San Francisco contro lo strapotere del capitalismo digitale: che genera ricchezze diffuse ma esaspera le diseguaglianze, espelle da questa città interi ceti sociali medio-bassi. Bersaglio della protesta per alcuni mesi sono diventati proprio i torpedoni, simbolo visibile di un privilegio e di un’ingiustizia. Con la loro stazza enorme invadono le strade di San Francisco, peggiorano gli ingorghi, fanno fermate non autorizzate. Ad ogni ora del giorno e della sera (adattandosi agli orari ultra-flessibili dei giovani ingegneri e programmatori di software) fanno la spola tra i quartieri residenziali della città e le varie sedi di Apple, Google, Yahoo, Facebook, disseminate lungo l’autostrada 101 che è l’arteria vitale della Silicon Valley. Trasportano comodamente dalle abitazioni agli uffici hi-tech un popolo di giovani strapagati, coccolati, mentre il resto della popolazione cittadina si accalca sui bus municipali stravecchi e sempre in ritardo.
«Un mattino all’improvviso siamo stati assaliti dai manifestanti, hanno rotto un vetro del torpedone», racconta Craig Frost che lavora da Google. E conserva il volantino che i manifestanti hanno distribuito ai passeggeri. Ecco il testo: «Vi meravigliate di questa protesta? Eccone le ragioni. Le persone che stanno fuori dal vostro Google-bus sono quelle che vi servono il caffè al mattino, vi custodiscono i figli mentre siete al lavoro, si prostituiscono per fare sesso con voi a pagamento, vi preparano da mangiare al ristorante, e vengono espulse dai quartieri di questa città. Mentre voi vivete come maiali d’allevamento ben pasciuti, con i buffet aziendali gratuiti 24 ore su 24, il resto della città sta raschiando il fondo per sopravvivere. Ma noi non esistiamo neppure, nel mondo costoso e artificiale che voi avete creato».
Uno degli organizzatori delle proteste è Tony Robles, attivista di Senior and Disability Action, una ong che assiste anziani e disabili. «Siamo andati alle fermate dei torpedoni — dice Robles — per far capire a quella gente che i loro business hanno conseguenze sociali, e devono farsene carico ». Nel quarto di secolo di storia di Internet, un’era tecnologica che ha avuto nella Silicon Valley il suo epicentro e la sua cabina di regìa, non era mai nata una protesta sociale “mirata” in modo così preciso contro questo mondo.
Le ragioni di questa protesta le riconosce lo stesso sindaco di San Francisco, il cinese-americano Edwin Lee, che molti manifestanti accusano di essere legato a doppio filo alle grandi imprese della Silicon Valley. «Non lo nego affatto — dice Lee — in questa città esiste la povertà. C’è una parte della popolazione che sta lottando per sopravvivere». Eppure per molti, incluso Barack Obama che lo invitò in tribuna d’onore al discorso sullo Stato dell’Unione, il sindaco Lee è il simbolo di un’America che ha sconfitto la crisi, che è tornata a crescere, che tutti vorrebbero imitare. Il tasso di disoccupazione a San Francisco è al 4,8% contro la media nazionale del 6,6%. Mentre nel resto degli Stati Uniti esplode lo scandalo degli stagisti non remunerati (una forma di sfruttamento illegale ma diffusa), qui a San Francisco uno stagista di Twitter guadagna 6.791 dollari al mese, più di 80.000 dollari all’anno, una cifra notevole se confrontata col reddito medio della famiglia americana: 53.000 dollari all’anno. Eppure la stessa sede di Twitter — l’unica che è nel centro di San Francisco — è stata presidiata da manifestanti con gli striscioni. Denunciano i generosi sgravi fiscali che il sindaco Lee haofferto a quest’azienda: dieci anni di esenzione dalla payroll tax (l’equivalente dei contributi previdenziali), pur di convincere Twitter a insediarsi in città.
L’ennesimo boom della Silicon Valley sta creando un esercito di giovani milionari, a una velocità esponenziale. Quando Google si quotò in Borsa furono “solo” mille i nuovi milionari creati da quel collocamento, per Facebook e Twitter la stima è salita a 1.600 milionari cadauna. Il salario “minimo” di un dipendente hi-tech nella Silicon Valley è centomila dollari annui secondo i dati del Bay Area Council, una sorta di Confindustria locale. Ma tutta questa ricchezza provoca un fenomeno di “gentrification” senza precedenti: espulsione dei ceti meno abbienti. L’affitto di un modesto appartamento a due stanze è salito a 3.250 dollari, secondo la San Francisco Tenants Union. La bolla immobiliare è ancora più evidente nelle compravendite: l’80% delle abitazioni messe sul mercato vengono acquistate a prezzi superiori a quelli chiesti dai proprietari, in una folle spirale di aste competitive. Un professore di liceo statale guadagna 59.700 dollari all’anno: con questo costo della vita, gli è diventato impossibile rimanere a San Francisco. Un’altra attivista che ha organizzato le proteste è Rebecca Gourevitch di Eviction Free: «Siamo di fronte a due San Francisco, due città sempre più distanti tra loro, con un divario economico che cresce a dismisura ».
Il movimento contro le “eviction” cioè gli sfratti, ormai coinvolge ampie fasce di ceto medio. Non è più un gap tra ricchi e po-veri, ma tra i nuovi ricchi dell’economia digitale e la maggioranza degli altri, inclusi tutti quegli addetti ai servizi essenziali per gli stessi ventenni della Silicon Valley: che quando tornano a casa la sera si aspettano di trovare una San Francisco pulita e ordinata, con pattuglie di polizia, vigili del fuoco, nettezza urbana, licei e università che funzionano. Nessuno di questi servizi paga stipendi sufficienti, ormai, per una città in preda alla febbre delle stock option. «Il 23% degli abitanti — riconosce il sindaco Lee — vive sotto la soglia della povertà».
Alcuni protagonisti del nuovo boom digitale reagiscono alle proteste con una suprema arroganza. Un celebre venture capitalist come Tim Draper promuove un referendum per la secessione della Silicon Valley che la trasformi in uno Stato indipendente dalla California. Altri perfino più temerari immaginano di trasferire i quartieri generali delle aziende hi-tech su piattaforme marine, extra-territoriali. Il simbolo dell’insensibilità è Tom Perkins, uno dei più celebri finanziatori del venture capital, un genio dell’investimento che ha contribuito alla nascita di Google e di tante altre start-up di successo. Grande visionario nelle tecnologie, ma solo in quelle. «I manifestanti che bloccano i torpedoni privati diretti nella Silicon Valley mi ricordano la Gioventù nazista che agli ordini di Hitler assaltava le aziende degli ebrei durante la Notte dei cristalli». Questa frase Perkins ladice davanti a una folta platea, parlando in uno dei centri culturali più frequentati a San Francisco, il Commonwealth Club. Secondo Perkins c’è un «accanimento contro l’un per cento». E il suo suggerimento a Google è spietato: «Ignorino le proteste».
Ma l’azienda diretta da Eric Schmidt non segue i consigli del suo illustre finanziatore. Almeno sembra avere più sensibilità alle relazioni pubbliche, rispetto al capitalismo di Wall Street che domina sull’altra costa. Di fronte a Occupy Silicon Valley, la risposta è astuta. Google stacca un assegno da 7 milioni di dollari, intestato al Public Transit System, l’azienda dei trasporti municipali: offre biglietti gratis sugli autobus pubblici a tutti i giovani sotto i 17 anni che appartengono a famiglie a basso reddito. La portavoce di Google, Meghan Casserly, si esibisce in un capolavoro di diplomazia: «I residenti di San Francisco hanno ragione ad essere frustrati. Pagheremo di più per l’uso delle fermate pubbliche. E nel frattempo tutti gli studenti a basso reddito viaggeranno a nostre spese almeno per i prossimi due anni». Google aderisce anche all’iniziativa di Marc Benioff, fondatore di Salesforce: si chiama San Francisco Gives, ha raccolto già 10 milioni per iniziative contro la povertà. La filantropia come risposta alle disuguaglianze sociali: i giovani capitalisti della Silicon Valley sperano che basti.
postilla
Parafrasando un celebre proverbio, verrebbe da dire: se indichi la luna, lo stolto guarda il dito, il saggio vede lo sprawl. Ci sono due facce dello sganciamento fra capitale e territorio che ci perseguitano almeno dagli anni della deindustrializzazione e libera circolazione dei capitali globalizzata. La prima è quella dell'apparente indifferenza localizzativa, che prosciuga da un momento all'altro intere regioni di risorse economiche, posti di lavoro, prospettive future, spostandosi là dove hanno deciso i contabili e un consiglio di amministrazione estraneo al mondo reale. La seconda, una specie di strascico novecentesco superstizioso ma micidiale, è il riorganizzarsi locale delle cosiddette mega-regioni (nel caso specifico la Bay Area di San Francisco, ma vale benissimo per altri luoghi come la nostra pianura padana) secondo il modello tradizionale dello sprawl e della specializzazione territoriale. A cui a quanto pare sinora non hanno dato risposta convincente le teorie di Richard Florida e della sua classe creativa che attraverso processi di gentrification avrebbe controbilanciato la dispersione insediativa. Avviene, invece, che il ricentraggio parziale gestito dal libero mercato speculativo produca da un lato l'impennarsi dei valori immobiliari in centro, dall'altro l'espulsione ulteriore dei ceti popolari e progressivamente anche di quelli medi. Ma c'è un altro fattore che Rampini non coglie: la persistente tendenza delle grandi imprese a organizzarsi su campus suburbani, anziché contribuire a costruire città vere e proprie, che da sole (con ovvie politiche pubbliche) sarebbero già una risposta sociale ai disastri raccontati dall'articolo. Un aspetto lo abbiamo raccontato a suo tempo su Mall e anche qui su Eddyburg, nel pezzo Steve Jobs Urbanista. Chi volesse verificare gli ultimi sviluppi può ad esempio leggersi l'ultimo documento elaborato dal centro studi San Francisco Planning and Urban Research Association SPUR, Agenda for Change; su Millennio Urbano qualche considerazioni in più (f.b.)
Roars.it,
16 marzo 2014 (m.p.g.)
Negli anni in cui Matteo Renzi è stato sindaco di Firenze l’amministrazione non ha brillato per capacità di innovazione, al contrario. L’esposizione del teschio incrostato di diamanti di Damien Hirst a Palazzo Vecchio ha mostrato al mondo come si possa essere al tempo stesso pretenziosi e subalterni. Si è offerto l’edificio-simbolo della storia repubblicana di Firenze alla celebrazione di un oggetto assurdamente dispendioso, concepito come vessillo di disuguaglianza e trappola per la vanità degli oligarchi.
In programma questa primavera, la mostra dedicata a Michelangelo e Pollock prefigura un astorico confronto tra due artisti fumettisticamente presentati come “furiosi”. Il risibile match, che nelle intenzioni di Renzi dovrebbe costituire il dono d’addio alla città, conferma la predilezione per esposizioni-blockbuster di nessuna consistenza scientifica. L’ostinazione con cui si è infruttuosamente cercata la (perduta) Battaglia di Anghiari leonardesca in Palazzo Vecchio è sembrata un’avventata commistione tra dilettantismo storico-artistico, maldestro culto delle nuove tecnologie e fiction rinascimentale in chiave Dan Brown. Certo, esistevano i finanziamenti di National Geographic: ma perché emarginare la comunità scientifica italiana e internazionale? La proposta di “terminare” la basilica di San Lorenzo costruendo la facciata secondo l’”originario” progetto michelangiolesco, lanciata da Renzi a suo tempo in consiglio comunale, si è rivelata episodica e strumentale. Nel frattempo si è disinvestito da istituzioni che non avevano il sostegno dell’industria alberghiera (ma potevano rivelarsi importanti per la comunità dei residenti) e si sono patrocinate iniziative ambiguamente oscillanti tra scoutismo culturale e rapacità commerciale. Non si è infine esitato a impedire senza preavviso ai cittadini il passaggio dal Ponte Vecchio pur di assicurare maggiore privacy agli ospiti di un’esclusiva cena di gala di Luca Cordero di Montezemolo.
La prima cosa da dire è che l’attuale presidente del Consiglio sconta il limite sociologico della città da cui proviene. Firenze è una città di piccole o medie imprese attive in settori ipermaturi e a bassa tecnologia, a conduzione familiare. Alberghi, servizi, editoria finanziata o aggregata a poli museali. Salvo rare eccezioni l’orientamento non è alla competizione ma al controllo proprietario e, qualora possibile, alla rendita confortevole. Le più sbrigative “valorizzazioni” del patrimonio storico-artistico sono remunerative, relativamente anticicliche e non comportano rischio imprenditoriale: perché dunque darsi pena di finanziare progetti a medio e lungo termine, di cui beneficerebbero i cittadini, invece che “eventi” graditi ai visitatori, in primo luogo ai più abbienti? La produzione stereotipa di guide, foulard stampati con motivi botticelliani e cartoline con giglio non impone scelte strategiche né presenta le difficoltà di un’industria high-tech. “La cultura dovrebbe essere il baluardo di una sfida identitaria”, vaticina Renzi in Stil novo[1]. Non è chiaro tuttavia se intenda porre giusta enfasi sull’importanza dell’istruzione o semplicemente accompagnare le dichiarazioni dell’amico Farinetti sull’appeal di torroni e prosciutti doc. “Se è morta non è bellezza. Al massimo può essere storia dell’arte. Ma non suscita emozione”[2]. Ma che vuol dire?
Se per politica della cultura intendiamo una serie coerente di iniziative o provvedimenti volti a promuovere sollecitudine civile, discussione informata e ampiezza di confronti (quanto potremmo sinteticamente definire “apertura della mente”) dobbiamo riconoscere che tale politica non esiste per Matteo Renzi: esistono invece commercio e turismo. A mio parere l’adozione di un punto di vista aggressivamente consumistico costituisce un’incongruità per ciò che Renzi stesso rappresenta come segretario del Partito democratico. Provo a spiegare perché. Le nostre preferenze culturali sono modellate da differenti tipi di marketing. Se desideriamo che il “pubblico” (di una mostra, di un concerto) sia qualcosa di più e diverso da una folla plaudente che sorseggia cocktail e rende omaggio alla munificenza di mecenati pubblici o privati dovremmo porci il problema dell’inclusione. I “mercati culturali” non sono efficienti: esistono alti costi di accesso e pronunciate asimmetrie informative[3].
Personalmente ritengo che l’arte non debba trasformarsi in una sorta di testimonial della disuguaglianza né corteggiare in maniera esclusiva i mondi della ricchezza: almeno non se ci poniamo dal punto di vista dell’amministratore pubblico. Eppure questa è la tendenza dominante. Né credo sia lecita la riconduzione del patrimonio storico-artistico alla sola dimensione del profitto: obbliga la cultura a competere sul breve termine con industrie ben più remunerative. La Costituzione prevede l’investimento pubblico in cultura perché riconosce la specifica complessità del processo di partecipazione[4]. Al pari dell’indigenza, i deficit educativi creano “ostacoli” formidabili alla piena esplicazione sociale e professionale della persona. E’ tuttavia interesse generale, quantomeno in uno stato di diritto, che vi sia (e continui ad esservi attraverso le generazioni) un’opinione pubblica informata e indipendente. Sospinto da un pregiudizio “popolare” (o più semplicemente populista) e dallo spiccato amore per l’acclamazione, il più giovane presidente del consiglio della storia italiana ha sinora mostrato di ignorare le responsabilità di una seria politica culturale. Ha sottostimato i benefici economici e civili della ricerca. Si è circondato di collaboratori fugaci e modesti e ha privilegiato opache reti amicali. Non ha fatto ottimi studi né ha ragione di nasconderlo. In futuro farà tuttavia meglio a evitare dispersive polemiche con i “professori” per valutare senza pregiudizio punti di vista meditati[5]. Perché, malgrado accattivanti appelli all’”uguaglianza”, tanta disattenzione ai temi della cittadinanza? Suppongo che l’organicità di Renzi a cerchie economiche e d’opinione dominanti possa essere la risposta che cerchiamo.
[1] Matteo Renzi, Stil novo, Rizzoli, Milano 2012, p. 50.
[2] ibid., p. 55.
[3] Gustavo Zagrebelsky, Fondata sulla cultura, Einaudi, Torino 2014, p. 44: “le tante conoscenze particolari restano scomposte come tessere di mosaico che non compongono figure… Qualunque avventuriero della conoscenza [può] infilarsi, senza incontrare ostacoli, di fronte a un pubblico ignorante e inconsapevole. Il ‘pubblico’ è già vittima della capacità specialista e dell’ignoranza generalista”. Uno stato di diritto può trascurare il compito di un’educazione permanente dei suoi cittadini?
[4] Sul tema cfr. Salvatore Settis, Paesaggio costituzione cemento, Einaudi, Torino 2010, p. 122 e ss.
[5] Con un ampio e polemico intervento apparso su Repubblica, Giovanni Valentini si è recentemente posto in scia a Renzi attaccando le soprintendenze con argomenti che sono sembrati in larga parte pretestuosi, soprattutto per la mancata distinzione, quanto alle modalità di partnership pubblico|privato, tra filantropia culturale o no profit da un lato, sbrigative forme di “valorizzazione” commerciale dall’altro (I no delle soprintendenze che rovinano i tesori d’Italia, in: la Repubblica, 9.3.2014, pp. 1, 20). A mio avviso la differenza non passa tra capitale pubblico e capitale privato: ma tra “capitale paziente” (per usare la felice definizione di Mariana Mazzucato) e capitale speculativo o rendita. Checché se ne dica la piccola o media impresa attiva oggi in Italia nell’ambito dei servizi al patrimonio non è in grado di (né motivata a) produrre innovazione: sottocapitalizzata, trae la propria sopravvivenza da relazioni politiche e vive di progetti a breve termine (Paolo Sylos Labini, La crisi italiana, Laterza, Bari 1995, p. 9 e ss.). L’attività di agenzie pubbliche in grado di selezionare competenza, procurare strategia e finanziare trasformazione – qualcosa che il MiBACT di oggi, inutile dirlo, è del tutto incapace di fare – potrebbe risultare di grande vantaggio. L’editoriale di Valentini ha sorpreso quanti, sulla prima pagina del quotidiano romano, erano soliti trovare qualificate difese del patrimonio e dell’ambiente intesi come “bene comune”. Sulle retoriche della “sussidiarietà” e le loro implicazioni ideologiche (“neoguelfe” o meglio neocesaristiche) nel contesto della discussione italiana sulle politiche della tutela cfr. Michele Dantini, Inchiesta su “patrimonio” e “sussidiarietà”. Retoriche, politiche, usi pubblicitari, in: ROARS, 9.11.2012, qui. Per una ricostruzione dell’”industria delle concessioni” cfr. Tomaso Montanari, Le pietre e il popolo, minimum fax, Roma 2013, p. 21 e ss. Cfr. anche, di Valentini, l’elusiva controreplica dal titolo Quelli che difendono le soprintendenze, in: la Repubblica, 12.3.2014, p. 56.
Il Fatto Quotidiano, 13 marzo 2014
Non c’è davvero nulla di nuovo in Matteo Renzi, a parte la grinta: c’è solo un intenso bricolage che ritaglia da destra, e incolla malamente a sinistra, spezzoni di pensiero, parole d’ordine, slogan. Uno dei più impresentabili che Renzi ha preso di peso dal repertorio populista e selvaggiamente liberista di Silvio Berlusconi è il “padroni in casa propria”. Un’idea texana della convivenza civile che significa che ciascuno deve essere libero di cementificare, sfigurare, distruggere pezzi di ambiente, di paesaggio, di patrimonio storico artistico.
Fin da quando era sindaco, Renzi ha polemizzato aspramente contro quelle che chiama “le catene” imposte dalle soprintendenze, istituzioni “ottocentesche” che impedirebbero la “modernizzazione del Paese”. “Sovrintendente – ha scritto nel suo tragicomico libro Stil novo – è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario della burocrazia. È una di quelle parole che suonano grigie. Stritola entusiasmo e fantasia fin dalla terza sillaba. Sovrintendente de che?”. Renzi sembra non accorgersi di vivere in un paese massacrato da uno “sviluppo” pensato solo in termini di cementificazione: un paese compromesso non dai troppi no, ma semmai dai troppi sì, delle soprintendenze. E non sono solo le opinioni di Renzi, a preoccupare: è il suo governo di Firenze a far capire come la pensi in fatto di cemento. Vezio De Lucia ha notato come nel piano strutturale del 2010 “le previsioni relative alla proprietà Fondiaria (un milione e 200 mila metri cubi) sono riportate come fossero già attuate: per non smentire la propaganda del sindaco Renzi a favore del piano a sviluppo zero”. Sapendo che il cemento non è telegenico, Renzi cerca di non parlarne troppo. Tanto più stupisce che sia un giornale come Repubblica – subito improbabilmente seguito da Italia Oggi – ad abbracciare, in scala uno a uno, un simile programma. Archiviato il pensiero di Antonio Cederna, sconfessato quello di Salvatore Settis, ora è Giovanni Valentini a scrivere sul giornale di De Benedetti che “troppo spesso le soprintendenze diventano fattori di conservazione e di protezionismo in senso stretto, cioè di freno e ostacolo allo sviluppo, alla crescita del turismo, e dell’economia”.
L’articolo, in prima pagina domenica scorsa, ha lasciato basiti migliaia di lettori che vedevano da sempre in Repubblica un presidio sicuro per la difesa dell’articolo 9 della Costituzione: e da allora si susseguono sul web risposte incredule e indignate di associazioni, funzionari di soprintendenza, singoli cittadini.
È in questa prospettiva che Renzi diventa il campione delle “mani libere” contro le soprintendenze, che l’avrebbero ostacolato nell’allestimento della cena della Ferrari su Ponte Vecchio e fermato nei “sondaggi tecnici” sulla Battaglia di Anghiari di Leonardo in Palazzo Vecchio. Peccato sia tutto falso: sull’osceno noleggio del ponte l’asservita soprintendenza fiorentina non ha aperto bocca, ed è stata una partita tutta giocata dal Comune, con tanto di permesso ufficiale concesso il giorno dopo la manifestazione, e con un incasso pari alla metà di quello sbandierato da Renzi. Quanto a Palazzo Vecchio, giova ricordare che la Battaglia di Anghiari semplicemente non esiste, e che Renzi è stato fermato non dalla soprintendenza (anche in quel caso succube), ma dalla comunità scientifica internazionale, compattamente insorta contro una farsa pseudoscientifica che fa ancora ridere i direttori dei più grandi musei del mondo. Ma i banali dati di fatto non devono oscurare la retorica del Presidente del Fare che spezza trionfalmente i lacci e i lacciuoli frapposti da questa oscura genìa di burocrati. A quando un suo ritratto a torso nudo, mentre aziona una betoniera calpestando l’articolo 9?
L’altra faccia di questa usurata medaglia è l’incondizionato inno ai salvifici privati. Chiedendo la fiducia al Senato, l’unica cosa che Renzi ha saputo dire sulla cultura è che “se è vero che con la cultura si mangia, allora bisogna fare entrare i privati nel patrimonio culturale”. Peccato che i privati ci siano da vent’anni, nel patrimonio, e che a mangiarci da allora non sia lo Stato, ma solo un oligopolio di concessionari fortemente connessi con la politica. E la ricetta è tanto originale che il punto 41 di Impegno Italia (il documento cui ha inutilmente provato ad aggrapparsi Enrico Letta) prevedeva un’unica ideona: “Incentivare lo sviluppo dei servizi aggiuntivi da dare in concessione ai privati”.
Di fronte ai crolli di Pompei, Renzi ha gridato: “L’Italia è il paese della cultura, e allora sfido gli imprenditori: che state aspettando?”. Quando era sindaco di Firenze, Renzi sfidava sistematicamente lo Stato a fare il proprio dovere in fatto di tutela del patrimonio. Ora che lo Stato è lui, sfida gli imprenditori. Fosse il presidente di Confindustria, ce l’avrebbe con gli enti locali. Non c'è davvero nulla di nuovo, se non che il repertorio da palazzinaro anni Sessanta è passato tale e quale dal fondatore di Forza Italia al segretario del Partito democratico. È il manifesto di una nuova stagione di Mani sulla città, un ritorno alla bandiera inverosimile del “più cemento = più turismo”. E siamo solo all’inizio.
«Fino all’inizio della seconda metà degli Settanta, urbs e civitas erano tenute insieme. Ma il silenzio istituzionale sui fatti del ’77 e la tempestiva riconversione privatistica della gestione pubblica hanno portato alla crisi della coincidenza tra pratica politica e sentimento civico». il manifesto, 12 marzo 2014
«A che punto è la città?/La città in un angolo singhiozza./Improvvisamente da via Saragozza/le autoblindo entrano a Bologna./C’è un ragazzo sul marmo, giustiziato». Così Roberto Roversi ne Il Libro Paradiso. L’anno era il 1977, il giorno era l’11 marzo, il corpo quello di uno studente, Francesco Lo Russo, ucciso dalle forze dell’ordine nel corso di una manifestazione. E il senso dell’evento (a una lettura immediata come quella di Federico Stame) venne individuato nel tentativo di ricomprensione da parte dello stato dell’intera società civile bolognese all’interno del sistema politico-istituzionale nazionale, secondo la logica di una tensione tra governo urbano comunista e potere centrale di segno opposto alimentatasi nel corso dell’intero dopoguerra.
Ma i fatti del 1977, dal marzo che registrò la frattura tra città e università fino al Convegno Internazionale sulla Repressione in settembre, significarono molte altre cose, toccando in profondità, senza che la stessa cittadinanza ne fosse davvero consapevole, la natura di Bologna, la sua memoria e perciò la sua coscienza: al punto che l’intera transizione post-comunista della città, quella ancora in atto, riesce a svolgersi e a (auto)legittimarsi soltanto sulla base del sistematico, strutturale silenzio istituzionale su di essi. Proprio quel silenzio che ha garantito e garantisce la sopravvivenza della politica (della polis) al prezzo della progressiva divaricazione tra civitas e urbs, tra le possibilità di messa in comune della capacità cittadina di manipolazione simbolica e la crescita della città nella forma di semplice manufatto urbano, di complesso plurifunzionale di costruzioni, secondo la concezione andante di organismo urbano: quella che, codificata nell’Encyclopédie, domina da più di due secoli i nostri dizionari, e perciò la nostra mente. Lo stesso silenzio rispetto al quale la mancata elaborazione del lutto per il crollo del muro di Berlino, alla fine degli anni Ottanta, si porrà, nel nostro Paese, come replica allargata e ancora più fragorosa. Come ha scritto in proposito, icasticamente, Mauro Boarelli: «Anche quella che veniva esibita con orgoglio come la capitale del comunismo europeo non ha trovato alcuno spazio pubblico per confrontarsi con la propria storia».
Nel dopoguerra e ancora fino all’inizio della seconda metà degli Settanta, al tempo del «buongoverno» inaugurato da Giuseppe Dozza, i funzionari della polis ponevano al contrario la massima cura nel tenere insieme l’urbs e la civitas, lo sviluppo e la manutenzione della città materiale con quello della coscienza civica intesa come riconoscimento di un unico, comune sentire, oltre che di comuni concreti bisogni. Erano i tempi della «democrazia sociale» bolognese, al cui interno la riorganizzazione dei servizi era concepita, per riprendere una distinzione di Nadia Urbinati, non come un semplice atto dovuto ma come una proattiva «funzione della cittadinanza democratica», in grado cioè di favorire la complessiva emancipazione sociale di tutti i soggetti, anche quelli che in apparenza del singolo servizio non usufruivano: si pensi soltanto all’invenzione della scuola a tempo pieno, in grado di riconfigurare il complesso delle relazioni tra i tempi del lavoro, dell’apprendimento e della cura famigliare, e perciò di trasformare la struttura temporale del meccanismo dell’intera città; oppure si pensi, prima ancora, alla riflessione sul decentramento e alla nascita dei quartieri, volta a consolidare la partecipazione dei bolognesi alla vita in comune.
Se a partire dalla fine degli anni Ottanta l’autocritica manca, la riconversione in senso privatistico della gestione pubblica è però tempestiva, quasi che proprio questa fosse l’implicita ragione del nuovo corso del governo locale. Giusto al 1989 risale il progetto di privatizzare le farmacie comunali volute da Dozza nel 1949, mandato poi ad effetto un decennio dopo dal sindaco Walter Vitali in seguito a un referendum consultivo che i dirigenti del Pds invitarono a disertare: con pieno successo, anche se in assoluto dispregio degli strumenti di partecipazione diretta previsti dallo Statuto comunale.
In tale episodio si è voluto vedere l’avvio del processo di «trasmutazione di tutti i valori» dell’amministrazione pubblica di sinistra culminata nel progetto di riforma nazionale dei servizi locali promosso durante il secondo governo Prodi. Ma nell’immediato le conseguenze di tale decisione sull’ethos civico bolognese furono evidentemente demolitorie: ridotto in tal modo alla passiva esibizione dei caratteri culturali e identitari petroniani (non escluso lo stesso buon governo definitivamente ridotto a mito) esso diverrà il terminale sempre meno ricettivo di pratiche e discorsi sempre più discosti rispetto al comune sentire.
Al riguardo la parabola è esemplare, e tutta orientata nel senso della progressiva crisi della coincidenza tra pratica politica e sentimento civico: parte dal sindaco Giorgio Guazzaloca (1999–2004), il primo sindaco di centro-destra, alfiere di una stereotipata «bolognesità» e termina con la gestione commissariale dell’ex ministra Annamaria Cancellieri (2010–11), vale a dire con l’azzeramento di ogni possibile rappresentanza politica locale. In mezzo due figure, molto differenti tra loro, vissute però dalla cittadinanza, per ragioni diverse, come due autentici infortuni: il sindaco Sergio Cofferati (2004–9), percepito alla fine dai bolognesi in termini di quasi assoluta estraneità, e il sindaco Flavio Delbono (2009–10) il cui brevissimo governo terminò scandalosamente nelle aule giudiziarie.
Dato in tal modo fondo a ogni plausibile mossa e gettata la spugna, altro non restò alla fine al ceto politico che affidarsi, in contraddizione con tutta la storia amministrativa precedente, all’emissario del governo centrale, significativamente invitato dai due principali antagonisti partiti, alla fine del suo mandato, a presentarsi alle elezioni comunali come candidato di spicco nelle proprie liste.
Le ragioni di tale cortocircuito politico-amministrativo appartengono però non alla cronaca ma alla storia, alla matrice della coscienza politica, all’estesa mente (mind) urbana costituita dalla collettività nel suo rapporto con la materiale struttura cittadina (brain) che allo stesso tempo la produce e ne è il prodotto. E proprio l’ignoranza della natura di tale matrice è oggi all’origine dell’incapacità della politica locale ad assolvere il proprio compito: a Bologna più manifestamente che altrove.
Già un secolo fa avvertiva Adolf Loos che non si ha idea della quantità di veleno che abili pubblicazioni spargono ogni giorno sull’idea di città, al punto da impedire ogni autentica comprensione del fatto urbano. Tale veleno consiste in sostanza nella trasformazione della realtà urbana in semplice aggregato edilizio, appunto secondo la canonica definizione illuministica all’inizio richiamata, formulata da Diderot in persona. Così, riportata all’organismo cittadino, la celebre affermazione della Thatcher per cui «non esiste la società, esistono solo gli individui, di sesso maschile e femminile» enuncia non soltanto la fine di ogni idea di civitas, di collettività civile, ma anche di ogni relazione tra questa e l’urbs, secondo un processo di riduzione dell’idea di città che culmina oggi nel concetto di smart city: che significa non città «intelligente», come si dice, ma piuttosto «furbescamente alla moda», da gestire secondo programmi elettronici volti alla trasformazione in senso aziendale della città stessa.
Bologna però non è una città intelligente, è molto di più: è una città per natura cognitiva, nel senso che fin dalle origini il suo compito è stato quello di svolgere ruoli quaternari, connessi cioè alla produzione, all’interpretazione e alla messa in circolazione di informazione specializzata. A volerla restringere all’essenziale, nell’ultimo millennio e mezzo la sua storia svolge in maniera esemplare la vicenda dell’autorganizzazione di un sistema che attraverso la propria crescente complessificazione trasforma la propria struttura concreta senza però mutare la propria logica, e con essa la propria costituzionale identità. E ciò in virtù della capacità di trarre partito dalla perturbazione per rinchiudersi in maniera diversa su se stessa, generando nuovi ruoli e attività in grado di mantenere e rinforzare la natura originaria del funzionamento. Essenziale resta il fatto che per qualsiasi organismo i meccanismi dell’autorganizzazione sono quelli dell’attività cognitiva, i soli a permettere, attraverso il riconoscimento e il superamento della crisi, la nascita di nuove funzioni in grado di garantirne la sopravvivenza e la crescita. E che cosa fu, all’alba del Mille, l’invenzione a Bologna dello «Studio», dell’università, se non il risultato di tale attività da parte dell’organismo urbano bolognese?
Di converso: che cosa furono i fatti del 1977 se non l’effetto della sopravvenuta incapacità da parte di Bologna di accogliere, trattare, metabolizzare e rimettere in circuito il carico informazionale che dalla seconda metà degli anni Sessanta si era diretto verso di essa, e tradurlo in termini politici? Della incapacità di superare insomma un’ulteriore soglia del proprio processo auto organizzativo, di operare come mille anni prima nel senso di una progressiva articolazione della propria natura quaternaria, la sola il cui sviluppo sarebbe stato in grado di continuare a preservarne l’identità e perciò la coscienza, anzi il complesso delle coscienze?
Sul cerchio di gesso che marca contro il muro di via Mascarella il segno dei proiettili che l’11 marzo del 1977 uccisero Francesco Lo Russo qualcuno ha di recente apposto un tag nero: concretissimi soggetti, diversi dagli stessi studenti, provenienti da lontano e portatori di culture altre sono nel frattempo diventati visibili e si aggirano sotto i portici e lungo i viali. In fondo, come ha scritto Edgar Morin, «tutto ciò che esiste e si crea è qualcosa d’improbabile che hic et nunc diventa necessario». Il ritardo del dispositivo politico bolognese nel pensare la possibilità che «le cose potessero andare diversamente», per dirla con Karl Kraus, vale a dire il ritardo politico di Bologna dovuto alla sua mancanza di memoria, si traduce così nel dover fare i conti con necessità della cui portata soltanto oggi, a fatica e senza più grandi riferimenti, essa inizia a rendersi conto.
Il centro di Roma è un buco. Un buco nero urbanistico, culturale, politico, sociale. >>>
Il centro di Roma è un buco. Un buco nero urbanistico, culturale, politico, sociale. L'area archeologica più importante al mondo rappresenta una ferita aperta nel cuore della città che continua ad interrogarci da decenni in cerca di risposte.Ridotta ad un suk a cielo aperto senza forma, faticoso e scarsamente leggibile nel suo insieme da turisti e cittadini, spazio irrisolto la cui vocazione culturale irrevocabile, stuprata dalla costruzione dello stradone fascista, via dei Fori Imperiali, nel 1932, continua ad essere contraddetta quasi per inerzia da presenze e attività incongrue e soprattutto da una desolante mancanza di progetto.
Abbandonato in una situazione ibrida dall'ignavia della politica e dall'impotenza della cultura, questo spazio possiede tuttavia una forza intrinseca che ha continuato a reclamare, in tutti questi anni, una soluzione adeguata.ll progetto Fori, l'idea di trasformare l'area centrale in un grandioso parco archeologico che, eliminando via dei Fori Imperiali, ricongiunga il foro romano e i fori imperiali e si saldi al suo naturale ampliamento, l'Appia Antica, riappare così nella storia della città a più riprese. Ma è solo col sindaco Petroselli, che tale progetto, fortemente voluto dall'allora Soprintendente Adriano La Regina riesce ad entrare in una fase operativa. A partire dagli ultimi mesi del 1979, il progetto Fori diventa il perno su cui ridisegnare un'altra idea di città: è quindi, come comprende prima di tutti Antonio Cederna, sostenitore ad oltranza di quell'idea, un progetto urbanistico e culturale, prima che archeologico.Inserire un cuneo di natura e cultura che si allargasse a partire dall'area centrale, significava cercare di ricucire, almeno in parte, il tessuto già fortemente compromesso di una città stravolta da una crescita informe e allo stesso tempo restituire ai cittadini romani uno spazio adeguato per leggere la loro storia.Era, insomma, un modo per riavvicinare al loro passato anche chi abitava nelle più lontane periferie, dandogli l'occasione per godere collettivamente di una bellezza unica. Da questo punto di vista il progetto Fori rappresentava un altro tassello di quella strategia di recupero delle periferie più degradate cui ha ispirato la propria azione politica Luigi Petroselli.
Entrato in una sorta di limbo alla morte improvvisa del sindaco, il progetto Fori ha però continuato a vivere una sorta di esistenza carsica, riapparendo a tratti nel dibattito cittadino anche se sempre più snaturato e sminuito.La strada fascista, ritenuta inamovibile per esigenze di mobilità e poi congelata da un'incredibile vincolo nel 2001, ha nel frattempo perso di importanza nel sistema viario cittadino. Ai lati si è ricominciato a scavare, quasi peggiorando la situazione di incompiutezza dei fori imperiali, a tutt'oggi abbandonati senza una sistemazione che ne permetta una fruizione decorosa e anche solo la leggibilità.
Poi, l'anno scorso, Ignazio Marino, fin dalla campagna elettorale, ha riportato quel progetto al centro del suo programma e, fra i primissimi atti di governo, ha decretato la pedonalizzazione di via dei Fori Imperiali. Da subito si sono levate schiere di detrattori di ogni tipo. Fra le critiche più ricorrenti, quella che, sventolando le cifre del disastroso bilancio capitolino, ridotto alla questua governativa da troppi anni di dissipazioni, bolla il progetto Fori come inutile sperpero di soldi pubblici per quello che viene considerato una sorta di capriccio di intellettuali nostalgici. Che diamine, rispetto alle priorità delle aziende pubbliche sull'orlo del disastro, delle periferie degradate e senza servizi, di una mobilità molto al di sotto dei parametri europei, perchè trastullarsi con l'area centrale?
Perchè quest'area, da troppo tempo esclusa dalla fruizione dei cittadini, non è solo il centro fisico della città. Ne è l'ombelico simbolico: e da lì bisogna ripartire. Ne è l'ombelico storico, lì dove è nata fisicamente una storia che è alla radice di tutta la cultura occidentale ed europea in primis.Perchè riqualificare questa zona a partire dalla sua storia, significa riuscire a determinare un'inversione di tendenza nell'evoluzione urbanistica della città che avrà effetti dirompenti. E significa dimostrare una capacità gestionale, da parte dell'amministrazione pubblica, smarrita da troppo tempo. E infine significa, sul piano culturale, tornare ad avere una visione sistemica di lungo periodo e di altissima innovazione.E questa sfida molteplice, una volta affrontata, non potrà che divenire la chiave di volta per affrontare i mille altri problemi che gravano su questa città.
Certo si tratta di una sfida complicatissima, che ha bisogno di un progetto perfettamente elaborato in molteplici aspetti: economico, urbanistico, trasportistico, archeologico.
Proprio per cominciare questo percorso, almeno sul piano, peraltro fondamentale, della discussione culturale, l'Associazione Bianchi Bandinelli ha organizzato un incontro che si terrà il 21 marzo prossimo a Roma, presso il Teatro dei Dioscuri.Archeologia e città: dal progetto Fori all'Appia Antica, è il titolo del convegno che riproporrà quindi, anche il tema della necessaria, ma finora negata, complementarietà dell'area archeologica centrale con la sua naturale prosecuzione extra moenia, l'Appia Antica. La regina viarum, splendido e sempre più isolato esempio di quanto una gestione pubblica, quella della Soprintendenza Archeologica dello stato, con mezzi risibili, possa contrastare la pressione dell'abusivismo e della speculazione edilizia, regalando a cittadini e turisti spazi pubblici di bellezza incomparabile.
È tempo che si torni ad affrontare questo nodo in modo non estemporaneo, rintuzzando una volta per tutte i gattopardismi di sempre, che puntuali si riaffacciano anche in questi giorni. Si pensi allo scombiccherato progetto che sotto l'etichetta di Grande Programma Europeo Roma Grand Tour (tutte maiuscole, of course) vorrebbe ridurre l'archeologia romana ad un catalogo di una decina di monumenti-bignami, frantumando in una serie di figurine didattiche l'irripetibile complessità di un patrimonio unico.
È tempo di ribadire che il centro di Roma, non può essere un non-luogo, quasi una terra di nessuno, ma deve tornare ad essere, finalmente, quel "sublime spazio pubblico" (Benevolo) che la città e i cittadini aspettano e devono tornare a pretendere.
Qui il programma del convegno "Archeologia e città: dal progetto Fori all'Appia Antica", Roma, 21 marzo 2014
L'articolo è pubblicato contemporaneamente su L'Unità on-line, "nessundorma"
Il metodo grandi opere, autoritario e con decisioni prese lontano dal confronto con cittadini e bisogni, al confronto con una società matura e la ricerca di strategie diverse. Per ora, in un vicolo cieco: esiste un approccio progressista diverso dal No?
La recente bocciatura e sospensione del progetto delle Vie d’Acqua previsto nell’ambito della realizzazione delle opere connesse al sito Expo2015, merita qualche riflessione di approfondimento.
Oggi, chi volesse esercitarsi nell’assemblaggio e nell’analisi di una rassegna stampa dedicata all’argomento, potrebbe trarre la conclusione che si tratti di un intervento “predestinato al fallimento” e maturato in un generale clima di perplessità e scetticismo. In realtà le cose non stanno proprio in questo modo e le numerose prese di posizione delle ultime settimane che utilizzano definizioni come quella di “flop annunciato”, “occasione perduta” e via discorrendo sono, nella migliore delle ipotesi, tardive e ininfluenti. Ma andiamo con ordine, cercando di ricostruire le modalità e le ragioni di questo insuccesso.
La vicenda ha inizio con la predisposizione del Dossier di candidatura al B.I.E.; l’amministrazione comunale (all’epoca presieduta dal sindaco Moratti) aveva presentato un Masterplan, dai contenuti assimilabili ad un ex tempore elaborato da una “consulta di architetti” appositamente istituita, nel quale era stato inserito un canale denominato “Via d’Acqua” che dalla Darsena di Porta Genova, punto di congiunzione dei Navigli milanesi, andava a connettersi con la periferia nord ovest di Milano in corrispondenza delle aree interessate dal sito espositivo.
La connessione idraulica, presentata con caratteristiche di un nuovo canale navigabile e corredata da interventi e progetti di ricomposizione paesistico-ambientale del quadrante “Città-Expo-Canale Villoresi-Naviglio Grande” è stata da subito accolta favorevolmente da un’opinione pubblica sensibile al tema e che ha visto in questo tipo di iniziativa un primo step e uno strumento per rivitalizzare connessioni, usi e manutenzione del complesso sistema delle acque che caratterizza l’area metropolitana milanese e che ha le sue direttrici di forza nei Navigli storici.
A seguito dell’aggiudicazione della manifestazione, la società di scopo (Expo S.p.A.) alla quale è stato affidato il mandato di sviluppare la realizzazione del sito e delle opere connesse ha avviato le fasi di progettazione dell’intervento. Probabilmente, in funzione del precisarsi di alcune scelte tecnologiche in ordine ai caratteri edilizi e impiantistici del sito e a qualche ragionamento in più sulla morfologia del contesto territoriale (dato che “l’acqua da sola non va in salita”), l’impostazione e lo sviluppo progettuale hanno mutato l’orientamento iniziale, generando due distinte “vie d’Acqua”.
La prima, Lotto1 - Via d’Acqua Nord, a cui è stato affidato il compito di assicurare il fabbisogno idrico del sito Expo mediante una derivazione che parte dal Canale Villoresi, storico vettore irriguo che taglia orizzontalmente l’area metropolitana milanese e che si attesta a nord sul limite tra il pianalto ferrettizzato e la pianura irrigua.
La seconda, Lotto 2 - Vie d’Acqua Sud, che dal sito Expo si congiunge con il Naviglio Grande in corrispondenza della Darsena, con la funzione di smaltire i volumi d’acqua in uscita, con un tracciato che attraversa una serie di quartieri residenziali e alcuni parchi urbani. In sostanza, questa configurazione comporta la realizzazione di circa 12 km. di condotte idrauliche, di cui circa il 40% in sotterraneo, con sezioni e portate (2mc/sec) assimilabili ad un adduttore di medio-piccole dimensioni. Gli interventi sul vettore idraulico sono corredati dalla presenza di una dorsale ciclopedonale che si sviluppa per una quindicina di chilometri, e da alcune strutture edilizie (passerelle, affiancamenti a cavalcavia, sovrappassi). Gli interventi di “ricomposizione paesaggistica” sono limitati alle parti di tracciato in sovrapposizione con i parchi urbani esistenti. Costo stimato, 100.000.000 di €.
Evidente, che stiamo parlando di un brusco cambiamento di rotta rispetto ai propositi e alle aspettative iniziali. E interessante sottolineare che, nonostante l’evoluzione del processo di definizione e avanzamento della progettazione portasse verso una direzione con esiti molto distanti rispetto alle suggestioni prospettate alla Commissione della B.I.E., la roboante espressione “vie d’Acqua” è stata ostinatamente mantenuta dall’Amministrazione comunale, nel frattempo presieduta da nuovo sindaco Pisapia, e dalla società Expo sia negli atti ufficiali che nella comunicazione e sulla stampa.
Così come è opportuno chiarire che questo tipo di aggiornamenti dell’impostazione progettuale non sono stati pubblicizzati come sarebbe stato opportuno e doveroso, consolidando nell’opinione pubblica le aspettative e una erronea consapevolezza dell’imminente realizzazione di una nuova vera e propria Via d’Acqua. Opinione pubblica che del resto aveva confermato i propri orientamenti attraverso lo svolgimento di un partecipato referendum consultivo (2011) il cui esito aveva determinato l’impegno verso la riqualificazione della Darsena e il sistema dei Navigli storici.
Nonostante un contesto caratterizzato da una complessiva scarsità di informazioni sull’andamento del progetto, nel 2012 cominciano a levarsi voci critiche e pareri molto negativi.
Significativo è il parere espresso dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici (dicembre 2012) che muove pesanti critiche sia dal punto di vista procedurale che di merito tecnico. Tra gli aspetti di tipo procedurale i rilievi più significativi riguardano una generale lacunosità del livello progettuale, la mancanza di uno studio di impatto ambientale e del relativo svolgimento della procedura di V.I.A. (o quantomeno di uno screening), una scarna documentazione a supporto dell’intervento dal punto di vista del regime idraulico e, infine una “compatibilità urbanistica” tutta basata su dichiarazioni di principio e di intenti e non documentata da una puntuale verifica.Sul versante del merito tecnico viene sottolineata la “non corrispondenza” tra la denominazione del progetto e le sue caratteristiche e lamentata l’assenza di riscontri dal punto di vista del contenuto rispetto ai dichiarati obiettivi di ricomposizione del paesaggio urbano del quadrante Città-Expo-Canale Villoresi-Naviglio Grande.
Un secondo parere fortemente critico è della “Consulta Milanese per l’attuazione dei 5 referendum consultivi sull’ambiente” (quelli del 2011) che ne richiedeva addirittura l’eliminazione riprendendo argomentazioni analoghe a quello del C.S.L.P.
Da registrare anche le prese di posizione di alcune associazioni ambientaliste quali Italia Nostra e Milanosimuove. Quest’ultima promotrice nel giugno 2013 di un esposto alla Corte dei Conti per l’avvio di una indagine conoscitiva, ritenendo ingiustificati gli impegni di spesa programmati in relazione ai fini effettivi del progetto.
Questi pareri, di cui uno vincolante, non hanno comunque condizionato o prodotto interferenze rispetto all’operato della società Expo che comunque ha avviato e svolto la procedura di gara per l’assegnazione degli appalti tra la primavera e l’estate del 2013. Quindi possiamo affermare che fino all’estate del 2013 il progetto e la realizzazione delle Vie d’Acqua avevano il vento in poppa, tutt’altro che indebolite e fiacche.
Cosa è accaduto dall’estate ad oggi? Molto semplicemente l’acquisizione delle aree da espropriare, la posa delle recinzioni dei cantieri e l’arrivo delle ruspe hanno evidenziato la lacunosità dei contenuti, le leggerezze e la sommatoria degli impatti locali di questo progetto, sollecitando da parte dei residenti dei quartieri del quadrante nord ovest una coriacea e organizzata reazione.
In sintesi, il vaso di Pandora è stato scoperchiato.Chi è abituato a vivere con poche risorse non concepisce lo spreco. Pertanto, gli abitanti di questi quartieri periferici con una matrice popolare, per lo più realizzati molto velocemente negli anni 60-70 e che hanno visto conseguire un ancora insufficiente sistema di servizi, parchi, verde e arredo urbano solo negli ultimi due decenni, hanno ritenuto inaccettabile vedere che queste risorse venissero in qualche modo brutalizzate da un intervento che “non parlava” con gli investimenti così faticosamente conquistati e realizzati.
Una reazione comprensibile quindi, dato che alcune delle aree verdi che danno vita a parchi urbani e parchi dei quartiere interessati dall’attraversamento del manufatto idraulico, come il Parco Pertini, il Parco di Trenno e il Parco delle Cave rappresentano luoghi faticosamente acquisiti dalla cittadinanza, sia negli usi che nella tutela, rispetto alla presenza fenomeni di degrado ambientale e sociale e pertanto divenuti importanti elementi di caratterizzazione identitaria.Molto consapevolmente e con argomentazioni ragionevoli, questi residenti si sono chiesti il senso di un così consistente utilizzo di risorse, non solo in termini economici ma anche in termini sociali e di affaticamento del sistema urbano, per il conseguimento di obiettivi così modesti, probabilmente raggiungibili con mezzi diversi e un corretto utilizzo dell’esistente, a partire proprio dalla rete irrigua.
La relazione che l’amministrazione comunale ed Expo hanno stabilito con i diversi Comitati NoCanal non è stata particolarmente efficace dal punto di vista dell’ascolto ed è passata per una prima fase di stigmatizzazione del dissenso per poi successivamente riconoscere, attraverso un confronto aspro, l’esistenza di criticità significative per la fattibilità dell’intervento.
Attualmente, il progetto è temporaneamente sospeso. Non è ancora chiaro se questa sospensione rappresenta il preludio ad un abbandono definitivo o se Expo si muoverà verso una radicale revisione dei tracciati, delle modalità realizzative e degli spazi da impegnare. Il sindaco Pisapia ha dichiarato di considerare la vicenda “una grande occasione perduta”. Probabilmente anche molti milanesi la definirebbero nello stesso modo ma magari da una visuale molto diversa.